Pinosio Ester

Ester Pinosio

Nata a Molmacco (UD) il 12.07.1917

Intervista del: 20.06.2000 a Udine realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 137 – durata: 56′ circa

Arresto: il 26.07.1944 a casa

Carcerazione: Carceri di Cividale, carceri di Udine in via Spalato

Deportazione: Auschwitz

Liberazione: 8 maggio 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono nata il 12 Luglio del 1917.

D: E ti chiami?

R: Mi chiamo Pinosio Ester Ines, sono nata nel Comune di Molmacco.

D: Provincia?

R: Provincia di Udine. Sono cresciuta in una famiglia povera ma onesta. Poi a 17 anni ho avuto un figlio e dopo mi sono sposata. Ho sposato un marito che era molto antifascista. Lui dopo l’8 settembre aveva paura ed è andato in montagna come gli altri. Io sono rimasta sola. Tre o quattro giorni dopo mi manda a chiamare, insieme ad altre donne siamo andate in montagna, nei paesi nostri su a Masarolis, da quelle parti là. Abbiamo portato quello che abbiamo potuto. Poi mi ha richiamata un’altra volta. Mi sono fermata tre giorni con lui, poi io non l’ho visto più. Lui al 6 ottobre è caduto tramite un rastrellamento di tedeschi. Per tre mesi non ho saputo niente. Io andavo in cerca di lui, di qua, di là, chiedevo informazioni. “Avete visto questa persona?” Tutti mi dicevano di no fin quando ho trovato una persona, andando a Cividale a fare la spesa e ho chiesto: “E’ venuto tuo cognato?” “Sì”, mi dice. Dopo mi fa: “Tu sola sei stata disgraziata”. “Perché?”, gli ho chiesto. “Ma come, non sai che tuo marito è morto?” Io in quel momento pensavo che il mondo mi crollasse.

Sono venuta a casa, avevo due figli, uno aveva otto anni e l’altro ne aveva sei e ho tirato avanti come ho potuto. Il giorno che ho saputo che lui era morto mi hanno fatto la carità di cento lire. Ho tirato avanti con quelli, poi ho lavorato, ho fatto quello che ho potuto. Non ho fatto male a nessuno, però c’era un fascista in camicia nera che abitava vicino a me.

Io nel mio piccolo ho aiutato un po’ i partigiani a portare qualche cosa, qualche manifesto, insomma quello che si poteva in quei periodi lì. Eravamo sempre sul principio del ’44. Ho tirato avanti fino al mese di luglio del ’44. La sera del 23 è venuta una persona e mi ha detto: “Guarda che arrivo dal comando e ho visto il tuo nome”. Io ho detto: “Io non ho fatto male a nessuno, non credo che gli altri mi facciano del male”. Comunque ha detto: “Se puoi, scappa”. “Non ho niente per scappare, ho due figli, uno di sei e uno di otto, dove vado? Non ho una lira in tasca”. Il 26 ero a casa con mia sorella e una mia amica. Sento un movimento fuori dalla porta. Guardo per una fessura e mi vedo circondata la casa. Io come minimo penso che erano venticinque tedeschi. Bussano alla porta, apro, avevo il cuore in gola, dico la verità. Allora entrano col fucile spianato e lo puntano. “Tira fuori una carta” e mi fa: “Cerchiamo questa persona”. “Chi cerca? Mi dica il nome”. Era una di Bolzano, parlava abbastanza bene l’italiano. Mi dice: “Cerco una Calderini Ines”. Io ero vedova Calderini. In quel momento non sono andata a pensare che potevo dire magari: “Mi chiamo Pinosio”. Ho detto: “Sono io”. “Bene, prenda lo spazzolino, quello che le occorre e venga con me”. Questa mia amica che era vicino che mi faceva compagnia l’hanno presa anche lei, l’hanno portata via anche lei. Si chiama Angeli Lina questa.

Ci hanno prese. Passando davanti alla postazione perché avevamo la postazione a 100 metri di distanza, era questa famosa fascista e dice: “Chi va là?” Coi tedeschi e noi in mezzo. E gli ho risposto: “Tu lo sai chi è”. Ci hanno portati nelle carceri della caserma degli alpini a Cividale che è fuori Cividale. Lì siamo state cinque giorni, poi ci hanno fatto segno nell’orologio che alla una venivano a prenderci. Ci hanno caricate sul camion, ci hanno portate a Udine, ci hanno fatto fare tutto il giro di Udine e poi siamo andati al giardino, al liceo e lì ci hanno fatte entrare, ci guardavano in faccia e buonanotte, ci lasciavano uscire. Poi ci hanno portate direttamente alle carceri in Via Spalato. Lì siamo state quaranta giorni. La mia amica è partita otto giorni prima di me. Ha avuto la fortuna che non è andata in un brutto campo, si è fermata a … lei non sapeva di me, io non sapevo di lei. Otto giorni dopo … posso continuare? Prima abbiamo avuto l’interrogatorio. Io penso che il mio cuore quel giorno non andava a 90, andava a 190, andavo giù e faceva il cuore così. Mi ha interrogata e mi ha detto che io sono una spia dei partigiani e mi ha chiesto perché mi vestivo in nero. Le ho detto: “Mi è morto un bambino”. E lui mi ha detto: “Suo marito dov’è?” Io gli ho detto: “Mio marito era a militare e io non so dov’è. Non è venuto a casa”. “Ma sa, signora, che nel suo paese nessuno le vuol bene?” “Ma questo non ha importanza per me, io non ho fatto male a nessuno”, gli ho detto. “Vedrà signora che la metteremo in un posto dove nessuno le farà male”. Ho pensato: “Mi metteranno a lavorare”. “Faccia portare da casa più roba che è possibile”. Bene, sono andata su col cuore in gola. Non Le posso raccontare tutti i particolari perché non vale la pena, penso che lei abbia idea che cos’è un interrogatorio con un maresciallo della SS. Siamo andati su, dopo un po’ di sere arriva la suora alle nove alla sera. Prima chiama tutti gli altri e poi in ultimo mi fa: “Ester, ci sei anche tu”. Io credevo di morire quella sera, perché nessuno sapeva. Va bene, io avevo dentro amiche che tuttora sono a Roma e abbiamo parlato e pianto tutta la notte. Alla mattina alle sette sono venuti a prenderci, siamo andate alla stazione. Alla stazione, hanno bombardato quel giorno a Udine. Erano le sei che eravamo ancora lì che si aspettava la tradotta che venisse da Trieste

D: Ti ricordi che giorno e che mese erano?

R: Era l’8 settembre del 1944. Mi ricordo anche l’ora. Alle sei alla sera è arrivato il convoglio, tra parentesi veniva da Gorizia e Trieste e noi eravamo con quelle che hanno preso a Udine nelle carceri. Eravamo sette o otto in questa vettura chiuse dentro. Abbiamo fatto cinque notti e quattro giorni.

D: In quanti eravate, più o meno?

R: Più o meno in questa vettura eravamo in sette, tutte friulane.

D: Ma complessivamente quante donne?

R: Io non l’ho visto il treno quant’era lungo, so che dopo quando siamo arrivati erano una infinità di gente.

D: Da Udine eravate in sette.

R: Da Udine siamo partite noi sette in una vettura sola, in un vagone e le altre venivano dietro, ma noi non siamo né scese e né niente.

D: Scusa Ester, era un vagone o un carro bestiame?

R: Un carro bestiame, non mi veniva la parola, era un carro bestiame.

D: In questo carro eravate solamente voi sette?

R: Noi sette, sì.

D: E basta?

R: Sì, e dietro c’era tutto il convoglio pieno che veniva dalle altri parti.

D: Vi hanno chiuse dentro?

R: Altro che. Una volta ci hanno aperto a Klagenfurt, alla mattina dopo, una volta in Cecoslovacchia e basta. Dopo siamo arrivate. Dopo tutto questo famoso viaggio di cinque notti e quattro giorni arriviamo. Però Le voglio dire un’altra cosa. Il tedesco che ci accompagnava, che era sul predellino del treno quando eravamo in Austria, lui è sceso con noi fino ad Auschwitz, è venuto uno con la camicia nera. Sa cosa ci ha detto quando siamo arrivate? “Vi lascio, adesso mangiate la pommarola in coppa, la pastasciutta con la pommarola in coppa”. “Ti pigliasse un accidente”, gli ho detto, “Non potessi tornare a casa più”. Scendiamo da questo treno.

D: Il treno è andato dentro nel campo?

R: É entrato dentro proprio nel campo.

D: Ed era il campo di?

R: Il campo di Auschwitz.

D: Auschwitz …

R: Io adesso non posso dire come mi sono trovata ad essere in quel momento perché scendere da questo carro bestiame, vedere quei morti che camminavano con le coperte, coi vestiti a righe, mi è crollato il mondo addosso. Ho detto: “Ma io non sono io più. Non può essere che una persona che ha vissuto fino adesso nel suo essere con figli, con marito, trovarmi di fronte a queste cose”. Pensavo che in quel momento Dio non esistesse, perché era una cosa più che bestiale vedere queste donne che sono salite, portato via quella borsa, quel poco che si aveva per la strada.

D: Ester, siete arrivate di giorno o di sera?

R: Siamo arrivate alle cinque di sera.

D: Chi c’era con te, te lo ricordi?

R: C’era la Anna, la Elvia Bergamasco, la Danzulk che è morta disgraziata, è morta dopo a casa. Dopo c’era Felicita e Emma, la mamma di Luisa che adesso io non so come si chiamano di nome, non mi ricordo. Poi c’era un’altra di Cividale come me e una donnina della Carnia.

Lì ci hanno incolonnate e ci hanno portato camminando in una stanza. Eravamo in fila una dietro l’atra, con tutti quei tedeschi, le polacche, tutte vestite a righe. Prima ci hanno preso tutto quello avevamo, oro, argento, orecchini, tutto quello. Poi ci hanno spogliate completamente nude come la mamma ci aveva fatto. Poi ci hanno rasate non solo lì e via discorrendo. Dopo ci hanno fatto il numero per ordine che si passava, ci facevano il numero.

D: E il tuo numero qual è?

R: Io ho il numero 88.602.

D: Ti ricordi come facevano a farvi il numero?

R: Mi hanno preso il braccio così. Una che era esperta perché espertissima, tic, tic, tic, in un attimo mi ha fatto il numero.

D: Eravate sedute?

R: No, in piedi e nude. Poi dopo di lì…

D: Quando vi facevano il numero avevano un elenco dei nomi?

R: Io ero sempre su Calderini, ma dopo di lì il mio nome è morto, finito. Io ero un numero, nessuno chiamava Ester, o Ines, no, 88.602, adesso non mi ricordo come si diceva in tedesco. Di lì mi hanno dato un vestito d’estate a fiori, era il mese di settembre in Polonia, era già freddo, un paio di zoccoli di legno, un paio di mutandine e mi pare che avevo anche una sottoveste. Il resto, ci hanno portati in questa stanza immensa, ma eravamo quasi, non dico di preciso il numero, ma eravamo abbastanza.

D: C’erano anche delle ragazzine o delle donne anziane?

R: Erano ragazzine, madri e figlie, sorelle. Mi ricordo che c’era una ragazza che aveva i capelli lunghi e quando l’hanno rasata piangeva, gridava come una disperata. Ma era inutile piangere, non c’era niente da fare.

D: Vi hanno fatto le docce?

R: Adesso arrivo. Quando dopo ci hanno denudate tutte, ci hanno portate in queste docce. Un momento veniva l’acqua bollente e un momento veniva l’acqua fredda. Si era all’oscuro di quello che stava succedendo durante la doccia, comunque a noi non è successo niente. Abbiamo fatto la doccia e dopo siamo andate in questa famosa stanza. Era senza vetri, senza niente, ci siamo sedute per terra e li ho tirato su il vestito e mi sono coperta un po’ le braccia perché avevo freddo. Siamo state tutta la notte lì. Alla mattina alle cinque ci hanno prese, ci hanno portate in un’altra stanza oltre, abbiamo camminato abbastanza. Lì un’altra volta ci hanno spogliate nude e fatte sedere su una scala che veniva giù. Io disgraziatamente sono piccola, mi tocca sempre il primo posto, in basso. Quando era l’appello io ero sempre la prima davanti. Lì siamo state fino alle quattro dopo pranzo, sempre sedute nude su quella scala. Io non posso dire cosa si aveva dentro, cosa ci si sentiva. Io pensavo di essere già morta. Priva di sentimenti, priva di pensieri, priva di tutto ero. Comunque dopo gira, rigira, sono passati due giorni, che si era ancora in giro un po’ nude, un po’ vestite, un po’ così, un po’ colà. Dopo il terzo giorno ci hanno portate nel cortile e ci hanno dato il primo pasto. Mi ricordo che era una scodellaccia così e dentro non so se era avena, orzo, io non so cos’era. So che non ho mangiato, non mi andava. Dopo di lì ci hanno lasciato fino alle quattro, quattro e mezzo, non so l’ora precisa. Alle cinque è venuto il primo appello, cinque per cinque, eravamo lì che si aspettava, ma non avevamo ancora dove andare a dormire, non avevamo ancora il posto. Passa un camion a rimorchio, passa, un’ora dopo ritorna. Era pieno zeppo di cadaveri, non so se Anna le ha detto questo. Al primo momento venivano a tutte giù le lacrime, sembra una cosa indescrivibile con queste pance ritirate, con queste costole. Tutti questi cadaveri che traballavano sui camion a rimorchio, “Mamma mia”, abbiamo detto, “chissà che fine faremo”.

All’indomani sera siamo all’appello un’altra volta; tutto il tiriteri di prima, passa il camion un’altra volta. Ormai eravamo già abituate. Oggi a te, domani a me, ci siamo messe persino a ridere in quel momento a vedere questo. Finalmente siamo andate al blocco che era il numero 22, la baracca numero 22 e lì ci hanno messe a dormire. Io mi ricordo che ci hanno messo a dormire in queste … tre per tre. Il posto non era più largo di questa tavola. Io dormivo con la testa da una parte e le altre avevano i piedi sulla mia testa e io avevo i piedi sulla testa delle altre. Eravamo tre e tre erano dall’altra parte. Eravamo in sei divise, una coperta in tutte e tre. Dopo alla mattina alle quattro sveglia, c’era l’appello nel cortile e lì si stava fino alle nove a secondo che arrivava il comandante. Prima era la polacca o la … tutte quelle cose, poi in ultimo passava il comandante e allora dopo ci faceva andare un’altra volta dentro in blocco. Poi dopo magari un giorno sì e un giorno no veniva lo spidocchimento, dicevano. Allora giù nude un’altra volta in mezzo al cortile con un pennello, giuro che io non dico cretinate, né bugie, né niente, con un pennello con dell’acquaragia, non so cos’era, ci davano una pennellata sempre con quei vestiti,. Siamo state da quando siamo arrivate il 12, fino al mese di novembre.

D: Scusa Ester, torno un attimo indietro. Come siete arrivate? Tu dicevi che vi hanno tolto tutto.

R: Tutto sì.

D: Hanno fatto delle ispezioni corporali a qualcuna che aveva nascosto magari qualcosa da qualche parte?

R: Sì, ma superficialmente però, almeno quello che ho visto. Per dire la verità non è stata una violenza, perché talmente ci disprezzavano che nemmeno ci… no, mi sentivo umiliata io, come tutte perché si era abbastanza giovani, di fronte a tutti questi uomini. Lasciamo passare quelle cose lì. Comunque lì, dopo abbiamo visto diverse cose. Mi ricordo che di fronte alla baracca 22 c’era la baracca dei bambini. Saranno stati, non dico tanti, ma quattrocento bambini dentro in quella baracca, di tutte le età. Una sera li abbiamo visti che giocavano, parecchie sere; una mattina non esisteva più un bambino. Spariti completamente. Però io sono uscita diverse volte di notte perché disgraziatamente mi tocca uscire e ho visto il camino che andava, il camino, le fiamme, quell’odore, ma la prima volta che ho visto ho detto: “Cosa sarà, cosa non sarà?” Ma dopo radio Auschwitz passava la voce e allora è venuto fuori quello del gas che bruciavano e via discorrendo. Così anche i bambini sono spariti, perché se arrivava un convoglio di ebrei oppure di ariani, se erano abbastanza in forza, allora li mettevano da una parte, ma se per esempio erano vecchi o zoppicanti o malati, li mettevano a sinistra, quelli di sinistra andavano e quelli di destra erano buoni per lavorare. Questo ci è toccato a noi, mentre a destra …

D: Ascolta Ester, lì nel tuo Block eravate tutte donne, eravate in tante?

R: Sì, eravamo polacche, russe, francesi, greche, albanesi, zingari, era tutte le qualità di gente.

D: Tutte con il triangolo rosso?

R: No, il triangolo rosso erano le deportate politiche, poi era il giallo, era … ognuno aveva il suo distintivo, adesso non mi ricordo tutti i colori che c’erano, comunque noi l’avevamo giallo, con sopra il numero e scritto: Italia.

D: Voi l’avevate rosso, non giallo.

R: Rosso eravamo ariane, cristiane e tutto.

D: Ascolta Ester, c’erano per caso in baracca delle donne incinte con voi?

R: Io non ne ho viste, con noi, una di San Pietro era incinta, però l’abbiamo saputo dopo, quando siamo state trasportate via. Lei si vede che ha nascosto oppure, con quel mangiare non poteva, comunque quella lì era incinta. Altro io non ho visto di donne incinte.

D: Visto che eravate tutte donne, il problema delle mestruazioni?

R: Scomparso completamente, anzi volevo dirle questo. Quando sono partita dalle carceri io avevo il ciclo, quando eravamo sotto la doccia andava, ma dopo finito completamente. Io in undici mesi non ho visto il ciclo una volta. Quando sono venuta a casa, come ieri, dopo due o tre giorni sono andata da un dottore, tanto per raccontare cos’era il ciclo e mi ha visitata. Mi aveva detto che io non avevo l’utero più alto di così.

Insomma, dopo un giorno una mia amica che è morta anche questa, è morta dopo a casa, mi dice: “Ines, vieni che andiamo, era una domenica, a fare un giro per il campo, vediamo se troviamo qualcosa, una … un radicchio selvatico, quelle cose lì”, ma a Auschwitz non cresceva l’erba. Ho il libro a casa, “Ad Auschwitz non cresceva l’erba”. Abbiamo fatto questa camminata, perché lei era un tipo che non aveva paura e poi aveva anche del fegato e mi dice: “Guarda dentro in quel buco”. Era un capannone grande. Lì c’erano i cadaveri ammucchiati fin sotto il tetto. Era quel camion che andava a caricare la sera i morti, perché li portavano col carretto, li mettevano lì e alla sera li prelevavano. Dopo nessuno sapeva perché dov’è il crematorio? Si sanno sempre dopo queste cose. Era invalicabile perché chi oltrepassava il muro oltre qua e andava di là, non usciva più, perché già vedeva tante cose, perché io ho letto anche il libro del dottore polacco che ha studiato in Germania e ha fatto il diario e il libro spiega tutto, tutto e lì chi entrava non usciva vivo più. Questo è successo ad Auschwitz. Fame non occorre dire, freddo non occorre dire, sonno non occorre dire, che era di tutto.

D: Visto che parli di medici, lì a … dov’eri te, è arrivato anche Mengele?

R: Era lui il capo forno. Era lui che dava gli ordini. Adesso io, leggendo il libro, ho capito quelle cose. Perché la via era tutto silenzio, nessuno sapeva.

D: Ma tu non l’hai mai visto?

R: Per l’amor di Dio. Nessuno l’ha visto quell’uomo perché lui era talmente solo dentro, Lei non so se ha letto il libro di Melange, il dottore di Auschwitz. Sono cose indescrivibili. E gli credo adesso perché sono stata al corrente, ho visto e sentito tante cose. Comunque…

D: Scusa ancora Ester, in questo periodo, voi siete arrivate a settembre e poi l’altro Transport l’hai avuto a novembre, avete lavorato voi nel campo?

R: No, si andava due o tre volte, siamo uscite da questo letto perché si era sempre chiuse dentro che era la quarantena. Ci hanno portato per il campo magari a portare sassi di qua, a portare di là, portarli via. Comunque fino a lì era grande fame, grande paura, grande disagio e non stiamo a parlare di altro perché, per l’amor di Dio. Finalmente un giorno arriva la capa, era una polacca.

D: Voi friulane eravate tute assieme nel blocco?

R: Io ero con Elvia, Anna dopo, io ero qua e loro erano in un’altra … di là. Io ero con queste di Udine, queste due signore che dopo è morta di là, l’altra … dopo ci siamo perse perché io ho avuto la fortuna di essere trasportata perché è venuto il mercante di schiave, perché avevano bisogno di manodopera nelle fabbriche. E allora abbiamo avuto la fortuna io, Anna Appia e la Bergamasco Elvia e tutte le altre che erano arrivate con quel convoglio. Però sempre radio Auschwitz ha detto che era abbastanza un buon trasporto. Allora qua era un mucchio di vestiti, là era un mucchio di scarpe e via discorrendo. “Schnell, schnell”, prendo un vestito che era lungo fino ai piedi, prendo una scarpa rossa e una scarpa nera. Ho fatto tutto il tempo con queste due scarpe, una rossa e una nera, non ha importanza. Dopo alla sera ci hanno preparato, ci hanno dato una pagnotta di pane così e un pezzo di margarina. Ci hanno chiuse dentro, come ha detto Lei che si chiama il carro bestiame. Nel carro bestiame eravamo in ottanta dentro dopo. Non c’era posto né di sedersi, né di stare in piedi, in ottanta lì quando quaranta persone era sufficiente. Anche lì abbiamo viaggiato abbastanza, quattro o cinque giorni, sempre, sempre. Non sto a spiegare tutto quello. Finalmente siamo arrivate a … era una grande città. Ci hanno portato nel Block, perché loro dicevano Block. Era il quarto o quinto piano e sotto erano tutte fabbriche. Siamo rimaste lì un giorno e una notte. Poi all’indomani ci hanno fatto sedere tutte nei tavoli e ci hanno fatto come un esame. Chi era capace di lavorare in una maniera, chi un’altra, chi faceva questo, chi faceva l’altro perché si doveva andare a lavorare. Erano due fabbriche lì e una era fuori; io, Anna, Appia e Elvia siamo andate fuori. Si partiva alla mattina, ci si alzava alle quattro, c’era l’appello da fare poi andare a prendere quel poco di tè che dicevano loro, che non era altro che girasole, non so cosa c’era dentro, acqua nera e poi alle sei si doveva già essere in fabbrica, con due tedeschi, uno avanti e uno indietro con un cane ciascuno, due tedesche e poi c’era un’infermiera polacca con noi. E lì si partiva, si arrivava giusto a dire un rosario che si arrivava sul lavoro. Era d’aver paura, si pregava volentieri quella volta. Si arrivava sul lavoro, si dava il cambio a quelle che avevano fatto la notte, sempre con un po’ di quella brodaglia nera. A mezzogiorno ci davano una scodella di rape, un po’ di carote dentro e acqua. Alle 12,30 si riprendeva il lavoro fino alle sei la sera. Alle sei si rientrava in blocco, sempre accompagnate con cani, militari e via discorrendo e lì ci aspettavano sulla porta, ci contavano e poi ci davano una volta erano tre patatine, un’altra volta ci davano un pane per cinque. Noi avevamo fatto una misura che si prendeva una misura, guai un grammo di più o un grammo di meno, e si tagliava e si mangiava quel pane con un pezzettino di margarina così e basta. All’indomani o alla sera replica. Lì abbiamo fatto sei mesi, quello era il lavoro, perché si facevano armi in quella fabbrica, c’erano solo armi. Era un lavoro a catena. Partiva e arrivava. Lì abbiamo fatto sei mesi.

D: Che tipo di armi facevate?

R: Io penso che erano interruttori per mitraglie. Perché era un affare lungo così. Era una catena di montaggio, ecco cos’era. Si partiva da un ferro e si arrivava al punto giusto che era già in casetta.

D: Ti ricordi se questa fabbrica aveva un nome?

R: Mi pare che stata … come si chiamava quel grande industriale, come si chiama?

D: Krupp.

R: Ecco era di lui la fabbrica. E lì, specialmente di notte io non potevo mai dormire di giorno perché sono un tipo nervoso, pare di no, ma dentro mi rosica. Quando si doveva andare in bagno, si doveva dire: “Signora padrona, mi lascia andare in bagno, per cortesia?” Mi accompagnava fino alla porta e mi aspettava fuori. Non solo a me, a tutte.

D: C’erano anche dei civili in fabbrica?

R: Sì erano due vecchi. Uno era una bestia di uomo, cattivo proprio, SS quello era. Invece l’altro era abbastanza.., perché si poteva anche… magari era rotta la macchina, si andava a chiamarlo, si diceva la “Machine Kaput”, allora veniva vicino, cambiava il pezzo. Non diceva niente, ma l’altro guardava come fossimo bestie. Lì siamo state fino a che abbiamo cominciato a sentire i cannoni dalla parte russa. O bene o male l’abbiamo passata fino alla metà di aprile, no, ai primi di aprile mi pare che eravamo. Ci hanno trasportate. Prima è venuto un grande bombardamento, mi dimenticavo questa cosa. A mezzogiorno è venuto un grande bombardamento, ha rotto la corrente elettrica, l’acqua, tutto. Le fabbriche erano demolite. Alla sera sono tornati, hanno fatto così, così e così. Hanno distrutto tutta la città, fabbriche, case, tutto. Allora ci hanno mandate a portare via le macerie. Però si andava sulle scale, ma noi quando avevamo due minuti di riposo, si cantava: “Bandiera rossa la trionferà”. Ci davamo coraggio. Poi c’era una tedesca con noi, che quando aveva due minuti di riposo, ci diceva in tedesco: “Io non ho mai arrivato a capire. Mi cantate la canzone Mamma?” Intanto si riposava dieci minuti e noi le cantavamo la canzone Mamma e dopo si metteva un’altra volta a portare questo. Finalmente dopo è venuto il trasporto un’altra volta.

Siamo andati un pezzo in treno, poi abbiamo camminato tutta la giornata. Siamo arrivati in Cecoslovacchia, prima siamo andati a …, era un sottocampo, sempre in compagnia di quelle due là. Dopo di lì avanzava ancora il fronte da una parte e dall’altra. Siamo andati a … lì era una polveriera, era ancora in azione che lavoravano. Un po’ sono andate a lavorare, parlo di cinquecento donne perché il trasporto è stato immenso quella volta, quando siamo andati a… il trasporto era di tutte le razze. A… c’era questa polveriera. Anna e Elvia sono andate in polveriera, io ho avuto la fortuna che sono andata in ferrovia a lavorare. Allora si scaricava e si caricavano bombe. Si metteva da una vettura all’altra, all’altra lì, si faceva questo lavoro, non c’era altro da fare. Un giorno, penso che sia stato un capitano dell’esercito non della SS, è venuto vicino e mi ha chiesto di dove eravamp. Gli abbiamo detto che eravamo italiane. Allora lui ha detto: “In Italia la guerra finita. Mussolini …” ha fatto. Ci siamo date coraggio, abbiamo finito di lavorare, all’indomani un’altra volta e sempre l’appello alla mattina presto. Io che ero piccola, sempre davanti. Alla mattina, l’8 maggio l’ultimo giorno di guerra, l’8 maggio sono le sette, niente sveglia. Sette e mezza, niente sveglia, perché aprivano la porta … la prima cosa. Niente, urca boia vedrai che sarà qualche.. oggi. Andiamo fuori, neanche un tedesco. Almeno avessimo trovato uno per dargli in carico di botte, niente. Spariti come la neve al sole. Neanche uno.

Dico a Anna e a Elvia, poi eravamo cinque o sei o forse più italiane: “Cosa facciamo? Andiamo a casa, è finita, non c’è nessuno. Dove andiamo? Andiamo a casa. Usciamo da questo cortile, da questo sottocampo”, perché era un sottocampo. “Dove andiamo adesso? Andiamo di qua o andiamo di là?” Eravamo in Cecoslovacchia. “Andiamo da quella parte, forse di là sarà l’Italia, di qua no perché penso che sia un’altra direzione”. Ci siamo incamminate, io sempre con quelle scarpe una per sorta, solo quella … che ci avevano dato, piene di fame che non occorre parlare. Abbiamo camminato tutta la giornata sotto le bombe, sotto le mitraglie, gli apparecchi che bombardavano. Scappa in un fosso, i tedeschi che scappavano, gli inglesi che gli correvano dietro, i russi dall’altra parte. Mamma mia. Allora quel giorno abbiamo fatto un voto, io, Anna e Elvia, abbiamo detto: “Se Cristo ci dà la…”. Eravamo venute sul serio molto credenti quella volta. Io non sono mai stata credente, sono cattolica, sono cristiana, vado a messa quando posso, ma non bigotta. Abbiamo fatto questa promessa che se Dio ci dà la grazia di andare a vedere i miei figli, io volevo andare a vedere i miei figli e mia mamma, il marito sapevo che era morto, andiamo a Castel Monte, andiamo a piedi perché abbiamo la Madonna di Castel Monte, non so se avete sentito. … Abbiamo fatto questa promessa con la Madonna di Castel Monte. Grazie a Dio quando erano le sette alla sera sentiamo: bum, bum, bum. Mamma mia, un’altra volta gli apparecchi. Mi giro e vedo un carro armato con una stella rossa così. Mamma mia, adesso è finita proprio. Cosa faccio? Mi butto in un fosso. C’erano gli alberi di qua e di là, sempre in Cecoslovacchia. Mi butto in fosso, Elvia, Anna, quelle lì non so dov’erano. Passa il primo carro armato e ci dice: “Andate in parte”. Passa il secondo, comincia a buttare pane, burro, liquori, sigarette. Io mi prendo una pagnotta così e un pezzettino di burro, mi sono seduta in questo fosso e ho mangiato tutta la pagnotta. Sono stata bene tutta la sera. Dopo era il problema, c’erano le truppe che venivano di qua. Di qua erano i tedeschi che scappavano, noi che si passava per la strada a piedi, disgraziate come pecore che non si sapeva dove andare. É venuta notte, siamo entrate in un casolare, abbiamo visto questo casolare dove mettono il fieno, la paglia. Andiamo a nasconderci là, perché trovarsi di fronte ad una disfatta del genere, non saper parlare, non sapere la lingua, essere pieni di paura e pieni di fame, non si sapeva cosa fare. Andiamo a nasconderci lì. Quando era verso le 11 sentiamo entrare, sono entrati i cosacchi, i russi, tutta quella gentaglia. Io avevo i pantaloni perché ci avevano dato i pantaloni quando eravamo a … per lavorare. Erano come bestie. Chi è arrivato a scappare è scappato, si è nascosto e chi non è arrivato è stato anche violentato. Lo dico sinceramente, mi deve credere. Io mi sono salvata solamente perché avevo i pantaloni.

E dopo, piano, piano all’indomani abbiamo detto: qui è inutile stare, siamo peggio che nel fuoco, peggio che a Auschwitz perché lì almeno hai il nemico di fronte. Abbiamo proseguito per la strada e siamo arrivati in un paese. In un paese troviamo come una villetta ma in mezzo al paese, una villetta abbandonata, aperta. Andiamo a dormire lì stasera. Eravamo sempre noi e poi c’era Gabriella, una slovena che parlava abbastanza bene. Siamo andate, abbiamo trovato questo bel letto, tutto bene lì, ma niente da mangiare. Non importa ormai avevo mangiato quella pagnotta, io non avevo più fame. Verso mezzanotte, l’una durante la notte avevo sentito bum, bum. Ah mamma mia, qua … un’altra volta. Invece le ha chiesto “Chi è?”. Lei ha risposto. Lui dice: “Sono un ufficiale russo”. Lei ci ha tradotto. Allora noi abbiamo detto: “Siamo cinque ragazze prigioniere, siamo scappate, siamo arrivate fino a qua, abbiamo paura”. Lui ha detto: “Di me non abbiate paura, non dovete aver paura, io sono una persona onesta”. Difatti è entrato, gli abbiamo aperto la porta, è andato nell’altra stanza, ha dormito lì. Dico la verità, perché non mi piace raccontare né più e né meno. Piuttosto meno che non più. E lì alla mattina si è alzato, si è fatto la barba, ci ha salutato ed è andato. Usciamo da questa villetta, da questa camera e sentiamo parlare l’italiano. Oh mamma mia, troviamo gli ex militari italiani liberati anche loro. Allora siamo andate vicino. Li abbiamo abbracciati, ci siamo messe a piangere e loro ci hanno detto: “Con chi siete?” “Siamo povere disgraziate sole, due, tre, quattro, cinque”, non so quante eravamo, perché ognuno andava per la sua strada, chi con francesi, con chi trovava insomma. Ci siamo aggregate a loro e con loro abbiamo fatto quasi tutta la Cecoslovacchia a piedi. Si camminava di giorno e di notte si andava nei campi o dove si vedeva che era un po’ nascosto perché si aveva molta paura.

Elvia, il secondo giorno dopo che sono arrivati i russi, ha mangiato la carne cruda. Elvia aveva diciassette anni, credo che abbia avuto più fame di me. Con quella si è ammalata. Siamo arrivati a Praga noi, piano, piano, col carro, coi cavalli. Io avevo fatto due o tre valigie di roba perché era pieno di roba per la strada, carri abbandonati, biancheria, ho sempre quelle mutande, almeno mi cambierò. Ho fatto le valigie, pesavano, butta via oggi, butta via domani, sono rimasta con quello che avevo addosso. Avevo sempre quei pantaloni e quella giacca. Siamo arrivati a Praga, siamo andate a dormire nella casa del consolato italiano. Era una stanza che era qualche cosa. Elvia aveva quarantadue di febbre. Domenico si chiamava, un meridionale, un militare, ha detto: “Non si può lasciare questa ragazza in queste condizioni”. Ha tanto fatto, tanto girato con questo carro e con lei sopra, l’ha portata all’ospedale. Giuro davanti a Dio che non vi dico una parola di più. L’abbiamo lasciata lì, io e Anna abbiamo continuato con loro fino sul confine che divideva dai russi o dagli inglesi o gli americani, quali erano e lì ci hanno aspettate gli americani, ci hanno portato col camion fino a Linz che sarebbe in Austria.

A Linz siamo rimaste quaranta giorni. Però avevamo cavalli che abbiamo ammazzato cavalli, si andava in cerca … hanno ammazzato gli italiani, quelli che facevano gli aguzzini. Hanno trovato un aguzzino mischiato con noi prigionieri, lo hanno messo sulla sedia, lo hanno legato e gli hanno fatto quello che lui ha fatto agli altri. Non l’hanno ammazzato, però i soldati nostri, dopo siamo andati a vedere, hanno ammazzato un ufficiale tedesco. Lo hanno appeso all’albero e gli hanno fatto la festa, ben fatta. Io ero priva di notizie, non avevo nessuno, non sapevo niente perché era impossibile. Finalmente arriva il giorno che ci hanno detto: “Domani viene la Croce Rossa, l’Opera Pontificia, trovatevi presto che vi vengono a prendere”. Ma da Linz fino a Bolzano siamo andate in treno perché era il 24 di giugno, come ieri l’altro, due giorni indietro. Siamo partite e finalmente arrivo a Udine, dopo molte peripezie per la strada.

D: A Bolzano dov’è che siete state… vi hanno trattenuto a Bolzano?

R: A Bolzano siamo state una notte.

D: Dove?

R: Adesso non mi ricordo. Non ricordo il posto perché io penso che ero euforica un poco. Io a pensare che ero viva, che io andavo a vedere i miei figli e mia mamma, perché avevo mia mamma viva, io ero non voltata di testa, ma ero talmente dentro di me che mi pareva di volare. Sono andata alla stazione a Udine, ho preso la littorina che va a Cividale. E quando sono tra Cividale e Udine, qui c’era Monzacco nel mezzo, il treno si ferma. E vedo uno che sale sul treno. Ho visto solo la gamba di dietro. Ho detto a quello che era con me che era uno di Cividale, un ex militare: “Quello là è mio fratello”. “Come fai a dirlo?” Io l’ho conosciuto dalla gamba, gli ho detto che è mio fratello. Parto, attraverso tutte le vetture, quelle che erano, arrivo e guardo dentro, dietro proprio alla porta che si apre era seduto mio fratello con un suo compagno. Io non ho detto niente, mi sono presa e mi sono seduta vicino a lui. Lui mi guarda, ha fatto così. Ci siamo messi a piangere tutti e due, ma dopo il momento più bello della mia vita, più emozionante, non so spiegare come, quando ho trovato i miei figli, mi è venuto vicino quello più vecchio che mi è morto, che sono cinque anni, avevo sessant’anni, mi è morto. Lui mi ha preso così: “Mamota”, capisce il friulano qualcuno? “Mamota sete tornada”. Non mi ha detto altro, poi è venuta mia mamma, ho visto mia mamma da lontano, le ho fatto così. “Ma quela è la Ines”, ha detto. Il giorno più bello della mia vita è stato quello lì. Dopo ho avuto un mucchio di gente, mie sorelle, mio fratello, tutti insomma, ho avuto persino l’arciprete che è venuto a salutarmi. Sì perché sono l’unica a Cividale che è stata presa, perché sono stata denunciata proprio, perché a Udine era la denuncia, dopo hanno preso anche mio fratello. E sulla carta di denuncia c’era scritto in tedesco ha detto perché mia mamma capiva un po’ il tedesco: digli a quello là se devo arrestare Tullio o se devo arrestare Bassetti che era quello della camicia nera che mi aveva denunciato anche a me. Allora vedi che noi avevamo già le prove e dopo in carcere a Udine, è stata la mamma della mia amica, era scritto il nome di Bassetti con la denuncia. Noi abbiamo avuto le prove schiaccianti, sicure. E si abitava vicino così.

D: Ester, durante il tuo periodo di deportazione ti sei mai ammalata?

R: No, ho avuto una volta trentanove di febbre, ma quando si era a … che si andava a lavorare nella fabbrica, il lavoro coatto che adesso dicono del lavoro coatto. Avevo mal di gola. Mi hanno lasciata un giorno e dopo all’indomani avevo trentotto, sono andata a lavorare lo stesso. Ecco questa è la mia storia. Una parola più, una parola meno.