Maruffi Ferruccio

Ferruccio Maruffi

Nato il a Grugliasco (TO) nel 1924

Intervista del: 06.07.2000 a Torino realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 113 – durata: 60′ circa

Arresto: 14-15 marzo ’44 in Valle di Lanzo (TO)

Carcerazione: Le Nuove a Torino

Deportazione: Mauthausen, Gusen I, Schwechat, Gusen II

Liberazione: a Mauthausen

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Ferruccio Maruffi. Sono stato deportato a Mauthausen. Ero stato arrestato nel marzo del ’44 direttamente in montagna. Facevo parte delle prime formazioni partigiane in Val di Lanzo, abbiamo subito un rastrellamento molto massiccio da parte di SS ma anche di fascisti italiani.

D: Ferruccio, quanti anni avevi?

R: Avevo 20 anni. Quando sono stato arrestato avevo 20 anni appena compiuti.

D: Sei stato arrestato in che giorno?

R: Sono stato arrestato il 14 o il 15 marzo del 1944. Dovevo essere fucilato assieme ad un altro mio compagno che era un ragazzo siciliano militare all’epoca dell’8 settembre. Dopo l’occupazione nazista era rimasto un militare sbandato, poi era venuto in montagna e aveva fatto parte anche lui di questa formazione partigiana. Siamo stati presi insieme noi due, perché al termine del rastrellamento ci eravamo sparpagliati per la montagna.

Il gruppo che ha arrestato noi era composto da un ufficiale nazista tedesco, da alcuni altri militi tedeschi e da un gruppo di fascisti. Era da questi che bisognava guardarsi, era proprio da questi. Sfortunatamente per noi questo gruppo di ufficiali nazisti e gli altri tedeschi hanno proseguito con il rastrellamento nella montagna, lasciandoci in mano ai fascisti, che non aspettavano altro ovviamente.

Siamo scesi sullo stradone della Valle di Lanzo e ci hanno messo contro il muro, comunicandoci ufficialmente che ci avrebbero fucilato. Però hanno perso tempo perché non tanto con me ce l’avevano, io ero soltanto un criminale con cui neanche valeva la spesa di sporcarsi le mani, ma con questo ragazzo siciliano. Questi fascisti erano meridionali e ce l’avevano con lui soprattutto perché continuavano a dirgli: “Ti sei andato a mettere assieme a questi briganti, tu siciliano, con tutto quello che il Duce aveva fatto per noialtri!” Hanno perso così tanto tempo a prendersela con lui che l’ufficiale nazista è tornato indietro col suo gruppo, ha visto la scena e devo dire che ha redarguito i fascisti. Li ha mandati via, ha fatto voltare il mio compagno che era con le spalle al muro, stavamo aspettando che caricassero il mitra e tutto quanto, e hanno detto: “Aspettate che arrivi la camionetta dei carabinieri”.

E’ arrivata la camionetta dei carabinieri e ci ha fatto salire. I carabinieri ci hanno portato alle scuole di Lanzo e dopo con tutto il gruppo dei rastrellati siamo poi finiti alle Carceri Le Nuove. Abbiamo fatto prima un “giro turistico” di Torino coi mitra puntati dietro la schiena e poi ci hanno portato alle Nuove.

Ci siamo stati fortunatamente pochi giorni perché era pericolosissimo alle Carceri Le Nuove di Torino; era pericolosissimo in quel periodo stare lì perché c’era sempre il pericolo che qualcuno venisse fucilato se c’era qualche azione di rappresaglia dei partigiani.

Per cui siamo partiti il 17 per Mauthausen, abbiamo fatto una sosta a Bergamo e il 20 marzo del ’44 siamo arrivati a Mauthausen.

Questo è quanto, abbiamo subito fatto attenzione a quella che sarebbe stata la nostra vita da quel momento. La cosa più pericolosa era proprio quella di non accettare in qualche modo quello che passava il convento, della prigionia prima e del Lager che cominciava già nel carro bestiame che ci portava in Germania.

Tre giorni e tre notti di viaggio, in una promiscuità indicibile. Eravamo circa quaranta persone. Il viaggio nei carri bestiame era l’apprendistato di quello che ci sarebbe capitato: viaggiare quaranta, quarantacinque persone chiuse in un carro dove l’unico elemento che conta è il barile, dove tutti fanno quel che devono fare e un po’ divisi in un certo senso. Nel mio vagone metà eravamo giovani, metà erano anziani. C’erano molti operai della Fiat, soprattutto che avevano scioperato; erano stati arrestati e la minaccia fatta subito prima di chiudere i vagoni era che se, aprendo i vagoni ne mancava uno, avrebbero fucilato tutti gli altri. Aveva fatto un certo effetto specialmente sulle persone anziane perché avevano famiglia, avevano figli. Noi giovani eravamo più incoscienti, non ce la prendevamo più di tanto, però è venuta a formarsi, questo è importante secondo me rilevarlo, questa specie di divisione fra i giovani e gli anziani.

Noi volevamo scappare, perché si poteva scappare da un carro bestiame. Al passaggio del confine avevamo saputo durante una sosta che i ferrovieri avrebbero rallentato il convoglio nella zona dove c’erano i partigiani e qualcuno, alzando le traversine del vagone, poteva lasciarsi scivolare sotto. In qualche posto l’hanno fatto, nel mio vagone per esempio no, per cui ci siamo guardati in cagnesco tutti quanti, gli anziani che controllavano che nessuno di noi facesse questo. Questo il primo giorno, poi siamo entrati già in Austria e, secondo me, io ho vissuto tanti momenti terribili, ma tanti momenti stupendi durante la mia prigionia: valeva la spesa di essere prigionieri per averli vissuti, per quanto possa sembrare strano. Io ricordo l’atmosfera di divisione sul carro bestiame che andava ai Lager. Non sapevamo ancora che cosa ci aspettasse. Con me c’era un mio compagno, si chiamava Gianni Ferrari e aveva una voce bellissima. Era uno che non se la prendeva più di tanto. Quando eravamo venuti al confine c’era la neve per terra, eravamo già ad una certa altezza e dalle feritoie vedevamo tutta questa neve. Lui guardava tutta questa neve e a un bel momento si è messo a cantare una canzone che era in voga “Il trenino di Chattanooga”. Era uno swing che veniva dall’America, il disco arrivava e in mezzo il trenino che fa “ciu ciu”; l’atmosfera improvvisamente è cambiata e ci siamo scoperti che eravamo tutti sulla stessa barca, cioè sullo stesso carro bestiame.

Io ricordo questo momento come uno dei più straordinari che ho vissuto nel Lager, questo cambiamento, come possano la musica e il canto cambiare l’essenza delle persone. Molti piangevano ovviamente, però anche le lacrime in quel momento avevano un loro valore.

Poi siamo arrivati a Mauthausen. Subito siamo scesi, ci hanno fatto scendere dai carri, era mattino prestissimo, si arrivava sempre al mattino presto in modo che non ci fosse gente in giro. Noi avevamo tutta la puzza nel naso del viaggio nel carro con il bidone maleodorante e subito, scendendo dal carro, ci è sembrato quasi di respirare, di essere arrivati quasi in paradiso, l’aria pura del mattino, anche se era molto fredda. Ci siamo incamminati, c’erano le SS, i cani, e ci hanno messi in fila per cinque; ci siamo incamminati verso Mauthausen che è su una collina.

Io devo dire, che almeno i compagni che ho conosciuto io erano un’altra razza rispetto alla gente che c’è oggi, ma era una cosa straordinaria. Avevo un compagno, un operaio della Fiat, aveva già allora un certo numero di anni. Marciavo vicino a lui, noi non avevamo niente, ma questi uomini anziani erano in carcere, avevano la valigia, avevano anche il salame e cose del genere, avevano cose che poi presero loro a Mauthausen, se le portavano su, ma salendo quasi 4 chilometri di salita non ce la facevano più. Io ricordo sempre una frase di quest’uomo che ha preso la valigia di quello che aveva davanti che era boccheggiante, non ce la faceva più; gli ha preso la valigia, gli ha messo una mano sulla spalla e gli diceva: “Dai che andiamo a fare merenda a Superga adesso”. Quella collina ricordava quella di Superga.

La vita del Lager è fatta di tanti flash che, rivisti oggi, danno una dimensione diversa di quello che noi abbiamo vissuto. Per questo io non riesco mai a drammatizzare più di tanto.

Siamo arrivati poi là e abbiamo, poco per volta, preso contatto con la realtà. Intanto abbiamo visto passare carri con scheletri che debordavano. La cosa che ci aveva un po’ colpito era che mentre salivamo verso la vetta avevamo una nuvola nera sopra di noi e riprendevamo a sentire un odore sgradevolissimo; poi abbiamo capito che era l’odore che veniva dal camino, l’odore della carne bruciata.

Poi ci hanno derubato di tutto. Abbiamo fatto questa strana cosa. Ci hanno portato in un sottoscala dove c’era la spoliazione, a gruppi di quaranta o cinquanta per volta. La nudità improvvisa: c’erano dei bei ragazzi, c’erano anche invece uomini con l’ernia, insomma ognuno ha un po’ la sua privacy, termine che non esisteva, assolutamente inesistente.

Dover essere depilati in ogni parte del corpo, l’umiliazione fortissima, questa sì che l’abbiamo sentita. Abbiamo poi anche preso frustate a volte, ma c’erano delle cose che ci offendevano profondamente. Io ho avuto la fortuna di incontrare quelli che ho chiamato “i deportati saggi” che mi insegnavano i trucchi del resistere. Dicevano: “Sapessi come sbagliano questi qui a umiliarti, a darti una frustata, perché quando ti umiliano, quando senti la frustata, tu è come se reagissi dentro di te. Ti senti contro di loro, certo non puoi picchiare, non puoi fare niente, ma sei contro ed è la cosa più importante: che tu resti contro. Tu sei da questa parte della barricata, però è questo.”

Al punto che io ricordo che mi sentivo molto offeso da quella riga che dovevo portare rasata a zero che partiva dalla fronte fino a dietro la nuca, era un marchio d’infamia. L’avevo detto ad un mio compagno che si era messo tranquillamente a ridere, perché succedeva questo. “Ti spaventi per quella cosa? Allora non hai ancora capito niente del Lager”. A me sembrava di aver già capito qualcosa dopo un giorno o due. Vedi, quando tu incontri le SS, noi potevamo essere nudi, ma il berretto dovevamo averlo sempre. Quando incontravano la SS bisognava togliersi il berretto, mettersi sull’attenti e far vedere la striscia che ci percorreva la fronte. Questa era l’umiliazione. Lui diceva: “Tu parti da un presupposto sbagliato. Quando vedi la SS ti metti sull’attenti, ti metti sull’attenti e fai vedere questa striscia e che sia ben fatta. Perché vedi, è lui che si deve vergognare della divisa che porta, non sei tu, è lui che si deve vergognare.” Lo so che, oggi, a distanza di tempo può sembrare quasi impossibile questo, ma si rideva per questo.

Questa era la resistenza nel Lager. Noi non potevamo sparare, non potevamo fare nient’altro, ma questa era la resistenza, questo dovevi impararlo fin da subito. Stai attento. Io mi ricordo uno dei primi insegnamenti. “Non odiarli, per carità, non odiarli”. “Perché non li devo odiare con quello che mi fanno?” “Non li devi odiare intanto perché loro vogliono essere odiati. In un certo senso si sentono “giustificati” del male che ti fanno se tu li odi. E tu quella soddisfazione non gliela devi dare. E poi qui devi stare attento perché l’odio è una brutta compagnia, è eccitante. Per cui bisogna stare attenti perché questa gente ti arriva addosso che neanche te ne accorgi, quindi devi essere sempre presente a te stesso, altro che odio. E’ un lusso che non possiamo permetterci”. Non è che diventassimo bravi, era una metodologia, come quando sono salito in montagna e mi insegnavano come dovevo fare per fare un agguato o nascondermi per andare a far saltare un ponte. E’ la stessa cosa, non era più quello l’insegnamento. L’insegnamento era come dovevi in qualche modo resistere.

Io ho fatto pochissimo di resistenza in montagna, ho fatto quella del Lager che era un’altra cosa. Oggi la ricordo, non dico con rimpianto, perché sarebbe una cosa stupida, ma il rimpianto di non essere più quello che sono stato allora, questo sì. Molti mi chiedono perché io ne parlo in questo modo.

Io ne parlo in questo modo perché, e vorrei che fosse chiaro quello che sto dicendo, il periodo trascorso nel Lager, questi quasi diciotto mesi infernali, sono stati il periodo migliore della mia vita, non il più bello, il più brutto certamente, ma il migliore perché in quello mi posso specchiare. Non sono morto al posto di nessuno, nessuno è morto al posto mio, non ho accettato niente che non fosse quello che prendevano gli altri e non so se nella vita quotidiana sarei capace di essere così. Non so neanche se sono capace quando verrà il mio momento a morire come ho visto morire tanti miei compagni, perché morivano bene i miei compagni. Questo è importante che lo sappia la gente. Morivano bene, senza maledire, senza umiliarsi quando stavano per essere colpiti.

Voi che fate domande a noi superstiti, quei quattro gatti, fate questa domanda: “Avete visto qualcuno piangere?” Se poi ci pensiamo sopra, ci accorgiamo che non abbiamo mai visto nessuno piangere. Era proibito anche piangere, certo, si capisce, tutto era proibito, anche piangere. Ma le lacrime non sono un rubinetto che si apre e si chiude a volontà, vengono quando vengono, quando ci emozioniamo. E’ questo che, secondo me, del Lager è stato scritto molto, certo che è tutto vero quello che è stato descritto, è tutto vero. Forse è anche abbastanza quello che è stato descritto, ma si è parlato forse, secondo me, poco di come l’uomo c’è stato, di come l’uomo ha vissuto il Lager, è morto nel Lager o casualmente perché non eravamo bravissimi, non avevamo niente di speciale. Non ci sono stati eroi, nessuno è stato eroe.

Ma sono stati tutti uomini, con la U maiuscola. E questo va detto perché questa è la verità. Noi ci siamo accorti, sì, la libertà, che cos’è la libertà se non l’aspirazione suprema di ogni uomo: la libertà. Però a me resta sempre in mente la frase che mi ha detto un mio compagno che ritengo sia giusta ancora oggi e fosse giusta anche laggiù. “Vedi, questo è il posto dove parlare di libertà è una cosa quasi irrisoria, questo è il peggio al mondo, ciò nonostante ciascuno di noi può sentirsi libero se riesce a mantenere la propria dignità di uomo.” Io le ricordo queste parole perché quest’uomo poi è morto. “Se un giorno tu sarai libero e te lo auguro, se non avrai la dignità che è il rispetto di te stesso e degli altri non sarai mai uomo libero, sarai sempre uomo dipendente, dipendente da qualcuno.”

Allora bisognava immaginarsela questa libertà, la libertà di mantenere la propria dignità. Quella non te la poteva togliere nessuno. Questo secondo me è il Lager. E forse noi, in genere tutti gli uomini, credo che specialmente col passare degli anni tendono a lamentarsi. Non è nient’altro che il sogno degradante delle occasioni perdute, soltanto questo. Quella bionda là che .. poi invece niente. Allora ci piangiamo addosso.

D: Ferruccio, ti ricordi il tuo numero di immatricolazione di Mauthausen?

R: Sì, 58.973, figurati se non me lo ricordo.

D: Tu a Mauthausen hai fatto la quarantena?

R: Sì.

D: Poi ti hanno mandato dove?

R: A Gusen I. Sono stato poco a Gusen I perché poi mi hanno trasferito a Vienna nel Lager di Schwechat. Sono stato nel Lager di Schwechat finché è stato distrutto dai bombardamenti degli alleati.

D: Cosa facevate in quel Lager?

R: Lavoravamo dodici ore al giorno. Una fabbrica di rottami, la Heinkel.

Dodici ore al giorno oppure dodici ore di notte. Il guaio erano i bombardamenti, erano continui. Questo Lager era un piccolo Lager, non poteva tenere più di duemila persone, ma era il centro di un complesso di fabbriche della Heinkel che costruiva aeroplani da caccia. Il Lager era studiatamente al centro, c’è un Lager lì in mezzo, non andiamo a buttare le bombe, mi pare giusto. Gli alleati avevano di quelle preoccupazioni lì. Venivano sovente e un giorno hanno fatto piazza pulita. Un bombardamento durato parecchie ore. Prima hanno distrutto tutta l’antiaerea di Vienna e poi sono calati lì, buttando spezzoni incendiari, hanno distrutto tutte le fabbriche, tutto il Lager. Non potevi neanche camminare perché la terra bolliva dal calore. Sono stato ferito come altri, le bombe cadevano dappertutto. Ma si può fare il tifo perché cadano le bombe? Eppure si può, si è fatto ed eri lì che guardavi perché eri nella trincea all’aperto.

Ti schiaffavano dentro le trincee con le garitte delle SS sopra, anche loro dovevano stare lì a guardare che non scappassimo, coi mitra puntati. E tu che li vedevi arrivare e che avresti voluto dire: “Vieni qui oppure lì!” Si poteva fare quel tifo?

E poi mi hanno riportato a Mauthausen, ovviamente.

D: Parlaci di quel campo, di questo sottocampo di Mauthausen. Tu dicevi che poteva contenere circa duemila deportati.

R: Non di più.

D: Eravate molti italiani?

R: Molti italiani. Gran parte di italiani. I fratelli Valenzano erano tutti e due lì a Schwechat, erano arrivati prima di me. Per la gran parte eravamo italiani in quel Lager, diciamo che era un po’ un feudo nostro; però è stato distrutto e noi feriti siamo stati riportati a Mauthausen. Perché? Perché c’erano delle ferite che venivano curate perché fossimo di nuovo abili per tornare al lavoro. Perché il Lager non era solo morte, la morte era la conclusione.

Qui bisogna essere chiari su questa questione. I Lager non sono stati fatti soltanto per uccidere la gente. Questa era la soluzione ultima. Eri un nemico, eri un ebreo, eri un omosessuale, eri un testimone di Geova, un antifascista, un antinazista, muori! Ma un momento: prima lavori! Perché noi dobbiamo costruire un impero economico, quale non è mai esistito al mondo: facendo lavorare milioni di persone senza pagarle mi pare che si possa costruire questo impero economico come nessun altro può fare. Questo era il progetto, era un progetto che andava al di là del tempo. In fondo i Lager non erano stati nient’altro che il primo esempio di come sarebbe stata la società se i nazisti avessero vinto. La società di quelli che stavano sopra e di quelli che stavano sotto. Quelli che lavoravano, che sgobbavano per questa élite che li avrebbe comandati. Quindi cosa succedeva? Che una ferita la si curava, un foruncolo, la scabbia. La scabbia, malattia endemica per eccellenza, si curava. In tre giorni guarivi dalla scabbia e tornavi a lavorare. Eri sempre una massa buona per lavorare.

Certo che se cadevi in malattie incurabili non c’erano cure, l’unica cura era il bisturi, non c’erano altre cure. Le malattie più comuni nel Lager erano i flemmoni, grossi foruncoli. Io sono stato operato cinque volte di questo. C’era una specie di infermeria; andavi lì e mettevi il piede, l’arto, il dito, quello che era: c’era un chirurgo, ti piantava il bisturi dentro, toglieva tutto quello che c’era da togliere, tanta roba, incredibile cosa si accumulasse. Poi non è che cucissero, ti mettevano del nitrato d’argento sulla ferita e ti fasciavano con la carta igienica. Io ne avevo un po’ dappertutto, una qui, una là, nel collo, dappertutto. Era un bene, perché probabilmente questo ti evitava altre cose.

Quindi sono stato riportato a Mauthausen, ho imparato i trucchi che mi insegnavano. Le ferite che avevo facevo in modo che non guarissero. Per cui le torturavo per cercare di stare il più possibile lì. Mi è venuta la scabbia.

Io sono uno di quelli, lo racconto mal volentieri, che ha fatto pugilato a Mauthausen. Ero finito in una baracca in cui c’era un capo che aveva il pallino della boxe. Cos’era successo? Era successo che quando mi hanno trovato la scabbia mi hanno portato di corsa in questa baracca, era la baracca 8 del Revier di Mauthausen, le cosiddette infermerie di Mauthausen.

Questa baracca era divisa in due parti. In una c’erano quelli che avevano la scabbia, nell’altra c’erano dei poveracci che avevano la tubercolosi, le malattie infettive vere e proprie, la tubercolosi, questo tipo di malattie, per non parlare dei malati di cuore. Questa seconda parte era l’anticamera, era un punto di passaggio per quelli che avevano prelevato per portarli al castello di Hartheim dove sarebbero stati usati come cavie e poi uccisi nella camera a gas. Questa baracca invece aveva solo la scabbia, questa prima.

Quando sono arrivato lì insieme ad altri ci hanno messi nudi davanti all’ingresso della baracca, tra l’altro è uscito fuori il capo che era un omosessuale col pallino della boxe. Non era cattivo, devo dire la verità, bisogna essere onesti su questo, era un tedesco. Ci mette tutti lì in fila e poi si ferma davanti a me. Mi guarda fisso negli occhi, poi fa un passo indietro e mi tira un pugno. Non era da molto che ero a Mauthausen, due o tre mesi, quello che mi era rimasto del corso di pugilato mi è bastato per schivarlo e lui è finito per terra. Dopodiché ho detto: “Questo adesso mi ammazza!” Invece si alza, mi guarda e mi fa: “Tu boxe?” Io mi alzo. “Junger Kompanie! Io non sapevo cosa volesse dire.

Entro nella baracca, vado in uno dei castelli di legno, salgo sull’ultimo piano e lì c’era, cose strane che si incontrano, un italiano. Era un meridionale, gli italiani sono i più furbi del mondo, non c’è niente da fare, non ci batte nessuno, siamo impossibili, siamo invincibili in quello. Sapeva fare la maglia. Sapendo fare la maglia, passava tutto il giorno sul tetto della baracca a costruire maglie di lana che poi il Kapò dava alla SS. In quel modo faceva il suo tran tran, anche lui vivacchiava. Per cui lui era lì tranquillo. Non mi ricordo più per cosa fosse stato arrestato, ma non era una cosa eclatante. Lui era militare, qualcosa aveva fatto, mi pare che riguardasse sua moglie o qualcosa di questo genere, l’hanno arrestato e l’hanno portato a Gaeta. Da Gaeta l’avevano portato a Dachau quando c’è stata l’occupazione nazista. Da Dachau non so che cosa abbia combinato, l’hanno portato a Mauthausen. Era appollaiato lì sopra. Allora mi metto lì, dico: “Mi hanno detto Junger Kompanie: che cos’è?” Lui mi dice: “Stanotte vedrai che cos’è”. Ho detto: “Mi ha guardato in un certo modo, non mi ha fatto piacere”. Mi ha detto: “Stai tranquillo, il suo amichetto ce l’ha già. Procura solo di non incontrare il suo amichetto”. E così dopo mezzanotte, dopo il passaggio della SS che fa il controllo, ad un certo momento entro nella baracca, nel silenzio generale c’era un piccolo, uno slavo, gli addetti alla baracca che arrivano con quattro piloni, uno da una parte, uno dall’altra, uno dall’altra e uno dall’altra, una lampada che fanno scendere fin sopra lì. Era chiaro che fosse un ring, voleva essere un ring.

Cosa faceva quest’uomo? Aveva costruito questa Junger Kompanie, tutti ragazzi giovani; va bene che lui avesse il suo vizio e anche il pallino della boxe ma forse era anche un modo per evitarci di andare a lavorare, almeno per i più giovani, cercava di salvarli in qualche modo. Perché ci salvava in questo modo? Si faceva una scheda: il 5.873 si batteva contro il 4.455, e così via. Si faceva tutto il borderau. Alla sera dopo il passaggio della SS, all’una, due di notte si apriva questo spettacolo in cui noialtri a turno andavamo a fare la boxe. C’erano proprio ottavi di finali, quarti di finali, semifinali e finali. Tutto qui. C’erano soltanto due paia di guantoni. Io mi ricordo che ci stavo dentro tre volte in questo paio di guantoni; c’era anche un padellone in cui uno dei suoi batteva. Lui era l’arbitro.

Queste cose ho aspettato parecchio a raccontarle, finché non le ho lette scritte da altre parti; se vado a raccontarle non ci crede nessuno. Al momento giusto lui chiamava l’uno e l’altro. Ha chiamato e ha chiamato me, c’erano anche le corde che dividevano legate ai quattro pali: facevano il suo ingresso lui in mutandine rosa, nudo con le mutandine rosa. Lo so che fa ridere, ma è così. E tu ti picchiavi per tre minuti con un altro. Lui era quello che decideva chi aveva vinto e chi aveva perso ed era importante.

Più in là c’era un tavolo come questo: sai cosa c’era sopra? C’erano gli avanzi di quelli dell’altra Stube, gli ammalati di tubercolosi, malati che non mangiavano più, magari sporchi di sangue, pezzi di pane sporchi di sangue: erano tutti allineati e avevano un cartoncino a seconda del valore. Se era un bel pezzo di pane voleva dire cinque sigarette, dieci sigarette, un altro ne valeva tre, un mestolo di minestra poteva valere una sigaretta, eccetera. Dov’erano le sigarette? Le sigarette le aveva lui. Alla fine del combattimento ti dava la sigaretta. Al primo turno te ne dava una sola, se superavi quel turno, perdente o vincente tutti avevano un minimo. Avevamo tutti una borsa. Finito quello, se avevi superato il turno dovevi poi batterti con un altro, allora il premio era maggiore, saliva fino quando arrivavi alla finale. Se arrivavi alla finale prendevi un pacchetto di sigarette, quello che era. Man mano che prendevi il pacchetto di sigarette, o lo consumavi subito a quel tavolo, o altrimenti aspettavi: “Se vado là ne guadagno un po’ di più, guadagno un bel pezzo di pane che è un po’ più grosso!” Questo finiva alle 2.00 o alle 3.00 del mattino.

Io ci sono stato quindici giorni, venti giorni circa, sono ingrassato. Ero arrivato persino alle semifinali. Ero abbastanza bravo, io avevo fatto la scuola di pugilato, gli altri no, c’era da vergognarsi perché non ci facevamo male ovviamente, non avevamo neanche la forza di farci male. E’ andata bene per circa venti giorni, finché arriva un francese. Arriva un francese con la scabbia.

Il problema qual era? Era di non incontrare il suo amico, l’amico del cuore che era un polacco, un bel ragazzo polacco, vinceva sempre lui. O che vincesse o che lo lasciassero vincere, era meglio che vincesse lui, però ci sapeva fare davvero, poi era sempre lì, quindi era ben piantato. Io ho avuto la fortuna di non andarci contro, quello poteva farti male davvero. Si divertiva anche lui, in fondo finiva quasi con l’essere un divertimento, perché non ci facevamo male, nessuno di noi aveva intenzione di farsi male, però l’altro contava il pugno che aveva dato in un posto, faceva il punteggio per la sua classifica finale di ogni incontro, come tu vedi fare alla televisione. Quando vedo un incontro di pugilato alla televisione mi viene da ridere, non posso vedermi in mezzo a quell’affare.

Tutto procedeva, era d’estate, abbastanza bene. Il trucco qual era? Era lui che faceva da medico, il capoblocco faceva da medico. Al mattino presto venivamo messi tutti fuori dalla baracca, quella della scabbia, lui diceva se eri guarito oppure no. Dove dovevi averla? Scusami se te lo dico, ma sulla punta del pene. Perché lui era lì che doveva controllare, ci metteva in fila e controllava che lì ci fosse la scabbia. Se c’era la scabbia continuavi a stare lì e quindi non andavi a lavorare, continuavi a stare lì. Ci sono stato circa venti giorni finché arriva il francese. Arriva il francese, si presenta e dice, non mi ricordo più neanche il nome; poi l’ho cercato, l’avrei ucciso. Era un campione di Francia. Gli abbiamo detto: “Bisogna cercare di durare più che si può!” Naturalmente li fa fuori tutti finché arriva all’amante del capoccia. L’amante del capoccia sapeva fare il pugilato, per un po’ i due si divertono perché finalmente aveva trovato uno che poteva competere, però il francese a perdere, col cavolo che ci stava! Ha cominciato a sentire un paio di cazzotti, ci ha messo venti secondi, l’ha steso a terra e non si muoveva più. Scena tragica. Il capoblocco piangeva su quel pugile. All’indomani siamo andati tutti a lavorare.

Io l’avrei ucciso, poi sono andato in Francia. Una volta poi il presidente dell’associazione francese è venuto a Torino, è stato mio ospite. Gli ho chiesto chi fosse questo campione di Francia che era a Mauthausen, avrei voluto trovarlo. Ha detto: “Consolati, non ce n’era solo uno campione di Francia, ce n’erano tre campioni di Francia, uno ha anche fatto l’europeo, sono morti tutti e tre”. Vedi che cosa voleva dire essere forti? Non voleva dire niente.

D: Vi hanno mandato a lavorare dove?

R: Io sono poi tornato a Gusen II. Lui ci ha mandato tutti via, però io avevo ancora delle ferite. In un certo sento l’ho fregato perché da quel blocco che era il numero 3 mi hanno passato al numero 7. Sono ancora stato lì, poi sono stato portato di nuovo a Gusen. Il momento più brutto l’ho proprio passato a Gusen II perché si lavorava nelle gallerie, era un lavoro bestiale, insopportabile. Intanto perché le gallerie erano calcaree: dopo cinque minuti che ti trovavi dentro morivi di sete, non pativi neanche più la fame, proprio una sete terribile. Un’arsura che ti prendeva alla gola. Ho passato i momenti i più brutti, ho passato dei momenti lì dentro che sono una cosa straordinaria. Non vedrò mai più una cosa di questo genere.

D: Le gallerie di Gusen di cui tu parli quali sono?

R: Da Gusen II prendevi una specie di tradotta, una specie di trenino fatto di carri bestiame che percorreva circa 3 chilometri e ti lasciava davanti all’ingresso delle gallerie. Scendevi dai carri ed entravi dentro il tunnel e lavoravi dentro quei tunnel. Era l’ambiente che era terribile.

Io sono stato molto fortunato anche lì, ho potuto sopportare perché non facevo fatica. Non facevo fatica perché, avendo sul mio cartellino scritto mechanischer Designer, disegnatore meccanico, mi hanno dato un lavoro tecnico. Si costruivano parti di aerei da caccia, i più veloci del mondo in quel momento. C’era un gruppo di russi che fabbricava questo aereo. Fabbricava la cabina di pilotaggio: poi veniva issata, sopra c’era una scala, veniva posata lì sopra e io dovevo controllare il lavoro che loro avevano fatto. Quindi stavo tutto il tempo, dodici ore, sia che facessi i turni di notte o di giorno, dentro la cabina con una pila in mano a controllare cosa avessero fatto questi. Era la cosa più facile di questo mondo, era anche la meno faticosa di tutte. Tanto è vero che dormivo persino lì dentro, però ero controllato a mia volta. Nel senso che avevo il controllore civile, l’ingegnere, avevo il Kapò polacco o tedesco, non mi ricordo più, che era una bestia, e poi avevo la SS.

Uno di questi tre ogni tanto mi arrivava addosso; però io con il gruppo di russi che costruivano la cabina di pilotaggio avevo fatto una specie di patto d’azione. I figli di buona mamma sabotavano il lavoro, sabotavano la cabina. Bastava un piccolo forellino e la cabina, se stava in volo, non so quanto potesse volare. Io dovevo controllare proprio quello. Allora cosa succedeva? Quando il buco era grosso li chiamavo e dicevo: “E’ la vostra cabina, non si può mica fare così, non passa al controllo. Gli altri mica ci stanno”. Allora se la riprendevano e l’aggiustavano. Quando era piccolo, tutto sommato che l’aereo non volasse piaceva anche me. Se era piccolo, dicevo: al limite mi prendo la colpa io che non ho visto. E così siamo andati avanti abbastanza bene, quando succedeva mi prendevo la colpa e prendevo le venticinque bastonate. Nei Lager imparavi tutto. Io avevo trovato un paio di pantaloni alla cavallerizza, erano un residuato polacco che aveva la cosa a strisce sopra ma sotto la cosa a strisce c’era un pezzo di cuoio spesso che mi fasciava dal sedere fino a sopra. Per cui quando mi davano le venticinque bastonate, io devo dire la verità, non sentivo granché. Quello sudava cinque camice, prendeva lo slancio e io facevo una specie di … tanto perché non si accorgesse; quindi sono andato avanti sempre così. Intanto chiaramente con quei russi, erano tutti russi quelli che fabbricavano questo, avevo un rapporto straordinario. Io per loro ero un padreterno, per cui ero protetto uscendo dalle gallerie, ero protetto da tutti perché non li denunciavo, per loro ero un padreterno. Accettavo di prendere le frustate, però non sapevano neanche loro che io ero protetto sotto il sedere, quindi mi pavoneggiavo un pochettino.

Perché dicevo di aver vissuto dei momenti straordinari in quel periodo? Certamente il più brutto perché poi ormai ero ridotto solo a pelle e ossa, non ce la facevo proprio più. Morivo di fame, morivo di tutto, ma ho vissuto dei momenti così straordinari che, torno a ripetere, vale la spesa essere stato nel Lager per averli vissuti. Cosa vuoi che ti dica? C’era con me un francese, che era un francese romantico. Si chiamava Michel. Cosa faceva quest’uomo per tirar su il morale alla gente? Quando finivamo l’orario di lavoro che era già una roba, ci restavano solo quelle quattro o cinque ore per riposare, non di più, noi eravamo sul piano superiore di questi castelli. C’ero io, ma c’erano anche il gruppo dei suoi francesi. Lui raccontava una storia. Sai che rubavamo minuti di sonno per sentire la storia immaginaria di quest’uomo e della sua Giselle, la sua ragazza? Lui aspettava che fosse buio E che non ci fosse nessuno, poi si tirava un poco su e noi tutti ad aspettare. Ogni tanto intercalava le sue frasi in italiano perché capissi anch’io. Tirava fuori qualcosa, era una busta inesistente, da cui tirava fuori un foglio di carta. “Oggi ho ricevuto da Giselle la sua lettera” e leggeva la lettera che Giselle gli aveva scritto, che gli raccontava di momenti che avevano vissuto, che era tornata a vedere quel posto dov’erano stati, la Torre Eiffel. “Ti ricordi quella volta che abbiamo perso il treno per arrivare a casa?” Raccontava questa storia.

E noi stavamo lì a berci questa storia immaginaria, rubando ore di riposo, non ore ma anche solo dieci minuti di riposo perché ci faceva bene alla salute. E cosa succedeva? Che tu poi restavi con un appuntamento. Cosa risponderà lui a Giselle domani sera o dopodomani, quando riuscirà di nuovo a parlarle? E lui ti gigionava la sua parte perché sapeva che ormai ci aveva conquistati tutti quanti come fosse un Kapò del quale eravamo schiavi. Puntualmente rispondeva a Giselle inventando qualche cosa. Ma vedi, quando gli scriveva lei, era un po’ diverso perché, presa la busta e la lettera, lui la portava al naso, Chanel n. 5, e c’eravamo innamorati tutti della sua Giselle. O forse noi la scambiavamo con la nostra ragazza, evidentemente.

Puoi vivere cose di questo genere con quella intensità? E quando mai le vivrai queste cose? Mai più nella vita. Sai che un giorno un suo compagno, Emile si chiamava, un francese magrolino, mentre eravamo nelle gallerie e non so se stava facendo un lavoro ma ha perso un attrezzo e non lo trovava più. E’ arrivato il Kapò, lo ha guardato. “Tu l’hai perso!” ha continuato a gridargli in tedesco un sacco di insulti. Quindi è arrivata anche la SS ed è scoppiata una parola che era terribile nel Lager: Sabotage. Per sabotaggio venivi ucciso subito. Ma c’erano delle punizioni che dovevano essere ufficiali.

Ti potevano uccidere in cento maniere per qualunque pallino, ma un sabotaggio diventava una cosa a cui tutti dovevano assistere. Gli fanno una ripassata, il resto viene rimandato al rientro nella baracca nel Lager. Riusciamo a trascinare Emile già abbastanza provato fin dentro la baracca, poi quando è il momento che si sono fatte le operazioni, preso il mangiare, fatta la depilazione, viene il momento della punizione. Eravamo circa quattrocento dentro quella baracca. Era una baracca che poteva contenere al massimo cento persone ma ne conteneva mediamente quattrocento di un turno e quattrocentoo di un altro.

C’erano pestaggi in tutti i momenti, ma perché un pestaggio diventava diverso dall’altro? Non me lo so spiegare neanche io adesso: tutti aspettavamo il pestaggio di Emile. Quando ti davano le frustate, ti mettevano a testa in giù e col sedere in aria, botte fino a venticinque; perché venticinque non l’ho mai saputo. Portavano una specie di sgabello concavo, dove il malcapitato deve posare la pancia e stare a battere sopra, anche lui deve contare.

Viene il momento, chiamano Emile. Silenzio di tomba dentro la baracca. Emile viene portato giù, già era abbastanza malandato, viene posato con la pancia in giù e il capoblocco comincia, si mette in posa per cominciare a dare le frustate. E comincia. Una, due, Emile deve dire in francese: un, deux, trois. Già dopo le prime due o tre non ce la fa più.

Cosa succede nel nostro gruppetto lassù? Cosa inventa Michel? Inventa una cosa che tutte le volte che ci penso mi viene ancora la pelle d’oca adesso: la Marsigliese. “Et allons…”, e comincia a cantare la Marsigliese, piano, piano. I suoi poco per volta, prima sono indecisi, io non la sapevo, non la potevo neanche cantare, ma poi lo seguono. Poco per volta alza sempre più la voce; l’altro che si era fermato sente la Marsigliese e allora ce la fa, conta, va avanti: 3, 4, 5, 6, 7. Ad un certo punto si ferma e non ce la fa più. Allora sente lui che alza la voce: “Allons mes bataillons!”, alza ancora di più la voce. E va fino alla fine, fine nella quale tu non sapevi cosa sarebbe successo. Come minimo dovevamo essere uccisi tutti, ma proprio minimo minimo. Ma i Kapò della baracca sono rimasti così sorpresi da una cosa di questo genere che non sono stati capaci di fare niente. O si sono presi paura loro stessi da un eventuale arrivo delle SS perchè avrebbero dovuto rendere conto di come avevano permesso che avvenisse una cosa del genere, o l’atmosfera li ha suggestionati, non so cosa sia successo. E’ successo che sono andati fino alla fine e che la Marsigliese è stata cantata fino alla fine dal gruppo di francesi. Sai, si può vivere un altro momento così? Non lo so.

D: Alla Liberazione dove ti trovavi?

R: Alla Liberazione io ero a Mauthausen nel cosiddetto Revier. Ero tornato da Gusen ed ero sfuggito alla selezione, alla camera a gas; io sono sempre stato fortunato. Solo chi ha fortuna può superare queste cose, mica perché ero più bravo. Tu capisci: mi sbattono in un blocco dov’ero già stato, il blocco 7, devo dire che ero già abbastanza conosciuto a Mauthausen, avevo fatto già due o tre viaggi. In questo blocco 7 c’era un infermiere che parlava italiano benissimo, perché era stato, guarda caso, così mi aveva raccontato, il precettore della famiglia del principe italiano ambasciatore a Varsavia. La moglie del principe era una principessa Morozzo della Rocca. Lui teneva a far sapere che aveva fatto queste cose, anche perché questa donna diceva sempre la Vispa Teresa ai suoi ragazzi, lui voleva ricordare la Vispa Teresa; io non la conoscevo, ma era riuscito in qualche modo a fargliela avere. Il problema era che io da furbastro ho un po’ sangue blu che gira nelle vene, e mia madre era discendente dei conti Morozzo della Rocca. Questo ha pensato di avere davanti a sé un rampollo di alto lignaggio e quindi mi proteggeva un pochettino, mi dava qualche pezzo di pane. Quando c’è stata l’eliminazione col gas hanno fatto questa scelta. Qual era lo scopo dell’eliminazione? Era quello, nel caso il Lager fosse stato liberato e fossero arrivati gli americani o i russi, di non presentare le persone particolarmente “giù”. Per cui hanno diviso in tre categorie: quelli che stavano morendo per loro conto, quelli che stavano un briciolino meglio e quelli che stavano per morire, ma non morivano e bisognava farli morire più in fretta. Naturalmente in tutti i blocchi gli infermieri cos’hanno fatto? Li hanno messi tutti nella categoria due: i nazisti li hanno illusi che li avrebbero portati in un posto a curarli perché ormai la guerra stava finendo e si erano pentiti di quello che era stato. Tutte balle a cui questi hanno creduto; tutti avevano il numero due. Il primo giorno vanno fino alla M e va questo gruppo ma io non sono chiamato, uno o due della M. Poi avevano già fatto il numero, per cui noi saremmo andati all’indomani. L’indomani era giorno di festa, mi pare fosse una domenica e in quel momento arriva a Mauthausen la Croce Rossa francese che fa uno scambio di prigionieri. Restituisce alcuni ufficiali della SS ma in cambio vuole i francesi prigionieri a Mauthausen. Per andare dall’infermeria al Lager avremmo dovuto passare davanti alla Croce Rossa, eravamo tutti nudi con la coperta addosso. Questo non era possibile, allora rimandano questo secondo gruppo.

Passa tutta la giornata, gli infermieri vengono a sapere la fine che hanno fatto quelli che erano andati prima, erano stati tutti passati per il gas. Allora questo mi dice: “Io ti chiamo quando viene l’ordine, tu rispondi presente ma invece resti qui.” Io domando perché questa cosa. Lui dice: “Perché tutto sommato è meglio stare qui, ormai la guerra è finita, un pezzo di pane in più te lo do io.” E così succede. L’indomani mattina chiamano tutti dalla M alla Z e tutti quanti vanno su, finiranno poi nella camera a gas e io, con un certo Pitto di Milano restiamo invece lì, procurando un grave guazzabuglio nel Lager. Perché? Cos’era successo? Siccome non c’era nessun infermiere italiano ma c’erano due infermieri polacchi, questi hanno detto: “Salviamo un testimone; tu salvi un polacco e io salvo un italiano”. E avevano deciso di salvare me. Poi si sono trovati anche Pitto, per cui hanno litigato fra di loro. Invece di uno ne hanno salvati due.

Poi è successo che la SS non se n’è andata lo stesso, voleva ancora prenderne degli altri e sono venuti un’altra volta e allora, per sfuggire all’ultima selezione, mi hanno schiaffato con gli ebrei. Cosa succedeva? Nell’ultimissimo periodo gli ebrei non li uccidevano più. Non solo ma davano loro persino la razione doppia della nostra.

Perché questo? Si è saputo poi dopo il motivo. Il motivo era che la Germania aveva chiesto la pace separata agli alleati, in cambio avrebbe continuato a fare la guerra soltanto con la Russia ma come contropartita non avrebbe più ucciso ebrei.