Trezzi Pierino

Pierino Trezzi

Nato il 17.08.1924 a Gaggiano (MI)

Intervista del: 10.09.2003 ad Abbiategrasso (MI) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 185 – durata: 53′ circa

Arresto: ad Abbiategrasso il 12.08.1944

Carcerazione: a Legnano(MI); San Vittore (MI)

Deportazione: Bolzano; Dachau; Bad Gandershein

Liberazione: il 13 aprile 1945, fuga durante marcia della morte

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Pierino Trezzi. Sono nato a Gaggiano, provincia di Milano, il 17.8.1924. La mia storia: il 30 agosto del 1943 sono chiamato a militare. Governo Badoglio, questa è storia. Dopo otto giorni, 8 settembre, tutti a casa. Ce l’ho fatta ad arrivare a casa.

D: Dov’eri?

R: Ero a Cividale del Friuli. Ce l’ho fatta, ci ho messo sei giorni ad arrivare a casa, a piedi, rischiando col treno. Insomma, ce l’ho fatta. Siamo a casa. Dopo due mesi che sono a casa il richiamo alle armi. Io non ci vado, anzi vado. Che cosa succede? E’ una decisione che bisogna prendere con le dovute… Perché rischi forte, non puoi dormire più in casa, devi dormire nelle cascine, d’estate nei fossi e d’inverno di sopra nel solaio, perché ogni tanto venivano i carabinieri a controllare, a cercarmi. Perché loro sanno che non ho… Allora saltiamo un pezzettino adesso. Per tutti i quindici giorni ero ricercato dai carabinieri, in casa non c’ero perché ero via. Ci stufiamo di fare questa vita, cerchiamo di andare in montagna. Andiamo a Lecco. Arrivati a Lecco, arrestati subito.

D: Quando questo?

R: Questo circa nel ’44 in aprile.

D: E perché Lecco, Pierino?

R: Lecco perché per andare in montagna era la via più… Non so perché.

D: Non avevate un compagno?

R: Sì, eravamo accompagnati da uno che hanno fucilato quando l’hanno preso. Lì arrestati, dieci giorni di carcere.

D: Ma chi è che ti ha arrestato a Lecco?

R: I repubblichini. Portati in carcere dieci giorni, poi mi hanno portato a Milano e mi hanno fatto firmare un mucchio di documenti per il volontariato. Da Milano mi hanno portato a Novara. Da Novara sono scappato a casa.

D: Ma a Novara in carcere?

R: No, era una caserma, era un carcere ma era una caserma.

D: Solamente te o gli altri tuoi compagni che hanno portato a Lecco?

R: Eravamo in tre, sì.

D: Sempre di Gaggiano erano?

R: No, sono nato a Gaggiano, ma abitavo qui ad Abbiategrasso.

D: Abitavi già ad Abbiategrasso?

R: Sì, sì.

D: Voi tre che vi hanno arrestato a Lecco…

R: Mi hanno portato a Milano.

D: Poi a Novara.

R: Poi a Novara. Da Novara siamo scappati subito. Naturalmente lì siamo ricercati sempre, una vita da cani. Allora decidiamo di andare in montagna, ci troviamo in un bosco. Spia, circondati, sparatoria, tutti a casa. Ce l’abbiamo fatta ad arrivare tutti a casa. In quel periodo hanno arrestato uno, dopo un mese ha cantato. Lì mi hanno fatto il giochetto con la polizia politica, è venuto qua, ci troviamo al bar e così, ci mettiamo d’accordo quando partiamo in montagna. Quelli là erano della polizia segreta della Repubblica di Salò.

D: L’UPI, l’Ufficio della Polizia Politica.

R: L’Ufficio della Polizia Politica. Anzi, io ho dei documenti che comprovano la motivazione del mio arresto. Li ho qui. Ad ogni modo arrestati e portati, circondati.

D: Arrestati dove, Pierino?

R: Al bar, il bar della Lea, di fronte al bar della Lea. Eravamo in dieci compreso il padrone.

D: Qui ad Abbiategrasso?

R: Qui ad Abbiategrasso, qui, qui. Arriviamo là, ci portano a Legnano, al carcere di Legnano.

D: Scusami, Pierino, quando ti hanno arrestato?

R: Il 12 d’Agosto 1944. Poi portati a Legnano, a Legnano carcere. Dopo quindici giorni ci portano a San Vittore in raggio tedesco, perché eravamo dei politici. La destinazione era già scritta: Dachau. Raccontare le avventure, gli episodi di Legnano è un obbrobrio. Ho visto delle torture, addirittura impazzire. Hanno torturato i capi, poi li hanno uccisi sulla strada.

D: Ma quelli che torturavano lì a Legnano erano italiani o germanici?

R: Erano italiani. Allora faceva parte dell’Italia ancora, capito? Il raggio politico era un paradiso, il raggio politico e i tedeschi rispettosi, ci davano un mucchio da mangiare, una cosa che non davano gli italiani. Qui a San Vittore al quinto o sesto raggio, non ricordo. Siamo stati lì un quindici, venti giorni, poi col pullman ci hanno portati a Bolzano. A Bolzano ci hanno fatto lavorare, gli episodi non raccontiamoli.

D: Lavorare dove a Bolzano?

R: Spostare delle cose.

D: Ma dentro nel campo o fuori?

R: Ci portavano anche fuori a lavorare, a spostare. Poi c’è un episodio addirittura scioccante, ho cercato di salvare un ebreo e ho preso tante di quelle botte.

D: Dentro nel campo?

R: Nel campo, perché era un vecchietto e non ce la faceva a lavorare, allora ho cercato di aiutarlo. Botte. C’era un tedesco, sarà stato di sedici, diciassette anni, l’ha ucciso a legnate. Sanguinava dappertutto, ha ucciso quell’ebreo là. Io ho preso la mia razione, però ero talmente giovane io che…

D: Ma, Pierino, quell’ebreo, quell’anziano ebreo che dici te è quello che era partito con te da San Vittore?

R: Mi pare, adesso non so di preciso. Sul pullman eravamo ebrei e politici, capito? C’era un po’ di casino.

D: Ma lì a Bolzano ti hanno immatricolato?

R: No, no. Mi hanno dato la tuta blu con una croce rossa dietro.

D: Ti ricordi il tuo blocco qual era a Bolzano?

R: No, non ricordo.

D: Il triangolo ce l’avevi?

R: No, lì no. C’era la croce sulla tuta blu.

D: Il periodo in cui tu arrivi a Bolzano qual è? Te lo ricordi?

R: Posso grosso modo dire verso la fine di settembre, a metà settembre, principi d’ottobre. Mi ricordo un particolare, io ho fatto l’attraversamento della frontiera del Brennero la seconda domenica d’ottobre, che era la festa di Vigevano allora. Tutto lì.

D: Allora, sei stato a Bolzano, uscivate, collaboravate nel campo a spostare…

R: Sì, a spostare delle cose.

D: Cose di questo genere. Lì c’è quest’episodio di quest’anziano ebreo. Come fai a dire che era ebreo? Te l’aveva detto?

R: Ebreo perché eravamo insieme, si lavorava insieme purtroppo, gente che aveva dei possedimenti non indifferenti. Lei sa benissimo che l’ebreo si salvava per le possibilità economiche.

D: I tuoi compagni di Abbiategrasso, quelli arrestati con te…

R: Sì.

D: Hanno fatto il tuo stesso percorso?

R: Sì, fino a Dachau sì.

D: Fino a Bolzano siete assieme?

R: Sì, poi fino a Dachau sì.

D: Poi lì a Bolzano rimani quanto tempo più o meno?

R: Venti giorni, venticinque, non so bene. Grosso modo.

D: Poi un bel giorno vi chiamano?

R: Chiamano. Vagone, vagonetto, ci hanno caricati, vanno. Tanto per tagliare, tre giorni e tre notti ci abbiamo messo. Ci hanno scaricati a Dachau.

D: Ascolta, ti ricordi più o meno, Pierino, da dove siete partiti da Bolzano?

R: Dalla stazione.

D: Dalla stazione?

R: Dalla stazione.

D: Sul tuo Transport, sul tuo vagone in quanti eravate più o meno?

R: Sessanta, cinquanta o sessanta a vagonetto.

D: Eravate in tanti?

R: Tantissimi, tantissimi.

D: Solamente uomini o anche donne?

R: Donne e uomini, tutti insieme.

D: La stazione, cos’è che ti fa ricordare la stazione?

R: Tanti binari.

D: Poteva essere anche uno scalo ferroviario?

R: No, per me era la stazione. Naturalmente non proprio al centro della stazione dei passeggeri, spostato su un binario morto c’era quella fila di…

D: Dal campo alla stazione?

R: A piedi, ci hanno caricati a legnate. Lì c’era tutto, il bagno, doccia su quel vagone.

D: Ti ricordo se c’erano anche dei religiosi? Dei sacerdoti?

R: Ho trovato a Dachau un religioso, a Dachau sì.

D: Dopo tre giorni e tre notti di viaggio arrivate in un posto che voi non sapete…

R: No.

D: Non lo sapevate, no? Però è Dachau.

R: Dachau, grandioso. Forse centomila persone c’erano state dentro lì. Io avevo il numero, 113.577, di Dachau. Lì siamo stati…

D: Quindi lì vi hanno spogliato?

R: Spogliato, la doccia, ci hanno disinfettato, rasati tutti e hanno dato la divisa.

D: La zebrata?

R: Zebrata. L’immatricolazione.

D: Assieme al numero ti hanno dato anche il triangolo?

R: Sì, un triangolo di panno rosso con sopra il numero.

D: E poi in baracca?

R: In baracca.

D: Ti ricordi qual era la tua baracca?

R: 17.

D: Lì a Dachau cosa facevate?

R: A un dato momento ci portavano a migliaia fino alla stazione di Monaco a costruire le ferrovie che erano state bombardate. Si partiva alle tre di mattina e si arrivava alla una di notte. Ho fatto per quindici giorni quella vita lì.

D: Da Dachau a Monaco…

R: C’erano trenta chilometri, venticinque.

D: Come vi portavano?

R: Treno.

D: Nella stazione i civili vi vedevano?

R: Sì, strada facendo ci giravano le spalle, non potevano guardarci, giravano le spalle. I bambini tiravano i sassi, i ragazzini. Ci giravano le spalle, quando si passava giravano, capito?

D: E l’incontro con quel religioso a Dachau?

R: A Dachau è stata una cosa così, non ho avuto una motivazione religiosa, no, no. Niente, si aspettava la fine, la fine della guerra, non di morire. Sono stato lì circa un mese. Ho detto: “Dove mi hanno portato tre giorni e tre notti?”. Mi hanno diviso dai compagni, io sono stato insieme con uno di Abbiategrasso, gli altri sono andati a lavorare nella zona di Dachau. Io sono andato a lavorare invece a Bad Gandershein .

D: Questo tuo compagno di Abbiategrasso te lo ricordi chi era?

R: Malles Carlo. Morto, fucilato, il primo gruppo della fucilazione. Il 6 Aprile del ’45.

D: Poi un certo giorno vi chiamano lì a Dachau, vi dividono dagli altri e vi portano su un treno?

R: Un treno, tre giorni e tre notti. Arriviamo a Bad Gandershein L’avevo saputo dopo che era Bad Gandersheinnaturalmente. Lì non ci sono baracche, c’è una chiesa sconsacrata, si dormiva sulla paglia. Ad ogni modo si doveva costruire baracche. Io ho scritto che facevo il falegname. Tutto l’inverno del nord l’ho preso io fuori. Invece a quelli che lavoravano in fabbrica è andata bene, erano coperti almeno. Io l’ho presa tutta. Allora l’episodio della vita dei campi per me è caduto nell’oblio, è passato. Non mi dimentico, non posso dimenticare la marcia.

D: Ma lì arriviamo dopo. Allora, siete in questa chiesa sconsacrata…

R: Sì, dormire sulla paglia, un po’ di paglia, una coperta in due.

D: In quanti eravate più o meno?

R: Penso mille, mille e cento.

D: I germanici erano con voi? I tedeschi?

R: Quelli che lavoravano in fabbrica sì.

D: Loro dove dormivano?

R: Loro erano a casa loro, finito il lavoro alla fabbrica, la fabbrica era una fabbrica di assemblaggio di carlinghe, loro finito il lavoro andavano a casa. Noi dove andiamo? Là alla chiesa sconsacrata.

D: Voi eravate addetti a costruire le baracche?

R: Costruire le baracche.

D: E il campo.

R: E il campo.

D: E il materiale dov’è che andavate a prenderlo?

R: Il materiale era là pronto, perché si sapeva, era predisposto già. Quando arriviamo facciamo questo lavoro. Per costruire le nostre baracche, le baracche per noi, capito?

D: Di legno?

R: Sì, di legno.

D: Quindi avete costruito le baracche e poi andavate in fabbrica a lavorare?

R: No, io ho dormito dieci giorni in baracca, perché quando hanno costruito le baracche è arrivata la famosa marcia. Capito?

D: Ti ricordi quante baracche erano che avete costruito?

R: Erano divisi, italiani russi, metà italiani e metà russi. La maggioranza erano francesi, polacchi, greci, spagnoli.

D: Di italiani chi ti ricordi?

R: Ricordo il mio amico con cui sono partito da Abbiategrasso, ha fatto una brutta fine, fucilato perché non ce la faceva più a camminare. Parliamo della marcia. La vita lì nel campo si sa.

D: Quanto tempo siete rimasti in quel campo?

R: In quel campo lì ottobre, novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo e aprile.

D: Lì non ti hanno rinumerato?

R: Sì. Lì mi hanno dato il numero di Buchenwald 94.565, detto dal tedesco poi era una cosa…

D: Te lo ricordi?

R: Madonna, no, …….

D: Quindi sette mesi.

R: Sette mesi.

D: Avete costruito quante baracche, dicevi?

R: Una baracca per i francesi perché erano in maggioranza, poi a divisione, russi, italiani e tutto.

D: Il campo era recintato?

R: Recintato, torrette, fili spinati. Di notte si andava al bagno, bello questo. Si andava in bagno fuori e le sentinelle si divertivano a sparare. Bel divertimento. Tutto lì, ecco.

D: Dopo sette mesi?

R: Succede…

D: Arriva l’ordine di evacuazione.

R: L’ordine di evacuazione, cosa dice l’interprete? Chi non è capace di camminare lo portiamo in camion. Una cinquantina, sessantina sono usciti. Quell’interprete ha visto me, ha schiacciato l’occhio e ha detto: “No, eh”. Di fatto mi ha avvisato, li hanno fucilati tutti.

D: Anche il tuo amico?

R: No.

D: Non lì?

R: No, non lì. Cominciamo la marcia.

D: Cosa vi hanno dato per la marcia?

R: Cosa avevano dato…

D: Avevate una coperta?

R: Niente.

D: Avevate da mangiare?

R: Niente.

D: Avevate da bere?

R: Niente, la neve che si trovava facendo le colline. Ad ogni modo comincia la marcia, chi si ferma è morto. Di fatti quelli che crollavano, gli davano un colpo in testa e li lasciavano là. Quelli che tentavano la fuga subito via. Arriviamo al 6, comincia la fucilazione in gruppi.

D: 6 di aprile, no?

R: 6 di aprile. E’ stato quando hanno ucciso… li portavamo io e il mio amico. Quando hanno chiamato li hanno portati fuori, hanno buttato indietro, li hanno messi sul ciglio della strada, venticinque, trenta, li hanno fucilati tutti. Così pomeriggio e sera. Quante volte sono uscito io, non mi volevano morto. Fino al 12 aprile. Il 12 aprile tentiamo la fuga in quattro, io, uno di Corbetta. Sono morti tutti. Naturalmente scappiamo, quelli là sparano, il milanese è stato colpito. Basta. Le pallottole attraversavano i vestiti, in mezzo alle gambe. C’era la campagna, era come se fosse un gioco di bocce, liscia. Tutte le pallottole che passavano per le gambe, stracciavano i vestiti, niente. Appena viste due piante, ci siamo messi dietro alle piante. Arriva un tedesco, mi spara a cinquanta centimetri. Siamo in piedi ancora. In totale mi hanno arrestato ancora sei volte, però avevano paura a tenerci, avevano paura anche a ucciderci. Allora cercavano di liberarsene, si andava avanti, dopo cinquecento metri altro arresto, fino a quando arriviamo al punto che passata una colonna di mongoli prigionieri di guerra ci hanno incolonnati e portati in una baracca. Lì sono arrivati gli americani.

D: Questo posto dov’era, te lo ricordi più o meno? Vicino a quale città grossa?

R: Vicino a Halle, mi pare.

D: Ascolta, prima di queste fucilazioni, prima del 6 aprile del ’45, quando voi eravate in marcia della morte camminavate di giorno?

R: Di giorno, di sera. Di notte ci si fermava in un pagliaio. Prima di partire dal pagliaio si mettevano là dieci tedeschi, perché sapevano che si nascondevano nella paglia.

D: E sparavano?

R: Sparavano.

D: E mangiare?

R: Niente, l’erba.

D: Bere?

R: Bere la neve che s’incontrava, c’era ancora la neve là, in Austria c’è una temperatura differente.

D: Eravate solo uomini lì?

R: Sì, solo uomini.

D: Donne non ce n’erano?

R: No, no.

D: Avete attraversato durante la marcia della morte dei paesi abitati?

R: No, non mi ricordo questo, no. Una volta abbiamo dormito in una chiesa. Il giorno prima della prima fucilazione in massa. Quella volta mi ricordo che abbiamo dormito al riparo.

D: Sempre durante la marcia della morte sono arrivati degli aerei?

R: No. Gli aerei li abbiamo trovati… Quando siamo scappati dalla marcia, dove si va? Si va dove i tedeschi scappano.

D: Voi incrociavate i tedeschi?

R: Sì, sì. Ci siamo salvati… L’emozione della Liberazione non si può descriverla.

D: Questo quando eri dentro con i mongoli?

R: Sì, sì.

D: Lì con i mongoli dove siete andati? In un campo?

R: C’era una specie di villetta con il capannone dove si dormiva, perché lì lavoravano. C’era una cava. Lì è arrivata una camionetta.

D: Di russi?

R: No, era zona russa, però hanno liberato gli americani.

D: Ah, sono arrivati gli americani?

R: Sì, era ad est di Lipsia, capito? Sono gli americani che hanno liberato.

D: Voi non sapevate niente, arriva questa camionetta…

R: Sì, c’era una sparatoria vicino. I tedeschi sono scappati.

D: E lì cos’è successo?

R: Lì è successo che i mongoli … e noi eravamo scheletriti, proprio una cosa… Hanno cominciato a fare razzia, razzia nelle cascine vicino perché la fame era questa. Noi mangia, mangia, mangia, sono stato quindici giorni col mal di cuore. Sono scoppiato, capito?

D: Ma avevate ancora la vostra zebrata?

R: Sì, dopo loro mi hanno visto così e i mongoli mi hanno dato un paio di pantaloni e una camicia.

D: Poi gli americani?

R: Gli americani quando mi hanno liberato sono rimasti scioccati, perché là erano omoni, noi invece eravamo tre scheletri. Continuavano a domandarci: “Ma da dove venite? Cosa hai fatto per essere così?”. Tra l’altro poi c’era disprezzo tra noi e i russi, la croce. Cannibali eravamo, sporchi. Come diceva Gianni, scabbia, orticaria, tutte le malattie della pelle addosso.

D: Ascolta, solamente voi tre siete stati messi con questi mongoli? Altri deportati?

R: Non li ho visti.

D: Ti ricordi più o meno in quanti siete partiti all’inizio della marcia della morte?

R: Della marcia mille e qualche cosa.

D: E ti ricordi più o meno quanti sono arrivati a destinazione?

R: No perché sono scappato prima io.

D: Però ti ricordi delle molte fucilazioni di massa.

R: Quelle sì, perché sul ciglio della strada era una sparatoria continua, mattino e pomeriggio.

D: Quindi il tuo periodo di deportazione, oltre a lavorare, a fare certi lavori, recupero e spostamento macerie a Bolzano o a Dachau che andavi alla ferrovia a ripristinare le stazioni dopo i bombardamenti di Monaco, è stata la costruzione di quel sottocampo di Buchenwald?

R: Sì, sì. Là a Bad Gandershein.

D: Esatto. In fabbrica non sei andato tu?

R: No, non ho fatto tempo ad andare.

D: Poi hai fatto però la marcia della morte?

R: La marcia sì, siamo partiti e quelli che sono arrivati, pochi….

D: Piccola parentesi, lasciamo perdere adesso un attimo il discorso della deportazione tua, ci racconti quei due episodi di Abbiategrasso?

R: E’ scioccante ritornare indietro nel tempo, non so. Via De Amicis, ragazzini, si cantavano le canzoni, “Ven chi, Ninetta, sotta l’umbrelin”. Si avvicina una vecchietta: “Non cantate questa canzone”. Noi siamo andati via. Perché? Poi un episodio che mi ha colpito è stato: uno viene fuori di galera, l’ho saputo dopo, Via Noli, arriva il Colombini, era prigioniero politico. Tutta la gente si spostava quando arrivava lui, uno solo ha avuto il coraggio di abbracciarlo, un certo Franco. Uno solo. Noi avevamo una mentalità, una cultura della prigione un po’ particolare. La prigione come delinquenza, non si capiva la motivazione politica. Pochi anni, capito?

D: Ma il fatto della fabbrica lì?

R: No perché era stato portato via prima di noi.

D: E’ stato arrestato prima?

R: Quelli sono stati arrestati prima per uno sciopero. Per uno sciopero, la Sato. Sato, adesso è una sigla che non so… Una fabbrica di chiodi che ho detto prima.

D: Sono stati arrestati?

R: Non è venuto a casa nessuno di quelli lì.

D: Ma li hanno portati via?

R: A San Vittore, poi hanno fatto la nostra fine.

D: Qui invece ad Abbiategrasso è stato fucilato anche qualcuno?

R: Due. Dicevano che uno aveva ucciso il tabaccaio di San Vito di Gaggiano per una rapina, era tutta una propaganda. E uno invece l’hanno ucciso qui, dove l’hanno preso? L’hanno preso alla fossa, stava fuggendo.

D: Ma chi è che fucilava lì?

R: Fucilava là, io non potevo assistere, dico la verità. Sentivo. Io so che il capo della sezione qui di Abbiategrasso dava il colpo di grazia. Poi non so chi.

D: Il capo della sezione di?

R: Dei repubblichini.

D: Quindi italiani?

R: Italiani. Quello lì dava il colpo di grazia.

D: Quando è avvenuta questa fucilazione? Ti ricordi?

R: Guarda, ti dirò. Forse nel mese di aprile, maggio, giugno. I due fucilati.

D: Di che anno?

R: Sempre del ’44.

D: Poi altri episodi che sono avvenuti, tipo quello di Robecco? Di Cassinetta?

R: Sì, sì. Allora ogni tedesco ucciso, dieci condannati a morte. Lì a San Vittore l’episodio più eclatante, lì uccisero qualche tedesco, l’hanno portato fuori in venti, l’hanno messo davanti al muraglione con dietro il plotone d’esecuzione. Eravamo là ad aspettare che sparavano. A un certo momento contro ordine. La reazione si fa dopo però, in quel momento non ci si crede, non ci credi. Possibile? E’ una cosa impossibile questa. Non abbiamo fatto niente.

D: Ascolta, Pierino, quando tu eri a Legnano, nelle carceri di Legnano, o a San Vittore sei riuscito a parlare con i tuoi o a scrivere ai tuoi familiari?

R: No, mi hanno preso il 12 agosto del ’44, sono tornato il 30 agosto del ’45, niente scrivere.

D: Cioè i tuoi non sapevano più niente?

R: Niente, niente.

D: Come hai fatto a tornare?

R: Tornare…

D: Dal campo.

R: Siamo stati là qualche mese da soli noi tre, perché a un dato momento è stato così. Io non so le faccende politiche. A un dato momento arrivano gli americani col camion, a botte hanno caricato tutti i mongoli sul camion. Noi siamo rimasti là così tutti e tre. Adesso cosa facciamo? Siamo andati a … qualche mese, poi se stiamo qui non andiamo più a casa. Ci siamo avvicinati a un paese e abbiamo trovato lì degli italiani. Gli italiani poi mi hanno portato col camion a Lipsia, una frazione che adesso sarà proprio Lipsia, Tauka. E’ un paese che era un campo di concentramento. Siamo stati là fino a quando siamo partiti. A metà giugno, luglio ho fatto cinquantaquattro giorni sul treno. Siamo andati da Lipsia, penso che sia a 800 chilometri dalla frontiera italiana, siamo andati fino a Odessa. Di qui il libro di Primo Levi “La tregua”. Ad un certo momento ci hanno fatti tornare indietro, la trafila era naturalmente Ucraina, Ungheria, Austria, Italia.

D: Dall’Italia sei rientrato da dove? Dal Tarvisio o da Bolzano?

R: Da Bolzano. Perché ci siamo fermati ad Innsbruck, ci hanno disinfettato, come ha spiegato Gianni.

D: Anche voi?

R: Sì, disinfettato tutto, il DDT. Ci hanno riempito di DDT. Poi siamo arrivati a Bolzano, c’era la Croce Rossea, come ha spiegato. Ma io sono arrivato a Milano in treno, lui in camion. Io da Bolzano in treno sono arrivato a Milano. Lui è arrivato in camion, capito?

D: Ascolta, Pierino, in questi cinquantaquattro giorni in treno come hai mangiato? Chi vi dava da mangiare?

R: Diciamo la verità, avremo mangiato forse, hanno dato il pane per quattro o cinque giorni. Altri si fermavano ai paesi, si vendeva una camicia, si dava il pezzo di pane. Tutti così. Però c’era un fatto, che noi su settanta vagoni eravamo quindici deportati politici, non quindici vagoni, quindici persone salvate in quella zona. Dove la gente, quando ci vedeva, ci dava ogni ben di Dio. Noi non abbiamo patito la fame, ma quegli altri sì. Quegli altri erano prigionieri di guerra.

D: Ascolta, gli americani quando ti hanno liberato…

R: Il 13.

D: Il 13?

R: Aprile.

D: Ti hanno rilasciato un certificato, un documento, un qualcosa?

R: No, niente.

D: Neanche quando sei rientrato in Italia a Bolzano ti hanno dato un certificato?

R: Niente, niente.

D: Sempre, scusami, gli americani quando vi hanno liberato hanno preso i vostri nomi?

R: No.

D: Hanno dato comunicazione via radio?

R: No, no. Niente.

D: Neanche a Bolzano?

R: Niente neanche a Bolzano.

D: A Bolzano nessuno ti ha chiesto…?

R: No, no. Niente.

D: Come ti chiami, da dove vieni?

R: No, no, niente.

D: E quando sei arrivato a Milano?

R: A Milano avevo un paio di stivali, un paio di pantaloni e nudo. Sono arrivato a casa così. Sono arrivato lì, allora a Porta Ticinese c’era il tram. Lì mi hanno riconosciuto.

D: E anche lì a Milano non è che hanno preso le tue generalità?

R: No, ti dirò di più. Io vado a scuola e ci vogliono i documenti per passare di ruolo. Allora vado al distretto, a botte mi hanno buttato fuori perché sulla scheda io ero fascista. Quelle carte che ho firmato precedentemente sono rimaste là. Io ero un militare della Repubblica di Salò. A pedate eh. Ma cosa ho fatto io? Poi ho cominciato a racimolare documenti comprovanti. Quando hanno scoperto che io veramente non ero così sono rimasti male.

D: Sono rimasti solo male?

R: Hanno chiamato i capitani, i graduati del distretto. Hanno voluto sapere, sempre la solita storia. Come ti sei salvato? Tutto lì è stato. Dopo hanno cominciato a trattarmi molto bene, avevo i documenti di cui avevo bisogno. Infatti quando abbiamo fatto la domanda per la pensione se non c’erano quei documenti…

D: Una domanda così, Pierino. Campo di Bolzano, cioè Lager di Bolzano, Lager di Dachau, Lager di Bad Gandershein, che è un nome difficilissimo per me da pronunciare, marcia della morte, come ti sei salvato? A cosa pensi?

R : Una fortuna sfacciata. Ti dirò di più, io sono stato odiato dai parenti dei miei amici perché mi sono salvato. Che cosa ha fatto quello lì per salvarsi? Io ancora adesso non ho mai avuto autostima in me stesso, un umile proprio. Cosa si poteva diventare nei campi di concentramento? La firma per andare dalle SS non si poteva, fare il Kapò erano i delinquenti comuni, triangolo verde chi faceva il Kapò e picchiavano. Adesso sono compreso, hanno capito che io non ero… Se ero così intraprendente nella vita avrei fatto… Invece sono stato…

D: Dopo che sei tornato e dopo la brutta esperienza, per esempio quando sei andato a chiedere i documenti e risultava che tu eri uno della RSI e non che venivi dai campi di concentramento, hai iniziato a raccontare la tua storia?

R: Un po’ all’ITIS.

D: In che anni?

R: Io ho fatto dal ’63 fino all’87. In principio sì, ma c’erano i fascistelli. Io non avevo niente da nascondere, la realtà era così.

D: Quindi hai raccontato un po’ ai ragazzi così?

R: Sì.

D: E agli altri a casa, ai tuoi amici?

R: Ho lì delle poesie fatte dai ragazzi che sono toccanti, guardi.

D: Ma raccontare la tua esperienza agli adulti, ai tuoi amici di una volta…

R: Più che raccontare la mia vita, racconto magari qualche episodio, ma non la mia vita. Ho detto che non la sa neanche casa mia la mia vita. Potrei cercare di liberarmi perché io urlo ancora di notte adesso. Basta?

D: No. Un attimo di pausa. Tu sei ritornato però a Dachau?

R: Sì, sono andato. No, a Dachau no.

D: A Buchenwald?

R: A Mauthausen.

D: A Mauthausen? A Buchenwald non sei andato?

R: No, no.

D: A Dachau non sei ritornato?

R: No, mi spiegavano gli amici sapendo che ero stato là, mi raccontavano, ma non sono mai andato. Sono andato a Mauthausen, Linz, quelle zone lì, Salisburgo.

D: Cos’è che ti frena a ritornare a Dachau?

R: I ricordi, non riesco a sopportare. Sono andato due volte poi, è un fattore masochistico andare là a soffrire da matti, piangere disperatamente quando si vedono quei campi lì. Capito?

D: Il contatto con i tuoi ex compagni di deportazione l’hai mantenuto però quando sei tornato?

R: No, ci siamo persi. Il Manzoni Ferruccio di quella zona lì, di Corbetta è morto l’anno scorso. Quando l’ho saputo, che l’ho letto sul giornale, ho telefonato, ma non rispondeva più nessuno, quindi…

D: E prima non vi siete più…?

R: Sì, qualche volta c’erano dei problemi e allora ci sentivamo, qualche volta, uno solo però. L’altro è morto quasi subito però.

D: Volevo chiederti, dicevi delle carceri di Legnano, erano proprio delle carceri o erano edifici…?

R: Carceri, carceri monumentali. Faceva parte sempre di San Vittore, ho qui dei documenti io.

D: Però gestite da italiani?

R: Gestite da italiani, sì. Gestito dai tedeschi è stato San Vittore al secondo raggio, che è un raggio comune. Dopo due giorni ci hanno portati al quinto, sesto raggio, non ricordo. Sezione politici. Poi al secondo raggio eravamo sempre in cella, invece là alle otto fuori dalla cella, tutti in corridoio, quindi è un paradiso il raggio tedesco, ci tenevano buoni.

D: Qui però a Legnano ti hanno interrogato?

R: Sì. Abbiamo cercato di salvare il padrone dell’osteria allora dicendo che le nostre riunioni si facevano a Castelletto. Capito? Invece le riunioni non si facevano. Di fatti l’hanno liberato, meno male. Come si chiamava? Non mi ricordo più adesso.

D: Perché non ci vuoi raccontare un po’ del campo? Di Dachau? O di Bad Gandershein?

R: Ti dirò…

D: Sette mesi in quel campo lì cosa hanno significato per te? Sette mesi sono tanti.

R: Sette mesi… Il calorifero umano, era freddo. Per riscaldarsi ci si sbatteva tutti contro la parete, tutti, una massa di cento persone si dondolava per scaldarsi. Si cambiava, quelli sotto venivano sopra.

D: Facevate la stufa umana?

R: Stufa umana.

D: Eravate tutti politici lì nel campo?

R: Sì. Tutti politici.

D: Di diverse nazionalità?

R: Lì a Dachau sia a Bad Gandershein, tutto una terra… Il linguaggio è universale, quando si parlava una parola tedesca, una polacca, una russa, una greca.

D: Ti ricordi episodi di solidarietà?

R: No. Non ce ne sono. L’unica speranza era sentire gli americani vicino, la solidarietà no. Non c’è. Erano bestie, la lotta per la sopravvivenza è una cosa che rende bestiale la gente. Anche ho notato una cosa in particolare, davanti a certe disgrazie uno invoca Dio? No, uno invoca la mamma, non Dio.

D: Neanche l’ideologia, la fede politica?

R: No, no. Parlare neanche di politica, di speranza… No, si vegetava. Per quello che io nel campo sette mesi là a Bad Gandershein ho un po’ d’oblio, la vita era monotona, stancante. Uno stava morendo. Un episodio, c’era a terra una creta, quando pioveva diventava… Uno cadeva. Io ho provato a stare male, uno stava là tutto il giorno, metà dentro e nessuno che ti aiutava. Sei solo. Sai che cos’era? Avevo vent’anni e allora lo spirito di conservazione prendeva il sopravvento.

D: Cioè tu sei rimasto un giorno con metà…?

R: Metà dentro nella creta e metà fuori, nessuno ti aiuta. Sei solo. Brutto questo.

D: Devi contare solo su te stesso, sulle tue forze.

R: Nel ’44 io avevo 19 anni, 20 anni. Sono stato liberato, li compio in agosto, in aprile del ’45 avevo 20 anni ancora. La voglia di vivere c’è sempre. Guai levarsi i pantaloni, perché se vedevi la magrezza uno andava giù di morale. Allora i pantaloni non li levavo più. L’ho fatta lunga.

D: Quindi se ho ben capito a Bad Gandershein avete costruito più o meno cinque o sei baracche?

R: Sì.

D: Più o meno. Avete costruito anche la baracca del capo campo?

R: No, era una zona legata sempre, però isolata per loro, per il Kapò. Naturalmente l’episodio, quello che colpiva nel campo di concentramento era… Noi eravamo dei luridi, i Kapò erano tutti gay. C’era una margherita in mezzo al nero, quello lì era l’amante del Kapò. Si distingueva, era una cosa addirittura… Colpiva, una persona pulita in mezzo ad una fila di straccioni proprio. Colpiva molto.

D: Durante la tua deportazione a Bad Gandershein ti sei ammalato o non ti sei ammalato?

R: Quella volta che mi sono sentito male… Noi eravamo forgiati di quella che è la miseria anche a casa nostra, quindi eravamo preparati, capito? Casa mia, mio padre più che lavorare non poteva fare, però era una vita di stenti. Allora ho guadagnato, ho avuto il vantaggio di soffrire meno di quelli che stavano bene. Se andasse là uno adesso col tenore di vita che facciamo, là due giorni ed è morto quello là. Capito?

D: Vuoi aggiungere qualcosa? Ti è venuto in mente qualche episodio?

R: Non so. Bisogna spingere un camion, là centinaia addosso al camion, cinquanta che spingono, dietro il tedesco con la frusta. Per aiutare ad aizzare la forza, che la forza non c’era. La fame… Ho provato ad andare a rubare dalla pattumiera della mensa dei tedeschi. Sono episodi che… Preso, botte, fuggito e tutto il resto. Era un problema generale più che particolare. Particolare fa male.