Figini Ines

Ines Figini

Nata a: Como il: 15.07.1922

Intervista del: 21.07.2004 a Oswiecim (Polonia) realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n.192 – durata: 85′

Arresto : 6 marzo 1944 a Como.

Carcerazione : a Como in Questura e nella palestra Mariani, a Bergamo in una caserma militare.

Deportazione: Mauthausen, Auschwitz Birkenau, Ravensbrück

Liberazione : durante la marcia della morte.

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Sono Figini Ines, sono nata a Como il 15-7-1922, abito a Como.

D: Allora Ines, quando sei stata arrestata e dove?

R: Io sono stata arrestata il 6 marzo 1944, sono stata arrestata a Como, all’interno della mia fabbrica dove lavoravo. Quel mattino quando io entrai, notai subito qualcosa di non normale e, infatti, giravano dei manifestini nei quali si incitava tutti a non lavorare, cioè a scioperare per tanti motivi, fra i quali questi: ribellarsi contro i fascisti, ribellarsi perché avevano tesserato tutto e l’operaio non poteva vivere con quello che la tessera passava, e poi malgrado c’era il Federale di Como che diceva Insomma l’operaio può vivere con un pezzo di pane e una mela”, e queste cose non andavano bene, e poi anche per incominciare a creare dei disordini perché c’erano i tedeschi e naturalmente si cercava in tutti i modi di combattere questa loro presenza in Como.

Così quel mattino naturalmente non so chi ha chiamato la polizia fascista, venne il Questore con dei fascisti armati, girarono tutti i reparti, e poi quando la sirena fischiò, era mezzogiorno, tutti si riversarono nel cortile, ed eravamo in molti. Il Questore tolse dalla tasca una lista con dei nomi, questi nomi erano stati scritti da un capo reparto e dettati da un altro direttore, erano cinque uomini e due donne.

Il Questore, che si chiamava Pozzoli disse che questa era una cosa che non si doveva fare, e che senz’altro sarebbero stati inviati in Germania a lavorare, naturalmente non si sapeva che esistevano questi campi di lavoro. Quando disse: “Aprite i cancelli adesso potete andare”, trattenendo appunto questi uomini e queste due donne, io non so come, mi trovai davanti al Questore e difesi strenuamente questi miei compagni, dicendo loro che se tutti avevano scioperato era logico che il castigo fosse stato per tutti, pensavo una cosa impossibile fermare la produzione e arrestare tutta la gente.

Al che lui mi venne vicino e mi fece dire i motivi perché avevamo scioperato e se sapevo chi aveva organizzato tutto questo. Io non sapevo chi aveva organizzato, perché anche io il mattino quando sono entrata con altri, non si sapeva di tutto questo e così lui mi venne vicino e mi fece notare che nessuno degli altri operai veniva a darmi man forte, cioè la difesa praticamente è stata solo mia. Poi mi disse che se mi impegnavo e il pomeriggio il lavoro veniva ripreso i miei compagni li avrebbe lasciati liberi, non so forse l’incoscienza dei miei giovani anni, promisi che senz’altro avrebbero ripreso il lavoro basta che lasciava liberi i miei compagni, e così fu.

Furono aperti i cancelli, loro uscirono anche loro con tutti, e arrivai a casa. Non dissi niente ai miei genitori per paura che prendessero altri provvedimenti, capendo anche la gravità della situazione, io non ho capito veramente la gravità della situazione. Pomeriggio riprendemmo il lavoro come se niente fosse, però durante la notte vennero questi fascisti, la polizia fascista e arrestò anche me.

Entrò in camera, con i fucili spianati, io meravigliata, dato che per me la cosa era finita, non pensavo più, poi nel sonno pensavo: “Forse hanno rubato, forse io sono testimone”, non so, comunque dissi: “Va bene mi alzo”. Rassicurai mio padre che mi guardava allibito, e dissi “Vado, definisco la cosa e torno subito. Non ti preoccupare papà e mamma, torno subito” e così. Però non so chi mi ispirasse dissi “Scusate avete un mandato, avete un foglio, avete qualcuno che si prende le responsabilità, voi mi portate via così” e loro mi fecero vedere questo foglio firmato dal Prefetto, dover c’era scritto arrestare tutti e mandare al lavoro in Germania. Di questo foglio ho ancora una fotocopia, ma perché dopo tanto tempo fu pubblicato sul giornale e i miei lo tennero.

Così seppi più tardi che una persona molto fascista, che lavorava in Tintoria Comense, più tardi si chiamò TICOSA, ma era Tintoria Comense ed era una delle ditte più grandi non solo di Como ma forse anche d’Europa, perché si lavorava per conto terzi cioè entrava il greggio, veniva purgato, tinto, stampato e usciva la pezza completa, e mi dissero che questa persona andò dal Prefetto, ma più che il Prefetto il Questore, e disse che non era una cosa da lasciare perdere perché se no tutte le altre piccole ditte, Como era molto industriosa, avrebbero preso l’esempio e tutte le volte ci sarebbero stati questi scioperi, quindi la restrizione di prendere queste persone e cercare di portarle via.

Mi portarono in Questura, mi interrogarono, naturalmente non sapevo niente, poi io, Ada Borgomaniero e Celestina Tagliabue, fummo chiuse in una cella e i cinque uomini, poi diventarono quattro, non so l’altro che fine a fatto, comunque lì non c’era, anche loro furono chiusi lì. Poi il mattino dopo ci portarono in una palestra di Como, la palestra Mariani, dove già c’erano altre persone, non so se ricordo se erano tutte politiche o se c’erano anche ebree, insomma ce ne erano diverse, fummo lì per qualche giorno, poi un mattino molto, molto presto ci incamminammo verso la stazione con la polizia e ci portarono a Bergamo.

D: Ines in questo periodo, da quando sei stata arrestata a quando sei partita per Bergamo, hai potuto comunicare con la tua famiglia, dire che eri lì …

R: Sì, perché la palestra Mariani aveva un piccolo spiazzo fuori, una specie di giardino, un cortile e c’era una rete. Sotto questa strada parlai anche con mia sorella e poi venne il direttore generale che passò e disse se avevamo bisogno di qualche cosa, ma però non sapevamo, ignoravamo se da lì ci avrebbero lasciato liberi, oppure ci avrebbero trasportato in qualche altro posto, perché naturalmente si ignorava ogni cosa.

D: Tu avevi addosso quello che avevi quella notte che ti hanno arrestato e basta?

R: Certo, il cappotto, il vestito e le scarpe normali, non avevamo niente, comunque ci portarono a Bergamo in questa caserma militare, che mi pare fosse il 78 Fanteria, e di lì riuscimmo, non so come, a comunicare con la famiglia, per cercare di portarci della roba anche per il cambio, non sapevamo dove andavamo a finire. Però non fecero più in tempo a venire, non vidi più nessuno, solo che lì la Tagliabue Celestina, forse soffriva ai reni non so, aveva le caviglie veramente molto gonfie, venne un dottore italiano, cercò di aiutarci, mandò a chiamare un dottore tedesco e gli spiegò che questa ragazza non poteva farcela ed è stata fortunata, la rimandarono subito a casa.

Noi il giorno dopo incolonnati C’erano altre persone che nel frattempo erano arrivate in maniera da formare un certo convoglio, attraverso la città andammo alla stazione fra due ali di gente, mi ricordo davano del pane, davano dei biscotti, davano delle caramelle, una cosa addirittura questa gente, vedevo, forse avevano già assistito a dei trasporti, ma leggevo sui loro visi della compassione, qualche cosa di triste perché nessuno parlava, e così ci misero in questi vagoni.

Eravamo rimaste solo queste due donne, io e Ada Borgomaniero, e poi ci furono cinque donne, mi sembra di Lecco, che anche loro nel frattempo avevano scioperato, e così eravamo sette donne, siccome eravamo in poche noi viaggiammo con il Comando, però non era ancora la SS, era un Comando militare, quindi parlavano, erano abbastanza, e lì scoprii che un militare, un sergente, parlava molto bene l’italiano disse che era di stanza a Como, e mi fece un nome che io conoscevo benissimo, allora gli chiesi matita e carta se poteva spedirmi una lettera per i miei genitori.

Così scrissi di non preoccuparsi, che stavo bene, che andavamo in Germania a lavorare, che c’era anche Ada Borgomaniero, di avvisare i suoi che tutto procedeva bene, con l’entusiasmo e l’incoscienza della gioventù, non sapendo certamente che fine noi avremmo fatto. Noi credevamo di andare a lavorare in Germania un anno o due, quello che poteva essere la nostra condanna, e poi naturalmente venire a casa. Questa lettera fu realmente spedita da Como, i miei genitori la conservarono, ancora oggi io ce l’ho.

Poi proseguimmo fino al confine, al confine ci fu la SS, ci prese loro e qui finì la pacchia, perché qui viaggiavamo abbastanza serene. Poi arrivammo a Vienna in una prigione, salimmo queste scale, questi lunghi corridoi, ricordo il rumore caratteristico di questi cancelli che si chiudevano, e ci portarono in un enorme stanzone e lì ci diedero della zuppa, una cosa schifosa, e noi ci guardavamo come facciamo dobbiamo dormire, non avevamo niente, così sedute sul nudo pavimento e cercammo di dormire, il giorno dopo vennero dei camion, ci caricarono e ci portarono a Mauthausen.

Mauthausen è un campo prettamente maschile, diciamo così, poi forse ci saranno state delle branchie femminili, però noi ci chiusero tutte e sette in una cella, e di lì probabilmente si aspettava altri convogli che dovevano arrivare, per fare questo lungo treno famoso, che ormai si vede in tutti i film e in tutte le riviste, per arrivare a destinazione, che era Auschwitz. Devi farmi qualche altra domanda?

D: Quindi a Vienna più o meno quanto siete rimaste?

R: Una notte.

D: E a Mauthausen circa?

R: Io penso circa una settimana, cinque o sei giorni, adesso precisamente non è che abbia un ricordo molto forte, posso dire cinque, anziché quattro, anziché sei.

D: Ti ricordi se a Mauthausen sei stata immatricolata?

R: No, no.

D: Hai mantenuto i vestiti?

R: Sì, sì. Quando arrivammo ci spogliarono, ci fecero una doccia, poi ci rivestimmo, e ci portarono in questa cella.

D: E non vi siete mossi dalla cella per cinque o sei giorni?

R: No. Solo uscivamo lì fuori della cella. C’era una specie di lavandino circolare con dei rubinetti per lavarci un po’ così e basta. Poi dopo qualche giorno si aspettò questo convoglio e di lì la nostra meta era Auschwitz, arrivammo ad Auschwitz.

D: Più o meno che periodo potrebbe essere questo del trasporto da Mauthausen ad Auschwitz?

R: Penso verso la fine di marzo, venti, venticinque marzo, penso questo periodo.

D: Sempre del ’44?

R: Sempre del ’44 naturalmente, e quando arrivammo a Mauthausen cominciammo a capire che non era una fabbrica dove noi potevamo lavorare. Intanto scene apocalittiche, questo campo illuminato a giorno, gli urli e i comandi dei tedeschi, c’erano i dottori tedeschi, c’erano ufficiali tedeschi, c’erano Kapò, c’erano degli uomini con dei carrelli, che spingevano questi carrelli, e capii dopo purtroppo cosa era.

D: Questo è Mauthausen o Birkenau?

R: No, Birkenau, no Mauthausen partimmo e basta, non c’entra l’ho detto.

D: Che cosa ti ricordi del trasporto tra Mauthausen e Auschwitz, come avvenne?

R: Avvenne su questo convoglio, e noi eravamo non ammassati come gli ebrei tutti insieme così, ma c’era questo vagone, come i vecchi treni della terza classe, quasi a piccole cabine, chiuse dentro a chiave, quattro o cinque donne per volta, ed eravamo chiuse, eravamo smarrite, non potevamo neanche fare delle supposizioni “Ma dove finiremo? Ma cosa sarà” insomma domande senza risposte. Quindi un po’ si dormiva, un po’ si aveva paura, il soldato passava ogni tanto, è stata una cosa che non so, che non posso descrivere bene perché eravamo così in attesa di qualche cosa che definisse la nostra situazione, dove ci portavano, cosa sarebbe stato, cosa sarebbe avvenuto, tante domande che non avevano naturalmente nessuna risposta.

D: Vi hanno dato da mangiare in questo tragitto da Mauthausen ad Auschwitz?

R: Io non ricordo, prima di partire forse ci diedero del pane non so, non ricordo questo, non ricordo di aver …

D: Più o meno quanto è durato il viaggio lo ricordi?

R: No, non lo ricordo questo, perché si dormicchiava, non so, forse due giorni, questo non lo posso sinceramente dire, perché eravamo così fuori di noi, un po’ si piangeva, un po’ si dormicchiava, quindi il tempo per noi non era scandito da pensare che ora sarà, eravamo terrorizzate. Guardando fuori, vedendo tutta questa neve, io ricordo tanto questi candelotti di ghiaccio, questi pini, foreste immense, ho questi ricordi così, ma quasi sfumati nella mia memoria.

Non è che sia molto vivo questo viaggio, perché quando tu non sai cosa puoi fare, una ragazza di vent’anni, ventuno, eravamo su per giù quasi tutte giovani, mai viaggiato, mai avuto un’esperienza di viaggio, da sapere se eravamo in Austria, forse noi pensavamo Austria chissà dove era, Cecoslovacchia, un nome che a noi ci sembrava chi sa come, capisci è nebuloso quel periodo lì, sinceramente.

D: Però ti ricordi bene dove siete arrivate?

R: Certo. Naturalmente, io non sapevo ancora che si chiamava Oswiecim Birkenau, non sapevamo, quando vidi questo treno che entrava in questo posto, come dicevo, illuminato a giorno, con questi ordini, dicevamo “Ma dove siamo capitati? Ma chi sa?”

Poi il rumore dei vagoni che si aprivano, questi ordini così forti, tedeschi, duri, di scendere ed, infatti, noi giovani subito dai vagoni scendemmo, ma cera gente handicappata, gente anziana, bambini, gente che non poteva saltare addirittura, e quindi lì, questo l’ho in mente molto bene, salivano i militari, o a pedate o a buttare giù così anche i bambini, e scene che proprio che … “Ma dove siamo capitate? Forse è l’inferno? Ma cosa sarà?”.

Eravamo quasi gelati, non so se nella mente, che non si poteva neanche formulare dei pensieri dal terrore, il freddo intenso, perché puoi immaginare a fine marzo là c’era anche neve, immaginare una cosa così, questa gente che urlava, perché dividevano le famiglie, i bambini che piangevano e chiedevano della mamma, la moglie chiamava il marito, il figlio …, una cosa che forse anche avendo fantasia non si poteva immaginare una cosa così.

E di lì incominciammo a capire che non era naturalmente una fabbrica dove noi potevamo lavorare. Poi ci incamminarono e lì avvenne la selezione. Noi naturalmente eravamo tutte giovani e forti, meno male che non siamo morte, e ci misero da parte, poi c’erano questi ammalati, handicappati, ecc, ecc, da un’altra parte, questi più giovani, insomma divisero, e penso che divisero anche gli ebrei dai politici.

Poi ci portarono in questa capanna dove c’era non so se era una soldatessa, o un’ausiliaria, o una Kapò, e ci impressero il tatuaggio, il numero, io cercai subito di cancellarlo ma non era possibile. Intanto guardavo la velocità che avevano di scrivere questi numeri, sono tutti in puntini, una velocità tale che quasi non si riusciva neanche a vedere quello che scrivevano. Lì chiesi “Ma io non ho fatto niente, perché numerarmi? Perché?” Vedi, allora si pensava che il tatuaggio, non è come adesso che l’hanno tutti, ma un tempo erano solo gli ergastolani, i marinai, ecco, questo noi intendevamo il tatuaggio su questa gente, quindi quando mi misero il numero capii subito che ero prigioniera, cioè qui allora cambia, questa è la situazione.

Poi ci avviarono verso la sauna …

D: Ci dici il tuo numero prima?

R: Il mio numero è 76150, naturalmente progressivo, e poi ci portarono in questa sauna, chiamata sauna, ma allora non si sapeva, queste docce, ci spogliarono, ci portarono via tutte le cose. Tornando indietro un passo, questi carrelli che erano alla selezione, venivano riempiti tutti dalle valigie degli ebrei, dalle pellicce, perché loro avevano fatto credere agli ebrei che sarebbero andati in un ghetto, quindi di portare tutto quello che occorreva, quindi soldi, non soldi, oro, e hanno portato via tutto, dentro in queste cose, forse gli avranno detto “Poi ci raggiungerete e le cose verranno distribuite”, non so.

D: Tu avevi una valigia, tu e le tue amiche?

R: No, io non avevo niente perché non hanno fatto in tempo i miei a venire a Bergamo a portarmi …, io avevo solo un cappotto, le scarpe pesanti, una cosa normale quando tu vai al lavoro.

Poi lì così ci fecero questa doccia, ci portarono via, anche io avevo una catenina d’oro, un anellino d’oro, e mi ricordo li infilai nel dentifricio, aprii il dentifricio e infilai nel dentifricio, pensai “Mi lasceranno il sapone e il dentifricio” mi girai, lo misi giù sulla panchina, mi girai e non c’era più niente, naturalmente forse loro sapevano che si nascondeva l’oro anche …, e poi a tante facevano anche le visite intime per vedere se si nascondesse l’oro, quindi dalla bocca e da altre parti, è una cosa umiliante, perché addirittura …

Va bene, poi da lì ci diedero questi vestiti, che era un vestito di cotone molto grezzo, a righe grigie e blu, con già impresso il numero, e poi una giacchetta sopra. Per intimo avevamo una maglia mezza rotta, un paio di mutande lunghe fino al ginocchio, sempre di quel cotone lì grosso, ancora come forse nel ‘800, che si allacciavano in vita, dei calzettoni, uno corto uno lungo, questi zoccoli che erano tremendi, perché poi ci arrangiavamo a scambiarli tra di noi perché magari ne avevamo uno grande e uno piccola, un foulard da mettere in testa per il freddo, e basta.

Poi ci portarono in questo capannone che si chiamava, dicevano “Block, Block”. Ogni Block aveva il suo numero, e lì in queste cuccette, chiamiamole cuccette, restammo terrorizzate, si tremava dal freddo, dalla paura, ma proprio una cosa tremenda perché il tremare, tremi per il freddo è un tremito, ma il tremito interno è una cosa tremenda, pareva che il cuore tremasse, ed è vero che la paura prende anche le ginocchia, si sentiva le ginocchia proprio …, sono sensazioni che solo chi le ha provate penso le possa capire.

Poi ci dissero di non parlare, sempre la gran Kapò, ci disse di non parlare e di cercare un posto dove poter dormire. Ti puoi immaginare, non padroni della lingua, non si capiva niente, se parlavamo fra di noi anche queste che dormivano si svegliavano “Rue, silenzio!” una cosa … finalmente trovammo una cuccetta, diciamo così, questa è una descrizione tremenda perché una cuccetta io non so quanto sarà larga, sì e no 2 metri non era larga, c’era della paglia, poi sopra una coperta, ci diedero una coperta per uno e tutte e cinque bisognava dormire lì, quindi ci coricammo e cercammo di dormire.

Al mattino presto col fischio della sirena o col gong dipendeva, la Kapò passava urlando “Alzatevi! Alzatevi!” naturalmente in tedesco. Aveva uno staffile di cuoio in mano e se non si era abbastanza svelte da scendere da questo posto lei picchiava, non c’è niente da fare. Poi da lì noi le prime necessità, dove ci si lavava, dove era il gabinetto, là proprio dalla vita normale, non è fatta solamente …, bisogna pensare anche a tante cose, non sapevamo, nessuno ci dava ascolto, anche le prigioniere medesime, un’indifferenza!

Forse dopo ho capito perché non ti interessava più niente, non c’era nessuno che ti diceva “Guarda a lavarsi si va là, al gabinetto devi uscire e devi andare di là” e quindi come scimmie cercavamo di imitare, se andavano a destra andavamo anche noi a destra, se andavano a sinistra … e scoprimmo dove c’era un po’ di acqua per lavarsi, ma era una cosa inavvicinabile, perché il mattino il Block era molto grande, non so quanto non potesse contenere, ma molte donne, cinque per ogni cuccetta, era a due piani se non a tre, quando arrivavano i nuovi convogli anche dieci al posto di cinque, quindi non ho idea di quante, so che erano tantissime, quindi impossibile avvicinarsi perché a questi rubinetti c’erano addirittura gruppi.

Poi scoprimmo dove erano i gabinetti. I gabinetti erano una cosa addirittura terribile, mi ricordo quando entrai la puzza e quello che vedevo, il vomito, sono uscita disperata perché era una cosa impossibile, allora era un lungo capannone, all’altezza ci circa 60, 70 cm, ogni 60 cm, 70 circa, intercalando a scacchiera c’erano dei buchi enormi e su questi buchi appollaiate c’erano queste donne e potete immaginare che spettacolo, e lì soffrivano già di dissenteria, una cosa atroce, però la necessità è la necessità, e, “O mangiamoci questa minestra o salta la finestra”, cosa devo dire, mi feci coraggio e cominciai ad entrare.

Poi c’era l’appello, fuori da ogni capannone, da ogni Block, schierate a cinque a cinque, c’eravamo noi. Certo il freddo era intenso, fermi su questo posto, cercavamo una con l’altra di essere abbracciate, perché il freddo era freddo, però era il vento che era terribile, il vento penetrava, il vento è una cosa tremenda, perché per quanto tu cerchi di rannicchiarti, poi vestite così ti puoi immaginare. Dopo l’appello, non so se prima o dopo, ci distribuirono questa gavetta, che era una specie di ciotola di forma rotonda con un buco e della corda e bisognava tenerla legata in vita, poi il cucchiaio nelle asole del vestito.

Non possedevamo niente, né fazzoletti, né carta igienica, domandare “Ma come? E se arrivano le mestruazioni come faremo? Non abbiamo niente?” E poi capii, perché mestruazioni non ce ne erano assolutamente, dicevano che nella zuppa mettevano delle sostanze che, infatti subito il primo mese a me, a nessuno di noi vennero le mestruazioni. Però succedeva anche questo che non avendo questo sfogo, tanti si ammalavano negli intestini, nelle ovaie; a me fortunatamente mi venivano una specie di ascessi, di bubboni nelle gambe, dovevo andare al mattino a farmi tagliare, mi tagliavano e poi mi mandavano ancora al lavoro, grazie a Dio non ho mai preso un’infezione.

Comunque finito di fare questo appello, sempre a cinque a cinque, in colonna e ogni quindici ragazze, c’era un soldato, naturalmente armato, con il cane. Quando si usciva dal cancello, sul lato destro c’era un’orchestra di ebrei, che suonavano delle marce per tenere il passo, perché distanziando bene era più facile anche la conta, quando tutto è ordine, quando tutto è così.

C’erano queste vecchie babe russe o polacche, non lo so, insomma gente vecchia che trascinavano i piedi, non potevano avere il passo come lo avevamo noi, e lì il soldato secondo come pensava o come agiva, arrivava e calcio del fucile sulle spalle o sulla testa, gli arrivava via, queste donne andavano avanti a fare il loro passo perché non potevano fare altro, fino a che arrivavamo sul posto di lavoro, so che camminavamo abbastanza, forse era lontano qualche kilometro, ed era una zona paludosa, che noi prigionieri prosciugammo.

Quindi ci diedero pala e piccone, ci fecero vedere dove c’erano questi canali da picconare, da scavare, e questo lavoro era molto duro perché la terra era argillosa, molto dura infatti, e picconare e poi con il badile buttare fuori da una parte, poi più tardi venivano messi dei tubi di questi rossi, adesso mi sfugge la parola, insomma dei tubi dove poi l’acqua veniva incanalata e la palude veniva prosciugata.

Quando poi era tutto coperto questo terreno veniva arato, e c’erano i cavalli, i buoi, non so, però anche noi ragazze con delle corde, in otto, dieci ragazze, si tirava questo enorme aratro, e di lì veniva poi seminato grano e orzo, e cresceva magnificamente bene, primo perché terra vergine e poi veniva ingrassato con la cenere degli ebrei, più di una volta si arrivava e buttava sul terreno, anche perché tanta cenere degli ebrei veniva buttata … come si chiama questo fiume?

D: Vistola.

R: La Vistola e anche quell’altro che c’è …

D: La Sola.

R: La Sola. Quindi pensate voi, i pesci si nutrivano di tante cose, il pesce veniva pescato, guardate il giro che si faceva, e l’uomo lo mangiava. Va bene. Comunque poi si lavorava fino circa alla una, poi arrivavano questi bidoni, chiamati ghible, piene di zuppa. La zuppa era acqua e cavoli bolliti, o acqua e rape; il soldato distribuiva nella nostra gavetta, si mangiava, poi non c’era acqua per risciacquarla, si prendeva l’erba che rigava bene tutto il grasso lì della ciotola, e si riprendeva il lavoro fino alle quattro, quattro e mezza, perché poi non possedevamo niente, non sapevamo mai che ora poteva essere.

Poi si ritornava al campo, un’altra ora di appello, poi ci distribuivano un pane in cinque, questo pane tipo pan carré scuro, una fetta per ciascuno e un quadratino di margarina, so che tante volte credo che all’ultimo boccone io dormivo di già.

E poi via la solita vita. Il mattino alzarsi, quindi diventava una routine, un robot, tutti i giorni che si andava avanti dentro di noi si perdeva qualche cosa, la nostra personalità, il nostro modo di vedere, il nostro modo di pensare, basta non esisteva, questa vita così e pensavo “Ma un giorno finirà questa vita! Un giorno arriverà qualcuno a liberarci!” e anche qualche parola che si faceva tra di noi pensavamo “Ma nessuno saprà che siamo qui? Ma nessuno si interessa di venire a vedere?” Insomma era una cosa … e a poco a poco si diventava anche indifferenti, perché dovete pensare che si perdevano tante cose, vivevamo come in trance, non lo so, in aspettativa che potesse sempre capitare qualche cosa.

Naturalmente la speranza non era mai morta, e tanti pensavano “Io non ce la faccio tutti i giorni! Io non ce la faccio!” e quante volte qualcuno andava a toccare i fili e rimaneva morto, invece per me l’idea fissa era “Un giorno voglio camminare su questo campo libero, un giorno voglio venire qua” cioè dentro di me sebbene quasi morta come idee e come pensieri, però sentivo che io tornavo, che ritornavo alla mia casa e alla mia Patria, non c’è niente da fare, viene come una fissazione, capisci.

E dopo di lì cosa vuoi, si sentiva che la guerra era ormai vicina, i russi erano vicini, perché ogni tanto si sentiva parlare, e poi i tedeschi diventavano sempre più cattivi, forse quando perdevano qualche cosa si vedeva che erano nervosi, fino a che arrivò, forse era novembre, dicembre, non mi ricordo bene perché sono passati tanti anni, mi mandarono a Ravensbrück, mentre la Ada Borgomaniero che era sempre dentro questo ospedale, non so se era stata operata di appendicite o di qualche altra cosa, rimase al Revier.

Così arrivai a Ravensbrück. A Ravensbrück ci mandarono a lavorare negli stabilimenti della Siemens, e qui lavoravamo per cose belliche, facevamo una settimana dodici ore di notte, e una settimana dodici ore di giorno, rotolavamo su dei rulli, su dei piccoli rulli, del filo di rame, che serviva naturalmente a loro.

Poi man mano che i russi si avvicinavano, quindi a gennaio, febbraio, hanno incominciato a mandarci in diversi altri campi vicino, camminavamo e ci portavano lì, poi man mano che si avvicinavano, io non so neanche i nomi perché come si faceva a sapere i nomi dei campi di concentramento, Auschwitz perché dopo là si parlava e sono stata tanto tempo, Ravensbrück idem con patate …

D: Posso chiederti una cosa?

R: Dimmi.

D: Il trasporto da Birkenau a Ravensbrück, hai un ricordo non so, vi hanno chiamato per un appello, vi hanno messo in un …, eravate in tante?

R: Sì, eravamo in tanti, ci fecero partire su dei vagoni, con il treno partimmo, però adesso io …

D: Ti ricordi se siete partiti da Birkenau o se vi hanno portato fuori?

R: Sì, sì, da Birkenau, però non ti so dire quanto tempo ho messo, perché come dico sai il tempo per noi era zero.

D: Eravate in tante?

R: Sì, sì eravamo in diverse.

D: Di varie nazionalità?

R: Io penso, sì.

D: Scusa un attimo Ines, nel periodo che tu sei rimasta a Birkenau, mentre invece la Ada era stata ricoverata al Revier, tu riuscivi sfidando la sorte …

R: Certo ad andarla a trovare naturalmente.

D: E a portarle anche delle cose?

R: E sì, perché gli ebrei lavoravano al Canadà, questo posto chiamato Canadà dove avveniva la cernita dei vestiti, e loro naturalmente qualche cosa contrabbandavano, e allora naturalmente da buon ebreo rivendevano con il pane. Quindi se io prendevo una camicia da notte per la Ada, perché là all’ospedale non passavano queste cose, dovevo magari per due sere non mangiare la mia porzione di pane, loro non lo dicono ma questo è anche vero.

Quindi io quel giorno lì io dovevo stare senza la zuppa del mezzogiorno perché arrivavo a trovare la Ada, la Ada era sempre stata fortunata che era sola nella cuccetta, perché la Ada è sempre stata fortunata, mi spogliavo andavo sotto con lei perché se magari qualcuno passava, ma poi quando arrivava la zuppa dovevo andare a nascondermi, prima quando arrivavano i dottori o c’era il giro di ispezione, io scappavo e andavo ai gabinetti, andavo a nascondermi, poi dovevo stare attenta quando rientrava la mia squadra per l’appello, perché se mancavo all’appello addirittura suonava l’allarme, quindi bisognava essere anche svelta.

Ma dopo quando vivi in queste comunità impari tante cose, impari a nasconderti, impari a capire questo, solo anche dalle espressioni dei militari e delle Kapò, eravamo abituate anche se non eravamo padroni di una lingua a carpire quello che volevano. Io li guardavo sempre in faccia, non avevo paura; li guardavo sempre in faccia per capire dalla loro espressione con una parola cosa volevano dire, tanto erano sempre quei comandi, “Lavora”, “Fai questo”, “Fai quello”, non è che dovevo fare conversazione. Quindi la Ada rimase sempre lì, lei è stata liberata il 27 gennaio, c’è la documentazione che lei è stata liberata. Dimmi?

D: Se tu ricordi il blocco del Reviere dove stava la Ada non era vicino al tuo blocco?

R: No, non era vicino, però non dirmi la strada che facevo perché guarda volavo, guardando sempre in giro a destra e a sinistra, e poi arrivando là, il terrore perché chi moriva durante la notte, nudi li buttavano fuori, quindi guarda non so quanto tempo sono stata, forse anche adesso, non sono più andata a vedere un morto nella mia vita, perché nudi, voi avete visto le fotografie, stare attenta a dove mettevi i piedi per infilarti dentro nella cosa, adesso mi dispiace che Ada sia morta, ma Ada può testimoniare tutto questo che facevo.

D: Quindi tu rischiavi dopo il tuo appello per andare a trovare la Ada…

R: Rischiavo le punizioni, e le punizioni erano tremende.

D: Tu una volta sei stata punita?

R: No, no, mi hanno dato uno schiaffo appena, perché non capivo bene a muovere il timone di un carro, però non mi hanno mai picchiato per esempio con il calcio del fucile o così.

Anzi una volta che mi sono ribellata perché non padrona della lingua e, le russe e le polacche erano tremende, al ritorno ci facevano sempre portare, al nostro gruppo sparuto italiano, queste ghible che pesavano, perché dovete sapere che c’era la roba calda dentro, e quindi per mantenere il calore erano molto …

Pesavano e dovevamo fare qualche kilometro, sempre una maniglia di qua e una maniglia di là, arrivavamo dopo aver lavorato, perché in coscienza lavoravo, dopo aver lavorato portare queste cose, un giorno ho detto appunto a queste ragazze italiane, il nostro gruppetto, “Adesso vado e glielo dico al soldato che non è giusto perché io lavoro come tutte e allora deve cominciare a …” “Ma Ines non farlo, non farlo, vedrai …” “Ma io vado” e sono andata.

Forse era anche ubriaco, era appoggiato ad un bastone, ricordo sempre i due occhi azzurri così cattivi, un naso aquilino, magro, ce l’ho in mente come chi sa che cosa, non so se era tedesco o polacco, questo non lo so, e sono andata e come potevo, nella lingua che potevo, un po’ polacco, un po’ tedesco “Che io lavoravo uguale, tutti uguali”, e che “non è giusto sempre ghible sempre italiane, questo non è giusto” lui mi guardò non so per quanto tempo, poi mi prese un braccio e mi fece fare un giro e mi dice “Tu menc italiana” “Sì sono italiana” ma intanto mi venivano giù le lacrime, mi sono girata e dice “Adesso vai tu” e lì parolacce, perché le più belle parole tedesche hanno un linguaggio così sporco ad insultare che non ti dico, le prime cose che imparavi, “Vai a prenderle te adesso, te e le tue amiche”, e gli ho detto “Ma vai all’inferno” e sono andata.

Al mattino quando veniva a distribuire il lavoro girava avanti e indietro “Oddio… mi cerca, Oddio adesso chi sa?” arrivava di lì e giravo di là, arrivava di là e giravo di qui, ma finalmente mi ha pescato, quando mi ha pescato l’ho guardato in faccia per capire l’espressione e ho visto che gli occhi non erano cattivi e ho detto “Ma chi sa cosa ha” e lui ha mormorato qualche cosa che non ho capito però ho detto alla mia amica che parlava tedesco “Cosa ha detto?” “Ha detto chi sa cosa penserai che ti prende il numero” perché mi tira indietro e mi prende il numero.

“Cosa vuoi che pensi, stasera dopo l’appello mi chiameranno al comando e avrò la punizione”, e infatti quando è finito l’appello mi chiamano e “Oh mamma mia”, mi accompagnano al comando, “Adesso chi sa”, sono andata che forse il cuore l’avevo in bocca, e invece sai cosa mi hanno dato? Un pane intero e un carnusco così di marmellata, quasi svengo, ho preso e via di corsa “Ragazze! Ragazze!” tutte a fare fettine e a mangiare marmellata.

Poi quando c’era questo che vedeva che io lavoravo, mi faceva il buono per andare a ritirare il pane e la marmellata. Sì, ma perché, perché ha capito che siccome là c’erano queste straniere, generalmente erano russe e polacche, facevano finta di lavorare, anche per ribellarsi, ma non lavoravano, e loro non erano scemi, capivano quando …

Invece io dicevo ad ogni picconata “Crepa!”, ma picconavo e cosavo, non mi sono mai … perché mi sono detta, è stupido, perché se io faccio finta di lavorare, loro non sono stupidi, e se vengono e mi picchiano anche solo con il calcio del fucile sulla testa, non so … io ero una delle poche che avevo ancora i capelli, non so cosa mi può capitare, mi può venire anche una commozione cerebrale con quei colpi lì, quindi ho detto è meglio che lavori bella tranquilla piuttosto che farmi così.

D: Scusa Ines, oltre al comando lì di scavo, tu accennavi ad un altro comando che era quello lì del …

R: Appena arrivata. Appena arrivata ci avevano messo a ritirare quello che erano le fosse, come si chiamano …

D: Il pozzo nero.

R: Lo scarico delle latrine, il pozzo nero, e bisognava scaricare questi. Erano gli uomini che buttavano via tutte le porcherie, ed erano quei carri che ogni tanto si vedono ancora in Polonia. Io era la prima volta che vedevo carri così, ed hanno un lungo timone davanti, il carro non è come il nostro che è piano, è piano ma ai lati vengono su delle assi fatte così, e di lì ti puoi immaginare, allora dietro le ragazze spingevano e noi davanti a tirare come i cavalli questo timone.

Siccome il terreno era molto argilloso le ruote potevano affondare, ecco dove mi ha dato questo schiaffo, l’unico che mi ha dato, io non sapevo che muovendo questo tremendo lungo timone le ruote specialmente dietro o davanti non ricordo, svirgolavano un po’ quindi le altre spingevano, ma quelle là facevano finta di spingere e il carro non andava avanti. La tedesca era una soldatessa è venuta “Sprechin in doich” chi la capiva si è messa ad urlare con me e io ho lasciato andare il timone per guardare cosa diceva e lei mi ha dato uno schiaffo, sai proprio sono rimasta a bocca aperta, perché lì sentivo la voglia di ribellarmi, ma come facevo, mi ammazzava quella. L’unica volta che ho preso uno schiaffo lì, lo schiaffo è lo schiaffo, ma prendi il calcio del fucile sulla testa o sulle spalle, ti segnavano. Va bene, questo è un intercalare ancora …

D: A Ravensbrück?

R: A Ravensbrück.

D: E ti hanno immatricolata di nuovo?

R: Sì, però non mi hanno tatuato, mi hanno solo cucito sul vestito, il numero che era, mi pare, 11154. Così andammo a lavorare in questa fabbrica della Siemens, poi si tornava naturalmente stanche, si dormiva, lì ogni tanto suonava l’allarme, ci mandavano fuori tutti, ci mettevano in un’altra capanna non so, ma io una volta e due, ma quando era la notte, io di giorno avevo talmente sonno, dormivo in alto il soldato non si accorgeva neanche. Entrava, vedeva che erano tutti fuori, dicevo “Tanto se è destino crepo là e crepo qui”, dopo da Ravensbrück man mano in questi campi dove si andava un giorno o due, poi si avvicinavano sempre …

L’ultimo Lager ci diedero una coperta, che arrotolavo intorno alla vita, del pane, delle scatole di carne, e sempre a cinque a cinque, sempre con il militare e i cani dietro, ci avviavamo chi sa per dove, chi sa dove, camminavamo, camminavamo, solo che c’era in ultimo il militare che se una non c’e la faceva più e cadeva per terra, le sparava e la piantava lì.

Però da lì incominciavamo a vedere la disfatta dell’esercito, loro che erano così baldanzosi, le giacche slacciate, camminavano uno di qui uno di là, carri armati abbandonati, camion mezzi su mezzi giù, proprio vedevi la disfatta, e noi eravamo contenti e dicevamo “E allora la guerra finisce presto, guarda che roba hanno perso ormai”. Eravamo su di morale.

Poi arrivammo in questo posto, mi pare che si chiamasse Poznam, Oddio adesso, mi pare Poznam, era il 5 maggio e quella notte lì, durante la marcia ci fermavamo nelle fattorie dove c’erano i contadini e gli stessi militari dicevano “Dateci le patate o qualche cosa da mangiare, perché guardate che se arrivano i russi vi portano via tutto”, allora ci davano le patate, le facevamo bollire nei secchi e dormivamo nel bosco con questa coperta, avvolte in questa coperta.

Poi arrivammo in questo posto e la sera tardi mi sono svegliata e non c’era più nessuno, non c’erano più né militari, non c’erano più né cani, non c’era più nessuno, un silenzio di tomba, allora ho svegliato i miei amici, perché era come un fienile ma basso “Ma guarda non c’è più nessuno, Oddio non c’è più nessuno, che gioia sono scappati, allora vuol dire che sono vicini” perché se non c’erano vuol dire che i russi erano vicini, e in tanto sentivamo il rombo del cannone e la mia amica “Andiamo fuori” “Ah no, chi vuole andare fuori, vada fuori, io sto qui, non vado fuori, mi arriva qualche scheggia”, e infatti così abbiamo fatto fino al mattino.

Al mattino verso le 5, mi sono svegliata, io ero una delle più giovani, ma oramai ero diventata la più … non la più svelta, avevo preso più l’acume di …, a furia di stare con queste persone che bisognava capire quello che …, apro gli occhi e vedo in fondo al portone una cosa tremenda, un soldato russo, dunque io non ne avevo mai visti, però ho capito che era russo perché aveva questo pastrano, di quel colore coloniale un po’ imbottito, e veniva avanti a tentoni.

Allora la sera prima, dopo che era successo che eravamo soli e pareva che i russi non si sentivano più, io e le mie amiche siamo uscite in questo posto per guardare intorno cosa c’era, e abbiamo trovato dei militari, così ci hanno detto, dei militari italiani, allora quando ho sentito parlare italiano “Ma voi siete italiani?” “Sì” “Noi dovevamo firmare alla Wermacht per tornare in Italia”, sai che facevano firmare per tornare in Italia “Però non siamo riusciti e siamo qui”.

Quasi piangevano “Ma le nostre donne come sono conciate” quindi puoi immaginare, sporche, dimagrite, conciate in una maniera, poi ci hanno fatto piangere perché uno ha levato dal portafoglio un fazzoletto di seta, come c’era una volta, tricolore “Ecco però la bandiera l’abbiamo sempre qui …” e ci diedero dei viveri, e poi ci diedero un secchio con dentro questa vodka che hanno trovato dai contadini.

Così siamo tornate lì la notte, ero io che controllavo cosa dovevano mangiare, da bere niente perché mi rimbambiscono tutte, la grappa la conoscevo, allora ho preso una bottiglia, ho buttato via quasi tutto, però c’era una bottiglia l’ho riempita, ho detto questa qui quando saremo giù la berremo, invece quando ho visto questo soldato che avanzava, ho preso la bottiglia e gli sono corsa incontro, da sola perché gli altri dormivano tutti, e intanto gridavo “Sono arrivati i russi! Sono arrivati i liberatori!”.

Questo ragazzo ha capito che ero italiana e mi dice “Italijanska” “Sì” E’ venuto con me e si è fermato nel posto dove eravamo noi cinque o sei italiane e ha detto di cantare “Mamma”. Mamma mia che commozione ancora, si cantava ma lui piangeva e noi piangevamo, e dopo questo ragazzo io gli ho dato da bere e lui dice “Bevi prima tu”, vedi avevano sempre un po’ di paura e difatti ho bevuto e dopo è andato a trovare le russe che erano diverse perché era tutta la colonna.

Poi ci diede tutte le notizie, era il 5 maggio, che la guerra era finita, che Mussolini era kaput, che c’erano in ballo queste bombe tremende, non era forse ancora la bomba atomica ma che anche con il Giappone doveva essere finita, tante cose e poi ci disse di andare al Comando che ci avrebbero dato disposizioni per tornare a casa, ti puoi immaginare, filammo subito al Comando e lì c’erano degli ufficiali e ci dissero che bisognava raggiungere una postazione di militari italiani, che era abbastanza lontana, circa 100 km, adesso non ricordo più bene il posto.

Come fare, perché erano quasi tutte maggiori di me, erano due slave del Montenegro, no non Montenegro, una delle parti di Magenta, ma non era questa piccola, era questa Ernestina, poi …, insomma quattro o cinque. “Come si fa? Non si può fare a piedi 100 km e poi la direzione!” Era tutto sporco, tutto fuori, tutto bombardato, allora eravamo riunite in questo campo di prigioniere, ma libere naturalmente e dice “Vai Ines in cerca di qualche cosa” e mi sono messa un po’ a girare il paese.

Ho visto che arrivava un carro tirato da due cavalli grossi così, sembravano quelli del Far West, coperto da un enorme tappeto, forse rubato da qualche chiesa, e c’erano dei francesi, loro erano arrivati e io gli ho detto se potevo prendere il carro, e loro mi hanno detto “Prendilo che noi siamo arrivati” e ci può servire. Mai visto un carro così tiro a due, ne ho preso uno per la cavezza, povere bestie mi venivano dietro come non so cosa e li ho portati all’accampamento.

“Oh mio Dio Ines Hai trovato” “Sì ma chi li guida perché non è mica facile guidare, adesso vado a cercare qualche militare”, a tutti quei militari che trovavo dicevo “Tu sei contadino? Conosci i cavalli?” uno sì, uno no, fino a che ne ho trovato due, bisognava organizzare non è facile guidare un carro con due cavalli, e poi il foraggio, bisognava sapere …, non so chi mi dava queste cose che non ho mai saputo …

Allora ho trovato questi due ragazzi e ho detto “Va bene”, andiamo al Comando ci facciamo dare quello che è la provvista per mangiare anche noi e poi bisogna andare a cercare per il foraggio per i cavalli. E infatti lo hanno trovato, lo hanno caricato e noi con il secchio, che erano le nostre pentole da far bollire, loro ci hanno dato del pane, delle cose così, dove arrivavamo … guarda come ho assaporato la libertà in quei momenti lì, il mio sogno che amavo i cavalli, amavo le bestie, dentro in queste foreste, ogni tanto trovavi qualche casupola, erano scappati, trovavi anche qualche cosa da mangiare, fermarsi fare il fuoco, in questo secchio magari facevi bollire qualche cosa, e dicevi, Oddio mio, i miei saranno magari a casa a pensare che fine ho fatto e io sono qui felice che assaporo finalmente la libertà.

Bene a farla corta siamo arrivate a questo accampamento militare e gli ufficiali dicono “Bene questo è il posto che dovevate raggiungere, scegliete un posto dove dormire”, allora c’era come una tettoia e c’era sotto un carro degli zingari, allora non sapevo neanche cosa era la roulotte, ma adesso penso che era come la nostra roulotte, abbiamo preso della paglia l’abbiamo messa giù, poi il tappeto del carro lo abbiamo messo sopra, le coperte ce le hanno date, e lì era la nostra casa e stavamo benone.

Poi con questi cavalli, i soldati uno lo hanno ammazzato subito e abbiamo fatto bollire tutta la carne e abbiamo mangiato in non so quanti, e quell’altro mi dispiaceva, lo tenevo, allora c’era un ufficiale che diceva “Per andare a cavallo, “Sì, mi piace”. Aveva delle cosce così, senza sella, quando camminava andavo giù di qui andavo giù di là, ma insomma ero così felice che non ti dico.

Poi un ufficiale ha detto “Ines ci sono qui vicino i cosacchi, hanno dei cavalli bellissimi, magari se gli diamo questi cavalli che anche loro hanno fame, facciamo il cambio” “Andiamo”, ci siamo tirati dietro questo cavallo e andiamo a contrattare con questi ufficiali. Loro l’hanno preso perché la carne di cavallo era bella grossa ed era buona, e ci hanno dato un cavallo che io credo che l’hanno scaricato perché era alto così, nero, terribile.

Allora senza sella, c’erano gli ufficiali che erano bravi a cavalcare e volevo andare a cavallo anche io. Quando andava giù, non andava mai, ma quando doveva tornare dovevi vedere, una volta una pianta mi ha dato un colpo che mi sono ribaltata indietro, un’altra volta c’era un rigagnolo un po’ grande, mi dicono perché dietro c’era sempre qualcuno “Stringi le ginocchia Ines, alza il sedere, buttati in avanti” ma il cavallo è arrivato lì si è impuntato e sono finita in acqua, non mi sono mai fatta niente. Ero così contenta perché assaporavo veramente il senso fisico della libertà, fisico è un’altra cosa.

Poi lì alla sera chi aveva trovato il piano, chi aveva trovato la tromba, chi aveva trovato la chitarra, c’era sempre musica e baldoria. Purtroppo però è scoppiato il tifo, tifo perché i russi prendevano tutti gli armenti, le bestie, le pecore, le mucche per portarle verso di loro naturalmente, ma la mucca se non hai una mungitura regolare diventa cattiva, avevano le mammelle così grosse e allora avevano detto “Se volete mungetele”, ma prendi una mucca quando è così, è terribile.

Io non so che coraggio avevo, prima mi attaccavo alla coda, e non sapevo che saltassero le mucche, le staccionate così e come corrono, prima per fermarle mi attaccavo alla coda e niente da fare, dopo alle corna, prendevo le corna ma si fregava sul terreno, un giorno una mi ha dato un colpo e sono andata a finire su un’altra che era sdraiata, a gambe all’aria, va bene lasciamo …, se racconto ero così contenta.

Poi un contadino mi ha detto “Ines per fermarla devi mettere le dita nelle sue froge e stringi” allora io correvo e cercavo di fermarla e la mia amica dietro con il secchio, e sono riuscita a fermarla mettendole le dita sotto al naso, l’ho fermata e quella si è messa a mungere, quando è stato ben pieno la mucca ha alzato il piede e si è infilato dentro nel secchio e io le ho detto “Io lo bevo ugualmente”. Insomma ti dico non lo so, è stato destino, è stato che lì il tifo si è propagato, io ho preso un tifo bestiale.

Chiamo un dottore italiano e mi dice “È una forma intestinale, ti faccio una puntura”, mamma mia la febbre altissima; tre giorni dopo arriva una delegazione russa di dottori e cominciano a girare il campo, vengono vicino a me e dicono “Tu cosa hai?” “Niente” ho nascosto la cartella “No, non ho niente, tutto bene” “No, no” dice il dottore “Fammi vedere la lingua”, perché la lingua ti viene gonfia, insomma mi è toccato e loro hanno capito, solo la febbre che avevo, figurati.

Non hanno fatto storie, hanno chiamato due militari russi o due infermieri, adesso non so, le cocche del lenzuolo e mi hanno preso su come un fagotto e mi hanno messo su sul camion, urlavo come una dannata, adesso che dovevo andare a casa questi mi portano via ancora, sai non era tanto piacevole. “Voglio il mio dottore italiano” quello là non si è più fatto vedere perché sapeva che … e mi hanno portato a circa 3 o 4 km penso, perché con il camion sono andata un bel pezzetto in un lazzaretto militare loro.

C’era la guardia fuori, la sentinella perché nessuno poteva entrare perché era proprio un reparto di malattie infettive, mi hanno portato lì, una dottoressa mi ha visitato, un’altra davanti allo specchio mi ha tagliato tutti i capelli a zero, che urlavo “Non tutti, non tutti” ma non c’è stato niente da fare. Poi alla dottoressa dico “In fine dei conti cosa ho dottore?” “Tifus” “Non è vero, non è possibile che abbia il tifo” insomma una scena.

Però mi hanno messo in una camera dove c’erano questi letti con le lenzuola bianche, ragazzi quando sono entrata in questo letto con le lenzuola una sensazione, qualche cosa di stupendo, mi sono addormentata di colpo, non capivo più niente, mai stata in un ospedale, mai stata da un dottore, mai avuto niente, puoi immaginare. Hanno incominciato con le analisi del sangue, le analisi delle urine, non sapevo come si faceva, che disastro.

Insomma quattro mesi sono stata fino ai primi di ottobre e mi curava un maggiore militare russo, di una gentilezza e di una bontà che non so, e c’erano le russe che parlavano di casa, e io capivo qualche cosa, però ero con la febbre alta non penso di avere avuto il delirio, però ero sempre assopita, alle volte al mattino mi svegliavo e dicevo “Forse sono già morta, perché sento odore di morte” proprio le braccia, mi odoravo le mani e dicevo “Forse sono morta”, poi riprendevo e poi tornavo a dormire e venivano le infermiere. Poi avevo gli incubi, questi li ricordo, vedevo la morte, sai la morte classica: il cranio, il mantello, la falce, cose che addirittura…

Quando incominciavo a riprendermi un po’ dissi: “Dottore non è possibile avere qualche italiana vicino” infatti me ne mise una, mi pare fosse di Torino, tutta notte a gridare “Dottore, dottore” e io “Fai la brava!” era sorda, le aveva preso le orecchie e non sentiva e morì. La mattina mi sveglio, “Ma, si vede che c’è qualche mosca” era coperta, e dico all’infermiera “Ma perché hai coperto?” e dice “Ma Ines è morta” “Oh Madonna santa, ho dormito vicino ad una morta”.

Dopo due o tre giorni me ne hanno messo un’altra, lei tutta notte una pena a chiamare la mamma, e muore anche quella lì e dico “Oddio la terza adesso sono io”, sai anche quello un po’ di superstizione ti veniva, veniva il dottore e dicevo “Ahi dottore, non ce la faccio più, ho idea che devo morire!” “No, toio serza dobra, il tuo cuore è buono, fai la brava; riuscirai ad andare in Italia”.

Lì ho chiesto matita e carta e scrivevo alla mamma, non perché non arrivassero, facevo su il pacchetto e dicevo alla russa vicino “Se io muoio, dalle ad un soldato italiano queste lettere”, poi vengono i primi di ottobre e questo mio amico di Lucca, che avevo conosciuto lì quando mi avevano liberato, è riuscito a farmi avere dentro una lettera, ha messo una croce rossa qua sul braccio e la sentinella lo ha lasciato passare, però arrivato sullo scalone gli infermieri hanno capito che era un italiano e lo hanno fermato.

Allora lui, ero l’unica italiana lì, gli ha dato questa lettera da consegnarmi. Lì mi spiegava che era passata una delegazione americana e aveva visto ancora le bandiere italiane, ma come ottobre ’45, fine settembre o principio ottobre ’45 e ci sono ancora gli italiani, bisogna organizzare, mandarli a casa, e pare che in una settimana dovevano organizzare questo viaggio. Ti puoi immaginare quando leggo così che avevo ancora la febbre, la flebite alla gamba.

Allora viene il dottore e glielo dico “Dottore guardi, io devo andare a casa, bisogna che lei mi lasci andare, i miei amici partono, come faccio” lui dice “Non c’è problema, tu stai qua con noi” “No, io non sto qua con voi, voglio andare a casa” “Ma non puoi, bisogna fare quarantena”, sai allora c’erano i quaranta giorni per le malattie infettive e “Poi tu hai una flebite” e mi spiega “Lì c’è un embolo, se ti si sposta e ti va al cuore muori oppure rimani paralizzata” “No io sono sicura che arrivo a casa” forse mi ha visto così disperata, che piangevo e urlavo “Garda che se stai otto giorni senza febbre” forse non ci credeva neanche lui “ti porto io alla stazione”, e lì mi ha quietato.

Non so se qualcuno da lassù ha guardato giù, o se le preghiere sono state accolte, non lo so, il mattino dopo, che di solito avevo 35 e poi la sera arrivavo fino a 41, il cuore era tutto così, altro che averlo buono, e verso sera, prima di darlo all’infermiera guardavo io, non avevo febbre “Oh mamma mia che gioia, sta zitta, sta zitta, forse anche domani” , il giorno dopo ancora senza febbre, il terzo giorno tento di alzarmi, faccio per alzarmi se non sono svelta ad attaccarmi lunga e distesa cado, non stavo in piedi, poi sempre con la gamba così e ho detto “Va bene, tanto sul vagone starò seduta, non ha importanza”.

Arriva il dottore tutte le sere e dicevo “Dottore, non ho febbre” “Bene, brava italiana, giorno italijanska” mi chiamava ancora italiana “Fai la brava”. È arrivato il giorno che dovevo partire. Ma lo sai che mi ha portato lui su un carro di buoi alla stazione? Tante volte dico che mi pareva di essere su una Rolls Royce, perché seduta così vicino a lui, che fremevo di arrivare, perché sapevo che arrivavo a casa, me lo sentivo, quando sono arrivata, sempre questi vagoni a convoglio con quaranta o cinquanta militari, mi caricano su e cosa faccio e mi danno un pane nero e delle scatolette, come faccio, io non posso mangiare questa roba, quindi sono stata un po’ di giorni ad acqua e qualche cosa, ho sbriciolato un po’ il pane.

In cantuccio al buio, perché quando viaggiavi non è che il treno partiva e arrivava, il treno si fermava magari anche un giorno, e li incominciavano anche le tue necessità, dovevi dire “Oh ragazzi tiratemi giù”, prima piangevo un po’ perché dicevo Dio mio quando penso che saltavo giù altro che dei vagoni e adesso devo chiedere l’aiuto, loro mi mettevano a seggiolino così con le braccia, mi portavano in fondo in mezzo al prato e stavo là. Io andavo a fare quello dovevo fare, poi dopo li chiamavo e stavo dentro lì così fino a che dopo ripartivamo. Un giorno siamo arrivati in Austria. In Austria c’erano gli americani e allora hanno incominciato a darmi un po’ di latte, un po’ di pane bianco, disinfezione ancora a tutto, e dopo di lì naturalmente a Bolzano è stato diretto.

Quando siamo arrivati a Bolzano c’era anche il treno ospedaliero, ma ti puoi immaginare arrivare in stazione in Italia in un attimo sul vagone non c’è stato più nessuno, mi hanno tirato giù, ma sai in Italia chi andava forse al bar, non so, so che ho provato un’emozione così grande: mi sono appoggiata al vagone, avevo un turbante in testa perché ero pelata, poi il fagottello sul braccio delle cose che avevo trovato per cambiarmi, e piangevo, ma piangevo, un’emozione perché poi c’era la musica, “Il Piave mormorava”, “Montegrappa”, “Mamma sono tanto felice”, una cosa che credo che il singhiozzo mi partiva dai piedi, una cosa!

Finalmente sono arrivati dei dottori perché se no ero ancora là a piangere, e questi dottori mi dicono “Vieni con noi, hanno detto che tu hai fatto il tifo, ci hanno avvisato i tuoi che hai viaggiato insieme, questi militari, vieni sul treno che ti guardiamo, ti controlliamo”. Quando mi guardano mi dicono “Ma non puoi proseguire il viaggio, i tuoi genitori te li facciamo arrivare “No ho detto che io devo andare a casa, sono in Italia sono a casa mia, non posso stare qui” “Ma guarda figliola che tu rischi, guarda questo, guarda quello …” insomma io non volevo, allora sai loro cosa hanno fatto? Mi hanno caricato su un’auto colonna inglese, e sentivo la gamba gonfia che mi tirava “Che il Signore me la mandi buona” e sono arrivata a Pescantina, vicino a Verona.

Lì c’era l’Opera Pontificia, allora subito anche questo, le sensazioni così belle che ho provato che non trovo le parole per descriverle, la pastina fatta con il brodo, ma quando ho visto il pane bianco ragazzi, toccarlo, mi pareva proprio di sentire il profumo del grano, le sensazioni nel toccarlo, ne ho presi due, li ho nascosti per portarli a casa, forse non ne hanno abbastanza perché era ancora tesserato, tutta notte sotto una tenda in terra ho dormito e poi verso sera su un’auto colonna inglese sono arrivata a Milano.

A Milano c’era il treno e c’erano due di un paese vicino a Como che praticamente facevano quasi la mia strada, insomma sono scesa e tutto il viale Varese, lo sai dove è, dalle piante, erano forse quasi tutte toccate perché non ce la facevo con la gamba così rigida e gonfia, lo sapevo che non era tanto una cosa che dovevo fare, e io abitavo in fondo alla via Tommaso Grossi, che è quella strada che va a Brunate, sai dalla stazione centrale, arrivare su fino in cima dove c’è dopo la Chiesa della Provvidenza.

Arrivata al crocicchio della via Dante loro dovevano andare, insomma tutti avevano fretta di arrivare e quindi sono rimasta lì sola e zoppicando mi sono avviata per questa strada, arrivata a circa 50 m dalla mia casa, dietro di me sentivo una voce che diceva, era un signore parlava da solo “Ma è la Ines? O non è la Ines? Ma forse la Ines è morta. La Ines dicono che le hanno tagliato le gambe. Ma sarà la Ines?” allora mi sono girata ed era il mio vicino di casa, ho detto “Sono proprio io, forse dico più ossa che carne, però sono io” “Oh Ines” è venuto vicino e mi ha abbracciato, dico “Voglio suonare il campanello e farmi trovare davanti a casa” “Non lo faccia, troppa emozione per i suoi genitori, sono anche già un po’ anziani, vado avanti io ad avvisare, e allora ho pensato forse è più saggio fare così, infatti è andato.

Ora che io sono arrivata poi c’era un grande cancello, una piccola discesa, un grande cortile. C’era fuori mia mamma, mio padre, mia sorella, il mio nipotino e tutti i vicini, non so il sesto senso, ai balconi, non erano le famose ringhiere, erano proprio bei balconi, “È arrivata la Ines” sarà stata mezzanotte non so che ora era …

D: Che giorno ti ricordi più o meno?

R: Era credo il 25 ottobre.

D: Dunque era ottobre quando tu sei arrivata a casa?

R: Sì, allora quando sono entrata in casa naturalmente mio padre era tutto felice “Guarda proprio ieri ho fatto la polvere alla tua bicicletta, ho detto domani arriva la Ines” e mia sorella dice “Tutti i giorni fa la polvere alla tua bicicletta e dice domani arriva la Ines”. Io tiro fuori le mie michette bianche e dicono “Cosa vuoi da mangiare?” e dico “Mangerei volentieri la polenta” perché la sognavo, allora polenta e latte, perché il latte era ancora tesserato, papà va a prenderlo da mio nipotino poco lontano, mangio questa polenta, poi tutta felice “Domani mi alzo, devo andare al distretto, devo fare questo, devo fare quello, devo fare su, devo fare giù …” sono stata a letto ancora quattro mesi senza muovermi.

Veniva il dottore mi curava questa flebite, poi sai il gioco del piede si era anchilosato, però dopo tutto è andata a finire bene, dopo quattro mesi mi sono alzata verso febbraio, ho incominciato a camminare, a riprendere il lavoro, poco a poco riprendere sempre la mia vita, ho incominciato ancora le mie montagne, i miei sport, e ora eccomi qua alla mia verde età …

D: Ti ricordi quanto pesavi più o meno quando sei tornata?

R: No, non mi ricordo perché sono sempre stata a letto, quindi non ho avuto …, dunque io normale pesavo dai 67 ai 70, quindi penso che sarò stata sui 55 chili, 60 al massimo ma sai…

D: Hai portato con te dei documenti quando sei tornata da …

R: No, non avevo documenti.

D: Neanche a Pescantina ti hanno rilasciato niente?

R: No, avevo solo queste mie lettere che scrivevo alla mamma che non ho mai mollate, queste sì, ma se no non c’erano.

D: E lì forse su quelle lettere c’era scritto dove eri, in che ospedale ti trovavi?

R: Non mi ricordo questo se c’era, non lo so, perché so che la data la mettevo, però non ricordo se mettevo, mi pare di no bisogna guardare.

D: Non sai se eri in Polonia, o a Poznam vicino a Berlino?

R: Bisogna che controlli, che guardi e poi vi farò sapere.

D: Forse c’è scritto dove è?

R: Non lo so, non lo so, perché vedi non avevi la roba di dire dove sono, cosa faccio, come si chiama, adesso se mi capitasse una cosa così è logico che mi informo, ma allora come il tempo ti passa e basta, va bene.

D: Le necessità erano altre.

R: E sì, la mia storia è finita, io penso …

D: Io volevo chiederti una cosa, adesso tornando in dietro, sei stata praticamente interrogata a Bergamo in Questura e basta?

R: No. A Bergamo …

D: No scusa a Bergamo, a Como in Questura?

R: E basta, no, mai più nessuno si è interessato.

D: Neanche alla palestra Mariani?

R: No, no.

D: Palestra Mariani, vuol dire la palestra di un istituto scolastico che si chiama Mariani?

R: Fa parte in Via Aperti …

D: Esiste ancora?

R: Sì, sì esiste ancora questa palestra, è dove andavo …

D: Via?

R: Oddio, via Aperti angolo via Aperti …, fa parte delle scuole della via Aperti.