Rossetti Sergio

Sergio Rossetti

Nato nel 1927 a La Spezia

Intervista del: 09.06.2000 a La Spezia realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 12 – durata: 80′

Arresto: 21 novembre 1944

Carcerazione: a La Spezia: nella Caserma Flage e nella Caserma XXI Reggimento Fanteria; a Genova, nel carcere di Marassi

Deportazione: Bolzano, Mauthausen

Liberazione: 5 maggio 1945 a Mauthausen

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io  mi chiamo Rossetti Sergio, sono nato a La Spezia il 23.12.1927.

D:  Sergio, quando ti hanno arrestato?

R: Io abitavo in un paese vicino a La Spezia, a Buonviaggio, un paese bello, anche il nome lo dice, e tutte le mattine partivo per andavo a lavorare in Arsenale, nello stabilimento militare. Si andava a piedi da Buonviaggio a Migliarina dove si pigliava il tramvai.

In un posto distante da casa mia due chilometri ad un bivio c’era un posto di blocco della Guardia Nazionale Repubblicana. Vidi alcuni miei conoscenti fermi sul ponte della Dorgia, ma non ci feci caso.

Al tempo avevo appena 17 anni, ero ancora ingenuo, non avevo l’esperienza dei ragazzi di oggi.

Difatti mi fermarono e mi misero insieme agli altri amici che conoscevo – Boni Alfredo, Chella Rino, Morelli Vittorio, Baroncelli Antonio e Monteverdi Giuseppe, di un paese vicino. Restammo fermi una mezz’oretta; quando videro che il gruppo si era formato, ci incolonnarono tutti lungo la statale cosiddetta della Cima, e dal ponte andammo in uno stabilimento militare distante 500 metri.

Era un deposito di mine e siluri della Marina, ci portarono là, era chiamato la Flage.

Cominciarono i primi interrogatori, ci chiamavano uno alla volta; venne il mio turno, andai dentro, c’era una scrivania, due borghesi e due militari ai lati. Vollero sapere come mi chiamavo, dove abitavo, quanti eravamo in famiglia, di che religione, la politica. Dissi che lavoravo in Arsenale, avevo anche il documento per poter entrare; quando mi chiesero gli anni dissi: “Faccio 17 anni a dicembre”.  Mi arrivò uno scappellotto sul collo e un calcio nel sedere e mi disse: “Tu sei troppo giovane, mettiti faccia al muro”. Quando anche gli altri finirono l’interrogatorio, ci caricarono su dei mezzi coperti con teloni, e ci portarono alla caserma del 21° Reggimento Fanteria.

D:  Quando ti fecero l’interrogatorio e chi lo ha conduceva?

R:  Il 21 novembre 1944, il giorno del grande rastrellamento di Migliarina.

Lo stesso giorno in cui mi fermarono subii questo primo interrogatorio alla Flage.

D: Da parte di chi?

R: Non lo so. Erano due borghesi e due militari della Guardia Nazionale Repubblicana, non so chi fossero. Di politica non mi sono mai interessato. Andavo a lavorare, però avevo ancora il carrettino con le ruote per divertirmi, lungo la strada. E pensare che in tempo di guerra mio padre era stato richiamato, si era fatto la guerra di Grecia e d’Albania, dopo aveva fatto domanda di rimpatrio per famiglia numerosa – eravamo quattro sorelle e due fratelli in casa, un fratello nacque nel 1944. Voglio dire che non si era fascisti ma si viveva la nostra vita normale. Ci portarono sugli automezzi, non so se cinque o sei, al 21° Fanteria. Ci misero nelle celle, ricordo che ero solo in cella; dopo mi misero insieme a Baroncelli, che era con me la mattina del posto di blocco.

La sera ci chiamarono ad un altro interrogatorio, che era normale. Botte non ne presi, anzi, mi levarono sciarpa, stringhe e fazzoletto: dicevano di aver paura che ci si potesse strozzare. Stetti due giorni in caserma, si aspettava che facessero il loro lavoro, però nella notte si sentivano urla, schiamazzi, passi di scarponi: si vede che qualcuno voleva sapere i nomi di partigiani, si sentiva urlare, sbattere le porte e tutto. Finito al 21° Fanteria, il giorno 22 o 23 novembre, ci caricarono su automezzi coperti e ci portarono al ponte Pirelli, un ponte militare; lì caricavano e scaricavano munizioni, vicino c’era il binario che andava alla polveriera Vallegrande. Tutti in fila; una motozattera ci aspettava. Insieme a noi c’erano un certo Vigilante Giuseppe, commissario di pubblica sicurezza, e un certo Carrè, che era un becchino dell’ospedale; l’avevano accusato di nascondere armi sotto le tombe, invece non era vero. A loro non interessava niente, volevano che dicesse dei nomi per andarli a prendere e far loro confessare certe cose. Ricordo il povero Vigilante, che era un uomo sulla sessantina, entrare nella motozattera su una scaletta; io avevo 17 anni e cercavo di evitare le botte che davano mentre si passava sulla scaletta, ma il poveretto rimase con la gamba tra la scaletta e la parete. Si rovinò la gamba, alla bell’e meglio lo sdraiammo nella motozattera. Partimmo di sera, verso le cinque, ed arrivammo via mare al porto di Genova. A Genova ci caricarono sugli automezzi e ci portarono alle carceri di Marassi. Ci portarono subito nelle celle, ricordo che ero sempre con Baroncelli, un vicino di casa, eravamo cresciuti insieme. A Marassi stemmo dal 23 / 24 novembre fino al 12 / 13 gennaio (1945). Una mia sorella mi portò il corredo, un baule di roba con cappotto, giacche, scarpe, magliette, tutto l’occorrente, perché si diceva di andare a lavorare in Germania. Nelle carceri di Marassi davano una sbroda e il pane, si tirava avanti. Dopo arrivò il momento dell’interrogatorio; siccome andavano in ordine alfabetico, vidi portare su due o tre che per le botte prese tornavano gonfi. Tanti non volevano confessare, ma loro imponevano: “Tu hai fatto questo, hai fatto quest’altro”. Come potevo confessare cose che non avevo fatto? Ti picchiavano per poter cavar qualcosa. Dopo capitò il mio turno: andai dentro, c’erano Battisti e Morelli, due della polizia giudiziaria che picchiavano davvero; poi c’era un tedesco che scriveva a macchina e un altro militare, non so di che rango né se fosse italiano o tedesco. Ero in piedi e ai lati c’erano questi due con due nervi in mano, mi ricordo.

Vollero sapere nome e cognome, dove lavoravo, la famiglia, la religione, il solito interrogatorio che avevo fatto la prima volta, era già tutto predisposto e programmato. Dietro me c’erano gli accusatori: poveracci, anche loro erano stati picchiati, facevano il doppiogioco. Quando ti fanno delle torture dire di no costa ancora di più, è così che ti accusavano. Mi accusarono di questo: il prete di Migliarina mi avrebbe dato un fucile, avrei lanciato dei manifestini,  sabotato i magazzini di Ceparana ed ucciso uno della Guardia Nazionale dietro una batteria dove vivevo. Insomma mi diedero sette condanne. Quando dissi: “Ma io sono un ragazzo, vado a lavorare in Arsenale, cerco di fare il mio dovere”, mi arrivò un calcio negli stinchi. Dico la verità, non dico che mi hanno bastonato, mi è arrivato un calcio negli stinchi e basta. Dovetti firmare il foglio, la mia condanna a morte, come fecero tutti. 99 su 100 firmarono: sotto tortura, chi non firma? Così finì l’interrogatorio e ci riportarono in cella. Certi giorni si stava in due in cella, dopo ci cambiarono cella e si stava in quattro, dopo in otto. Arrivarono il giorno di Natale, il primo dell’anno, l’Epifania e il momento della partenza. Tornando indietro, devo dire che Marassi era una riserva: quando ammazzavano qualcuno lo pigliavano da lì, come dalla Casa dello Studente; a noi andò bene.

Arrivò l’ora della partenza; una mattina ci misero in colonna tutti quanti, riempirono due corriere, ammanettati sinistro con destro come tanti briganti, legati con la catena. Tutti avevano le valigie, chi ne aveva due chi una, ma più o meno avevano tutti due valigie. Povere donne: le mogli, le sorelle, le fidanzate, che avevano fatto a piedi La Spezia – Genova sotto la galleria, col treno, perché sulla strada non potevano passare, cercando di portare la roba ai familiari.

Sulla corriera noi si era accompagnati da tedeschi in licenza, sempre con il fucile puntato alla schiena; lungo il percorso, al Passo dei Giovi, il camion si fermò perché ce n’era un altro che impicciava; allora due dei nostri scapparono: un certo Moscatelli di Migliarina e un certo Taddei e non li ripresero.

Ripartimmo ed arrivammo a Trento. A Trento ci fermammo per fare i nostri bisogni, legati insieme. E’ vero che si era tutti uomini, però un po’ di pudore ci vuole anche tra uomini.

Un certo Tosetti del Filettino e un altro tentarono la fuga ma li presero e diedero loro tante di quelle botte!

Quando arrivammo a Bolzano li misero nelle celle di rigore; li picchiarono forte davvero! Dopo li portarono con noi a Bolzano.

Arrivati a Bolzano, fummo scaricati. Avevo il numero, mi sembra 8.800 e tanti, non mi ricordo di preciso, e il triangolo rosso. Per prima cosa ci fecero i capelli da zucca pelata. A Bolzano si viveva, non c’era pericolo, ci passavano poco mangiare e stavamo lì, aspettando la manna dal cielo. Anche lì arrivò il giorno della partenza. Ricordo che era il 31 gennaio 1945, tutti in fila eravamo mi pare 640 o 650, con le valigie in mano, guardati sempre dai tedeschi e dai cani al guinzaglio; il cane per loro era familiare, era la base principale. A Bolzano sembrava di costeggiare la ferrovia, distante abbiamo visto un treno merci; ricordo che sopra il tetto di una grande fabbrica ho visto la scritta Lama Bolzano. Mi ricordo che era il 31 gennaio 1945, era tutto bianco di neve.

D:  Quando eri nel campo di Bolzano ricordi di aver visto delle donne?

R:  Sì, c’era un muro divisorio di mattoni e di là c’erano le donne.

D:  Hai visto se c’erano dei religiosi, nel campo?

R: Tornando indietro a Genova, c’erano 8 preti, tra cui padre Pio di Mazzetta, don Mori de La Scorza, don Scarpato di Fossa Mastra, don Casabianca di Ceparana e don Bertoni, non so di che parrocchia. Al povero padre Pio, che era un frate di quelli bianchi, un omone così, mettevano i morsetti ai polsi per farlo confessare, e cercavano di stringergli le braccia per farlo parlare. Non so se parlò perché i religiosi erano divisi da noi.

D: A Bolzano invece non ricordi di averne visti?

R: A Bolzano quelli che ho nominato non sono venuti, forse sono venuti dopo nell’ultimo trasporto, però con noi non c’erano. A Bolzano per dire la verità li avrò visti, però non mi ricordo.

D:  Quindi ti hanno portato dove c’erano i vagoni?

R: Per farci salire sul vagone fecero uno scalone di legno, però ai lati c’erano sempre gli aguzzini che cercavano di picchiare coi calci, con il moschetto, con le mani, con tutto. Io avevo 17 anni e cercavo di … però c’era gente anziana, malata, zoppa, che purtroppo subì quello che subì. Dentro il vagone trovammo tanta paglia; penso che fossimo una settantina, e nel nostro vagone c’era Vigilante, poverino, con la gamba menomata e l’altro, Carrè il becchino, che è morto durante il percorso ed era già moribondo alla partenza. Ci caricarono e via. Vedevi neve, neve, tutto neve. Facemmo quattro giorni e quattro notti senza mangiare e senza bere; si mangiava la neve attaccata al treno; in quei quattro giorni e quattro notti io non mangiai niente. Dentro il vagone, in un angolo, c’era un mastello per i nostri bisogni. La nostra destinazione era ignota, andavamo a lavorare ma dove precisamente non si sapeva. A forza di camminare il treno arrivò alla stazione. Ricordo che prima che il treno si fermasse, si iniziavano già a sentire urla di cattiveria, fare presto, sbrigarsi, insomma si vedeva dai movimenti, si vedevano tedeschi e cani al guinzaglio. Arrivammo in questa stazione, uscimmo tutti. Alla stazione si vide la scritta Mauthausen, pensavo di andare in riviera come qua a Manarola, a Rio Maggiore, a Vernazza. Non si sapeva mica che Mauthausen era rinomata per quel campo. Ci misero tutti insieme, cinque con le nostre care valigie in mano; invece di fare la strada principale di Mauthausen ci fecero fare una secondaria, piena di neve, sterrata. Ai lati della strada c’erano donne, uomini, bambini, vecchi. Quello che non ci arrivò addosso … palle di neve, pezzi di sassi, sputi, Badogliani, traditori, insomma tutto quello che potevano vomitare vomitarono. Andammo su piano piano, dalla stazione al campo ci saranno 5 / 6 chilometri, tutto era coperto di neve, non si vedeva niente, alberi e basta. Lungo il percorso si vedevano uomini vestiti zebrati, però non pensavo che fossero prigionieri; man mano che si andava avanti si vedeva anche di più: spalavano, pulivano la strada, li vedevo magri, con gli occhi infossati, la zucca pelata, guardati dai tedeschi. Man mano che si avvicinavano vedevamo grandi camini fumare, un grande muraglione.

Dopo si arrivò alla porta d’ingresso del campo. Prima entrammo dai depositi dell’attrezzatura tedesca.

Una parte di noi era rimasta in quel perimetro grande, e una parte su una scaletta a destra entrò proprio nel campo di concentramento. Si entrò dalla porta, girando a destra; dopo andammo verso il muro del pianto.

Entrando nel campo girai la testa e vidi attaccato alla catena dell’ingresso un uomo ma non vidi se era legato; pensai che fosse fermo lì, invece poi vidi che era legato con una catena. Lo avevano messo come esempio: se uno non fosse stato agli ordini del campo sarebbe andato a finire lì per punizione! Arrivati nel piazzale c’erano 30 / 40 centimetri di neve, un manto bianco; penso che saremmo stati in 300, una parte rimase sotto ad aspettare il turno.  Venne il tedesco a parlare con l’interprete e ci fece depositare tutte le valigie.

Pensa quanta roba rubarono! Ognuno aveva una valigia o due, il vestiario, la biancheria, può darsi anche soldi, roba da mangiare, tanti la tenevano. Vedevano che c’era gente che non mangiava però – fa parte dell’egoismo – se la tenevano, ma quando arrivammo al campo ci portarono via tutto.

Depositammo le valigie, seguì un altro ordine: spogliarsi tutti nudi, levarsi gli indumenti, tutti. Uomini, grandi, piccoli, vidi scene un po’ commoventi. Recentemente, quando il Papa è andato in Israele ha visitato il Muro del Pianto: ma era quello di Mauthausen il vero muro del pianto!

Ho visto uomini anziani depositare catenine, anelli, portafogli, volevano tenersi una fotografia della moglie o del figlio, niente, lasciare lì. Guai se trovavano qualcosa addosso, erano punizioni tremende, infatti lasciarono tutto. Fatto questo andammo tutti in fila giù per una scaletta senza sapere dove, sempre destinazione ignota; ai lati della scaletta c’erano non militari ma borghesi, prigionieri come noi, e cominciammo ad assaggiare le botte del campo. Infatti entrammo, c’erano i barbieri con le macchinette, testa pelata, a me fecero la Strasse in mezzo, tutti i peli sulle braccia rasati; dopo le docce, acqua calda e acqua fredda. Si divertivano anche; finché era calda, bene ma quando era fredda, era pur sempre il 4 febbraio.

Finito questo programma pensai: “Ora ci daranno un asciugamano”, ma niente. A 50 metri c’erano due con dei pennelli, facevano un segno e dicevano che fosse disinfettante. Poi tornammo fuori dove ci avevano spogliati. Mi ricordo che presi un paio di pantaloni e una camicia, mutande niente, un paio di zoccoli con la striscia. Dopo mi capitarono un paio di zoccoli un po’ più robusti e li presi. Finimmo di vestirci alla bell’e meglio e ci portarono al blocco di quarantena. Io ero nella prima baracca, forse la 22; dopo c’era il muro perimetrale che divideva la quarantena. In baracca ci misero a dormire; i pagliericci avevano 3 centimetri di spessore. Alla mattina presto cominciai a sentire urlare, con i nervi in mano; prima di uscire e andare fuori all’aperto passammo sotto i lavandini tondi tipo militare con tanti rubinetti: a  petto nudo a bagnarsi testa, torace, schiena. Non c’erano gli asciugamani che si usano in casa, solo con la camicia e fuori all’aperto.

Dopo un po’ ci diedero il primo caffè, chiamiamolo caffè ma era acqua calda; lo bevemmo perché l’acqua calda faceva bene. Dopo fecero cominciare l’appello, tutti in fila, la mia prima volta che subii l’appello nel campo di Mauthausen, prima l’avevo subito a Bolzano. Tutti in fila, prima fecero le prove con il cappello, Mütze ab, Mütze auf dovevano sentire un colpo; un paio di volte lo ripetemmo, e dopo alla bell’e meglio lo facemmo.

D: Quando ti hanno immatricolato?

R: Finito l’appello, verso mezzogiorno, diedero la zuppa, tutti in fila; si cercava sul fondo dove era più densa, però a volte di capitava e a volte no. C’erano tanti prigionieri ma una gamella a testa non c’era; erano gamelle smaltate, tutte rugginose, brutte, io in tre mesi a Mauthausen il cucchiaio non l’ho mai visto, si mangiava con le mani: bisognava far presto a mangiare perché gli altri aspettavano che finissi per passargli la gamella, si doveva pulire bene perché c’era solamente quella.

Finito il mangiare di mezzogiorno arrivava la sera. Alla sera davano il pane, si mettevano fuori vicino al tavolo, tagliavano questo pane a fette, non so se era di 1 o 2 centimetri, davano un pezzetto di margarina, un po’ di marmellata o qualche pezzetto di salame, il pranzo era questo. Quando avevano finito di tagliare il pane sulla coperta la sbattevano e tutti le saltavano addosso per mangiare le briciole.

Quando racconto questi episodi nelle scuole mi guardano un po’ strano e dicono: “Ma questo cosa racconta?” A tante cose è difficile credere, magari a scuola non le hanno insegnate, però sono cose che ho visto e vissuto.

Finito di mangiare il pane si andava in branda in baracca, ma prima di entrare ci dovevamo spogliare, fare il nostro cuscino, andare dentro tutti in fila, e non mettersi con la pancia per aria, comodi sui pagliericci, ma a lisca di pesce, testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi… Non eravamo solamente tutti italiani, c’erano anche francesi, tedeschi, polacchi, russi, non ci capivamo, non si poteva dire: “Spostati un attimo”. Se urlavi era un parapiglia; lasciavamo un corridoio per chi di notte andasse a fare i bisogni. C’erano i gabinetti, con i lavandini ed anche i water, però non ci sono mai andato. Dietro c’erano i bidoni o una fossa con una tavola di traverso; i nostri bisogni li facevamo lì.

Nel blocco rimasi dal 4 febbraio fino al 5 maggio, sempre così. Fu la mia fortuna, io avrò lavorato in tutto quindici giorni, mi chiamarono a fare delle fosse con picco e pala, non so se erano delle fosse comuni o fosse che interessavano a loro.

D: La tua immatricolazione?

R: L’immatricolazione non ricordo come sia andata; era una striscia bianca col numero, io avevo il 126.404 con il triangolo rosso e la sigla IT; davano una piastrina di ferro legata col filo che mi rimase per ricordo, ce l’ho nella borsa se dopo la volete vedere. Nel periodo della quarantena una volta ci portarono sotto un grande tendone in fondo al campo; c’era una porticina di legno, sulla destra ora c’è il museo.

Una volta vennero i tedeschi coi cani dietro a questa porticina del tendone grande come i tendoni da circo. Non so per quale motivo, ma stemmo due giorni lì dentro, e dopo ci riportarono nel blocco.

A volte mi dicono: “Ma tu sei ritornato a casa!” Ragazzi, che ci posso fare? Ci sono diverse cose da raccontare. Nel blocco di quarantena un giorno mancavano due deportati all’appello. Erano due come noi e stemmo quasi tre o quattro ore fermi all’appello; girarono dappertutto e li trovarono. Li portarono dentro: la porta dove adesso c’è un cancello una volta era chiusa e di legno, vedevi solamente baracche e cielo, baracche e cielo.  Li presero per il petto, li buttarono contro il muro perimetrale del campo, rimasero un giorno e mezzo lì, morti così.

Quando vado là porto i ragazzi e racconto loro questo particolare che mi è rimasto impresso, e tutte le volte metto un paio di fiori nel campo, perché erano deportati come noi.

D: Dicevi di essere uscito alcune volte per andare a fare dei lavori; uscivi dal campo?

R: Sì, però non sapevo dove andassi, andavamo a circa 100 / 200 metri, sempre guardati dai tedeschi in divisa, non sapevamo dove ma eravamo proprio fuori dal campo.

D: Il momento della Liberazione dove ti trovavi?

R: Voglio raccontare un altro particolare. Quando ero nel blocco di quarantena, ogni tanto venivano i tedeschi a cavallo coi cani, ci facevano girare intorno al perimetro della baracca, lo facevano apposta per eliminare noi deportati. Nella mia baracca c’erano diversi italiani tra cui diversi spezzini che man mano andavano a lavorare fuori o cambiavano baracca o morivano. Rimasi l’unico spezzino con un certo Bonati Fabio di vicino Migliarina, che aveva 24 anni ed era ben messo. Ciononostante cominciò ad ammalarsi, lo vedevo tutti giorni deperire; quando facevamo l’appello cercavo di stargli vicino e di aiutarlo per quello che potevo fare. Vedevo però che non ce la faceva, vedevo che ormai era sfinito; ad un certo punto cascò vicino a me e mi disse: “Vai via che io non ce la faccio più”:  lo lasciai e non lo rividi più.

Sono due cose che mi sono rimaste impresse.

D: La Liberazione te la ricordi?

R: La ricordo perché un paio di giorni prima qualcosa era migliorato, non si vedevano più le solite angherie. Vedevo che i morti aumentavano, e ogni tanto alla mattina cinque o sei erano morti, si portavano su e poi arrivava il carretto che li portava via. Non si sapeva dove li portassero, perché noi il crematoio l’abbiamo visto quando ci hanno liberato: si vedeva il camino fumare ma non si pensava ai cadaveri, era tutto misterioso. Prima della Liberazione erano cambiate anche le sentinelle, non si vedevano più le SS bensì le cosiddette guardie territoriali; non c’era più la cattiveria di prima.

La Liberazione fu il 5 maggio (1945), lo sapemmo dopo che era il 5 maggio; lì si perdeva anche il nome dei mesi e non si sapevano i giorni della settimana. Sentivamo le grandi urla della folla, tutti i deportati andavano nella piazza principale del campo. Vedemmo una camionetta militare con sei soldati a bordo con l’elmetto, non con le divise marziali dei tedeschi. Avevano lanciato roba da mangiare, sigarette, scatolette, caramelle.

Io qualcosa arraffai ma c’erano migliaia di persone, come facevi?

Al giorno della Liberazione tutti i deportati si radunarono: incontrai Vasoli, Tartarini e Carassale, questi tre. Uscimmo dal campo ed andammo nelle cascine dei contadini: c’era una cascina che si vede ora dal museo, mi feci anche una foto, la vedi se ti arrampichi sul muretto. Parlavano tedesco ma i gesti … 

Iniziai a mangiare, portarono pane, uova, una zuppiera di carne di maiale. La notte dormimmo nel fienile ed alla mattina andammo in un’altra cascina. Mentre facevamo questo percorso si sentivano gli altoparlanti in diverse lingue: “Tutti i prigionieri sono pregati di ritornare nel campo perché presto ci sarà il rimpatrio”.

Tornammo. Avevo un fagottino con della roba, non ricordo se pane o uova: all’entrata del campo c’era un Militar Police con casco e fucile: mi portò da due o tre militari che mi buttarono in cella di rigore. Ci stetti  un quarto d’ora e poi mi lasciarono andare. Tornammo al nostro blocco, sempre con questi tre amici di Migliarina. Ci diedero pacchi americani con tanta roba, minestra in scatola, noccioline, cioccolate, sigarette, latte in scatola ma l’istinto della fame! Tutti i deportati che erano usciti, dopo che il campo era stato liberato, entravano con le mucche alla corda, con pecore, conigli, galline, tutto. Però non potevano entrare nel campo, i militari li fermavano, dopo chiamavano i contadini che venissero a prendersi la roba. Diedero due o tre giorni di carta bianca, vidi scene terribili.

D: Sergio, quando e come sei rientrato in Italia?

R: Siamo partiti il 2 giugno 1945, quanti ne abbiamo oggi? 55 anni fa ero per strada che stavo ritornando. Un po’ sui camions militari americani con la pedana a destra e a sinistra, un po’ in treno, un po’ a piedi. Ricordo che arrivammo in un posto di ristoro, era un campo francese, dissi a Vasoli: “Ma guarda un po’, dopo sei mesi si dorme in un lenzuolo bianco”. Ci trattarono bene, si mangiava, ci stemmo un giorno e dopo ripartimmo. Ci fermavamo nei posti di ristoro; a Innsbruck ci misero in un campo pieno di pulci e pidocchi, ma non c’era altro posto.  Venivano gli americani con le pompe a disinfettare. Dopo ripartimmo per l’Italia, su questi camion militari. Si vedevano la bandiera italiana e la bandiera austriaca e l’autista disse: “Siamo arrivati in Italia”. Allora scendemmo tutti a baciare la bandiera italiana.

A raccontarle sono cose molto tristi. Arrivammo a Bolzano, ricordo che dove ci eravamo fermati col camion c’era un ciliegio, strappammo i frutti e li mangiammo. Prima di ripartire ci portarono in ospedale, ci visitarono. Mi avrebbero dovuto trattenere perché ero molto deperito ma dissi di voler andare a casa a trovare i miei. A camminare facevo fatica perché ero debole, però volevo andare a casa mia.

Da Bolzano partimmo in treno, che ad un certo punto si fermò perché non poteva più andare avanti. Allora siamo andati con le corriere fino alla stazione centrale di  Milano. A Milano andammo in un punto di ristoro, ci fecero mangiare e bere; poi arrivammo a Genova alla Curia vescovile: io, Vasoli, Tartarini e Carassale, girammo per la città e arrivammo a Prè. Vedendo il nostro aspetto tutti dicevano: “Ma da dove venite così mal ridotti?” “Veniamo dalla prigionia, veniamo dal campo di Mauthausen”. Fecero una colletta che ci siamo divisa un po’ per uno. Da Genova a La Spezia abbiamo preso un camion che andava verso Livorno. Siamo arrivati a La Spezia nella Piazza del mercato, davanti al bar chiamato “Bar Spezia”. Siamo scesi lì verso mezzanotte, abbiamo diviso il nostro gruzzoletto di soldi e ci siamo salutati dirigendoci verso le nostre case.