
Vittoriano Zaccherini
Nato il 28 novembre 1926 a Dozza (Bologna)
Intervista del 22/8/2000 a Bologna, realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL: n. 38 – durata 42’
Arresto: il 20 novembre del 1944 ad Imola
Carcerazione: a Imola, nelle carceri della Rocca sforzesca; a Bologna, nella sede delle SS ai Giardini Margherita in via S. Chiara, poi al Carcere di S. Giovanni in Monte
Deportazione: Bolzano; Mauthausen, matricola n. 115.778; Gusen I (sottocampo di Mauthausen); di nuovo, Mauthausen
Liberazione: il 5 maggio 1945 a Mauthausen
Nota sulla trascrizione della testimonianza:
La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.
Mi chiamo Zaccherini Vittoriano. Sono nato a Dozza, il 28.11.‘26. Son stato arrestato dalle brigate nere il 20 novembre 1944. Arrestato e portato nelle carceri di Imola, che sono dislocate nella Rocca.
D: Ecco, scusa Vittoriano, ma perché tu sei stato arrestato?
R: Sono stato arrestato naturalmente per una spiata perché io era già da cinque mesi che ero su nei partigiani.
D: Dove?
R: Nei partigiani, ero su nel Sap montano, che era un distaccamento della 36ª Brigata Garibaldi che operava nelle colline toscano-romagnole.
D: E sei stato arrestato dove?
R: Sono stato arrestato a Imola. Dopo, naturalmente, essendo stato in brigata, la mia compagnia in un’azione di guerra fu tagliata fuori. Io fui mandato nella Bassa Romagna, dai gappisti. Il 20… il 19 novembre, il Comitato di Liberazione mi ordinò il ritorno a Imola, per potere formare il battaglione di città, cioè, tutti quei partigiani che erano stati in montagna venivano richiamati una parte di loro in città per formare il battaglione per occupare Imola.
Io arrivai a Imola con una staffetta partigiana, con una ragazza che portava, naturalmente le mie armi, in bicicletta. Arrivai a casa la mattina che erano le 6, 6 e mezzo; alle 8 dovevo rientrare a prendere le mie armi da questa ragazza che lavorava in centro a Imola, ma a una spiata le brigate nere sapevano già che io ero arrivato. Come traversavo la piazza mi vidi a 50 metri il gruppo delle brigate nere, che erano in cinque, che mi dissero l’alt, “abbiamo saputo che sei arrivato, ti venivamo a prendere”. La mia fortuna fu che non entrai prima dalla staffetta partigiana che aveva le mie armi, perché in questo caso venivo preso con le armi in mano, e lì c’era praticamente la fucilazione.
D: Con te sono stati arrestati degli altri?
R: Con me sono stati arrestati, non quella mattina ma i giorni susseguenti, altri sette ragazzi imolesi che han fatto il carcere con me a Imola, l’interrogatorio a Bologna e al comando delle SS, e il carcere a San Giovanni in Monte fino alla partenza per la Germania, per Bolzano.
D: A proposito di interrogatori, quando tu eri nelle carceri della Rocca a Imola, sei stato interrogato?
R: Io sono stato interrogato e malmenato parecchie volte, perché, naturalmente, sapevano che io ero nei partigiani; e un mese prima, il comandante delle brigate nere di Imola fu… i gappisti imolesi tentarono di ucciderlo, e lui credeva e pensava che io sapessi chi aveva sparato a lui.
D: Gli interrogatori, chi te li facevano?
R: Gli interrogatori in un primo momento furono fatti dalla brigata nera, che la sera del 28 novembre, il giorno che io compii gli anni, mi misero in una vasca – era un inverno freddissimo – in una vasca ghiacciata, nudo, e col calcio della rivoltella mi picchiavano in testa finché io dovevo stare immerso nell’acqua, che naturalmente non gliela facevo, e botte: fui malmenato parecchie volte in quelle condizioni lì.
D: Oltre le brigate nere ti ha interrogato anche…
R: Dopo mi hanno interrogato le SS. Naturalmente, dopo aver avuto gli interrogatori delle SS, dalle carceri di Imola ci mandarono tutti e otto, io e i miei sette compagni di prigionia, al comando delle SS qui a Bologna, ai Giardini Margherite [Giardini Margherita, ndr]. Di lì, furono anche lì tre o quattro giorni di interrogatori, siamo stati malmenati tutti anche lì e poi dopo portati a San Giovanni in Monte, nelle carceri.
D: Sempre di Bologna.
R: Sempre di Bologna, sì.
D: Vittoriano, il 22 e il 23 dicembre del ’44, cosa è successo a te?
R: La partenza… sì. Dunque, noi partimmo da Bologna in quelle giornate lì. Da Bologna fummo caricati in dei camion, fummo portati naturalmente a Bolzano. Prima della partenza una parte di noi furono chiamati fuori e furono fucilati. Quelli più compromessi, non so… C’erano dei gappisti chiamati Vento, Temporale, gente che erano conosciuti, di Bologna, furono fucilati, mentre noi, il gruppo dei – secondo loro – dei meno coinvolti, oppure anche i più giovani, fummo mandati naturalmente nel campo di smistamento di Bolzano.
D: Quanto sei rimasto a Bolzano?
R: A Bolzano siamo rimasti fino ai primi di gennaio, dove naturalmente partimmo nei carri bestiame per andare verso la Germania, che noi non sapevamo dove andavamo a finire.
D: A Bolzano sei stato immatricolato?
R: Siamo stati tutti immatricolati a Bolzano. Solo che io non mi ricordo il numero di Bolzano, purtroppo… ma non solo io eh, parecchi anche dei miei compagni, non ci siamo mai ricordati il numero di matricola che avevamo a Bolzano.
D: E il blocco te lo ricordi?
R: Nemmeno il blocco. Di Bolzano non ci ricordiamo niente.
D: Ecco, ma cosa facevate tutto il giorno nel campo di Bolzano?
R: Noi, a differenza da altri… perché noi eravamo considerati, naturalmente, non rastrellati. Noi eravamo dei prigionieri politici, noi non andavamo fuori a lavorare come parecchi facevano nel campo di Bolzano: noi eravamo destinati a partire in un tempo breve, per quello che per quei pochi di giorni, una decina di giorni che siamo stati a Bolzano, siamo stati sempre chiusi nelle nostre baracche, senza far niente.
D: Ti ricordi se a Bolzano hai visto anche delle donne deportate?
R: No, no, noi no, non le abbiamo viste.
D: E dei religiosi, te li ricordi?
R: Dei religiosi ce n’era uno nel blocco con noi, nella baracca con noi, che dopo poi venne in Germania, venne a Mauthausen nel nostro convoglio, ecco.
D: Ti ricordi il nome?
R: Era… è stato anche segretario della sezione di Roma… e non me lo ricordo. Non me lo ricordo il nome.
D: Don Gaggero forse?
R: Sì, sì. Don Gaggero. Don Gaggero, sì.
D: E dopo siete stati portati dove?
R: Noi, naturalmente, caricati nei carri bestiame a Bolzano, dopo cinque giorni di viaggio, con una scatoletta e un quarto di pane tedesco, siam partiti verso destinazione. Naturalmente non la sapevamo dove andavano a finire, ci siamo ritrovati dopo cinque giorni alla stazione ferroviaria di Mauthausen, ecco.
D: Dal campo di Bolzano al Transport, con cosa siete andati a Bolzano?
R: A Bolzano ci siamo andati in dei camion tedeschi, sì.
D: E vi hanno inserito nei vagoni dove? Cos’era, alla stazione?
R: Alla stazione di Bolzano, sì. Dal campo, naturalmente ci han mandati in stazione e ci hanno caricati, sempre scortati dalle SS, in questi carri bestiame che ci hanno trasportato verso Mauthausen, ecco.
D: L’arrivo a Mauthausen, come te lo ricordi?
R: L’arrivo a Mauthausen me lo ricordo, naturalmente… Siamo arrivati una mattina all’alba. Me lo ricordo che, come siamo scesi da questa tradotta, c’erano le SS coi cani, come hanno aperto questi vagoni, e ci hanno incolonnato in quattro a quattro, e loro dai fianchi, dai lati. Eravamo circa un settecento, il convoglio che da Bolzano è andato a Mauthausen. E pian piano ci siamo diretti verso la collina, naturalmente ignari di tutto quello che ci poteva aspettare, perché noi non sapevamo dove andavamo, noi pensavamo a un campo di lavoro, ecco. Invece naturalmente strada facendo, sempre con queste SS vicino e coi cani, che non potevamo… cercavamo sempre di stare verso il centro del gruppo perché altrimenti loro, in continuazione alle estremità, ci malmenavo sempre da tutti i lati.
D: E poi l’ingresso a Mauthausen.
R: E poi l’ingresso al campo di Mauthausen. Noi siamo entrati… La prima esperienza è stata positiva, quella di Mauthausen per noi, perché pensate che noi avevamo 17, 18 anni, il più anziano di noi aveva 23 anni. Noi siamo arrivati a Mauthausen non dalla parte… dall’entrata del campo principale, siamo arrivati dal campo dove c’erano i servizi, e lì all’entrata c’era – c’era, che c’è ancora – una piscina che allora era… la usavano. Allora io mi ricordo con i miei compagni, naturalmente alla nostra età particolare, che ci siamo detti “ma guarda in che bel posto veniamo a finire, qui c’è piscina, c’è tutto”. Naturalmente l’esperienza è stata ben diversa, perché come noi siamo entrati dalla parte principale, che ci han messi tutti in fila davanti per andare giù verso le docce, ci siam resi conto tutta questa gente zebrata con i vestiti a righe, del posto che era, naturalmente.
D: Poi la spoliazione.
R: Poi la solita spoliazione. Naturalmente la spoliazione, nudi completamente, tagliati, rasati, dove c’erano peli li levavano da tutte le parti, e in mezzo alla testa ci han fatto una riga larga due dita col rasoio, perché dicevano che in caso di fuga noi ci riconoscevano, naturalmente, che era poi impossibile poter fuggire da quel campo lì. E poi dopo ci han mandato, nudi, con una temperatura – perché pensate che noi siamo arrivati a Mauthausen che erano il 6 o il 7 di gennaio, la temperatura che c’era, dai 10 ai 12 gradi sottozero, nudi completamente – ci hanno mandato nel campo di quarantena, che è il campo là in fondo, in fondo all’Appelplatz insomma. E di lì ci siamo stati una decina di giorni, e poi ci han mandato nelle baracche, una parte di noi. Io ero alla diciottesima baracca. Di lì ci siamo stati una decina di giorni e quasi tutto il nostro convoglio è stato trasferito a Gusen, Gusen I e Gusen II.
D: L’immatricolazione, quando l’hanno fatta?
R: L’immatricolazione l’han fatta su a Mauthausen. Ed io, la prima esperienza che io ho avuto in quei giorni lì a Mauthausen che ero, è stata il mio numero di matricola. Pensate che io avevo il 115.778. È il primo appello che ho avuto, era un russo che faceva l’appello, e naturalmente io non sapevo niente, e non rispondo all’appello, nessuno mi dice niente. La sera, al rientro in blocco, mettono tutto – prima della zuppa, prima della cena – mettono tutto il blocco in fila e mi chiamano, mi chiamano fuori, mi vengono ordinate venti gommate, col Gum[mi]. Ogni baracca lì nel campo, sia a Mauthausen che giù a Gusen, le baracche avevano uno sgabello, lo sgabello delle punizioni, che ti mettevi così a boccone, e c’era uno addetto che ti menava. Naturalmente, dopo tre o quattro uno perdeva i sensi, sveniva, ma però la punizione era di venti, e dovevano continuare a darti le venti, e poi dopo ti buttavano nella tua parte di pagliericcio dove dormivi. Allora, a Mauthausen non c’erano più i castelletti: noi dormivamo in terra, dormivamo in terra in quattro ogni pagliericcio, cioè una metà sull’altro, due di testa e due di piedi. Io dormivo con due slavi e un francese. Naturalmente, quando la mattina di nuovo c’era alle 6 l’appello nell’Appelplatz, chiedo al francese. Perché poi la sera prima mi han spiegato la ragione perché m’han menato: perché non avevo risposto all’appello. E disse: “Sappi che l’appello lo fa un russo, te hai il 115.778, è [numero in lingua russa, ndr]”. Ecco, quella lì è stata la mia prima esperienza avuta nel campo di Mauthausen.
D: Poi ti hanno vestito?
R: Sì. Poi dopo, naturalmente, ci hanno vestito. E poi, dopo una decina di giorni, ci hanno mandato giù a Gusen, a Gusen I. Io lavoravo alla Steyr, che era una fabbrica particolare di mitragliatrici. Io lavoravo in due frese, praticamente si lavorava al coperto, si stava relativamente abbastanza bene. Il problema era che andando al lavoro, anche lì, di qua e di là c’erano le SS coi cani che chi era sempre agli estremi, alla fine, veniva menato in continuazione. C’era sempre quella preoccupazione lì, perché se cadevi in terra naturalmente potevi essere finito con un colpo alla nuca, oppure a menarti finché non gliela facevi più a venire su, ecco.
D: Vittoriano, le officine dove tu lavoravi a Gusen I, erano all’interno o all’esterno?
R: Erano all’interno
D: All’interno del campo?
R: Sì.
D: Quindi tu non uscivi dal campo?
R: No no no, io non uscivo dal campo. Non erano come quelli che erano a Gusen II, che andavano…
[INTERRUZIONE]
D: Le officine erano all’interno o all’esterno?
R: Erano all’interno del campo.
D: Dicevi, non era come a Gusen II…
R: Non era come alla Messerschmitt, che dovevano fare un tragitto per andare sotto le gallerie che avevano scavato, sì.
D: Quante ore lavoravi tu?
R: Dodici ore, dalle 6 alle 6.
D: Giorno e notte?
R: No, io ho sempre fatto la mattina, cioè l’orario continuato dalle 6 alle 6.
D: Il tuo lavoro in cosa consisteva?
R: Consisteva… Io lavoravo lì… Non era un lavoro pesante, lavoravo in due macchine utensili, cioè due frese che facevano i grilletti per le mitragliatrici per le Steyr. La mitragliatrice che era chiamata Steyr, sì.
D: Tu non hai mai avuto contatti con loro, con i civili?
R: No, no. Noi andavamo lì scortati dalle SS. Come entravamo in officina eravamo gestiti da queste persone civili, però noi non avevamo contatti con loro, ecco.
D: Ti ricordi se lì a Gusen I hai visto per caso dei treni?
R: No.
D: Neanche dei Decauville?
R: Io no. Io non è che a Gusen ci sia stato molto eh, ci sono stato poco più di un mese a Gusen io. Poi dopo, non so per quale ragione, io fui rimandato su a Mauthausen, che dopo poi, per mia disgrazia, fui destinato alla cava.
D: E a Mauthausen in che blocco ti hanno messo quando sei ritornato su?
R: Il blocco… io ero al sedicesimo, sì.
D: C’erano altri italiani con te?
R: Con me… Fu una disgrazia anche quella, perché io praticamente mi ritrovai con pochissimi italiani nella mia baracca. Io ero con due torinesi, che morirono quasi subito, poi c’era un genovese e uno giù di Salerno, che anche quelli… Io fui liberato che rimasi con un italiano nella mia baracca, con un genovese.
D: Ma in baracca in quanti eravate più o meno?
R. In baracca… eravamo quasi settecento nella baracca. Perché ultimamente a Mauthausen erano già arrivati i sopravvissuti di Auschwitz, tutti campi già liberati che sono venuti da noi eh.
D: E lì a Mauthausen, lavoravi?
R: Io a Mauthausen ho lavorato quasi un mese giù in cava. E naturalmente lì è stata la mia… come debbo dire, la mia tragedia più grande perché… A parte che giovane com’ero non ero abituato a certi lavori, che io pian piano le forze mi mancavano, che… Per fortuna che io ho conosciuto… Lavoravamo in coppia in cava, io lavoravo con un russo, con un ucraino, un Ivan, che dopo è morto lì, che lui mi disse, come io arrivai giù in cava… Perché praticamente lui era uno che aveva 34 anni: per me era una persona anziana, uno di 17, 18 anni, allora. E mi prese a volermi bene, come debbo dire, cercare di insegnarmi il modo di poter sopravvivere in certi momenti. Mi ricordo che lui mi disse – lì in cava arrivava un convoglio naturalmente, e c’erano delle montagne di antracite, di carbone – e lui mi disse: “Te riesci…”. Mi insegnò che in dei pezzi di antracite c’erano dei pezzi più non lucidi, opachi, e disse: “Te riesci a mangiare tutti i giorni un pezzo di carbone, ti stagni, non ti viene la dissenteria”. Io ho avuto la fortuna… perché non solo io lo sapevo, lo sapevano anche gli altri, ma il 90% c’era il rigetto: quando mangiavi questo pezzo lo rimettevi perciò anche quel po’ che ti davano non riuscivi a tenerlo dentro ed era peggio. Io invece quel periodo, quel mese che ho fatto giù in cava, sono riuscito a sopravvivere mangiando questo pezzo di carbone. Quel po’ che mi davano di cibo io lo tenevo dentro in maniera che io non ho mai avuto dissenteria, non ho mai avuto niente. Perché la mortalità allora del campo, a parte le camere a gas, a parte le impiccagioni, la mortalità enorme era per la dissenteria, che te ne andavi… andavi in infermeria perché non gliela facevi più andando al lavoro. Andando in infermeria, un colpo alla nuca… ti ritrovavi già dalla parte dei forni crematori, già accatastato, ecco.
D: Giù in cava tu cosa facevi?
R: Io in cava aiutavo a caricare i carrelli per trasportarli giù, verso ai posti che dovevano essere caricati, ecco.
D: Ti ricordi come veniva estratta la pietra lì dalla cava?
R: Ma, lì venivano estratti in modo manuale, naturalmente, non… sì, con dei picconi, oppure c’erano degli… come si chiamano quelle… sì, però c’erano quelli addetti, quelli più… che riuscivano a farlo. Io non gliel’avrei fatta.
D: Lavoravate solo durante il giorno in cava?
R: Solo durante il giorno, quel po’ che ci sono stato io lì a Mauthausen.
D: Quindi c’era una squadra addetta all’estrazione dei pezzi.
R: Sì, e una squadra che li portava naturalmente verso i vagoncini, con i carrelli che li portavi verso i vagoni, che venivano poi caricati per mandarli via dalla cava.
D: Cioè, dai Decauville venivano portati su vagoni più grandi?
R: Su vagoni… noi… Lì, naturalmente, i vagoni non entravano lì, nella cava. Noi avevamo quei carrelli che venivano portati ad un certo punto, poi lì venivano caricati per essere portati… Ma noi al di fuori della cava, lì, non andavamo mai, ecco.
D: Dal campo di Mauthausen, per scendere alla cava…
R: Facevi la scala. La famosa scala della morte. Noi la facevamo andando al lavoro, per fortuna. Non la facevamo come naturalmente facevano tanti nostri compagni, oppure principalmente gli ebrei, che gli facevano fare la scala con quel famoso sasso sui 50 chili finché non erano in grado di farla, che poi i primi in cima, quando cadevano, si rotolavano giù tutti gli altri. E le SS lì in cima si divertivano a tirare, a fare il tiro al piccione lo chiamavano.
D: Vittoriano, ti ricordi se giù in cava c’erano delle baracche, dei capannoni, delle officine?
R: C’erano delle baracche giù, ma noi non abbiamo visto cosa c’era dentro, naturalmente, perché noi come arrivavamo lì andavamo… ognuno di noi aveva il suo posto da andare al lavoro, perciò non…
D: Donne non ne hai mai viste tu lì?
R: In cava? No, no, non le abbiamo mai viste donne.
D: E a Mauthausen ne hai mai viste?
R: Io le donne a Mauthausen le ho viste il giorno dopo la liberazione. Nel campo di quarantena c’era una baracca di polacche che venivano… che noi siamo rimasti perché non lo sapevamo naturalmente, che siamo rimasti allibiti a vederle perché erano in condizioni disumane proprio anche loro. Tosate, come noi! Che venivano naturalmente usate, come nei bordelli delle SS. Erano solo in quelle condizioni lì.
D: Come te la ricordi tu la liberazione?
R: La liberazione, vedi, è stata una cosa indescrivibile per me, perché… Pensate che io il 6 maggio, quando gli americani mi svestirono completamente – perché io ero pieno di scabbia, ero nudo completamente – mi misero sulla bilancia: io ero 28 chili. Io a sentire dai medici avevo una settimana da vivere, perciò potete ben immaginare nelle condizioni che ero. Sebbene poi che è stata anche una tragedia, perché quando noi di questi otto amici siamo ritornati in quattro, e praticamente in tre perché uno non è più stato in grado… sì, vegeto, non è che vive, capito. E perciò per me la liberazione è stata realmente una liberazione, però mi è rimasto sempre quel senso di colpa che avevo verso questi miei compagni, capito… che ho lasciato nel campo.
D: Ma tu dov’eri il giorno della liberazione?
R: Io ero proprio lì, nell’Appellplatz di Mauthausen. Quando è arrivata la mattina, la domenica, questa pattuglia americana – che naturalmente poi sulle torrette c’erano ancora le SS, i militari eh – sono entrati, potete bene immaginarvi le condizioni che c’erano, i superstiti… specialmente gli spagnoli, che sono stati quelli poi che sono subito saliti nell’entrata a tirar giù l’aquila imperiale, lo stemma del nazismo. E io, per mia fortuna, non ero in condizioni di potere… Io mi attaccavo già, perché io ero quindici giorni che non andavo più in cava eh, che rimanevo ai servizi generali nel campo, perché in cava non gliel’avrei più fatta. E la mia fortuna è stata che in quel periodo lì, ultimamente le camere a gas e i forni crematori, sì, andavano, ma i morti del campo erano talmente tanti che non riuscivano più a smaltire i cadaveri che c’erano, perciò anche noi, che eravamo alla fine, siamo riusciti a sopravvivere; cosa che, fosse capito un mese, un mese e mezzo prima, saremmo stati eliminati, naturalmente, come tanti altri nostri compagni, ecco.
D: Vittoriano, e dopo la liberazione cosa è successo?
R: Io, come ho detto… siamo stati liberati il 5 maggio. Io ero nelle condizioni che ero, e sono rimasto nel campo fino alla fine di maggio perché non ero in condizioni di affrontare né il viaggio per venire, rientrare in Italia, e né il viaggio per andare in un altro posto. Gli americani mi hanno curato lì, naturalmente, come un neonato, non so… mi hanno riabituato a mangiare, cominciare con delle pappine, con del semolino, hai capito, in modo da poter riprendere la vita. Perché poi parecchi miei compagni son morti, dopo la liberazione del campo, per un errore degli americani che han lasciato andar fuori: hanno mangiato a crepapelle, sono crepati per il troppo mangiare. Se ne sono accorti tanti che dopo poi, nelle sentinelle, invece delle SS c’erano loro, e nessuno poteva uscire dal campo. Io sono stato fino fine maggio dentro il campo di Mauthausen, e poi dopo con un aereo m’han portato a Berlino. Io sono stato a Berlino altri quaranta giorni dopo, in un campo militare, in modo da mettermi nelle condizioni di affrontare il viaggio per il ritorno a casa, ecco.
D: Ma chi ti ha portato a Berlino, gli americani?
R: Gli americani, sì.
D: Solamente te come italiano?
R: No no no, un gruppo di altri deportati lì, di Mauthausen, cioè tutti quelli che non erano in condizioni di poter affrontare il viaggio per rientrare nelle sue patrie. Non so, con me c’erano polacchi, c’erano russi…
D: E a Berlino fino a quando sei rimasto?
R: A Berlino ho fatto tutto il mese di giugno. Tutto il mese di giugno a Berlino, perché io sono rientrato in Italia a luglio.
D: Ecco, il rientro, da Berlino come hai fatto a raggiungere…?
R: Da Berlino avevano fatto delle tradotte militari con delle scritte “i superstiti dei campi di sterminio”, cioè tutte le zone dove c’erano di queste persone venivano portate alle frontiere. Ed io sono… m’han portato a Bolzano, naturalmente. M’avevano vestito a Berlino, m’avevano dato una divisa tedesca coloniale, di quelle che i tedeschi usavano in Africa, color cachi, i calzoni lunghi alla zuava, un paio di scarpe che facevo fatica a tirarmele dietro. Da notare che io quando sono arrivato a casa ero 34 chili eh. Quando sono arrivato a Bolzano, naturalmente siamo scesi, ed ho trovato un parroco di Ravenna, che era alla frontiera per potere recuperare dei suoi parrocchiani, della gente della sua zona. Allora sapendo di Ravenna ho detto “lui passa da San Vitale, è a 15 chilometri da Imola…”, ho chiesto se mi caricava. Lui mi ha portato fino a Sestri Imolese, che è una frazione dell’Imolese. Di lì ho trovato uno con un biroccio che vendeva il carbone, in questo paese, e mi ha caricato che andava a Imola a vendere il carbone, mi ha caricato e mi ha portato a Imola. Come arrivo a Imola, ecco, è cominciata la mia tragedia, perché io… non so, finché ero nel campo, finché ero assieme agli altri non ero conscio delle mie condizioni, com’ero; è stato al ritorno a casa che io ho avuto uno shock, che è stata una tragedia. Pensate che io sono sceso alla periferia di Imola – Imola è una cittadina che ci conosciamo tutti praticamente, specialmente allora – scendo, vado con… Potete bene immaginare come ero ridotto: io non avevo più capelli, non avevo più niente, avevo solo degli occhi là, profondi, e nient’altro. Mi incammino verso il centro, incontro un’amica di mia sorella, una che era sempre in casa mia, Giovanna si chiamava – perché poveretta è morta – la chiamo, “Giovanna!” Lei mi viene [incontro], dice “ma chi sei?”, “sono Vittoriano” […] Si mette a piangere. Da notare che io non erano degli anni che ero via da casa, ero via da maggio, cioè praticamente fra i mesi da partigiano e i mesi della prigionia della Germania non era neanche un anno che ero via da casa. Dico, beh, Giovanna va verso casa mia, va a dire, non so, che hai sentito che ritorno, perché i miei naturalmente non sapevano niente. Non è che io come sono stato liberato potessi scrivere o dire che ero al mondo. Allora non si sapeva niente.
Arrivo in centro a Imola: quello lì forse è stato il momento più brutto della mia vita. Arrivo in centro a Imola: non so se ci siete mai stati, in centro c’è un porticato con un orologio, che è l’orologio del comune. E lì c’era un bar, lì fuori c’era mio padre. Mio padre non mi ha riconosciuto. Voi potete immaginare come sono rimasto io. E naturalmente ho continuato la strada, poi dopo ha detto “ma è Vittoriano”. Sono andato verso casa, nelle condizioni che ero. E come sono arrivato a casa – a parte che mi ci son voluti degli anni per poter rientrare in una certa normalità – è stata la tragedia con le famiglie dei miei compagni morti, quando venivano a casa mia e mi dicevano “Nino” – due ragazzi di 16 anni che erano con me – “Nino, Cleo, com’è che te se qui e loro no?” Che cosa gli potevo dire io, che erano stati gasati, che erano nei forni crematori. Perché poi allora, non è come adesso. Quando noi parlavamo – che io tentavo di parlare di queste cose, anche i miei familiari, i miei compagni – nessuno ti credeva. Ma mi guardavano con degli occhi come per dire “ma questo qui è pazzo”. È per quello che anche noi siamo stati degli anni… siamo stati fermi, siamo stati chiusi nel nostro conscio, perché è stato uno shock per noi anche il ritorno a casa e trovarci in quelle condizioni lì, capito? Di voler dire quello che è successo e nessuno ti credeva, e la gente ti guardava come che uno venisse da un altro pianeta. Non so, per me è stata… Mi ci sono voluti degli anni finché questi genitori sono riusciti a capire le ragioni e il perché io ero ritornato e i loro figli no.
D: Vittoriano, lavorare in cava, a Mauthausen, cosa voleva dire, cosa significava?
R: Voleva dire poter sopravvivere pochissimo. Perché io… è stato un complesso di fortune che io ho avuto, perché ci sono andato verso la fine, ci sono stato in cava solo quindici giorni, e gli altri quindici giorni li ho passati [che erano] gli ultimi, perché naturalmente eravamo già alla fine, che c’era già il sentore che la liberazione era vicina, ecco.
D: Cioè, in cava era un posto della morte…
R: In cava uno… non c’era la possibilità di poter sopravvivere, perché poi eravamo sorvegliati, perché poi, a differenza del campo, non so, di Gusen, che durante il lavoro c’erano dei civili, in cava c’era l’SS eh, che ti sorvegliava coi cani in continuazione. Non è che ti potessi abbandonare, capito… non c’era la possibilità, ecco.
D: Vittoriano, ti ricordi qualche nome di qualcuno che era con te nella deportazione?
R: Ma, io mi ricordo… praticamente io sono stato con dei polacchi, dei russi. Io la mia deportazione, purtroppo, come ho detto, è stata una tragedia perché anche come lingua non potevo… Non so, se ero in una baracca con degli italiani – nella baracca, perché non potevi andare in un’altra – se io sapevo che, non so, alla decima, all’undicesima [baracca] c’erano dei miei compagni, non potevo andare, avere un sollievo, avere qualche cosa, un discorso con loro. Io potevo solo parlare, oppure cercare di capire la sofferenza di un altro. Io avevo due polacchi che ero molto amico con loro, quei pochi momenti di libertà di riposo che avevamo li passavamo insieme. Cosa che non ho potuto dire per dei miei compagni slavi, per i due slavi che dormivano con me, perché quando… A me dispiace dire queste cose, perché io ne ho discusso anche in seno alle nostre associazioni, anche nelle nostre riunioni, quando sentivo parlare da compagni della deportazione della solidarietà fra noi… io non so… io non l’ho trovata. Eh, ma perché io sono arrivato verso la fine. Perché quando un uomo è una bestia, è una larva, fa fatica essere solidale verso un altro, perché è agli stremi della sua vita. Come fai a dare qualche cosa, oppure, fare qualche cosa per uno che non sei in grado di far niente neanche per te? Io mi ricordo – è una esperienza mia – il giorno del compleanno del Führer, che credo sia il 17 o il 18 aprile, verso il 20 aprile, 18… l’unico momento, come debbo dire, di umanità, che hanno avuto verso di noi i nostri aguzzini, c’han dato due sigarette a testa. Io sono uno che non ha mai fumato, però con due sigarette uno riusciva a recuperare da chi stava in cucina una patata o due, che voleva dire molto per noi una patata, con quello che mangiavamo. La sera – io v’ho detto prima che dormivo con due slavi e un francese – la sera, come andiamo nel nostro pagliericcio, ci svegliamo la mattina, questi due – che ci danno le sigarette – questi due slavi cominciano a picchiarmi “[espressione in lingua slava]”, mi dicono, “Tu italiano ci hai rubato la sigarette”. La cosa era ben diversa: loro lo facevano per portarmi via naturalmente le mie due sigarette, e per poter recuperare loro quelle due patate che potevo recuperare io, che per noi voleva dire una giornata stupenda, ecco. Tanto per dirvi…
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