Rupel Savina

Savina Rupel

Nata il 27 aprile 1925 a La Spezia

Intervista del: 23/06/2000 Villa Opicina (TS)

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 28 – durata: 65’

Arresto: 18 novembre 1944 a Prosecco (TS)

Carcerazione: a Trieste

Deportazione: Ravensbrück

Liberazione: 3 maggio 1945 a Lipsia, marcia della morte

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami ?

R: Rupel Savina ma Savi ….

D: Quando sei nata?

R: Il 3 del 10 del 1919.

D: Dove?

R: A Prosecco, provincia di Trieste.

D: Posso chiamarti Savina adesso io ..?

R: Sì tesoro. Sui documenti mi hanno ridato il mio nome. Savina va bene, Rupel Savina.

D: Savina, quando sei stata arrestata?

R: La prima volta del 16 giugno, no agosto del ’43 fino all’8 anzi fino al 10 di settembre. Dopo sono stata liberata che era il “ribalton[1]”.

D: Perché sei stata arrestata quella volta?

R: Perché, non so neanche io perché. Sono venuti e mi hanno arrestato.

D: Ma sono venuti a casa a prenderti?

R: A casa. Me, mio papà e mio fratello, tutta la mia famiglia. A Prosecco.

D: E dopo il 10 settembre 1943 …

R: Alle 8 di sera siamo partiti per Frosinone e alle 6 di sera è arrivato l’armistizio. Così dopo due giorni mi hanno liberato. Quella volta ero deportata dai Gesuiti, a Trieste sempre.

D: I Gesuiti sono le carceri?

R: Le carceri dei Gesuiti ma adesso non son più là.

D: E dopo sei stata arrestata ancora, quando?

R: Dopo sono stata arrestata il 18 novembre del ’44.

D: Dove?

R: Sempre a casa.

D: E perché?

R: Quella volta un rastrellamento, non sapevamo neanche per cosa. Sempre contro il nazifascismo, ecco. Avevamo le nostre idee e volevamo essere liberati.

D: Savina, chi e che ti ha arrestato questa seconda volta?

R: I tedeschi.

D: E hanno arrestato solamente te della tua famiglia?

R: Quella volta sì, sola, dopo otto giorni anche mio fratello.

D: E dove ti hanno portato?

R: Al Coroneo.

D: Che sono le carceri di Trieste?

R: Sì il Coroneo.

D: E ti hanno interrogata?

R: Sì un poco, qualche cosa.

D: Non hai subito violenze, botte?

R: No.

D: Cosa ti chiedevano?

R: Solo dov’era mio fratello più piccolo e dove lavora, dov’è e tutto questo.

D: Ma tuo fratello era partigiano?

R: Era in organizzazione, come eravamo la maggioranza nel paese.

D: E quanto sei rimasta lì al Coroneo?

R: Dal 18 di novembre al 2 dicembre.

D: Poi al 2 dicembre cosa e’ successo?

R: Il 2 dicembre mi hanno portato verso le 4, 4 e mezza di mattina alla stazione di Trieste e mi hanno messa nei vagoni di trasporto per la Germania.

D: Eravate in tante donne?

R: Sì circa cinquanta in tutto.

D: In un vagone?

R: Sì.

D: E c’erano anche degli uomini?

R: No, solo donne.

D: E c’erano anche persone anziane?

R: Si, qualcuno anche. Non so se quarant’anni, ma pochi, la maggioranza gioventù.

D: E voi non sapevate dove stavate andando?

R: No.

D: E quanto è durato il viaggio?

R: Il viaggio quattro giorni, perché il giorno di San Nicolò siamo arrivate. Il 6 dicembre.

D: Durante il viaggio il treno si è fermato il trasporto?

R: A Villach, solo una volta e dopo sul terzo giorno, di sera mi ha portato qualcosa come una zuppa, un quarto di litro. Un poco di caldo dopo tre giorni. Niente altro.

D: Per tre giorni non avete mangiato..

R: Sì. chi aveva qualche cosa con sé allora si guardava di mangiare quel necessario per salvare più a lungo.

D: Tu credevi di andare a lavorare in Germania?

R: Ma speravo di essere almeno un poco libera ma non mi aspettavo quello che dopo ho visto, in che condizioni.

D: Savina, dopo quattro giorni di viaggio siete arrivate dove?

R: A Ravensbrück, sarebbe circa 80-85 km oltre Berlino, a nord.

D: Cosa ti ricordi dell’arrivo a Ravensbrück ?

R: Verso sera era già scuro, due tre ore, quando siamo scese era pieno pieno di ragazzini di 7-8-10 anni e voleva che davamo i nostri bagagli. Abbiamo detto impossibile e loro li pretendevano, quasi quasi obbligavano. Allora noi ci siamo rifiutati perché erano nostri. Hanno cominciato a sputare a tutte e non potevamo fare niente perché c’erano SS tutto intorno. Rifiutammo di darli però non rispondemmo niente andammo a cinque verso la porta del Lager. Sulla porta del Lager che mi ha impressionata, almeno a me, ho visto due impiccati, proprio sulla porta del Lager. Quello mi ha fatto un’impressione che non ho mai dimenticato.

D: E dopo che siete entrate nel campo.

R: Nel campo per una sera ci hanno messo sotto una tenda grande grande. Quella sera non potevamo respirare perché l’aria era una roba incredibile. Non si poteva respirare. Era una puzza che non si può neanche descrivere com’era. Là chi aveva ancora qualcosa … abbiamo finito quasi tutto, dopo quattro giorni. Chi aveva qualcosa le è sparito. Poi ho visto che in una colonna dentro un grande porzie c’era. Ho guardato e ho detto “sarà abbastanza da mangiare perché già abbiamo abbastanza fame. Ci dev’essere abbastanza da mangiare se hanno delle porzie – porzie sarebbe come bacinelle grandi. E cantavano. Se cantano si vede che lavorano e non va tanto male”.

Di sera era scuro e non si vedeva. Solo da lontano si vedeva che marciavano cinque e cinque. Dopo quella notte si è dormito poco e la mattina presto mi hanno portato in un altro posto, di fronte, e là ci hanno detto che dovevamo cambiarci.

Difatti hanno portato via tutto quello che avevamo, tutto, tutto. A certi, quasi tutti, anche i capelli. Tutto. A me sono stata fortunata e un’altra, siamo restate e mi hanno lasciato i capelli. Del resto hanno portato via tutto quello che avevamo ed eravamo nude. Per non so quante ore. A noi sembrava assai lungo perché era assai freddo. Eravamo nude e aspettavamo cosa mettere addosso.

Siamo andate in questo bagno grande grande, e là hanno portato su un carretto, tirato da queste prigioniere, si è fermato davanti alla porta e ha portato questo poco da vestirci per tutte noi. Allora abbiamo diviso. Chi era più fortunata riceveva qualche vestito un poco più pesante. Certe della roba di seta, roba che non ci riconoscevamo più l’una con l’altra perché eravamo … può capire in che modo. Non potevamo credere. Dopo che eravamo là tutto il giorno, verso sera era l’inverno e veniva subito scuro, ci hanno portato nel blocco di Zugänge[2], blocco 29, e là mi hanno messo su questi letti a castello e hanno messo su ogni letto, che era circa 70 cm, ne hanno messe tre. Eravamo stanche, sfinite un po’ dal trasporto, annientate il primo giorno – con una parola – non potevano credere che così presto eravamo arrivate a questo.

Là hanno dato ordine alla mattina c’è stato l’appello che era tremendo. Una che era già dentro mi ha avvertito “Guarda che l’appello è la roba più tremenda”. Allora quando c’era l’appello dovevi essere pronta subito, alzarsi e andare non restare se no si andava incontro a prendere legnate.

In quel momento eravamo già sfinite, alla mattina, non so a che ora perché non avevamo orologio, era ancora due o tre ore di scuro, eravamo già sull’appello. Come hanno ordinato, anche se non capivi a suon di bastonate dovevi capire. Il primo giorno sono stata battuta tre volte. Perché il primo giorno, io ero quasi ultima, pioveva una roba spaventosa, freddo, piove eravamo in fila come militari e c’era una pozzanghera piena d’acqua e io invece di tenere le gambe dritte tenevo le gambe una di qua e una di là: hanno cominciato a battermi per le gambe. Freddo e sentivo dolori forti e non ho capito per cosa allora una davanti mi ha detto che dovevo tenere. Ed ho subito capito.

Dopo quando siamo rientrate ero sempre ultima perché non volevo mai, si doveva mantenersi sempre in mezzo, mai ultima, no prima, ho subito capito ma non sapevo. Ero ultima sempre … non avevo il coraggio di spingere, insomma vado ultima e per il freddo mi tenevo così e vado dentro. Sulla porta mi hanno acchiappato e mi hanno buttato fuori. Ero giovane, ho fatto un salto e non sono cascata per terra. Allora ho guardato perché e non capivo perché era freddo. Sono andata di nuovo dentro così. Di nuovo mi butta fuori ed ogni volta mi ha dato una nerbata. La terza volta che avevo paura ad entrare perché ero rimasta sola e una, dietro questa Ausierka, mi ha fatto che dovevo guardarla. L’ho guardata questa prigioniera mi ha fatto “dritta” come dovevo comportarmi, allora era una scuola che non ho mai dimenticato, ho fatto così e infatti mi ha lasciato entrare.

Così il primo giorno sapevo già regolarmi. Dopo non ero mai più battuta, mai più perché non ero la prima e anche per andare a prendere il rancio, il mangiare, non si doveva essere primi e neanche ultimi perché i primi erano guardati come volessero essere primi, era questo.

D: Savina, la vestizione. Cosa ti hanno dato da vestire?

R: Un vestito nero, stretto, di lana fino qua e qua tutto un pizzo, come se dovessi andare a ballare. Ma per me era grave perché ero incinta e dovevo sposarmi quel giorno che ero in viaggio per la Germania. Dovevo sposarmi il 2 gennaio. Ero contenta lo stesso perché era di lana. Dopo mi hanno dato il numero. Il mio numero era 91329: Questo non lo dimentico mai, in tedesco era Einundneunzigtausenddreihundertneunundzwanzig, non l’ho mai dimenticato. Questo era importante perché se chiamavano si doveva subito … Così abbiamo cominciato la vita del Lager, ma era tremendo. Non si può capire come si viveva perché non vi era che giorno, non c’era un orologio. Pensa che bestia.

Poi quella era insopportabile l’odore, ci volevano cinque-sei giorni per poterci abituare un poco poco, si teneva sempre qualcosa ma sull’appello non si poteva, si dovevano tenere le mani dritte. Non ci potevamo tappare il naso. Tremendo.

D: Savina, ti hanno messo in qualche compagnia di lavoro?

R: Per il momento no, ho aspettato. Dopo di là sono restata sempre in questo blocco di Zugänge perché ero, ma erano di tutte le nazioni era là; dopo mi hanno spostato al blocco 32. Nel blocco 32 ero finché avevo la mia creatura e dopo fino al giorno, doveva essere il 14 di febbraio, doveva essere no l’11 febbraio, perché dopo tre giorni avevo questa creatura.

Ha vissuto quattordici giorni, il giorno 28, come calcolavo, è morta di fame e di stenti.

D: Come facevi al alimentarlo?

R: Prego?

D: Come facevi ad alimentarlo, a dargli da mangiare?

R: Niente. Facevano esperimenti perché quasi tutte che erano con me quella volta sono tutte morte. Le conoscevo.Una di Gorizia, Pinter Helena, era di Piuma, vicino Gorizia. Aveva 18 anni e quella era stata violentata da quello da cui lavorava. Il padrone l’ha mandata e l’hanno portata via, trasportava il vino di Vipacco con un cavallo, l’hanno arrestata, così raccontava. Perché il padrone aveva paura che sua moglie lo veniva a sapere. Piangeva sempre. Lei era magrolina. Eravamo tutte magre.

D: Ed era in campo con te anche lei?

R: Prego?

D: Era in campo a Ravensbrück  con te anche lei?

R: Sì. E’ venuta su da Gorizia lo stesso giorno perché erano tante di Gorizia, erano di Biglie, erano di Ranciano, Vertoiba. Erano tante. Abbiamo fatto il viaggio preciso sempre là. Dopo delle mie paesane i primi giorni di dicembre, prima di Natale, sono andate per le fabbriche a lavorare. Certe sono restate là ma al Betrieb, alla Schneiderei, che dopo sono andata anche io a lavorare a Betrieb. Noi in tempo di due ore si doveva sapere lavorare a macchina elettrica, il mio mestiere era altro. Insomma non si può neanche capire, insopportabile. Solo se si aveva quella di tornare ancora una volta a casa.

D: Quindi Savina, tu come altre donne avete partorito un bambino a Ravensbrück ?

R: Sì, ma sono tutte morte quelle che conoscevo.Una era di Solcano di Gorizia, non so se aveva bambino o bambina ma è morta anche lei. Lei era sposata con un Grossovin ed i suoi genitori avevano una, come si dice, una segheria.

La segheria. Sono slovena e sono diversi anni che non parlo tanto italiano perché sono via dal mio lavoro.

D: Lo so che è doloroso Savina, lo so che per te è molto doloroso. Per quattordici giorni tu hai tenuto la tua creatura lì a Ravensbrück ?

R: Era tremendo perché sapevo che sarebbe morta, dal primo giorno perché non c’era niente. E anche quei tre giorni che mi martirizzavano, non so come sono sopravvissuta. Perché erano patimenti, lo facevano per vederequanto sopportavauna donna. Mi ricordo che guardavo e sapevo che sarebbe morta; ma forse succederà che finisce la guerra. Sarebbe stato un miracolo. Perché si sentiva già che sarebbe finita presto, perché si sentiva il fronte vicino. I Russi. Speravamo perché gli ultimi due mesi più venivano i bombardamenti più eravamo felici perché prima finiremo.

Solo di sera andavamo a letto e avevo le speranze almeno di sognare casa e i miei familiari. Eravamo tre fratelli là. Non sapevo dove era l’uno o l’altro. Mio papà era solo a casa. Guardavo questo cielo delle volte e mi consolava anche quello. Guardavo il cielo tante volte. Ho detto: tutto mi avete portato via tutto, ma proprio tutto ma il cielo, questo non avete potuto portarlo via perché questo copre anche i nostri familiari, le nostre case, i nostri paesi. Anche quello, si doveva sempre avere speranza e guai ad abbattersi; poi neanche parlare.

Poi alla fine era tremendo perché non si poteva più. Il 25 di aprile di sera è venuto un ordine, c’era anche dentro qualche organizzazione, si sentivano già i cannoni, il fronte era vicino, era tutto rosso il cielo. “Abbiamo 20-30 km al più grande fronte, guardiamo di nasconderci”. Questo è un ordine venuto quando era già un’ora di buio. Dopo sono venuti i tedeschi ed hanno detto “In cinque minuti tutti fuori” dopo hanno dato altri ordini. Saremo liberati. Sono andati dentro con queste mitragliatrici. Finito. Chi è restato dentro ha perso la vita. Dopo sarà quel che sarà, siamo venuti fuori. Hanno dato cinque minuti allora tutti pian piano, pochissimi sono restati e quelli sono finiti là.

Ci hanno messo in fila, era verso mezzanotte già se calcoliamo indietro le ore che era scuro, ci hanno messo in fila ed hanno dato l’ordine a destra o a sinistra, non mi ricordo più, se non si può camminare 30 km che si metta da parte che verranno i camion e li porterà via. Quelli che se la sentono di camminare 30 km si mettano dall’altra parte. Abbiamo detto “So che non camminerò 30 km, ma neanche 3 km però vado da questa parte perché non posso credere che mi porterà con un camion”. Sapevo che nel blocco 23 i camini che fumavano erano le persone che ardevano ogni giorno, giorno e notte. Allora ho detto “No, mi metto da questa parte”.

Dopo hanno diviso un pacco da 5 kg per cinque persone – che erano sempre per cinque – dentro questi pacchi abbiamo spartito subito perché nessuno poteva portare 5 kg, era pesante e poi è meglio spartire subito. Chi ha mangiato subito qualche cracker o latte in polvere o cosa. Li portavamo così perché non avevamo niente. Avevamo un piccolo vasetto e qualcosa abbiamo messo là, se no portavamo tutto poi mangiavi. C’erano quelli che mangiavano subito, io mi salvavo più che potevo perché sarò sempre più bisognosa quando camminerò.

Abbiamo camminato fino all’alba, siamo andati fuori, era una fila, il campo era grande, era una fila grandiosa. Non finiva mai. Siamo andati fuori. Quando veniva l’alba, veniamo sulla strada principale e vediamo i militari del fronte, tutti fasciati, tutti rovinati venivano carri con cavalli e questa gente che si ritirava dal fronte, gente dei paesi, con le carrozzelle, coi figli, senza figli, coi bagagli, si ritiravano tutti dal fronte. Avevano tutti fretta. E noi ci siamo messi in mezzo e loro da una parte e dall’altra, eravamo in centro. Perché quando venivano questi apparecchi mitragliavano, loro scappavano fuori dal centro della casa e noi dovevamo stare là, avevamo sempre le guardie con i cani; ogni tanti passi c’era un soldato della Wehrmacht che seguiva la colonna e camminavi, camminavi. Otto giorni e otto notti.

Sempre in fila, si vedeva questa fila davanti e dietro di noi, giorno e notte, non c’era altro. Il primo giorno si mangiava quello che si aveva, il secondo giorno anche ma dopo non si aveva più niente e dopo si fermava venti minuti, mezz’ora; andavamo dove c’era acqua per farci qualcosa con la roba che si trovava per strada o un poco di radicella, che cominciava a spuntare quella radice selvatica o indifferente. Si trovavano i cavalli o qualche bestia che era morta allora tiravamo fuori e allora con queste mani, erano tanti, tutti là tutti raggruppati. La prima volta ho detto “Cosa fa là quel gruppo, cosa spartisce?”. Dopo che abbiamo visto che era uno scheletro, siamo arrivati troppo tardi e dopo guardavamo tanto se si trovava qualche bestia crepata o morta o di bombardamento o cosa.

Mi ricordo una volta, senza nessun coltello, solo tirando l’uno con l’altro.Qualche volta si tirava, si tirava e dopo non si trovava niente perché qualcuno perdeva la mano. Qualche volta mi è toccato che mi hanno portato la mia razione di pane. Che dovevo quellavolta vestirmi che non avevo niente addosso, quando avevo questa creatura, anche per questa creatura, solo con il pane o con la zuppa si comprava qualcosa.

Quella volta mi ha salvata una certa Pierina che era infermiera, ma era anche lei come noi, deportata. Però faceva l’infermiera, era di Gorizia, era una brava persona. Mi ha detto “Anche se ti hanno rubato ti procurerò io”, lei mi ha trovato un cappottino piccolo, ero secca e tutto mi stava, fino qua e sotto avevo una canottiera da uomo. Quando è morto il mio piccolo.

Quando era l’ultimo giorno, quando ho visto questa gente che si ritira ho detto “Ma noi forse torneremo, ma loro?”. Loro saranno adesso prigionieri e noi forse avremo la nostra liberazione. Intanto se devo morire, morirò fuori del Lager e quello mi ha dato tanto, tanto coraggio. Che abbiamo camminato, camminato: in otto giorni abbiamo fatto, giorno e notte, non so, so che chi si strascinava una con l’altra, qualche amica che aveva un po’ più di forza, quella che stava per morire, si trascinavano una con l’altra. Una volta forse due volte, gli ultimi giorni che il fronte era un po’ lontano, perché a loro veniva il cambio con la macchina e li portavano via e venivano altri di quelli che ci guardavano.

Gli ultimi giorni proprio non potevo più e ogni tanto domandavo a questi, non ci bastonavano per andare avanti però sempre in cinque, quella che non poteva più si ritirava, allora restava ultima, come è toccato a me l’ultimo giorno. Ho domandato “Dove andiamo?” mi hanno risposto: “Bitte wohin? ” “Ich weiß es nicht, immer weiter” … Allora dopo l’ultimo giorno era c’era una pianura, noi eravamo in colonna, bellissimo era questo bel prato e guardavo, era un bel sole che tramontava, questo è l’ultimo sole “Ragazze se venite qualche volta a casa“, dopo ci siamo trovate con le mie paesane, quando sono andata a lavorare al Betrieb Schneiderei. “Dite che non potevo più andare avanti. Portate i miei saluti ai miei fratelli se torneranno anche loro e dite che non ce la facevo più”. Sono uscita dalla fila perché si doveva andare fuori della fila e mi sono poggiata su un albero e guardavo questo sole e sono passati forse anche venti minuti, il sole era andato via.In quel momento sento mitraglie, mi giro, credevo che era vicino il fronte e vedo che cascano queste prigioniere che non potevano andare avanti, con la raffica. Quando erano a forse cinquanta metri, vedo una che era proprio con me, che dormiva con me aveva due figli, era di Ljubljana, due ragazze, la vedo che si alza di nuovo sul ginocchio e si teneva così e guardava avanti, voleva ancora camminare. Loro le hanno detto: “Noch einmal e ancora raffiche” è caduta lei e ancora un venti altre là per terra. In quel modo che ho visto come finivano le ultime mi ha preso una forza di volontà, “No!” – ho detto – “Non devo crepare su questa maledetta terra. Devo tornare a casa”. Era già quasi scuro e ho cominciato a camminare, non so chi mi ha dato la volontà, i nervi: devo tornare a casa.

Mi sono messa in fila con quelle che erano ancora vive e ho cominciato a camminare, a camminare, dopo un’ora ho visto venire, come altre, come si poteva, si camminava sempre come si poteva però non è questi che mi guardavano con i cani sapevano che non potevo scampare perché ultimo, ultimo che cascava. Dopo quella sera abbiamo camminato tutta la notte e alla mattina presto sentimmo come una bomba. Ci siamo girate e si può dire che eravamo proprio ultimi, tutta la notte ancora, forse c’era un chilometro dietro di noi. Vediamo che era saltato un ponte che avevamo passato prima e siamo restate tutte ultime. Saltato questo ponte è venuto un camion che ha detto “Ormai è finito”. Ha caricato tutti su un camion e siamo andati avanti. Siamo cascate per terra, doveva essere di sera tardi oppure verso la notte, la mattina c’era il sole, una bella giornata fredda perché era maggio. Abbiamo visto che non c’era più nessuno di questi tedeschi e ultimo che era ha cominciato che voleva ancora e l’altro “Non vedi che è finita?” lo ha battuto e lo ha buttato via. Dopo quel camion sono restati un po’, siamo restati ultimi e siamo scappati in un boschetto che era lì vicino e là siamo stati al sole, non si vedeva nessuno. “Allora siamo libere, libere”.

In quel momento non si vedeva nessuno, allora certe une sono andate per dritto dove era questo camion ad hanno trovato tanto tanto the, come the russo, tante scatolette e le hanno caricate tutte, due o tre erano mezze bruciate, qualcuna che tutto per terra, qualcuna era ancora buona. Insomma l’abbiamo sciolto, ci voleva l’acqua, allora abbiamo visto una casa, come una fattoria, grandiosa, ma era da fare cento metri su una collina, bellissima, là troveremo acqua. Una è andata, noi dietro pian piano che ci tenevamo l’una con l’altra, ci aiutavamo per metterci in cammino perché non si poteva. Eravamo indurite per terra. Avevamo il the, siamo libere, non si vedevano più i militari, i tedeschi. In quel momento vedo che da una parte viene un militare su un cavallo grande con una stella rossa così. “Partisan!” ho detto. “Niet Partisan!” – ha detto, “za ruski vojnik”, che sono militari russi. Ho detto “Non ci sono più tedeschi?”. “No”. “Siamo libere”. Non ci potevano credere, come alzarsi dalla morte.

Ha detto: “Non è ancora finita la guerra, dovete stare bene attente perché ci sono tanti che si nascondono ed è un peccato adesso”. Parlava russo ma ci capivamo, tutto capivamo perché era così, purtroppo non so perché si sentiva una parola di qua e una di là e si capiva abbastanza.

“Dovete stare assai attente a non perdere la vita, perché è peccato forse, venite in una casa che credete sia vuota e invece c’è sempre qualcuno che può tirare ed uccidervi. Perché la gente è disperata e siamo ancora in guerra”, hanno detto questi russi.

Arriva un altro con un cavallo e ci dice “Volete tanto mangiare ma non mangiate, guardate anche l’acqua può essere avvelenata perché tanti hanno perso la vita. Sono quattro anni che combattiamo ed ho visto tanta gente morire. Ed è peccato perché avete tanto superato che avete patito tanto nei Lager. Dovete avere tanto sentimento perché in qualche angolo potete ancora trovare la morte. Se adesso avete bisogno di qualche cosa, qui ci sono le mucche mungerle e bere il latte”. Se sono patate allora sì, cucinarle ma neanche frutta, niente perché è pericoloso. In qualche orto si trovava.

Si doveva sempre stare attenti; mai fidarsi. Sempre in gruppi andare mai andare da soli, due o tre o quattro sempre nei grandi gruppi e non aver premura di andare a casa perché le strade sono rovinate “Verrà il giorno, aspettate, abbiate pazienza. Noi vi porteremo da mangiare ancora per un giorno dovete andare avanti sole come potete. Poi le nostre cucine vi porteranno. Raggrupparsi più che potete insieme. Anche di notte sempre in tante insieme, mai sole.”

Qualche volta anche per prendere un uovo si perdeva la vita.

Così siamo state liberate e sono finita in un palazzo di Himmler; dappertutto era Hitler e Himmler sulla porta su quelle sale grandi dove c’erano armi antiche e su una porta c’era una tenda rossa e una tenda verde; giusto per avere le coperte di notte. Io ho scelto la verde, lei la rossa. E’ indifferente. Dopo quella coperta che avevamo per tutto il viaggio, siamo arrivati a casa dopo quattro mesi, il primo di settembre; eravamo state liberate il 3 maggio.

A Lipsia c’era un fiume, Elba, mi pare, che dovevamo andare, dopo un mese siamo andati su questo fiume fino in Cecoslovacchia e non so quanti chilometri con questa barca. Sulla cornice del fiume alla mattina gli uomini e dopo pranzo le donne. Abbiamo messo per capitano uno zingaro, che i russi gli davano non so quanto da mangiare e lui mangiava e così ne dava, era tutto buono per mangiare.

Dopo 12 km abbiamo visto una fattoria grandiosa con tante tante bestie, abbiamo detto qua ci fermiamo e là c’era da mangiare per tutti e siamo stati due o tre giorni, eravamo in cinquecento. Sotto c’era questa barca di commercio e là dormiva una vicino all’altra strette come pesci. Basta che andavamo verso casa. Ci siamo accorti poi che c’era un ponte piccolo e la barca non poteva andare oltre, è venuto il comando dei russi: non si poteva toccare quel ponte. Sono venuti due camion, siamo andati in una fabbrica di zucchero avevamo un paio di chili di zucchero, avevamo sempre paura di non trovare da mangiare. Avevamo cambiato quello che avevamo addosso con quello che trovavamo per essere più pulite, perché dentro non era possibile lavarsi. Era acqua sporca nei Lager, davano un sapone che si restava più sporche. Non so di che cosa era, una puzza che non si poteva sopportare, quel sapone bianco che quando si insaponavamo non andava più via. Era come una colla, meglio non mettersi niente.

Dopo abbiamo camminato 40 km e quello che dovevamo portare lo hanno portato loro con i camion per noi tutti. Non avevano altri camion, i russi non li avevano. Però finché eravamo in quella casa, di Himmler, ci hanno portato da mangiare, andavano là e ci portavano pane, subito dal primo giorno, abbastanza pane e dopo siamo andati 40 km a piedi.

Siamo andati a Prinzwalk in una bella cittadina piccola. siamo stati per cinque giorni una fabbrica, forse erano caserme, c’era una grande corte forse c’erano militari dentro prima. Eravamo tutti noi quasi cinquecento, ci siamo stati cinque giorni. Dopo siamo andati sui treni e ci hanno portato a Neubrandenburg, nelle caserme. Belle caserme, sul monte e là abbiamo aspettato fino al giorno che siamo andate verso casa, fino al 12 agosto.

Il 12 agosto eravamo sicure che in tre, quattro giorni arrivavamo a casa, invece siamo arrivate a settembre. Mio fratello … siamo arrivati a casa ma sono andati via perché sono andati a fare il militare per mangiare.

Erano brutte le guerre, sono tremende. Solo questo dico, chi l’ha provato se ha un poco di onestà un poco di cuore, non dovrebbe mai più venire nessuna guerra.

D: Savina scusa una cosa veloce quella fabbrica che tu citavi, che in due ore dovevi imparare …

R: Era a Ravensbrück. Sempre a Ravensbrück; prima mi hanno mandato in una baracca dove si andava solo per lavorare perché veniva la roba del fronte, le divise tutte rovinate, tutte sporche di sangue delle bombe, tutte bruciate. Rovinate e noi, almeno io, dovevo perché avevano messo una tavola grande come era la baracca, dritta, e tutto intorno avevamo e dovevamo mettere quello che trovavamo nelle scarselle sulla tavola. Là ero due o tre giorni ma non si poteva per la puzza che era dentro, questi odori, questa roba sporca, rovinata; se si guardava verso la luce non si vedeva l’una con l’altra tanta polvere, tanta sporcizia c’era. Fuori era enorme e dentro tanto di più per la polvere. Ogni notte – io lavoravo di notte – andavo fuori non potevo mai buttare fuori questa roba tremenda.

Un giorno come trovo nella tasca di questa divisa vedo come un portafoglio, era abbastanza grande l’ho messo sulla tavola però era rovinato. Passa un’Ausierka perché passava sempre così attorno e quando ha visto ‘sta roba, guardava se era qualcosa che voleva. “Cos’è”. L’ha guardata, mi ha levato di mano questa roba, ha cominciato a guardare e dopo l’ha messo dentro e ha visto che era bruciata e ‘sto portafoglio era bruciato, sporco di sangue. Ha guardato e l’ha levato dalle mani, non sapevo, ed è andata via. Dopo un po’ torna e ha cominciato che era suo fratello, era al fronte e gli era toccato. E’ andata via e non l’ho vista più. Il giorno dopo viene e mi dice di andare con lei e mi ha portato in questo posto in cui c’era assai confusione perché c’era un cento macchine, ma era netto, c’era aria pulita. E io ero contenta solo in due ore dovevo sapere le macchine elettriche, per metterle in moto con le ginocchia. Mi ha messo dove si lavora delle camicie, delle divise dei militari, delle aviazioni; era la fabbrica per tutti, roba nuova. Ha visto che non potevo nemmeno lavorare perché stavo male, ero assai grave. Allora mi aveva messo in un altro posto, meno difficoltoso in cui dovevo fare segno se qualcosa non va bene; allora dove potevo stare in piedi, non potevo stare seduta perché mi doleva schiena. Se trovavo qualcosa difettoso o non ben cucito dove portarlo nella parte di fabbrica che lavorava e aveva quello da fare. Segnalavo che non era ben fatto. Quando ha visto che non potevo stare più in piedi mi ha dato i posti meno difficoltosi.

D: Abbiamo finito, però prima di finire una cosa importante: come hai chiamato tuo figlio?

R: Danilo, perché mio fratello si chiama Danilo. O l’uno o l’altro tornerà, Kleiner Partisan. E’ vissuto, non so come ma è vissuto per quattordici giorni.


[1] A Trieste, l’armistizio di Cassibile viene definito in dialetto “Ribalton”, ad indicare l’evoluzione del conflitto dell’8 settembre 1943.

[2] Blocco degli arrivi.