Limentani Mario

Mario Limentani

Nato il 18 luglio 1923 a Venezia

Intervista del: 05/09/2000 a Roma

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 50 – durata: 42:21

Arresto: ottobre 1943 a Roma

Carcerazione: a Roma

Deportazione: Dachau; Mauthausen; Melk; Ebensee

Liberazione: maggio 1945 a Gusen 2

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Limentani Mario sono nato a Venezia il 18-7-1923. Nel ‘37 sono venuto a Roma con la mia famiglia; nel ‘38 hanno messo le leggi razziali. Ci hanno levato la scuola, il lavoro, chi aveva una licenza gli è stata levata; insomma noi non facevamo più parte dell’Italia, il soldato non si poteva fare. Poi venne il 1940 quando l’Italia entrò in guerra, essendo ebrei eravamo esclusi. Poi venne l’8 settembre vennero i tedeschi a Roma. Verso la fine di settembre Kappler si presentò alla nostra comunità israelitica di Roma, chiedendo entro ventiquattro ore cinquanta chili d’oro altrimenti prendeva cento uomini e li portava in Germania a lavorare.

Ci siamo dati da fare, cinquanta chili d’oro in ventiquattro ore erano un po’ elevati, però siamo riusciti, anche con la cooperazione dei cattolici, che si sono presentati in tanti dando ciò che hanno potuto dare. Abbiamo consegnato questi cinquanta chili d’oro credendo che ormai per noi non c’era più paura. Invece il 16 ottobre alle ore 4,30 di mattina, circondarono il rione ebraico e vennero per le case. Io abitavo in via della Reginella n. 10, proprio nel quartiere ebraico. A casa mia, per fortuna, avevo a parte della cucina, un cunicolo che andava giù, un nascondiglio in cui c’era una cantina. Noi uomini ci siamo calati credendo che portavano via solo gli uomini, invece quando ci siamo calati le donne hanno cominciato a strillare … portavano via pure le donne, ammalati, vecchi, bambini; allora sono risalito con mio fratello ho preso mio padre, mia madre, tre figlie di mio fratello e siamo scesi. Poi non vedendo mia cognata sono risalito, aspettava il quarto bambino, era incinta di pochi mesi, salii e feci: “Vieni giù”. “No, non vengo giù”. Non ce la faceva con la pancia, poi non voleva lasciare il padre, la madre e una sorella. Mentre io convincevo mia cognata, sentivo con il calcio del fucile che buttavano giù la porta e allora mia cognata ha detto: “Vattene”. E io mi gettai giù. Siamo rimasti là qualche ora; da sotto vedevamo passare tutta questa gente, poi siamo risaliti e non c’era più nessuno. Non c’era né oro, né soldi perché gli avevano detto su un foglietto in mano: “Se avete oro soldi e biancheria, portatevela appresso perché dove vi portiamo vi può essere utile”. Quella mattina presero 1.222 persone, tra le quali 400 uomini, 400 donne e 222 bambini. Da quella spedizione ritornarono un solo uomo e una sola donna. Neanche un bambino di quei 222, neanche un bambino.

Io ero scappato con mio padre e mia madre ed eravamo andati in una zona qui vicino, abbiamo preso in affitto un bunker, quello dove mettono le macchine; io e mio fratello dovevamo uscire per rimediare i soldi per dare da mangiare a sette persone. Per fortuna mio fratello aveva un amico e gli ha dato dei documenti falsi, io invece no.

Un giorno passai per la stazione in via Cernaia, sarebbe qua di dietro, camminando ho visto tre persone che stavano attaccate al muro, ma non potevo più tornare indietro, perché sennò… ma io con la coda dell’occhio ho visto che erano fascisti. Camminai e quando passai, questi mi fischiarono; io feci: “A me?”. “Sì, vieni qui, documenti”. “Guarda mi sono cambiato i calzoni, i documenti non li ho”. Allora quello dimezzo ha fatto un cenno con la testa, mi hanno messo in mezzo a questi due … “andiamo dentro il portone, prendiamo le generalità e poi te ne vai”. Vedevo che passava il tram numero 4 che andava dalla stazione in via Po. Feci una franconata, avevo venti anni e mezzo, ero un ragazzo ancora snello, vedevo che il tram veniva giù – i tram a quei tempi erano aperti – così, io mi inchinai, mi presero per le caviglie, avevo le mani in tasca e mi buttarono per terra. Corsi, stavo per prendere il tram e ho sentito una rivoltella qui sulla nuca, fece “Stai fermo che ti sparo”. Le gambe mi tremavano, anche se ero giovane sentirmi una rivoltella alla testa … e mi portarono in via Montebello, alla questura. Mi levarono la cravatta, tutto quanto, fece “Tu non avevi i documenti”, mi dettero uno schiaffo, lungo per terra. Mi portarono in camera di sicurezza e c’erano un’altra quindicina di ragazzi come me e mi hanno domandato “Come ti hanno preso?”. Quando è stata la sera ci hanno portato su al primo piano. C’era il maresciallo, entrarono questi ragazzi uno per volta e uscivano con un bigliettino in mano, avevano un’ora di tempo per arrivare a casa e c’era il coprifuoco. Arrivò il mio turno, mi guardò, poi guardò un libro “Limentani Mario, prego si metta seduto”; disse “Tu sei ebreo?”, Sissignore sono ebreo, c’è qualcosa di male? Sai dove ti mandiamo noi?”. M”e lo dica lei, io non lo so”. Mi hanno preso ma non so il motivo. “Ti mandiamo in Germania a lavorare”, “Mandatemi in Germania”. Mi fece una proposta. Dice: “Senti, ti dò la parola d’onore che ti lascio, però devi fare una cosa”. “Mi dica, se posso volentieri”. “Dimmi dove sta tuo padre, tua madre, tuo fratello e tre nipoti”. Questo di me già sapeva tutto. Dapprima stetti zitto, poi disse: “Allora?”. “Senta, già che io alla sua parola non ci credo, per carità, perché un italiano che mette in mano a un altro italiano per cinquemila lire a persona, per me lei l’onore non ce l’ha”. Dice: “Guarda che … faccia quello che gli pare”. “Ammesso e non concesso che lei abbia la parola, mi lasci per prendere sei del mio sangue, no, invece che cinquemila ne prenda trenta, lasci perdere”. Allora si arrabbiò, diede un cazzotto chiamò il piantone e disse: “Portalo a Regina Coeli. Arrivai alla porta, mi rivoltai e gli feci un segno col ditino, così. Dice: “Che significa quel segno? Lei deve pregare Dio che non ritorno, perché se ritorno la mando all’altro Paese”. Da lì mi hanno mandato a Regina Coeli, blocco n. 5. Ci stetti un po’ di giorni; il 4 gennaio del 1944 alle quattro e mezza di mattina ci dettero la sveglia, ci hanno incatenato cinque per cinque e ci hanno portato alla stazione Tiburtina, ci hanno caricato, ci hanno messo dentro un vagone, settanta persone per vagone, ci hanno rinchiuso. Solamente una ventina si potevano mettere seduti, abbiamo viaggiato, siamo partiti, abbiamo fatto due giorni e due notti per arrivare a Monaco di Baviera. Siamo arrivati verso mezzanotte e siamo andati  al campo di concentramento di Dachau, ma ancora non sapevamo nulla. Credevamo di andare in un campo di lavoro come avevano detto, ci hanno rinchiuso dentro la baracca delle docce, ci hanno lasciato là un po’ di giorni, non sapevamo nulla ancora; poi la mattina ci svegliarono, ci hanno preso e siamo arrivati a Mauthausen, l’11 gennaio del 1944 verso le undici, mezzogiorno.

D: Scusa Mario, a Dachau non vi hanno fatto la spoliazione.

R: No, niente, non ci hanno dato matricola. Non sapevamo niente perché eravamo dentro la baracca ma non si vedeva niente. Arrivati a Mauthausen, sulla destra dove c’è il muro del pianto ci hanno messo lì e ci hanno fatto l’appello. Ancora non sapevamo, non si vedeva niente, la neve alta, un freddo, 20 gradi sotto zero. Ogni qualvolta che chiamavano un ebreo si faceva uscire dalla riga e ci hanno messo sulla baracca dove sotto ci sono le docce. Eravamo solo 11 ebrei su 480 italiani. Ci mettono in fila addosso al muro, ci misero con le spalle sopra la baracca e si presentò uno delle SS Sarà stato due metri, aveva le spalle, era un colosso. Mentre i nostri compagni andavano giù un po’ per volta a tagliarsi i capelli, tutti vestiti, questo mi chiamò per prima, mi disse: “Sprechen Sie Deutsch?”. Ma non sapevo cosa, però col dito faceva così. Ho capito, sono uscito e mi sono messo … mi fa: “Parli tedesco?”. E io non rispondevo, non sapevo. Un collega nostro, certo Renato Pace, fece: “Mario, ti ha domandato se parli il tedesco”. Non sapendo dove eravamo caduti, risposi un po’ sgarbato: “Ma che mi importa a me, non so quasi l’italiano!”. Alzai le spalle e dissi: “No, non parlo il tedesco”. Non glielo avessi mai detto: mi dette un cazzotto mi mandò lungo per terra, mi rialzai, mi ha riempito di cazzotti, di calci. Per fare breve il discorso, per cinque sei ore di seguito fino all’ultimo che andavo a fare la doccia, cominciava col primo e finiva con il secondo poi ricominciava con me; insomma avevamo la faccia gonfia, usciva il sangue dagli occhi, dal naso, dalle orecchie dalla bocca, dappertutto; gli occhi erano diventati così non ci riconoscevamo più uno con l’altro. Finito di far la doccia ci hanno levato i vestiti, i capelli, l’oro, quello che avevamo e ci hanno mandato a far la doccia, l’acqua era gelata. Finito di fare la doccia, ci hanno fatto uscire senza asciugarci, senza vestire; ci hanno mandato al blocco di quarantena che sta giù in fondo. Siamo entrati là e c’erano i nostri compagni, quando ci hanno visto questi poveracci “Ma che vi hanno fatto, perché vi hanno fatto così…”. E noi chiudevamo gli occhi e dicevamo non lo so; ci hanno dato il vestito e da quel momento non ho inteso più il mio nome.

Da quel momento il mio nome era “Zwei­und­vierzig­tausend­zwei­hundert­dreißig”, 42.230. Dovevamo imparare in pochi secondi altrimenti erano botte. La mattina presto ci hanno levato dalla quarantena e ci hanno mandato al blocco numero 5, il blocco degli ebrei. Entriamo dentro viene un francese, ci ha visto con la stella ebraica e ci ha detto: “Ma voi siete ebrei?”. “Sì”. “Ringraziate Iddio che ancora siete vivi”. “Perché?”. “Perché quelli che vi hanno preceduto li hanno subito eliminati”. “Ma scusa come li hanno eliminati?”. “Guarda là sotto”. Siamo andati sotto e abbiamo visto il fumo. “Ma che cosa è quello?”. “Sono usciti da là”. “Come sono usciti da là?”. “Quello è il forno crematorio”. “Ma perché? Non lo so”.

Quando è stato il giorno appresso sono venuti da Torino, il convoglio e invece c’erano cinque ebrei e li hanno mandati da noi, padre e figlio, due fratelli e un altro. Viene questo francese e fece: “Guarda, voi domani andrete a lavorare alla cava, però quando andate giù mettetevi sul lato destro, quando venite su mettetevi sul lato sinistro”. “Ma perché?”. Ho fatto io. “Lo vedrai domani mattina”. Effettivamente la mattina alle quattro sveglia, mi metto subito in fila, siamo stati due tre ore là in fila, per l’appello, poi hanno aperto il portone e siamo andati giù, e siamo arrivati alla cava … Effettivamente aveva ragione perché sulla destra non c’era il burrone, sulla sinistra c’era.. noi la chiamavamo la scalinata della morte, le SS dicevano invece che era il muro dei paracadutisti. Oltre cinquanta metri. Il nostro lavoro consisteva da dodici ore al giorno andare giù a mettersi sulle spalle un masso di granito di minimo venticinque chili, si doveva percorre questa scalinata in fila per cinque, non era che tu pigliavi il masso e andavi su, no, prendevi il masso dovevi mettertelo in spalla e poi aspettare la fila. Davano il via e andavano su e lì morivano tutti i giorni duecento, duecentocinquanta perché bastava perdere l’equilibrio … sa noi eravamo appena arrivati giovani di venti, sedici, diciotto anni, bastava che cadeva uno o sennò quando arrivavamo su le SS con il calcio del fucile ti davano una botta sulle costole tu perdevi l’equilibrio e cadevi. Finito il nostro lavoro noi ci dovevamo prendere i cadaveri metterli sulle spalle e andare su, c’era quello che contava, per modo di dire, cento persone, loro dicevano “einhundert Stück” significa che noi non eravamo più uomini, significa sono usciti “cento pezzi” e cento pezzi dovevano ritornare, perché se ne mancava uno stavi delle ore e ore. Noi portavamo questi cadaveri. Poi si posavano per terra, gli addetti ai forni crematori li pigliavano e ritornavamo alla baracca numero 5. Alla baracca numero 5 non c’erano le cuccette, come le altre baracche, si doveva dormire per terra, per modo di dire su una parete che poteva andare cento centocinquanta persone, ci doveva entrare duecentocinquanta. Perciò il capoblocco quando dava le bastonate, insomma … 

Un passo indietro, noi ebrei prima di entrare nella baracca ci dovevamo spogliare nudi, solamente con una camicia di cotone, fare il pacco dei vestiti, delle scarpe e lasciarli fuori sulla neve, può immaginare quando la mattina dovevamo… Il capoblocco aveva due modi per svegliarci, dipende da come si svegliava lui, o a suon di bastonate, aveva un coso di gomma o sennò con la pompa dell’acqua. Può immaginare, tutti bagnati uscire fuori in mezzo alla neve; era diventato legno, per fortuna è durata quattro mesi solo. Quattro mesi, ma erano quarant’anni, no quattro mesi. Da lì ci hanno mandato a Melk.

D: Scusa un attimo Mario, quando ti hanno dato il numero, l’immatricolazione da mettere sulla zebrata, vi hanno dato anche la piastrina per il polso?

R: Il polso e il collo.

D: Cioè?

R: Il fil di ferro con la piastrina di metallo, con il numero mio sul collo e il polso.

 D: A te che triangolo hanno dato?

R: La stella ebraica.

 D: E basta?

R: La stella ebraica gialla e rossa e sopra “it” che significa italiano.

D: Quando vi hanno chiamato per andare a Melk, è stata fatta una selezione?

R: No, una selezione no. La selezione l’han fatta dopo due mesi, poi vi racconterò. Andiamo a Melk, una bella passeggiata…

D: Con cosa siete andati a Melk da Mauthausen?

R: Siamo andati dopo quattro mesi e mezzo.

D: Sì, ma con cosa? Con cosa vi hanno portato?

R: A piedi. Da Mauthausen a Melk è una bella … perché Melk rimane vicino a Vienna, invece Linz …. Arriviamo a Melk ed era un campo, vicino c’era l’aviazione e lì i bombardamenti erano dalla mattina alla sera. Lì però ci hanno dato la cuccetta, eravamo insieme agli altri, non insieme … come a Mauthausen, però sempre la stella ebraica. Non solo eravamo ebrei, eravamo pure martirizzati dai prigionieri stessi perché eravamo oltre che ebrei italiani, ci chiamavano traditori. Lì si doveva uscire dal campo per andare a lavorare, dicevano che non sapevano che c’erano i campi di concentramento, eccome se lo sapevano, perché noi dovevamo uscire dal campo, un bel pezzo di strada vicino alla ferrovia. La mattina c’erano i bambini che ci aspettavano le donne e gli uomini anziani, invece di buttarci un pezzo di pane, ci sputavano addosso e ci buttavano le pietre. Poi sulla ferrovia si doveva andare a lavorare alla cava, era sulla montagna. Si facevano delle gallerie di sette chilometri l’una che poi combaciavano con quelle altre e lì facevamo dei saloni, là si lavorava…. Avevano bombardato le cose e non c’era più niente. E invece siamo andati a lavorare là. Si lavorava dodici ore di giorno e dodici ore di notte.

Le dico un particolare, quello che mi hanno fatto.

Lavoravo di notte, una mattina entrò una delle SS dentro la baracca ha preso venti ragazzi e in mezzo mi ci ha messo pure a me, si rivoltò e mi ha visto che avevo la stella ebraica e mi ha messo in mezzo. Io avevo un vizio che quando ci chiamava il capoblocco o le SS, mi mettevo sempre per ultimo, perché volevo vedere quello che succedeva davanti, tante volte chiamavano per andare a prendere la legna, e poi quando era ora della zuppa, ti davano quei due cucchiai di zuppa per noi era tanto. Anche quella mattina mi misi di dietro in venti in fila, arriviamo dentro una baracca, entra per primo un francesino snello, entra dentro gli strilli! ”Oddio che stanno facendo lo stanno ammazzando?”. Gli strilli proprio, pochi minuti dopo questo poveraccio esce fuori con la mano sulla bocca. “Ma che ti hanno fatto?”. Ha aperto la bocca gli hanno tolto tutti i denti, non gliene hanno lasciato uno; io sono stato fortunato, al tredicesimo ha buttato le pinze, mi ha mandato via “Geh weg”, “Vattene” perché si era stufato. Me ne ha tolti solamente dodici, puoi immaginare, là cominciai a buttarmi giù.

D: Vi toglievano i denti per quale motivo?

R: Per divertimento. C’era un dottore che stava così, passano le SS che fai? Te lo trovo io il lavoro. Tutti questi disgraziati, tutti i denti, poi a me a un bel momento mi squartarono la bocca, li toglievano, li strappavano proprio e buttavano giù: la bocca si era gonfiata, sono stato qualche giorno senza mangiare, mi pulivo con la neve; ecco perchè c’è la selezione. In quel tempo che ero a Melk, il forno crematorio ancora non funzionava, quando morivano mille duemila, li mettevano sui camion e li portavano a Mauthausen e là facevano la selezione. Sapevo che c’era la selezione, spogliandomi mi detti un paio di schiaffi qua, andavo da quello “Dammi un paio di schiaffi, ma dammi i cazzotti”. Vedeva che stavo bene, andavo là facevo così, facevo vedere che stavo bene, mi fa che ancora potevo lavorare. Vado io là “Linz”… ho visto il capoblocco sussurrava alle SS, mi fa “Torna indietro” , mi hanno messo al posto di ad… Ci portano di fuori e ci buttano sopra i cadaveri, arriviamo a Mauthausen…

D: Scusa un attimo Mario, tu a Melk nelle gallerie che lavoro facevi?

R: Dietro le cave, scavavo le cose e portavo fuori con il coso; specialmente la notte la bufera, quando più in là faceva freddo di agosto, può immaginare. Ci misero sopra i cadaveri. Come arrivammo a Mauthausen, quelli che erano ancora in vita, per terra sul muro della morte e quegli altri li portavano vicino al forno crematorio e li buttavano là. Si è presentato uno con un libro faceva: “Tu che sei italiano, francese”; siccome io qualche parola l’avevo capita, avevo imparato, bisognava imparare sennò erano botte, ho capito che cosa è successo; io presi mi strappai la stella ebraica, misi in saccoccia e mi buttai sulla destra. Cominciai a darmi un paio di schiaffi … quando venne da me fece: “Tu? Italiano”. Mi guardò mi mandò in infermeria. L’infermeria era fuori del campo, sulla destra, che adesso ci hanno fatto i monumenti, c’è una grande buca.

C’era un certo Paolino, spagnolo, che era capo cucina, mi conosceva bene, come mi ha visto, “Oh, Jud italiano!”. E io dissi una parolaccia perché parlava bene italiano; gli dissi i morti. “Ma che succede?”. Gli spiegai, “Va bene ti chiamerò italiano solo, va bene?”.  Mentre stavo parlando con lui, mi fa “Vuoi una sigaretta?”. Lui aveva le sigarette, ma non fumava; era un colosso puoi immaginare, le SS gli facevano: “Permetti una parola?” Lui faceva boxe, tutte le domeniche faceva boxe e mandava al creatore. E va bene dammi una sigaretta, mentre stava per rompere un pacchetto, ancora mi ricordo il nome “Zorro” erano piatte piccole, da venti, passa una SS “Paolino, permetti una parola?” “Eccomi”. Mi ha dato in mano le sigarette e mi ha detto: “Pigliati una sigaretta e mi dai il resto”. Come si allontanò mi squagliai e gli rubai le sigarette. Da lì mi salvai. “Ma come ti salvi con le sigarette?”. Sì, sono stato quasi un mese vendendo le sigarette, farne commercio una zuppa e facevo, compravo e vendevo, insomma dormivo, non lavoravo, mangiavo, non pigliavo botte, stavo bene no?  Quando erano cinque giorni andavi in infermeria ti guardavano e io avevo qui sulle gambe tutte rotte le piaghe; quando sapevo che dovevo andare a fare la visita, pigliavo e mi grattavo poi davo una pulita con l’acqua poi mi rifasciavo andavo là altri cinque giorni, stavo bene. Quando è stato l’ultima volta “noch eine fünfe” meno male altri cinque giorni, poi ci ripensò e disse “Vieni qua indietro, metti il piede qua sopra”, disse bandito, “Sei bandito, tu ci provi è quasi un mese che sei qua”; mi prese il numeretto, quando pigliavano il numeretto eri fritto, lui quando andava a Mauthausen faceva la dichiarazione e ogni due domeniche c’era l’impiccagione. Esco fuori da questa baracca e chi incontro? Paolino. “Ahoo non mi saluti più? Mi hai fregato le sigarette ..”. Non mi ha detto niente perché ha capito. “E manco mi saluti! Piantala, non stare a rompere. Aohh che ti è successo?” “Solo tu mi puoi salvare”. Gli ho fatto: “Un’altra volta? Che ti è successo? Così raccontai tutto. “Cosa vuoi da me? Che mi sei figlio? Mi hai rubato le sigarette, io non ti posso fare niente”. Però lui mi guardava … “Guarda guarda va fa…” dissi e andai via. Dopo una mezz’oretta venne dentro uno e dice: “42230 vai alla baracca numero tot che ti vogliono”. “Va be’”, ho fatto io. Era martedì mi pare, mi impiccano oggi invece che domenica. Vado dentro “Guarda tu vai su domani mattina alle quattro c’è il trasporto che va a Melk. Allora mi salvai, andai su alle quattro, quattro e mezza e là mi salvai.

D: Ti hanno riportato ancora a Melk?

R: Sì, mi hanno riportato ancora a Melk e sono stato qualche altro mese. Sempre a lavorare e là era una cosa insopportabile.  Insomma arriviamo e poi da lì siccome si avvicinavano gli alleati ci hanno mandato a Ebensee.

D: Da Melk a Ebensee come vi hanno portato?

R: Sempre a piedi … quella è stata, era la marcia della morte: anche se un mio collega un mio compagno, stava per cadere non potevo sorreggerlo perché sennò le SS prima sparavano a me e poi a lui. Lì, quando cadevano, le SS davano una mitragliatrice e buttavano giù. Siamo arrivati manco la metà a Ebensee, siamo arrivati e nel blocco n. 8, blocco degli italiani, da lì non si doveva uscire dal campo per andare a lavorare perché a Ebensee c’era la montagna e sopra questa montagna c’era il campo di concentramento. Faceva un freddo enorme e là c’erano pochi passi e si usciva dalle baracche e si andava a lavorare dentro le gallerie e facevo le stesse cose. Passarono i mesi e non ce la facevo più. Quando è stato gli ultimi di aprile, io stavo dentro a lavorare e non ce la facevo, sono caduto su un masso e mi sono messo a sedere, è venuto il Meister che era civile e chiamò le SS, “Scusa sa che mi porti i morti qua? Quello non ce la fa manco a reggere un cacciavite”. Non mi ha detto niente, quando è stata l’ora che dovevamo entrare nella baracca invece di mandarmi nella baracca numero 8 mi mandarono nella baracca della morte. Come ti ripeto io camminai, andai proprio in fondo in fondo, mi appoggiai alla baracca però sono caduto, sono svenuto, sopra di me sono caduti altri due, ma erano morti. Insomma erano tre giorni che non potevo neanche muovermi, hanno cominciato a entrare dentro con le barelle a prendere i vivi, i cadaveri e avevano fatto le fosse comuni; per eliminare più persone, hanno fatto le fosse comuni e venivano, buttavano e buttavano; mo’ toccava al gruppo vogliamo dire mio, ho aspettato, sentivo che strillavano in tedesco, in francese non capivo, perché avevo perso la memoria. Non parlavo stavo con gli occhi sbarrati e non parlavo, questo me lo ha raccontato un mio amico, un carissimo mio amico. Mi trovai alla baracca numero 8, il 2 o 3 maggio mi ritrovai con otto coperte sopra. E non capivo niente, vedevo che tutti camminavano con il pane, avevano dato l’assalto ai magazzini e quello è stato un male, perché morivano per mangiare. Effettivamente io quando vedevo da mangiare io lo buttavo anche se non capivo, vedevo e un amico mio un certo Ciccio, mi dette una botta, lui stava bene grazie a Dio, mi dette una botta e mi fece cosare.

E là non capivo più niente, non mangiavo, non capivo più niente, quando il 5 maggio è stato liberato Mauthausen; invece Ebensee è stato liberato il 6 maggio, alle 14.30 entrarono gli americani sfondarono, vedevo, però non ho avuto quella gioia di piangere, dicendo sono libero, non capivo nulla. Allora questo amico mio mi ha portato alla tenda che hanno allestito mi hanno portato in città, dove mi hanno spogliato, lavato e pesato. Pesavo ventisette chili e due etti. Hanno requisito case, hanno requisito tutto quanto, però non c’era più posto e mi hanno mandato al vagone della Croce Rossa. C’era un treno della Croce Rossa, dopo cinque giorni mi hanno preso e mi hanno portato in una villa .. pagherei un milione a vedere quella villa, francamente, una villa, figlio mio, avevo la mia cameretta, una ragazza che mi custodiva, mi lavava, mi dava da mangiare mi portava a spasso, però non capivo niente. La mattina passava il comandante americano con l’interprete e mi domandava come stavo, però io guardavo con gli occhi sbarrati e non …. Dopo ventitre, ventiquattro, venticinque giorni, una notte m svegliai di soprassalto, feci così proprio, tutto buio, misi la mano di dietro e accesi la luce, mi guardai intorno, lenzuola pulite bianche, pigiama … “Signore Iddio mio, ma dove sto qui?” Mi alzai, aprii una porticella e c’era una vasca da bagno, mamma mia, apri la finestra, tutto verde, prato bello, guardai in cielo tutto stellato, stavo con le mani così e guardai in cielo, feci uno strillo da bestia, uno strillo, ma forte, la ragazza che stava nella cameretta a dormire, ha sentito questo strillo ed è venuta là, ha aperto la porta e mi vedeva che stavo così. Poi io mi rivoltai e vidi questa ragazza, e in tedesco gli feci “Hallo Fräulein, es ist fertig Krieg”. “Signorina, ma è finita la guerra? Io sto bene? Ritorno a casa mia?”. Allora questa qua vedendomi così venne là e mi fece: “Sì, sei ancora vivo grazie a Dio”. Mi abbracciò, feci un pianto dirotto erano mesi che non mi usciva più una lacrima anche se mi menavano non usciva più una lacrima. Questa poveraccia mi ha ricoperto bene, mi accarezzava, mi è andata a prendere un bicchiere d’acqua, mi ha calmato e mi sono addormentato. Quando è stata la mattina che è venuto il comandante americano, stavo sdraiato e allora che è successo, venne e mi ha fatto le stesse domande, dice: “Come stai?” “Aho’, io sto bene! Io torno a casa mia, grazie a Dio, grazie a voi, ritorno a casa mia”. E il comandante con le lacrime, mi abbracciò. Insomma, sono stato quasi due mesi, ma mi hanno trattato benissimo, gli americani mi imboccavano.

D: E quando sei rientrato in Italia? Come?

R: Poi sono rientrato nel campo, perché dovevamo fare… si radunava tutti gli italiani e si andava via. Io sono ritornato a Roma il 27 giugno.

D: Che percorso hai fatto e con che cosa?

R: Siamo partiti con i camion fino a Bolzano, fino a che siamo rimasti in mano agli americani con i guanti bianchi. Come siamo arrivati a Bolzano, niente. Sì, c’era la Croce Rossa, c’era un panino con il formaggio e via siamo montati un’altra volta sul camion per andare a Bologna perché non c’erano treni a Bologna, montai sul camion e svenni. Fermarono il camion venne la Croce Rossa e svenni .. “Portiamolo all’ospedale questo”. “No, no”, feci io. “Sono vicino a casa, vado a casa mia all’ospedale”. Allora l’amico mio che stava con me siamo partiti insieme e siamo ritornati insieme. Fece Mario: “Ci vado io a casa. Glielo dico io che sei vivo”. Perché dopo l’ho saputo: mia madre mi credeva morto, perché nel nostro rione qui a Roma avevano messo un cartello dicendo che Mario Limentani era deceduto a Mauthausen. Mia madre mi credeva morto.

In quei tempi quando moriva un figlio, un marito o quello che sia si vestivano di nero, adesso non si usa più. Mia madre invece non si era vestita di nero e quando la vedevano, dicevano “Ma perché? Figlia mia bella, il lutto lo porto al cuore, non al vestito”. Pareva che se lo sentiva questa donna. E mi hanno portato all’ospedale a Bolzano, non lo so quale ospedale, era un grande ospedale. Là sono stato un po’ di giorni, quando è stato il quinto giorno non ce la facevo più e sapevo che c’era un treno che andava a Bologna andai dal coso e dissi: “Guardi dottore mi dia il biglietto che io voglio andare”. “No, ancora sei debole”. “Guardi sto bene, sia buono”. Insomma gli rompevo gli stivali fino a che mi hanno dato. Come sono uscito dall’ospedale, se stavo altri quaranta giorni là morivo io non ci stavo, mandavo per aria tutto.  Ritornai a Roma, andai a Ponte Garibaldi. Siamo arrivati alla stazione Tiburtina, non avevo i soldi e non sapevo dove andare. Andai in un ufficio, “Guardi io vengo dalla Germania”; dice “Embe’?”. “Qualcuno mi porterà a casa mia ..”. “Dove abiti?”. Abitavo in via Arenula. “Aspetta adesso, viene la camionetta ti faccio portare a casa”. Sono passate due ore nessuno mi prendeva, all’ultimo mi sono stufato ho preso il tram; non ho pagato il tram, non ho pagato niente e sono andato a casa.

Grazie a Dio ho ritrovato tutti quelli che ho lasciato.

D: Mario, durante il tuo periodo di deportazione nei campi hai trovato anche delle donne deportate?

R: Sì, a Mauthausen c’erano delle donne. Erano al campo 3 ma si vedevano poco.

D: Hai trovato anche dei religiosi deportati, dei sacerdoti?

R: Sì, sì mi ricordo uno che si chiamava … Mi ricordo che aveva fatto il presidente qui .. Era prete poi si è spogliato. C’erano dei sacerdoti, dei preti e pure loro prendevano le botte come noi.

D: E dei ragazzini, dei bambini ne hai visti?

R: Purtroppo io posso dire tre cose solamente, perché se dovessi dire tutto ciò che ho passato io, tutto ciò che ho visto io … Già non parlo mai perché farebbe male a me stesso, quando vado per le scuole non racconto; racconto solamente tre cose.

Un giorno il comandante di Mauthausen portò il figlio che compiva diciotto anni ha preso quaranta deportati li ha messi sul muro del pianto, ha preso la sua rivoltella e l’ha messa in mano al figlio e il figlio uno per uno li ha giustiziati, per far vedere che lui era un uomo, non noi.

La seconda volta entrò uno delle SS si rivoltò e ha visto un gruppetto di ragazzi piccoletti, tre anni e mezzo, sei, cinque anni, si soffermò a guardare poi prese il più piccolo, si mise a giocare un po’ poi con tutta la sua forza lo buttò sui fili spinati. Quel bambino è rimasto appiccicato lì. “Che cosa ha fatto di male quel bambino?”.

Un’altra volta entrò uno delle SS ubriaco, cominciò a sparare, dopo pochi secondi è caduto ubriaco, ne uccise quattrocento.

Queste sono le tre cose che io dico solamente, altro non posso e non voglio dire perché sono cose che c’è rimasto impresso, sono passati 57 anni e mi pare sempre di essere stato lì. Io adesso ho parlato con voi, mi avete interrogato, io questa notte non dormo. Perché mi viene tutto in mente ciò che io ho detto, molte notti io mi sveglio mi pare di stare lì.  Mi pare di stare nel campo e vedere con gli occhi i maltrattamenti che hanno fatto ai miei compagni, quello che hanno fatto a me. E’ una cosa indimenticabile, non si può scordare, io vado per le scuole, porto i ragazzi a Mauthausen, non lo faccio per me ma lo faccio per un suo avvenire, per mettere in guardia che oggi domani non possa più succedere una cosa simile.

D: Come si chiamava l’amico che ha fatto tutto il percorso con te?

R: Questo Ciccio ha fatto con me, poi un altro Davide, però disgraziatamente siamo tornati in quattro qui e sono rimasto solo io.

D: E di tutto il trasporto che siete partiti, in quanti siete tornati?

R: 480, e siamo rimasti in tre, quattro, uno sta a Torino, erano due fratelli, erano i nipoti di Badoglio. Partiti con noi. Adesso uno sta a Torino, gli ho telefonato dopo 52 anni, il fratello è ritornato Pietro si chiamava, ha avuto un incidente con la macchina è morto, e questo è rimasto che io a un congresso nostro si parlava del più e del meno, sta a Torino, sta con me, e mi dette il numero del telefono. Quando ritornai a Roma gli telefonai, dice: “Ma chi sei?” “E’ inutile che ti dico il nome. Io mi ricordo di te perché siete due fratelli”. “Ma tu chi sei?” “Io ti dico un particolare”. Io gli dissi quel particolare e non ho neppure finito che si è messo a piangere.