Marchetilli Francesco

Francesco Marchetilli

Nato il 12/08/1926 a Roma

Intervista del 05/09/2000 a Roma

TDL n. 109 – durata: 39’

Arrestato il 07/02/1944 a Roma

Incarcerato a Roma

Deportato nel lager di Dachau

Liberato il 29/04/1945 a Dachau

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Marchetilli Francesco, nato a Roma il 12/8/[1]926. Incomincio adesso a dire…? Allora, 7 febbraio 1944, Piazza… vicino Piazza Venezia… Non mi ricordo più il nome della piazza, guarda un po’, me mancano le parole. Come se fa?

D: Dopo ti verrà in mente dai.

R: Mannaggia la miseria…

D: Vicino a Piazza Venezia cosa è successo?

R: È successo che… ma tu guarda te… La piazza… la piazza era occupata da tutte le macchine tedesche, dalla armata tedesca, tra cui c’era un camion e io, insieme con un altro compagno, eravamo… andavamo a caccia per portarselo via, insomma. Non ci è riuscita, la macchina non è partita, i tedeschi ci hanno corso appresso, ci hanno sparato e ci hanno portato a via Tasso. A via Tasso sono stato 14 giorni. Da quel momento, dal momento che sono stato arrestato, non ho conosciuto altro che botte da tutte le parti.

D: In via Tasso vi hanno messo in una cella?

R: In una cella che era una stanza con la finestra murata senza mobili, con una pedana, solo che faceva da sedia, da urino, da letto, e ogni volta che entrava il tedesco mi dovevo alzare appena sentivo aprire la porta, dovevo stare in piedi sull’attenti. E la prima volta me l’ha fatto capire a forza, a suon di calci in pancia, in testa, da tutte le parti. Poi mi hanno messo in cella insieme a me della gente che non era… che il mio sesto… sesto… come si chiama? sesto senso mi ha avvertito che erano spie, che volevano solo sapere: parlavano troppo, io non parlavo per niente, loro volevano sapere, volevano sapere, e poi li hanno levati. Poi un giorno mi hanno fatto uscire dalla cella…

D: Ecco, scusa un attimo Francesco, perché ti hanno arrestato?

R: Perché… perché ci stavamo portando via una macchina, tipo camion, quelle militari cariche di armi e di munizioni, che non è partita.

D: Ma tu e chi?

R: Io e un altro compagno.

D: Ma eravate in un gruppo partigiano?

R: In due, in due. Eravamo in due.

D: Facevate parte di una formazione partigiana?

R: No. No no.

D: Poi dopo via Tasso una mattina ti hanno…

R: A via Tasso… Poi, un giorno, la sentinella mi ha fatto uscire dalla cella, mi ha fatto fare dei piani. In uno di questi corridoi mi sono incontrato con un prigioniero come me che era portato a braccia da queste SS, era tutto sanguinante sul volto, era tutto pieno di sangue ed era privo di sensi. Lo portavano via, lo strusciavano. Poi mi hanno aperto una porta, mi hanno scaraventato dentro e dentro c’era un campione di lotta libera, un pugile, coi pantaloni di cuoio, con la canottiera a torso nudo che mi ha fatto poggiare le mani sopra una sedia e io mi sono risvegliato nella cella, mi sono preso un gran colpo sulla… qui, sulle spalle. Poi mi sono risvegliato nella cella, stavo sdraiato per terra che non mi potevo muovere dal gran dolore che avevo in tutte le parti. Ero a pezzi.

Dopodiché, dopo altri giorni mi hanno fatto rialzare, mi hanno portato in una stanza normale, tutta piena di poltrone, di macchine da scrivere, liquori, sigarette. Una stanza normale. C’era un interprete, c’era la macchina da scrivere, c’erano gli ufficiali tedeschi che mi hanno interrogato su fatti accaduti, su sabotaggi che erano stati fatti in tutta la città prima e dopo. Al che io non sapevo niente e dopo ho fatto una deposizione, nel senso che Radio Londra diceva che a ognuno che se portava via un camion, una macchina lì ai… ai tedeschi, rimaneva di loro proprietà. Tutto lì, è finito così. Mi hanno fatto firmare e m’hanno mandato via. Mi hanno portato a via Lucullo, al Tribunale militare tedesco. E lì c’era un grande salone, un grande tavolone ovale, con la bandiera tedesca sopra il tavolo, e… la fotografia di Hitler. È stato un processo regolare, e sono stato condannato a due anni insieme a quell’amico mio. Mi hanno chiesto se invece di passarli in campo di concentramento, se li avrei voluti passare lavorando in Germania, cosa che ci siamo guardati e abbiamo detto di no. Preferivamo il campo di concentramento. Siamo ritornati al terzo braccio, a Regina Coeli. Sono passato indenne dalle Fosse Ardeatine, e alla fine di aprile siamo stati chiamati, io e 80, 70-80, insieme ad altre donne, che erano ventina. A piano terra c’era una… un’interprete polacca chiamata Elisabette, che ci ha detto che eravamo stati tutti condannati e dovevamo scontare la condanna in campo di concentramento in Germania, in campo di concentramento in Germania. Dovevamo essere quelli che eravamo lì, ci dovevamo contare perché se ne mancava uno, dieci li avrebbero fucilati.

Siamo stati portati fuori da Regina Coeli, fuori c’erano dei camion. Ai bordi della strada c’era mia madre, mi ha chiamato, e gli ho fatto un salto per andarle incontro, e qui c’ho una cicatrice, non so co’ che m’è stata fatta, insomma… da un soldato tedesco che stava lì, e mi sono svegliato sul camion di notte che stava in marcia diretto a Firenze. A Firenze, a Campo di […] alla stazione, ci hanno portato sopra i vagoni ferroviari. I vagoni ferroviari… Era un treno che andava pianissimo, che uno poteva saltare giù, si poteva buttare, e nessuno si è mosso. Si fermava alle stazioni, noi scendavamo, andavamo al bagno e rientravamo. Ad ogni stazione agganciavano vagoni, vagoni di roba. Noi speravamo in un bombardamento, i Partigiani, per una fuga in massa, cosa che non è avvenuta. All’ultima stazione abbiamo lasciato gli indirizzi a un ferroviere che ha spedito una cartolina a casa, l’ultima… l’ultima notizia di noi, insomma, che stavamo per passare la frontiera. Arrivati a Bolzano era notte. Era tutta bombardata, era tutta a ferro e fuoco. Ci hanno portato nel campo di concentramento, e la mattina sulla piazza del campo di concentramento ci hanno ordinato di spogliarci tutti nudi. Cosa che noi ci siamo guardati… e lì c’era l’interprete e diceva: “nudi, tutti nudi, tutti nudi”. Abbiamo cominciato a spogliarci “Nudi, nudi!”, proprio nudi nudi. Spogliati tutti, i detenuti come noi, i detenuti insomma, già lì del campo, hanno preso tutto.

D: Scusa Francesco, dicevi il campo di?

R: Dachau.

D: Ah no, perché avevi detto Bolzano…

R: Ho detto Bolzano? Dachau.

D: Quindi a Dachau.

R: Dachau. Dachau. Roma – Dachau tutto dritto. Ci hanno tosato, una squadra di tosatori ci hanno tolto tutti i peli del corpo, tutti i capelli, poi una squadra con dei pennelloni con disinfettanti che un bruciore… che ci ha fatto rotolare per terra dal gran bruciore. Poi di corsa dentro al bagno dalla doccia che l’acqua ci ha lavato, ci hanno passato una divisa e il numero. E lì siamo andati nella baracca.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: Sì. Sessantasettemila duecentotrentasei [67.236].

D: Assieme al numero ti hanno dato anche qualche altra cosa?

R: Mi hanno dato… Me l’hanno scritto loro il numero, scritto… perché prima ci siamo scambiati… perché a me la giacca era lunga, l’ho data a uno che me l’ha data più corta, i pantaloni abbiamo fatto un cambio, fino che tutta la roba che ci hanno dato ci siamo vestiti. Poi c’è stata una persona che ci ha cucito sopra la giacca il numero e il triangolo rosso con la I, Italia, anche sui pantaloni, anche qui sui pantaloni. No, numeri… numeri niente. I numeri… [indica l’avambraccio, ndr], i ta…

D: Cioè non ti hanno dato un braccialetto?

R: No, no, no. Tatuaggi… niente.

D: Dicevo, un braccialetto di metallo con il numero tuo? No?

R: No. No.

D: E poi ti hanno messo nella baracca di quarantena?

R: Tipo di quarantena, perché il martedì e il venerdì il nostro gruppo sparivano due, tre, due, tre, due, tre, alla fine che… poi sono stato chiamato io e m’hanno portato a lavorare al Kabel zelegum [Kabelzerlegung, ndr].

D: Il numero della baracca di quarantena… della tua baracca te lo ricordi?

R: Non me lo ricordo. Io penso che ero in quarantena, non lo so.

D: Ti ricordi il numero della baracca?

R: Quella nostra italiana era… 25.

D: Di Dachau?

R: Di Dachau, sì.

D: Ecco, poi dicevi che lì sei stato chiamato per il lavoro.

R: Ho cominciato a lavorare, m’hanno mandato a Kabel… era chiamato Kabel Zelegum, Zelegum, e con me avevo… ho trovato il nome lì e adesso non mi ricordo… Mario…

D: Ed era un altro italiano?

R: Un altro italiano. Abbiamo lavorato insieme, facevamo dei lavori sopra il ferro lì, un freddo che non finiva mai.

D: Ma dov’era il posto di lavoro, nel campo o fuori?

R: Era… era… non mi ricordo, o fuori, proprio al limitare, o dentro. Una fabbrica che stava proprio lì attaccata, proprio vicino. Kabel Zelegum.

D: E cosa facevate voi?

R: Eh, il lavoro sul ferro, su dei cavi di ferro… di… di togliergli l’involucro, di tirare fuori il metallo da questi ferri, da questi tubi che erano.

D: E questo fino a quando?

R: Eh, non me lo ricordo quanto tempo ci sono stato lì. Poi sono… m’hanno mandato alla Messerschmitt. Alla Messerschmitt che era dentro al campo, era proprio dalla cucina, quando incomincia il viale che c’erano tutte le baracche, a sinistra, o primo o secondo, o secondo… era il Messerschmitt. E lì lavoravamo, facevamo dei lavori per questo aeroplano, che poi venivano controllati da un Obermeister privato, non era del campo di concentramento. Poi lui li sigillava, e poi c’è stato quel… quell’ufficiale russo che aveva trovato il sistema, dopo che l’Obermeister l’aveva sigillati, li manometteva, aveva fatto il sabotaggio. Scoperto, è stato impiccato davanti a noi. Di notte c’hanno svegliato e abbiamo trovato la forca già preparata. Abbiamo assistito a questa impiccagione.

D: Lì in questa fabbrica qui della Messerschmitt c’erano altri italiani con te?

R: Ma non mi ricordo perché… non era facile… non mi ricordo adesso.

D: Ascolta, e quante ore lavoravate al giorno?

R: Eh… non me lo ricordo. Chi ci sta a pensà alle ore? Non me lo ricordo.

D: E lì sei rimasto fino a quando a questo lavoro della Messerschmitt?

R: Eh, non me ricordo il tempo pure lì. E dopo so’ passato in cucina. Alla Kische. Kische [prob. Küche], Kartoffelschäler. E lì c’era da scaricare i carri di rape, di patate, poi c’era da lavarle nei vasconi, e poi c’era da sbucciarle, da sbucciarle. Tutto questo lavoro è durato quasi fino alla fine, fino alla Liberazione.

D: Ecco, proprio fuori dal campo…

R: Mai uscito. Mai.

D: Ascolta una cosa, ti ricordi quando tu eri deportato a Dachau, se hai visto anche delle donne…

R: No.

D: …nel campo?

R: No.

D: Quelle donne che son partite con voi…

R: Non l’ho viste più. Non l’ho viste più. So che c’era il Burdel [Bordell]. C’era il Burdel che era per le SS e era per i Blockältester, per tutti quelli che sostituivano la SS nel campo di concentramento, che erano peggio d’a SS.

D: E tu sei rimasto sempre nella baracca 25?

R: Sempre. Sì, io penso di sì.

D: Ascolta, ti ricordi se hai visto dei religiosi?

R: Ho visto…?

D: Dei religiosi, dei sacerdoti.

R: Sì, come no! Eh! Sono stati loro che ci hanno – una volta per uno, a turno – ci hanno permesso di proseguire nella vita. Tra cui don Giovanni Fortin, che la sera passeggiavamo lungo il viale lì del campo e ce faceva la comunione, ce confessava, e ce diceva delle belle parole per sopravvivere. Qualche volta ce portava pure qualche pacchetto de roba da mangiare, le patate, e compagnia bella.

D: Anche lui deportato.

R: anche lui, sì. Lui lavorava al Plantage[n]. Al Plantage, Plantage, insomma nelle piantagioni, in campagna.

D: Ci puoi descrivere il tuo lavoro nella cucina?

R: La cucina, c’era da uscire fuori, dal caldo della cucina al freddo, c’era la neve, c’erano i carri da scaricare e da portare dentro alla cucina. Poi, una volta dentro, c’era da… queste rape, carote o patate che erano portate dal campo piene di terra, venivano messe dentro dei vasconi grandissimi, poi in piedi, in piedi, sopra il bordo del vascone, con delle pale li giravamo fino a che non si levava tutta la terra. Poi dal primo vascone passavano al secondo. Al secondo vascone era più pulito fino a che venivano al terzo, insomma, che erano pronte per essere cucinate. Poi c’era il Kartoffelschäler, c’era da ripulirle, decaparle, e poi venivano portate lì alla… marmittona grande dove le cucinavano. Quando stavo sopra in piedi sui vasconi, dal finestrone vedevo il bunker… il bunker dove vedevo passeggiare dei prigionieri che non facevano parte di noi insomma, tra cui c’era un pope, un prete che non era italiano, e mi dicevano pure che c’era Léon Blum… un francese. Léon Blum, ecco.

D: La cucina, quella dove tu lavoravi no, rispetto alle baracche, dov’era?

R: Dunque, quando dall’entrata principale del campo de concentramento, che ancora esiste l’entrata principale, sulla destra, è dove adesso c’è la mostra fotografica, c’è il cinema, lì era la cucina, e là fuori avveniva lo scarico e il carico. Tanto è vero che una volta, era d’inverno, era pieno di neve, mentre noi stavamo dentro a lavorare, è entrato un nugolo di SS, di pezzi grossi della SS e portavano un detenuto, detenuto come noi, era un albanese. Dopo abbiamo saputo che… non so che aveva fatto, o stava a rovistare in mezzo alla neve, a trovare se erano cadute delle carote, delle patate per mangiare o qualche altra cosa. Fatto sta che a due di noi gli hanno imposto di prenderlo, e di affogarlo dentro la vasca delle… dove lavoravamo le patate con le carote. Questi qua si sono rifiutati, sono rimasti interdetti nel fare una cosa del genere, allora hanno tirato fuori le pistole, capito, e hanno dovuto prendere per il collo, uno da una parte e uno dall’altra, questo albanese e metterlo dentro il vascone ed affogarlo.

Quando sono ritornato in campo di concentramento ho visto la mostra fotografica che c’era lì, ho riconosciuto in mezzo a quella gente Himmler. Allora ho ricollegato che era l’unica volta che io m’ero trovato, che c’era stata una… un’ispezione nel campo, e ho riconosciuto Himmler in mezzo a tutte quelle persone che avevano fatto quella ispezione nel campo.

D: Lì, alla cucina quante ore lavoravate al giorno, non ti ricordi?

R: Eh… entravamo la mattina e uscivamo la sera.

D: Ma quella era la cucina per preparare, chiamiamolo vitto per i deportati?

R: Sì, per tutti, per i deportati.

D: E tu lì ci sei rimasto fino a quando?

R: Fino alla fine.

D: Fino al giorno della Liberazione?

R: Fino al giorno della Liberazione.

D: C’era qualcuno che comandava in cucina?

R: Sì, era un tedesco. Era uno dei primi tedeschi internati da quando era stato costruito il campo di concentramento, perché aveva il numero 70, qui su [indica il lato sinistro del petto, ndr] 70, aveva il [triangolo] rosso, e lo chiamavano tutti Otto, “Otto, Otto, Otto…” Era una persona gentilissima, garbatissima, sempre sorridente, sempre… non è stato mai cattivo, non ha mai infierito sopra di noi.

D: Franco, anche voi partecipavate all’appello?

R: Come no! L’appello era l’Austen [pronuncia del testimone di: Ausgehen]. La mattina, coi fischietti [mima il fischio], “Austen!”, ti dovevi alzare di corsa, eravamo già tutti vestiti, una sciacquata al viso lì… e di corsa dovevamo andare tutti sul piazzale del campo de concentramento. Lì facevano la conta, quelli che eravamo lì e quelli che erano rimasti morti sopra i letti. E dovevamo fare mitze ab, mitze ab… [Mützen ab, Mützen auf] e poi dopo “rompete le righe” e ognuno andava a lavorare. Io mi ricordo che noi italiani e i russi avevamo, oltre ai capelli tagliati a zero, una ‘Straβe’, una striscia, una striscia in mezzo, per riconoscimento che eravamo o italiani o russi, non me ricordo perché, per quale motivo. C’era… una ragione c’era, che non me la ricordo.

D: Ascolta, ti ricordi attorno al campo se c’erano delle torrette, delle garrite?

R: Sì, c’erano delle garrite, che c’era il faro… c’era il faro, c’era la mitragliatrice, e c’era tutto il reticolato con la corrente ad alta tensione e la notte era illuminato. C’era un fosso con l’acqua e la notte era illuminato, poi di colpo ad un certo momento non lo hanno più acceso, perché? Perché illuminato di notte faceva da riferimento agli aerei che indicavano che a un passo c’era Monaco di Baviera. Abbiamo subito anche dei bombardamenti.

D: Al campo?

R: Dentro al campo, sì.

D: Questo non ti ricordi più o meno quando?

R: Eh no, magari! Oggi come oggi mi sarei… chi pensava di uscire vivo, chi pensava lì…

D: Franco, nel blocco con te c’erano altri italiani?

R: Sì.

D: Ti ricordi qualcuno di questi italiani?

R: Ma, oltre a italiani c’erano anche altri di altre razze. E il posto, quando uno andava a dormire, dove trovavi dormivi, non è che ognuno aveva un posto suo assegnato, al punto che se la notte t’alzavi per andare al bagno, quando ritornavi, il posto non lo trovavi più. Allora ti dovevi fare largo a forza di bracciate, de spinte.

D: La baracca 25 è quasi alla fine del campo di concentramento.

R: Sulla destra. Sulla destra.

D: Poco più in là, al di fuori dal primo recinto, dal primo reticolato, cosa c’era, te lo ricordi?

R: Io so che ci doveva essere il Burdel sulla destra, e sulla sinistra c’era il campo… c’era il forno crematorio. Sapevamo che era forno crematorio perché c’era la ciminiera che ha fumato ininterrottamente! Tutto il periodo che sono stato ha sempre fumato. Era una ciminiera normale di un’industria, come di uno stabilimento, de un cantiere.

D: Franco, le baracche avevano tutte un numero?

R: No, c’era il numero 1, numero 2, numero 3, erano 30.

D: Ed erano tutte numerate.

R: Sì, sì, erano numerate.

D: Ascolta, tra una baracca e l’altra, c’era dello spazio libero o c’erano dei reticolati?

R: No, c’era dello spazio libero che era quello che noi usavamo perché una volta, usciti la mattina dalla baracca dopo l’appello, non potevi più rientrare in baracca. Pioveva, nevicava: tu dovevi stare tra una baracca e l’altra e lì stavamo tutti uniti, attaccati, tutti fradici, tutti… così, se non c’avevi il lavoro. Se c’avevi il lavoro invece andavamo alla cucina, o alla Messerschmitt, o alla [Kabelzerlegung] dove ho lavorato io, come chi lavorava su Schneiderei [sartoria], lì. Insomma, è tutta la vita del campo de concentramento era mandata avanti da noi. La SS stava tutta su ai bordi del campo. Chi comandava era dentro, erano i Blockältester che erano detenuti come noi, e c’era il capo dei Blockältester che era un armeno, un armeno che conosceva tutte le lingue, sapeva tutte le lingue. Quando dal comando della SS chiamavano “Blockältester” di un blocco, con l’altoparlante chiamavano “Blockältester, fünfundzwanzig!”, poi la voce si ripercuoteva dai Lagerpolizei che chiamavano, e quegli altri che rispondevano, come il tam-tam dell’Africa. Quello era il telefono.

D: Ascolta, lungo il viale dove sono allineate le baracche, ecco, lì c’erano dei reticolati, c’erano dei cancelli?

R: Non mi ricordo se qualche baracca era verso… so che la Revier, la Revier era… non se sapeva mai quello che … se entravi dentro non uscivi più. Guai ammalarsi. Io per fortuna non ho avuto mai nessuna malattia, per fortuna. Ma si sapeva che entrando là dentro, non uscivi più.

D: All’interno del campo, ti ricordi se c’erano dei cartelli, delle scritte?

R: Sì sì sì.

D: Cosa dicevano, te lo ricordi?

R: Sì: “Sauberkeit und Ordnung” [ordine e pulizia], poi c’era scritto “Es gibt einen Weg zur Freiheit”, cioè una strada verso la libertà. Tutte scritte di questo genere. Noi la strada sapevamo qual era, quella del forno crematorio. Quella era la strada. Uscivamo da lì.

D: Il giorno della Liberazione, come te lo ricordi te?

R: Me lo ricordo benissimo perché il giorno prima c’era stata un’evacuazione di sei mila di noi, gli hanno dato una coperta, una fetta di pane ed erano usciti. La domenica mattina – già si sentiva i cannoni, si sentiva sparare, era allentata la vigilanza – la domenica mattina altri sei mila di noi ci hanno dato una coperta, tra cui c’ero pure io. Ad un certo momento è venuto un grande… un nubifragio, si è fatto tutto nero, vento, vento, acqua a catinelle: c’è stato un fuggi, fuggi generale nelle baracche. Intanto si sentiva sparare, si sentiva sparare. Ad un certo momento, nel pomeriggio, una voce: “americani, americani, americani!” Allora dalle baracche tutti di corsa siamo usciti sul vialone, da tutte le uscite, e andavamo verso la porta centrale per gli americani. Gli americani c’erano davvero, sulle jeep, sulle jeep in piedi, c’era pure una ragazza con una macchina da ripresa. Però nello stesso momento da sopra, dalle torrette sparavano contro di noi. C’è gente che è morta l’ultimo giorno. Morti accatastati uno sopra l’altro e io stavo in mezzo a quelli là. Poi gli americani hanno preso prigionieri, quelli che erano rimasti vivi dalle torrette, gli hanno chiesto se erano della SS. Loro dicevano che non erano della SS, poi gli hanno strappato le camicie e hanno trovato che erano… il tatuaggio delle SS, ce li hanno dati a noi. E lì so’ stati subito, al momento, ipso fatto, sono stati linciati, botte… io mi ricordo con gli zoccoli di legno in piedi a saltarci sopra. Poi so’ stati presi, so’ stati buttati nell’acqua, gli americani gli hanno sparato e le teste saltavano per aria. Perché per loro la SS era… la Wermacht era… come se dice, militari, [per] la SS non c’era pietà.

D: Ecco, e dopo la Liberazione che è avvenuta quando, te lo ricordi?

R: No, non me lo ricordo, però dai dati so che è stato il 29.

D: Aprile?

R: Aprile, sì.

D: Ecco, dopo cosa è successo a voi?

R: Dopo è successo che gli americani hanno circondato il campo de concentramento, c’è stato chi è scappato subito, chi so’ usciti fori. Ci sono stati dei russi che hanno fatto giustizia subito, so’ usciti fuori, hanno ammazzato, hanno fatto quello che hanno fatto, cosa che noi avevamo detto che avremmo fatto, invece poi non abbiamo fatto. Poi gli americani ci hanno dato dei pacchi da mangiare, sono entrate le autoambulanze a passo d’uomo, piano piano, hanno preso tutti i feriti, quelli che erano rimasti per terra, che erano malati. Hanno cominciato a farci delle iniezioni, a curarci, ecco. E il [campo di] concentramento era di nuovo in quarantena, dapprima dai tedeschi, invece dentro c’erano tutti americani. Sono stati puniti i capi baracche di tutte le nazionalità, francesi, slavi, tutti hanno avuto i loro collaboratori dei tedeschi: il campo di concentramento veniva mandato avanti da noi, la SS stava a guardare dal di fuori.

D: E tu sei rimasto lì a Dachau liberato fino a quando?

R: Fino ad una ventina giorni stavo dentro. Io stavo bene, mi sentivo bene, c’avevo la smania de venì a casa. Me so’ messo a un angolo del campo di concentramento fino a che un americano m’ha fatto passare, e me so’ trovato libero. Me so’ trovato a Dachau, poi dopo, piano piano, a piedi, in bicicletta, con tutti i mezzi, sono arrivato fino al Brennero, al confine, dove gli americani mi hanno arrestato, mi hanno portato in una caserma e lì c’erano ancora altre centinaia e centinaia di gente che voleva passare il confine, ma non erano italiani, erano di tutte le razze. Arrivati a un numero considerevole di italiani, accertato che eravamo italiani, c’era una commissione che con i camion ci hanno portato in Italia.

D: In Italia dove?

R: Lì… eh, io penso che era il Brennero. Al Brennero.

D: E poi?

R: Al confine di Stato, poi… ce l’ho quel foglio a casa… non so se era a Pavia. Mi ricordo Pavia, Pavia, Pavia – Voghera, Voghera – Genova. Genova, poi… a Genova c’erano dei treni che funzionavano con delle motrici americane, e ci hanno portato a Roma.

D: Ecco, quando sei rientrato a Roma?

R: Il giorno di Santa Rita. Mi ricordo che era di Santa Rita perché sulla piazza dove abito io c’era la chiesa di Santa Rita, e c’era la festa.

D: Ascolta, Ti ricordi quando tu eri a Dachau se per caso hai visto tra i deportati anche dei ragazzini?

R: Uh! Tanti. I ruschetti li chiamavamo, non i russi, i ruschetti, i ruschetti, proprio ragazzini, erano russi, e ogni capobaracca ce ne aveva nella sua Stube, nella stanza, cinque, sei, sette, otto, dieci. I ruschetti li chiamavamo.

D: Ah, non c’era una baracca solo per i ragazzini?

R: No, no. Che io abbia saputo no, perché con tutto che noi stavamo là dentro, mica sapevamo tutto.

D: Ti ricordi se a Dachau c’era una baracca dove si poteva comperare delle cose, degli oggetti?

R: No. Io mi ricordo che nella Stube, ogni baracca, c’era un barilotto di birra dove i collaboratori della SS del campo de concentramento avevano dei buoni, non erano soldi, erano dei buoni che avevano diritto per prendere un bicchiere di birra, per andare al bordello.

D: Ma tutti i deportati o solo i collaboratori?

R: Io parlo di deportati.

D: Sì, ma anche tu potevi prendere…

R: No, magari! [ride, ndr] Solo loro, i Blockältester. Quelli stavano bene, quelli non gli mancava niente. Come vestiario mica andavano vestiti a righe, loro erano vestiti con abiti civili, però abiti civili che c’avevano dei buchi sulle spalle, qua dietro, e dei buchi ai pantaloni. In più avevano delle strisce, delle strisce fatte con la stoffa a righe, e quello significava che era un deportato.

D: Ti ricordi se all’interno del campo c’erano dei deportati con delle fasce al braccio?

R: Sì, erano quelli che facevano la Polizia del campo. Perché noi in più di tre, in più di tre non potevamo stare. Allora loro erano la Polizia del campo, e cioè se commettevi… a secondo di quelli che facevi c’era la punizione. Allora loro erano… c’erano le ‘Fünfundzwanzig’, le 25 nervate al sedere, o 50. Con le 25 te potevi salvà, coi 50 andava il sedere in cancrena. Chi fuggiva, e veniva ripreso, regolarmente ripreso perché lì la popolazione non t’aiutava, anzi, te faceva subito riprendere, veniva tenuto per un giorno intero – pioveva, nevicava, faceva di… – davanti alla porta del campo de concentramento dell’entrata, con un cartello, un cartello dove c’era scritto: “Ich bin wieder dà” Io sono nuovamente qui. E poi c’erano le ‘Fünfundzwanzig’, non lo so, c’era il bunker, dice che c’era un armadio dove tu entravi dentro e rimanevi dritto per un giorno, due, non te potevi muovere. E in più questi che fuggivano, dopo avevano sulla giacca un cerchio, un cerchio bianco e rosso mi ricordo, e stavano tutti in una baracca che la chiamavano il Fluchpoint [Fluchtpunkt], non mi ricordo adesso se la pronuncio bene questa parola, Fluchpoint.

D: Ti ricordi dei tentativi di fuga dal campo? Cioè, deportati che hanno tentato di fuggire?

R: Sì, sì, ma erano più che altro… perché dentro il campo di concentramento, oltre ai politici, per dire, c’erano anche delinquenti, e questi erano classificati col disco verde. Il disco verde erano criminali. E quelli, conoscendo la lingua, conoscendo… trovavano la maniera di scappare però che regolarmente venivano ripresi e…

D: Franco, tu quando sei stato deportato, non hai potuto scrivere a casa, comunicare?

R: Mai! Mai! Noi… Tutti quanti ricevevano i pacchi della Croce Rossa, tutte le nazionalità. Noi vedevamo loro con questi pacchetti dalla Croce Rossa Internazionale, scrivevano e ricevevano lettere. Noi niente. Dalla Croce Rossa non abbiamo mai avuto niente, mai potuto scrivere, e a casa mia hanno saputo che ero vivo dalla fine della guerra, quando gli è arrivato dalla Croce Rossa Internazionale un telegramma dove c’era scritto: Franco Marchetilli sta bene, campo Dachau, invia saluti, firmato don… come se chiama là? Era… di Milano… Monsignor Montini! Monsignor Montini che poi è diventato papa era vescovo di Milano. Ci è venuto a trovare, ha preso l’indirizzo di tutti noi, e a tutte le famiglie ha dato… io ce l’ho ancora a casa questo… questo telegramma.

D: Ascolta Franco, quando tu dici ‘noi non ricevevamo i pacchi’, intendi …

R: Gli italiani.

D: Mentre invece le altre nazionalità…

R: Sì sì, ricevevano dalla Croce Rossa i pacchi.

D: E anche la corrispondenza?

R: Anche la corrispondenza. Per quello che mi è riuscito di vedere. Noi no, noi niente.