Tintorri Romolo

Romolo Tintorri

Nato il 18.03.1928 a Loiano (BO)

Intervista del: 15.10.2004 a Bologna realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 197 – durata: 63′ circa

Arresto: giugno del 1944 a Sestola (in casa)

Carcerazione: a Pievepelago

Deportazione: Fossoli, Lager nei pressi di Berlino (non ricorda nome), Neuengamme, Wittenberg

Liberazione: 2 maggio 1945 durante fuga

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

Intanto dico le mie generalità. Sono Romolo Tintorri, sono nato a Loiano in Provincia di Bologna il 18 marzo 1928.

D: Quando ti hanno arrestato, Romolo?

R: Dunque, io sono nato a Loiano però mi hanno portato subito via perché mia mamma aveva sposato una persona di Sestola in Provincia di Modena, che è un paese climatico a 1.000 metri d’altezza, e mi hanno riportato lì dopo pochi giorni che ero nato. Quindi la mia vita l’ho passata sempre a Sestola, dove mio padre aveva un negozio di ferramenta.

Il mio paese, che è vicinissimo anche alla Repubblica, quella che è stata la Repubblica di Monte Fiorino, nei paraggi del modenese, era stato occupato da una formazione di Tomaso, che era un distaccamento della grande Formazione di Armando da Pavullo, e si viveva proprio, mi ricordo benissimo, addirittura abbiamo fatto una partita anche con i partigiani, quindi vivevamo in un momento quasi irreale, proprio al di fuori.

Naturalmente io sentivo che avevano fatto dei rastrellamenti a Pollinago, in tutti i paesi vicini, a Fanano dove addirittura avevano ucciso tre persone. Avevano impiccato ai lampioni della strada tre persone.

Vivevamo proprio… Però il mio paese, occupato dai partigiani, distava pochissimo, 25 chilometri da Pievepelago, dove c’erano le SS.

Una mattina, dunque il paese è stato occupato. sono stato preso verso la fine di giugno, verso la fine di giugno.

D: Di che anno?

R: Del 1944. Il mio paese è stato occupato, anzi è stato sostituito il vecchio podestà con un sindaco, sono stati attaccati i manifesti della Liberazione al campanile della chiesa, inneggiando a questa nuova e ritrovata libertà. Si viveva proprio come ho detto prima, in uno stato irreale.

Però una mattina alle 4 del mattino da Pievepelago, che distava 25 chilometri da Sestola, sono arrivati su tre camion questi SS, e questi uomini della gendarmeria. C’è stata una battaglia, mi ricordo, furibonda, veramente furibonda. A Sestola ci sono dei portici lungo il corso principale, mi ricordo una battaglia veramente tremenda, queste pallottole che fischiavano, una cosa veramente…

Io praticamente ero giovanissimo, avevo neanche sedici anni, pensavo che naturalmente non succedesse niente. Io sono rimasto in casa ed ho sentito ad un determinato momento che hanno bussato violentemente con il calcio del fucile nel portone, una volta nelle ferramenta, nei negozi ai vecchi tempi c’erano ancora i portoni di legno, ed allora mio padre poveretto ha tardato, sebbene fosse abbastanza giovane, ha tardato ad aprire, allora i tedeschi lo hanno colpito violentemente con il calcio del fucile e gli hanno rotto tre costole.

Poi dopo naturalmente io sono rimasto in casa, invece sono venuti di sopra e mi hanno preso, mi hanno buttato giù perché noi avevamo la scaletta che finiva nella ferramenta. Mi hanno buttato giù in ferramenta e poi mi hanno portato nel centro del paese, proprio lunga la mura della Piazza della Vittoria, della piazza principale di Sestola, tuttora esistente, e ci hanno messi tutti lì in fila.

Hanno incendiato tre alberghi di Sestola, ho visto che hanno fatto razzia di quei pochi apparecchi radio che c’erano una volta, alcune biciclette. Poi naturalmente aspettavamo con trepidazione quello che sarebbe successo.

Per fortuna non c’è stato nessun morto da nessuna parte, né dalla parte dei partigiani né dalla parte dei tedeschi. Praticamente noi pensavamo che poi ci liberassero.

Invece no, siamo stati caricati su dei camion, siamo stati caricati.

Mio padre non era stato preso, ha voluto venire via con me. Ho visto mio padre che trascinandosi, perché era stato colpito qui dietro, trascinandosi tra lo stupore mio e degli stessi tedeschi è salito anche lui sul camion ed ha voluto seguirmi. Uno di quegli eroismi sconosciuti che quando racconto ai bambini delle scuole, vado a fare le testimonianze, rimane molto impresso questo amore paterno così grande.

D: Romolo, scusa, oltre a te quante altre persone hanno preso?

R: Hanno preso anche delle altre persone, però alcuni, non so perché, prima di partire i camion sono state liberate, non so per intercessione di chi, o del parroco, mi sembra di Don Pedroni che c’era il parroco lì. Noi invece siamo stati portati a Pievepelago, nel famoso carcere della Gestapo, che si chiamava la Direttoria, pensate.

Siamo rimasti in questa prigione per cinque giorni. Hanno incominciato ad interrogarci. Anche a me hanno dato uno schiaffo, mi prendevano, mi strattonavano per sapere certe cose che alla mia età poi non è che sapessi.

Invece mio padre forse chissà, si vede che qualcuno aveva parlato, aiutava un po’ i partigiani perché era in condizioni, noi eravamo in condizioni abbastanza buone, quindi avevamo la possibilità di dare qualcosa a questi movimenti partigiani.

Lì siamo rimasti cinque giorni. Pensate che con noi c’era anche uno che poi è diventato un senatore democristiano, pensate, ha avuto degli incarichi di governo, un certo Bisori, che è diventato poi senatore della Repubblica.

Dopo cinque giorni siamo stati caricati, ci hanno caricati su un camion, eravamo rimaste una decina di persone, non di più.

D: C’erano anche delle donne?

R: Niente, nessuna donna. Solo uomini. Nessuna donna.

Ci hanno portato in camion a Fossoli, a Fossoli di Carpi.

Appena arrivati naturalmente a Fossoli di Carpi le solite cose che fanno nei campi di concentramento, rasatura, depilarci e via, interrogatori, e poi ci hanno assegnato nelle diverse baracche. Io ero nella baracca 18 A, ed avevo questo numero che conservo con particolare… Sì, l’avevo anche perso addirittura durante una testimonianza, ma poi l’ho ritrovato. Avevo il 2548, mi padre 2547. Questo è originale, è l’originale del campo di concentramento di Fossoli di Carpi.

D: Scusa Romolo, il babbo non l’hanno rilasciato?

R: No, il babbo non l’hanno rilasciato, è sempre rimasto con me. L’hanno interrogato, pensavo: “Magari potrebbero anche rilasciarlo”, invece l’hanno portato a Fossoli anche lui.

D: Tu durante gli interrogatori sei stato accusato di qualcosa?

R: No, non sono stato accusato, volevano assolutamente sapere di questi movimenti partigiani, specialmente le posizioni, specialmente le case dove a Sestola erano ospitati i partigiani e l’albergo dove naturalmente fino all’ultimo sono stati dentro i partigiani. Quelle cose lì più che altro. A mio padre non so, hanno chiesto altre cose, se lui aveva aiutato i partigiani, perché avevano saputo che mio padre qualcosa dava, quello che poteva dava ai partigiani.

D: Fossoli, baracca 18 A.

R: Baracca 18 A, campo lungo un chilometro per due, anticamera dei campi di sterminio, Fossoli. Lì abbiamo passato uno dei periodi più tremendi della mia storia di deportazione. Perché l’11 luglio del 1944, come dice Collotti anche nel libro… forse io sono uno dei pochi superstiti di quel famoso giorno dove hanno chiamato queste persone.

Però eravamo tutti, naturalmente avevamo l’appello alle 19, nella piazza dell’appello, che lì non si chiamava ancora Appel Platz, ci trovavamo tutti lì, ha incominciato il maresciallo Haage, che comandava più… Il comandante del campo era Thito, il tenente Thito, però naturalmente chi comandava e chi faceva era il maresciallo Haage…

Ha incominciato a chiamare ed io mi ricordo, chiamavano nominalmente e non per numero. Mio padre mi ha detto: “Guarda Romolo”, quasi prevedesse quello che poi sarebbe successo, oppure chissà cosa pensava, mi ha detto: “Romolo, se chiamano te ci vado io”. Un’altra cosa meravigliosa da parte di un padre.

Comunque non ci hanno chiamato e ne hanno tirati fuori settantuno, vero?

D: Ma chiamavano con una lista?

R: Con una lista già. Perché poi ho letto dopo, perché leggo come un pazzo tutti questi libri della deportazione, perché è un po’ la mia vita ormai rimasta, era un ordine che era arrivato da Verona, dal comando di Verona. Perché Haage e Tito andavamo lì, ogni tanto Thito si spostava a Verona ed andava a prendere ordini su quello. Infatti Gasparotto che è stato ucciso in giugno è stato un ordine che è arrivato da Verona.

Dopo naturalmente questi settantuno chiamati sono stati messi dentro in una baracca, rinchiusi in una baracca. Il nostro comandante di campo italiano, quello che faceva un po’ chiamiamoli “”interessi, era Maltagliati del Partito d’Azione, del Partito d’Azione, ed ha avvisato questa gente: “Guardate che purtroppo vi succederà qualcosa di non simpatico, cercate di fare qualcosa”.

Allora durante la notte si è sentita questa gente che urlava, che batteva contro questa baracca, una notte veramente tremenda.

Di questi settantuno adesso… Teresio Olivelli si nascose, l’ho visto, lo conosco benissimo, un uomo meraviglioso, un esponente dell’Azione Cattolica, credo che ci sia il processo di beatificazione presto, vero? Teresio Olivelli si nascose nella baracca 15, nella baracca dei pagliericci, nella baracca dei pagliericci sotto.

Così naturalmente i tedeschi non avevano, erano talmente portati… e poi consideravano anche quello che stavano facendo, si vede che non ci hanno più pensato, non li hanno più contati, loro sono partiti, sono partiti alle quattro, il primo è partito alle quattro del mattino con venticinque deportati.

Pensa che io li conoscevo tutti, conoscevo il generale Robolotti, perché ero uno dei più giovani e quindi sai, qualche scherzo, qualche piccola cosa, “ragazzo” mi chiamavano. Robolotti, Panceri, di vista così li vedevo tutti.

Il primo è stato alle 4.00, sono partiti e li hanno portati al poligono di Carpi di Cibeno. Il primo gruppo li hanno uccisi, li hanno fatti inginocchiare vicino ad una buca che era stata fatta da degli ebrei, otto ebrei, l’avevano fatta il giorno prima o due giorni prima, avevano scavato questa buca al poligono, li hanno fatti inginocchiare. Anzi no, seduti così con le gambe accavallate li avevano messi. Poi il primo gruppo li hanno uccisi subito, però il secondo gruppo naturalmente hanno sentito gli altri, hanno capito quello che succedeva, alcuni si sono ribellati ed infatti gli Emina e poi Mario Fasoli, il muratore, sono riusciti a scappare, tanto che Fasoli è stato anche colpito in una gamba ed ha continuato lo stesso questa corsa pazzesca in mezzo ai campi per parecchio tempo. Così loro sono stati liberati, nonostante che un russo, un guardiano russo, di quelli che naturalmente lavoravano per la Germania, delle SS, sparava come un pazzo contro questa povera gente.

Così due sono riusciti a fuggire. Di questi settantuno ne hanno ammazzati sessantasette, perché Caremini fu levato via dalla lista per l’intercessione di un’impiegata che forse aveva un debole, non so. Ed un’altra persona che è Baroncini mi sembra, non mi ricordo il numero, che è stato levato all’ultimo momento dal maresciallo Thito perché era una persona che faceva dei piccoli… era muratore e faceva dei lavori nel campo, quindi era utilissimo alla continuazione di questo.

Di questi settantuno ne hanno ammazzati sessantasette.

Poi per ingannarli avevano caricato anche un camion con tutte le valigie, e questo camion… Mi ricordo che sono tornati, questi li abbiamo visti proprio noi, che uno di questi tedeschi, di queste SS, aveva un braccio fasciato, poi tutti graffiati. Poi avevano preso, rubato gli orologi ed altre cose che aveva questa povera gente, se le erano messe loro.

Io avevo la baracca 18 A, dietro c’era una specie di prato libero dove hanno buttato tutte le valigie. Questo mucchio di valige poi l’hanno bruciato, e noi dopo abbiamo capito, abbiamo capito anche prima, però abbiamo visto che naturalmente era successa una cosa terribile.

Da quel giorno lì un silenzio di morte è proprio sceso nel nostro campo, perché avevamo la paura di finire tutti in quella maniera lì.

Mentre invece poi la sera dopo il maresciallo Haage ci disse che naturalmente una rappresaglia non sarebbe più stata fatta, però saremmo stati mandati tutti in Germania, ci disse, però non sarebbe più successa questa rappresaglia. Dicono che fosse per l’uccisione di sei alti… al bar Olanda di Genova, uccisi. Perché forse facendola in Liguria era troppo in mezzo alla gente, questa cosa si sarebbe saputa. Mentre invece lì pensavano che la cosa non si sapesse, oppure arrivasse in ritardo.

D: Romolo, ti posso chiedere due cose?

R: Sì, è meglio che mi fai qualche domanda.

D: Come ti ricordi tu il campo di Fossoli? C’erano dei reticolati?

R: Sì, me lo ricordo, guarda, me lo ricordo. Era un campo di un chilometro per due, solo da una parte mancavano un po’ di reticolati. Per il resto su tutte le altre parti anche dietro alle nostre baracche c’era un doppio reticolato, e nel mezzo naturalmente c’erano queste luci violente. Mi ricordo benissimo che c’erano nove garitte con le mitragliatrici sopra. Nove, questo me lo ricordo, nove garitte con le mitragliatrici, ed il campo era circondato da questi reticolati doppi. Nel mezzo questa luce.

D: Ecco, ed a fare le guardie c’erano solamente germanici o anche italiani?

R: No, ecco, benissimo, è importantissimo. Naturalmente c’erano degli ucraini dentro, come c’erano… Ma c’erano anche delle guardie Repubblichine, verissimo. Perché la prima volta, prima che ci fosse questa chiamata, questa rappresaglia, mi ricordo che misero una mitragliatrice, ed erano dei Repubblichini, misero una mitragliatrice proprio nella piazza dell’appello, me lo ricordo benissimo. Non so perché, forse avevano paura che succedesse… Però il giorno dopo è sparita.

Poi io vi racconto una cosa che in nessun libro è mai stata detta. Dentro da noi naturalmente funzionava anche una specie di Comitato di Liberazione, non era proprio… però si pensava, hai capito, anzi avevano detto in questo comitato che ad un determinato momento, adesso proprio il giorno non me lo ricordo, un apparecchio sarebbe passato ed avrebbe sganciato una bomba sul reticolato, e noi saremmo riusciti a fuggire.

Quindi ci hanno detto preparatevi tutti, vestitevi, preparatevi con scarpe… Ancora avevamo le scarpe, non avevamo gli zoccoli come in Germania, che poi scapperete.

Cosa che è successa. Però la bomba invece di colpire il reticolato ha colpito la lavanderia, quindi non è successo assolutamente niente, capite? Quando noi siamo usciti hanno cominciato subito a sparare, a sparare, allora ci siamo tutti messi velocissimi a spogliarci, a rimetterci sotto il letto per far finta di dormire, oppure di non essere mai usciti.

Alcuni naturalmente sono stati presi, che avevano ancora i vestiti, mi ricordo che li hanno fatti passare attraverso le nostre camerate battendoli a morte. Guardi, una cosa tremenda, percuotendoli a morte, mi ricordo ancora di un giovane, non mi ricordo i nomi, sono tanti, che era pieno di sangue, di lividi. Era stato trovato vestito e naturalmente loro hanno capito che questo qui tentava di scappare.

Quella lì è stata una delle cose di cui mai nessuno parla, sono stato anche con Varini, con degli altri nel campo di concentramento a portare i ragazzi, ma nessuno ne parla mai di queste cose qui.

D: Durante il tuo periodo di deportazione di Fossoli dentro nel campo ti ricordi se c’erano anche dei religiosi?

R: Sì, ecco, religiosi ce n’erano tre o quattro, anche di più. C’era Don Liggeri, e poi c’era il nostro parroco di Sestola, di Ronco Scaglia.

D: Te lo ricordi come si chiamava? Don Dinamite?

R: Don Crovetti. Me lo ricordo benissimo, il nostro Don Crovetti. Perché lo chiamavano Dinamite?

D: Lo sai perché?

R: Sì, sì, perché avevano trovato la dinamite in casa, un po’ di miccia e capite… i parroci di montagna avevano i fondi, avevano i poderi che si tenevano dietro forse più della chiesa. Lui aveva questo qui ed è stato accusato. Quando ci hanno caricato e siamo andati verso Pievepelago dovevamo passare attraverso il paese Ronco Scaglia, ed allora l’hanno caricato prima, mi ricordo che il ponte era distrutto, lo chiamavano il ponte del prete, e lui l’hanno picchiato in una maniera terribile perché naturalmente mettesse giù alcune tavole per far passare questo camionaccio, questo camion con carico di queste persone che c’erano dentro.

D: Quindi ti ricordi di Don Paolino…

R: Sì, mi ricordo. Quello poi… e di Don Crovetti. Però altri non me li ricordo sai?

D: Ecco, l’altra cosa che volevo chiederti è questa: durante sempre la permanenza del babbo e tua a Fossoli siete riusciti a comunicare con l’esterno?

R: Sì, siamo riusciti a comunicare con l’esterno perché… queste qui le cose di mio padre, … di Fossoli questo, questo qui. No, questo qui non c’entra, è per far vedere ai ragazzi. Questi qui sono… ne ho delle altre lettere, le ho portate così.

Questa qui era anche che non si poteva scrivere, è una comunicazione, una Commissione Provinciale di censura, una di quelle lettere lì l’hanno cestinata perché non potevano …che mia madre poverina l’aveva scritta, o noi l’avevamo scritta in carta quadrettata. Loro pensavano che naturalmente… ecc… avessimo dette certe cose.

Che poi purtroppo anche se si stava male ai genitori si scriveva sempre “Stiamo bene”. È vero che è così?

D: Hai ricevuto dei pacchi da mamma?

R: Ho ricevuto dei pacchi solo a Fossoli. Ho ricevuto un pacco solo, no, due pacchi, uno da mia mamma ed uno da un altro signore di Modena, un certo Benatti, che naturalmente serviva mio papà nel negozio al quale ci eravamo rivolti. “Per favore, dato che è più vicino ci mandi qualcosa”, ci aveva mandato un pacco. Due pacchi abbiamo ricevuto, quello è vero.

D: Ascolta, avevate i vostri abiti civili?

R: Sì, avevamo gli abiti civili, avevamo solo qui davanti sulla sinistra e sul pantalone, e su quel poco che avevamo, quello che avevamo da casa, questo numero qui appunto, che vi ho fatto vedere, questo. Questo è proprio l’originale, questo.

D: Poi da Fossoli cosa è successo?

R: Poi da Fossoli, dunque, da Fossoli voi sapete che sono partite addirittura sette Transport, tra i quali in quello di febbraio c’era anche Primo Levi, formato da seicentocinquanta persone, di cui ne sono rimaste vive soltanto tre. Comunque ne sono partiti parecchi, per Auschwitz, per Mauthausen, per Bergen-Belsen anche. Poi naturalmente verso la fine di luglio abbiamo saputo che dovevamo prepararci per andare. Ma così, da parte del nostro Maltagliati, non da loro, perché naturalmente non dicevano, ti prendevano e via…

Siamo stati caricati su dei camion. Quando siamo arrivati al Po’ il Po’ era completamente… Non c’erano più ponti, non c’era niente. Siamo stati fatti traghettare su un barcone e via, tra le urla di “Vigliacchi, partigiani, banditi”, perché ci chiamavano banditi, vigliacchi, canaglie, “troverete un ambiente ben diverso da quello che avete trovato a Fossoli”. Perché Fossoli per quanto sia praticamente si riusciva ancora a vivere. Come mangiare era pochissimo anche lì, però c’era una comunicazione, si parlava tra di noi, qualche giornale addirittura arrivava. Non avevamo contatti però con gli ebrei perché erano dalla parte di là. Lì chi li comandava era un certo Finzi, che poi non so se sia stato portato in Germania e che fine abbia fatto, non ho mai saputo più niente.

Poi siamo stati portati a Verona. A Verona ci hanno messi in una caserma, siamo stati lì due notti e poi una mattina ci hanno fatti alzare…

D: Due giorni in una caserma?

R: In una caserma, però non ricordo dove sia questa caserma. Sono stato ultimamente… Comunque siamo stati messi lì dentro, tutti insieme, non c’erano letti, non c’era niente, buttati sulla paglia aspettando di essere caricati per essere portati in Germania.

Poi siamo stati messi in fila, naturalmente abbiamo attraversato, questa è una cosa terribile, abbiamo attraversato una strada di Verona ed alcuni di questi veronesi, di queste persone veronesi addirittura aprivano anche le porte per riuscire a far salvare qualcuno di questa colonna, che loro capivano dove sarebbe andata. Però noi non siamo riusciti, abbiamo continuato, siamo arrivati fino a Pescantina a piedi, e poi siamo stati caricati su quei famosi vagoni. Quaranta uomini, cavalli e bestiame, non so, in quei carri siamo stati caricati sopra, in questi vagoni piombati.

Lì è un po’ la solita vita che molti esempi hanno raccontato nei loro libri. Eravamo chiusi in questo vagone con un piccolo recipiente da una parte dove dovevamo fare… Quindi abbiamo vissuto veramente dei momenti tremendi, questa gente che urlava, chi piangeva, chi bestemmiava, proprio vivevo come inebetito questo viaggio senza sapere in quale destinazione…

Quando siamo arrivati…

D: Scusa Romolo, c’era anche il babbo con te?

R: Sì, c’era anche mio padre, sì.

D: Sullo stesso…

R: Sullo stesso… pensa, dopo ti spiego tante altre cose.

Qui un signore, guardate un po’, quando siamo arrivati in questo paese, noi abbiamo fatto il Tarvisio per andare, Santa Maria di Salonicco era, un signore ci ha buttato dentro questa cartolina e noi, cose bellissime, io ci ho messo subito “Alla mia cara mamma, Tintori Alfonsina, ricevi tanti saluti e baci dal tuo Romolo e Fernando” perché c’era mio padre. Questa l’ho conservata. Pensa, questo signore che sapeva naturalmente la tragedia, perché molti passavano dal Tarvisio, mi mise dentro questa cartolina.

Prima di arrivare ai confini con la Germania uno dei nostri è riuscito ad aprire, a farsi una piccola apertura da una parte, ed alcuni sono saltati giù. Che poi ne parlano anche nei libri di questa fuga. Però quando naturalmente io e mio padre ci siamo avvicinati, anche noi, abbiamo sentito le mitragliatrici, gli spari dei fucili e compagnia bella, allora abbiamo pensato di seguire il nostro destino.

Chissà se il mio amico Tubino di Genova si è salvato, perché lui si è buttato giù, un carissimo amico. Non ho mai più saputo niente, Tubino di Genova, mai più saputo niente.

Così abbiamo seguito il nostro destino. Abbiamo fatto quattro giorni, due notti e due giorni sempre su questo vagone. Poi siamo arrivati in un grande campo, era un campo nei pressi di Berlino. Prima di arrivare a questo campo guardavo questa città che era completamente distrutta, erano colpite casa per casa, c’erano delle pareti che sembravano quinte di teatro, dentro non c’era niente. Una cosa terribile.

Siamo arrivati in questo enorme campo dove arrivava quest’umanità disperata da tutte le parti d’Europa. Intere famiglie arrivavano, dalla Russia, dalla Polonia, da altri paesi, anche molti francesi. Un enorme campo.

Prima di destinarci ai diversi campi si era fatta una specie di interrogatorio, così ci interrogavano. Mi si è avvicinato un italiano, non so cosa fosse, o lavorava lì da tanto tempo, forse un lavoratore libero addetto alle cucine, non so, di questo enorme campo, mi ha detto: “Romolo, guarda, sei studente?” dico: “Sì, ho appena finito a Bologna”. “Non dire mai che sei studente” perché gli studenti naturalmente vanno incontro ad una brutta esperienza perché vengono considerati non capaci di lavorare. Allora dico: “Cosa devo dire?” “Dì che sei falegname”. Così abbiamo detto che eravamo falegnami tutti e due, ma questo penso non abbia contato niente perché non abbiamo mai fatto il lavoro di falegname, siamo stati messi subito nelle industrie di guerra e quindi il falegname non l’abbiamo mai fatto.

D: Il nome di questo campo non te lo ricordi?

R: Non me lo ricordo proprio, non me lo ricordo. Ma era enorme, un campo enorme. Avrei voluto… Pensa, ho tante cose ma di quello lì…

D: Più o meno in questo campo sei rimasto quanto tempo?

R: Pochissimo tempo, pochissimo tempo.

D: Quindi non ti ricordi la disposizione dei blocchi?

R: No, niente, perché poi si dormiva in condizioni disperate, non c’era più niente, si dormiva giusto per passare la notte.

D: Ecco, ma ti hanno immatricolato in quel campo?

R: No. Poi dopo naturalmente una mattina siamo stati caricati sopra… Adesso non mi ricordo questo particolare però, se ci hanno caricato su dei camion o su dei vagoni, non mi ricordo. Perché noi siamo andati a Neuengamme. Ci hanno portato a Neuengamme. Con me c’erano dei francesi, c’erano dei partigiani friulani, mi ricordo il vecchio Sonov ecc… e ci hanno portato tutti a Neuengamme.

Però a Neuengamme siamo stati pochissimo, dormivamo per terra su delle tavole con della paglia, perché ancora non siamo stati immatricolati a Neuengamme. Siamo rimasti lì soltanto per un po’ di tempo perché poi siamo stati portati poi, assieme a dei francesi, a dei polacchi, a questi partigiani del Friuli, e noi, quei tre o quattro del modenese, siamo stati portati in uno degli ottanta, perché aveva ottanta sottocampi Neuengamme. In questo campo che si chiamava Wittenberg. Qui ci sono i sottocampi di Neuengamme nel mezzo, e qui ci sono i sottocampi.

Perché poi la letteratura della concentrazione parla sempre dei grossi campi, ma invece anche nei piccoli campi praticamente c’era la stessa situazione che c’era nei grossi campi. Anzi, le SS le vedevi di più perché li avevi pronti ad ogni minuto, perché il nostro campo era più piccolo. Praticamente lo stesso trattamento che avevamo lì l’avevano a Neuengamme, l’avevano negli altri campi, … non se ne parli. Delle volte si parla di Gusen, Gusen era forse peggiore dello stesso Mauthausen, vero?

D: Ecco, e lì sei stato immatricolato?

R: Dunque, lì siamo stati immatricolati, io avevo il… 12603, perché era un campo più piccolo. Avevamo solo le piastrine e basta, non avevamo altro.

D: E poi?

R: E poi nei primi tempi ci avevano dato quella divisa zebrata, poi l’abbiamo persa perché praticamente eravamo abbandonati a noi stessi, poi vi spiegherò un po’…

Siamo andati a lavorare, ci hanno immesso a lavorare in una fabbrica proprio un po’ fuori, in periferia di Wittenberg, tanto che il nostro campo distava io penso un chilometro e mezzo, due anche da dove avevamo il nostro campo. Dover andare ciabattando con questi zoccoli, con queste pezze ai piedi era una cosa terribile, una zona freddissima, avevamo delle sciarpe di nebbia attorno perché c’era sempre la nebbia.

Ciabattando andavamo a questo campo. Io ho notato sempre che non ho mai notato in un tedesco un senso di… non so, qualche pensiero, qualche riflessione, anche qualche parola che ci avesse fatto pensare che eravamo considerati dei prigionieri, oppure delle persone che avevano fatto il loro dovere però naturalmente erano stati messe in questi campi. I bambini ci sputavano addosso, specialmente anche mio padre poverino che raccoglieva le cicche, infatti raccoglievamo le cicche perché c’era questa mania del fumo, e questa gente per una sigaretta, per fumare ti dava anche quel po’ di niente, quel po’ di niente che davano. Allora mio padre si chinava, anche io, a prendere queste cicche, le raccoglievamo e facevamo questi scambi che nel campo erano chiamati la valuta, perché naturalmente era un modo di scambio.

D: In questo campo piccolo c’erano delle baracche?

R: C’erano delle baracche però in muratura erano, in muratura, ad un piano solo, letti a castello a due piani. Con questo terribile tormento delle cimici e dei pidocchi che proprio era una cosa che non ti lasciavano vivere.

Adesso entro in un particolare, erano pidocchi non nella testa, erano pidocchi del pube, pensate, noi li avevamo lì, pensate un po’. Non ti lasciavano vivere, una cosa terribile. Poi queste cimici che erano una cosa terribile, ce ne erano a iosa. Come ce n’erano anche a Fossoli. Anche a Fossoli era proprio…

D: Ed era un campo solo maschile però?

R: Quello era un campo solo maschile, vicino a noi c’era un altro campo di donne polacche. Ho visto delle cose terribili veramente in queste donne. Ho visto una mattina una donna polacca che non aveva ubbidito, qualcosa, è stata pestata da una di queste … come le chiamavano, queste che erano più tremende degli stessi uomini, avevamo solo il campo di queste donne polacche. Con noi c’erano francesi che avevano un trattamento molto meglio di noi, perché noi avevamo un trattamento pessimo. Noi …maccaroni, traditori due volte. Invece i francesi avevano una certa libertà anche, pensate, in fabbrica. Anche una certa libertà. Quella che non avevamo noi, nel modo più assoluto.

D: Quanti italiani eravate lì?

R: Lì eravamo direi sui quattrocentocinquanta, sì, tra italiani e… C’erano poi anche i partigiani friulani, però con noi c’erano anche dei francesi, non so stabilire proprio l’esatta…

D: Sì, ma italiani ce n’erano?

R: Sì, ce n’erano parecchi di italiani, sì, ce n’erano parecchi.

D: Ed il babbo sempre con te?

R: E mio padre sempre con me, pensate.

D: In fabbrica cosa facevate?

R: In fabbrica, noi lavoravamo in una fabbrica che faceva i pezzi per le mitragliatrici leggere, nelle catene di montaggio. Pensate un ragazzo di sedici anni abituato magari ad andare a scuola, a studiare, messo, buttato dentro questa catena di montaggio impressionante, facevamo una settimana di giorno ed una settimana di notte. Sempre assieme a mio padre, sempre, eravamo addirittura nello stesso reparto. Chissà il destino, cosa che è successa a pochi, perché di solito li dividevano subito, madre, padre, zii, parenti, sorelle, li dividevano. Qui il destino delle volte ti può dare…

D: Ti ricordi il nome della fabbrica per caso?

R: Sì che me la ricordo, la mia fabbrica era una volta la Singer, che facevano le macchine da cucire, che era stata trasformata in industria di guerra.

D: C’erano anche dei civili in fabbrica?

R: Sì, c’erano anche dei civili, verissimo, c’erano anche dei civili. Infatti io penso che uno del nostro reparto, fossero addirittura due o tre i civili nel nostro reparto, solo nel nostro reparto, e ce n’erano parecchi, ce n’erano tre. Noi non abbiamo mai avuto contatti perché sapevo anche poco il tedesco, specialmente nei primi tempi. Non abbiamo mai avuto veramente contatti con queste persone civili, mai contatti.

D: Ed in fabbrica sieste rimasti quanto?

R: In fabbrica siamo rimasti, siamo arrivati… Aspetta un po’ perché abbiamo fatto tutto luglio, alla fine di agosto siamo partiti… siamo rimasti fino… So che tra Fossoli e la fabbrica ho fatto dieci mesi di prigionia. Saremo rimasti otto mesi, no, sette mesi in fabbrica.

D: Sempre in quel campo lì?

R: Sempre in quel campo lì siamo rimasti. Abbiamo avuto parecchi bombardamenti, ma i primi bombardamenti, adesso vi racconterò, non hanno fatto niente, siamo sempre rimasti in questa fabbrica assieme ai francesi e polacchi, lavoravamo in questa fabbrica.

D: Il primo grosso Lager è forse Sachsenhausen?

R: Quello proprio non lo so, era enorme, grandissimo. So che Sachsenhausen è uno dei più grossi lager della Germania, può darsi che fosse anche quello, io penso… Di grande Lager non ce n’erano mica, lì era veramente enorme, può darsi benissimo. Mi hai messo in mente una cosa che può darsi benissimo fosse Sachsenhausen.

D: Non vorrei deviarti.

R: Hai ragione. Ma io poi di questo grande Lager non mi ricordo niente, so che abbiamo subito dei bombardamenti feroci dentro lì. Naturalmente loro avevano i rifugi e compagnia bella, a noi ci sbattevano durante questi bombardamenti, quindi saremo rimasti tre o quattro giorni, non di più. C’erano delle buche scavate nel terreno con delle tavole sopra e ci cacciavano lì dentro, ci facevano andare lì e non so perché, potevano anche lasciarci fuori, non è che contassero molto. Ma di questo Lager proprio non mi ricordo niente, ma pensa. Sarebbe stato bello…

D: Riprendiamo dalla fabbrica.

R: Io sono rimasto lì, sì, perché dunque siamo arrivati… siamo rimasti lì fino ad aprile. … Siamo rimasti dal settembre fino all’aprile dell’altro anno. Quanti mesi sono?

D: Tanti.

R: Tanti mesi, tanti mesi. Quasi otto mesi.

D: Ecco, nell’arco di questi otto mesi non ti sei mai ammalato tu?

D: L’importante, come sempre si dice, è di non ammalarsi mai, se no si finiva nel Revier e naturalmente la nostra vita era attaccata proprio ad un filo, perché loro potevano disporre di te come volevano e finivi anche nelle camere a gas. Nel nostro campo non esistevano le camere a gas e neanche i forni crematori. Dopo fu distrutto completamente.

Naturalmente è un po’ la vita di tutti i deportati, nel nostro campo alzata alle cinque d’estate ed alle sei d’inverno, avevamo questi orari qui. Il solito caffè tremendo che loro chiamavano caffè, questa brodaglia nera con delle erbe essiccate dentro che loro chiamavano caffè. Poi verso le 13 si smetteva di lavorare e prendevamo mezzora per questo pasto, chiamiamolo così, tra virgolette, questo pasto, era una brodaglia, una zuppa di rape da foraggio con qualche patata che galleggiava dentro qualche volta.

Allora i miei amici che vedevano questo ragazzo giovane: “Fatti furbo, non devi andare all’inizio”, perché all’inizio naturalmente prendi l’acqua, lo sapevano già tutti. C’era un lavoro, chi si spingeva di qua, di là, il sottoscritto parecchie volte… Mio padre no, ma parecchie volte mi bevevo dell’acqua perché non riuscivo mai… A sedici anni come si fa…

Però guardate, non ho mai avuto paura della morte proprio. Perché? Perché avevo il grande appoggio morale di mio padre. E poi come può aver paura della morte un ragazzo di sedici anni? Non può pensare già alla morte, non può. Quindi mi sono sempre, con questo grande aiuto di mio padre…

Negli ultimi tempi no perché la demoralizzazione era arrivata anche lì, perché vedevamo che era tanto… Perché pensate che sono stato quasi otto mesi dentro e vedevamo che questa Liberazione non arrivava mai. Si sapevano certe notizie, riuscivamo a capire da altri che erano più furbi di me che riuscivano a capire qualcosa. Ma vedevamo che i russi, perché eravamo dalla parte dei russi, non arrivavano mai. Allora dopo la demoralizzazione.

Alla sera, facevamo dodici ore una settimana di giorno ed una settimana di notte. Per le punizioni, una piccola cosa, una qualsiasi cosa, perché i tedeschi avevano una forma maniacale, ..cinque per cinque, una forma maniacale in tutto. Mi ricordo che io ho avuto due punizioni, la prima volta perché non avevo capito un ordine di uno di questi tedeschi, di uno di questi capi del nostro campo. Lì mi ha colpito con il Gummi, il famoso Gummi, quest’anima d’acciaio rivestita di gomma. Ma non è arrivato a venticinque, me ne ha date alcune e poi dopo mi ha lasciato andare.

Poi un’altra volta durante la notte perché avevamo i gabinetti, chiamiamoli cessi proprio che rende più la parola, con un’apertura davanti, ogni tanto passava il capo e guardava dentro se uno s’addormentava durante la notte. Io una notte mi sono addormentato, ero talmente stanco che mi sono addormentato, lui mi ha preso, mi ha tirato fuori, e poi picchiandomi mi ha fatto andare per tutto il reparto. Pensate mio padre che mi ha visto in quelle condizioni. Però mi avevano detto di stare dritto, di non prenderle mai sui reni, perché sui reni sarebbe stata una cosa… Di prenderla tipo sulle spalle. Io ho applicato un po’ alla mia maniera, come potevo, e questi colpi sì mi hanno fatto stare per parecchi giorni… però non sono stato a letto. Perché doversi ammalare oppure saltare il lavoro per loro diventavi una bocca inutile da sfamare e ti colpivano, non avevano mica nessuna pietà per nessuno.

D: Appunto, nessuna pietà per nessuno. Dicevi di quella donna che hai visto nell’altro campo, lì nel vostro campo oppure durante la fabbrica sei stato testimone di atti di violenza?

R: Sì, sono stato testimone più che di atti e di cose di grandi… picchiavano questi prigionieri in una maniera pazzesca. Però proprio atti che si arrivasse a colpirli e ad ammazzarli io questi non li ho mai visti nel mio campo.

Però ho visto alcuni che sparivano, per esempio loro ci dicevano che erano stati mandati a lavorare in altri posti, però io ho avuto sempre dei dubbi sulla loro sorte, ho sempre avuto dei dubbi. Infatti nel nostro campo ne sono mancati parecchi, non so se andavano a lavorare nei campi o fossero trasferiti, oppure avessero fatto un’altra… Perché c’era un tipo di … naturalmente che era stato partigiano, era stato nel partito comunista, quindi era un personaggio piuttosto pericoloso magari per loro. Quello non l’ho più visto. Sono dubbi che mi sono entrati nella memoria, nella mia testa.

D: Dicevi che c’erano molti francesi.

R: Molti francesi, molti francesi sì.

D: Ricevevano pacchi questi?

R: I francesi ricevevano pacchi. Tanto che uno di questi qui una volta mi diede un cioccolatino anche a me, questo grande… mi diede questo cioccolatino. Ricevevano pacchi, ricevevano pacchi. Poi stavano meglio, addirittura alcuni avevano intrecciato anche delle relazioni con delle donne tedesche, addirittura. Sì.

D: Accennavi prima Romolo ai bombardamenti, in questo campo dipendente da Neuengamme. Ecco, cosa succedeva? Eravate in fabbrica o nel campo?

R: Tutti i bombardamenti che abbiamo subito, che io ho subito nella Wittenberg sono stati tutti sempre dentro alla fabbrica. Eravamo sempre dentro alla fabbrica. Nella fabbrica avevano dei rifugi un pochino più decenti, avevano delle gallerie scavate ed allora i prigionieri li mettevano lì sotto, forse c’era un pochino più di sicurezza. Ma la Wittenberg è stata quasi completamente distrutta, parecchie volte ha avuto dei bombardamenti. Allora lì ci prendevano fuori dalla fabbrica e ci mettevano, ci regimentavano, ci portavano a sgomberare le macerie. Sempre, due o tre volte l’ho fatto assieme a mio padre, andavamo… Anzi, pensavamo: “Forse ci fanno fare i falegnami questa volta”. Mentre invece non ci facevano fare niente, lavoravamo solo a spostare mattoni e basta, a tirare su cadaveri e basta.

D: Il momento della Liberazione come te lo ricordi?

R: Ma c’è ancora da parlare. Dunque, poi il mio campo, eravamo in fabbrica, assieme a mio padre ed a tutti gli altri, è stato un bombardamento feroce che ha distrutto quasi completamente Wittenberg, le ultime case che erano rimaste, ed ha distrutto completamente anche il nostro campo. Quando siamo arrivati non abbiamo più trovato niente, niente. Anche mio padre poveretto aveva nascosto un po’ di pane e non ha più trovato niente. Delle calze, un paio di calze che io non so dove fosse riuscito ad averle perché mio padre cercava sempre. Io invece li subivo, ma mio padre invece…

Il mio campo è stato completamente… Ma pensate che siamo stati rinchiusi poi lì mentre arrivavano i russi, i cannoni dei russi erano a pochissima distanza, ci hanno rinchiusi in un campo per due o tre giorni, una cosa terribile. Nascondevamo la testa dentro la sabbia, a questa terra, delle cose terribili.

Poi siamo stati portati fuori, siamo stati messi in quelle famose colonne che poi ho saputo in seguito che si chiamavano le marce della morte, e perché dopo ho identificato? Perché durante questa marcia è stata una cosa veramente terribile, guardate, uccidevano questi vecchi che non riuscivano a camminare e li abbandonavano lungo i marciapiedi delle strade. Io ho visto delle cose terribili. Un ragazzo a sedici anni che vive delle cose così ti rimangono impresse per tutta la vita, perché c’è qualcosa di disumano, di criminale, di pazzesco proprio. Questi vecchi che naturalmente non riuscivano più a camminare li uccidevano e li abbandonavano lungo la strada.

Poi un’altra cosa che mi ha colpito, quando si dice che naturalmente c’era in Germania molti che non la pensavano… Pensate che lì da noi c’erano lungo le strade, quando passavamo, c’erano i ragazzi della Hitler-Jugend che avranno avuto quindici anni che aspettavano i carri armati russi. Pensate l’indottrinamento di quella gente lì, pensate un po’. Per loro era morte certa perché i tedeschi naturalmente non facevano più prigionieri, ma anche i russi avevano ragione, non ne facevano più di prigionieri, ammazzavano tutti quelli che trovavano. Quindi pensate un po’ l’indottrinamento di questi giovani. A quindici anni ancora ad aspettare lì… era la loro morte, sapevano che dovevano morire.

Allora in questa marcia della morte durata tre o quattro giorni, perché si andava piano, ci si fermava delle volte per delle cose più strane. Una sera siamo stati messi in una grande masseria, in una grande azienda agricola, chiusi dentro in questo fienile che era enorme, chissà che azienda grande era. Tutti questi prigionieri della nostra colonna messi lì dentro.

Io e mio padre abbiamo avuto un momento di coraggio veramente, e durante la notte siamo scappati, io e mio padre soli siamo scappati. Non so, o non ci hanno visti o è stato il destino, io non so come sia stata questa cosa qui, siamo riusciti a scappare e ci siamo buttati subito nella campagna, c’era un boschetto lì vicino, l’abbiamo attraversato, e poi abbiamo continuato a camminare, camminare. Siamo riusciti a scappare.

D: Camminare fino a dove?

R: Poi dopo siamo arrivati verso …, abbiamo fatto tanti paesi che adesso non ricordo. Ma lì noi siamo riusciti anche a mangiare qualcosa perché i tedeschi hanno un particolare modo di conservare le patate, fanno una specie di paglia, sabbia, paglia, poi una specie di piramide, paglia ancora e sabbia, e si conservano benissimo da un anno all’altro. Allora io e mio padre uscivamo a prendere queste patate, nei primi tempi si mangiavano addirittura crude senza pelarle, senza niente perché la fame era paurosa.

Poi in un secondo tempo siamo entrati anche in certe case, perché i tedeschi avevano una paura mortale dei russi, li avevano indottrinati in una maniera che avevano una paura mortale dei russi, quindi le case le abbiamo trovate addirittura abbandonate, moltissime case. Siamo entrati con mio padre e qualcosa siamo riusciti naturalmente a cuocere magari qualche patata, perché ormai non si trovava quasi più niente.

Lì c’è stato un momento terribile perché mio padre durante questi sette, otto giorni che abbiamo camminato è stato preso da una febbre altissima, non riusciva più a camminare. Allora io ho preso quest’uomo, un uomo meraviglioso, l’ho messo sotto ad un carretto, pensate, avevo sedici anni, sotto un carro bestiame che era fermo in una di queste case di contadini o di padroni, non so, di agricoltori. Tre giorni è restato così, tanto che non pensavo di portarlo più a casa. È stato un momento terribile della mia vita quello lì.

Poi il destino che aiuta sempre si è ripreso, pensate, dopo una febbre feroce, sragionava “Allora cosa c’è, la mamma, mia moglie ecc…” una cosa terribile per un… Durante la notte stavo lì vicino a lui. È stato tre giorni, poi è riuscito, si è rialzato e così abbiamo proseguito il nostro cammino. Verso che cosa? Scappavamo solo, per paura di essere ripresi.

Durante questo passaggio attraverso i boschi abbiamo incontrato altri cinque militari che erano scappati da un campo militare, ci siamo messi con loro tanto che poi abbiamo poi trovato un cavallo, ammazzato, e finalmente lì abbiamo fatto una mangiata bellissima con questo.

Pensi che io ho ancora delle memorie scritte in un librettino che ho trovato, adesso bisognerebbe che facessi stampare.

D: Memorie scritte da chi?

R: Da me.

D: In quel momento? Tipo diario?

R: In quel momento. Tipo diario, ma solo negli ultimi giorni perché prima non potevo mica scrivere io, non potevo mica durante la prigionia perché non avevi matite, né fogli, niente. L’ho trovato in una di queste case, allora ho scritto le ultime mie impressioni di questa prigionia finale, della Liberazione e tutto. Adesso bisogna che lo faccia stampare, è un libricino grande così.

D: Romolo, da quando siete scappati sei riuscito a recuperare il percorso, la direzione?

R: Sì, un pochino sono riuscito a recuperarla. Sono passato da …, sono passato verso… Io sono stato liberato vicino a Perleberg credo, penso di sì.

Poi una mattina eravamo lì in una capanna, in una specie di baracca lì fuori, abbiamo sentito un grande rumore, uno sferragliare, un passaggio di cavalli, di cavalleria. Allora abbiamo pensato di uscire verso la strada che era sulla destra di questo bosco. Allora siamo stati liberati dall’esercito russo.

Era il 2 maggio, un mercoledì, alle 10.30, siamo stati liberati dai russi, mercoledì alle 10.30, 2 Maggio.

D: Cosa ti ricordi di quel momento?

R: Un momento fantastico, guarda. Fantastico. Perché dopo ci hanno rifocillato, ci hanno dato anche da mangiare. Siamo rimasti così, “Pensate siamo liberi”, “Pensa papà siamo liberi, è una cosa grandissima”. Grande, enorme è stata. Veramente grande.

Poi siamo andati in paese, che penso fosse Perleberg, e lì abbiamo avuto una disavventura perché abbiamo trovato un magazzino della SS della… sapete che il nostro stomaco era ridotto ai minimi, allora abbiamo trovato dentro questo grande magazzino scarpe ed altro che non ci interessava più, abbiamo trovato del latte condensato della Nestlé, tubetti, allora io e mio padre li abbiamo ingurgitati in una maniera esagerata, è stata una cosa pazzesca, abbiamo rischiato lì di finire con il latte condensato nei nostri giorni della Germania.

Poi la nostra zona dai russi è passata agli americani naturalmente hanno diviso in zone la Germania, è passata sotto agli americani, siamo stati lì un po’ di tempo. Poi siamo stati messi nella zona inglese, e lì ci siamo stati parecchio. Perché io sono stato liberato il 2 maggio del ’45, sono rimasto lì fino all’inizio di settembre. Anche di lì siamo scappati con il nostro capo campo che si chiamava Bedosti, ho ancora tutti i proclami a casa di Bedosti che ci diceva di stare calmi, di stare buoni ancora perché naturalmente… “Siete liberi ormai, però tra poco arriverà…”. Noi aspettavamo sempre di tornare dalle nostre famiglie ma non arrivava mai.

Allora anche lì siamo scappati.

D: Dove era questo campo qui?

R: Aspetta un po’…

D: Questo campo degli inglesi.

R: Chissà poi dove era… non lo so. Io ho una fotografia… se mi verrà in mente…

D: Dicevi questo capo campo che tu hai a casa ancora i proclami.

R: Pensa, ho i proclami di questo Bedosti dove ci dice di stare calmi perché la nostra libertà finalmente l’avevamo avuta, però di stare calmi che sarebbe arrivato il momento.

Invece siamo scappati anche da lì, siamo scappati prendendo i più strani treni che non si sapeva dove andavano, …poi tornavi indietro, poi andavi avanti, finalmente siamo arrivati fino, questo me lo ricordo benissimo, siamo arrivati al campo di Mulenberg, che era un campo degli americani, e lì siamo stati disinfettati con il famoso DDT, irrorati da capo a piedi di questo DDT, poi di lì abbiamo avuto la possibilità di prendere un treno che ci avrebbe portato al di fuori della Germania e poi in Italia. Ma siamo stati in questo campo alcuni giorni. Io ho a casa ancora proprio DDT ecc… quando siamo stati spolverati.

D: Il percorso di ritorno dal Brennero?

R: Dal Brennero. Anche lì… Lì abbiamo fatto aprire… trovavamo dei camion, montavamo lì, siamo arrivati, abbiamo fatto tanti paesi, tanti paesi, prendevamo il camion che andava… Il nostro punto era sempre Verona, e finalmente siamo arrivati a Verona.

Da Verona anche lì siamo arrivati con un camion a rimorchio che portava dei sacchi non so a chi, siamo arrivati fino a Modena. Poi da Modena ancora su un camion di autotrasportatori siamo arrivati a casa mia a Sestola.

D: La mamma?

R: Pensate un po’, mia madre naturalmente non ha mai saputo niente, i paesani… guarda, sono arrivati Romolo e Fernando. Adesso mia madre… Mia madre pensate un po’ non si reggeva in piedi, anche noi questa gioia di tornare, di vedere… Perché a casa avevamo lasciato la mamma e la nonna. La nonna centenaria, ha vissuto fino a cento anni. È stata una cosa… Veramente in quel momento mio padre più di me era in condizioni disastrose poveretto, era proprio una larva di uomo, era diventato, perché si privava delle volte di quel poco o di quel niente che ci davano per darlo a me. Quindi sono di quelle cose che non si dimenticheranno mai.

Ditemi qualcos’altro.

D: Quand’era quando sei arrivato a casa? A settembre?

R: Sì, sono arrivato a casa a settembre proprio, a settembre, verso il 10 di settembre.

D: Ascolta un attimo, come hai visto che avevi diciassette anni…

R: Sì, diciassette anni.

D: Con i tuoi amici, i tuoi amici di… compagni di scuola, raccontavi? Ti chiedevano?

R: Sì, perché naturalmente alcuni di loro si erano salvati perché si erano nascosti, quel famoso giorno dell’arrivo dei tedeschi a Sestola, alcuni si erano nascosti. Invece io stupidamente… ma non stupidamente, perché come si fa a prendere un ragazzo di quell’età lì. Le raccontavo e stavano a sentire quello che mi era successo.

Però dopo per un po’ di tempo anche io ho smesso di parlare perché raccontavo delle cose talmente grandi, talmente al di fuori della realtà che molti sì, quasi non le capivano.