Mocai Ugo

Ugo Mocai

Nato il 03.03.1915 a Bologna

Intervista del: 13.10.2004 a Bologna realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 201 – durata: 63′ circa

Arresto: nel luglio ’44 a Bologna

Carcerazione: a Bologna alla Caserma della milizia e a San Giovanni in Monte

Deportazione: Innsbruck, Bolzano

Liberazione: 30 aprile 1945 a Bolzano

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Ugo Mocai, nato a Bologna il 3 marzo 1915.

D: Ugo, tu quando sei stato arrestato?

R: Io sono stato arrestato nel ’44.

D: Nel ’44?

R: Sì, di preciso il…

D: Forse il 10 luglio?

R: Penso di sì, luglio, insomma, non era ancora agosto. O la fine di luglio o metà.

D: Del ’44?

R: ’44.

D: Chi ti ha arrestato?

R: Mi ha arrestato la GNR, che era la Guardia Nazionale Repubblicana, fascisti.

D: Perché ti hanno arrestato, Ugo?

R: Perché io facevo parte della brigata Matteotti di città, c’era quella di città e quella di montagna. Io facevo parte della brigata Matteotti di città.

D: Il vostro compito come brigata partigiana qual era?

R: Prima di tutto reclutare dei ragazzi, dei giovani. Poi tutto, cominciare a fare qualche sabotaggio, poi c’era volantinaggio, il giornale, era “La squilla”, mi pare, il giornale. Tutto quello che riguardava la lotta clandestina.

D: Sei stato arrestato dove?

R: A casa, a Bologna proprio dove abitavo. Sulla porta di casa, proprio lì.

D: Erano in due?

R: Erano in due, sì.

D: Oltre a te hanno arrestato altri tuoi compagni?

R: Quella sera hanno arrestato quasi tutto il gruppo. Hanno arrestato i due fratelli Boschetti, tutti e due, Gabriele e Luigi. Poi hanno arrestato tanti altri che non conoscevo nemmeno, perché i nomi non si facevano.

D: A proposito di nomi, il tuo nome di battaglia, Ugo, qual era?

R: Non l’ho mai avuto il nome di battaglia.

D: Come scelta?

R: Sì, come scelta.

D: Vi hanno arrestati e vi hanno portati dove?

R: Ci hanno arrestati e ci hanno portati agli uffici della GNR, della Guardia Nazionale Repubblicana a Bologna, vicino a casa fra l’altro, perché avevano requisito una villa in Via Laldini e lì interrogavano, tenevano prigionieri, ecc.

Poi lì mi hanno fatto il primo interrogatorio, a schiaffoni anche, oltretutto schiaffoni. Però ad un certo momento è venuto dentro un ufficiale mentre mi menava, mi pareva almeno un ufficiale, che ha detto: “No, questi metodi non li dovete usare”.

Allora hanno smesso di picchiarci, non so chi era, se mi conosceva, non lo so. Lì siamo rimasti una notte. La mattina dopo, invece, ci hanno portati alla caserma, come si chiamava… Dove adesso c’è una chiesa.

Ci hanno portati lì. Però io ero rimasto praticamente da solo, perché gli altri che erano con me non li conoscevano perché venivano da altri gruppi. Poi c’era qualcuno di Giustizia e Libertà, c’era qualche comunista, pochi.

Lì siamo rimasti due giorni mi pare in questa prigione di questa caserma della Milizia. Dopo ci hanno portato a San Giovanni in Monte, dove c’erano le prigioni normali. Lì mi sono trovato con un altro che era già stato arrestato prima di me ed era il dottor Didomizio, che io avevo conosciuto perché nuotavo ed eravamo della stessa società di nuoto, Rarinantez.

Ci siamo rivisti lì, ma lui era stato arrestato per un’altra ragione. Non come noi, era stato arrestato perché faceva parte di Giustizia e Libertà, non so cosa facesse di preciso, perché poi nessuno diceva niente. Non si parlava quasi mai, anzi molte volte si faceva finta di non conoscersi.

Tant’è vero che veniva dentro uno nuovo, diceva: “Guarda chi si vede”. Lì rimasti a San Giovanni in Monte, mi hanno interrogato un’altra volta o due portandomi questa volta non nella stessa villa, ma in una via fuori Mazzini, adesso non mi ricordo, fuori Porta Mazzini.

C’era un altro nucleo loro, una specie d’ufficio anche quello, ufficio investigativo, non so come lo chiamassero.

D: L’UPI, quello dell’UPI?

R: UPI mi pare, sì. Era ufficio… Non so cosa volesse dire, investigativo. Lì mi ha interrogato sempre prima il colonnello, si chiamava Bucci, credo che sia morto. Mi ha interrogato sempre lui, mi chiedeva dove avevamo le radiotrasmittenti, le riceventi, ecc… Io dicevo: “Non so niente”. Diceva: “Lei però stia attento perché ha i genitori, quindi noi li teniamo d’occhio”. Dico: “Non c’entrano niente”. Infatti non c’entravano niente. Dopo parecchi interrogatori mi disse un giorno: “Va bene, noi ti denunciamo al Tribunale Speciale per la difesa dello stato”. E basta. Poi mi riportarono a San Giovanni in Monte. C’è stato un altro episodio, c’è stato il fatto che è arrivato dentro un gruppo di partigiani che ha liberato tutti quanti. Una notte da San Giovanni in Monte ci hanno liberati tutti quanti, però ci siamo trovati in mezzo alla strada, perché la nostra cella l’hanno aperta per ultima. Io e un altro che avevo conosciuto lì, Balboni, che è ancora vivo, poi un altro che veniva dalla Puglia, un certo, aveva il nome di battaglia, Maggio, però lui veniva dalla Puglia. Non so cosa facesse, lui si era arruolato con gli inglesi perché doveva sposarsi, voleva sposare quella donna. Comunque era arrivato fina a qui, San Giovanni in Monte. Siamo venuti fuori, però questo è un episodio così. Siamo usciti dal carcere, sono andato a casa, dove dovevo andare? Sono rimasto a casa un giorno. Poi hanno cominciato a telefonare e a venire a casa, a dire: “Guardi che se lei non si riconsegna noi mettiamo in galera i suoi genitori”. Mia madre dice: “Allora tu riconsegnati” e io tornai in carcere. Ma non mi volevano. Io bussai a San Giovanni, io e un altro. “Cosa volete?”. “Siamo due evasi che rientriamo”. Hanno detto: “Non si può, perché se non c’è un mandato di cattura o lei non è accompagnato da qualcheduno, anche un cittadino qualsiasi, non possiamo ricevere nessuno”. E ci chiuse fuori. Io con quell’altro lì sui gradini della chiesa diciamo: “Che cosa facciamo?”. Non sappiamo dove andare, la città, Bologna, era piena di fascisti, poi avevano saputo di questa irruzione dei partigiani nel carcere, quindi erano tutti lì. Vedemmo passare uno, un cittadino qualsiasi, che si fermò e noi dicemmo: “Per favore, guardi, ci vuole portare dentro?”. E’ così, se lo fai in un film uno non ci crede. “Ci vuole portare dentro, perché sennò non ci ricevono”. “Come non vi ricevono?”. “Perché non siamo accompagnati”. Quello bussò, poi scappò. Si fece vedere e disse: “Questi due vogliono rientrare”, allora la guardia aprì la porta e andammo dentro. Tornai in prigione. Non mi ricordo più quando, i tedeschi, chissà per quali loro problemi che non ho mai capito, un bel giorno arrivarono lì in prigione, un ufficiale delle SS e disse: “Questi, questi, questi”, faceva leggere i nomi all’interprete, “Questi e questi fuori, via con noi”. Ci portarono fuori, ci portarono lì in carcere, aspettammo un bel po’, perché non avevano il mezzo dove metterci, dove caricarci. Ci fecero salire su questi camion, un camion veramente. Poi ci portarono via, passando naturalmente tra due file di parenti piangenti. Passammo e ci caricarono su questi mezzi, poi andammo, almeno mi pareva, perché ci avevano chiuso, che ci portassero verso Modena. Assieme a quegli altri, soprattutto con Didomizio, che era stato nuotatore con me, dissi: “E’ una buona giornata perché se passiamo il Po’ ad un certo punto saltiamo fuori, saltiamo in acqua e andiamo”.

D: Questo più o meno quando è stato?

R: Ottobre, era ottobre. Metà di ottobre.

D: Sempre del ’44?

R: No, era già il ’45. No, è vero, ’44.

D: Scusami, Ugo.

R: Dimmi.

D: Tu sei stato accusato di cosa?

R: Di un sacco di roba. Di intelligenza col nemico prima di tutto. Poi di formazione di un gruppo partigiano, comunista dicevano allora, per loro erano tutti comunisti. Invece erano socialisti.

Poi di aver fatto attività di spionaggio, un attentato facemmo noi, uno solo. Qui c’è una birreria, non so se l’avete vista, è qui vicino, “Da Mamma”, dove tutte le sere i tedeschi si radunavano. C’erano delle finestre a pian terreno come questa con le inferriate.

Noi mettemmo delle bombe carta che ci avevano regalato, ne mettemmo due o tre e le facemmo scoppiare. Non successe niente, purtroppo non ammazzarono nessun tedesco. Però bloccarono la strada e fecero un rastrellamento lì.

Però io fui arrestato più che altro perché uno dei nostri, che era Luciano Proni, che poi è morto durante un rastrellamento in montagna, Luciano Proni faceva l’amore con una ragazza bellissima, molto bella, che contemporaneamente però faceva l’amore anche con un dirigente fascista.

Noi gli avevamo detto, gli dicevamo: “Guarda che se fossimo i comunisti ti avremmo già fatto fuori oppure ti avremmo allontanato”. “No, è una ragazza fidatissima che non dice niente”. Lui le aveva fatto i nomi di tutti e lei ha fatto i nomi di tutti, persino di mio fratello che era in Sardegna. Infatti mi chiedevano di mio fratello. Dico: “Andatelo a prendere in Sardegna, è prigioniero là, è rimasto là”. La causa fu lei che si chiamava Laura, non mi ricordo, Anna no, Laura mi pare.

D: Scusami, ti hanno portato alla GNR, no?

R: Sì, prima.

D: Sì, dopo…

R: Dopo i tedeschi mi hanno prelevato, eravamo tutti politici quelli che prelevarono i tedeschi. Lungo la strada, mentre ci portavano a Bolzano, eravamo un gruppo di quattro o cinque tutti pigiati in questo camioncino più due prostitute, due di quelle che avevano rastrellato.

Io ero rimasto indietro nel camioncino, quindi ad un certo momento passava un aereo che bombardava e mitragliava la strada. Dietro noi avevamo la scorta, c’era una specie di jeep con sopra dei tedeschi. Il camionista nostro si è fermato quando ha sentito l’aereo, poi è sceso.

Allora noi abbiamo approfittato, abbiamo tentato di scappare. Solo che io sono stato bloccato in fondo al camioncino e non sono riuscito a scendere, né io né Balboni né Maggio, mentre Didomizio e un altro, che è morto adesso, scapparono attraverso la campagna e i tedeschi della camionetta dietro gli spararono. Poi non l’hanno preso volontariamente, perché a sparare coi mitragliatori che avevano loro ci potevano benissimo fare fuori, erano lì. Si vede che sparavano in alto per vedere se si fermavano. Invece non si sono fermati. Da lì ci hanno portati, dopo siamo stati fermi, ci hanno portati ancora e siamo scesi a Verona. A Verona ci hanno portato in un altro posto che non so cosa fosse, era anche quella una caserma, ma non so come si chiamasse. Ci hanno portati dentro…

D: Ma era una caserma in città o in periferia?

R: Penso che fosse in città da quel poco che ho visto.

D: Germanica però? Era gestita da tedeschi?

R: Loro?

D: No, la caserma. Le guardie erano tedesche o italiane?

R: No, erano italiane.

D: Italiane?

R: Erano tutte italiane. Infatti poi venne dentro un prete. Lì ho avuto un po’ paura, ad un certo momento alla mattina prima ci diedero da mangiare benissimo, cosa strana, poi venne dentro questo prete, che era uno di quei preti che erano passati dall’altra parte, era un prete loro.

Disse: “Voi siete partigiani, avete ammazzato, avete fatto un sacco di peccati. State tranquilli perché vi assolvo da tutti i vostri peccati”. E buonanotte, ci ha assolto. Allora io ho detto a quell’altro: “Qui ci fanno fuori, perché ci danno da mangiare bene, ci mandano il prete, cosa vuoi di più?”.

Invece no. Alla mattina ci misero su un camion e ci hanno portato a Bolzano. Prima ci hanno portato vicino a Innsbruck, a Bolzano. Non so cosa fosse. C’era un campetto anche lì.

Però lì ci hanno lasciato pochi giorni. Poi da lì ci hanno portato a Bolzano, a Gries, che adesso non c’è più.

D: Scusa, Ugo. Ma sempre il vostro gruppetto, quelli partiti da Bologna o hanno aggregato altre persone?

R: A Verona hanno aggregato qualcuno, c’erano altri che non conoscevo. Fra l’altro erano veneti, con noi non c’entravano. Poi li ho rivisti a Bolzano anche questi.

D: Quindi sosta ad Iseo hai detto?

R: No.

D: Dopo Verona?

R: Dopo Verona direttamente a Bolzano.

D: No, dopo Verona?

R: Prima ad Innsbruck.

D: Ad Innsbruck?

R: Sì, c’era un piccolo campo lì, si vede che era di smistamento, non so. Poi siamo tornati indietro, da Innsbruck siamo tornati a Bolzano.

D: Come ti ricordi il tuo ingresso nell’area di Bolzano?

R: Nel campo? Prima di tutto pioveva e nevicava già, veniva giù nevischio così. Lì erano tutti tedeschi, erano SS tutti quanti. Ci hanno lasciati tutti in fila lì, poi ci hanno contato, ricontato, i soliti conteggi.

Poi ci hanno tosati tutti a zero, un freddo alla testa. Poi ci hanno fatto togliere il cappotto, ci hanno lasciato la maglia, se uno aveva la maglia sotto teneva la maglia. Ci hanno dato una tuta tutta blu, io ce l’avevo a casa, l’ho data per una mostra e non l’ho più riavuta. C’era un triangolo rosso con scritto 5855, che era il mio numero.

5855 ed è rimasto sempre quello. A Bolzano la vita del campo…

D: Ti ricordi il tuo blocco?

R: Non mi ricordo più. Balboni se lo ricorda di sicuro, io non me lo ricordo. Erano parecchi i blocchi lì. C’erano le donne da un’altra parte. C’erano gli ebrei da un’altra parte.

Lì era una questione, non so neanche io l’impressione, come dicevi, che mi ha fatto, brutta impressione. Fra l’altro non sapevamo lì niente dei campi in Germania, Mauthausen ecc. Eravamo lì, dopo un po’ di tempo che eravamo lì, un mese, abbiamo fatto varie esperienze.

Hanno provato a farci lavorare, io non me la sentivo di lavorare per loro. Il primo lavoro che ci hanno fatto fare, lì stavano scavando una galleria che adesso credo che sia autostrada, lì hanno poi portato una fabbrica di cuscinetti a sfere.

Noi dovevamo preparare tutto, c’era chi scavava, chi… Ci mettevano in quadrati alla mattina, ci portavano su un camion e da lì ci portavano dove era la galleria. Tunnel, come dicevano loro. Alla galleria si scendeva, ti mettevano in fila un’altra volta, ti ricontavano un’altra volta con un freddo cane, perché ai piedi ci avevano dato degli zoccoli di legno da portare.

Un freddo cane. Lì chiedevano cinque falegnami. Andavano fuori cinque che volevano fare i falegnami. Io, Maggio, che era stato invece studente di medicina, Balboni, ecc… alzammo la mano e dicemmo: “Veniamo noi”.

Ci presero, ci portarono lì in un reparto sotto le gallerie, ci diede, mi ricordo sempre, un mazzo di cavicchi di legno così da fargli la punta. Però non ci ha mai più richiamato, segno che le punte non erano venute bene a mio parere. Non ci ha più richiesti quello lì.

Poi lui ci mandò via alla sera quando suonava il fischio per partire, ci disse con disprezzo proprio: “Raus, Scheisemann, Italiener Scheisemann”, uomini di merda, qualcosa del genere.

“Questo non ci vuole più, cosa facciamo?” Io feci per lo meno la domanda per un gruppo di elettricisti. Ho imparato a fare qualche cosina, ma credo che da quelle gallerie non sia mai uscito un cuscinetto a sfera, mai sicuramente. Perché il lavoro dei prigionieri, poi soprattutto eravamo quasi tutti politici, in più c’erano parecchie donne, non era possibile che…

Visto che non avevamo voglia di fare niente o quasi, c’è stata una parentesi che mi hanno messo ai martelli pneumatici. Ci sono stato una mattina poi basta.

D: Questo sempre nella galleria? Questi lavori sempre in galleria?

R: Sempre in galleria, sempre in tunnel, sì.

D: Ascolta…

R: Dimmi.

D: Quando tu andavi dal campo alla galleria ti portavano in macchina?

R: In camion. Anche a piedi molte volte.

D: A piedi?

R: Non è lontano il campo.

D: Alla sera tornavate indietro?

R: Indietro, sì.

D: Sempre?

R: Sempre, si dormiva al campo.

D: Al campo dormivi?

R: Sì.

D: Quindi tu nel campo sei rimasto per tanto tempo?

R: Sono rimasto finché non è finita la guerra.

D: Oltre, accennavi, alle donne c’erano gli uomini nel campo.

R: Sì.

D: Di provenienze e di regioni diverse?

R: Sì, molti, in maggioranza erano veneti però. Friulani, di Belluno, quei posti insomma.

D: C’erano donne?

R: Insieme a noi no.

D: Ma c’era la baracca delle donne?

R: Sì, molte venete anche lì.

D: Tu le hai viste?

R: Sì.

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini nel campo?

R: No, bambini non ne ho mai visti. Donne ed ebrei, quelli sì. Però se ti prendevano vicino agli ebrei erano calci nel sedere e botte, non volevano che comunicassimo con gli ebrei. Erano in un campo per conto loro e in maggioranza erano donne ebree.

D: Tra gli uomini ti ricordi se c’erano dei religiosi, dei sacerdoti?

R: C’è stato anche uno che chiamavano “il vescovo”, non so se poi fosse vescovo veramente. Dicevano: “Adesso vado dal vescovo”, ma non era nel mio blocco. Era un altro blocco.

D: Nel periodo che tu sei rimasto lì nel campo di Bolzano sei stato testimone d’atti di violenza?

R: Tanti, anche per delle sciocchezze. Soprattutto per quelli che non lavoravano. Io ho provato a non lavorare, a stare circa una settimana, un mese in giro per il campo. Prima di tutto tutte le volte che dovevi incontrare… Avevano dei berretti fatti di stoffa, tutte le volte che incontravi un soldato ed erano così, dovevi alzare e vedere.

Se non lo facevi, io ho provato una volta perché ho detto: “Voglio provare a vedere cosa succede”, ho preso tanti di quei calci nel sedere, quei piedi così.

D: Ti sei fatto un giro d’amicizie lì nel campo?

R: Sì. Prima di tutto Balboni, perché quello era lì. Poi questo nostro amico delle Puglie, pugliese.

D: Quel pugliese famoso?

R: Quel pugliese, sì. E’ stato sempre con noi, anche perché era un ragazzo simpaticissimo. Degli altri che adesso non ricordo neanche.

D: Ti ricordi l’episodio che ti ha legato a dei russi?

R: Sì, quello dei russi. Sono stati loro che ci hanno convinti a lavorare. C’erano due russi che dormivano nel castello sopra di me. A un certo momento dicevano anche loro: “Ma perché non volete lavorare? Noi lavoriamo, mangiamo di più”.

Infatti, una fetta di pane in più si poteva mangiare. Hanno detto: “Provate, provate”. Ci hanno spinto ad andare appunto fra quelli che dovevano lavorare, a alzare la mano. Sono stati loro a convincerci, a spingerci.

Ho tenuto rapporti coi russi poi, ho tenuto rapporti con i russi fino a dopo, tornato a casa. Mi scrivevano da Modena, perché loro erano due ufficiali dell’esercito sovietico. Li avevano tutti internati, messi a Modena per poi mandarli in Russia.

D: Ritornando invece alla galleria, al tunnel, che tu lavoravi là, eravate in tanti a lavorare?

R: Eravamo parecchi. Il mio blocco c’era quasi tutto, quindi erano parecchi. Adesso non lo so ogni blocco quanti potevamo essere, quaranta, cinquanta. Venivano poi anche dagli altri blocchi. Eravamo in tanti in galleria. Poi finalmente ad un certo momento in galleria cominciammo a stare bene, perché i tedeschi mandarono lì a lavorare, quando erano già arrivate le macchine, i torni e le frese per i cuscinetti, mandarono gli operai della IMI, che erano industrie meccaniche italiane, di Ferrara.

Li mandarono ed erano tutti borghesi quelli, erano normali e lavoravano lì. Ognuno di loro prendeva uno di noi.

D: Quindi tu come gli altri avete avuto rapporti con i civili anche?

R: Solo con quelli.

D: Sì, ma avete avuto rapporto anche con questi?

R: Sì, con quelli che venivano in galleria.

D: Sì, sì. C’erano anche le donne, dicevi, a lavorare in galleria?

R: Sì. Non so cosa facessero, però c’erano. Più che altro erano addette a pulire, le pulizie. Poi con le donne era utile fare amicizia, perché lavoravano quasi tutte per gli ufficiali tedeschi. Si fregavano la roba da mangiare e allora ce la portavano. Era importantissimo.

D: Scusami, Ugo.

R: Dimmi.

D: Una volta finito il turno di lavoro in galleria, voi tornavate nel campo?

R: Nel campo, alle sei di sera.

D: Tutti tornavano nel campo o restava qualcuno a lavorare, a fare il turno di notte?

R: No, almeno dei miei compagni.

D: O lì vicino c’era un posto dove stavano, delle baracche dove stavano lì a dormire?

R: No.

D: Non ti risulta?

R: Non mi risulta per niente, no. Noi tornavamo tutti al campo, tutti. O a piedi o in macchina.

D: Col camion?

R: Col camion, sì.

D: Sei mai stato a Bolzano in città a raccogliere macerie, a spostare macerie?

R: No. Siamo stati varie volte alla ferrovia di Bolzano, perché l’avevano bombardata e ci portarono a mettere a posto, sistemare.

D: Sgombero di macerie?

R: Sì, sgombero di macerie, mettere a posto i binari, che è fatica, le traversine, ecc… Sempre guardati da loro naturalmente. Guai a fermarsi, bisognava sempre fare in modo di far vedere che si lavorava.

D: Sia quando tu eri in carcere a San Giovanni in Monte che lì a Bolzano sei riuscito a metterti in contatto con i tuoi familiari, con la tua famiglia?

R: Sì, venivano una volta o due al mese qui. A Bolzano no, a Bolzano niente scrivere e niente. Davano una sigaretta a quelli che fumavano. Io la scambiavo con le patate, perché m’interessavano di più.

D: Né hai mai ricevuto dei pacchi di generi alimentari?

R: Mai. In San Giovanni in Monte sì, qui.

D: Mentre a Bolzano?

R: A Bolzano niente. A proposito di civili, c’era una signora di Bolzano, la moglie di un ferroviere, la quale faceva della beneficenza. Ci portava qualche cosa ogni tanto dentro il campo, la lasciava lì e la guardia ce la dava. Tutto lì.

D: Scusami, una giornata tipo del campo come ce la descrivi?

R: Quando si lavorava o quando non si lavorava?

D: Sia l’una che l’altra.

R: Perché sono stato un mese quasi che non ho lavorato. Non ho voluto.

D: Quindi cosa facevate?

R: Niente, il giro per il cortile stando attenti che i cani non ti annusassero. Poi o ti facevano pulire i gabinetti, quei lavori lì, oppure ti prendevano così. Dicevano: “Tu, vieni qua”.

Era pieno, c’erano tutte le guardie che in genere purtroppo erano quasi tutte sud-tirolesi, erano state arruolate nelle SS tedesche. Erano piuttosto cattive.

Il tempo passava abbastanza bene, insomma, senza fatica. Poi ci sono state delle evasioni dal campo, diverse evasioni.

D: Anche dal tunnel qualcuno è riuscito a scappare?

R: Due donne sono riuscite a scappare dal tunnel, attraverso i gabinetti.

D: Ma c’era un collegamento con qualche gruppo esterno?

R: Io credo di sì. Non dicevano niente, però per forza. Se uscivi vestito in quel modo dove andavi? Probabilmente a Bolzano c’era un Comitato di Liberazione, qualche cosa del genere che aiutava.

Noi non l’abbiamo mai cercato, ma c’era. Molti sono riusciti, queste due donne sono riuscite ad andarsene.

D: Lì non è successa nessuna rappresaglia quando si sono accorti i germanici?

R: La rappresaglia era già abbastanza, perché facevano la conta subito dopo. Anche se erano le due di notte dovevi stare lì in piedi e aspettare che finissero. Conta e riconta.

D: Il tuo regalo del Natale ’44 cos’è stato?

R: Regalo di Natale ’44? Regalo in campo di concentramento? Una cosa brutta, che a me faceva una certa impressione era che avevano fatto l’albero di Natale.

D: Dove?

R: In mezzo al campo nel cortile, nel campo. Era una cosa tristissima. Non per l’albero di Natale, non m’importava niente, però era tutto questo ambiente.

D: Allora, due russi vi hanno convinti a lavorare, ma erano due russi deportati, no?

R: Sì.

D: Però nel campo c’erano anche degli ucraini che non erano dei deportati. Te li ricordi tu?

R: Erano soldati quelli. Ucraini, sì. Ma credo che fossero ucraini, non sono sicuro, ma credo che lo fosse anche il comandante del campo, non lo so. Si chiamava Titho. Mi ricordo la firma, Titho.

Era un maresciallo credo. I marescialli erano, non è come da noi che erano marescialli. Il loro maresciallo era importante. Ogni tanto facevano l’appello come sempre i tedeschi. Anche lì non era un bel momento, chiamavano fuori 5856, il mio era 5855, oppure 5854.

Quelli li mandavano tutti o a Mauthausen o Buchenwald o quell’altro, cos’era? Dachau. Li mandavano tutti lì.

D: Però voi non lo sapevate?

R: Non lo sapevamo, è vero.

D: Non sapevate la destinazione?

R: No, no.

D: Appunto.

R: Però siccome sono morti tutti… Dopo abbiamo realizzato.

D: Questi partivano senza sapere quale destinazione….

R: No, no. Nessuno sapeva la destinazione, neanche noi partendo da qui sapevamo. Io non sapevo che c’era il campo di concentramento a Bolzano, né io né gli altri.

D: Ugo, qui a Bologna a quei tempi in un giardino c’era un comando germanico. Ti ricordi come si chiamano i giardini? Come si chiamano quelli lì?

R: Giardini Margherita.

D: C’era mica il comando germanico lì? Il comando della SS?

R: Mi pare di sì. Lei c’era, sì. Sì.

D: Te lo ricordi, Giardini Margherita?

R: Sì, non proprio dentro ai giardini. In una strada laterale che fiancheggiava i giardini c’era una villa che avevano occupato questi della SS.

D: Non ti ricordi il nome di quella villa?

R: No.

D: Mentre il nome di villa Paradiso te lo ricordi?

R: Quello è una mia invenzione.

D: Cioè?

R: Forse non l’ho detto perché mi sono dimenticato. A un certo momento, come dicevo, visto che fare gli elettricisti e i falegnami neanche per idea, uno lo misero al tornio, quello se la cavava bene, uno che non mi ricordo come si chiamasse.

Però noialtri, io, Balboni e anche questo pugliese, questi pensarono: “Cosa facciamo?” Allora mi chiesero: “Tu cos’eri? Cosa facevi? Studente?”. “No, studente no”. Ero già laureato, sono laureato in legge. Allora scosse la testa e poi disse: “Vieni con me”. Prese me, Balboni e quell’altro.

Ci portò in un magazzino sempre dentro alla galleria. In questo magazzino c’erano delle gran casse piene di cuscinetti a sfere. Disse: “Qui c’è una cassa, vedete?”. Bisognava togliere le sfere grandi e piccole e metterle nelle altre casse, un bel lavoro quello.

Stavamo lì, ogni tanto spostavamo una cassa, erano sopra degli scaffali. Poi dietro andavamo a dormire per esempio. Alla mattina ci alzavamo alle cinque, alle quattro. Poi lì venivano per esempio tutte le donne, non si sentivano bene allora andavano dentro, chiudevamo dietro. Erano tutte contente.Allora io dissi: “Questa è villa Paradiso” e lo scrissi anche sulle aste di fuori, tanto che venne un ispettore, un ufficiale tedesco tipo Himmler e guardava dappertutto. Arrivò davanti e lesse: villa Paradiso. Si vede che chiese chi l’ha scritto e quello disse: “L’hanno scritto loro”.

Allora lui credeva che stessimo benissimo nel campo. Guardò, era contento.

D: Dicevamo, una giornata tipo del lavoro.

R: Il lavoro?

D: Sveglia al mattino?

R: Sveglia al mattino erano le quattro e mezza, cinque. Poi …., ci facevano uscire dal blocco perché andavi a lavarti, a lavarti la faccia. Poi era sempre gelata perché c’era un freddo cane, era sempre gelata. Di lavarci i denti avevamo smesso ad un certo momento, perché si vede che molti ci facevano la pipì dentro l’acqua.

Allora lavarsi i denti non era una cosa… Poi ci riportavano dentro, c’era l’appello per quelli che andavano a lavorare. “Galleria”, dicevano, “fuori”. Il gruppo, dividevano in vari gruppi e ci portavano in galleria.

Mangiare a mezzogiorno, ti davano una fetta di quel pane, quello nero. Non è cattivo quel pane, adesso l’ho mangiato a Bolzano con le noci, è buonissimo. Una bontà. Una fetta di pane e una specie di brodaglia, di brodo. Facevano queste grandi caldaie di questo brodo con dentro o il miglio o l’avena. Allora dicevo sempre: “Qui ci hanno preso dei canarini”. Ci davano questo miglio che diventa bello grosso e poi sopra ci buttavano della farina cruda in queste caldaie. Faceva una specie di crostina sotto buonissima. Poi basta, non c’era secondo, c’era un piatto, una gavetta di quello e basta. Una volta al giorno, alla sera niente. Tant’è vero che la fetta di pane la tenevamo per la sera.

D: Frutta no? Le mele?

R: Mele sì, non ce le davano loro. Quando ci portarono a chiudere le buche a Bolzano, si vede che con le bombe avevano colpito un carro di mele, un carro ferroviario di mele, allora c’erano tutte queste mele dentro le buche.

Ne mangiammo una quantità, un mal di pancia pauroso, si vede che erano mele, non so, sporche. Allora lì abbuffata di mele. Un’altra volta all’imbocco della galleria bombardarono, bombardavano l’imbocco e l’uscita. Bombardarono e ammazzarono un cavallo attaccato ad un carro.

Ce lo lasciarono il cavallo, morto. Lo aprirono e tutti quanti a prendere pezzi di carne. Però non l’abbiamo cotta, l’abbiamo mangiata cruda. Siamo stati malissimo, un male da morire.

Le uniche due volte che abbiamo visto cibo esterno.

D: Ti ricordi il giorno di Pasqua del ’45 cos’era successo, cos’è successo nel campo?

R: Non mi ricordo. Però qualcosa è successa. C’è stata un’evasione?

D: Una celebrazione di una messa.

R: No, questo non me lo ricordo.

D: Non te lo ricordi?

R: Non mi ricordo. Poi alla fine del ’45, quando oramai… Ci levarono dal campo e ci portarono in una scuola, ex scuola di Bolzano che non ho più rivisto.

D: Questo in che periodo?

R: Era sul finire della guerra oramai, era nel ’45.

D: Aprile, maggio?

R: Sì, non era cattivo tempo quindi doveva essere maggio, penso.

D: Ma tutti voi o solo un gruppo?

R: No, il gruppo che lavorava in galleria. Ci portarono lì e ci portavano da lì in galleria, che era più vicino.

D: Stavate lì a dormire?

R: A dormire, ci avevano messo su, si vede che c’erano già i castelli e si dormiva lì.

D: C’erano anche le donne con voi?

R: No.

D: Lì a fare la guardia chi c’era? Sempre germanici?

R: Sempre, sempre. Sempre SS.

D: Era più una scuola, secondo te, o una caserma?

R: Ma secondo me era più un’area da scuola, almeno dentro, dai colori. Poi forse l’avevano ridotta a caserma.

D: Era molto più vicina alla galleria questa?

R: Era più vicina. Noi ci andavamo a piedi tranquillamente, in quadrati a piedi.

D: Ascolta, Ugo, invece la liberazione come te la ricordi?

R: La liberazione. Siamo usciti una mattina da questa scuola, eravamo io e Balboni. Non ci guardavano più, avevano tolto le guardie, avevano tolto tutto. Si andava lì per dormire come un albergo, si andava dentro e fuori, non si andava più in galleria.

Passeggiavamo lì a Bolzano, no, a Merano o un’altra cosa, c’è un portico a Bolzano. Noi camminavamo lì sotto il portico. A un certo momento abbiamo visto una jeep con sopra tre americani, un negro e due normali.

Si sono fermati, hanno tirato fuori una carta topografica, guardavano. Hanno preso appunti e poi sono andati via. Poi non ho più visto americani.

D: Ma la liberazione? Vi hanno rilasciato un documento?

R: Sì.

D: Dove? Lì in questa scuola?

R: Nel campo.

D: Siete ritornati al campo?

R: Sì, ma per conto nostro. Avevamo saputo che facevano questo documento. Io ce l’ho ancora a casa. E’ un fogliettino stampato. Ci misero in fila anche lì, poi c’era una delle SS che faceva la dattilografa e ci chiese tutto, cosa avevamo fatto ecc, dove volevamo andare.

Siccome conoscevamo questa ragazza di Belluno, noi dicemmo: “Andiamo a Belluno”. No, non siamo andati a Belluno, siamo tornati a Bologna. Un viaggio prima in treno fino a Ora, a Ora finiva la ferrovia. Un po’ a piedi, un po’ così ci siamo fermati a Verona, mi pare. Non sapevamo cosa fare, bisognava avere dei soldi, perché sennò…

D: Avete fatto la strada dell’Adige o quella del lago?

R: Quella del lago. A Gardone c’era mio zio, mi venne in mente che c’era un mio zio che era direttore della banca, non so. Allora dissi: “Andiamo da mio zio”. Andammo su da mia zia Rosa e da mio zio che aveva sposato una sorella di mia madre. Stettimo lì due giorni, ma non avevano da mangiare niente neanche loro, poco. Patate e basta.

D: Quando sei arrivato a Bologna?

R: Io sono sempre arrivato ultimo, come all’8 settembre, lo stesso. Sono arrivato a Bologna che erano già iniziati i bombardamenti credo, no, erano già finiti i bombardamenti da un pezzo. Cos’era? In ottobre? No, non mi ricordo più. Maggio, sì.

Era caldo ancora. Devo essere arrivato in maggio, maggio o giugno a Bologna. La guerra era finita.

D: E a casa tua?

R: A casa mia?

D: Sì, mamma e babbo? Quando ti hanno visto?

R: Mio padre non c’era, era fuori. Quando è tornato… Mia madre.. Le è venuto uno smalvino, uno svenimento.

D: I tuoi compagni del partito, i tuoi compagni di brigata?

R: Quelli non ne ho visti neanche uno lì per lì.

D: Dopo hai ricostituito il gruppo, vi siete ritrovati?

R: Sì, dopo sono tornato al mio partito, che era il partito socialista d’unità proletaria. Lì sono rimasto fino a che il partito si è diviso, allora sono passato al partito comunista, più tardi però.

D: Ugo, cos’è stato per te il segmento dell’esperienza del Lager, per la tua vita dopo, per le tue scelte, le tue amicizie?

R: Ti dirò, essendomela cavata sia prima in guerra come dopo, quella è tutta questione di fortuna, l’esperienza non è brutta, non è una brutta esperienza quella del campo di concentramento.

E’ tutto un mondo a sé, è tutta una repubblica che è per conto suo. Lì il capo blocco comanda, fa quello che vuole.

D: Il capo blocco che è un deportato come te?

R: Sì. Però gradito ai tedeschi. Per quello che io sapevo e so un po’ di tedesco, perché l’ho studiato al liceo, un po’ di tedesco. Non ho mai detto però: “Io so il tedesco”, perché dicevano: “Chi vuole fare l’interprete?”.

L’interprete per i compagni e tutti era una spia sempre, anche se non era vero. Non ho mai voluto farlo. Avevo sempre una paura di rispondere in tedesco.

D: Però stavi dicendo una cosa molto importante, il Lager non è una cosa brutta perché è un mondo a parte…

R: Parlo per me.

D: Certo.

R: Ci sono quelli che ci sono morti.

D: Certo.

R: Però io sapevo già quando ci hanno deportato lì che con noi c’era uno nel camioncino che ci portò a Verona, c’era un certo Canè, che era un allievo ufficiale dell’aeronautica, abituato con la cioccolata alla mattina, quelle cose lì.

Io dicevo: “Quello non torna indietro” e non è tornato. C’erano molti anche che si demoralizzavano, molti, insomma abbastanza. Si buttavano a piangere tutto il giorno.

Io invece mi sono trovato con questi altri due con i quali si scherzava sempre. Abbiamo preso anche delle botte.

D: Ugo, sia durante il periodo del carcere che durante la tua permanenza del campo lì a Bolzano, nella galleria ecc. la tua scelta ideale, la tua scelta politica, i valori per i quali stavi combattendo, stavi lottando ti hanno aiutato, ti hanno dato quella forza?

R: Moltissimo. Però bisogna essere convinti di quello, bisogna che sia vero questo, non che fai finta.

D: Ne parlavi con gli altri tuoi compagni?

R: Certo.

D: Con Balboni per esempio?

R: Sì.

D: Con il pugliese?

R: Sì. Anche con altri friulani che erano quasi tutti comunisti.

D: Vi confrontavate anche su queste scelte importanti di valori, di lotta, del movimento resistenziale?

R: Sì, c’erano di quelli, per esempio Orel, era un friulano, giovane, avrà avuto sedici o diciassette anni, che l’avevano arrestato e messo lì. Lui mi chiedeva: “Tu mi devi spiegare”, siccome sapevano che ero laureato, “tu mi devi spiegare perché Carlo Marx ecc…”. Allora lì tutto…

D: Volevo farti una domanda su Verona. Quando dici che ti hanno portato forse in una caserma in città, poteva essere anche un forte militare o era una caserma?

R: No, non era una scuola quella, per me era una caserma.

D: O un forte? No, una caserma?

R: No, i forti li conosco a Verona.

D: Non era un forte. Invece a Bolzano dentro il tuo blocco avevate i gabinetti oppure i rubinetti?

R: C’erano dei gabinetti appena fuori dal blocco. Quella è la porta del blocco, fuori c’era una specie di baracca piccola con due porte di gabinetto. Lì dovevi chiedere se potevi andare. Una guardia veniva con te e stava lì fuori mentre tu facevi la cacca.

D: Ce li puoi descrivere? Com’erano?

R: I gabinetti com’erano? Erano un buco in terra. Siccome lì vicino c’è l’Isarco mi pare, andava a finire tutto lì.

D: Il tuo capo blocco chi era?

R: Non mi ricordo. Quando sono arrivato era uno che non ho mai più visto, non so.

D: Ti ricordi se nel campo venivano celebrate delle messe?

R: Delle?

D: Messe, da parte di preti, servizi religiosi. Ti ricordi?

R: Oddio, io non te lo posso dire perché siccome io a messa non ci vado non ci sono mai andato neanche lì. Però sapevo che facevano la messa ogni tanto, sentivo.

D: Ascolta, dicevi prima, hai fatto un accenno, volte in cui venivano chiamati dei numeri che potevano essere vicini, prima o dopo il tuo. Erano appelli per le partenze?

R: Sì.

D: Come avvenivano questi appelli per le partenze?

R: Non l’ho mai capito neanche io questo. Avvenivano quando gli pareva, quando si vede che loro avevano bisogno. Allora dicevano: “Facciamo l’appello”, facevano quest’appello e quei numeri che chiamavano andavano in Germania.

D: Ma venivate messi tutti sulla piazza?

R: Tutti, tutti nel cortile.

D: Tutti insieme o blocco per blocco, se ti ricordi?

R: Tutti i blocchi, tutti.

D: Poi venivano letti dei numeri?

R: Sì, i numeri di matricola che avevi qua.

D: Venivano letti in italiano o in tedesco?

R: In italiano, c’era l’interprete.

D: Alla sera quando vi portavano dentro nel blocco, il blocco veniva chiuso dall’esterno?

R: Sì. Non si poteva uscire, finestre non ce n’erano. C’erano dei finestrini in alto.

D: Ascolta, se dovevi andare in bagno di notte come facevi? In bagno di notte ti capitava? C’era un bugliolo dentro?

R: Un bugliolo.

D: Un’ultima domanda sulla galleria, se cerchi di ricordartela, era ad un piano, i macchinari e i posti di lavoro, o c’era anche un piano rialzato?

R: No, tutto un piano diviso in varie parti, magazzini, tornitori, fresatori, uffici, una galleria tutto al piano terra.