Algeri Giuseppe

Giuseppe Algeri

Nato il 17 novembre 1921 a Caltagirone (CT)

Intervista del 13/06/2000 a Genova

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 19 – durata: 63’

Arresto: 9 settembre 1943 a Tirana (Albania)

Carcerazione: Tirana (Albania)

Deportazione: Nordhausen; Dora-Mittelbau (Matr. 0162); Ellrich (Matr. 138.636)

Liberazione: aprile 1945, marcia della morte

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Io sono Algeri Giuseppe, nato a Caltagirone il 17.11.1921, [in] provincia di Catania. Sono stato preso… arrestato il 9.9 del 1943 a Tirana, Albania, catturato dai tedeschi. Dopo quindici giorni di prigionia in un campo di concentramento i tedeschi, dopo averci disarmato, ci hanno riarmato di nuovo e ci hanno portati al confine della Bulgaria. Il riarmo è stato il motivo perché… dovevano passare dai ribelli albanesi, e allora avevano paura e ci hanno riarmato. Arrivati al confine della Jugoslavia ci hanno di nuovo disarmato. Da lì, ci hanno messo su dei carri bestiame e ci hanno portato in Germania.

D: Pippo, ma tu eri in Albania come militare?

R: Sì, ero in Albania come militare. Aviere di governo.

D: In che campo ti hanno messo quando eri in Albania?

R: Era un campo tra Durazzo e Tirana, era un campo di concentramento dei greci. Allora c’erano i greci, perché in queste baracche c’era scritto “noi spezzeremo i reni ai greci”. Ci hanno portato lì, ma io ci sono stato dieci giorni, quindici giorni, e poi dopo ci hanno messi su questi camion, e per attraversare l’Albania ci hanno dovuto riarmare, come ho detto prima. Arrivati in Bulgaria ci hanno messo sui vagoni bestiame e siamo andati in Germania.
La prima tappa l’abbiamo fatta a Vienna. A Vienna ci hanno fatto delle perquisizioni, ci hanno cercato di levare quello che avevamo, e da lì ci hanno portato a Königsberg. Königsberg era un lager di concentramento. Sono arrivato il pomeriggio… di sera, sarà stato verso la fine di settembre ecco, non ricordo con precisione le date. Da lì, l’indomani mattina mi hanno fatto delle foto segnaletiche, impronte digitali, e basta. Al pomeriggio ci hanno detto che cercavano degli operai specializzati. Io ero falegname e allora mi hanno preso. E mettevano da un lato chi era buono e [da un altro] chi era malato. Io un po’ [sentivo] la paura del malato… m’ha fatto un po’ paura. Ma comunque io stavo benissimo, non avevo nessun problema. Da lì mi hanno messo da parte. L’indomani mattina subito un ufficiale – eravamo una trentina – ci ha messo sul treno, e ci ha portato a Nordhausen. Le città che abbiamo passato erano: prima Berlino, abbiamo fatto una prima tappa, tutta la notte ci siamo fermati lì, la prima volta che ho visto la scala mobile, che io non sapevo cosa era la scala mobile; da Berlino l’altra città era Essen e poi siamo arrivati a Nordhausen. Nordhausen è a quattro chilometri c’è il Lager Dora, Dora-Mittelbau. Da lì, appena arrivati, subito ci hanno preso i nomi e poi ci hanno portato in una specie di bagno. Ci hanno rapato a zero, ci hanno spogliato di tutto e, finito di fare il bagno, ci hanno fatto vestire con le divise a righe. Noi, che eravamo militari, per quale motivo vestiti a righe? E lì c’è stato uno sconforto generale.
Eravamo una trentina, così: un po’ venivamo dai Balcani, qualcheduno – cinque, dieci – venivano dalla Russia e avevano fatto undici mesi di ritirata. C’erano dei carabinieri. C’era un alpino, perfino, che era diventato sergente al valore militare: questo qui si è messo a piangere come un bambino, [con] gli altri ci siamo guardati in faccia… Ci hanno portato di nuovo fuori, è arrivato un contrordine. Ci hanno spogliato di nuovo lì, all’aperto, e ci hanno ridato di nuovo la divisa. La divisa aveva il numero 0162. La matricola che mi avevano preso prima a Königsberg non serviva più e allora il mio numero di matricola ora era 0162.

D: Ma questo numero di matricola dove te lo hanno dato?

R: Al Dora. Una nuova matricolazione, ecco. Dopo siamo rientrati in galleria. In galleria ci hanno dato una zuppa. Questa zuppa era una zuppetta dolce. Io… mai mangiata, difatti alla notte poi mi è venuto un forte mal di stomaco e sono stato male.
A mezzanotte mi hanno mandato già subito a lavorare. Dentro la galleria stessa m’hanno mandato a lavorare e m’hanno dato un martello perforante, che io non sapevo nemmeno cos’era, e abbiamo cominciato a fare buchi alle pareti, a questa roccia, in queste gallerie: un tunnel era. Facevamo dei buchi profondi 4 metri e 20: cominciavamo con un metro fino a che si arrivava ai 4 metri.
Ora, la notte, come turno facevo da mezzanotte a mezzogiorno. Questo sin dal primo giorno [che ero] arrivato, sarà stato i primi di ottobre [1943], non ricordo con precisione le date. A mezzogiorno si doveva andare a dormire per regola, finite dodici ore di quel lavoro snervante. Da lì, dove si dormiva? Si dormiva nei castelli alti a cinque piani, e io, siccome già avevo qualche pidocchio addosso, io me ne andavo all’ultimo piano perché c’avevo la lampadina più vicina, in modo che mi potessi schiacciare questi pidocchi e ucciderli. Alle cinque di sera arrivavano gli altri deportati che lavoravano fuori. Allora, figuratevi, un casino che c’era: la gente che rientra dal lavorare, noi che dovevamo dormire, e non si dormiva. Alle 11, di nuovo sveglia, ma già eravamo svegli: “Italiani, 11, a lavorare!”. E si va di nuovo a lavorare nelle gallerie, sempre a fare lo stesso lavoro: perforare questa roccia. Dopo, finito questo lavoro – eravamo circa dodici-quattordici persone che bucavamo questa roccia – l’indomani mattina, finito di fare questi buchi, venivano i minatori, riempivano e facevano saltare la roccia. Questo lavoro l’ho fatto per sei mesi consecutivi, dodici ore al giorno, da mezzanotte a mezzogiorno e da mezzogiorno a mezzanotte, una settimana così, una settimana…
Dopo sei mesi – che io come morale ero alto, non ero uno che mi… e poi avevo 22 anni… – e allora, insomma, mi cominciava a pesare: non era tanto per il lavoro, quanto perché non dormivo, né notte né giorno. Allora, si è dato il caso [che] è venuto un cecoslovacco, ma che io mai avevo conosciuto e mai visto, si vede che veniva dall’Arbeitsstatistik, non lo so, veniva da fuori. Gli dissi: “Mi faccia la cortesia, vedi se mi puoi fare uscire da qui dentro, perché io qui sto morendo, non ce la faccio più”. Ma non so se m’ha visto simpatico o cosa è stato. Dopo due giorni m’ha detto: “Vieni fuori a lavorare”.
Allora m’ha portato fuori all’Arbeitsstatistik e lì mi hanno mandato alla baracca numero 18 dove c’erano tutti gli italiani, che io gli italiani quasi ne avevo visto pochi. O meglio, se c’era qualche italiano non ci incontravamo mai quando si smetteva di lavorare perché uno faceva da mezzanotte a mezzogiorno e l’altro faceva da [mezzogiorno a mezzanotte]. Nel frattempo che noi facevamo [un turno] avevamo due turni di civili, che loro invece facevano dalle sei alle sette. Noi in un turno avevamo due turni di civili… freschi sempre. Finito questo, ci davano un po’ di zuppa. La zuppa consisteva in un litro di brodaglia, un pezzo – circa 200-250 grammi – di pane. Alla mattina ci davano un po’ di caffè amaro, surrogato sarà stato, e con quella roba lì si tirava avanti. Il caffè era importante perché l’acqua dentro la galleria non ce n’era. Arrivava un’acqua colore bianco: chi la beveva… a qualcheduno che l’ha bevuta ci veniva la diarrea [con il] sangue, e moriva.
Per sei mesi: mangiare, dormire, lavorare, fare i nostri bisogni, tutto in galleria. Erano due tunnel lì, scavati già dai tedeschi prima. Questi due tunnel erano paralleli e noi foravamo delle gallerie in modo da poter congiungere i due tunnel. I nostri bisogni, si facevano di fronte a tutti. Nel tunnel c’erano circa 30-40 bidoni. Insomma, erano dei fusti di benzina tagliati in due. Lì ci si metteva un pezzettino di tavola e in quella tavola dovevamo fare i nostri bisogni. Buona parte [di noi] aveva la dissenteria, come già detto. Però dovevi essere fortunato a fare i tuoi bisogni che non si trovasse a passare la SS, perché quando passava la SS erano botte perché loro credevano che lì andavamo a riposare. Effettivamente qualche volta si andava anche a riposare, allora dovevi scappare con i pantaloni addosso, correre e andare via di lì.
Dopo questi sei mesi, ripeto a dire che io ero proprio finito. Allora son passati e mi hanno portato fuori a lavorare. Arrivato fuori a lavorare m’hanno mandato a costruire delle strade. Pensa: un falegname, un ebanista com’ero io… e quest’era il lavoro. Quando si andava fuori a lavorare, andavamo a lavorare trenta uomini, trenta prigionieri, e chi ci scortava? Dunque, avevamo un caposquadra che lo chiamavamo Vorarbeit[er], in tedesco, che portava il triangolo verde. Erano gli uomini più pericolosi, più delinquenti che c’erano. Da lì, oltre a quello, avevamo quattro guardie della SS che ci scortavano coi fucili spianati e quattro cani ammaestrati, cani lupo. E questa era l’andata e il ritorno del lavoro, e sul lavoro c’erano sempre questi tedeschi. Oltre [a loro] c’era un capo civile. Capo civile [che] dalla mattina alla sera non diceva altro: “[Los], arbeit! Los, arbeit! Schnell! Los, arbeit”. Quando passavano gli altri ci diceva: “Badoglio, Badoglio […]”. Alla sera dovevamo rientrare. Rientrando cosa facevano? I tedeschi si divertivano a lanciare i cani addosso man mano che camminavamo, e allora i cani si imbestialivano. Una sera di queste, questa guardia delle SS non ha fatto in tempo a tirare il cane indietro e difatti m’ha dato un morso nella gamba sinistra, [di] cui porto ancora l’impronta. Insomma, la cicatrice è rimasta. Arrivato dentro, ho dovuto andare… chiamiamola infermeria… arrivato lì mi hanno detto: “Cosa è stato?”. Io ci ho detto: “Un cane”. Allora quasi mi picchiavano perché dicevano: “Allora volevi scappare se il cane ti è corso addosso!”. Dissi: “Guarda, dato che non ti capisco…”. Né loro capivano l’italiano né io capivo il tedesco. Ma sempre tutti deportati eravamo eh! Tanto in infermeria, tanto… Insomma, là non si vedeva altro. Gli unici che eravamo, 800-1000, erano questi militari, ecco. Dopo, cosa m’hanno dato per medicare? Una fascia di carta igienica! Me l’hanno fasciata, e basta. Poi sono andato a lavorare, l’indomani. Ora, cosa succede? Dopo sei mesi che non vedi aria, che non vedi niente, mi sono gonfiate le gambe, grosse e sproporzionate. Tanto che io dovetti passare la visita, perché non ce la facevo a camminare, non mi potevo muovere e poi lavorare nelle strade, e mi dissero: “Riposo, riposo a letto con le gambe per aria”. Allora, cosa facevo? Un giorno sì e un giorno no dovevo andare a passare la visita in questa specie di infermeria con l’inverno freddo che c’era. Perché io sono uscito a marzo dalle gallerie eh! Intendiamo… allora faceva ancora freddo. Le gambe le avevo sempre gonfie, però, se io mi mettevo con le gambe per aria come mi dicevano loro, le gambe si sgonfiavano. Passato questo, son stato io… Ecco, questo è perché Algeri Giuseppe è ancora qui. Ecco. perché fu la mia fortuna. Io mi riposai quasi due mesi, stando in baracca, non andando a lavorare. Perché non andare a lavorare era la vita, ecco, per noi deportati del Dora. Perché quello era l’inferno, si chiamava, del Dora. Allora, stando due mesi a riposo, io mi sono ripreso di tutto il male che avevo preso e che avevo subito nelle gallerie. Così ripreso, appena che è arrivato il mese di maggio, che ha fatto un pochettino… [la] temperatura è cambiata, io, senza mettermi con le gambe per aria, le gambe si son sgonfiate. Dico: “Giuseppe deve andare a lavorare, non c’è niente da fare”. E invece cosa avviene? Lo stesso pomeriggio arriva quello che faceva da caposquadra e che non mi voleva fare uscire dalle gallerie, che era un siciliano, un paesano mio, che non mi voleva fare uscire perché diceva che io ero l’unico che sapeva fare il lavoro e se mi levano a lui quel lavoro non va avanti. Questo qui gli dissi: “Guarda, o mi fai uscire o ti ammazzo. Loro ammazzano a me e io ammazzo a te”. Questo lo portano alla baracca 18, dove eravamo tutti italiani, dove si dormiva. Alla baracca 18 aveva il tifo petecchiale. Avendo il tifo petecchiale ai tedeschi c’è venuta una paura tremenda. La SS, tutto il Lager Dora… perché il Lager Dora, sai, non era un campetto, era un Lager che c’erano 25.000-30.000 persone.

D: Pippo, scusa, ci puoi spiegare com’era organizzato il Lager Dora? C’erano delle baracche all’esterno e delle baracche all’interno?

R: Dunque, noi eravamo combinati [così]. All’interno, non c’era niente nel tunnel. Nel tunnel non c’era niente, si dormiva dentro le gallerie stesse. C’erano questi enormi castelli a cinque piani, ogni piano era alto 60-70 centimetri. Tu dovevi restare disteso: se ti mettevi in piedi non potevi restare, perché era troppo basso. I piedi non dovevano uscire di fuori, perché se per caso uscivano di fuori passava la SS e te li tagliava – insomma ti dava delle botte tremende – quindi dovevi stare rannicchiato, sempre messo lì. All’esterno, dopo sei mesi, sette mesi, avevano costruito delle baracche, in modo che, che facevano… quando si cambiava il turno, un po’ andavano nelle baracche e un po’ andavano … insomma, questo col tempo.

D: Quindi tu hai fatto sei mesi all’interno delle gallerie?

R: Sei mesi all’interno delle gallerie senza uscire mai. Nemmeno per… niente, niente! Io per sei mesi non ho visto la luce del sole, ecco. Sì, si sentiva l’aria, perché questi due tunnel paralleli erano lunghi circa due chilometri, magari non c’erano porte e allora l’aria correva. Faceva freddo alle volte lì dentro, ma uscire per andarmi a lavare: niente. Anzi, quando qualche volta cercavo di pigliare un cannellino di acqua – che era la nostra… il recipiente per la zuppa degli avieri – alle volte, molte volte ho preso tante botte, gli occhiali m’andavano a finire… come non si son rotti non lo so. Perché credevano che io bevessi l’acqua e allora… si moriva ecco. L’acqua non c’era, non si poteva bere. Difatti ci davano il caffè amaro, ogni giorno.
Invece fuori c’erano le baracche, ecco. [Nelle] baracche c’era il lavandino, c’erano una specie di… I gabinetti non ce n’era però eh! Anche nelle baracche, all’esterno del tunnel, c’erano sempre questi benedetti bidoni che si andava a fare… Ora, capite che di notte dell’inverno, con 24 sottozero, uno che si doveva mettere a andare a fare i suoi bisogni fuori, all’aperto, anche se uno non era malato, si ammalava. Quel gelo… avere gli intestini aperti. Alla mattina, quando ci svegliavamo alle 5 e mezza, alle 6, dovevamo andare a lavare con quel gelo, a torso nudo. Se uno si portava la camicia ce la strappavano addosso. Questo era il Lager Dora. Il Lager Dora era l’inferno vero e proprio. Nessuno… Io se sono oggi qui, sono perché voglio parlare di questo Lager Dora.
Noi di italiani eravamo pochi. Eravamo 800-1000, non ricordo. Nel giro di pochi mesi, 3-4 mesi, sono morti 304 italiani. Sette sono stati fucilati. Sono stati fucilati questi sette sapete per che cosa? Perché dentro le gallerie, quelle che lavoravamo col martello perforante, si diceva… ecco, chiacchiere… si diceva che ci toccava un litro di zuppa in più. Invece, noi altri, questo litro di zuppa i Kapò se la vendevano o non so cosa facevano. Allora questi sette alpini – insomma, io ho smontato, per dire la precisione, e loro montavano al turno mio, perché facevano lo stesso mio lavoro – questi si sono rifiutati di lavorare. Ci dissero: «Fateci cambiare un altro lavoro, levateci di qua, dato che non ci date il litro di zuppa [in più]». Nel frattempo c’era la SS vicino a questo Kapò, ha detto: “Se non li denunci tu, li denuncio io”. Ce l’hanno detto in tedesco. Comunque, questi sette italiani sono stati fucilati per un litro di zuppa. Non è che non volevano lavorare, han detto: “O ce la date o ci fate cambiare lavoro, dato che noi altri [utilizziamo] questi martelli perforanti, dateci… se ci spetta perché non ce lo date?”. In sostanza, il torto lo avevamo sempre noi, e i Kapò e la SS avevano ragione.
Il giorno che ero a riposo io mi son trovato per caso che ero fuori dal turno, e ci hanno chiamato tutti quelli che eravamo fuori e ci hanno portato dentro una cava di pietra. Noi eravamo un centinaio, ci siamo guardati in faccia, dico ma: “Qua cosa fanno? Ci vogliono ammazzare tutti?”. Nel frattempo arrivò un plotone di esecuzione, e poi arrivarono questi sette italiani, per dirsi precisi sei italiani in piedi e uno che era malato in barella. Quando sono arrivati questi qui, siccome noi eravamo prigionieri, eravamo militari, allora c’hanno fatto un regalo, che invece di impiccarli, li hanno fucilati. Le parole che ha detto questo ufficiale io non lo dimentico mai, mai! Posso vivere ancora cento anni. L’ufficiale disse: “Gli italiani, siete i figli di una nazione che per ben due volte ci ha tradito. Voi lo dovete pagare col lavoro e con la disciplina. Chi sbaglia [paga] anche col sangue. Su 100 italiani, 99 devono morire e uno deve rientrare in Italia malato”. Noi italiani, o meglio io, avevo paura dei russi, che erano uomini come me! Tanto era diventata la paura tremenda in questo Lager. E il bello è che si dice che il Lager Dora sarebbe stato il nome o della moglie o di una figlia di questo ufficiale.
Ritorniamo di nuovo al discorso che venne il tifo [petecchiale]. I tedeschi si misero paura perché sai, infestare migliaia di persone non ci voleva niente. Tutti avevamo i pidocchi addosso. Basta che c’era un pidocchio eri infestato, e l’avevamo tutti. Allora cosa hanno fatto? Hanno recintato tutta la nostra baracca 18. Non potevamo uscire, ci avevano messo come in quarantena.
Dopo sei mesi sono andato a fare la prima doccia. M’hanno di nuovo rapato a zero, perché ogni volta che si faceva [la doccia] rapata a zero, in tutti i posti del corpo, dove c’era pelo ci passavano. Come finiva di lì, c’era una vasca che era piena di disinfettante. Ti dovevi infilare lì dentro. Se tu non ti bagnavi la testa loro ti mettevano la testa dentro questo disinfettante, perciò delle volte gli occhi bruciavano. Ma se uno era un po’ furbo, uno si lavava un po’ la testa, e così non veniva… Poi quando [il locale] era pieno – saremo stati 100-150 – allora aprivano le docce che ti bruciavano, poi ti davano le docce di acqua fredda. Finito di lavarci, in sostanza, uscivamo fuori. Tutti la nostra roba, gli indumenti, li davamo prima, in modo che li portavano in una sala di disinfezione, li mettevano a disinfettare. Dopo, finito di fare la doccia, nell’inverno, mese di marzo, aprile, stare fuori ancora un’altra mezz’ora, tre quarti d’ora, nudo, per darti gli indumenti. Dopo andavamo in baracca. Alla sera venivano specie di infermieri con dei fari, accesi, e ci guardavano in mezzo alle gambe e sotto all’ascella, per vedere se avevamo qualche pidocchio. Dopo quindici giorni si resero conto che gli italiani… avevamo fame, non pidocchi! Ecco, dopo sette mesi e qualche cosa, mi ho potuto lavare. Dopo io sono andato sempre a lavorare queste strade. Chi andava a lavorare, a fare la strada, sempre chi comandava erano…che noi come caposquadra avevamo dei delinquenti. Delinquenti tedeschi però, non italiani o cosa, gente che aveva fatto dei sabotaggi, gente che era condannata o all’ergastolo o a vita… Allora questi qui, siccome parlavano tedesco, li hanno levati dal carcere e li hanno portati nei Lager. Molte volte la SS non comandava nemmeno, ma comandava più questo Vorarbeit[er]. Lui ci poteva ammazzare, e la SS quasi non parlava, va bene? Finito questo lavoro, nel mese di maggio… giugno, insomma, giugno, luglio, ci hanno fatto i raggi a tutti gli italiani – io parlo degli italiani – per vedere dal torace cos’è che avevamo. Quelli che erano malati o di tubercolosi o di prurito li hanno messi da una parte, e noi ci hanno mandati a lavorare.
Il Lager Dora era tutto su una pianura, e poi c’era una collina. Lì, poi dopo è avvenuta la costruzione della bomba volante, perché questo lavoro nelle gallerie era tutta la preparazione da poter fare degli stabilimenti in modo che si poteva lavorare per fare la bomba volante: le V1 e le V2. Quando poi un giorno di questi mi sono trovato ad andare a pigliare del materiale nel tunnel, quel giorno ho visto Von Braun, questo uomo pericoloso, uno scienziato che merita tutte le lodi possibili. Nel Lager Dora però era un assassino, perché lui andava a prendere, mano a mano che morivano… I morti che c’erano lì dentro, erano una cosa spaventosa, non potete immaginare. Erano accatastati come la legna, poi venivano dei camion e li portavano a Buchenwald a bruciare, perché noi ancora non avevamo i forni. Ma dato che i morti aumentavano sempre, in continuazione, allora furono costretti a far mettere due forni crematori, così li bruciavamo al Dora. Quando uno faceva un piccolo sbaglio, o si allontanava dal lavoro, o una disattenzione, tutto era [considerato] sabotaggio. La minima cosa erano venticinque colpi sul [fondoschiena]. Loro lo chiamavano ‘Gum’ [Gummi, ndr], era un filo elettrico con dentro il rame. Dopo dieci colpi nessuno brontolava più. Io fortunatamente non ci sono arrivato, perché fin dal primo giorno ho capito che io dovevo lavorare poco e non farmi trovare mai fuori posto, perché se eri fuori posto erano botte, da morire. Allora, dopo di questo, ho fatto quasi un anno al Dora. Dal Dora, nel mese di agosto [1944] mi hanno trasferito e mi hanno portato a Ellrich. Sarebbe un sottocampo, ma era il più grosso che c’era. Paragonare il Dora e l’Ellrich… erano padre e figlio, né più né meno. Mi hanno portato lì e ci hanno messo a dormire per terra.

D: Quando ti hanno trasferito in questo sotto-campo, con cosa ti hanno portato?

R: Con un camion, sempre per via di camion ci hanno portato.

D: Con altri italiani?

R: Sì, eravamo cento italiani. Ci hanno preso dal Dora e ci hanno portato a Ellrich.

D: Ti hanno dato un’altra immatricolazione?

R: No no, sempre 0162 la mia matricola. La mia matricola non è cambiata più. Io ero 162, dato che dipendevo [da Dora], perché Ellrich si chiamava Ellrich Dora Buchenwald.
Allora, prima di continuare su Ellrich volevo precisare… Ho conosciuto Von Braun dentro la galleria. Questo uomo – che è stato uno scienziato, ci ha portato sulla luna, ci ha fatto tutto quello che ha fatto, però dentro il tunnel era un assassino, un assassino che come lui non ce n’erano – andava giornalmente, continuamente a Buchenwald a pigliare nuovi prigionieri che arrivavano – deportati, non prigionieri, deportati, perché forse gli unici prigionieri eravamo noi italiani – e li portava in Germania.
Prima che io andassi a Ellrich ci fu un sabotaggio delle bombe volanti. Si diceva – 10 mila bombe, che io non posso precisare – che la bomba partiva dalla pista di lancio, andava in Inghilterra, però non scoppiava più. Il mio pensiero corre [a] qualcuno di questi che lavoravano dentro il tunnel, alle gallerie, che ci dava alle volte qualche cosina e diceva: “Buttalo nel cesso”. Diciamo cesso, ecco, e magari poi ci regalava pure un pezzettino di pane “e noi eravamo felici e contenti”. Saranno stati loro… Comunque, le bombe andavano in Inghilterra e non scoppiavano più. Allora cos’è successo? Quel giorno, quando poi la cosa si è saputa, hanno impiccato trentadue persone. A noi – tutti quelli deportati che erano fuori, al riposo – ci hanno fatto stare dalla mattina alle sei fino alle sei e mezza, sette [di sera] fuori senza mangiare, senza bere, in piedi, per aspettare quest’impiccagione. In sostanza quasi tutti erano civili, perché erano vestiti civili, perché non erano vestiti a righe. Comunque, di questi ne hanno impiccati trentadue. Quando è finita l’impiccagione, siamo tornati.
Il lavoro che c’era sulle strade erano due squadre: una squadra si chiamava ‘Becker eins’, che è dov’ero io, ed era discreta. Poi c’era una ‘Becker due’. Erano deportati italiani, e lì tutte le sere se ne portavano un morto, perché c’era un Kapò che si era messo in testa che noi avevamo ucciso suo padre, perché il padre era morto nella guerra del ‘15-’18. Non faceva altro dalla mattina alla sera che dare botte, senza motivo, senza motivo perché si era lì a caricare i vagoni. Io ci sono capitato un giorno, con questo figlio di…, diciamo così.
Poi dopo sono stato trasferito a Ellrich. Dunque, trasferito all’Ellrich, lì a dormire per terra, di nuovo mi sono riempito di pidocchi.

D: Scusami Pippo eh, ma è importante: a Dora tu donne non ne hai mai viste?

R: Mai, mai… [anzi] l’ho visto! Ho visto qualche donna. Sapete cosa hanno fatto i tedeschi? I tedeschi, sulla collina dove fucilarono questi sette alpini, avevano costruito delle baracche. Avevano messo una baracca di prostitute, una baracca per quelle malate di polmonite e di bronchite e quelle cose lì, e loro volevano che noi andassimo da queste prostitute. Ma se non stavamo in piedi, come facevamo ad andare? Più di una volta ci hanno accompagnato da queste prostitute, ma io non lo trovavo. Io per due anni non sapevo se ero un uomo, cos’ero… mi serviva solo per fare la pipì e basta. Ma non lo trovavo nemmeno, non sapevo niente. Io per due anni non so se ero uomo, se ero donna, niente ero, ecco. Per due anni. Dopo liberato, subito mi sono svegliato, i miei sensi si sono svegliati ecco.
Allora lì a [Ellrich], una volta che ero bello pulito, venuto dal Dora, e andare lì a dormire a terra, questi pidocchi… mi sono cominciati a venire dei pruriti, delle cose spaventose. I pidocchi camminavano sulle coperte, in fila indiana, e io dovevo dormire, mi dovevo mettere sul pagliericcio. Allora cosa ho fatto? Andavo in questa mezza specie di infermeria, mi hanno dato un liquido, era come un olio, me lo passavo tutto e il prurito se ne andava. Non so che olio era. Comunque, poi sono andato a lavorare. Da Ellrich si pigliava un trenino, si faceva mezz’oretta di treno, ed andavamo a lavorare dall’altra sponda delle gallerie. Da lì andavo a scavare i pozzi d’acqua. Un altro lavoro ancora. Non avevamo delle trivelle, che forse ancora non esistevano. Siccome eravamo vicino ad un fiume allora noi bucavamo questi pozzi, facevamo un metro di diametro e ci andavamo con una pompa, che facendola scendere dalla gru fino a lì dentro. Allora poi, dato che era mischiata acqua e ghiaia, questa pompa aspirava e tirava su e poi la svuotavamo. Quando eravamo ad una certa profondità si metteva il tubo dei pozzi artesiani e a giro ci mettevamo una ghiaia speciale che portavano da fuori, in modo che potesse filtrare l’acqua. Quest’acqua di questi pozzi doveva servire per portare l’acqua potabile al Dora… che forse non ci sono mai riusciti a portarla. Questo lavoro l’ho fatto… dunque, Pasqua quell’anno lì è stata il primo di aprile del ‘45… perciò dal settembre del ‘44 fino al primo aprile del ‘45 sono stato a Ellrich. Lì diciamo che ero un po’ più libero. Lì lavoravo… però era arrivato un contrordine che io dovevo… che gli italiani, potevamo andare a lavorare senza più la SS, senza più i cani, senza questi Kapò. Insomma, c’era un italiano che faceva da caposquadra. Allora si aveva un pochettino più di libertà. La sera, dopo aver lavorato di giorno – erano tutti terreni che c’erano state patate – e ci mettevamo a zappare con il piccone per vedere se trovavamo una patata marcia . Lì si andava a lavorare tutti i giorni a 24 gradi sottozero. Io avevo una divisa di tela, perché la divisa di aviere – difatti lì nessuno mi conosceva come Algeri, io ero ‘l’aviere’, e basta, aviere 0162 – la divisa si era consumata, le scarpe si erano consumate. Poi le scarpe dell’aviazione sono delle scarpe normali, come le nostre erano, non erano scarpe da militare con i chiodi. Mi dettero degli zoccoli: di sopra c’era la pelle ma di sotto c’era lo zoccolo, e forse era un bene perché non si sentiva tanto il freddo. Poi ci avevano dato i para-orecchi e un paio di guanti, di cose che duravano un giorno e si dovevano buttare. Ma 24 sottozero, tutte le mattine, fino al mese di febbraio, che l’anno del 1944-45 il tempo fu più clemente. Le piogge cominciarono a febbraio, che invece generalmente cominciavano a aprile e maggio e invece quell’anno lì… e insomma la temperatura cambiò, ma fino a che siamo arrivati alla fine di febbraio, caro mio… 24 gradi sottozero. Tanto che ‘sto borghese che ci comandava ci aveva dato il permesso di poterci scaldare con una stufetta e facevamo un cambio, due sotto e due sopra.
In due anni che sono stato nel Lager Dora e a Ellrich io non ho visto né un mitragliamento, né un bombardamento, niente. Mai suonare un allarme. Sì, di giorno magari passavano degli apparecchi, ci facevano smettere perché quando passavano degli apparecchi si nascondeva il sole. Ne passavano tanti, ma non so dove andavano. Generalmente si diceva che andavano a… non mi ricordo, come mi viene in mente ve lo dico. Allora cosa facevamo noi? Ed era la mia impressione, dico “ma come mai viene nessuno qui?”. Mai un mitragliamento, mai un bombardamento. Eppure, il Lager Dora ed Ellrich erano illuminati a giorno, di notte, non è che c’era da nascondere. Si sapeva che lì si costruiva la bomba volante, la V1 nelle gallerie, ma un mitragliamento, una cosa, mai, mai successo una volta. L’unico mitragliamento che fu fatto a Nordhausen fu dopo la Pasqua del ‘45. Ma se è stata una settimana dopo Pasqua o dieci giorni non ricordo con precisione. Appena c’è stato questo mitragliamento ci fu un temporale, quindi scappiamo tutti per rientrare nei nostri lager. L’indomani mattina non si andò più a lavorare. Invece di andare a lavorare ci hanno messo su un treno dei carri bestiame. Gli italiani per stare insieme, eravamo novanta italiani tutti in un vagone, messi seduti uno con le gambe dentro l’altra, pur di stare tutti vicini. Gli altri erano tutti deportati.
E io che cosa avevo di divisa? Dato che la divisa si era rovinata, quella di aviere, m’avevano dato una divisa di tela. Era tutta marcata, dietro le spalle, secondo il mio punto di vista c’era scritto ‘Kriegfand’ [Kriegsgefangener, ndr], davanti nel petto e nelle ginocchia c’era scritto ‘Concentramento Lager Buchenwald’ [Konzentrationslager Buchenwald, ndr]: io li decifravo così, perché c’era K, B… KLB.
Ma a 24 gradi sottozero, come si faceva ad andare a lavorare in quel sistema? Allora cosa succede? Perché a delle volte… Rubai a Ellrich un pezzo di coperta a un altro disgraziato come me, gli feci un buco, me la infilai dalla testa e così poi mi chiudevo con questa divisa di tela. Alla sera quando rientravo, questa coperta mica la potevo portare nel castello dove dormivo, allora andavo nei cessi, mi levavo questa coperta, la mettevo sotto un bidone di acqua, all’ingresso, e poi l’indomani mattina me la andavo a pigliare e la mettevo di nuovo. Era più fredda allora che alla sera, bagnata, umida era, perché sotto un fusto di acqua cosa poteva nascere?
Poi questa non ve l’ho detta. Il Lager del Dora ed anche quello dell’Ellrich erano tutti elettrificati e reticolati. C’erano cavi elettrici così [spessi]. A un metro di distanza ti attirava. Se uno si avvicinava ti attirava e rimanevi appiccicato sul muro eh! Sui fili… non c’era pietà. Inoltre c’erano trecento cani messi sulla collina, che appena uno faceva qualche fesseria loro erano addosso. Invece a Ellrich i cani non c’erano, avevamo come ho detto un po’ più di libertà perché non avevamo più i tedeschi che ci comandavano, che ci accompagnavano. E rientravamo qualche mezz’oretta, qualche ora più tardi. Si rientrava e non succedeva niente. Magari l’ufficiale se la pigliava a ridere. “Eh” – dice – “siete stati con le donne”. Ma l’interessante è che gli dicevo: “Machine kaputt”, non funziona più. Lui si faceva una risata e tutto passava così. Rientravo dentro e andavo a mangiarmi quel po’ di zuppa. A gennaio finisce la zuppa… [anzi] finisce il pane! Non ce n’era più né per noi altri e nemmeno per i militari che erano lì d’intorno. Allora ci davano un litro di zuppa in più. A cosa serviva un litro di zuppa in più? Brodaglia! Quando davano le rape, era amara, puzzava, una cosa che io quel giorno io rimanevo senza mangiare. Già non mi davano niente, e io stavo senza mangiare.
Alla mattina come ho detto pigliavo il treno. Andavamo, mezz’oretta di treno, poi scendevamo per raggiungere la sponda dietro i tunnel. E da lì passavamo. C’erano delle baracche, chissà, ci stavano dei borghesi… e alla sera buttavano bucce di patate, e allora io raccoglievo alla mattina tutte queste bucce di patate perché durante la notte col nevischio erano belle bianche, ma erano sempre bucce. Raccoglievo le bucce, prendevo queste carote e me le portavo sul lavoro. Lì avevo la possibilità di bollirle e mi mangiavo quello. Un giorno di questi ho trovato un po’ di crusca e allora cos’ho fatto? Ho preso questa crusca, la impastavo assieme alle patate marce che trovavo, e così poi le mettevo in questa stufa e mangiavo. Il pericolo, la mia disgrazia, tuttora e fino adesso, non era altro che la fame.
Io fino a oggi – c’ho 78 anni – a casa mia non c’è mai una volta che non ci sia il pane. È un’ossessione, sarà un fattore psicologico ma il pane ci deve essere. Guai se non c’è il pane, a costo che c’avanza, ma ci deve essere. E questo è quello che mi sono portato dalla Germania: la fame.
Ritorniamo di nuovo a Ellrich. Quando ci hanno messo sui vagoni bestiame – allora, perché il lavoro era cessato in Germania, già si vedeva che i russi, i francesi, gli inglesi e gli americani ormai avevano circondato – ci hanno messo su questi treni. Andammo avanti e indietro, ma non si sapeva dove andare, perché di là non si poteva passare perché c’erano i russi, di là non potevamo andare perché c’erano gli americani, di là non potevamo andare perché c’erano gli inglesi… E allora un giorno di questi ci hanno fermato in una stazione – non so che stazione – a binario morto. Siamo stati un giorno. Nel frattempo, ecco, il primo mitragliamento. È passato un mitragliamento di caccia inglesi e hanno mitragliato questo treno che era fermo. Eppure, il nostro [vagone] degli italiani era chiuso, ma la maggioranza di tutti gli altri deportati erano scoperti. Li vedevano che c’era gente dentro questi carri ma si sono messi a mitragliare! Con un mitragliamento che hanno fatto, ne hanno uccisi più di trecento. Un italiano che l’avevo in mezzo alle gambe, forse lui mi ha salvato la vita: lui ha preso le pallottole, ci ha fatto saltare il braccio destro e la mano sinistra come se fosse stata schiacciata da un carrarmato, qualcosa del genere. Lui, come l’abbiamo messo a terra, ha detto: “Tagliatemi il braccio, pigliate un coltello”. C’abbiamo tagliato il braccio, però… è morto, non ce la faceva. L’indomani mattina i tedeschi volevano che andavamo a scavare la buca per seppellire… Io ho fatto tutto in mezza maniera… a scavare non ci sono andato. Comunque, tanti hanno dovuto andare per seppellire questi trecento. Da lì ci hanno portato in una fabbrica. Dicono – io non lo so – che eravamo a 40-50 chilometri distanti da Berlino, perché noi sentivamo dei bombardamenti, suonavano degli allarmi, la terra tremava dov’eravamo, sotto nei rifugi. Io che non capivo cosa significava alzarsi la notte per l’allarme, cominciai ad alzarmi 3-4 volte durante la notte, andare in un bosco per ripararci. Così dopo 2 o 3 giorni mi raparono di nuovo a zero e mi hanno di nuovo immatricolato. Mi immatricolarono e mi dettero questo numero. Da militare mi fecero diventare un politico: 138.636. Ora, io non lo so per quale motivo mi dettero questo numero. Ho pensato che loro non potevano più portare in giro… noi eravamo militari a tutti gli effetti. […]
Il giorno che m’hanno messo a fare… il giorno che abbiamo cominciato la marcia della morte, era il 20 aprile del ‘45, pensate un po’. 20, 18, 19 aprile, non più di questo. Perché si chiama marcia della morte? Perché man mano che camminavamo, chi cadeva per terra veniva ucciso. Io sono partito con 40 di febbre. Due italiani, un ex carabiniere che aveva fatto la ritirata dalla Russia e un mio paesano che non so come si chiama perché… lì non li sapevo i nomi, m’hanno trascinato per tre giorni. Il primo giorno, quando la sera piovigginava, ci siamo fermati in un fienile. Allora loro m’hanno buttato addosso due balle di fieno. Si vede che il caldo del fieno mi ha dato un po’ di respiro. L’indomani mattina sembrava che mi sentissi un po’ meglio. E invece cosa avevo? C’avevo le ghiandole dell’inguine che erano grosse come i testicoli, quindi mi impedivano di camminare per il dolore che c’avevo, tremendo. Comunque, questo lavoro l’ho fatto per tre giorni. Finendo il quarto giorno, quasi quasi avevo un po’ di fame. Ma sai che io strisciavo le punte dei piedi e questi due ragazzi mi tiravano e dietro c’avevo un ufficiale… un soldato della SS che mi puntava il fucile alla schiena, perché appena cadevo per terra lui mi ammazzava. Perché chi l’ha fatto per disgrazia, chi l’ha fatto per fare il furbo, son morti tutti. Allora cosa è successo? È successo che il quarto giorno, vedendo che non potevamo andare più in nessun modo, né a piedi né… ci hanno messo dentro un bosco. E lì, due volte al giorno ci facevano uscire per andare a pigliare un po’ di acqua, acqua verde… non acqua… insomma, per potere bere. C’erano dei miei amici – forse avevano più coraggio di me, avevano un altro stomaco – pigliavano l’erba a terra e se la mangiavano cruda. Io non ci riuscivo. Prima di partire m’avevano dato un pezzo di filone di pane e una scatoletta. Dato che non potevo camminare, per alleggerirmi, questo zainetto lo avevo dato a un altro compagno. Questo compagno aveva più fame di me, se l’è mangiato, e io il giorno che avevo fame… poi mi venne una crisi, sai, [di] nervi, comunque passò tutto. Alla sera un ragazzo, contadino – magari conosceva, io non sapevo cosa era – è andato a pigliare dell’ortica. Sono andati a pigliare dell’ortica e l’hanno bollita. Sai, io senza mangiare da tre-quattro giorni, cos’è successo? È successo che poi, durante la notte, mangiata questa ortica di sera, mi è venuto un forte mal di stomaco. Come l’ho mangiata intera, così l’ho buttata giù. Perciò in questo bosco ho mangiato questa ortica, che io non conoscevo, non sapevo nemmeno se si poteva mangiare, quindi l’indomani mattina l’ho buttata per intero.
Alla sera ci hanno portato dei pacchi: era la Croce Rossa canadese, dicevano. Io non lo so chi erano. Un pacco da cinque chili di viveri che dovevamo dividere in cinque, ogni pacco cinque persone. Molti si sono messi a mangiare e qualcuno è anche morto, perché il nostro intestino era diventato piccolo e mangiare così, a saziarsi… L’indomani mattina ci hanno messo di nuovo in cammino.

D: Questo dov’era?

R: Non lo so, caro mio, non lo so. Camminare a piedi, avanti e indietro… Qualche volta guardo la cartina geografica ma non mi rendo conto. La Croce Rossa canadese aveva dato ordine che chi non poteva camminare ci dovevano lasciare sul margine della strada. Io non potevo camminare. Poi, siccome durante la notte un insetto m’ha morso il naso – io ce l’ho bello grosso, ma era [diventato] una tromba, una cosa sproporzionata, non so che insetto sia stato – sono rimasto io e altri compagni che aspettavamo la Croce Rossa canadese. Da lì ci siamo mossi e abbiamo trovato sulla strada un fienile e ci siamo infilati dentro. Dopo due-tre giorni è venuto di nuovo un camion – che noi non avevamo capito se era venuto a prenderci, non lo so cosa era venuto [a fare] – ci hanno lasciato un altro pacchettino piccolo da due chili e se ne sono andati. Siamo stati ancora per due giorni… non so se era il primo di maggio o il 3 o il 4, ma comunque erano questi i giorni, non più di questi, è arrivata la SS di pomeriggio, e a colpi di calcio di fucile nella schiena, che sembrava che ci rompesse la schiena, ci ha fatto uscire fuori da questi fienili. Ero più nudo che vestito, avevo una coperta e me la sono messa sulla testa: sembravo un barbone. Siamo andati verso il centro del paese, che non so cos’era ‘sto paese… Arrivati lì, ci ha visto un vigile. Questo vigile ci ha portato dentro al Municipio, ci ha dato una zuppa di piselli e dopo ci ha accompagnato fuori da questo paese. Mentre eravamo nel Municipio sentivo dire ‘kilometer’… ho capito che a 8-6 chilometri c’erano i russi che arrivavano. Ci hanno portato fuori di lì. Questi uomini si sono meravigliati perché lì ci dovevano essere tanti prigionieri o deportati, invece non abbiamo trovato nessuno. Allora subito questi qui ci hanno lasciati lì e sono scappati. Dopo mezz’ora ci è saltata una polveriera, cos’era… certo che era una cosa straordinaria…
L’indomani mattina sono venuti due olandesi – noi abbiamo dormito per terra – e cominciavano a fare: “Italiens, la guerre est finie! La guerre est finie!”. “Ma insomma questo è scemo…”. Non potevo pensare… Poi dice: “Fertig, La Guerre est fertig!”. Così abbiamo cominciato un po’ a crederci. Di fronte – questo era un deposito di patate prima – c’era un treno abbandonato. Siamo andati a vedere: i tedeschi si erano spogliati, le SS si erano spogliate. Lì facevano da mangiare, non so cosa facevano, perché abbiamo trovato dei pezzi di bue, carne buttata lì, medicine… insomma, si vede che si erano spogliati e sono andati via. Io che ero più nudo che vestito ho preso un giubbotto della SS, c’ho levato tutte le mostrine e me lo son messo. Quel territorio lì era stato liberato dai russi. E allora come la mettiamo? I russi avevano l’intenzione di raccogliere tutti i prigionieri e portarli di nuovo a lavorare in Russia, o in campi di concentramento russi. Giuseppe – perché io mi chiamo Giuseppe, Pippo è affettuoso – non sapendo parlare né il russo né il tedesco ho pensato bene: questi qui ci portano a lavorare. Allora siamo andati alla stazione per andare verso gli inglesi. I figli di… non ci mandavano verso gli inglesi ma ci mandavano verso i russi!
Siamo arrivati in una stazione, abbiamo trovato un siciliano, m’ha detto: “Ma dove andate di qua? Qua i russi vi portano a lavorare nei Lager”. Toh, torna indietro col treno. Sono ritornato di nuovo indietro col treno. Durante il viaggio ho incontrato dei prigionieri, dei deportati che erano nel Lager Dora, non so se erano svedesi, olandesi, non lo so… dalla Danimarca. I più pochi di tutti erano solo gli italiani, ma poi non dico quanti francesi c’erano, non dico quanti russi, polacchi, cecoslovacchi, c’eravamo tutti, nel Lager Dora e Ellrich. Allora, questi due ragazzi ci dissero – che loro parlavano un po’ il francese, insomma, non so – dicevano: “Venite con noi altri”. Siamo andati con loro in un posto di smistamento, al confine tra i russi e gli inglesi. Lì m’hanno fatto presentare, c’ho dato il mio nome e cognome e io c’ho detto: “Sono tre giorni che non mangio, mi dia un pezzo di pane”. E i russi m’hanno dato… quest’ufficio di smistamento m’ha dato un pezzo di pane e siamo andati sopra i camion degli inglesi. Sopra il camion c’erano sigarette, c’era scatolame, c’era il ben di Dio. A noi che ci mancava tutto, là invece c’era tutto. Da lì c’hanno portato ad Amburgo. Ad Amburgo abbiamo passato un fiume, il ponte era fatto tutto di barche… Siamo arrivati ad Amburgo la sera stessa, ci hanno spogliato e ci hanno disinfettato, polvere addosso… L’indomani mattina quando ci siamo alzati suonava la tromba per andare a mangiare. C’era tanto pane bianco buttato per terra che voi altri non avete idea. Noi, che eravamo morti di fame, ci siamo messi a raccogliere tutto il pane per terra, e allora gli altri ragazzi ci hanno detto: “Ma cosa raccogliete? Qui si va a mangiare cinque volte al giorno. Gli inglesi ci chiamano ogni cinque minuti per andare a mangiare”. Comunque io me lo sono preso un po’ di pane, poi …
Da lì, dopo due-tre giorni m’hanno mandato a Sulingen. Ci hanno di nuovo smistato, ci hanno passato la visita per vedere se sotto l’ascella avevamo il gruppo del sangue della SS. Da lì mi hanno mandato in un altro paesino vicino. La sera c’erano dei paesani napoletani e siamo usciti. L’addetto alla cucina dice: “Non ti preoccupare, usciamo”. Era mezzanotte: abbiamo trovato inglesi all’incrocio, ci hanno arrestato e ci hanno portato in carcere per otto giorni. Siamo andati in un vero carcere! Dopo otto giorni ci hanno portato al tribunale […] io non capivo niente. Ci hanno mandato… noi abbiamo fermato un camion e sono ritornato di nuovo nel campo di concentramento dove ero. Con gli inglesi mi hanno messo a lavorare. Io, per la fame che avevo, con gli inglesi… Ci hanno dato la divisa da inglesi, perché non avevamo niente, eravamo più nudi che vestiti. Allora io sono andato nella cucina a lavare le gamelle, sempre per il pensiero per la fame. Così mangiavo carne grassa, mangiavo cose… e se mi si vede nella fotografia, guarda, dopo liberato sono bello gonfio che sembro un pallone.
Arrivato a Caltagirone, dopo quindici giorni, mi sono sgonfiato completamente, tanto che nessuno mi credeva. Dice: “Eh, poi dicevano di aver sofferto! E come mai stanno così?”. Invece dopo quindici giorni tutto è finito.
Per trentun anni non ho parlato più di prigionia, perché nessuno ci credeva. Anzi! Anche ora, tutt’oggi, si fanno delle risatine, specie in Sicilia, nel meridione, perché loro la guerra non l’hanno vista come è stata fatta nel nord. Dopodiché poi sono rientrato in Italia, il 28 settembre sono arrivato al mio paese, 28 settembre del ‘45.
Quando siamo partiti dalla Germania per arrivare a Caltagirone, c’ho impiegato diciotto giorni di carri bestiame. La prima tappa l’abbiamo fatta a Wietzendorf, dove c’erano prigionieri tutti gli ufficiali. Da lì siamo andati poi nel Brennero, seconda tappa. Terza tappa l’abbiamo fatta a Pescantina, poi da Pescantina fino in Sicilia.
Questa è la mia storia, e la mia disgrazia. Però ringrazio Iddio che sono ancora vivo. Non so se è stato un miracolo, o che io ero sano – veramente il mio sangue era buono – e un po’ di fortuna. Tutti i deportati che sono rientrati hanno avuto tutti un tantino di fortuna, tutti l’abbiamo avuta. Nessuno può dire che non ha avuto un po’ di fortuna.

D: Pippo, tu non sei mai stato intervistato?

R: Dunque, qui a Genova?

D: No, in genere.

R: Sono stato intervistato soltanto da Piccini, quando è stato… tre anni fa, due anni fa, l’Istituto storico della Resistenza.

D: E basta?

R: E basta. Poi ho scritto un diario, ma me lo son scritto per conto mio.

D: Hai scritto un diario?

R: Sì, un diario, l’ho scritto per conto mio, così. Ma l’ho scritto dopo cinquantun anni! […]