Vitiello Salvatore

Salvatore Vitiello

Nato il 22/08/1915 a Boscoreale (Napoli)

Intervista: 27/07/2000 a Padova, realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 23 – durata: 54’

Arresto: 05/08/1944 a Pola (Croazia)

Carcerazione: Pola, Trieste

Deportazione: Dachau, (Matr. 112.764); Buchenwald; Neuengamme (Matr. 63.063); Meppen

Liberazione: maggio 1945 a Sandbostel.

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Sono Vitiello Salvatore. Nacqui a Boscoreale, in provincia di Napoli, il 22 agosto 1915. Venni arrestato a Pola il 5 di agosto 1944, dalla SS, sottoposto a interrogatori, anche con qualche tortura, ma riuscii a non tradire i miei compagni.

D: Salvatore, perché ti hanno arrestato a Pola?

R: Io facevo parte di una cellula partigiana di cinque elementi. Venivamo contattati da un… come chiamarlo… era un certo Nino Vangoni che aveva il compito di coordinare il nostro lavoro. Ogni tanto si facevano delle riunioni di queste cinque persone, a me affidarono l’incarico di volantinaggio di manifestini nei locali pubblici e anche di contattare le famiglie dei partigiani per dar loro notizie e trasmetterle ai partigiani combattenti in Jugoslavia.

D: Tu ti sei stato aggregato alle formazioni partigiane a Pola dopo l’8 settembre [1943]?

R: Dopo l’8 settembre… Io ero a Venezia in servizio nella Marina militare, ero di carriera. All’8 settembre non mi presentai ai tedeschi – bisognava presentarsi sotto minaccia di pena di morte – rimasi latitante per un bel poco, forse… non so, un mese o due. Dopo, mia mamma da Pola – perché non siamo polesi ma la mia famiglia era a Pola, mio papà era un ufficiale di marina, era stato preso anche lui prigioniero, internato nei campi militari, era rimasta a casa soltanto mia mamma – mia mamma riuscì ad avvicinare un maresciallo dell’aviazione, nostro compaesano, e questo qui una volta che venne a Venezia, ci mettemmo d’accordo e mi portò a Pola. Qui, dopo un po’ presi contatto con le formazioni partigiane.

D: E lì ti hanno arrestato le SS.

R: Lì mi hanno arrestato le SS, sì.

D: E ti hanno portato dove?

R: Mi hanno portato prima nelle carceri di Pola. Lì, dopo gli interrogatori, forse sono stato una ventina di giorni, all’incirca. Di lì poi fummo trasferiti a Trieste nel carcere al Coroneo, e dopo forse quattro o cinque giorni su dei carri merci ci trasportarono per via Tarvisio, arrivammo in una località che non ricordo bene quale fosse. In questa località fummo selezionati: una piccola parte ci condussero a Dachau, l’altra [parte] non so dove, probabilmente erano liberi lavoratori che, non so, avevano aderito… [deciso] di collaborare con i tedeschi.

D: Nell’arresto hanno preso tutta la tua cellula partigiana?

R: Le accuse erano quelle che ho detto prima, io naturalmente le ho sempre negate. La denuncia fu fatta da una ragazza con la quale avevo avuto dei rapporti in precedenza; allora chiesi che fossi messo a confronto con questa ragazza per sentire da lei. Questa venne al confronto, confermò tutto, io imbastii una storia, cercando di convincere che questa qui agiva per vendetta, ma in effetti questa si era data ai tedeschi, era diventata un’agente dei tedeschi. Si chiamava Vittorina Torollo, era di Rovigo. Quando ritornai – adesso faccio una breve [spiegazione] – fui chiamato dalla Corte d’Appello di Venezia: qualcuno aveva fatto denuncia di questo fatto, aveva denunciato questa Vittorina Torollo. E la Corte d’Appello mi chiese se io intendevo proseguire, dico: “No, ormai sono ritornato, se la vede lei con la sua coscienza, per me la storia finisce qua”. Mi guardarono un po’ perplessi, mi dissero: “Va be’, contento lei”.

D: Salvatore, al Coroneo eri in una cella da solo o con altri compagni?

R: Eravamo in sette o otto in una cella, una camera… non so cosa fosse. Qui riuscii a procurarmi dei panini tramite i secondini, anche tre o quattro pacchi di trinciato di tabacco che mi servì moltissimo perché arrivai a Dachau che ne avevo ancora. Poi racconterò la storia di questo tabacco.

D: Ti ricordi il nome di qualche tuo compagno di cella?

R: Sì, c’era Chert Pietro, che l’ho visto menzionato nel libro. C’era il colonnello Imparato, che era il direttore dell’Arsenale di Padova. C’era un certo De Tommaso, un insegnante molto giovane di Pola. Ce n’erano altri ma non ricordo il nome. De Tommaso e il colonnello Imparato non sono più tornati, sono morti.

D: Quando ti hanno portato al vagone, al Transport, dal Coroneo, vi hanno portato a piedi?

R: Sì, a piedi.

D: Dove vi hanno portato?

R: Beh penso alla stazione ferroviaria. Penso eh…

D: Eravate ammanettati?

R: No, non eravamo ammanettati. Io, anzi, devo dire questo. Nel carcere ero riuscito a scrivere quattro righe su un foglio di carta e messo in una busta; durante il tragitto la buttai per terra, questa busta fu raccolta e i miei genitori la ricevettero a Bassano del Grappa, perché i miei genitori, nel frattempo, erano sfollati a Bassano del Grappa. In questo foglio io dicevo: “State tranquilli, sono certo che ritornerò”.

D: Nel tuo Transport c’erano anche delle donne?

R: No, eravamo tutti uomini. C’erano degli ebrei, uno particolarmente vecchio, forse avrà avuto più di 80 anni. No, non c’erano donne.

D: Ti ricordi più o meno quanto è durato il viaggio fino a Dachau?

R: È stato abbastanza spedito, rapido, penso una giornata e mezza, non di più.

D: L’ingresso del campo di Dachau come te lo ricordi?

R: Un gran portone, c’era una scritta in tedesco, che poi m’hanno detto che voleva dire: “Il lavoro nobilita…”, qualche cosa del genere [“Arbeit macht frei”: il lavoro rende liberi, ndr]. Subito dopo l’ingresso ci portarono in una sala, ci tolsero tutto, mi lasciarono soltanto la pipa e il tabacco, poi tutto il danaro che avevamo ce lo portarono via, tutto il bagaglio, tutti i vestiti. Prima ci raparono a zero. A noi italiani chissà perché, non ho mai capito, ci fecero il solco in mezzo alla testa: dicevano che questo era uno sfregio che loro facevano perché eravamo ritenuti traditori. Non so se sia la versione esatta oppure no, comunque questo è quello che io so. Dopo la doccia ci vestirono con le tute a zebra, e ci portarono…

D: Vi hanno dato l’immatricolazione?

R: L’immatricolazione è stata successiva, quando eravamo già nel blocco, nel blocco numero 8, che era un blocco di transito. Vi rimanemmo forse venti giorni, forse qualcuno in più, e non ci facevano lavorare. Stavamo lì, ogni tanto ci chiamavano, facevano dei lunghi interrogatori, chiedevano notizie sul nostro conto, sulla nostra infanzia, sulle malattie che avevamo avuto, i nostri genitori, se erano ancora vivi oppure se erano morti, a che età erano morti, se fumavamo, quanto fumavamo, da quanto tempo fumavamo, insomma un mucchio di domande di questo genere. Nel frattempo, ci fecero anche l’immatricolazione, ci dettero il triangolo rosso, il numero, con la “I” sotto il vertice del triangolo, e rimanemmo lì per forse venti giorni.

D: Ti ricordi il tuo numero di Dachau?

R: Mi ricordavo le prime [tre] cifre, le ultime tre non le ricordavo, le ho viste adesso… le prime tre cifre corrispondono a quelle che io ricordavo.

D: E che cos’era il numero?

R: Era centododici… ma ancora adesso non ricordo le tre cifre [finali]. Mentre quello degli altri campi, quelli lì li so perché furono presi dopo la liberazione, che poi racconterò.

D: E lì a Dachau sei rimasto una ventina di giorni sempre nel blocco di quarantena?

R: Sempre nel blocco numero 8, sempre a fare visite mediche, questi interrogatori di cui ho parlato, senza mai lavorare. [Di] episodi particolari ce n’è soltanto uno. Posso raccontarlo, sì, l’unico episodio di un certo rilievo. Una mattina entrò un soldato della SS, noi stavamo fuori, tutti ammucchiati l’uno contro l’altro per ripararci dal freddo. Entrando questo qui, tutti quanti si tolsero il cappello. Io non lo levai il cappello. Allora questo mi guardò e diceva probabilmente di togliermi il cappello, e io rispondevo: “Nichts verstehen”, non capisco. I compagni che mi erano vicino mi dicevano: “Togliti il berretto”. Il berretto non lo levai, me lo levò lui con dei ceffoni e con delle botte. Da quel giorno in poi non portai più il berretto, in tutti i posti dove andavo, il berretto lo buttavo via.

D: Salvatore, la vestizione cosa comprendeva, oltre alla zebrata?

R: A Dachau ci dettero una specie di panciotto di carta crespata, aveva una fettuccina che si girava attorno, e basta. C’erano delle scarpe e come calze davano degli stracci da avvolgere attorno al piede. In complesso di Dachau non posso dire gran male, perché noi non lavoravamo. Era un cortile chiuso dove stavamo noi, c’erano due ali, al centro c’era una gran vasca rotonda con tanti rubinetti, ci si poteva lavare con facilità, abbastanza agevolmente. Nelle capanne [baracche, ndr] dove si dormiva c’erano dei castelli grezzi con dei pagliericci imbottiti di paglia, o di altre cose del genere. In definitiva era sopportabile. Al mattino ci davano una bevanda calda, credo che fosse tiglio o qualche cosa del genere, a mezzogiorno ci davano un pezzo di pane con un pezzo di margarina, una minestra completamente liquida senza niente dentro, altrettanto la sera. Comunque, dato che non lavoravamo era sufficiente per mantenerci in vita.

D: In quanti eravate circa in un blocco?

R: In un blocco… valutando così, forse centocinquanta, nelle due ali, di sinistra e di destra, forse duecento; non saprei con esattezza perché stavamo sempre fuori per tutta la giornata: al mattino dopo la sveglia non si poteva più entrare dentro in blocco, stavamo fuori. E non eravamo in tanti: forse cento, centocinquanta, non di più.

D: Ti ricordi il nome di qualche tuo compagno di Dachau?

R: Io ricordo questo De Tommaso, ricordo questo colonnello, che tra l’altro era riuscito a portarsi una Divina Commedia, e lui ce la leggeva e la commentava, e questo ci era di gran conforto. Era di gran conforto anche la pipa col tabacco; e naturalmente ero diventato amico di tutti perché tutti quanti facevano una boccata da questa pipa. Poi ad un certo momento il tabacco si esaurì e rimase soltanto la pipa.

D: Salvatore, ti ricordi se a Dachau hai visto dei religiosi tra i deportati?

R: Sì, c’erano. Ma non facevano parte di quelli che erano partiti con noi da Trieste, erano già là. E poi ne venivano di nuovi ogni giorno. Ogni tanto capitava anche qualche internato militare che per qualche motivo, qualche mancanza che avevano fatto, li mandavano a Dachau per punizione, ma temporanea, un mese o due mesi a seconda della gravità del misfatto che avevano compiuto.

D: E dopo venti giorni del blocco di quarantena di Dachau cosa è successo?

R: Dopo passammo una visita medica, e c’era un medico francese che dopo la visita mi disse, testualmente: “Sei un ragazzo robusto, sano, fai attenzione a non farti ammazzare. Se riesci a non farti ammazzare, con molta probabilità potrai ritornare”. Dopo questa visita medica ci portarono a fare una doccia, ci dettero degli abiti civili, però sempre col triangolo. Ci portarono in una stazione, non so quale fosse, e di lì si iniziò un viaggio. Dopo un paio di giorni ci fermammo a Buchenwald, ma di questo campo non posso dir niente perché ci tennero per due tre giorni in un blocco. Dopo ripartimmo subito diretti a Neuengamme. E qui incomincia la vera storia, la vera deportazione, i sacrifici e tutte le brutte cose che abbiamo subito.

D: Quando sei arrivato a Neuengamme ti hanno dato un altro numero?

R: Sì. Non l’ho in mente però ce l’ho scritto, se vi interessa posso cercarlo.

D: E lì cosa ti hanno fatto fare?

R: In prevalenza ci portavano ad Amburgo a scavare macerie, oppure in qualche fabbrica. Una volta capitammo in una fabbrica, penso che fosse di prodotti chimici: c’erano delle vasche all’aperto: in superficie c’era una specie di pellicola, noi dovevamo levarla e accantonarla, non so poi a cosa servisse. Ecco, una cosa devo ricordare, a vantaggio dei tedeschi. Una volta capitammo in una fabbrica di birra. Mentre stavo lì, che facevo il lavoro che dovevo fare, arrivò un giovane della SS, un ragazzo alto, però senza un braccio, evidentemente era stato ferito in guerra. Questo, con fare un po’ riservato, dice: “Italiener, komm komm”. Dico, cosa vorrà questo… Mi portò in uno sgabuzzino, mi mostrò un sacco di orzo, e mi disse: “Essen essen”. Allora io capii, presi questo orzo, mi imbottii tutto, cioè raccolsi quanto potevo raccogliere, e quest’orzo mi aiutò moltissimo a integrare i pasti che ci davano nel campo.

Questo lavoro era particolarmente pesante, non per il lavoro in sé stesso. Noi partivamo al mattino verso le 4 [o] le 5, non era molto lontano Neuengamme da Amburgo, a volte in camion a volte in treno, e poi a piedi in Amburgo per raggiungere il posto di lavoro. Però al rientro non c’era mai un mezzo: era compito dell’accompagnatore, di quello della SS, di trovare un mezzo; a volte questo mezzo si riusciva a trovare alle 10 di sera, una volta addirittura alle 3 del mattino, e noi arrivavamo in campo. Una nota particolare è questa: quando si arrivava in campo – è una cosa veramente che ricordo… – ad accoglierci c’era sempre una banda musicale che suonava Beethoven oppure Mozart oppure altre cose. E poi entrati in campo, ci distribuivano l’unica minestra della giornata, e si andava subito a letto. Capitava spesso però che il conteggio non tornava, allora ci facevano alzare di nuovo [ed andare] in piazza, finché la conta riusciva a quadrare. Una volta, evidentemente per capriccio di qualcuno, ci fecero spogliare nudi, al freddo, di notte, cosa diciamo… così, senza nessun senso insomma. Però la cintura ce la fecero mettere attorno alla vita, nudi.

D: Neuengamme come te lo ricordi? Più grande di Dachau o più piccolo di Dachau?

R: [Del]l’estensione di Dachau non ne ho idea perché rimanemmo sempre chiusi in quel cortile; soltanto una volta ci portarono in una piazza dove c’erano delle forche e ci fecero assistere all’esecuzione di impiccagione di alcuni russi che avevano tentato di rubare delle patate dalla cucina. Ma dell’estensione di Dachau non ho nessuna idea.

D: A Neuengamme quante baracche erano, ti ricordi?

R: No, comunque era abbastanza grande, ma non saprei rispondere a questa D.

D: Il campo era recintato?

R: Sì, certo, era recintato, sì.

D: Ti ricordi delle torrette?

R: Le garitte, beh, quelle c’erano in tutti i campi, non ricordo particolarmente che ce ne fossero a Neuengamme ma penso che ce ne siano state anche lì.

D: Nella baracca di Neuengamme eravate in molti deportati?

R: No, direi di no, 40-50 persone non di più. Però c’è un fatto, non se n’è mai parlato. Io non sono stato sempre a Neuengamme. A un certo momento, vicino a Neuengamme, quasi ai confini con l’Olanda, c’era un sottocampo, Meppen. Di questo campo non si è mai parlato. Ma io penso che le cose peggiori succedevano in questi campi [sottocampi, ndr], perché mentre nei campi principali c’erano dei servizi – ci si poteva lavare, poi ogni tanto i barbieri ci facevano la barba, quando i capelli erano un po’ cresciuti continuavano a tagliarli – a Meppen non c’erano. […] Premetto che qui l’avvicendamento avveniva circa ogni due mesi, ma di quelli che arrivavano a Meppen, mettiamo che una percentuale dell’80% non tornava più. Ora, provo a descrivere… è difficile… provo a descrivere quello che era Meppen. Dunque, i blocchi erano senza castelli, per terra c’era soltanto la paglia. Si dormiva tutti sulla paglia. Non c’erano coperte, non c’era niente. Ci avevano levate le scarpe e ci avevano dato degli zoccoli olandesi, senza calze. Sotto, biancheria non avevamo assolutamente niente. In breve tempo iniziò un’epidemia di dissenteria, la paglia dove dormivamo diventò un letamaio. Non c’erano servizi igienici; c’era una latrina all’aperto che per andarci si affondava nello sterco, perché la gente non faceva in tempo ad arrivare che si scaricava, e si scaricava anche durante la notte mentre dormiva; perciò questa paglia era diventata un letamaio. Ad un certo momento i vestiti che avevamo addosso erano diventati quasi duri, pieni di melma e di porcherie.

Ora, quando ci portavano al lavoro, qui non c’era nessuna regola. Si formavano i gruppi spontaneamente, bastava formare un gruppo di cinquanta, e si partiva. C’erano i Vorarbeiter che in prevalenza erano slavi, polacchi, mai un italiano, non ho mai incontrato un Vorarbeiter italiano, e questo è un nostro onore. Ci portavano nelle foreste… boschi, foreste… ci facevano costruire con delle zolle delle specie di trincee, non so a cosa servissero. Io, per non fare un lavoro utile, prendevo queste zolle, le portavo, poi le riportavo indietro, e facevo su e giù. Un francese che era vicino, che mi aveva visto, mi denunciò. Forse per avere un mozzicone di sigaretta o qualche cosa. E allora quello della SS, oltre a picchiarmi, poi ad un certo momento mi tirò un colpo di pistola e mi colpì qui nella [gamba]. C’era uno zingaro che era con noi, riuscì a levarmi questa pallottola, poi prese delle erbe, degli intrugli, me le applicò lì sopra e riuscii a guarire. Dopo una ventina di giorni fui colpito anch’io dalla dissenteria. Naturalmente, sangue nelle feci… Mi decisi allora di andare in una specie di infermeria. Non c’era luce guardi, in questo campo, c’erano dei lumi e basta. Arrivai in questa infermeria, c’era un medico francese, prigioniero anch’egli; mi fece fare una scarica, e, resosi conto che era dissenteria, mi scrisse una “D” sulla fronte, e mi mandò in un blocco dove erano ricoverati tutti questi colpiti dalla dissenteria. Lì trovai dei francesi all’ingresso, nell’anticamera, era già sera, e chiesi: “Dov’è che si dorme?”. Mi fecero cenno: “Lì”. Io andai lì, era tutto buio, e mi buttai, così, senza sapere cosa facevo. Al mattino quando venne la luce mi accorsi che avevo dormito addosso a un cadavere. Mi alzai, camminai un poco e vidi che almeno una ventina di quelli che erano lì erano già morti. A mezzogiorno vennero a portarci un cucchiaio di purè di patate, anzi la punta di un cucchiaio, allora pensai: “Di qui io non esco e qui non ci voglio stare”. Allora andai da questi francesi e dico: “Guardi, io qui non voglio rimanere”. Il medico allora dice: “Va bene, non vuoi rimanere? Allora però al mattino devi andare lo stesso a lavorare, però ti scrivo un’esenzione dal lavoro per cinque giorni, cioè: tu devi andare sul posto però non possono farti lavorare”. E così fu. La sera, rientrando, nel blocco c’era lo sgabuzzino del capoblocco – che generalmente era un criminale o qualche cosa del genere, comunque non era mai un politico – e lì fuori dallo sgabuzzino c’era una stufa. Di notte – penso verso le 2, le 3, quando tutti dormivano, compreso il capoblocco – io mi alzavo, andavo vicino a questa stufa, mi scoprivo e mi mettevo col ventre quasi attaccato alla stufa. Poi prendevo dei pezzi di carbone e di legno, e li ho mangiati. Guarii dalla dissenteria. Ecco, un’altra cosa importante è questa: quando tornavamo dal lavoro, di cinquanta persone, sette o otto morivano. Bisognava riportarli indietro, trascinarli, perché lì non c’era la possibilità di… non era come negli altri campi, che c’era un servizio: li portavamo indietro. E così, penso che in due mesi… non so… una mortalità almeno dell’80%, forse è approssimativamente in difetto.

D: Salvatore, come sei stato scelto tu da Neuengamme per essere mandato nel sottocampo di Meppen?

R: Ci guardavano, ci tastavano, sentivano i muscoli, così. A un certo momento, trascorsi due mesi ritornai a Neuengamme e trovai le cose molto cambiate. Non so, può darsi che fosse il mese di gennaio o febbraio [1945], si avvicinava la fine della guerra. Trovai le cose molto cambiate. Non mi fecero più lavorare, mi misero in un blocco insieme a tutti gli altri ammalati. Non ci curavano, perché forse non avevano neanche la possibilità di farlo, però ci davano del vitto, non dico buono ma sopportabile. Finché un giorno, ci riunirono – era anche una bella giornata – ci riunirono e ci imbarcarono su un treno merci. Prima di imbarcarci però notai questo: delle crocerossine, per la prima volta. Ci distribuirono panini, in gran quantità. Evidentemente ci si allontanava, non so il perché di questo trasferimento. Questo trasferimento forse fu la cosa più brutta di tutto il periodo. Era un treno merci, formato forse da venti vagoni. In ogni vagone si stiparono un’ottantina di persone. Noi salimmo, i primi riuscirono a sedersi, io e un fiumano, un italiano di Fiume, salimmo per ultimi e non trovammo posto a sedere, dovemmo rimanere in piedi. Iniziò il viaggio. I primi due giorni non successe niente, sentivamo soltanto la mancanza dell’acqua, perché non ci davano da bere, da mangiare ne avevamo avuto abbastanza dalle crocerossine. Dopo, la gente iniziò a morire. La mancanza dell’acqua… riuscii a trovare un sistema per dissetarsi: al mattino presto, svegliandomi, vedevo sui tubi del carro merci delle goccioline d’acqua, allora io le assorbivo, così [apriva la bocca sotto il gocciolio, ndr] e forse quello mi salvò. A un certo momento questo ragazzo fiumano non ce la faceva più, allora io chiesi – erano quasi tutti francesi insieme con noi, di italiani eravamo soltanto io e questo fiumano – chiesi a questi francesi, io parlo un po’ il francese, se per piacere facevano un po’ di posto per far sedere questo compagno che non si reggeva più in piedi. Questi mi risposero: “Merde!”. Io con quella forza che avevo gli detti un manrovescio, questi si guardarono stupiti: “Evident, l’italien est très fort”. Allora si strinsero subito e mi dissero di sedermi; dico: “No, non sono io che devo sedermi, è lui che deve sedersi”. Dopo qualche giorno… – non so quanto tempo durò, dieci, forse quindici giorni, questo trasporto – dopo tre o quattro giorni la gente cominciò a morire, allora venivano scaricati i morti e si fece spazio, così potei sedermi anch’io.

Arrivammo a Sandbostel. Qui, scendendo dal vagone, ci distribuirono un pane intero con abbondante margarina. Naturalmente rimanemmo tutti quanti stupiti. Non c’era più la scorta, ci indicarono la strada che dovevamo fare. Arrivammo così a un campo militare evacuato di Sandbostel. All’ingresso c’erano dei russi che appena arrivammo ci aggredirono per portarci via quel pane: a me lo portarono via. Questa è una cosa che non ricordo con piacere, ma comunque devo dirla. Durante la permanenza a Neuengamme io avevo fatto una lama alla coda del cucchiaio, e allora, preso dalla rabbia, non tanto per il pane che mi portavano via, ma per la violenza che mi veniva fatta, presi questo cucchiaio e colpii il primo che mi capitò sotto di questi russi; per fortuna il cucchiaio era di alluminio, e i russi erano imbottiti di paglia, come lo eravamo anche noi, perché noi, per proteggerci dal freddo, ci imbottivamo di paglia. La coda [del cucchiaino] si piegò e non fece niente.

A Sandbostel intanto si sentivano già da lontano le cannonate degli americani che avanzavano, o inglesi che fossero. Qui fui preso dal tifo petecchiale. Poi non ricordo più niente. Mi svegliai dopo la Liberazione nell’infermeria del campo. C’era una crocerossina olandese che quando mi vide aprire gli occhi tutta contenta si mise a gridare: “L’italien! L’italien è vivo!” Di quel periodo non ricordo niente, però mi è rimasto impresso… io vedevo sempre un bel prato pieno di fiori, di margherite, di uccelli, con dei torrenti, ecco, questo lo ricordo. Poi non ricordo più niente. Rimasi in quell’infermeria una decina di giorni, poi mi trasferirono in un ospedale americano. Qui mi curarono un poco. Poi mi trasferirono ancora in un altro ospedale, un altro ancora, e per ultimo un’infermeria italiana. [Lì] c’era un sottotenente medico che mi visitò e mi trovò delle infiltrazioni polmonari. Mi mandò in un altro ospedale, sempre italiano. Qui mi curarono un poco con calcio e mi fecero un’operazione: siccome io perdevo molto sangue per le emorroidi mi operarono di emorroidi, però senza anestesia. Comunque, riuscii a superare anche quello.

Verso la fine di agosto [1945] poi ci misero su un treno ospedale e arrivammo a Merano. Qui venne una ragazza, ci chiese se sapevamo dove stessero i nostri genitori. Dopo qualche giorno vidi arrivare mia sorella da Bassano con un mezzo di fortuna, un camioncino tutto sgangherato, venne a prendermi e mi riportò a casa.

D: Quando sei arrivato a Bassano?

R: Penso che sia stato verso metà settembre.

D: Salvatore, quando da Neuengamme ti hanno mandato nel sottocampo, a Meppen, eravate solo uomini?

R: Sì, sempre uomini, io non ho mai visto una donna.

D: E a Meppen ti hanno dato un altro numero di immatricolazione?

R: No, era lo stesso di quello di Neuengamme, era un sottocampo di Neuengamme.

D: Era molto grande questo sottocampo?

R: No no, erano soltanto sette o otto baracche, però oltre il recinto vedevo altre baracche, e vedevo degli uomini però vestiti, che stavano bene, saranno stati dei lavoratori.

D: Durante il tuo periodo di deportazione, quando per esempio andavate ad Amburgo a spostare macerie, tu hai avuto possibilità di avere contatti con dei civili?

R: Quando passavamo c’era pochissima gente che si incontrava per istrada, ma quando ci incontravano giravano il viso dall’altra parte.

D: A Neuengamme avevate i castelli nei blocchi? In quanti dormivate per castello?

R: Due per ogni posto.

D: Mentre invece a Meppen?

R: Dormivamo per terra, senza coperte, senza niente, in mezzo agli escrementi.

D: Volevo chiederti una cosa: la pipa sei riuscito a salvarla?

R: La pipa sono riuscito a salvarla fino a Meppen, lì poi mi è stata portata via.

A Meppen è successo un brutto fatto, sempre con i francesi. Alla sera, quando rientravamo, distribuivano una minestra liquida, un pezzo di pane, 50-100 grammi, non so quanto fossero. Io questo pane, metà lo mangiavo e metà lo serbavo per l’indomani mattina, me lo mettevo sotto la testa. Vicino a me c’era un francese, io avevo visto che lui il pane se l’era mangiato. Al mattino quando ci svegliano per alzarci, la prima cosa che cerco è il pezzo di pane. Non lo trovo più e vedo questo francese che mangia del pane. Capisco che è stato lui a rubarlo, e faccio per tirarglielo via. Questo si mette a urlare: “L’italiano mi ruba il pane!”. Mi presi venti [scudi]sciate. Ho portato i segni per tre o quattro anni dietro alla schiena. Sempre con i francesi, a Neuengamme. Ci avevano distribuito il pane, io avevo conservato come al solito la metà per l’indomani mattina. Al mattino io incomincio a sbocconcellare questo pane e vedo questo francese che mi guarda, voglioso, allora io stacco una briciola di questo pane e gliela do. Questo si rivolge ai suoi compagni e dice: “L’italien est fou!”, l’italiano è pazzo! Io ho capito, dico: “Non, je ne suis pas fou”.

D: In questi 55 anni dalla Liberazione ad oggi, Salvatore, tu non sei mai stato intervistato?

R: No. Sono stato contattato da un’associazione piemontese, mi pare che fosse di Torino, che mi pregò di fare una relazione [per] stabilire chi erano i superstiti del campo di Neuengamme. Ecco, allora io scrissi, feci una breve relazione, e dopo qualche tempo, circa 7-8 mesi, così per caso sul canale 3, vidi un servizio e alla fine diceva: “Si ringrazia tizio caio… in ultimo si ringrazia Vitiello Salvatore per la collaborazione prestata”. […] Penso siano stati quelli di Torino che avevano fatto questo servizio.

D: A Dachau non sei più ritornato?

R: No, no. È andato mio figlio.

D: Tu non li hai accompagnati?

R: No.

D: Quindi neanche a Neuengamme sei mai andato?

R: No, no. Quando sento parlare tedesco scappo. Se vado in un albergo e sento parlare la lingua tedesca…

D: …non ci stai

R: No.

D: Non ci stai, è troppo forte.

R: Non li odio, ma non li sopporto neppure però. Io ho una piccola industria, sono stato contattato parecchie volte da tedeschi ma ho sempre rifiutato di avere rapporti con loro.

D: Quanti mesi hai fatto nei Lager?

R: Complessivamente sono nove mesi, dall’agosto dell’arresto fino all’aprile della Liberazione. Ripeto, della Liberazione non ho nessun ricordo.

D: Salvatore, cos’è stato un Lager per te?

R: Una brutta esperienza. Ho perduto la fiducia nell’umanità.

D: Un giorno, il quotidiano di vita di un giorno che vuoi, di Dachau, di Neungamme, o di Meppen, nel Lager, ce lo puoi descrivere?

R: Bah, non so… Ho visto anche delle cose molto brutte. Per esempio, da parte dei russi specialmente, da parte dei russi ho assistito a del cannibalismo addirittura, mangiare carne di compagni morti. Ho visto dei russi che, quando vedevano qualche morto, che moriva lì, prima che arrivasse qualcuno a sgombrarlo, gli aprivano le labbra per vedere se aveva delle protesi. E se aveva delle protesi, con una scalcagnata… E poi evidentemente erano organizzati per commerciarle, per ricambiarle… infatti i russi erano sempre ben nutriti. Erano sempre ben nutriti. Oddio, non volevo dirlo questo…