
Mattia Alberto Ansaldi
Nato il 12/03/1927 a Torino
Intervista del 30/08/2000 a Saint Vincent (AO), realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL n. 48 – durata: 28′
Arrestato il 20/09/1943 ad Alba (CN)
Incarcerato a Savona e Genova
Deportato a: Dachau; Neuengamme; Husum; Sachsenhausen (Matr. 103.686); Mauthausen (Matr. 130.230); Amstetten
Liberato il 6 maggio 1945 ad Amstetten
Nota sulla trascrizione della testimonianza:
La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.
Mi chiamo Mattia Alberto Ansaldi. Sono nato a Torino il 12 marzo 1927. Sono stato preso prigioniero a 16 anni, il 20 settembre 1943, da polizia politica fascista. Motivo. Il 10 settembre del ‘43 ci avevano comunicato… avevano parlato con i miei genitori soldati che erano scappati dalle caserme l’8 settembre a Cuneo, pregando di portare loro roba, vestiti, perché volevano ritirarsi sulle montagne e non andare coi tedeschi. Ragion per cui avevano bisogno di tutto. Entusiasta, sedicenne, per me una grande avventura, sono partito, ho portato su della roba a loro. Arrivato, mi chiedono per favore se posso trovare altre persone che vogliono andare a far resistenza sui monti con loro, di mandargliele. Dico “beh, volentieri”. Ritorno – perché in quel periodo noi eravamo sfollati nella città di Alba – ritorno a casa, spargo la voce, e diverse persone rispondono a questo. Gli indirizzo dove c’era questa riunione di soldati che erano scappati dalle caserme, dopodiché parto con loro, ancora un’altra volta, a portare altra roba, eccetera. Ritorno indietro. Il giorno seguente, che era il giorno 20, al mattino – stavo parlando con mia madre perché noi avevamo un negozio alimentari – una persona entra e mi chiede “tu sei Ansaldi?”. Io vedo che questa persona tira fuori una pistola di tasca, scappo dalla parte opposta, cerco di scappare. Dalla parte opposta c’era già un’altra persona, un altro giovane che mi aspettava, quindi perciò erano molto informati, informati benissimo dell’ubicazione in casa mia.
In seguito, tanto tempo dopo, ho saputo il motivo di questa cosa: una delazione involontaria di una persona che proprio non mi era nemica per niente. Trasportato prima a Savona, alla Casa dello Studente, dopodiché immediatamente portato la notte stessa a Marassi, nell’ultima sezione in alto. Là sono stato, diciamo, in isolamento dal 20 di settembre ai primi di gennaio. Il giorno esatto che mi hanno fatto uscire non lo so, perché non lo ricordo assolutamente, sono ricordi che sono rimasti confusi. Non so se fosse il 2, il 3, il 5 o il 6.
D: Ecco, scusa Mattia, dove ti hanno arrestato?
R: Ad Alba. Alba. Gliel’avevo già detto prima, avevo accennato che io abitavo ad Alba.
Allora, si mettono con altre due persone, altre due o tre persone lì – non so, forse di Genova o che, abbiamo parlato molto poco – ci mettono in vagone e ci spediscono. Arriviamo dopo quasi un giorno e mezzo di viaggio – c’è una notte [di mezzo] – in un campo di concentramento, perché praticamente erano tutte baracche: non so quale fosse, ma penso fosse Dachau. Di buon conto, ci fanno passare lì un due o tre giorni, dopodiché ripartiamo, io e i due uomini, le donne non le ho più viste. Però, a un certo punto, loro sono spariti, sono rimasto solo, e mi trovavo – ho saputo dopo – nel bacino della Ruhr, dove non m’hanno dato nessun numero ancora, mi hanno soltanto tolto i vestiti civili e m’han dato dei… ma non degli abiti… un paio di pantaloni neri e una giacca nera. Dopodiché m’han fatto lavorare vicino alle grandi industrie lì, nel bacino della Ruhr. Dopo diversi altri bombardamenti che c’hanno preso, distrutto le baracche, sono stato mandato… almeno, penso che fosse il campo di Neuengamme. Però non sono stato immatricolato in Neuengamme, sono tornato direttamente – questo sempre nel… diciamo, tarda primavera del ’44 – verso la frontiera tedesca, e danese, a costruire le fosse anticarro, unico italiano fra tremila e più russi e polacchi. Questa è stata una cosa molto interessante perché praticamente durante tutto il periodo della mia prigionia ho incontrato soltanto un italiano: meglio che non l’avessi incontrato, che poi tra parentesi non era prigioniero, l’ho incontrato a Mauthausen, questo più in avanti.
Dopodiché dopo un po’ di tempo veniamo trasportati – finito di fare queste fosse – ci mandano a Sachsenhausen. Arriviamo a Sachsenhausen il 15 settembre del ‘43, qui adesso ho la documentazione […] posso dirlo in tranquillità, dove mi hanno dato il numero cento tremila sei otto sei, seicento ottantasei, centotre seicento ottantasei [103.686, ndr]. Durante il periodo di permanenza nel campo di Sachsenhausen sono stato addetto al ‘Bombe commando’, ovverosia una squadra, una piccola équipe di 5-6 persone. Lì ho avuto una grande fortuna, ho incontrato moltissimi belgi, specialmente, diversi belgi, che parlando francese ci siamo potuti capire, è stato il primo momento perché il mio tedesco era molto molto molto scolastico e lo sapevo molto poco; perciò, me la sono cavata sempre discretamente parlando un paio di lingue. Ragion per cui… parlando… questo è un eufemismo, ma non importa… sbrigandomi in questo modo. Durante il periodo del Bombe commando posso dire che è stato forse il periodo migliore, per il semplice motivo che vivendo praticamente nella città di Berlino, avevo la possibilità di racimolare qualcosa da mangiare in più, cosa che nel campo non succedeva. E nel contempo però venivamo sempre decimati, perché ogni tanto una squadra saltava in aria, e per fortuna mia sono rimasto, sono ancora qui tuttora, perciò mi è andata sempre bene.
D: Ecco, scusami Mattia, la vostra mansione in questo commando qui qual era?
R: La mia mansione in questo commando era il galoppino, essendo l’unico, come dico, che parlava un po’ di francese e un po’ di tedesco, logicamente venivo mandato da una squadra all’altra per fare cose… per i collegamenti. Per mia fortuna, perché anche quando sono successe le cose, tutte queste cose, praticamente io ho avuto la fortuna di salvarmi perché non era il momento giusto nel posto sbagliato. Perciò, diciamo semplicemente che la fortuna mi ha seguito, tutt’ora sono qui, perciò è logico questo. Fatto sta che dopo un certo periodo di tempo che eravamo su…
D: Voi dovevate recuperare gli ordigni inesplosi?
R: No, dovevamo disinnescare gli ordigni inesplosi più che altro, il recupero non era compito nostro, noi il disinnescamento della spoletta. Infatti siamo andati avanti per un bel periodo di tempo, per diversi mesi. Dopodiché, passato il… cominciato il ‘45, siamo rimasti un po’ nel campo. C’è stato un po’ di maretta perché praticamente stavano arrivando le truppe alleate. Cosa succede? Succede semplicemente che noi siamo trasferiti con trasporto di tremila e cinquecento persone e più da Sachsenhausen a Mauthausen, in Austria.
Ho avuto piacere di sapere questo: io di questo trasporto mi ricordavo quasi vagamente, era una cosa per me quasi inconsistente, una nebulosa. Ho avuto la fortuna di incontrare durante il recupero mio in Germania amici conosciuti tedeschi, danesi eccetera, che erano partiti con me da Sachsenhausen, sullo stesso trasporto, a distanza, poi sempre a distanza perché il loro numero era di poco inferiore e un altro poco superiore del mio, e questo mi ha dato una grande gioia perché ho detto “ci siamo trovati fratelli, uniti anche se forse di diverse nazionalità, non importa”. La cosa più interessante di tutte quando siamo arrivati a Mauthausen, ci fanno fare la scalinata. Noi era tre giorni che non si mangiava e non si beveva, su quella scalinata non so quanti sono rimasti, […] tanti.
Siamo arrivati, ci hanno passati alla doccia, spogliati, dopodiché non ci han dato nessun vestito perché non c’era niente da mettere addosso, ci han mandati nel sotterraneo che c’è all’ultimo edificio in fondo, c’era allora a destra, dove per fortuna nostra c’era del sale, rosso, in sacchi. Questo cloruro di sodio ci ha salvato la vita, perché succhiando quello siamo riusciti a produrre un po’ di liquido per il nostro corpo. Dopodiché ci hanno vestito, ci han dato qualcosa addosso, e siamo scesi al San Valentin [Sankt Valentin, ndr], alla miniera, alla mina, ci han mandati a lavorare, per un periodo di tempo abbastanza breve perché siamo stati sì e no un 20-25 giorni lì.
D: Ti hanno immatricolato di nuovo?
R: Certo immatricolato di nuovo, il mio numero di Mauthausen è centotrenta duecentotrenta [130.230, ndr]. E, come dicevo siamo scesi, dopo una ventina di giorni che facevamo la spola fra San Valentin e Mauthausen, ci hanno bloccato e ci han mandati alla stazione ferroviaria e ci han spedito ad Amstetten. Ho sempre creduto fosse Ebensee, poi finalmente sono riuscito ad appurare che era Amstetten dove c’han mandato. E lì nello stesso… in questa cittadina di Amstetten siamo andati a riparare la cosa… la stazione ferroviaria che veniva bombardata lì di notte, noi di giorno la riparavamo. Abbiamo continuato fino alla fine del conflitto. Ecco, questo è praticamente, diciamo, è il nesso di quello che è stata la mia deportazione.
D: La liberazione, il momento della liberazione?
R: La liberazione, 6 maggio 1945 alle 14 del pomeriggio, un carro armato statunitense abbatte la porta, abbatte il portale d’ingresso e si ritira. Non viene dentro.
D: Il portale d’ingresso…
R: Il portale d’ingresso del campo.
D: Di Mauthausen?
R: No, non di Mauthausen, di Amstetten, di Amstetten. Dopodiché si ritira. Noi usciamo, facciamo per andare fuori, ma eravamo talmente… siccome gli ultimi giorni del conflitto, gli ultimi giorni [in cui] eravamo rimasti le SS erano sparite tutte, era rimasto soltanto qualche vecchio soldato che poi tra parentesi anche quello all’ultimo momento era sparito, il vitto non c’era più, siamo rimasti a terra, quindi praticamente eravamo degli zombi diciamo.
Abbiamo cercato di uscire, di andare da qualche parte. Io ho avuto la fortuna di uscire, e andare verso… verso il dove non so. Mi sono trovato vicino a una fattoria, un casolare: sono entrato, vedo una donna che commossa mi dà una ciotola, dentro c’era della verdura, l’ho mangiato con avidità perché ovviamente avevo fame, poi sono uscito. Nell’uscire, diciamo, nel buio di quella grande camera dove… dello stanzone dove ero, ho visto delle divise: erano soldati tedeschi, anche loro tornavano a casa, più o meno facevano come noi. Dopodiché sono andato a… ho proseguito la strada, mi sono trovato in una piccola cittadina di Bad Ischl. A Bad Ischl ho incontrato, il comando di… il comando inglese, delle truppe inglesi. Sono stato portato al… diciamo, all’infermeria, dove mi hanno disinfettato, e mi hanno messo in infermeria; soltanto che non mi davano da mangiare, io avevo una fame tremenda, e logicamente mi sono alzato, ho preso qualcosa, me la sono messo addosso, sono andato fuori. Ho avuto la fortuna di trovare un altro, un italiano, un militare italiano, che mi ha aiutato ad andare sia verso il Municipio dove ci davano degli indumenti da metterci addosso, poi siamo riusciti ad avere anche qualcosa da mangiare. Dopodiché abbiamo peregrinato per un po’ di tempo, fino a che non siamo riusciti a trovare un mezzo che ci ha portati fino a Innsbruck. A Innsbruck ci siamo fermati perché tutte le macchine che c’erano a Innsbruck sono state sequestrate perché c’era la colonna del Vaticano che partiva da Innsbruck per portare giù in Italia. Però partiva diversi giorni dopo, e allora noi dovevamo arrangiarci anche per i viveri su a Innsbruck. Così abbiamo fatto, in qualche modo abbiamo vissuto, dopodiché siamo rientrati in Italia.
Io sono arrivato fino ad Alessandria, noi allora si abitava ancora… almeno, speravo che si abitasse ancora ad Alba, perché durante tutto il periodo della prigionia io non ho mai potuto né scrivere né ricevere, quindi praticamente ero all’oscuro di tutto, non sapevo se i miei genitori fossero ancora vivi o meno. Ho avuto la fortuna di arrivare fino ad Alessandria, dopodiché a piedi, fino ad Alba, perché da allora non c’erano né mezzi di comunicazione né niente, quindi praticamente l’unica strada era Cava di San Francesco, e siamo arrivati fino a… sono arrivato fino a casa. Certo, quella sera devo descriverla? No, è meglio di no. Devo descriverla?
Durante il periodo del ’45, come allora, praticamente la vita era ancora molto patriarcale, la televisione non esisteva, la radio era molto…
D: Ecco, scusa un attimo Mattia, allora la liberazione al 6 maggio del ’45, tu sei arrivato a casa ad Alba quando?
R:Era il 20 maggio, 20 maggio del ’45. Ovviamente io arrivo alla sera, era tardi, era verso le otto di sera, e c’era ancora un po’ di luce. Allora le persone, dato come dicevo, non c’era né televisione né niente, si radunavano in crocchio. Noi, essendo proprietari di un negozio alimentari, ci si metteva lì sotto un porticato a chiacchierare tra varie persone. Il mio papà seduto su una sedia, col sigaro toscano in mano, il fiammifero dall’altra, si volta e mi guarda. Però non ci crede ai suoi occhi, strofina il sigaro contro il muro e si mette il fiammifero in bocca. Dico: “Papà guarda che il sigaro è quello”. Butta via tutto, mi abbraccia, e poi… stop. Soprassediamo al resto.
D: Ascolta Mattia, facendo dei salti indietro adesso…
R: Sì, prego.
D: Hai subito degli interrogatori tu?
R: Interrogatori sì, ne ho subiti ma… Gli interrogatori per me erano una cosa… non c’entravo… Io praticamente, la mia giovane età, l’unica cosa che a me è stato chiesto tutte le volte che entravo in un campo, in qualsiasi posto arrivavo: “sei ebreo?”. Perché essendo molto giovane la prima cosa che ti domandavano era “sei ebreo?”. Ovviamente era quella. Io ho sempre risposto no. E poi, c’è una cosa molto lampante, che gli ebrei praticamente hanno il prepuzio del pene che è scoperto, mentre invece io non l’avevo scoperto, perciò praticamente sapevano che non ero ebreo. Ma la prima cosa che mi chiedevano per la giovane età era quella. Interrogatori veri e propri… non ne ho subiti interrogatori, nel senso… perché cosa potevo dire io? Assolutamente nulla.
D: Anche quando ti hanno arrestato?
R: Io sono stato arrestato dalla Polizia politica fascista come un grande traditore, perché avevo aiutato i ribelli. Ma io non ne sapevo assolutamente nulla di queste cose. Scusa, a un certo punto… Devo continuare o no?
D: Sì sì sì.
R: A sedici anni nel 1943 si era semplicemente dei ragazzi, io ero studente durante il periodo, diciamo, di vacanza: non si sapeva assolutamente nulla. Essendo cresciuti sotto il regime fascista, quando in casa non si poteva parlare di politica, anzi, poi a noi non interessava assolutamente, che cosa potevo sapere io? Io mi sono trovato a fare il saluto fascista davanti ai tedeschi e prendere un grande ceffone perché m’hanno detto che ero un traditore. È ovvio che… Io non sapevo cosa avevo tradito, eppure avevo tradito. Ovviamente poi in seguito ho capito tutto il perché. Io, non politico, sono stato politicizzato, e molto, di modo che alla fine se forse avevo delle certe idee ho dovuto cambiare completamente. Tutto lì. Domanda.
D: Ci parli del campo di Sachsenhausen?
R: Certo.
D: Come te lo ricordi?
R: In che senso?
D: Come era il campo.
R: Il campo era organizzato molto bene, c’era, diciamo, il Lagerältester, che praticamente… un Lagerältester che francamente parlando è stato uno dei migliori Lagerältester che ci fossero, che siano stati al campo di Sachsenhausen, uno degli ultimi che è stato. Era un criminale tedesco, però un criminale tutto particolare. Io non so cosa fosse o che, so soltanto che tutti i miei compagni di Sachsenhausen quando c’è stata la liberazione – io non ero in Sachsenhausen – loro l’hanno protetto, perché praticamente han detto che aveva fatto più lui di bene che tutti gli altri, io questo però non… queste sono le cose sentite dire poi in seguito.
Perché tu devi capire che le cose che in questo momento io sto dicendo, una gran parte io le ho riscontrate ripensando e parlando con i miei ex compagni. Perché la prima intervista che ho rilasciato tanti anni fa, o quasi venti anni fa, per me è piena di lacune perché avevo proprio la mente vuota. Sia forse perché ero rimasto per più di trent’anni che non ho più parlato di questo, dato che come sono arrivato, la prima cosa che m’han detto, quando ho raccontato a tre persone abbastanza importanti quello che m’era successo m’han detto: “impossibile!”. Questa parola ‘impossibile’ era rimasta fissa in me, io perciò avevo messo tutto in disparte, tutto, non ho più voluto parlare con nessuno, assolutamente di questo. Infatti, quando io per la prima volta mi sono trovato a Torino con uno dei nostri vicepresidenti, Dario Segre, a una manifestazione di deportati, mi fa: “E tu cosa fai qui?”. Dico: “Io sono deportato.” “Sì, ma son tanti anni che ti conosco, mai saputo!” E io dico: “E perché devo dirlo? Mai nessuno me lo ha chiesto.” Era diventata quasi una vergogna essere deportati, ragion per cui non si diceva più in giro, assolutamente.
D: Ecco, nel campo di Sachsenhausen erano molte baracche?
R: Sì, di baracche ce n’erano tantissime, ovviamente erano ripartite in vari settori. Io praticamente dovessi dirti quante baracche ci fossero non lo so, non l’ho mai saputo, non mi sono mai interessato al numero delle baracche. Io so soltanto che noi eravamo assegnati a quella baracca, la baracca numero 15, e sono stato lì per un certo qual periodo. Poi sono stato trasferito in un’altra baracca, però non ricordo il numero di questa baracca quale fosse, perché francamente parlando, il numero si ricordava soltanto per quando eri sotto, eri su all’appello per andare al tuo posto di dormire, cioè la tua cuccetta.
Ma… Il campo di Sachsenhausen era molto… era organizzato non solo militarmente, era organizzato, diciamo, con un criterio particolare, perché siccome il comando delle SS, la famosa Villa Eicke – quella che ora chiamiamo Villa Eicke, dove c’era il comando tattico delle SS, praticamente quelli che sovrintendevano a tutti i campi di concentramento – era proprio vicino a noi, quindi praticamente noi eravamo il campo scuola per loro, ragion per cui tutto doveva filare alla perfezione.
D: Ecco, un altro campo, che è Amstetten, era vicino al centro abitato oppure era distante dal centro abitato?
R: Il campo di Amstetten era semplicemente un grandissimo… era una… diciamo, una vecchia struttura austriaca, dove c’era un grande maneggio; noi eravamo ospitati… noi si dormiva tutti per terra sul terreno nudo in quel che era stato il campo del… la sala di maneggio, cioè una sala lunga, non so, un 350-400 metri, non so quanto fosse in larghezza, ad ogni modo noi si dormiva tutti lì. E il campo, il pezzo di campo, era recintato, dove c’era soltanto due baracche, dove ci davano la sbobba e il pane, tutto lì. Ecco, nient’altro. Il campo di Amstetten era… io quel che ricordo, perché francamente parlando non ricordo altro.
D: Ti ricordi, a Dachau hai detto, Sachsenhausen, e poi Mauthausen, e poi Amstetten, di aver visto delle donne?
R: Donne… A Mauthausen ho visto delle donne, ma le ho viste soltanto dietro una finestra. Aspetta… sì, a Dachau sì. Dachau… poi, non lo so, io ho detto Dachau però non ne sono certo di questo, perché sono passato da un campo che non conoscevo, quindi ragion per cui non posso dire con precisione che campo fosse. Penso fosse Dachau perché ci hanno detto che eravamo vicino a Monaco, quindi l’unico campo era Dachau. Io di donne ne ho viste semplicemente quelle che… le donne che erano con noi, quelle due donne che sono partite da Genova con noi. E poi altre donne, ci saran state ma non lo so.
A Neuengamme, di donne – quando son passato a Neuengamme – di donne non ne ho viste in assoluto. Alla frontiera danese, quando ho fatto le fosse anticarro – insomma, son stato per diversi per diversi mesi a far le fosse anticarro – non ho visto donne assolutamente.
Ecco, alla frontiera danese devo dire un piccolo particolare. I danesi sono stati molto molto molto gentili con noi, gentili in tutti i sensi. In questo senso. Noi si lavorava e si passava incolonnati, partendo da dove si dormiva per andare a questi campi di lavoro. Tantissime volte queste donne vedevano passare questa gente che aveva dei… era smunta, malandata, eccetera; eran piccole cose, ma tante volte si trovava sul lato della strada un pezzo di carta con dentro un pezzetto di pane, pane e margarina, per noi era come se fosse uno dei più grandi dolci, una torta o qualcosa di simile. Siamo stati… Un convoglio di rifornimenti è stato bombardato: eh beh, loro ci hanno aiutato, anche se magari avevano razziato già tutto i tedeschi, non importa, ci hanno aiutato con un po’ di patate e barbabietole e compagnia bella. Non saprei cosa dire. Infatti ho ringraziato, ho mandato al nostro compagno rappresentante di Sachsenhausen, danese, il dottor Petersen Skovgaard [probabilmente Inge Petersen Skovgaard, storico danese coinvolto nel salvataggio e trasporto di deportati negli ‘autobus bianchi’], che lui praticamente è il responsabile della deportazione di Copenaghen, una lettera dove ho ringraziato… ho voluto far ringraziare gli abitanti del paese della cittadina di Husum, perché avevano fatto a noi questa cosa, e ho avuto anche una risposta molto simpatica, e concreta.
D: Religiosi, ti ricordi di aver incontrato tra i deportati dei religiosi?
R: Religiosi in senso religiosi cattolici, no. Bibelforscher sì, Testimoni di Geova. Due. Che però, francamente parlando, l’ho saputo solo dopo che erano Testimoni di Geova, ed erano gli ultimi rimasti nel campo di Sachsenhausen, dove sono passati circa quattrocento e più testimoni di Geova. Sono gli unici religiosi con i quali ho parlato. Di religiosi della religione cattolica non ne ho incontrati assolutamente, come neppure di altre religioni perché, francamente, non li ho molto cercati. È questo.
D: E ragazzi più giovani di te?
R: Mai incontrati. Mai incontrati ragazzi più giovani di me. Io sono stato uno dei ragazzi più giovani che fosse nei campi, in quel periodo; almeno, nessuno che mi abbia detto che… e poi, io ero imberbe, ancora.
D: Ebrei ce n’erano nei campi?
R: Sì, ebrei ce n’erano. Ecco, ebrei ne ho incontrati un po’ da tutte le parti. Gli ebrei che ho incontrato più che altro gli ho incontrati nel campo di Sachsenhausen. Non molti, perché nel campo di Sachsenhausen ce ne sono stati pochissimi. Però loro erano, diciamo, una razza a parte, nel senso che loro facevano clan, erano sempre tutti uniti; mentre io, come italiano, essendo solo non avevo nessuno, non potevo [essere] seguito con nessuno. Ecco, l’unica cosa che mi ha colpito moltissimo è stato questo, che erano sempre molto uniti, molto vicini l’uno all’altro.
D: Tu non sei mai stato ricoverato nel Revier?
R: No nel Revier, ma… ci sono stato una volta per una… semplicemente per un… diciamo, una piccola ferita superficiale, sono stato disinfettato soltanto e basta. Come ricoverato mai.
D: Quindi non hai avuto quell’esperienza lì del Revier.
R: No no, io non ho avuto l’esperienza ma ho avuto… ho una tara mia personale che purtroppo mi porto dietro dal 1944, quando sono arrivato a Sachsenhausen, che ci hanno lasciato fuori nel cortile, all’Appellplatz, per quasi 47 o 48 ore, nudi completamente, perché non c’era… non so se non ci fosse posto nelle baracche o cosa, ma noi ci hanno fatto stare fuori, perciò… Quella [volta] lì ho preso una terribile pleurite che mi segue tuttora, e i miei bronchi sono quelli che sono. E ora ho i miei ricordi che purtroppo me li porto sempre con me. Stop.
D: Io volevo chiederle se ricorda qualche nome di qualcuno dei suoi compagni che sono partiti da Genova con lei.
R: Sì, ricordo un solo nome, Gino, è l’unico che ricordo, ma però il cognome non lo ricordo.
LA REGISTRAZIONE FINISCE QUI. SEGUE TRASCRIZIONE DELL’ULTIMA PARTE D’INTERVISTA NON RIPORTATA IN AUDIO.
D: E altri nomi di compagni di deportazione te ne ricordi?
R: No, perché praticamente devi capire una cosa: io di italiani non ne ho incontrati mai, e allora non posso sapere i nomi degli altri; praticamente con gli altri non ho mai avuto un rapporto vero e proprio. Ho avuto un rapporto con questi tecnici belgi che sono stati con me al Bombe commando di Berlino, però rapporti con… uno si chiama Charles, un altro si chiamava… mi sembra che fosse Jan o un nome simile. Altre persone non posso dire perché non ho mai incontrato un italiano. L’unico italiano che ho incontrato è un civile che non ha niente a che fare con la deportazione.
D: Un civile che hai trovato nel campo?
R: No, l’ho trovato nella galleria di San Valentin che lavorava. Il motivo è semplicissimo. Nel campo l’unica parola che campeggiava sempre era la parola ‘fame’. Io avevo trovato… anzi avevo trovato il mio vicino di castello, perché si dormiva in due sopra lo stesso… erano i castelli da tre piani ed eravamo in sei persone, cioè due due due. Al mattino mi sono svegliato ed era defunto. Aveva un maglione addosso, gliel’ho tolto, e ovviamente me lo sono messo. Nel contempo ho preso anche la sua razione di pane che davano al mattino, non dichiarandolo morto, perché la fame, come dico, era la prima cosa. Nella galleria di San Valentin, questo italiano mi vede questo maglione addosso e mi dice: “se mi dai quel maglione, io te lo vendo [compro, ndr] e ti dò tre filoni di pane.” Puoi capire! Accetto al volo. “Però mi devi dare il maglione adesso perché io devo portarlo fuori e poi ti porto il pane.” Devo ancora vederlo adesso.
D: Ascolta, in queste gallerie che cosa facevano?
R: Noi trasportavamo dei carrelli di pietrisco, di materiale, e basta. Io non ho mai scavato, ho sempre e solo spinto questi carrelli di materiale. Stop.
D: Ma stavano allestendo delle fabbriche?
R: Domanda alla quale non posso rispondere perché non ero all’altezza di capire quello che facevano, assolutamente.
D: Ma San Valentin, ha dormito a San Valentin?
R: Tutte le mattine si prendevano e si andava in cava, alla sera si ritornava su dalla cava. A Mauthausen. Al mattino si scendeva e alla sera si saliva.
D: Ti portavano giù con il camion?
R: No, no con le gambe, a piedi. Dalla cava a Mauthausen. Io dico San Valentin ma era sotto, la cava delle SS. Ci portavano giù a lavorare poi ritornavamo su alla sera.
PAUSA
R: Non è un trasporto il mio, noi siamo stati trasferiti da Genova. Praticamente il nostro non è stato un trasporto, noi eravamo cinque persone. Cinque persone, non apposta per noi, voi forse non avete presente i vecchi scompartimenti che c’erano nel periodo allora. [In] uno scompartimento c’erano quelle famose serrande di legno che bloccavano tutto: noi siamo partiti in quello scompartimento da soli, noi soli, noi cinque soli.
D: E chi vi faceva la guardia?
R: Di fuori c’era una guardia sulla porta.
D: Italiano?
R: Certo italiano, ovvio, fino alla frontiera. Alla frontiera ci hanno… non so cosa fosse, quando siamo arrivati erano tedeschi e ci hanno fatto scendere.
D: Ma tutto il resto del convoglio erano civili?
R: Il convoglio… il treno era un treno civile, normale, è quello. Eh, sì.
D: E perché Mario Miroglio?
R: Mi suonava un nome che avevo sentito da qualche parte, ma ovviamente della deportazione si possono trovare dei nomi, poi e…
D: Quindi tu non sei partito con un transport?
R: No, assolutamente no, era un trasporto particolare quello.
D: Per voi e basta?
R: Per noi e basta.
D: E non avete scambiato delle parole, voi all’interno di questo.
R: Ma a distanza di 56 anni io quando dico, sinceramente, se anche avessimo scambiato delle parole proprio non le ricordo in assoluto. Anche se avessi avuto una conversazione, la conversazione sarebbe stata dove andiamo, dove ci mandano o cosa, non saprei altro. Non sarebbe esistita una conversazione in questo campo.
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