De Bastiani Argentina

De Bastiani Argentina

Nato il 04.11.1927 a Cesio Maggiore (BL)

Intervista del: 12.03.2007 a Bovisio Masciago (MB) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 081 – durata: 53′ circa

Arresto: 1.11.1944

Carcerazione: a Feltre

Deportazione: Bolzano

Liberazione: fuga dal Lager di Bolzano

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

D: Nata?

R: Nata a Cesiomaggiore il 4.11.1927, provincia di Belluno.

D: Argentina, com’è stata la tua scelta di aderire alle formazioni?

R: La mia scelta è stata che l’8 settembre sono entrati i tedeschi in Feltre. Da lì i soldati che erano militari lì sono andati in montagna. Lì si sono formate le formazioni partigiane.

Mio padre che è sempre stato un antifascista ha aderito a queste cose anche perché quando c’era Pippo che buttava giù le armi, i vestiti, il latte condensato, lui aiutava le persone che erano non in montagna, in paese, a nascondere le armi.

Poi i partigiani si sono fermati in Pedavena, Monte Grappa, ma io ero su Pedavena, non sul Monte Grappa.

Un bel giorno sono passati a casa mia, dovevano andare alla Feltrina di Feltre a far saltare questo piccolo stabilimento.

Mio padre ha fatto da mangiare a questi partigiani, una quindicina di partigiani che sono passati di lì.

Io lì ho conosciuto il comandante della Brigata Gramsci che si chiamava Bruno. Il suo nome è Brunetti Davide.

Da lì ho incominciato a fare la staffetta. Andavo a Feltre a vedere il movimento dei tedeschi. Andavo in montagna a portare dei bigliettini che il Comitato di Liberazione giù…

D: Dicevi, andavi su in montagna…

R: Andavo su in montagna a portare i bigliettini e a portare anche qualche cosa da mangiare perché su non ne avevano tanta. Con me c’erano anche tante altre staffette che facevano il mio stesso lavoro.

Però il primo tempo sono stata in piano col Comitato di Liberazione, si andava a Feltre a portare gli avvisi che dovevano portarci i soldi.

Poi si andava sulla Feltre-Belluno a fermare i tedeschi e a portargli via le armi.

È sempre stato così fin quando non mi hanno arrestato.

D: Ascolta, questi spostamenti con cosa li facevi?

R: In bicicletta.

D: Quanti chilometri facevi?

R: Non so, sono andata anche a Treviso, andata e ritorno in un giorno. Robe da non essere normali. Tant’è vero che mi sono fatta anche male perché andando in bicicletta c’erano le rotaie, la bicicletta è scivolata, però io dovevo andare per forza a Treviso.

Lì c’è stato anche un bombardamento mentre sono andata. Non sapevo che via prendere. Ho messo a posto il manubrio e sono andata e tornata.

D: Il tuo nome di battaglia?

R: Zara.

D: E quando te l’hanno dato? Chi te l’ha dato?

R: Subito i partigiani quando mi sono presentata al comandante.

D: Ma l’hai scelto tu o te l’hanno dato?

R: No, me l’hanno scelto loro.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Allora avevo sedici anni.

D: Quando ti hanno arrestato?

R: Il primo novembre.

D: Del?

R: 1944, alle 2.00.

D: E dove ti hanno arrestato?

R: In casa di Sempronio che era un comandante di partigiani. Lì ero andata per prendere una carta d’identità di un comandante di un’altra brigata.

Io avevo la carta d’identità. Mentre eravamo lì, eravamo una quindicina, abbiamo sentito i tedeschi.

Allora sette sono riusciti a scappare. La Luigia, l’Amalia, la Piera, io più cinque o sei ci hanno portati via.

Tant’è vero che c’era un professore che si chiamava Pingo. Questo l’hanno legato ad un palo e lui gli ha detto di non picchiarlo che poteva essergli utile. Difatti ha fatto poi la spia.

Da lì mi hanno portato nella caserma degli alpini a Feltre.

D: C’erano sempre i tedeschi?

R: Sì, anche i fascisti, c’era dentro uno che è stato liberato dalle prigioni di Belluno, Baldenich, hanno liberato due russi e altri tre che dovevano essere fucilati.

Questo era dentro insieme a loro, era un delinquente, è andato con i partigiani e si chiamava Roccia.

Da lì poi lui s’è messo con i tedeschi e ha detto tutte le persone che conosceva. Tant’è vero che quando mi hanno chiamato per l’interrogatorio il 4 novembre c’era lui e mi ha detto: “Stai meglio adesso o quando ci hai fatto da mangiare?” subito me l’ha detto, però prima di arrivare all’interrogatorio quando mi hanno arrestato, la nipote di Sempronio che è una che è venuta poi a Bolzano con me si è messa a letto.

Io facevo finta di darle da bere. Nel frattempo ho inghiottito la carta d’identità, perché se mi prendevano con quella carta d’identità ero fucilata all’istante.

Però il comandante del gruppo di questi fascisti, tedeschi m’ha detto: “Tu piccola vai”. Invece questo Roccia ha detto: “No, lei non deve andare perché lei è una partigiana”. Capito? Allora…

D: Scusa, Zara, cosa volevano sapere da te?

R: Sapere i nomi dei partigiani, dove si trovavano, se erano armati, tutte queste cose.

D. Sotto interrogatorio.

R: Sotto interrogatorio, poi era il 4 novembre, il giorno del mio compleanno, mi hanno interrogato.

Però la sera prima è venuto in cella un tedesco, che poi era venuto anche a Bolzano con un cane così.

Si è rivolto a me e mi ha detto: “Tu sei una partigiana?” Ho detto: “No”. Tu sei una partigiana, io ho detto sempre no, lui mi ha dato quattro o cinque schiaffi e il giorno dopo mi ha portato lì.

In cella eravamo in sei con una branda sola.

D: Tutte donne?

R: No, avevano messo dentro un trentino militare per sentire cosa dicevamo noi e un altro comandante dei partigiani insieme a noi per vedere se gli parlavamo, però questo che si chiamava Cimati mi conosceva, ma non mi ha mai guardato. E io non ho guardato lui. Capito?

D: Lì fino a quando sei rimasta? Lì alle carceri.

R: A Feltre otto giorni. Il giorno 8 alle 2.00 di notte ci hanno portato via su un camion, ma non ero solo io, eravamo una ventina.

D: Oltre a te c’erano altre donne?

R: Uomini e donne. Ci hanno portato al Corpo d’Armata di Bolzano. Lì ci hanno tenuto tre giorni, poi ci hanno portato in campo.

D: Scusa, Zara, la strada che avete fatto di notte… Avete fatto la Valsugana?

R. Sì, la Valsugana.

D: E non vi siete fermati?

R: Mai.

D: Mai?

R: Mai.

D: Siete arrivati al corpo, lì ti hanno ancora interrogato?

R: No, lì no. Lì non mi hanno interrogato. Da lì poi non mi hanno più interrogato, altri sì, però io no.

D: Quindi ti hanno portato nel campo di Bolzano?

R: Di Bolzano.

D: Come ti ricordi l’ingresso nel Lager di Bolzano?

R: Mi ricordo che erano lì con i mitra appena dentro il cancello. Mi hanno portato dentro in una stanzetta. Lì mi hanno tolto i vestiti borghesi, mi hanno dato la tuta da militare con la croce dietro e il triangolino e mi hanno messo nel luogo dove c’era la Cicci.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Il mio bianco e rosso.

D: E ti hanno dato anche il numero?

R: 5944.

D: Ti hanno tagliato i capelli?

R: No.

D: Non te li hanno tagliati?

R: No, non me li hanno tagliati.

D: La tua biancheria, hai potuto tenere qualcosa?

R: No, no, hanno portato via tutto loro. Noi avevamo su una camicia da militare, la divisa militare era, una mantella militare, gli zoccoli, però freddo da morire, perché senza maglie né niente, non c’era il riscaldamento dentro.

D: Nel blocco hai trovato altre persone, altre donne?

R: Nel blocco, non mi ricordo più quante eravamo, però ho incontrato Laura Ponti e Ada Bufalini che mi hanno fatto da mamma diciamo. Laura aveva dieci anni più di me, ne aveva ventisei, era del ’17 mi sembra Laura Corti.

Lì ho incominciato… Hanno chiamato i più giovani ad andare a lavorare. In un primo tempo sono andata in un ospedale militare a pulire patate e ad assistere i feriti tedeschi che c’erano dentro.

D: Sempre a Bolzano?

R: Sempre a Bolzano. Sarà stato un chilometro a piedi, andata e ritorno. Stavamo lì a pulire le patate. Andavamo a turno perché almeno si mangiavano le bucce.

D: Senza farvi vedere.

R: No, vedere, erano lì, dovevi buttarle via perché le buttavano ai maiali loro le bucce, ma noi eravamo peggio dei maiali.

Lì sono andata poco perché poi sono andata in un altro magazzino a mettere bottoni sulle divise militari.

Da lì sono andata poi vicino al campo dove c’era un magazzino che si spostava con attrezzi, tenaglie, martelli, cose varie, viti.

Lì sono rimasta poco. Lì abbiamo portato dentro del materiale per quel blocco che era vicino a noi, perché quando andavano via, perché non venivano più perquisiti quando partivano e noi avevamo avuto la fortuna di prendere questi attrezzi, tenaglie, martelli in modo che il primo vagone che è partito sono riusciti a scappare prima di arrivare al Brennero grazie a noi insomma.

Poi dopo non potevano più andare in Germania perché avevano bombardato la linea. Da lì poi sono andata in un altro posto dove sono andata con quello che sono scappata, col Sicilia, gli ho detto di scappare con me perché era uno delle SS.

Non mi ricordo più cosa facevamo in quel posto.

D: Sempre fuori del campo?

R: Sempre a piedi fuori del campo.

D: Ascolta, te li ricordi gli appelli nel campo?

R: No.

D: Al mattino non facevano l’appello?

R: Sempre, perché quando andavamo al Virgolo non so se cinque/sei volte facevano l’appello, perché lì in galleria potevi nasconderti benissimo, capisci?

Noi lì in galleria si lavorava dodici ore su dodici, da mezzogiorno a mezzanotte, da mezzanotte a mezzogiorno con un etto di pane e un po’ di sbobba con vermi dentro, quella roba lì.

D: Ascolta, quindi quando ti hanno chiamato per andare al Virgolo, dal campo vi portavano al Virgolo come?

R: In un primo tempo sì, andavamo a piedi. Poi dopo alcune notti si sono presentati dei partigiani che volevano liberarci. Allora hanno visto che la cosa non andava bene, ci hanno messo in una caserma vicino al Virgolo, eravamo a due passi come da qui al centro Bovisio.

D: C’erano anche gli uomini, altri deportati lì al Virgolo o solo voi donne?

R: No, quello di Limbiate era lì, c’erano di tutte le razze, eravamo in tanti a lavorare in questo stabilimento.

D: Cosa facevate?

R: Cuscinetti a sfera per una ditta di Imola, si chiamava la IMI

D: Lì al Virgolo cos’è successo? Tu sei stata tanto tempo lì al Virgolo?

R: Sì, sono stata finché sono scappata. Abbiamo fatto anche uno sciopero perché ci davano tre sigarette al giorno. Non avevi da mangiare… Una sigaretta si fumava in dieci. Lì ho cominciato a fumare.

Abbiamo fatto lo sciopero, è venuto il comandante del campo di concentramento, ci ha detto che poteva fucilarci tutti e noi gli abbiamo detto: “Siamo coscienti di quello che abbiamo fatto, però noi lavoriamo dodici ore”, sapevamo che questa ditta era l’unica che faceva cuscinetti a sfere, almeno dateci cinque sigarette al giorno, su dodici ore che lavoravi, era giusto che ci dessero questo.

Pane no, perché il pane non te lo dava nessuno, però il pane qualche cosa ce lo portavano dentro quelli di Ferrara della IMI. Sì, ci portavano dentro qualche cosa, qualche pezzettino di pane.

D: Dentro nella fabbrica, nella IMI, c’erano solo tedeschi a fare la guardia o anche i fascisti?

R: Quelli delle SS, tanto italiani che tedeschi, erano quelli delle SS che c’erano lì. Ma dentro, ce n’erano due all’entrata da una parte e due dall’altra. Passavano. Se vedevano che non lavoravi, venivano lì a farti il frustino sulle spalle. Io l’ho ricevuto tre volte.

D: Perché?

R: Perché non hai la forza di stare in piedi. Se le macchine non funzionano e dovevano funzionare, capisci? Come fai a stare in piedi?

D: Allora ti menavano?

R: sì, col frustino grosso così.

D: Ti hanno menato?

R: Tre volte. Però quella volta…Mi sono dimenticata di dire che sono andata fuori a bere dai miei genitori, c’era questo Sicilia, ritornando hanno chiesto chi era andata a bere l’aranciata al bar.

Io ho detto: “Sono stata io”, non potevo mettere a repentaglio le altre ragazze. Allora la Tigre ha incominciato a picchiarmi in faccia, anche due uomini tipo mio marito, sempre in faccia. Da lì sono andata dieci giorni in infermeria perché mi era uscito sangue dappertutto in faccia, poi avevo una faccia grossa così.

D: L’infermeria del campo?

R: Sì.

D: Quando arrivavano i tuoi genitori, cosa ti davano?

R: I miei genitori mi portavano su marmellata e latte condensato.

D: Poi?

R: La polenta una volta.

D: E lettere non te ne davano?

R: Sì. A Feltre oltre che per il rastrellamento eravamo in tanti arrestati. Nel rastrellamento sono stati 1.500. Poi tutti gli altri. C’era un camion di un industriale di Feltre che veniva su col camion, aveva un figlio anche lui lì.

Allora portavano su un po’ per tutti, si distribuiva fra di noi. Però sai quando tu sei lì non puoi dare niente a nessuno. Invece c’era gente che si nascondeva e faceva anche venire il nervoso.

Cosa ti costa dare un cucchiaio di latte condensato ad un’altra persona? Invece c’erano quelle che erano state arrestate con me che non davano niente a nessuno, tant’è vero che avevo rotto un po’ i rapporti.

D: Quindi ti davano le lettere da distribuire?

R: Distribuire, sì e quella volta che ho preso le botte, questo Sicilia con cui poi sono scappata, mi ha portato dentro lui le lettere nel blocco.

Poi volevano sapere chi era la guardia. Dovevo dirlo prima forse.

D: Non ha importanza.

R: Volevano sapere chi era la guardia che mi ha portato a bere l’aranciata. Ho detto: “Guardi, in tre sono venuti dentro, sono in tanti, non li riconosco. Può venire chiunque, ma non li riconosco. Ne ho approfittato ad andare a bere un’aranciata. Voi se foste stati al mio posto, non sareste andati? Però, dato che sono qui, non sono scappata, non ho fatto niente di male”.

Loro volevano sapere chi erano le guardie, ma non gliel’ho detto. No, tanto, oggi o domani ci avrebbero fatti fuori tutti. Si pensava che ci avrebbero uccisi in massa lì a Bolzano. C’era il forno crematorio anche lì, ultimamente hanno detto che c’era. Io non l’ho visto, però hanno detto che c’era.

D: Zara, quindi quella volta le lettere…

R: Le ha portate dentro lui in blocco.

D: Tu però le portavi anche fuori le lettere?

R: Sì, da Laura Ponti, le portavo al caporeparto della IMI, era Laura. In un foglietto così ci saranno state cento parole, però lei si fidava di noi, non ci perquisivano quando andavamo fuori, perché le lettere non sono mai state portate dentro da noi.

Quando noi eravamo in campo ci perquisivano.

D: Quando tornavate?

R: Sì, fuori no, ma dentro sì.

D: Nel tuo blocco avevate i letti a castello?

R: Sì, a quattro castelli.

D: In quanti dormivate per ogni ripiano?

R: Non so. So che c’erano quaranta prostitute.

D: Con voi?

R: Con noi, sì, venute da Genova, tutte malate. Infatti avevamo anche fatto un po’ di appello perché erano malate con noi. Noi eravamo politiche, non ne volevamo sapere di queste, perché loro non andavano a lavorare. Noi sì.

Ad esempio Laura Ponti lavorava in lavanderia. La Bufalini era in infermeria. Loro non potevano uscire perché erano pericolose.

D: Dentro nel blocco avevate i servizi igienici?

R: Sì, c’era il gabinetto e un rubinetto d’acqua per lavarsi la faccia, ma non per lavarsi sotto.

D: Le docce te le ricordi?

R: Erano fuori, andavamo dentro una trentina alla volta a fare la doccia. Lì è stata la prima volta che sono andata a fare la doccia. Vedermi lì nuda con tutte queste donne. Mi sono messa un affare addosso. Ho detto: “Qui ti fanno morire.”

Appena dopo due giorni che sono arrivata ho lavato le mie mutandine. Le ho messe sul reticolato, le ho tirate giù che erano nere di pidocchi, nere.

D: Ti ricordi se nel Lager di Bolzano c’era anche il blocco celle?

R: Sì, il blocco celle, poverine! Quella che ti ho detto che doveva scappare, si è confidata con la ragazza di uno delle SS e quando era il momento di scappare, sono arrivati quelli del campo e l’hanno portata via, l’hanno portata in cella e anche torturata.

D: Tu te lo ricordi quello?

R: Si sentivano le urla, perché le celle erano così, noi eravamo qui, quando ci facevano l’appello, c’erano i finestrini aperti, si sentivano le urla.

C’era una di Padova che ha buttato fuori i suoi ori tutti a pezzettini. Lì portavano dentro anche i bambini ebrei a picchiarli.

D: Il primo tentativo di fuga tuo?

R: Il primo tentativo di fuga è stato… De Luca si chiamava il comandante dei partigiani, lì aveva la moglie. Lei mi ha detto: “Vuoi scappare con me?” Ho detto: “Sì, sì”, perché io avevo sempre intenzione di scappare.

Allora mi dice: “Guarda che alle 2.00 di questa notte noi dobbiamo essere a un imbocco della galleria”.

Noi avevamo capito che era all’imbocco, all’entrata, invece era all’altro imbocco. Lì quelli della IMI ci hanno procurato mezzo litro di Vov, l’abbiamo bevuto tutto.

Alle 2.00 di notte hanno cominciato: “I banditi, i banditi. I partigiani, i partigiani”. Noi che eravamo messe con i vestiti borghesi, perché i miei genitori poi mi hanno portato su ancora dei vestiti borghesi, abbiamo appena fatto in tempo a toglierci i vestiti, a metterci la tuta.

“Banditi, banditi”. Però c’era un macchinario a quell’imbocco della galleria, c’era un prigioniero che faceva andare questo macchinario. Hanno interrogato lui. Questo marito di questa gli ha chiesto il mio nome. Emma si chiamava lei. Sono venuti subito a cercarci.

Notare che lui ha disarmato una guardia, per tre giorni, sicché qui era un sottopassaggio, noi si passava di qui, per tre giorni lui è rimasto lì sul marciapiede mentre noi passavamo.

C’era questa guardia che era un cecoslovacco, non l’ha mai fatto arrestare. Lui per tre giorni ha cercato di far sì che sua moglie potesse scappare.

Infatti, lei si è tinta i capelli, si è nascosta mentre stavano sorvegliando la galleria in un cassetto della scrivania. Ci saranno stati trecento militari fuori. Lei cosa ha fatto? È passata fuori assieme ai borghesi. Ha avuto una forza grande, grande, però sono venuti a cercare me.

Lì mi hanno picchiato un po’, mi hanno detto: “Tu devi sapere dov’è”. Io non so, non so, non mi hanno fatto niente, però ero sorvegliata giorno e notte, con chi parlavo e cosa dicevo. Per un po’ di tempo, poi mi hanno lasciata libera. Libera, nel senso che non mi sorvegliavano più.

D: Zara, quando vi hanno spostato dal Lager di Bolzano e vi hanno messo in questa caserma vicino al Virgolo, voi facevate quante ore al giorno di lavoro?

R: Dodici.

D: Al mattino e dodici di notte?

R: Sì, si partiva da mezzogiorno a mezzanotte, da mezzanotte a mezzogiorno.

D: E quando vi fermavate per mangiare?

R: Fuori, nella galleria.

D: E cosa vi davano da mangiare?

R: Ci davano un etto di pane. Al mattino ci davano un po’ di caffè sporco di orzo senza pane né niente. Il pasto maggiore era una tazza di sbobba con dentro il pane raffermo, gli avanzi del pane e dell’orzo e i vermi che galleggiavano.

D: Questo a mezzogiorno?

R: Che fosse stato mezzogiorno o mezzanotte, era il pasto maggiore questo.

D: E poi?

R: La sera un po’ di brodo e basta.

D: E basta?

R: Basta. Non si poteva stare in piedi.

D: Lì in questa caserma dove dormivate voi? Sempre sui letti a castello?

R: No, eravamo tutti nelle brande. Sì, lì si stava bene a dormire, solo che il giorno di Pasqua noi ci siamo affacciate alla finestra e loro continuavano a spararci su da basso perché non volevano che noi ci affacciassimo neanche alla finestra.

D: Il giorno di Pasqua di che anno? Del ’45?

R: Del ’45, sì. Io sono scappata, non mi ricordo più se il 22 o il 23 di aprile.

D: Eri dentro ancora al Virgolo?

R: Sì, sempre al Virgolo.

D: Come hai fatto a scappare quella volta? Poi non sei scappata da sola?

R: No, sono scappata con tre donne, una di Imola, la Gina, la Ester di Vercelli e sette uomini.

Al cambio di guardia ho detto al Sicilia: “Adesso dammi il mitra perché adesso è ora di andare. Guarda, se vuoi venire con me, gli ho detto io, tu sai che finita la guerra, perché la guerra finisce, tu verrai messo in prigione, se vuoi venire con me, ho detto, io ti salverò, dirò quello che hai fatto tu”.

“Io ho fiducia in te perché ho conosciuto anche i tuoi genitori, però preferisco stare a Bolzano perché ho la fidanzata qua”.

Da lì subito fuori c’erano i partigiani e ci hanno accompagnato, noi tre donne in una stanza quasi vicina al Virgolo e gli uomini li hanno portati alla Lancia.

Da lì loro sono partiti a destinazione. Invece sono venuti a prendermi dopo tre giorni. Ho lasciato lì la Gina e la Ester, non so più come sono andate a finire.

Io so che sono venuti a prendermi con una macchina nera, mi ricordo e mi hanno portato in un negozio di scarpe. Avevo già un documento falso che venivo da Innsbruck.

Sono stata lì un po’. Da lì arrivava un camion dell’alimentazione di Merano con dentro un altro prigioniero che aveva rotto le braccia, sotto il sedile dove ero seduta io c’era questo qui.

Niente, mentre stavo per salire sul camion sono passati due delle SS, gli aguzzini del campo. Non sapevo se andar su nel camion o consegnarmi.

Mi sono decisa ad andare su, mi hanno dato un pastrano nero. Loro mi avrebbero riconosciuto, sì, perché era quello che mi aveva fatto prendere le botte.

Da lì mi hanno portato a Feltre e sono andata proprio nel covo degli assassini. Uno, non mi ricordo più come si chiamava, questo era un fascista che ha fatto portar via tanti partigiani.

Tant’è vero che è stato processato, ha preso venticinque anni, dopo neanche un anno è stato liberato, è andato a finire in Argentina.

D: Tu sei andata a testimoniare?

R: Sono andata a testimoniare perché uno di santa Giustina, era un partigiano, mi ha detto: “Senti, Zara, se tu riesci a portare a casa la pelle, dì ai miei genitori che chi mi ha fatto arrestare è un tizio”. Adesso non mi ricordo più come si chiamava.

Difatti quando c’è stato il processo, c’era Meneghelli, direttore del manicomio di Feltre, che è stato portato a Mestre. Questo qui li ha portati a Mestre. Lui era un ex comandante. Quel comandante dei partigiani che era dentro in cella con me che poi è riuscito a scappare, li hanno portati a Mestre.

Arrivati a Mestre, dentro c’erano già i tedeschi e in prigione c’era lui che è andato a testimoniare, questo tizio dove io mi sono fermata a testimoniare, che lui era un partigiano, che è andato poi a morire a Mauthausen negli ultimi giorni.

D: Era con te nel campo di Bolzano?

R: Sì.

D: Poi hanno fatto il Transport a Mauthausen?

R: Sì, perché il blocco che c’era vicino a noi era il blocco dove c’erano i provvisori. Dopo due o tre giorni partivano. Fin quando la ferrovia funzionava, poi c’erano i camion che li portavano avanti e indietro.

D: Del Lager ancora cosa ti ricordi? C’era il muro di cinta con il filo spinato attorno?

R: Sì, tant’è vero che uno ha tentato di scappare, sua madre l’ha visto impigliato nei fili, nel filo spinato.

D: C’erano le garitte con le guardie?

R: Sì.

D: Queste te le ricordi?

R: Sì. Mi ricordo dove c’era il comando, dove c’erano le celle, dove ci portavano a lavarci la faccia, perché non tutte potevano lavarsi la faccia dentro lì, dove facevamo il bagno in trenta/quaranta persone.

D: Sempre dentro nel campo ti ricordi se quando tu eri nel campo c’erano anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Si, infatti io dal Corpo d’Armata ad andare al campo ero assieme a un prete. Ho detto alle mie compagne di sventura, “Qui adesso ci portano a uccidere”, abbiamo pensato, perché dal Corpo d’Armata ci hanno portato, era lunga dal Corpo d’Armata ad andare dove c’era il campo, fuori per queste strade di campagna.

Abbiamo detto: “Ci portano ad uccidere”. Quando ti prendono, sei sicura che fai una brutta fine. Uno non spera più di vivere. Quando uno cerca di scappare, allora sì, ci riesce, ma sai che se va male ti fanno fuori, questo era il detto.

D: E questo sacerdote era uno di che parti?

R: Non lo so.

D: Non te lo ricordi?

R: No, perché noi una volta che eravamo dentro, le donne da una parte e gli uomini dall’altra.

D: Ma questo sacerdote che era assieme a voi era anche lui deportato però?

R: Sì, un deportato anche lui. Ce n’erano diversi dentro.

D: Dei bambini l’hai già detto. Di donne eravate in tante?

R: Adesso non mi ricordo quante, ma un due/trecento sì. Quaranta/cinquanta erano delle prostitute. Il resto eravamo tutte di noi.

D: Questo nel tuo blocco.

R: Sì, non soltanto politiche, anche quelle di rastrellamento, eravamo tutte assieme come donne.

Ho lasciato fuori una cosa, che nel blocco vicino a noi avevano fatto una galleria a mano, mancava mezzo metro per scappare.

Il capo blocco che era un bolzanino ha avvisato e lì sono stati portati fuori. Noi siamo state la vigilia di Natale, la notte di Natale in piedi fuori del campo, perché portavano fuori questi prigionieri, ogni dieci frustati, buttavano addosso un secchio d’acqua e rinvenivano.

Avevano detto “Siamo stati noi”, invece tutti avevano fatto il lavoro e quel disgraziato di bolzanino ha fatto questa cosa.

Poi abbiamo saputo che dal campo guardando c’era un castello in alto, li portavano lì a fucilare. Quelli che hanno picchiato, li hanno fucilati, così abbiamo saputo.

Perché ci hanno lasciate fuori? Perché abbiamo tolto i mattoni per dare da mangiare a loro. Loro non ci hanno dato niente. Noi siamo state con metà mangiare per darlo a loro.

A noi per castigo ci hanno fatto star fuori del campo.

D: All’appello.

R: All’appello. Giorno e notte in piedi. Se cadevi, erano lì col frustino a dartele addosso.

D: Una bella notte di Natale!

R: Oh, sì.

D: L’albero di Natale non è stato fatto?

R: L’albero di Natale con quei poveri che erano lì appesi.

D: Zara, ti ricordi quando è venuto il vescovo di Belluno dentro nel campo a celebrare messa?

R: Sì, me lo ricordo, ho anche il santino.

D: Ma tu sei andata a sentire la messa?

R: Sì, sono andata a sentire la messa, soltanto che, ti ho detto, io sapevo tramite i partigiani che i partigiani di Belluno avrebbero dato un golfino per tutti noi bellunesi, però lui ha detto: “A chi non fa la comunione non do il golfino”.

Io ho detto: “Qui non si deve venire a fare queste cose. Tu non devi guardare chi ha un’idea diversa dalla tua. Dato che lui fa queste cose, io non faccio la comunione”.

D: E non hai preso il golfino.

R: No.

D: Faceva freddo però.

R: Faceva freddo con niente da mangiare, figurati te, altro che freddo. Avevamo una copertina grossa così e sotto avevamo il crine, questi castelli che poi hanno tutte … Quando ti alzavi la mattina eri più rotta che altro.

D: Zara, per una ragazza di sedici anni, diciassette anni, l’esperienza del campo di concentramento cosa vuol dire?

R: Vuol dire che impari tante cose, amare un po’ il prossimo che oggi non c’è più. Impari a soffrire, impari anche a soffrire per sopravvivere.

Non ti so spiegare cosa si prova con tutta sincerità. È una cosa che non so spiegarmelo, non so proprio spiegarmelo.

So che quando sono tornata e ho visto tante persone che erano contro noi, contro noi partigiani, avevano il fazzoletto rosso, mi sono messa a piangere. Io ho detto: “Forse non ne è valsa la pena del nostro sacrificio”. Lo giuro.

Fra questi c’era uno, io ho saputo, che è lui che è andato dai tedeschi a dire che la mia famiglia era rossa e che io ero partigiana.

D: E’ stato lui a fare la spia?

R: Sì, tant’è vero che mio padre finita la guerra è andato, gli ha sputato in faccia e gli ha detto: “Se moriva mia figlia, tu a quest’ora non ci saresti più stato”.

Però lui non ha reagito, no.

D: Zara, prima tu dicevi che la prima volta che hai fatto la doccia lì al campo sei rimasta un po’ scioccata perché nuda, assieme ad altre trenta donne…

R: Io avevo vergogna a vedermi in sottoveste con mio padre. Una volta era così.

D: Quel pudore, cosa voleva dire nel campo perdere il pudore?

R: Non so, io mi sarei lasciata ammazzare piuttosto che andare lì. E’ stata per me una cosa più forte di quando mi hanno picchiata.

D: Un’umiliazione più forte?

R: Sì, più forte, perché io fino a che è morto mio padre, adesso è un discorso diverso, ho ottantatré anni, gli ho sempre dato del voi.

Per me che con mio padre avevo una vergogna di parlare, di farmi vedere solo in sottoveste e trovarmi lì nuda così, con donne di tutte le età.

Ce n’era una poverina di venti anni che aveva un gran bel seno, si chiamava Piera e mi ha detto: “Mamma, a cosa devo assistere. Anche questo ci fanno fare?” Lei non voleva spogliarsi. L’hanno picchiata perché non voleva spogliarsi. Anche lei ha detto queste cose.

Io posso dire che oltre alle botte non mi hanno fatto nient’altro. Le botte sì, ma nient’altro mi hanno fatto. Hanno tentato qualche cosa? No.

C’era questo ucraino, quello che mi picchiava, forse io gli piacevo, ma io tutt’altro che star lì a fargli il sorriso. Erano cattivi, erano proprio cattivi.

D: Ti consideri fortunata?

R: Sì, di essere tornata sì, però avrei preferito morire lì.

Sì, perché quando ho visto le persone che veramente ci odiavano perché noi portavamo da mangiare ai partigiani e poi vedermeli col fazzoletto rosso, è stata una cosa brutta, brutta, brutta.

Tu devi pensare che io per tre mesi dovevo mettermi i guanti perché mi graffiavo dappertutto, perché dicevo “Adesso mi picchiano, adesso mi torturano, adesso mi ammazzano”. Per tre mesi una vita così ho fatto.

D: Questo dopo che sei scappata?

R: Sì, quando sono tornata a casa.

D: Dopo la Liberazione?

R: Sì. Ma vedere queste persone proprio… Noi abbiamo avuto anche degli inglesi, abbiamo portato da mangiare anche a degli inglesi, questi sono venuti in Italia dopo finita la guerra.

D: Questo a casa però.

R: Sì, a casa.

D: Prima di essere arrestata?

R: Sì, nel… Prima, prima di essere arrestata, sì. C’era mio fratello che era, lui ha quattro anni meno di me, aveva tredici anni, lui e un altro mio cugino andavano in montagna a portare da mangiare a questi inglesi, erano scappati a Bologna e si erano rifugiati lì.

Cinque erano insieme a noi partigiani, gli altri, questi non hanno voluto andare dai partigiani, però vivevano in paese così, senza riguardo per noi, vedevano e non interessava niente. Diciamo anche questo, che noi abbiamo rischiato la vita più di una volta per loro, perché loro si esponevano, andavano in giro e sapevano… Capito?

Mio padre è stato tre ore nella mangiatoia della mucca.

D: Nascosto?

R: Sì. Perché l’avevano cercato per portarlo via. Mia madre al muro e mio fratello e mio padre nella mangiatoia della mucca.

Il giorno in cui io sono andata a Bolzano, loro sono andati lì a fare rastrellamento a casa mia. Capito?

Tante persone anche oggi. Sai cosa avevano detto? Che mi avevano portato a Bolzano perché ero incinta. La cattiveria delle persone. Hanno detto che mi avevano portato a Bolzano perché ero incinta. Non sapevo neanche cosa voleva dire avere un bambino!

D: Questo passaggio. Tu dicevi che a Pasqua c’è stata la messa nel campo, però a Pasqua quando vi affacciavate dalla finestra…

R: Sparavano su.

D: Ma sempre lì nel campo questo?

R: No, lì vicino al Virgolo, nella caserma.

D: Perché non dovevate guardare fuori della finestra?

R: No, non dovevamo guardare fuori della finestra.

D: Per vedere il paesaggio.

R: Non dovevamo, anche se era Pasqua, non dovevamo guardare fuori. Poi c’era quella Tigre lì che viaggiava continuamente con un cane grosso così, oltre ad avere paura di lei avevamo paura del cane.

D: Oltre a queste tue amiche, quella di Imola, quella di Vercelli, la Laura di Milano e la Bufalini, ti ricordi altri deportati? Anche uomini?

R: No, di uomini non mi ricordo.

D: Il Tarvisio non te lo ricordi?

R: No, perché anche se lui lavorava al Virgolo, gli uomini da una parte e anche quando eravamo a fare l’appello, gli uomini davanti, noi dietro, ma non eravamo insieme. Non c’era contatto tra uomini e donne. Non ci lasciavano il contatto.

D: Questo Virgolo in sostanza in che cosa consisteva?

R: Una galleria.

D: Una galleria per fare una strada?

R: No, qui passa l’Isarco e la ferrovia che va al Brennero, qui c’è una galleria con tre crocefissi in alto e dentro lì c’era questo stabilimento.

D: Lo stabilimento dentro la galleria.

R: Sì.

Dovevano tracciare una strada, hanno fatto questa galleria e dentro lì hanno messo questa fabbrica. Adesso è la strada che si fa per andare al Brennero, passi sotto il Virgolo, passi dentro la galleria del Virgolo. È una strada. Prima invece avevano messo dentro questa fabbrica.

D: Come mai in tutti questi anni a Bovisio non c’è mai stata l’occasione per parlare ai ragazzi delle scuole?

R: Perché nessuno mi ha mai interpellato, perché nessuno a Bovisio sapeva che io sono stata in campo di concentramento.

D: Perché non l’hai detto tu?

R: No, a nessuno. Perché io venuta qui sono andata a lavorare, avevo i figli da mantenere, farli studiare, non avevo certo tempo di andare in giro. Anche perché io appena venuta qui sono andata alla Snia, avevo ventisette anni.

D: Alla Snia di Varedo?

R: Di Varedo. Sono andata tramite i sindacati, non mi ricordo più. Ero andata a Milano, all’ANPI, mi avevano fatto il certificato che ero stata partigiana e avrebbero dovuto assumermi. Mi hanno fatto la visita e tutto. Il giorno in cui dovevo presentarmi per andare a lavorare mi hanno detto che ero troppo vecchia a ventisette anni e io non ho mai avuto aiuto da nessuno, a parte che io non ho chiesto niente a nessuno, però io non ho mai avuto niente da nessuno.

D: Zara, dopo il Lager, dopo la liberazione, tu hai mai avuto paura di questa tua esperienza che avevi fatto? Di questa tua esperienza del Lager?

R: No. Io non avevo paura, ero diventata forte. Diciamo la verità, sei bambina a sedici anni, si è bambini. Vai davanti al pericolo senza renderti conto che c’è il pericolo, perché andando a fare la staffetta io non sapevo niente cosa voleva dire, però era il mio istinto di andare, non per far vedere alla gente, per il mio desiderio di poter aiutare.

Ti dirò di più, finita la guerra, quando c’è stata la ritirata dei tedeschi, sono venuti nella montagna, qui c’è il mio paese, qui una piccola montagna. Io sono andata a portare del pane ai tedeschi e c’erano due che erano a Bolzano della Wermacht e mi hanno riconosciuto.

Mi hanno detto: “Noi ti abbiamo trattata male e tu vieni a portarci questo?” “Sì, perché io so cosa vuol dire essere prigionieri”. Ho portato le lamette, sapone e del pane, due cesti di pane. Mi sono fatta aiutare da mio fratello, però loro si sono meravigliati che io avessi fatto quel gesto.

Io so cosa vuol dire essere prigionieri. Tu hai un’idea, io ne ho un’altra, però siamo sempre prigionieri.

Ma non ho avuto aiuto da nessuno.