Corazza Osvaldo

Osvaldo Corazza

Nato il 09.01.1927

Intervista del: 22.08.2000 a Bologna realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 75 – durata: 64’+58′ circa

Arresto: a San Giacomo del Martinone il 02.12.1944

Carcerazione: Caserma dei Carabinieri a San Giovanni in Persiceto, Comando della Gestapo a Bologna, San Giovanni in Monte a Bologna

Deportazione: Bolzano, Mauthausen, Gusen 2

Liberazione: a Gusen 2

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io sono Osvaldo Corazza, sono nato il 9 gennaio 1927 e risiedo a Bologna.

Il mio arresto avverrà ad Anzola dell’Emilia, anzi più precisamente a San Giacomo del Martinone, sempre considerando che noi eravamo usciti, eravamo sfollati da Bologna a San Giacomo del Martinone ed eravamo ospiti di uno zio.

Poi, per effetto dei bombardamenti, le operazioni aeree di Pippo, dato che la casa di mio zio era al lato del ponte Samoggia, allora decidemmo di cambiare il luogo ed andammo in una casa colonica, a casa di un contadino lì vicino, era della famiglia Guermandi e in questa casa, in questo luogo era sinonimo che lì c’era un’operazione resistenziale ed era una base partigiana, era un punto di incontro, di arrivo e di partenza delle varie formazioni che erano in movimento, le staffette che arrivavano portavano comunicazioni, quindi era un’operosità di quel genere.

Noi vivevamo in quella casa e non è che avessimo delle grandi funzioni in quest’operazione resistenziale, però operavamo insieme ai figli del contadino, nel conservare il materiale, armi ed altre cose, che le varie squadre, partigiani di passaggio, dopo le operazioni che svolgevano, quello che recuperavano lo portavano lì.

Noi raccoglievamo le armi, le tenevamo pulite, ed era un modo per dare continuità a questo movimento.

Diciamo così che noi ormai lo ritenevamo una cosa abbastanza normale perché spiritualmente, idealmente, la mia famiglia è sempre stata antifascista.

Mio padre era stato nel 1916 – 1918 consigliere comunale socialista di Anzola dell’Emilia, era stato anche bastonato ecc.

Quando, a Bologna avvenivano delle manifestazioni fasciste, lui veniva preso e poi portato dentro al gruppo rionale di Santa Viola, per esempio quando passava Mussolini in treno che da Roma andava a Milano, veniva preso e lo tenevano là, un giorno, una notte, due, a secondo.

Quindi, c’era da parte nostra già una predisposizione a questo movimento, quindi vivevamo nella paura, tenevamo sempre conto di questo perché chi ha vissuto quei momenti si rende conto di quale era la malvagità delle forze di occupazione, le SS, i luoghi fascisti e quindi si consideravano queste cose, però le operazioni venivano svolte.

Lì, come dicevo, la nostra collaborazione consisteva in questo: noi avevamo rapporti anche con altri contadini, altre basi, e noi dicevamo ai contadini che avevamo intorno, considerando che allora era tutto razionato: carne, fagioli, patate, latte, i contadini quando nascevano un vitello, due vitelli, tre vitelli, li dovevano denunciare al Comune.

Allora noi dicevamo: “Non denunciateli tutti quando arrivano due vitelli”. Così noi, dopo un certo periodo, andavamo a prendere questi animali, facevamo la macellazione, suddividevamo i pezzi, li mettevamo dentro dei sacchi di tela juta perché fosse una cosa grezza e quelli poi li portavamo alle altre basi che svolgevano questo tipo di operazioni, perché in questi luoghi non è che c’era una casa abbandonata. Voi pensate che c’era mezzo paese in quella casa, e anzi dirò che siamo stati fino a quarantatré residenti in quella casa e quindi c’era un movimento abbastanza aperto.

Quando facevamo queste operazioni di rifornimento alle altre basi, io o altri, andavano dal contadino sopra, nei luoghi in cui bisognava andare, con le armi, lì radunavamo e quando c’era un certo numero di armi, le mettevamo dentro ai carretti in mezzo a fascine ecc. e poi li portavamo in su, due o tre o quattro contadini, poi là abbandonavamo la cosa e lui pensava a fare la stessa cosa per riuscire al rifornimento delle armi alle formazioni partigiane di montagna, che erano tante in montagna, però l’unico difetto era proprio questo: la mancanza delle armi, perché nelle zone intorno, dove noi operavamo, qui operava la sessantatreesima brigata Bolerno, non è che sono avvenuti dei lanci di armi, rifornimento.

Questo è avvenuto, più che altro, nelle cime, ma soprattutto in Romagna. In Romagna sono avvenuti questi lanci, ma qui nell’Appennino nostro poco, nel Modenese, Monte Fiorino ed altro.

Diciamo che era una base che aveva questo carattere: era abbastanza operativa.

Direi anzi che la sera stessa che noi siamo stati arrestati all’interno della stalla, c’era una squadra di otto, dieci, dodici partigiani, non ricordo bene, che al momento in cui siamo stati circondati, loro riuscirono attraverso il portone dietro della stalla, a rifugiarsi dentro a un rifugio che noi avevamo preparato precedentemente in mezzo alle balle di paglia, avevamo lasciato un vuoto che sarà stato tre metri, due metri per due metri e mezzo circa e si tirava fuori una di quelle balle, entravano e poi si ritiravano dentro le balle.

Avevano spazio per respirare, perché filtrava aria.

E si rifugiarono lì perché subito dopo l’operazione di accerchiamento della casa e della stalla non avrebbero più fatto in tempo.

Il nostro arresto avviene a causa di una soffiata, diciamo così, ed è avvenuto un rastrellamento un po’ di giorni prima di questo rastrellamento, a San Giovanni in Persiceto, hanno arrestato moltissime persone, tra i quali c’erano anche alcuni partigiani che vedremo poi che sulla deportazione, noi troveremo i Comuni di San Giovanni in Persiceto e Anzola dell’Emilia, i due Comuni che hanno più deportati per effetto di questi arresti generalizzati e poi selezionati attraverso questi soggetti che erano i delatori.

Infatti ad Anzola dell’Emilia c’era un ex partigiano che era diventato il delatore.

Molti confronti sono stati fatti in carcere con noi e lui diceva: “Questo sì, questo no”, questo vestito con delle maglie, che le formazioni partigiane avevano distribuito e allora dicevano: “Questo è vestito…”, e tutte le volte che tu uscivi da questi confronti erano botte, ti dicevano: “Dove hai preso quella maglia?”

E io che ero un ragazzetto con una fisionomia abbastanza infantile, io dicevo: “Non so, me l’ha dato mia mamma, non so dove l’ha preso” e poi sberle, sganassoni, pugni.

Insomma lo svolgimento era questo.

Per tornare al periodo dell’accerchiamento, questi partigiani verso la mattina romperanno l’accerchiamento.

Premetto che nel mese di ottobre, questo avviene il 2 dicembre del 1944, nel mese di ottobre, per effetto della rottura degli argini del Samoggia, si era prodotto un grande allagamento e anche lì da noi nel cortile c’era così tanto di malta nella campagna, ancora di più.

Loro, alla mattina presto, aprirono il buco, aprirono il varco e fuggirono e riuscirono a fuggire tutti fuori che uno si sentì sparare.

Questo non riuscì a scappare e si andò a rifugiare nell’orto, e lì venne visto, trovato e portato in casa.

In quella mattina, mattina molto presto, venimmo arrestati, gli uomini che erano in quella casa. Il figlio del contadino Gaetano e un altro, un certo Bruno Baiesi che erano anche loro nelle formazioni, erano in casa a dormire e quando hanno sentito tutta questa cosa, sono fuggiti per una porticina e si sono nascosti sotto un sottoscala dove la donna di casa teneva le fascine di biancospino, le fascine adatte per cuocere il pane nel forno. E si andarono a nascondere là.

E sono stati nascosti lì per due giorni.

Infine, in un momento di calma, di tranquillità, che le SS avevano allentato la vigilanza, uscirono dalla porticina dietro e si andarono a rifugiare dentro un altro rifugio che avevamo scavato in un argine del Samoggia, con una botola, che quando era chiusa non si vedeva niente, e stettero là fino a un giorno o due prima che i tedeschi abbandonassero perché dovettero decidere, perché era pericolosissimo perché il portare loro da mangiare… Una notte uscirono dalla botola, entrarono dentro il letto del fiume ed uscirono nel sotto argine, la barlaida, la chiamavano e sono fuggiti verso Anzola e si sono nascosti in altri luoghi fuori dall’accerchiamento.

Questo che avevano trovato l’hanno portato in casa e hanno cominciato a interrogarlo con botte, calci, pugni, faceva sangue dappertutto e volevano sapere chi era il comandante e tutte queste.

Poi infine ci legarono con un cappio da contadino per il collo e in fila ci portarono fuori.

D: Chi è che hanno legato Dado? Te…

R: Tutti. Ci legarono..

D: Anche il tuo babbo?

R: Eravamo in otto, come ho detto, ci legarono con questo canapo e poi in fila ci portarono fuori, ci caricarono su un camion e ci portarono fuori.

Usciti dalla cavedania di questo contadino c’era già la strada della Persicetana, lì a fianco c’è il cimitero. Lì c’erano due o tre camion, siamo arrivati con il nostro camion e cominciarono: alt…, parlavano, discutevano e siamo stati lì un bel po’ e questo ci faceva pensare, c’erano le grandi paure, perché si pensava che poi ti avrebbero fucilato al cimitero.

Dopo un pezzo, invece decidono e ci portano a San Giovanni in Persiceto.

A San Giovanni in Persiceto avemmo prima un interrogatorio, alla casa del fascio, dove c’era….

D: Ma questo sempre le SS.?

R: Lì vorrei precisare che hanno fatto il nostro arresto le SS.

Dietro alla delazione di ogni soldato tedesco che era fuggito dalla formazione militare ed era entro entrato nelle formazioni partigiane.

Ora, tutto fa pensare che fosse stata una mossa politica per fare spionaggio.

Io non lo so, per il tipo, il soggetto che era, un ragazzo abbastanza mite, non credo che fosse stato .., comunque a parte questo…

Fatta questa operazione ci portarono via, arrivammo in San Giovanni in Persiceto e subito ci portarono al Comando dei fascisti, delle brigate nere che fecero un primo sommario, interrogatorio.

Poi ci portarono dentro alla Caserma dei Carabinieri, c’erano delle cellette e lì stettimo due giorni.

C’erano le cassapanche, c’era la paglia, si dormiva lì e ogni tanto dallo spioncino del portone passava un tedesco e diceva: “Domani tutti kaputt”, e questo non è che…

Questo incoraggiava sempre di più il pensiero che saremmo stati fucilati, impiccati perché già sapevamo di questa operazione dei tedeschi, quindi vivevamo in una grande paura. Quando sono arrivati i tedeschi in casa, nell’arresto, io ero timoroso, pauroso, anzi direi che a malapena riuscivo ad allacciarmi le scarpe dalla paura, perché bisogna immaginare l’atteggiamento di queste persone quando arrivavano, con i calci del fucile, ad ogni mossa, e questo soprattutto per dei ginetti come eravamo noi, non incoraggiava un granché.

Di fatto stiamo due giorni a San Giovanni in Persiceto, poi una sera, verso le nove, le dieci ci ricaricano in camion e partiamo.

Quando si arriva a Bologna, noi vedevamo dalle fessure, si fermarono sulla via Emilia davanti all’entrata della via Gucchi che in fondo alla via Gucchi c’era il tira a segno dove normalmente facevano le operazioni di fucilazione, ci sono oltre duecento fucilati nel tiro a segno.

Anche lì ci fermarono, discutevano, parlavano, solo che noi non capivamo niente di tutto questo.

Vivevamo solo nella paura.

Dopo un lungo periodo ripartirono e ci portarono su.

A noi è parso di aver fiancheggiato i portici per andare a San Luca.

Però questo è un po’ incerto.

Solo che a un certo momento, avanti un pezzo su per la collina ci fermano davanti a una grande villa, con dei cancelli grandissimi, che in fondo a questa villa c’erano delle piante rampicanti, lo ricordo bene perché c’era Carlo Nepoti che poi morirà a Mauthausen e diceva: “Qui ci fermano, qui c’impiccano, andiamo sulle corde”.

Erano piante rampicanti che io vedrò poi, dopo la guerra, andando a percorrere per vedere quei luoghi e ci portarono infine su nella casa di Sabbiuno.

Lì c’era una camera, una grande pagliata, e ci chiusero dentro.

Alla notte ci diedero anche da mangiare, una brocca, di quelle alte, piena di brodaglia, pezzi di carne e dovevamo mangiare con un cucchiaio solo e facevamo un po’ per uno a mangiare.

Ricordo che l’unico indizio che mi fa pensare, e non lo dico con l’assoluto però, perché di notte mi venne il bisogno di andare al gabinetto, e allora a forza di insistere, viene uno con me, un militare, e mi porta là dietro in un posto vicino alla siepe, intanto mi curava, io facevo le mie cose, infine ritorno dentro…

Quindi noi eravamo lì in attesa, senza sapere qual era la destinazione.

D: Scusa, Dado, invece di portarvi a Bologna vi hanno portato a Sabbiuno.

Sabbiuno è una località in un paese….

R: No, è una zona di collina sopra a Casaglia, sopra a Monte Donato, diciamo e, passata la notte, ci ricaricano sul camion e ci riportano a Bologna, al Comando della Gestapo, vicino alla strada …

D: Il Comando della Gestapo era qui ai giardini?

R: Era lì ai giardini, si chiama via Santa Chiara, a lato dei giardini Margherita.

Dalla botola della cantina dove noi eravamo, noi vedevamo, dietro agli alberi dei giardini, il monumento di Carlo Alberto che una volta era nella piazza maggiore, venne tolto durante la guerra.

Come arrivammo giù, lì ci misero dentro in due cantine e incominciarono gli interrogatori.

Mi presero subito e mi portarono su a pulire tutti i gabinetti del Comando e tutta la mattinata rimasi a fare quelle cose.

Poi il pomeriggio iniziarono gli interrogatori.

Ti chiamavano su e ti mettevano a sedere, di fronte a un ufficiale delle SS, su una sedia e incominciavano a dirti: “Tu sei della GAP e della SAP, e io dicevo: “Io non so neanche cos’è la SAP e la GAP”, io non ero niente, ero sfollato là. E cominciarono: “Chi era il Comandante della formazione del GAP?” Noi…, però resistevamo. Alla fine si scoccia, si alza su e si avvicina e ricomincia: “Tu eri della GAP o della SAP?”

Io dissi: “Non lo so”. Così mi diede dei grandi sberlone, dei pugni e allora si infiammò tutto nel parlare.

Dopo un po’ arriva dentro un ufficiale della brigata nera che disse: “Cosa c’è?” E io dissi: “Mi chiede se sono della GAP o della SAP, vuole sapere delle cose che io non so”.

Andammo avanti ancora, lui cercava bonariamente di dire: “E’ meglio che dici, perché è l’unico modo perché tu puoi salvaguardarti” ecc. e così.

Io non dissi niente.

Dicevo sempre la stessa cosa, come un disco.

Finalmente finì.

Io, da questi interrogatori, me la caverò con pugni e schiaffi, però gli altri venivano malmenati molto forte.

D: Scusa, Dado, ritorniamo a Sabbiuno, è una località dove non ci sono abitazioni?

R: No. Dove c’è ora il monumento, il monumento è un arco di cemento con le bocchette dove stavano quelli che fucilavano.

Lì c’era una casa da contadino, una casetta, poi c’erano delle altre, in collina.

La frazione come tale era prima e noi non sapevamo…

D: Perché vi hanno portato lì? Cos’era quel luogo?

R: Te lo stavo dicendo.

A Sabbiuno, poi si scoprirà dopo la guerra, che in quel luogo erano stati fucilati cento partigiani.

Sono stati ritrovati nel giugno del 1945, quindi un mese e mezzo dopo la fine della guerra, giù per questi calanchi che sono calanchi di terra maltosa, erano tutti seppelliti nella malta, per quello ci hanno impiegato tanto a trovarli. Di questi martiri ce ne sono quarantasette riconosciuti e cinquantatre sconosciuti.

Sappiamo che erano in quel gruppo ma non si sono potuti individuare.

Quando portarono su questi gruppi di partigiani arrivava il camion al carcere di San Giovanni in Monte a Bologna, lo mettevano davanti, veniva fatto l’appello all’interno, li portavano fuori e li legavano, gli toglievano tutto, quel pane che avevano, quel pane che avevano racimolato e gli legavano le mani dietro alla schiena. Li cacciavano sul camion e partivano.

Ricordo molto bene queste cose perché io vidi partire mio cugino Bruno che sarà uno di questi fucilati. Poi conoscevo bene il muretto, una medaglia d’oro, perché eravamo Dante e Dusiani, dove eravamo stati a scuola elementare insieme, non sapevo che erano partigiani quelli, però li vedevo, perché io ero nella cella di transito, proprio di fronte all’entrata o all’uscita di San Giovanni in Monte.

D: Scusa, queste fucilazioni condotte lì a Sabbiuno, sono state eseguite da chi?

R: Dalle SS, potrebbero esserci anche delle brigate nere, ma quando uno andava nelle mani della Gestapo, quelli rimanevano in mano alla Gestapo.

Finiti gli interrogatori alla Gestapo, lì c’era la selezione o chi era fucilato o chi era eventualmente deportato, se non alcuni, come dirò, di noi otto che eravamo, tre di questi saranno rilasciati dopo gli interrogatori perché erano vecchi, due erano vecchissimi, poi c’era il garzone del contadino che era un montanarino che allora usava così, andavano a prendere i poveri ragazzi, però forti per lavorare, era un po’ semplicione, e anche quello viene rilasciato, Toni si chiamava.

Io lo ricordo molto bene perché molte volte lo schernivamo anche perché era un po’ semplicione.

Degli altri cinque, due saranno fucilati in Sabbiuno, quel famoso Baiesi che trovarono quando ci hanno arrestato e l’anziano contadino, era un omone, un vecchietto, era un uomo forte come forza, pieno di arroganza.

Quando durante il periodo dell’occupazione, le brigate nere venivano nel cortile dei contadini, venivano lì e cominciavano a sparare alle galline, derubavano, e lui veniva fuori dalla stalla con il forcale: se torni a tirare un colpo di fucile te lo pianto… Diceva così. Non aveva paura.

Dicevo che due sono stati fucilati lì, altri due, io e Nepoti Carlo saremo invece mandati a Mauthausen.

Mio padre, che era in carcere con me, quando sono venuti a chiamare all’interno della cella, cominciarono a chiamare Corazza Osvaldo e quando arrivarono alla fine Corazza Gaetano non l’avevano chiamato, però dentro all’ufficio matricola, dove c’era il salone in cui ci avevano radunato per deportarci in Bolzano, chiamarono anche Corazza Gaetano.

Non c’era, si vede che nel chiamare, lui avrà letto: “Corazza l’ho già chiamato ed è passato giù, immagino io”.

Lì, all’ufficio matricola chiamano “Corazza Gaetano, Corazza Gaetano”, non c’era. Ne avevo altri due di Corazza insieme a noi, che erano due cugini miei, che uno poi morirà a Gusen, l’altro invece verrà a casa e lì dice che ci fanno partire.

Mio padre rimane in carcere, che dopo una ventina di giorni, partiti noi, lo mandarono ai confini della Svizzera, a badare a dei cavalli, dopo alcuni giorni che era là abbandonò i cavalli e arrivò a casa, arrivò a casa prima della Liberazione.

A noi invece ci caricarono il 22 dicembre, se ricordo bene, arrivammo all’antivigilia di Natale a Bolzano, però facemmo una notte fermi in una scuola a Pecognaga, perché ci portarono via, si partì si vede tardino, verso la mattina eravamo nei dintorni e ci portarono a Pecognaga.

Lì ci portarono dentro quella scuola e stemmo lì tutto il giorno, sempre guardati dalla SS.

Si vedeva la piazza di Pecognaga.

Alla sera ci ricaricarono sui camion e via. Si parte, si passa il Po su questi ponti fatti di barche e giungemmo a Bolzano in mattinata.

D: In quanti eravate più o meno, Dado?

R: Eravamo novantun uomini e nove donne. Erano due o tre camion.

Mi ricordo che sul camion avevo l’avvocato Costa vicino che aveva una gamba diritta e mi diceva che gli stavo addosso alla gamba. Ci avevano pigiati lì dentro così e così si doveva andare.

Arrivati a Bolzano, lì comincerà l’operazione di tosatura e anche l’immatricolazione.

Io avevo il numero 7.973, detto così me lo ricordo un po’ meglio. Poi pensate che ci sono degli amici miei che non si ricordano che li avevano numerati perché poi i ricordi sfuggono dopo tanto tempo.

Lì fu la prima volta che ci dissero: “Da oggi in avanti voi avrete questo numero, non avrete più nome e cognome”, la prima volta.

Poi di nuovo, ci rinnovarono questa espressione quando arrivammo a Mauthausen.

Dal 22 di mattina stemmo fino al 6 di gennaio in Bolzano.

Lì non facevamo niente, non si faceva niente e al mio arrivo, racconto questo episodio perché simpatico, incontrerò il mio amico Balboni, che era amico mio perché eravamo vicini di casa, eravamo nel bar insieme.

Quando eravamo lì in fila, diritti così, arrivò un gruppo che veniva da fuori, allora si avvicinò a Balboni e disse: “Siete di Bologna?” E noi rispondemmo: “Sì, siamo di Bologna”. “Non c’è nessuno di Santaviola?”

C’ero io, Balboni… “Ma com’è che sei qui?” Allora parlarono in fretta, perché lì menavano… Poi ci portarono dentro al posto.

Ricordo che di tanto in tanto, lui che veniva di fuori riusciva a recuperare qualche po’ di miele o cose del genere e ogni tanto ce lo portava.

Insomma lì passammo questi giorni in Bolzano, sembrava che si fosse aperta la prospettiva di poter andare a lavorare dietro il campo, che stavano allargandolo, sembrava ci fosse un ufficiale americano, un pilota e dicevano che era il capo che conduceva i lavori di carpenteria e allora noi chiedemmo se si poteva andare a lavorare lì. E non ci dissero neanche di no e si arrivò che ci spedirono via e non riuscimmo a combinare niente.

Da Bolzano ci caricarono il 6 di gennaio…

D: Dado, ti ricordi, scusa, nella tua brevissima permanenza a Bolzano, se hai trovato anche dei religiosi?

R: Io dirò questo: dei ricordi di Bolzano, di espressioni spirituali no…, poi neanche nel resto.

Ricordo bene che facevamo arrabbiare un nostro amico, che era deportato lui, era molto religioso.

Ogni tanto qualcuno si metteva una gabbana nera e diceva: “Pietro, vieni qui che ti voglio confessare”.

Stiamo facendo un monumento dedicato a lui e a un altro.

Si chiamava Pietro…

D: Ma di sacerdoti non ne ricordi?

R: Ne troveremo due quando arriveremo a Mauthausen.

Comunque lì, una delle cose impressionanti che vidi, alla mattina veniva fuori dalla baracca, dalla baracchetta per andare a fare il bagno, in mezzo, in fondo al piazzale di Bolzano c’erano le celle.

C’erano le celle e dentro a queste celle, ricordo, quando passavamo, c’erano dei mongoli che erano quelli che dalle truppe russe erano passati alla collaborazione. E li avevano arrestati perché chissà cosa avevano fatto. Comunque facevano degli urli che sembravano dei selvaggi.

Un giorno, mi capitò una mattina, che passando di lì, uno di questi venne di lì dall’inferriata e portò un deportato e gli fece vedere che aveva del pane. Quando si avvicinò lo prese per il collo e se lo tenne lì, io vidi che cadde in terra. Non so se era morto o quasi morto perché io tagliai la corda.

Secondo me era morto, ma non ho la certezza.

Così imparai che quella era gente così.

Una delle cose più grosse erano quelle lì.

Del resto lì abbiamo vissuto una vita da niente.

Il 6 gennaio venimmo ricaricati e portati in stazione. Lì ci stringeranno dentro i vagoni, non lo so quanti eravamo, sessanta o sessantacinque, so che non c’era posto per tutti, solo in metà vagone ci si poteva sedere e bisognava fare i turni, arrivammo a Mauthausen l’11 gennaio, alla mattina presto.

D: Scusa, Dado, siete partiti da Bolzano da dove?

R: Dalla stazione ferroviaria di Bolzano, con il camion, da dentro il campo ci portarono alla stazione e da lì ci ricaricarono dentro i vagoni bestiame.

Il viaggio fu molto lungo, perché voi pensate che da Bolzano ad arrivare a Mauthausen ci sono 400 km, per treno penso ci saranno 350 km e stemmo nove, dieci giorni in viaggio.

E ci hanno dato da mangiare una volta, a metà del viaggio che fu il 9 gennaio che io compivo diciotto anni quel giorno.

Fu un viaggio molto penoso e non ci furono dei morti nel mio vagone, ma in altri vagoni sì.

Mi ricordo bene che una delle cose penose era la sete, c’era il fiato pesante.

Allora, per rinfrescarci la bocca leccavamo i bulloni che fissavano le piastre che tenevano ferme le aste del vagone e facevano una brina, e le cavavo quelle o con le dita…

Da mangiare ci diedero un bussolotto di carne tritata, una specie di Simmenthal, e una pagnotta di pane, ogni due.

Dopo, con quei bussolotti, con le cinture, dal mezzo del finestrino che c’erano i fili, aprivamo i fili reticolati, mettevamo giù i bussolotti per raccogliere un po’ di neve, a volte ci andava bene e delle volte ci andava male.

A volte si raccoglieva un po’ di neve, a volte dei sassi, a volte anche dello sterco che dietro alle ferrovie non mancava.

Durante questi giorni e notti ci lasciavano fermi delle ore.

Non era freddo, neanche se era gennaio, all’interno del vagone, e poi eravamo anche abbastanza vestiti perché in carcere, durante il periodo della permanenza in carcere, un giorno alla settimana potevano venire dei familiari a portarci qualcosa da mangiare, vestiti, quindi eravamo abbastanza vestiti. Non era neanche freddo, almeno non ricordo che era freddo.

Arrivammo a Mauthausen, ci scaricarono a Mauthausen e finita l’operazione di scarico, ci avviarono. Passammo dentro alla cittadina di Mauthausen che non è come era adesso.

Adesso c’è il viale di circonvallazione. Allora non c’era.

Il viale di circonvallazione che costeggia il Danubio non c’era. C’era solo la strada che passava al centro.

Al lato destro c’è una rupe, una grande collina dove sopra ci sarà il campo e a destra tutte le residenze.

Ricordo che quando passavamo dalla città, si vedevano i bambini che guardavano e curiosavano e le donne, quando vedevano che passavamo, chiudevano gli scuri, si tiravano dentro, insomma. Non avevamo delle scherni, altri amici miei mi hanno detto che invece trovavano dei bambini che tiravano loro i sassi, sputavano, ma io questo non l’ho verificato.

Arrivati a Mauthausen ci fecero percorrere la strada all’interno, come dicevo, di quella gente che era lì in giro e cercava di allontanarsi più che di curiosare o tanto meno di solidarizzare, che non sarebbe stata cosa facile, è vero, tanto per chi fosse stato nazista o antinazista, venire a solidarizzare era una cosa pericolosa.

Passato il paese c’è una mulattiera che va su dal paese, non è più la strada normale che si fa ora, su per questa mulattiera finalmente arriviamo sopra, come arriviamo sopra nella strada, a sinistra c’era una casa del contadino che c’è ancora e subito a destra tu vedi la facciata del campo, c’era la neve.

Le mura che sono belle grigie adesso, ma nel confronto con la neve erano mura scure.

Sopra al campo c’erano dei nugoli di corvi che urlavano perché lì intorno c’erano le famose fosse comuni, di cui noi sapremo dopo, e di cui io non ho mai saputo.

Arrivammo dentro al campo e come arrivati al campo, un episodio simpatico, appena dentro il portone, fermano tutta la fila e io rimango lì tra il dentro e il fuori del portone.

Lì di fianco c’era un marocchino, un francese, era un mulatto che spazzava. “Italiani…, good maccheroni…”, diceva e continuava a spazzare.

Poi ci portarono dietro alla prima baracca di destra e lì ci fermarono e incominciarono l’operazione della spoliazione, la rasatura e infatti in venticinque o in trenta andavamo giù, ci fecero fare la spoliazione e dissero: “Mettete lì la roba che poi quando uscite dalle docce…”. Intanto ci facciamo avanti, di qua e di là c’erano due barbieri che ci tosarono da capo a piedi.

Noi eravamo già rasati da Bolzano e lì ci fecero la prima riga, la Strasse.

Così, spogliati, nudi, comincia quest’operazione.

Io ho assistito alla prima operazione di punizione di due preti, che erano due preti di Milano, uno di qua e uno di là e non volevano farsi tosare sotto e hanno preso tante di quelle botte da fare paura, perché lì ti tosavano la parte sopra, io non avevo niente da tosare, non avevo la barba, nel petto non avevo il pelo, ci fecero salire su un mensolino alto come una sedia, e poi ti tosavano sotto. Poi ti davano la creolina, questo dopo che venivi fuori dalle docce.

Fatta la rasatura, si andava dentro. Quando eravamo tutti dentro, ti facevano fare la doccia, e fuori di là quando uscivi la tua roba non c’era più.

Lì c’era un bancone, ti davano un paio di mutande, una maglia, un paio di scarpacce e fuori.

C’era la neve fuori, ci portarono fuori e lì aspettavamo perché finché non si era raggiunto un certo numero non si andava in baracca.

Finita l’operazione di questo, allora ci portarono in baracca, dentro il campo di quarantena.

Come arrivammo là ci diedero da mangiare, una sbobba dolcina, una cosa proprio che non si poteva mangiare e sopra, perché erano tutti castelli, file di castelli e qui c’era la… che ti dava questa roba e noi facevamo gli schizzinosi perché nonostante tutto, venivano dal carcere, da Bolzano e qualcosa mangiucchiavamo.

Così c’era un deportato spagnolo, lì sopra a sedere, al terzo piano del castello che diceva: “Mangiatela perché non la mangerete mai più. C’era dentro del semolino, della roba…”

D: Dado, il blocco di quarantena, ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: No, il numero non lo ricordo.

Ricordo che appena entrati dal cancello eravamo nel primo blocco. Non so venti, ventuno, ventidue, erano tre, credo, i blocchi di quarantena, però alla quarantena stemmo solo pochi giorni.

Nei blocchi di quarantena c’erano i castelli a tre piani, quelli dove l’ultimo batteva la testa sopra.

Ricordo bene che c’era anche uno di questi spagnoli, un certo Eolo, ci cantava “Limon Limonero”, una canzone spagnola, bella…, voi siete giovani, non la sapete.

E lì fu la prima esperienza della baracca. Arrivò poi il giorno dopo che ci diedero la numerazione.

Come vi dicevo, ci misero a sedere contro il muro della baracca, lì ci misero a sedere e poi una piastrina con il numero: 115.453.

E ci fecero la foto, perché questo rimaneva il documento del campo, cosa che non troveremo mai.

Non credo nessuno abbia trovato le foto di Mauthausen, quindi credo siano state distrutte, a meno che non saltino fuori tra altri cinquanta anni.

Solo che non possiamo vedere se siamo venuti bene!

Ora, lì fatta quest’operazione, noi rimaniamo in attesa…

Dirò, ritornando indietro, che dei cento che siamo arrivati a Bolzano, le donne rimarranno a Bolzano e partono solo gli uomini e alla fine della Liberazione torneremo a casa dodici, tredici, quattordici, il numero preciso non lo so, non lo ricordo.

Fatta quell’operazione, noi al campo non saremo adoperati per andare alla scala, alla scala della morte, anzi io dirò che della cava ne avevo sentito parlare perché vedevamo, alla mattina, quando sull’Appel Place ci facevano la conta, vedevamo che arrivavano verso le 6, i deportati del blocco di eliminazione, laddove c’erano quei russi, che poi avverrà il tentativo di fuga e arrivavano su moribondi, stramazzavano in terra insieme ai sassi, si accatastavano in terra.

Allora mi dissero che quelli andavano nella cava per prendere questi sassi, ma io non l’ho mai vista, anche quando sono stato liberato.

Sono stato liberato a Gusen, ma non l’ho mai vista la cava. L’ho vista solo dopo la guerra. Quindi lì non facevamo niente.

L’unico impegno per cui io sono stato utilizzato all’interno del campo è quando è avvenuto il tentativo di fuga.

Noi usciremo dopo tre o quattro giorni dal blocco di quarantena, entriamo lì, credo nella seconda baracca, fuori dal campo di quarantena, credo fosse il blocco dodici, tredici, era il secondo dietro.

E lì, invece noi non avevamo più i castelli, ma avevamo i pagliericci in terra.

Alla sera, entriamo in questa baracca, era tutta vuota, solo lì in fondo c’era una pila, una catasta di questi materassini che poi, alla sera, i Kapò ci dicevano: “Via, stendere…”, ci facevano stendere i materassini e loro ci mettevano a letto.

In fila, così, testa e piedi, tutto il piano coperto di deportati, solo il sentiero in mezzo, che poi loro per divertimento, quando giravano ci giravano sopra.

Quando le notti sono rumorose, alla mattina, alle quattro ci svegliavano e ci mettevano in fila sull’attenti fuori, accanto alla baracca e a me è capitato una volta di essere fuori. Ti lasciavano lì, alle cinque, alle sei, alle sette, tre, quattro ore, finché volevano e stavamo lì sull’attenti.

Quando qualcuno non resisteva e cadeva mettevano là il mucchio di neve, se rinveniva tornava in fila, altrimenti lo portavano via.

A me è capitato una volta, in quel periodo che eravamo lì, avvenne il famoso tentativo di fuga, là dal blocco di eliminazione, in quella baracca che era definita di eliminazione perché là ai deportati che c’erano il mangiare lo portavano solo quando rimaneva, quando rimaneva del mangiare dalla quarantena, allora passavano dietro, perché questo era dietro alla quarantena, e gli davano da mangiare. Altrimenti andavano alla sera a caricare i cadaveri e via.

Nei primi giorni del febbraio del 1945, sarà il 4, il 5, o il 3 febbraio, avvenne questo tentativo di fuga.

Nel pieno della notte cominciammo a sentire sparare, sembrava il terremoto, le mitragliatici, i fucili.

Noi eravamo rinchiusi nelle baracche.

Durò un paio d’ore tutta quest’operazione. Verso mattina, appena giorno incominciarono a prendere degli uomini e con i carri, i carriacci che erano là, sempre trainati, andarono fuori dal campo a caricare i cadaveri.

Io vedevo, quando tornavano che erano insanguinati, dei pezzi di carne ecc., ma noi eravamo ancora lì in baracca.

Arrivarono lì, verso le nove, le dieci, a mattina fatta insomma, anzi forse anche un po’ più tardi, perché prima sgombrarono tutti i cadaveri che poi li portavano nelle botole, che li davano ai forni crematori e ci vennero a prendere a me e a un altro. Ci diedero una specie di barella fatta a cassa e con uno delle SS dietro ci porta fuori dal carro e andammo là fuori a raccogliere gli zoccoli, gli stracci, voi immaginate il pandemonio.

Se da questo tentativo di fuga, la storia dice che ci saranno circa seicento morti, i superstiti sono una decina, poco più o poco meno.

E’ vero, c’era un pandemonio.

Noi andammo fuori, caricammo questa cassa e poi tornammo dentro.

Ci fecero andare giù dalla scala dei forni crematori, passammo dentro, davanti ai crematori e poi ci portarono là in fondo che c’era un magazzino di carbone a vuotare la roba là dentro e poi tornammo fuori.

Fu l’unica occasione in cui vidi i forni crematori, poco lontano c’era anche la camera a gas, però questa è una storia che credo siano pochi che la possano raccontare perché chi ha lavorato nei forni, chi ha lavorato nelle camere a gas veniva eliminato. Quindi era difficile trovare qualcuno che potesse testimoniare di queste cose.

Forse sarà qualcuno di sopravvissuto probabilmente, un tedesco.

Insomma, una storia molto sconosciuta.

Quindi torniamo in baracca.

Io assistetti all’arrivo prima di questo tentativo di fuga, all’arrivo dei deportati che arrivavano da Auschwitz tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, L’1, 2 o 3 febbraio, non ricordo bene. Ricordo bene però che Teo Ducci mi disse che arrivò il primo di febbraio. Noi vedemmo arrivare questi deportati e li portarono là dietro, dove portarono noi.

Tieni conto, quando arrivammo noi, che ci misero lì, c’erano dei deportati che erano già dentro. Arrivavano là dietro, di nascosto, e dicevano: “Avete degli orologi, degli anelli, dateci tutto, perché ci tolgono tutto…” ma chi ci credeva? Noi pensavamo che questi facevano i furbi per poi dopo trafugarci e questo non potevano farlo con quelli di Auschwitz perché quelli avevano meno di quello che avremmo avuto noi.

Insomma lì arrivarono alla sera, e il pomeriggio verso sera erano tanti, tantissimi, non so quanti.

Però lì morirono tre, quattro, cinquecento deportati morirono assiderati nella notte, là fuori, aspettando di fare quest’operazione di tosatura, disinfezione, uno potrebbe dire: che tosavano se venivano dai campi? Però avevano scrupolo di ripulire e poi ci disinfettavano con quella creolina, una roba puzzolente, che bruciava.

Facevano quest’operazione, per dirvi che io non ho mai avuto i pidocchi, neanche a Gusen.

Avevo una scabbia spaventosa, forse era per quello che non si rigiravano.

Però non ho mai avuto gli insetti.

Verso il 5 o il 6 febbraio ci incolonnarono e ci portarono giù a Gusen.

Ai primi di febbraio, ci incolonnano a piedi, scenderemo da Mauthausen e per strada arriviamo a Gusen.

Ci fanno entrare tutti a Gusen 1, poi lì a Gusen fanno la selezione di quelli che rimangono a Gusen 1, noi usciamo di nuovo e andiamo a Gusen 2.

A Gusen 2 ci suddividono nelle varie baracche.

Quando io arrivo nella mia baracca, di cui non ricordo il numero, ma penso il 10, non ne sono certo, perché ero un cinazzo e me ne fregavo di quello che avveniva intorno e cercavo solo la strada per non essere picchiato e trovare il mangiare.

Infatti mi portarono dentro a questa baracca ed era vuota, si vede che erano già partiti per Saint George, per il lavoro. Andai dentro questa baracca, guardavo, e ad un certo momento sentii dire, guardavo, andai a vedere, là in fondo, al piano di sotto del castello, c’era un deportato, mi avvicinai e parlava in francese, e io ho detto: “Sono italiano”. E mi ha chiesto: “Italiano?” Lui era un professore francese di italiano. Mi ha detto: “Com’è che sei qui?” Allora io tergiversavo e dicevo: “Non so, sono stato preso, mi hanno portato…”

Così lui mi parlava un po’ da padre dicendo: “Questo è un posto in cui è difficile sopravvivere, quindi tu stai attento, cerca di capire subito le cose che ti dicono, perché altrimenti sarai bastonato continuamente, quindi cerca di intendere tutto quello che ti dicono”.

La sera che arrivarono a casa, mi diedero il pasto e dove dormire, dormivo con un forestiero, non era uno dei nostri.

Passò la notte e alla mattina già ero in squadra per andare a lavorare. Quando sono tornato, alla sera dal lavoro, non c’era più. Non so se l’hanno portato all’ospedale o se l’hanno portato invece al Revier perché a Gusen 2 c’era la parte davanti con tutta una fila di baracche, undici, dodici, credo che l’infermeria era il dodici o il tredici. Dietro all’infermeria, fuori dal recinto c’era il blocco di eliminazione, con una grande piazza e c’erano i binari del trenino che ci portavano a Saint George dove c’era la galleria con la fabbrica della…., ogni mattina, ogni sera, a secondo del turno che si faceva, arrivavamo nella piazza, e ci mettevano davanti ai vagoni tutti preparati, aprivano il vagone e a bastonate ti facevano salire sul vagone. Non ci stavano mai tutti.

Allora, chiudevano, facevano andare su tutti, poi quando avevano finito l’operazione ce ne erano ancora sette, otto, dieci, riaprivano il vagone, risalivano la scaletta, incominciavano a bastonare dentro, si faceva il vuoto, due legnate a quelli che erano giù per andare su.

Erano legnate tutte le volte lì.

Una mia esperienza all’interno di questi carichi, per Saint George fu questa, qui c’era l’entrata del vagone, nell’angolo a destra, io ero proprio là nell’angolo.

In uno di questi momenti che ricaricavano quelli sotto…, gli altri si allargano e venivo schiacciato, quasi stavo per soffocare perché mi spingevano in questo angolo. Finalmente si allentò un po’ la cosa e mi ripresi, per dire come poteva essere l’operazione di carico.

Il percorso di questo trenino, con un soldato della SS di qua, e di là, e seguivano a passo d’uomo il trenino. Di notte, avevano i cani, avevano dei fari a pila per vedere. Poi, avevano la macchina che non trainava, ma spingeva, andava indietro con la raspa che raspava sui binari per evitare eventuali fughe ecc.

Quella era l’operazione di carico quando si arrivava dentro al piazzale della fabbrica e si scendeva incolonnati, ci portavamo davanti al primo stallen, la prima galleria, e lì c’erano quelli che contavano alla sera, alla mattina.

La conta è sinonimo di una delle pene a carattere psicologico perché ti tenevano alla conta anche delle ore, delle volte e ti tenevano lì e ricontavano, così facevano perché tanti entravano nell’officina e tanti dovevano uscire. A volte si rimaneva lì delle mezze ore, ancora più, che ne mancavano uno, due o tre, che li andavano a cercare e li trovavano già morti, dietro delle lamiere, degli angoli bui. Li trovavano là, erano andati per riposare e poi morivano. Quando c’erano tutti, allora si ritornava.

Io, in fabbrica, ero a banco e facevamo gli sbavatori.

Le lamiere che venivano tranciate, facevano la bava e noi, nella morsa, mettevamo queste lamiere e poi con la lima limavamo queste.

Eravamo in quattro, c’ero io qui a destra, c’era un triestino che non ho mai più rivisto, non ricordo, non so se è vivo o morto ma non l’ho mai più trovato.

Di fronte a noi c’erano due rossi che erano due rossi che erano in carcere con noi nel carcere di San Giovanni in Monte, che erano nelle formazioni della Stella Rossa, erano di Sesia Bologna perché dovevano venire alla liberazione di Bologna, poi sono stati arrestati, trovati e poi hanno fatto il percorso della deportazione. Erano lì, lavoravano con noi.

Si lavorava, sbavava ecc.

Una delle pene era andare al gabinetto perché quando andavi al gabinetto c’era sempre la fila, c’era la fila perché c’era un mucchio di deportati che aveva la diarrea.

Ricordo che una volta avevo davanti a me uno di quei bimbetti che erano poi gli amanti dei Kapò e girando gli presi nel tacco della scarpa e gli si sfilò la scarpa, si girò indietro e mi diede due sganassoni. Allora, io mi tirai indietro, perché se tu toccavi uno di quelli lì eri spacciato. Anche se arrivavano che litigavano, lì loro menavano tutti, lì per andare al gabinetto…, per dire com’erano le varie peripezie.

Un altro episodio all’interno dello stallen, del reparto di lavoro fu quando veniva l’allarme e toglievano la corrente dall’interno. Noi potevamo riposarci, stare lì, ma non potevamo muoverci dal banco e un giorno venne l’allarme, tolsero le luci, ci misero lì a riposare.

Era un bisogno estremo per noi sederci in terra. Dopo un’ora, un’ora e mezza venne la luce, cominciammo a lavorare, da lì arrivava il responsabile della SS del reparto perché in ogni reparto c’era una SS più il Kapò. Di civili c’era uno solo che era il capo reparto tecnico, bell’omone, moro.

Arrivò la SS da lì sotto, da me veniva fuori un rivolo di acqua e allora lui disse: “Chi ha fatto pipì?” Io no, lui no, nessuno, manda a prendere il Gummi, comincia a bastonare il primo rosso di qui, dopo otto, dieci botte, si alzò su e gli picchiarono nella testa, cadde in terra, lo massacrarono di calci la SS e il Kapò, poi portarono via quello lì massacrato e sotto l’altro che fece la stessa fine.

Delle volte, i ragazzi mi chiedono: “Quali sono stati i momenti in cui lei ha avuto paura?”

Io paura l’ho avuta sempre dal momento che mi hanno arrestato, sempre.

Lascio immaginare a voi, in questo momento che tu eri in attesa di quest’operazione. Anche questo rosso che non vedremo mai più.

Dopo andò sotto il triestino, gli cacciarono dieci colpi di Gummi e lo mandarono al posto a lavorare. Poi andai sotto io, sei colpi di Gummi, un calcio nel culo e a posto e cominciammo a lavorare e vi dirò che con soli sei colpi di Gummi, per quindici giorni non potevo sedermi, perché picchiavano forte.

C’erano i Kapò che picchiavano forte perché erano malvagi, perché lo sanno tutti, ma anche il più bonario doveva picchiare, altrimenti la SS diceva: “Te le do a te”.

E questo fu uno degli episodi più drammatici all’interno della galleria di Saint George.

D: Dado, scusa un attimo, queste gallerie dove erano allestite le officine, erano molto grandi?

R: Vi dirò, le gallerie di questa officina io non le conosco perché arrivavamo dentro dopo che ci avevano contati, arrivavamo dentro e ognuno si smistava per i suoi reparti. Gli stallen erano i vari reparti. Passando per andare là in fondo dove lavoravo, vedevo che qui a destra e a sinistra c’erano altre gallerie. Io non ho mai visto. Ho visto, due anni fa, a Gusen che c’è un plastico adesso. Sono rimasto strabiliato, non meravigliato, perché è una fabbrica di una grandezza immane, con tutti questi reparti, queste gallerie, era bucata quella montagna e d’altra parte il nostro treno era un treno bello lungo, che ci portava dentro, ci scaricava nel cortile. Voglio dire che c’erano molti deportati, quindi doveva essere grande, però il problema della deportazione si può anche dire poco perché quando tu vivevi nel campo non è che tu potevi andare a girare, curiosare, che c’era il pericolo dei Kapò e delle SS.

Quando eri in fabbrica ancora peggio, non potevi andare a girare perché lì c’erano i Kapò che sorvegliavano…

D: Dado, voi lavorate dentro nelle gallerie, nelle officine installate nelle gallerie per quante ore?

R: Dodici ore facevamo dalle sei del mattino alle sei di sera.

D: C’era umidità? Il clima com’era? Si respirava? Era caldo?

R: Dove ero io si stava abbastanza bene, perché era proprio di fronte all’entrata, era molto lungo ma comunque era arieggiato abbastanza bene, umidità non ce n’era. La vita era quella.

Una vola assistetti, non era del nostro reparto, ma di un altro reparto, un operaio veniva punito non so cosa aveva fatto e lo misero su un banchetto alto così e poi lo misero in piedi e gli diedero un altro banchetto e gli facevano fare le flessione.

Voi lo vedrete non nelle foto del museo di Mauthausen, ma nei disegni, quei disegni li hanno fatti dei deportati, altrimenti non si possono fare delle cose così espressive alla realtà e lo misero lì e una flessione, una, due, dopo tre o quattro flessioni cadde giù e lì venne massacrato come hanno fatto con quel rosso.

Dico queste cose non tanto per impressionare, ma per dare dimostrazione dell’ambiente com’era, il lavoro non era né difficile, né massacrante.

Però, il problema era questo: tu eri costretto a questo tipo di ambiente, quindi non era tanto la fatica, quanto invece la condizione di sopravvivenza Anzi, io dirò che penso che il motivo della mia sopravvivenza, come di altri, sia dato dal fatto che noi abbiamo lavorato in galleria ed eravamo coperti dalle intemperie, da tutte le fatiche, perché chi lavorava nelle cave, chi lavorava a fare le gallerie, quella era roba da schiavi.

E io penso che uno dei due o tre elementi fondamentali per cui siamo sopravvissuti è questo dell’avere lavorato in galleria, questo sia uno dei punti fondamentali. Perché dovere lavorare fuori, mezzo svestito, sotto l’acqua gelida, al ghiaccio è difficile sopravvivere.

E questo avviene fino a pochi giorni dalla Liberazione.

D: Dado chi era Carlo Manzi?

R: Carlo Manzi era un amico nostro, che era in carcere con noi. Era di Decima di Persiceto. Carlo Manzi…

E la sua fine è stata una fine brutta.

Anche se lui muore inconsapevole perché ormai era ridotto in coma, era sfinito, perché lì tu morivi di sfinimento.

Quando noi parliamo di musulmani, Manzi sarebbe stato un musulmano. Solo che ci sono dei musulmani che prima di arrivare al coma totale riescono anche a girare, però quando tu incontravi uno di questi, gli parlavi, come io parlo a te, ti guardavano con degli occhi così ma non capivano niente di quello che tu gli dicevi.

Manzi era ormai ridotto in quel modo e l’occasione in cui l’ho visto finire è stato quando, una sera, tornando dal lavoro, venne il Kapò come responsabile della SS, il Manzi non era venuto al lavoro perché ormai era…, l’avevano tirato giù perché dormiva al primo piano basso, hanno preso via un assetto da sotto, gliel’hanno messo sul collo e poi il Kapò gli ha messo il piede sopra intanto che loro due parlavano, intanto che lui era spirato.

Poi lo portarono via e non lo vedemmo più.

Carlo Manzi…, ho avuto un problema, quando sono tornato a casa, le sue sorelle sono venute a trovarmi in ospedale, però si sono raccomandate che non andassi a casa sua perché la mamma soffriva di cuore. Io ho detto che era morto, ma non ho detto così perché non aveva importanza dire queste cose. Può avere importanza a livello testimoniale per dare esempio, ma sul piano sentimentale non serve a niente.

D: Dado, tu con altri, avete mai pensato alla fuga?

R: Sì, questa è una cosa…

Direi che è quasi ridicolo pensare nell’ambiente in cui vivevamo…

Avanti un pezzo, in fabbrica, Stanghellini che era un anziano che là c’è morto suo figlio, lui ha assistito alla morte di suo figlio, Stanghellini Adelio che verrà a casa, anzi sarà quello che mi porta a casa, era stato nel blocco di eliminazione, al Riviere perché suo figlio era andato all’infermeria, all’ospedale e dopo un pezzo non arrivava più in baracca e allora si sapeva che dopo due o tre giorni che erano all’infermeria, o tornavano al lavoro o venivano inviati al Riviere. Allora Stanghellini che parlava un bel po’ il tedesco perché nel 1939, lui era immigrato a lavorare in Germania, 1938 – 1939, poi venne a casa, quindi lui parlava un po’ il tedesco.

Una volta si avvicinò al capo tecnico, il civile e gli disse: “Guarda che noi siamo italiani, ecc. siamo qui…, non siamo dei delinquenti”, lui stava lì e disse: “Guarda, noi abbiamo due persone che hanno un mucchio di oro”. Glielo raccontavano, abbiamo due amici milanesi che sono pieni di oro, insomma siamo una squadretta di sette, otto.

“Se tu ci porti fuori a lavorare alle macerie, dietro alla ferrovie… “Allora lui disse: “Ma…”, non si scandalizzò.

Il fatto che non si impaurì.., però lasciò una porta aperta nel senso che non si arrabbiò ed affrontò il discorso.

Una settimana dopo ritornò alla carica dicendo: “Allora, cosa dici?”

“Noi abbiamo quest’oro e te lo diamo tutto”.

Gli disse intanto che non poteva perché non aveva queste funzioni di portare fuori la gente, ma disse: “Anzi, se potessimo fare una cosa del genere, io vorrei venire con voi”. E così il discorso rimase lì.

E passò il tempo, la cosa non andava.

Finalmente lui disse, una volta: “Tu decidi, altrimenti noi tentiamo una fuga disperata”.

Avevamo preparato già un paio di cesoie che avevamo fasciato con degli stracci perché c’era un gabinetto che era fuori dal campo, si andava sopra alla collinetta, c’era anche la collinetta, tanto morire dovevi, eravamo già all’estremo. Non saremmo fuggiti, perché non ce la facevamo neanche a correre, però la disperazione ti fa fare di tutto.

Allora lui ci disse: “Non fate delle sciocchezze, delle stupidaggini perché fra cinque, sei giorni ci sarà la Liberazione”. E la Liberazione avvenne davvero.

E’ stato onesto.

Stanghellini che poi mi porterà a casa ha assistito all’uccisione di suo figlio in questo modo, quando era anche lui al Riviere una sera, vanno dentro due Kapò, chiamano Atos, suo figlio e lo portano fuori.

Com’era fuori dalla porticina, gli cacciarono una legnata nel collo e li ammazzavano così e li portavano nel piazzale là fuori, che quando noi prendevamo il treno, ogni mattina, vedevamo delle centinaia là fuori.

Atos venne portato fuori verso la mattina, però di nascosto ritornò in baracca. Aveva il collo che era più grosso della testa. Era impossibile che potesse sopravvivere. Però arrivò e tornò a letto alla sera. Ripercorsero la stessa cosa, andarono a riprenderlo e così lo uccideranno.

Il padre uscirà dal Riviere perché in quei giorni doveva venire la visita della Croce Rossa Internazionale, che noi non sappiamo, io non ho mai visto niente, noi eravamo gli ultimi e allora per effetto di questa eventuale visita, vuotarono il blocco di eliminazione in Riviere, lo vuotarono e lui tornò in baracca.

Arrivai una sera io da casa da lavorare perché lui dormiva con me, e c’era un altro nel mio piano, andai lì, gli diedi una… , come vedeva che lo scuotevo, mi guardava, quasi cadavere dicendo: “Corazzino…”, era disfatto…, non l’avevo conosciuto. Era a letto che tremava, aveva un paio di mutandine corte e una camiciola e basta.

Io mi ero organizzato un paio di mutande felpate e gli diedi queste mutande, poi andai a letto …, insomma nel giro di due o tre giorni si riprese. Lui si riprendeva e invece io calavo sempre…

D: Scusa, un attimo, Dado, queste punizioni che tu accennavi, tipo Atos e tipo gli altri che andavano a prenderli, che venivano puniti. Le ragioni quali erano?

R: Nel Riviere non erano punizioni, erano uccisioni. Venivano eliminati, invece di dare un colpo alla nuca, gli davano una legnata, così non facevano sangue, così non si sentivano i rumori. Così risolvevano le loro cose.

Questa è la conoscenza che ho del Riviere, perché quando Stanghellini tornerà, lui mi racconterà questa cosa e un bel po’ della mia sopravvivenza è anche dato da questo perché lui mi prenderà come sostituto di Atos, guai se qualcuno mi avesse fatto un dispetto, altrimenti imbestialiva.

E mi ha praticamente portato a casa, perché io non riuscivo a girare tanto e dove mi trovavo, dopo due minuti già dormivo e dovevano prendermi e andare.

D: La Liberazione. Tu dov’eri al momento della Liberazione?

R: Dalla Liberazione a venire avanti c’è un po’ di storia tragicomica.

Io ero a Gusen 2, alla baracca dove mi misero all’arrivo ed erano già due giorni che non andavamo a lavorare e si sentiva dire da Radio Scarpa che era morto il Furher. Ma il fatto che non lavoravamo, non ci davano neanche da mangiare.

Così, ad un certo momento, dopo due giorni ci accorgemmo, una mattina, che fuori dai reticolati c’era lo steccato dei reticolati, al di fuori due o tre metri, c’era lo steccato di legno fitto, che non si vedeva. Noi sentimmo i contadini che passavano con il carico, ma non li vedevamo perché era molto alto e il campo rimaneva in basso. E’ ancora così adesso.

Vedemmo che da là sopra c’è una torretta con un autoblindo con una stella bianca, noi dicevamo: è la stella russa, invece quella era rossa, quella era bianca e incominciò a sparare verso la campagna, fuori dal campo. Allora lì si aprì il cancello, proprio nella vicinanza, a metà c’era un cancello nel reticolato, venne aperto perché corrente non c’era più e abbattuto l’altro steccato di legno, io andai fuori e c’erano tutti i soldati della SS in fila per tre o quattro e c’era un carro davanti con il cavallo e tutti gli zaini sopra e la camionetta sparava fuori dove c’erano i camminamenti antiaerei che ci hanno portato una volta o due, perché questi non fuggissero.

Come sono arrivati fuori i deportati, hanno cominciato a togliere gli assi dello steccato. Li hanno massacrati tutti, io ho assistito a quella scena, ho assistito a quella scena un attimo e poi sono venuto via, perché andavo a cercare da mangiare.

D: Questo ti ricordi quando è avvenuta la Liberazione?

R: Il 5 di maggio.

Intanto che venni giù da questa scena, lì a fianco c’erano due deportati che litigavano per una scatoletta aperta, che uno tirava di qui e uno di lì e si tagliavano le dita, ma nessuno la lasciava andare.

Andai in cucina e dentro la cucina c’erano i deportati, uno, due, con i piedi dentro alle marmitte si tiravano su quella brodaglia che era rimasta sotto, in fondo e andai avanti nella sussistenza nel magazzino. C’era uno scompiglio di gente che faceva paura, si tiravano addosso le scansie. C’erano delle scansie, con dei pani di verdura secca, dei cubi rettangolari grandi così di verze secche, pressate.

Andare là dentro era un pericolo.

Mi avvicino lì, stavano vuotando un sacco di zucchero in dieci o dodici.

Sopra a questo sacco, uno o due ci hanno lasciato le penne senz’altro.

Io ho fatto un tentativo o due, e ho preso un pugno… però sono tornato indietro e me lo sono mangiato. Poi mi sono messo fuori da questo posto e aspettavo che venissero quei cubi, mi mettevo lì, e come ne arrivava uno, gli davo una manata e gliene portavo via un pezzo e me la mangiavo, che era poi quella che loro cuocevano nelle brodaglie.

Infine uscimmo, ci trovammo in sei o sette perché ci fecero uscire per andare a Gusen 1.

Noi arrivammo a Gusen 1, e c’ero io, Gasiani, Franchini, questi di Anzola, ci trovammo in sei o sette e cosa abbiamo fatto? Invece di andare dentro al campo, girammo intorno alla camionetta e poi fuggimmo, andammo via di nascosto. Noi da Gusen a Linz l’abbiamo fatto a piedi. Partito da lì, a me scoppia una diarrea che ogni duecento metri dovevo fermarmi.

Comunque andammo. Cercavamo da mangiare, dovunque ma non si trovava un granché perché la gente si nascondeva. Allora visto che arrivavamo vicino alla sera, ci siamo messi a raccogliere vicino al Danubio, abbiamo trovato un bidone di lumache, poi andammo avanti e a un certo punto cominciammo a sentire dei colpi di fucile, e ci nascondemmo dietro a un argine, ci alzammo, guardammo e di là c’era una casa di contadini. Vedemmo che dei soldati italiani venivano fuori dalla stalla, uno aveva una gallina sotto il braccio, il secchio con il latte.

Allora anche noi dentro a questa casa, eravamo in cento lì dentro, c’era la gente dentro il pollaio, il maiale che urlava, Stanghellini andò dentro il pollaio e riuscì a beccare una gallina.

Io arrivai al piano sopra e come arrivai sopra, c’erano due donne che piangevano, erano disperate. Ho dato una guardata così e poi ho cominciato ad aprire i cassetti dei comò e degli armadi. C’erano dei cassetti dove c’erano anche dei soldi, dei marchi.

Non ce ne fregava dei soldi. Finalmente arrivai in uno sgabuzzino grande così, alto così con dei cassetti, aprii un cassetto e c’era della roba color nocciola, color cammello e pensai: questa è farina. Allora ho cavato il cassetto… però avevo già trovato prima, in un altro cassetto, dei vasetti con della carne, sotto grasso.

E allora me ne ero messo dentro alla giubba e presi questa cassetta di farina e mi avviai giù. Intanto, mentre andavo giù mi assalirono.

Della farina mi è rimasto solo quello che c’era negli angoli, un po’ era rimasta. I bussolotti me li tolsero tutti, me ne era rimasto uno solo. E così andammo.

Appena fatta questa razzia ci avviammo. Dopo un pezzo attraversammo il Danubio sopra un vecchio ponte ferroviario, attivo, c’erano i bombardamenti in corso, ma quello funzionava.

Siamo passati di là, subito di là, voi avete presente dove ci sono le grandi fabbriche siderurgiche lì dentro, andammo dentro una baracchetta lì, da una parte c’erano i fabbri e dall’altra c’erano i falegnami.

Di là c’erano già due o tre russi, in quella dei falegnami, di qua in quella dei fabbri andammo noi.

Poi cominciammo a parlare, loro erano là che provavano a cuocersi qualcosa.

Allora loro ci hanno dato un po’ di pastina, di robina e noi abbiamo dato loro un po’ di farina. Con la gallina abbiamo fatto il brodo e con il grasso del vaso abbiamo fritto le lumache, quando le bollivamo facevano…, hai mai visto cuocere le lumache? Sono buone, allora erano buonissime. Io le mangio ancora adesso.

Comunque, quelle prese e mangiate avevano un saporaccio.

Abbiamo mangiato un bel po’. Quando erano le dieci, le undici della notte abbiamo cominciato a stare male, sembrava di crepare e io capisco quelli che sono morti il giorno della Liberazione, erano centinaia.

Sembrava che lo stomaco si aprisse come una camicia, con dei dolori spaventosi.

Finalmente siamo riusciti a rimettere e ce la siamo cavata e abbiamo passato la notte. Il giorno dopo siamo andati in città e abbiamo trovato rifugio in una casa abbandonata, lì andavamo a frugare dappertutto, rubacchiavamo dove arrivavamo e trovammo una cantina, in una casa bombardata, andammo giù dalle scale, e c’erano delle reti, dei materassi, si vede che ci vivevano i cittadini prima del bombardamenti e ci siamo collocati là.

Poi andavamo fuori tre o quattro alla volta, a fare delle operazioni nelle cantine e rubacchiavamo dove trovavamo.

Una cosa bella, mi ricordo un giorno che giravamo sul marciapiede a Linz, incontrammo due vecchiettini di settanta, ottanta anni, ci parlavano in tedesco e non capivamo cosa dicessero perché non c’era Stanghellini con me, insomma abbiamo capito che ci dicevano: “Eravate prigionieri”. Insomma ci chiamarono dentro una porta, ci portarono in casa e ci misero a tavola. Ci hanno dato un pezzo di pane e un tegame con una specie di ragù dentro. Abbiamo mangiato, li abbiamo ringraziati e siamo venuti via.

Voglio dire che ce ne sono stati di atti di solidarietà e così iniziò la nostra peripezia del ritorno.

Staremo due o tre giorni a Linz, abbandonammo Gasiani perché una mattina eravamo lì, in giro alla ricerca sempre di mangiare, appoggiati contro una muraglia. Ad un certo momento Gasiani cominciò a cambiare colore: verde, giallo, stava male, poi cominciò ad avere una diarrea spaventosa, finalmente passò un soldato americano e abbiamo detto: “Lui male…” Lo prese e disse: “Vieni con me, anche voi venite con me”.

Allora ci avviammo dentro, avanti un pezzo, lui andò avanti e noi scappammo, eravamo lì in giro. Anzi, non scappiamo lì, lui venne con noi. Lo portammo nella cantina, volevamo offrirgli da bere perché avevamo rubacchiato in una cantina delle bottiglie di quel vino fatto di mele. Volevamo offrirgli da bere, quando ha visto… mi era parso che avesse un po’ paura.

Disse: “Andiamo all’ospedale, venite anche voi”.

E noi abbiamo detto: “Arriviamo”. Noi abbiamo preso la nostra roba e siamo andati.

Uscimmo da Linz e dopo un pezzo sulla strada per venire a casa, ci arrivò dietro un cavallo a galoppo e dopo un pezzo si fermò giù in un campo di fieno e allora ho detto: “Tenete che prendiamo il cavallo”.

Ho dato i fagotti che avevo io agli altri e mi sono avviato.

Io avevo abbastanza confidenza con i cavalli perché mio papà era stato anche birocciaio, avevamo tre cavalli noi. Mi avvicinai a lui…

D: Ti avvicini al cavallo…

R: Mi avvicinai al cavallo, lo presi per l’orecchio e poi con la corda che avevo di traverso gliela misi al collo e pian piano lo portai sulla strada.

Come arrivai sulla strada…, e di là urlavano, c’era il contadino che arrivava che veniva a cercare il cavallo, così io gli ho dato due colpi nelle costole e lui ha mollato.

Allora, finché ho potuto tenerci dietro, ci tenevo dietro, dopo rimanevo attaccato, mi dava delle ginocchiate intanto che andava.

Andavo finché potevo andare, avrò fatto più o meno mezzo chilometro, poi sono andato fuori strada, c’era una casona e andai a nascondermi là con il cavallo.

Dopo un pezzo sono arrivati questi miei amici e ho detto: “Allora com’è andata?… quando ha visto che scappavi, lui è tornato indietro”.

Allora lì ci siamo fermati un po’ a riposare e ci siamo avviati. Intanto mettemmo tutti i nostri fagotti sulla schiena del cavallo e poi gira, gira, dovremmo trovare pure una roccia per poter starci sopra, metterci qualcosa.

Dopo un paio di giorni che girammo così, andammo fuori strada e lì c’era una casa, ci girammo intorno, andammo di dietro e c’erano due fiacre, sai i fiacre cosa sono? Le carrozzelle della stazione di Roma, ce n’era uno grande, si vede che era da cerimonia, e uno normale.

Allora noi andammo lì, c’erano delle donne abbastanza giovani, trenta, trentacinquenni. Ci tiriamo fuori il biroccio e non trovavamo i finimenti, perché loro non avevano neanche i cavalli, altrimenti prendevamo uno dei loro e incominciamo con dei fili, degli stracci, dei sacchi a fare i finimenti, la briglia con degli stracci di sacco, il collare e le tirelle.

Insomma riusciamo a farla.

Tieni conto che quel fiacre aveva una stanga solo in mezzo, non è che come i birocci nostri.

Quando stiamo per partire, arrivò una jeep della Militar …, ci fece togliere tutto e così noi ci sdraiammo in terra, piangevamo lì come dei disperati. Finalmente uno di quelli lì che parlava un po’ d’italiano, un mezzo italiano, o i genitori erano italiani, convinse gli altri a raccogliere tutti i soldi che avevano per darli a queste donne.

Così li diedero a queste donne, ma non li vollero, loro non vollero dare…, allora si consultano e dissero: “Attaccate…” però noi non ci siamo visti.

Attaccammo questo cavallo, tutti sopra, ma quando stavamo per partire, incominciò ad alzarsi con le zampe davanti, non tirava, era un cavallo da sella, non era un cavallo da tiro. Allora fummo costretti a fare scendere giù uno e andare avanti, tenerlo per la briglia, andammo in strada e ci avviammo.

Per tutti i giorni facemmo così con uno davanti.

Una volta arrivammo in una salita, sopra, e ci toccò saltare giù perché non riusciva a tirarci sopra.

Comunque saltammo giù e arrivammo sopra su una discesa lunga.

Montammo tutti e Stanghellini guidava e io ero al freno, solo che era un freno che non frenava dolcemente, quando attaccava bloccava.

Allora ci avviammo, questo cavallo pian piano si avvia sempre un po’ più forte, arrivava un momento che lui non teneva più e allora disse: “Corazza, frena!” e io: “Se freno, si rompe la stanga”.

A un certo momento, il cavallo girò la strada, saltò il fosso e noi con le routine davanti rimanemmo impantanati dentro al fosso.

Uno di quelli che era a sedere là sopra, saltò contro il cavallo, Franceschini piangeva e sembrava si fosse rotto la spalla. Invece era solo la botta.

Ma guarda qui cosa facciamo? Cosa facciamo? Tiriamo su tutto, prendiamo il carro, andiamo dentro, tiriamo su il cavallo e andiamo dentro perché la stanga si era spaccata.

Andammo dentro da un contadino, prendemmo un palo, e cominciammo a legare questa stanga e ci avviammo.

Però il giorno dopo arrivammo in una salita, sopra c’era un valico, un passo, gli americani erano là e fermavano tutti i prigionieri perché volevano raccoglierli.

Poi per la strada tutti dicevano: “State attenti che ci sono le SS nascoste nei boschi che sparano sulla strada”. Allora, visto che non potevamo passare, andammo da un contadino a dire: “Ti diamo il cavallo e il biroccio, se tu ci dai del pane”.

“Ma non ho del pane”.

Insomma ci diede una tessera per dieci chili di pane, c’era la tessera come da noi e poi ci diede dei marchi, ma cosa ce ne facevamo?

Comunque prendemmo questa roba.

Cavalcammo fuori dalla strada, cavalcammo la montagna e andammo giù dall’altra parte, quando arrivammo di là c’era un campo di concentramento di militari italiani e andammo là dentro.

Allora dissero: com’è, come non è…. Quando si arrivò, c’era confusione… E dissi: “Noi abbiamo un papiro che si può viaggiare, solo che non abbiamo il mezzo che è rimasto di là”.

Saltarono fuori due di Ravenna dicendo: noi abbiamo i cavalli, il biroccio. Avevano il biroccio carico di sacchi di zucchero. E noi abbiamo il papiro.

Ci mettemmo d’accordo, loro vennero con noi, là rimasero due o tre dei nostri, credo Castellani e due di Imola. Li lasciammo lì al campo perché non ce la facevano più, ma il papiro era già scaduto perché aveva solo sei o sette giorni di validità e ci avviammo. Noi, con quel biroccio arrivammo al Brennero.

Al Brennero gli americani ci fermarono e ci tolsero tutto: cavalli, biroccio. Ci arrestarono. Non avevamo documenti, niente.

Ci hanno preso, ci hanno riportato al campo di raccolta di Innsbruck, e ci restammo cinque o sei giorni e lì ci siamo caricati di cimici, quelle erano grandi come le mosche.

Stemmo lì sei giorni ed infine un’auto colonna ci portò all’ospedale di Bolzano, di lì noi fuggimmo, venimmo via io e Stanghellini, ci portarono a Verona, con i due di Ravenna, con dei mezzi di fortuna a Ravenna.

Quando calammo dal camion a Verona ci portarono dentro una caserma, i due di Ravenna andarono dentro e io e Stanghellini fuggimmo e venimmo via. Trovammo un carbonaio, chiedemmo se ci portava verso Bologna, ma lui rispose: “Io vado a Isola della Scala”. Era già qualcosa.

Stanghellini andò dentro e io sopra, in mezzo al carbone a dormire e arrivammo a Isola della Scala.

Lì ci ospitarono le suore.

Ci dissero: “Volete da mangiare?” E ci ospitarono le suore.

Andammo là, e ci diedero da mangiare un bel po’ di pane, della minestra, ci hanno dato da mangiare.

Tornammo lì nel parco che c’è ad Isola della Scala, c’era un’autocolonna americana che stava venendo a Modena, andammo lì ad informarci, allora dicemmo: “Se ci prendono su questi qui, andiamo bene…” Cominciammo a pregare l’uno, l’altro, ma non ci volevano…

Finalmente Stanghellini trovò uno che lo caricò, e allora dissero: “Come facciamo?”

Allora Stanghellini e l’autista di Stanghellini l’hanno pregato dicendo: “Vai a dire a lui, che carichi lui quello di dietro…”, era un negro. E venne lì…, mi caricarono. Era uno di quei Chevrolet, e la cisterna era vuota. Montammo su, lui che andava, ogni tanto con la bottiglia del cognac, o non so che cosa, sentivo che puzzava e che beveva, con i piedi sul cruscotto, il camion faceva così, perché dietro quando è vuoto, se vai forte sbanda.

E pensavo: “Questo qui mi vuole ammazzare prima di arrivare a casa, che sono già qui”, pieno di paura anche lì.

Con tutte quelle strade con i canali di bonifiche di qua e di là faceva paura.

Arrivammo a Modena, come arrivati, appena mi scaricò saltai una siepe, andai di là e ne feci tanta, tutta quella che avevo.

Poi andammo via, e li ringraziammo.

Fuori di Modena, andammo dentro da un contadino, dicevamo qualcosa, ma nessuno diceva niente, allora andammo nella stalla, era aperta, ci mettemmo a dormire nel fienile, dove raccolgono il fieno, ci mettemmo a dormire, alla mattina, appena giorno, e sentimmo gridare, era il contadino che veniva a governare le bestie e ci trovò là, e gli spiegammo che eravamo prigionieri, che eravamo arrivati…

D: Come eravate vestiti voi?

R: Io ero vestito con della robaccia che avevo procurato nella fabbrica. E’ stata la prima cosa che ho fatto quando arrivammo all’officina, andammo su negli uffici a vedere, curiosare e trovai dei vestiti, mi cavai tutto quello che avevo io e mi misi della roba. Tu pensa, mio papà era un omone, era grande a mio padre e quando la metteva a casa, mi toccava tirargliela su delle volte.

Allora lui ci disse: “Noi non abbiamo da darvi da mangiare, fate una cosa: andate di là da quella strada, c’è quel contadino, vedrete che lui vi darà qualcosa”.

Andammo da quel contadino e gli dicemmo: “Guardate, siamo di ritorno dalla prigionia”. E così ci misero a tavola una bella caraffa di latte con del pane bianco, una zuppa… che abbiamo fatto una mangiata!

Abbiamo mangiato e siamo tornati lì. Lì abbiamo trovato un altro negro di quelli dalle scope sul camion, gli abbiamo detto che noi volevamo andare a Bologna, ci ha preso nel cassone e ci ha portati fino a Santa Viola, e lì ci ha scaricati, lì vicino al mulino, dopo a piedi, io e Stanghellini a braccetto, tutti stracciati, come degli zingari, avevamo il fagottino con i resti, gli avanzi di pane.

Quando ci avvicinammo a casa mia, vidi là davanti mia madre che venne fuori dal cortile dove abitava mia sorella e dissi: “C’è mia mamma con il mio fratellino”. E mi dissero: “Tu ti avvicini a casa e cominci a vedere tua mamma”. Ma come no?

Arrivammo come da lì a te, e dissi: “Mamma, non mi riconosci più?”

Allora cominciò ad urlare, venne tutta la gente.

Andammo in casa, mi spogliano di tutto ecc., cacciano la roba in un cantone, che attaccherò la scabbia a tutta la famiglia. Poi mangiammo e mi portarono al centro di raccolta dei reduci, andai all’infermeria di questo centro di raccolta e quando fui dentro che mi spogliai, la dottoressa mi cacciò fuori perché disse: “Tu mi vieni ad impestare tutto il gabinetto medico”.

Mi mise fuori, mi diede del cotone, dell’olio che bruciava, e disse: “Non posso tenerti.”

Allora mio padre cosa fece? Mi prese, saltammo in tram e andammo all’ospedale Sant’Orsola, ma anche là non mi volevano. Solo che da là non venivamo via.

Andò a parlare con le suore, intanto io dopo due minuti che ero là mi addormentavo, non disturbavo nessuno.

Finalmente lì mi tennero, ci misero in una camera in mezzo, in un letto provvisorio e così dopo aver fatto quarantadue giorni di ospedale, poi tornerò a casa.