Brambilla Pesce Onorina

Onorina Brambilla Pesce

Nata nel 1924

Intervista del: novembre 1997 a Milano realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL:n. 64 – durata: 90′ circa

Arresto:12.09.1944 a Milano

Carcerazione:a Monza, A Milano a San Vittore.

Deportazione:Bolzano

Liberazione:30 aprile 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono stata arrestata a Milano il 12 settembre 1944.

D: Il motivo?

R: Il motivo, io facevo parte della terza brigata GAP comandata da Visone, che è Giovanni Pesce. Avevamo un collegamento con un tale che si definiva Arconti, ma poi non era nemmeno il suo vero nome, il quale era riuscito ad arrivare nel comando delle brigate Garibaldi perché, dicendosi partigiano, dicendosi che poteva dare informazioni e armi ai gappisti e il comando delle brigate Garibaldi aveva passato questo individuo, questo collegamento, a Giovanni Pesce, il quale non si fidava molto perché questo qui faceva un sacco di domande. Non era il periodo allora di fare troppe domande, di voler sapere troppe cose. Quindi un giorno, esattamente il 12 settembre, c’era un appuntamento con questo Arconti e avremmo dovuto andare io e Pesce perché appunto lui ci avrebbe dato dei recapiti per avere delle armi. Però all’ultimo momento Pesce non ha potuto venire perché qualche giorno prima, in un’azione nella quale c’ero stata anch’io, era morto un partigiano qui a Milano in Via Ponzio davanti alla piscina e un gappista era stato ferito e arrestato e stavano progettando di liberarlo, era stato portato al Policlinico, e per organizzare questa azione per liberare Antonio, all’ultimo momento Pesce non ha potuto venire. Mi ha detto: “Vai tu e rimandi l’incontro con questo individuo”. Infatti io sono andata in Piazza Argentina davanti al cinema, adesso da un po’ di tempo non c’è più, c’era il cinema, lui era lì, io mi sono avvicinata, ma immediatamente sono arrivati altri e lui mi ha detto: “Non muoverti, siamo circondati”, dopodiché è sparito lui e invece sono venuti altri e quindi sono stata arrestata. Poi, dopo, io mi sono accorta più tardi che c’era tutta la zona circondata, era una vera e propria imboscata per prendere il comandante dei GAP. Per loro sarebbe stato un bel colpo. Certo, forse io non sarei qui a raccontarla come moglie di Pesce.

D: Ci spiega cosa vuole dire GAP e cosa ….

R: Gruppi di Azione Patriottica. Che erano i partigiani che agivano nelle città e anche nelle pianure, cioè non in montagna, ed era una lotta particolare. Perché, piccoli gruppi, distaccamenti di quattro o cinque e qualche volta anche meno, che compivano azioni di disturbo, di sabotaggio e poi di colpire le spie e i collaborazionisti. Una lotta piuttosto dura perché si era soli in mezzo proprio alla città che era occupata con caserme e così via sia dai tedeschi che dai fascisti, dalla Muti e da tutti gli altri gruppi di fascisti, e io sono entrata in questa formazione perché volevo andare in montagna prima ancora di conoscere Pesce. Io, subito dopo l’8 settembre, ho fatto parte dei gruppi di difesa della donna, che è stata una grande organizzazione, che si è collegata, ha mobilitato, proprio è il caso di usare questa parola, centinaia di migliaia di donne in tanti modi di aiuto ai partigiani, per la distribuzione della stampa clandestina, per portare ordini e poi su tutta l’Italia del nord, anche da Firenze, da Firenze in su. E fu un’organizzazione veramente capillare, molto importante, per cui le donne davvero hanno dato un grande aiuto, un grande contributo. Anche se cinquanta anni dopo, però Boldrini l’ha detto, che se non ci fossimo state noi, se non ci fossero state le donne, noi non avremmo combinato niente. E questo è veramente vero.

Io ho fatto parte per diversi mesi e poi avevo altri incarichi di distribuzione della stampa clandestina in alcuni recapiti di Milano. Poi, a un certo punto ho chiesto di entrare in una formazione combattente e di andare in montagna con i partigiani. Mi hanno proposto, invece, di rimanere a Milano perché la GAP si stava ricostituendo dopo tanti arresti che erano stati fatti e quasi tutti sono stati fucilati, prima Rubini poi Campeggi e tanti altri, ed è così che sono entrata nella brigata e ho conosciuto Visone e ho fatto quello che mi si chiedeva di fare insomma. Purtroppo, non per tanto tempo perché dopo sono stata arrestata.

D: Quindi, dopo essere stata arrestata?

R: Dopo sono stata arrestata ed erano le SS di Monza. Perché, questo tipo, questo Arconati, era al servizio delle SS di Monza che agivano in quella che era la sede del fascio, la Casa del Balilla, che avevano requisito proprio per la lotta anti-partigiana. Infatti, parecchi sono morti lì di compagni e di partigiani. Rubini, il primo comandante dei GAP di Milano, dopo grandi torture è stato ucciso proprio lì nel carcere di Monza. Per cui, a un certo punto non mi trovavano nemmeno più i compagni, non sapevano più nemmeno che fine avessi fatto perché mi cercavano a Milano. C’era la Muti, c’erano tutti questi gruppi, invece sono stata portata a Monza alla Casa del Balilla e poi, dopo, lì nel carcere, che hanno chiuso da non molto tempo; un vecchio carcere. E lì sono stata due mesi, sempre isolata, sempre da sola. Questo è stato il periodo forse peggiore. Oh dio, se avessi saputo cosa succedeva in Germania, forse no, ma non lo sapevamo noi che c’erano i campi di sterminio. Anche a me quando mi hanno detto, un po’ scherzando e un po’ sul serio, “Non ti fuciliamo, ti mandiamo a lavorare in Germania”, io ho pensato “Va beh, andrò a lavorare in Germania, pazienza, finirà la guerra, tornerò a casa”. Certo che non sapevo che magari non sarei tornata.

D.: Quanti anni aveva Onorina?

R: Avevo 20 anni; li avevamo tutti. La guerra la fanno sempre i giovani eh! In grande maggioranza eravamo tutti giovani, tutti i partigiani che hanno combattuto e che sono morti eravamo tutti giovani, erano pochi quelli che magari erano già uomini o donne un po’ più mature. Ma, soprattutto chi combatteva in prima linea, diciamo così, erano soprattutto i giovani.

D: Quindi, dopo il carcere di Monza?

R: Dopo Monza, dopo due mesi, un giorno sono uscita, mi hanno tenuto due giorni a San Vittore e poi mi hanno mandata al campo di concentramento. L’avevano detto, destinata al campo di concentramento, però io non sapevo dove, assolutamente. Siamo arrivati a Bolzano esattamente l’11 novembre del ’44, due mesi dopo. E, tutto sommato, il fatto di essere rimasta due mesi in carcere è quello che mi ha salvato la vita. Perché, quando io sono arrivata avevano già grandi difficoltà a far partire i treni. Li hanno mandati lo stesso alcuni, però le donne non le hanno più mandate. Noi eravamo lì in parecchie donne a Bolzano e da altre testimonianze forse lo sapete; siamo arrivate anche a essere in cinquecento in quel capannone che era il blocco F riservato alle donne.

Io ho visto parecchi convogli partire in dicembre e in gennaio; l’ultimo in febbraio, che però tornarono indietro perché non avevano potuto passare il Brennero perché c’erano le ferrovie tutte bombardate dagli alleati. Però di donne.. ho visto qualche donna ebrea, ma erano pochi gli ebrei che sono passati da Bolzano; si parla, mi pare, di un centinaio o poco più, perché gli ebrei venivano subito mandati nei campi di sterminio, non li mandavano al campo di smistamento come era a Bolzano. Però, di donne, l’ultima spedizione, l’ultimo convoglio, credo che sia stato proprio dieci giorni prima che arrivassi io, che erano partite parecchie donne che sono finite a Ravensbrück.

D: Onorina, ci può parlare del suo trasporto da San Vittore a Bolzano? Compreso l’arrivo, l’ingresso.

R: Sì. Noi siamo partiti da Milano di sera. Non ci hanno messo sui carri merci, non siamo andati in treno, ci hanno trasportati su un pullman. Anzi, credo che fosse un autobus di quelli normali, quelli che credo i tedeschi sequestravano, ed eravamo in settantotto di cui sette donne. Abbiamo viaggiato tutta la notte, naturalmente non ci hanno dato niente da mangiare, ci hanno fermato un paio di volte perché qualcuno aveva qualche bisogno, nei posti di campagna e siamo arrivati poi a Bolzano al mattino verso le 7-7,30 ed eravamo naturalmente un po’ stanchi. Anche perché nessuno di noi era riuscito a riposarsi, a dormire. Non solo perché eravamo scomodi, ma poi perché non si sapeva dove andavamo. Allora c’erano naturalmente le opinioni più diverse: “Mah, ci fermiamo a Bolzano, ci mandano direttamente in Germania”, comunque non lo sapevamo. Arrivando lì abbiamo visto .. nessuno di noi, forse specialmente le donne, ma nemmeno gli uomini allora sapevamo cosa fosse un campo di concentramento, non avevamo mai .. anche se sotto il fascismo, va beh, sapevamo che c’era stata gente nelle galere, al confino, ma i campi di concentramento veri e propri perlomeno non lo sapevamo. E allora l’impressione, arrivando lì al mattino che cominciava già a fare freddo, c’era un po’ di nebbiolina, vedere queste baracche, alcuni uomini che giravano un po’ malmessi, la prima impressione di essere in un mondo così che non sapevamo cosa fosse, avevi perfino l’impressione che entrando lì sparivi, nessuno avrebbe saputo più niente di te, sarebbe stata una cosa… completamente divisi dal resto del mondo. Va beh, dopo però un pochino ci si abitua, ci si abitua a tutto. Poi a Bolzano, voi lo sapete, c’era una forte organizzazione clandestina che era stata iniziata e soprattutto sostenuta dai comunisti e dal Partito Comunista, però c’erano anche dei compagni Socialisti e altri e questo naturalmente dava anche coraggio di sopportare.

Poi, siccome avevano il collegamento con l’esterno, venivano a sapere chi erano i partigiani. Perché è chiaro che è arrivata lì anche gente che era rastrellata per le strade e che non aveva fatto proprio niente e poi magari sono finiti … anzi sono finiti senz’altro nei campi di sterminio. Però, per esempio, dopo un po’ di giorni, qualcuno mi ha avvicinato e io ho capito che la mia presenza era stata segnalata dall’organizzazione. Quindi questo mi ha permesso di conoscere i compagni che dirigevano l’organizzazione clandestina, Carlo Milanesi, Ottavio Rapetti che era stato uno di quelli che abita qua vicino, uno di quelli che avrebbe dovuto essere fucilato in Piazzale Loreto. Invece, per la sua giovane età, aveva diciannove anni, era anche più giovane di vent’anni … e allora va beh, dopo è cominciata la vita nel campo insomma.

D: Onorina, lei è stata immatricolata a Bolzano?

R: Siamo state subito immatricolate; ad ognuna hanno dato il numero e il triangolo corrispondente alla propria colpa. Allora noi eravamo considerati politici, quindi rosso; mi hanno dato il 6087. Poi, dopo, ci hanno fatto girare un po’ per il campo dopo avere fatto tutte le registrazioni, che ci hanno dato questa divisa che non era poi nemmeno tanto brutta. Perlomeno, nel senso che erano pantaloni e casacca colore bianco avorio di tela grezza; dietro sulle spalle c’era la croce di prigioniero, però era una cosa che si poteva mettere. Ecco, non è successo come a quelli che andavano nei campi di Germania e che gli davano gli stracci e magari delle scarpe scompagnate. Un paio di zoccoli, però lì potevamo tenere anche i nostri vestiti. Potevamo tenerli e, infatti, in quella fotografia si vede che io ho un mio golf.

D: Ma non era il Suo primo numero di matricola vero?

R: Come?

D: Questo di Bolzano non era il Suo primo numero di matricola.

R: Beh, l’avevo avuto a San Vittore. Sì, a San Vittore. Ce l’ho segnato il numero, però a San Vittore sono rimasta solo due giorni perché ero lì proprio di transito. Mi hanno mandata lì per dopo aggregarmi a quelli che andavano in Germania.

D: Scusa Onorina, due cose. Nel viaggio da San Vittore a Bolzano eravate una settantina dicevi …

R: Settantotto, perché dopo ho fatto ricerche, e sette donne.

D: Poche donne e il resto erano tutti uomini.

R: Tutti uomini, tutti giovani.

D: Ti ricordi qualche nome di uomo o di donna?

R: Ho dimenticato. Mi ricordo solo la compagna Giuseppina Ruga che era una partigiana della Val Sesia, che avevo conosciuto a San Vittore, che dopo la guerra non siamo più riusciti a sapere, sia io che l’altra compagna che l’abbiamo cercata. Lei era già lì nel carcere di San Vittore, era stata arrestata in Val Sesia. Lei diceva di essere una staffetta di Moscatelli. E lì abbiamo fatto amicizia, se così possiamo dire, infatti dopo siamo sempre rimaste insieme anche a Bolzano. Dopo è arrivata anche un’altra compagna che avevo conosciuto a San Vittore, ma che è arrivata dopo di noi, Casati Serafina che è ancora viva. Però non mi è rimasto il ricordo dei visi. Anche perché, come ho detto, finita la guerra io ho cercato un po’ di dimenticare.

D: Degli uomini non ti ricordi?

R: Mah, guardando i nomi, siccome mi hanno dato l’elenco, ho un elenco di quelli che sono usciti perché all’ANED hanno l’elenco di quelli di San Vittore. Che, credo, lo tengono da qualche parte molto al sicuro e un compagno, un paio di anni fa, mi ha dato la fotocopia. Che, fra l’altro, sono stata fortunata ad averlo perché sono proprio una delle ultime, dopo non si è trovato più niente di San Vittore. Perlomeno, quando poi San Vittore è stato liberato, nella documentazione che hanno trovato non hanno trovato gli altri. Perché poi, da novembre a dopo ce ne sono stati ancora tanti, ma arriva proprio a metà novembre del ’44 e io infatti sono una delle ultime insomma.

D: L’altra domanda era: sempre nel Transport da San Vittore a Bolzano chi c’era come guardie su questo pullman?

R: C’erano dei tedeschi. E, forse, anche qualche italiano però. Qualcuno magari si ricorderà più di me di quel trasporto. Chissà, bisognerebbe ricercare qualcuno di quei settantuno uomini.

D: Quindi, arrivati a Bolzano, vi hanno fatto spogliare?

R: Sì, sì. Mi ricordo che prima di scendere dal pullman abbiamo aspettato un po’. E, chissà perché, mi è sempre rimasto il ricordo di un pezzo di pane che c’era per terra. Forse perché avevamo fame! Perché non ci avevano dato niente da mangiare in tutta la notte. Sì, quel pezzo di pane per terra nel fango, sono quei flash, quelle cose strane. Magari poi ci si dimentica di altre cose.

D: Quindi sei entrata, spogliazione …

R: Sì, siamo andate nell’ufficio dove hanno preso tutte le generalità, i dati anagrafici. Ci hanno dato il numero, il triangolo e poi siamo andate in magazzino e ci hanno dato questa tuta, questa divisa del campo. C’è voluta tutta la mattinata, sono state parecchie ore per fare tutto questo lavoro e poi, dopo, ci hanno destinati in quelli che chiamavo i blocchi. Noi, il blocco delle donne, che era quello vicino alla porta di ingresso del campo perché era l’ultimo, si vede dalle fotografie, era il blocco F.

D: In ufficio, al momento dell’immatricolazione, si ricorda ….

R: No, non ho un ricordo di qualche cosa …

D: Una donna, un uomo, non si ricorda?

R: C’era un uomo, c’era un tedesco mi pare. C’era un tedesco. Però non mi ricordo bene se c’era qualcun altro.

D: Quindi siete entrate nel blocco F tutte voi donne.

R: Noi donne, noi sette donne.

D: E lì hai trovato altre donne nel blocco F.

R: No, non subito, solo qualche giorno dopo ho individuato Laura Conti perché mi era stata segnalata dai compagni, però in un secondo tempo. Invece, poi dopo ci eravamo legate, eravamo entrate un po’ in amicizia che ci aiutava con una compagna che è arrivata però una settimana dopo. Poi, più tardi, una compagna di Verona che è morta qualche anno fa, che il marito è morto poi a Mauthausen, Rosetta Meloni. Ecco, lei non era giovane come noi, lei aveva già quarant’anni. Era stata arrestata con il marito che era un comunista, erano tutti e due comunisti; lei è riuscita a fermarsi a Bolzano, è arrivata dopo però. Poi con un gruppo di compagni di Genova. C’era Girelli e la moglie Iolanda; poi un gruppo di compagni che venivano dall’Ansaldo, che erano stati arrestati per gli scioperi. Lì c’erano tutte donne, c’era la moglie di Montanelli, la prima moglie di Montanelli, Margherita Montanelli. Lei è stata liberata anche prima di noi, mi pare che in marzo lei è stata liberata; non è stata fino alla fine. Lei era tedesca, di origine tedesca, ma era una donna che faceva un po’ la vice campo insieme alla ragazza giovane, la Cicci. Questa era una ragazzina in gamba che ci faceva filare, ma in senso buono eh! Perché, per la verità anzi eravamo legate, non era assolutamente una carogna per niente. In questo momento il nome mi sfugge, ma nel libro di Happacher il suo nome c’è, e la Montanelli faceva un po’ la vice campo ed era una donna disponibile anche ad aiutare, una bella donna alta, bionda, proprio il tipo un po’ di tedesca.

D: Mentre la Kapò vera era tedesca?

R: Era tedesca. La Kapò vera era questa che noi avevamo soprannominato La Tigre. Che c’è anche il nome sui libri, il nome adesso a me sfugge, che era veramente una carogna; piccola e brutta fra l’altro. E da quella bisognava girare al largo perché girava sempre con la frusta e per niente… insomma, bisognava stare alla larga, ecco. Era inutile fare gli eroi e farsi picchiare se non era il caso, bisognava girare alla larga. Poi lei però ad un certo punto è andata via. È andata via e ne è venuta un’altra; gli ultimi tempi forse e la chiamavamo La Zigrina. Sì, sì, lo so che si parla poco di questo, ma in realtà, forse l’ho letto da qualche parte, dopo ne è venuta un’altra, ma dovevano essere proprio gli ultimi tempi.

D: Sempre tedesca era?

R: Sempre tedesca, sempre tedesca. E sì eh. Il capo campo, quando sono arrivata io era Maltagliati, sul quale poi, dopo, si erano dette … c’erano stati dei sospetti, ma per quello che posso dire io aiutava, poi lui è andato via ed era Novello il capo campo, questo compagno che è stato poi fino alla fine. Che poi credo abbia sposato la Cicci dopo la guerra.

Ecco, io sono stata cinque mesi e mezzo in questo campo. Dove certo, rispetto alla Germania, lo ripeto, non c’era nemmeno da paragonare, però non è che noi stavamo bene, non è che eravamo in villeggiatura.

D: Ti ricordi come era organizzato il campo?

R: Sì, sì, mi ricordo. C’erano tutti i blocchi da una parte, di fronte noi avevamo le docce, dall’altra parte rispetto dove eravamo noi, poi sulla destra c’erano i servizi fra cui anche la sartoria dove io andavo … erano tanti compagni che avevano detto: “Se ti mettiamo in un lavoro del campo forse si evita la Germania”. Forse però, perché io ho visto tanti che erano addetti ai servizi, che sono compagni e che sono andati soprattutto … Beh, io ho accettato anche se non mi entusiasmava l’idea di stare tutto il giorno in questo ambiente buio, basso, brutto, a cucire che non mi piaceva per niente, non ne avevo mai voluto sapere. Però lì c’erano anche le altre due compagne, Serafina che noi chiamavamo Ina e Giuseppina Ruga, poi c’erano delle altre. E allora eravamo lì a cucire gli indumenti dei deportati che venivano dalla lavanderia per modo di dire e così cucivamo tutta questa roba che erano stracci.

Io, in questo momento mi sono stufata.

D: Ti ricordi chi c’era in lavanderia che comandava un po’ la lavanderia?

R: Accidenti sì, ma non riesco a inquadrare, a mettere a fuoco il nome. Però me lo ricordo. Poi mi ricordo il compagno che era in tipografia; mamma mia il nome, accidenti il nome lo so, che è morto qualche anno fa. Che deve essere lui che ha stampato poi queste tessere. Sì, ma se guardo il libro poi mi vengono in mente.

D: Scusa, ti ricordi il blocco celle?

R: Ah il blocco celle! Il blocco celle era in fondo sulla destra e anche da lì cercavamo di passare un po’ alla larga perché chi entrava lì dentro, lo sapevamo, entravano lì dentro, c’erano i due ucraini giovani che erano veramente bestiali. Chi entrava lì! Ada Buffolini c’è stata venti giorni perché lei teneva i collegamenti con il CLN fuori e le avevano trovato qualche cosa; le è andata ancora bene. Lei era in infermeria perché era dottoressa, era radiologa, insieme a Ferrari che, dopo, è stato Sindaco di Milano. Io me li ricordo bene non solo perché si vedevano e sapevo chi erano, ma anche perché abbiamo avuto bisogno di andare in infermeria perché avevamo sempre raffreddore e tosse naturalmente. A un certo momento io ero diventata sorda, probabilmente mi aveva colpito una forma di otite; sono stata un paio di mesi sorda. E c’era invece l’altra compagna, Ina, che non parlava. La cosa ci faceva anche un po’ ridere, aveva perso la voce. Va beh, siccome avevamo vent’anni, in quelle condizioni qualche volta facevamo anche un po’ di ironia sulle nostre condizioni, però credo che mi abbiano curato con l’aspirina perché era tutta una messa in scena naturalmente, anche se loro si davano da fare. Poi c’era un altro medico, adesso il nome non lo ricordo, però sui libri c’è, ma quello chissà perché non me lo ricordo. Invece, mi ricordo molto bene della Ada e di Ferrari.

D: Poi c’è stato anche quello della casa farmaceutica, Lepetit.

R: No, io non l’ho conosciuto. Penso che però fosse già partito, non ci fosse più al campo quando sono arrivata io a metà novembre.

D: E Piccil, Le dice qualcosa questo nome?

R: No.

D: Era uno dei medici

R: Ah ecco, forse è quello che io non riesco …

D: Un altoatesino, tedesco, Piccil si chiama.

R: Ma cosa faceva?

D: Il medico.

R: Ah beh. No, non me lo ricordo. Io, in infermeria, mi ricordo, mi sono sempre ricordata della Ada e di Ferrari. Forse perché li conoscevo di più, non lo so. Poi mi hanno curata loro… curato! Hanno fatto quello che potevano.

D: Ma, la sartoria, la tipografia… poi c’erano altre …

R: Sì, poi c’era la lavanderia, le cucine.

D: Erano dentro nella recinzione o fuori dalla recinzione del campo?

R: Erano dentro credo. No, eravamo dentro senz’altro. Almeno, in sartoria eravamo dentro nel recinto del campo.

D: Ecco, il recinto era fatto come? In muro, in filo spinato, cos’era?

R: Sì, sì, c’era filo spinato ma c’erano anche dei pezzi di muro mi pare.

D: C’erano delle garitte?

R: Beh sì, la garitta c’era. Anzi, una delle prime cose che avevo visto arrivando è stata la garrita. Ma appunto, siccome ho detto non sapevamo cosa fosse il campo di concentramento, abbiamo visto questa visione e poi la garitta.

D: Nei blocchi, i blocchi erano tutti liberi oppure c’era qualche blocco che era …

R: Il nostro blocco, con quello vicino che era il blocco E dei pericolosi, in alto aveva uno spazio. Tanto è vero che più di una volta anch’io mi sono arrampicata. Mi sono arrampicata perché davamo qualcosa da mangiare a questi poveracci che erano particolarmente isolati. Potevano uscire solo un’ora al giorno, poco, ed erano quelli ai quali gli davano ancor meno da mangiare ed erano veramente compagni … Tanto è vero che quando noi, io e Linda, siamo andate poi fuori alla Caserma, i soldati lì ci davano dei pezzi di pane e tornando glielo davamo a loro e loro ci aspettavano fuori. Perché poi la divisione era una divisione proprio …. anche il muro, io penso che se qualcuno avesse voluto abbatterlo ci riusciva. E in alto c’era questo spazio. Per cui, specialmente quando sapevamo che c’era una spedizione, allora noi cercavamo di dargli qualcosa. Non sapevamo che arrivando in Germania poi gli portavano via tutto. Anzi, se avevamo un golf, se avevamo delle calze di lana, della roba, ci spogliavamo quasi e spesse volte siamo state anche punite per questo, inquadrate fuori davanti al blocco per delle ore senza mangiare; quella era proprio la punizione, non era solo l’appello.

D: Quando chiamavano l’appello …

R: Sì, l’appello era al mattino e alla sera.

D: Vi tenevano lì in attesa …

R: Invece per punizione, hanno visto che noi aiutavamo quelli che partivano e noi donne siamo state fuori parecchie ore inquadrate davanti per punizione proprio. Comunque, più di una volta anch’io mi sono arrampicata e loro si arrampicavano dall’altra parte e oltretutto ci salutavamo anche. Loro ci abbracciavano poveretti perché, insomma, oltretutto erano così isolati, così soli, così … che, vedere anche delle compagne, delle donne … E questo è successo più di una volta, sì.

D: Prima diceva della struttura clandestina del campo; ce ne può parlare?

R: Sì. Comunque ci sono dei libri che ne parlano bene, con tutti i nomi di chi faceva parte. C’è una relazione, ma penso che voi la conosciate, è lì in archivio, che pubblicò sul suo libro Marozin: “Odissea partigiana”. Lì riporta una relazione di qualcuno che lui, per conto del Comitato di Liberazione di Milano, aveva incaricato di fare un’indagine.

D: Qualcuno che aveva incaricato …

R: Incaricato sì. Perché, siccome loro erano lì, la Osoppo era nel padovano, nel Friuli, la famosa Osoppo con Marozin vero. Un individuo molto discusso anche dopo la Liberazione. C’è una relazione e lui aveva dato bene l’idea di come funzionava il campo e ci sono i nomi di tutti quelli che facevano parte del Comitato clandestino. Ho detto appunto c’era Rapetti, c’era Milanesi, c’erano altri. E, come funzionava? Beh, funzionava molto, perché cercavano intanto di aiutare tutti. Io so che dopo la Liberazione ci fu una polemica, soprattutto da parte dei socialisti, che si lamentarono che i comunisti erano più aiutati. Il che poteva anche essere eh! Poteva anche essere avvenuto. Nel senso che noi venivamo individuati, qualcuno informava di chi si trattava e, quindi, c’era anche un problema di sicurezza per loro. Qualcuno può darsi che non siano riusciti ad aiutarlo, anche per timore che dessero delle informazioni ai tedeschi.

Veramente hanno fatto moltissimo questi compagni di aiuto.

D: Del tipo? Ci puoi dare …

R: Per esempio rubavano nelle cucine per darci qualche cosa di più da mangiare. Poi, i collegamenti che riuscivano a tenere con l’esterno.

D: Vi arrivava posta?

R: Sì, noi potevamo scrivere una volta al mese mi pare, o due. No, una volta al mese forse. Io ho ancora qualche … io ho tutte le lettere, che mia mamma ha conservato, che le ho mandato io. Non ho quelle che mi mandava lei perché non le tenevo, anche perché avevamo bisogno di carta. Avevamo bisogno di carta, è buffo ma è così. Invece mia mamma le ha conservate tutte, che io non lo sapevo. Me le ha date diversi anni dopo, si vede che anche lei si era dimenticata. Mia mamma è stata anche lei una partigiana, è stata anche lei nei gruppi di Difesa della donna. Una donna molto coraggiosa, un’antifascista. E a novantacinque anni è ancora viva ed è in gamba. Una donna molto coraggiosa proprio. Però noi riuscivamo a mandare via clandestinamente delle altre lettere da quelli che uscivano a lavorare, i gruppi che uscivano a lavorare. Ce ne sono alcune con il timbro di censura, altre invece che non c’è niente e quindi devono essere quelle che io sono riuscita a mandare fuori senza passare da loro. Però, queste lettere, ora delle fine non facevo altro che chiedere roba da mangiare. Anche di questo mi vergogno un po’. No, ma poi dicevo altre cose, certo che non potevo dire molto sulle condizioni; facevo capire. Ecco, soprattutto dal punto di vista igienico eravamo in mezzo ai pidocchi, eh! Avevamo imparato benissimo ad ammazzarli. Sì perché, oltretutto, quando facevano l’ispezione per i pidocchi, almeno nel blocco delle donne non ne facevano tante, se li trovavano ci punivano. Noi non potevamo, non avevamo modo di pulirci troppo per le condizioni in cui eravamo. Mi ricorderò sempre che nel nostro pagliericcio un giorno abbiamo trovato una nidiata di topolini. Sì, abbiamo trovato dei topolini proprio. Insomma, d’altra parte le condizioni igieniche erano quelle che si può bene immaginare, anche se noi cercavamo molto di stare pulite. Io credo che prendevamo sempre la tosse anche perché andavamo a lavarci a torso nudo, al freddo, con l’acqua gelida. Ma questo era perché non volevamo lasciarci andare. Volevamo resistere anche in questo senso; di essere, nel limite del possibile, di cercare di essere ordinate, pulite. Perché ci sembrava, in questo modo, anche di combattere i tedeschi. Di dire, avete cercato di umiliarci … questo l’ho letto anche per quelli che sono stati in Germania sia pure nelle condizioni terribili. Il libro della Rolfi: le donne di Ravensbrück, come lei descrive proprio. Ed è vero, c’era questo spirito, noi cercavamo …

Io mi ricordo, una volta, non so come, o forse erano dei pezzi delle lettere no, quelle no. Ho trovato comunque dei pezzi di giornale e allora mi sono fatta i bigodini. Perché allora non c’erano i bigodini che ci sono adesso; anche a casa adoperavamo i pezzetti di giornale della sera per Insomma, forse anche perché eravamo giovani, non lo so, però era anche un modo di reagire a quella situazione che voleva degradarti sempre di più. Infatti c’erano alcune donne, che non erano giovani come noi, che si lasciavano molto andare, invece quelle giovani … Fra l’altro, fra di noi ad un certo punto sono arrivate da Genova un bel gruppo di prostitute che avevano rastrellato a Genova, ma erano delle ragazze simpaticissime e generose. Quelle mi pare che sono uscite prima, ma le avevano rastrellate per le strade. Qualcuno nel campo diceva che le avevano anche utilizzate, ma a me non è mai risultato perché erano sempre lì fra di noi ed erano molto allegre. Mi pare che fossero una quarantina, era un bel gruppo. Sì, sì, era un bel gruppo.

D: Allora il blocco F la mattina si svuotava e…

R: Si svuotava e ognuno era destinato a lavorare o nel campo o fuori.

D: E fuori che cosa …

R: Andavano in quella che chiamavano galleria, e sono andate anche delle donne lì, dove producevano le armi; era una fabbrica di armi dei tedeschi che, adesso, mi dicono è un tunnel dove ci si passa sotto ho saputo. Oppure, andavano al campo di Vipiteno. Un po’ le hanno mandate … ma era un campo piccolo, soprattutto uomini, però poi rimanevano là e lavoravano a Vipiteno. Poi, quando io sono stata stufa di stare lì in sartoria, ho detto ai compagni “Vi ringrazio, andrò in Germania, non lo so, ma io qui non resisto più”; mi hanno detto “Va beh, fai come vuoi”, allora ho chiesto di andare fuori a lavorare. Allora siamo andati in diversi posti. Un giorno, per esempio, in un bosco a raccogliere legna, che chiamavano “al fuoco”. Un’altra volta a fare qualche cos’altro. Poi, dopo, alla Caserma della Wehrmacht a fare le pulizie, che è stato l’ultimo lavoro che ho fatto. Perché poi, a un certo punto, mi pare verso il 20 aprile, forse anche un po’ prima, non ci mandavano più fuori. Almeno, non mi hanno più mandata fuori. E, al posto delle SS, erano arrivati a fare i guardiani questi della Wehrmacht. C’erano ancora quelli che comandavano naturalmente, poi anche le SS italiane e gli altoatesini. Però diversi. Per esempio, quando uscivamo dal campo per andare fuori a lavorare c’era uno della Wehrmacht, mentre prima c’era stato l’SS che ci controllava e quello si era messo a farmi la corte.

D: Quando rientravate venivate perquisite?

R: Sì, sì, quando rientravamo venivamo perquisite. Però, in realtà, noi riuscivamo a portare dentro il pane. Quindi vuol dire che era un controllo … anche perché eravamo già in marzo, era verso la fine, era verso quando sono andata fuori a lavorare, infatti il tutto sarà durato un mese e mezzo. Che dopo, il campo, va beh il 30 aprile siamo usciti.

D: Da chi ricevevate il pane?

R: Dai soldati della Wehrmacht. Noi, io e la Linda, quando siamo andate fuori alla Caserma della Wehrmacht, eravamo tutte contente. Intanto perché mangiavamo il rancio dei soldati. Eh sì, ci davano il rancio, il loro rancio. Poi, appunto, ci davano soprattutto del pane, forse glielo avremo anche chiesto noi, non mi ricordo bene, però senza difficoltà, non erano SS, anche se la Wehrmacht nella seconda guerra mondiale ha avuto le sue responsabilità e come con degli eccidi e … Lì dovevano essere tutti piuttosto anziani ormai.

D: Quando uscivi dal campo per andare lì alla Caserma, il tragitto lo facevate a piedi?

R: A piedi, a piedi, sì, sì.

D: Passavate in mezzo …

R: Passavamo in mezzo alle case, in mezzo alla gente che ci guardava con stupore, non sempre con simpatia. Non sempre con simpatia, però, in realtà, nessuno ci ha mai detto niente. Eravamo solo io e lei insieme a questo soldato e per noi era anche un diversivo indubbiamente andare fuori dal campo.

D: Voi sapevate che fuori c’era un gruppo, un’organizzazione che aiutava, che mandava dentro informazioni, bigliettini ..

R: Sì, noi lo sapevamo. Io lo sapevo, le compagne del mio gruppo, eravamo tutte comuniste ..

D: E anche pacchi. Tu hai mai ricevuto …..

R: Mah, io ricevevo pacchi che mi mandava mia mamma. Perché, va beh, qui c’era l’organizzazione gappista, quindi l’organizzazione del Partito Comunista, del Comitato di Liberazione e quindi a me hanno mandato parecchi pacchi. Io credo di averli ricevuti quasi tutti e li dividevo, di solito, con tutte le altre compagne che invece non ricevevano niente. Per cui non durava molti giorni quello che ci arrivava. Noi ci siamo nutrite molto di mele. Per fortuna, dopo la guerra mi sono piaciute ancora e le ho mangiate. C’erano dei giorni che c’erano solo quelle. E meno male! Le pagavamo eh, ce le facevano pagare, le compravamo.

D: Con quali soldi?

R: Beh, io ero riuscita ad avere, mi avevano mandato qualche soldo. Mia mamma era anche riuscita a farmi avere … ho una lettera dove si parla di 2.000 lire.

D: 2.000 lire o 200 lire?

R: 2.000 lire che era lo stipendio di un mese. Poi, magari i compagni stessi ci aiutavano.

D: Ma dove compravate le mele?

R: I tedeschi li lasciavano entrare. Poi c’era qualcuno, non mi ricordo chi, chissà, magari forse Ottavio; lui queste cose le potrebbe dire meglio di me, questi particolari. Lui poi era particolarmente responsabile della cucina, responsabile di queste cose. Avevano incaricato qualcuno, qualche deportato, di venderle. Infatti riuscivamo ad averle, non tutti i giorni.

D: Che tu ti ricordi, c’era anche una moneta che valeva …

R: Sì, c’era qualche cosa all’interno del campo. Che io però… c’è Pirola, Felice Pirola, che è dell’ANED, lui è stato a Buchenwald, è un deportato che è stato in Germania e che da anni raccoglie, ricerca, ha un archivio spaventoso proprio e lui ha uno di questi buoni di Bolzano nella sua collezione.

D: Un’altra cosa. Che tu ricordi, hai visto delle scene violente all’interno del campo?

R: Io personalmente non credo di essere mai stata lì nel momento, come per esempio hanno preso quel ragazzo che aveva tentato di scappare, forse eravamo chiuse dentro, non saprei bene, però lo sapevamo. Mi pare che è stato a Pasqua quando è successo questo fatto. Poi sapevamo delle celle; delle celle, quello lo sapevano tutti. Anche perché non è che la cosa fosse nascosta, ogni tanto si sentivano delle urla. Poi, quell’ebrea di cui si parla, che è morta dentro, che è stata praticamente ammazzata lì dentro le celle, che era una donna già di una certa età, io me la ricordo perché era nel castello sotto il nostro. Noi cercavamo sempre di andare in alto, anche perché eravamo le più giovani e facevamo meno fatica a salire. E mi ricordo di questa donna che piangeva sempre, piangeva sempre, poi un certo giorno non l’abbiamo vista più. Anzi, noi giovani cercavamo di dirle: “Ma dai, piantala di piangere, tanto finirà la guerra”. Cercavamo un po’ di … me la ricordo questa donna.

D: Senta, lei aveva il triangolo rosso; c’erano anche triangoli di altri colori nel campo?

R: Sì, c’erano soprattutto i verdi, che dicevano che erano gli ostaggi. Non c’erano tutti lì. Per esempio, io il rosa degli omosessuali non li ho mai visti lì. C’era la stella, c’erano i gialli degli ebrei ma, ripeto, di ebrei non ne sono passati molti lì. Mi ricordo, le ultime settimane, gli ultimi arrivi di ebrei che si vede non potevano più portare in Germania, che forse si saranno salvati. C’era una donna giovane molto carina con una piccola che si chiamava Nicoletta. Però, chissà perché non mi ricordo se dopo è stata liberata con noi o se è andata via prima. Ho cercato a volte di .. tant’è che qualche volta mi era venuta voglia di andare lì al CDEC per vedere se magari si poteva ricercare, vedere.

D: Si ricorda anche di prigionieri americani?

R: No, io no.

D: O italo-americani.

R: No, no, no. Quando siamo arrivati ci hanno detto che parecchi erano stati uccisi. Quelli che sono stati fucilati era la voce che circolava nel campo, però, lì dentro io .. Bisogna tenere conto anche che noi siamo arrivati… quando eravamo pochi, eravamo tremila o quattromila quando io sono arrivata ce ne erano già. Beh, se non tremila, quattromila, duemila senz’altro. Poi, prima della fine della guerra, prima che il campo si liberasse, eravamo quasi cinquemila perché oramai arrivavano continuamente. Infatti, si vede dagli elenchi gli ultimi numeri che erano 10.000 anzi, un giorno è arrivato lì un gappista, un ragazzo che era con me nella GAP, che purtroppo è morto qualche anno fa, Mauro Borsetti, ma era già quasi la fine di marzo. Infatti si vedono i numeri: 10.000 e qualcosa. Gli ultimi due mesi eravamo lì veramente in parecchie migliaia e noi donne eravamo in tante veramente, accatastate lì in quel blocco dove avevamo veramente poco spazio tra un castello e l’altro.

D: Ti ricordi se c’erano dei bambini?

R: Sto dicendo che ho visto questi bambini ebrei, ma non degli altri. Io ho letto da qualche parte che parlano di bambini, ma lì nel mio blocco non c’erano.

D: Neanche per il campo li hai visti?

R: Nemmeno per il campo. Sì, va beh, c’erano ragazzi molto giovani, anche di quindici, sedici anni che erano stati rastrellati, ma piccoli no. C’era questa Nicoletta, anche perché era lì vicino a noi e naturalmente stavamo insieme a questa bambina, chiacchieravamo. Poi, mi pare che ce ne era un’altra sempre degli ebrei, ma io mi ricordo soprattutto la Nicoletta.

D: Ti ricordi se c’erano dei religiosi dentro nel campo?

R: C’erano, ma io francamente non me li ricordo. Beh, c’era Liggeri, ma dopo è andato in Germania; forse è andato via anche prima che io arrivassi. Credo di sì, non era lì nel novembre. Comunque eravamo veramente in tanti. Poi sai, non è che si poteva girare come si voleva eh! Anzi, bisognava stare attenti fuori orario a girare per il campo. Perché, cosa facevi? Ti beccavano, ti mandavano via a calci, non potevi Qualche volta si riusciva a scappare, magari io scappavo per andare nel blocco A dove c’erano i compagni. Eh sì, ero un po’ indisciplinata, sì. Però bisognava stare attenti; noi avevamo la Tigre che era sguinzagliata. Bisogna che chieda alla Ina se si ricorda della Zigrina; bisogna che glielo chieda perché lei poi si ricorda molto.

D: Un’altra cosa. Dicevi prima che hai visto molti trasporti, molti uomini Ecco, come avveniva questo …

R: Avveniva che … intanto, chissà perché circolava sempre la voce il giorno prima che c’era il convoglio, preparavano il convoglio. Poi, in ogni caso, a noi ci rinchiudevano nei blocchi. Il mattino, quando cominciavano a radunare quelli che dovevano partire sulla spianata del campo, ci chiudevano nei blocchi tutti quanti e noi guardavamo fuori arrampicandoci su delle finestrelle che erano in alto e non potevamo uscire finché non era finito tutto. Quindi li vedevamo in questo modo, da qualche buco, però, ripeto, si sapeva anche prima, tanto è vero che noi cercavamo di dare a loro quello che pensavamo avrebbero avuto bisogno in Germania. E ne ho viste almeno tre, tre spedizioni di sicuro, la quarta poi tornarono indietro a metà febbraio. C’è un compagno di La Spezia che è uno di questi, si chiama Botticini, che tornò indietro. Si, ai primi di febbraio, era già la metà di febbraio quasi.

Siamo stati dei mesi che ci davano da mangiare quella sbobba completamente senza sale, perché il sale poi mancava dappertutto, mancava anche alla popolazione.

Io mi ricordo che quando mia mamma è riuscita, nel pacco, a mandarmene un pacchetto, ce lo mangiavamo così come se fosse pane. Ce lo siamo proprio mangiato così io e le altre compagne, eh!

D: Ti ricordi se c’erano molte compagne feltrine? Di Feltre.

R: Sì, feltrine ce n’erano un bel gruppo, anche di uomini. E queste erano le feltrine, le compagne che sono arrivate poco dopo di noi credo. Sono arrivate, forse, verso la fine di novembre ed erano evidentemente state segnalate all’organizzazione clandestina perché dopo, infatti, con Linda ci siamo conosciute.

D: Ti ricordi degli eventi ben precisi all’interno del campo? Per esempio, non so, la notte di Natale adesso io dico, oppure la notte del primo dell’anno.

R: Beh sì, cercavamo noi di ricordarla. Bisogna dire che quel giorno di Natale ci hanno dato una sbobba un po’ migliore del solito. C’era dentro qualche pezzetto di carne, di qualcosa ed effettivamente era migliore del solito. Erano talmente bravi che festeggiavano anche loro il Natale.

C’è qualcuno che ha scritto che hanno messo l’albero; io non me lo ricordo l’albero. Dei poveri uomini che erano costretti a fare cappello giù e cappello su. E li tenevano lì per delle mezz’ore fintanto che non avevano realizzato una sincronia perfetta. Si sentiva il rumore cappello giù, cappello su. Questo me lo ricordo. Ed era un modo per umiliare la gente perché, che bisogno c’era di fare una cosa del genere?

Poi mi ricordo, però non ho trovato ancora qualcuno … no, per esempio la compagna Serafina senz’altro perché eravamo lì insieme, gli ultimi quindici giorni credo, che è venuta la Croce Rossa. Ma questo lo dicono anche altri. Cosa sia venuta a fare nessuno l’ha mai capito. E allora hanno fatto la disinfestazione, per cui noi donne ci hanno mandato tutte una notte nella lavanderia nude, ci hanno dato una coperta, che poi quella coperta lì non era stata sterilizzata, per cui .. e io mi ricordo, quello lo ricordo molto bene, siamo state nella lavanderia per una notte intanto che loro facevano la disinfestazione del blocco. Ed eravamo completamente nude con una coperta. Io mi ricordo che, malgrado tutto, mi sono anche addormentata per terra. Invece le altre non dormivano e mi punzecchiavano per svegliarmi.

D: Scala di Torino parla di questo episodio.

R: Ah ecco.

D: Se la ricorda?

R: Io però mi ricordo anche, non credo di … però non ho trovato ancora nessun compagno che me la confermi, che gli uomini però li hanno messi, li hanno schierati nel cortile e li hanno depilati dappertutto. Io l’ho chiesto a Botticini per esempio, l’ho chiesto a qualcun altro, possibile che … a meno che non l’abbiano fatto a tutti. Io mi ricordo che noi passavamo e vedevamo questi uomini completamente nudi e li depilavano dappertutto. Tutto questo perché, dopo abbiamo saputo. doveva arrivare la Croce Rossa. Fra l’altro, nessuno di noi ha visto, ben pochi hanno visto. Cosa abbiano fatto o dove siano andati non lo so proprio.

D: Prima della Croce Rossa, nel campo erano entrati altri personaggi?

R: Che io mi ricordi no. Poi, la Croce Rossa ormai era quasi la fine.

D: Io dico prima. Per esempio, non so, il giorno di Pasqua del ’45.

R: Ah, c’è qualcuno che dice che è venuto il vescovo. Io non … forse perché io non ho voluto andare alla messa.

D: Ma non ti ricordi di …

R: No, non me lo ricordo. Infatti, io l’ho letto questo, sono stata lì a pensarci, ma francamente non …

D: E anche di altre messe celebrate settimanalmente?

R: No, non credo che ci fossero, non mi risulta. E poi, forse, io non sarei andata, questo è il fatto. E, siccome il campo era piuttosto grande, magari …

D: Ma la voce però l’avresti sentita.

R: Sì, la voce l’avrei sentita.

D: Si cantava dentro nel campo?

R: Noi cercavamo di cantare. Non solo, ma c’era la Rosetta, lei era stata molti anni in Francia in esilio con il marito antifascista e conosceva molte canzoni francesi, aveva una bella voce e ci cantava sempre … Voi non la conoscete, è una bellissima canzone. “J’attendre les jour et la nuit, J’attendre” Cioè: “Tornerai”. In italiano era: “Tornerai”. Che allora la si cantava anche in Italia. “Tornerai da me, j’attendre”, lei con altre parole ce la cantava in francese. La Rosetta aveva una bella voce.

D: Rosetta chi?

R: Meloni. Tosoni, Meloni era il nome del marito che è morto a Mauthausen. Che era un compagno, un dirigente comunista di Verona, che faceva parte del CLN che li presero tutti. Lei si fermò a Bolzano, lui andò a Mauthausen e non è più tornato. Loro non avevano figli e lei è morta cinque o sei anni fa, era anche più anziana di noi. Poi cantavamo, sì, sì, cantavamo.

D: Non ti ricordi se c’era una canzone del campo?

R: No, io no.

D: Non te la ricordi.

R: No.

D: E la famiglia Nulli l’ha conosciuta o sentita nominare?

R: No, non mi ricordo.

D: Le sorelle Nulli?

R: Mah, forse quelle, vagamente. Però, quei nomi no, magari chissà, se fossero persone che vedo magari potrei anche ricordarmeli. Perché lì, in realtà, noi eravamo in tante, ma più o meno ci …

D: Marisa Scala te la ricordi? Di Torino.

R: Macché, non me la ricordo. E magari invece … è ancora viva?

D: Sì, sì.

R: Ah! Marisa Scala. Può darsi che però vedendola …

D: A proposito della Croce Rossa ecc., poi è arrivata la Liberazione.

R: Il 30 aprile. Cioè il 29 sera, o notte, non so, le SS hanno tagliato la corda e se ne sono andati. Abbiamo scoperto che sono ancora vivi, no? Due, recentemente.

D: Tu ti ricordi qualche nome?

R: Oh, altroché, soprattutto Haage. Titho e Haage che vedevamo di più in giro per il campo. Quello era il più cattivo. Sono spariti, però noi avevamo anche saputo che si preparava qualcosa. Noi avevamo saputo, il 27 credo; no, subito il giorno dopo, il 26, che Milano era stata liberata, quindi! È una cosa che, quando la dico, mi prende ancora la commozione di quello che abbiamo provato. Allora lì io ho detto una cosa veramente strana, che me la ricorderò per tutta la vita. Siccome io avevo fatto quel lavoro di distribuzione dell’Unità, della stampa clandestina, che era molto importante, allora quando ho saputo della liberazione di Milano ho detto alla Ina: “Ma pensa che adesso leggono l’Unità sul tram”. La mia reazione e la mia idea è stata questa. Era il massimo di libertà leggere l’Unità, che era il giornale del mio partito, perché io ero comunista e sono comunista. Però, comunque dicevo, il 30 mattina ormai il campo era libero, forse anche il 29, qualcuno dice il 28, può darsi, non mi ricordo bene, che se ne siano andati il 28. Prima di partire, voi lo sapete che hanno dato a tutti il nostro documento, che ce l’ho ancora, che siamo stati nel campo dal/al, con precisione teutonica, che comunque ci è servito. Bisogna dire è stato un documento che ci è anche servito se era il caso di dimostrare quello che ci era capitato perché nel dopoguerra ci sono state anche tante cose e le cose che si dicevano… Qualcuno ci guardava un po’ stupefatto.

Allora si poteva rimanere lì e aspettare che, o il Comitato di Liberazione oppure gli alleati che ormai erano oltre Trento mandassero dei camion a prelevarci, ma noi, Milanesi, suo figlio, i due compagni marito e moglie di Genova, un altro compagno di Genova, la Serafina e la Giuseppina, abbiamo deciso di venire via a piedi e abbiamo camminato cinque giorni. Abbiamo fatto tutta la Valle di Non, mi ricordo era il primo maggio quando siamo venuti via e ci siamo fatti tutta la scalata della Mendola, e nevicava, perché non volevamo rimanere un momento di più. Infatti abbiamo camminato, io mi sono presa una cartina e ho cercato di ricostruire, ma non è facile. Comunque ci fermavamo nelle cascine, allora c’erano ancora i contadini che ci davano … ci guardavano un po’ sospettosi perché poi eravamo anche abbastanza stracciati, eravamo anche abbastanza malmessi, però ci davano da mangiare qualcosa, qualche patata, ci lasciavano passare la notte nella stalla. Poi mi pare, arrivati quasi al Tonale, un po’ prima, abbiamo cominciato a trovare i pullman che mandavano incontro ai deportati, anche a quelli che arrivavano dalla Germania, allora siamo arrivati a Ponte di Legno, poi a Lovere, sempre aiutati, rifocillati. A Lovere ci hanno messi su un treno e il 7 mattina siamo arrivati a Milano. I compagni hanno proseguito per Genova e noi … io sono uscita dalla stazione, ho preso il biglietto, mi sono sempre chiesta come ho fatto a pagare il biglietto, o che mi avessero dato qualche soldo i compagni di Lovere perché sono salita sul 7, io abitavo vicino a Lambrate e sono tornata a casa. Ma abbiamo camminato cinque giorni. Io credo che solo noi abbiamo fatto una cosa del genere. Però, anche Milanesi che era molto più anziano di noi, Carlo Milanesi, quel compagno che è morto a oltre ottanta anni ed è sempre stato attivo nel Partito Comunista, un uomo straordinario proprio, molto aperto, molto tollerante, veramente un uomo straordinario, con una storia antifascista, è stato lui che ce lo ha proposto di tornare.

D: Altra gente invece è partita con dei camion.

R: Beh, altri si sono fermati a Bolzano e dopo hanno preso dei mezzi che c’erano a Bolzano. Ognuno avrà avuto un modo di tornare diverso. E poi, forse, arrivavano … Forse, se avessimo aspettato un paio di giorni, sarebbero arrivati i pullman, i camion mandati dai Comitati di Liberazione della zona. No, noi abbiamo voluto venire via subito. Volevamo allontanarci.

D: Fino a quando tu sei rimasta nel campo, certi deportati sono partiti prima, se ne sono andati prima?

R: C’è stato qualche caso, almeno che sia a mia conoscenza. Per esempio, c’era uno di Brescia che, mi ricordo, si chiamava Venturini, che dieci giorni prima della chiusura del campo è stato liberato. Non mi ricordo nemmeno bene per che cosa fosse… era un triangolo rosso anche lui. Me lo ricordo perché evidentemente avevo modo di conoscerlo e di parlare, forse ci trovavamo fuori, non lo so, non mi ricordo bene. Però, di altri non saprei se altri sono stati liberati prima, ma non credo. Beh, la Montanelli. La Montanelli è andata via prima, ma lei era un caso particolare. Lei era lì come ostaggio. Quando lui è stato arrestato, almeno così si diceva, così dice, perché lui è stato in carcere a San Vittore, Montanelli, lui l’ha detto anche più di una volta, era stato arrestato. Lui dice che addirittura doveva essere fucilato, non lo so. E lei quindi era lì come ostaggio. Lei non la facevano lavorare però.

D: Ah, ecco.

R: Forse perché ha fatto la vice campo; poi era tedesca comunque, quindi aveva un trattamento … per quanto che era lì con noi.

D: La Cicci, invece, è scappata anche lei?

R: Beh, si, siamo usciti tutti il giorno 30. Chi il 30, chi il giorno dopo, perché ormai potevamo anche rimanere lì, ormai eravamo anche liberi. Se volevamo aspettare un paio di giorni … allora eravamo così in tanti, ognuno sarà tornato in un modo diverso. Certo che come noi credo nessuno.

D: A piedi!

R: Beh, avevamo ancora si vede delle forze; avevamo ancora qualche forza. Va beh che eravamo giovani, quindi!

D: I collegamenti con il Comitato di Liberazione esterno. Voi sapevate che tipo di ordini si passavano? Cioè, non lo so, le formazioni, vi davano indicazioni delle formazioni? Oppure, non vi siete mai chiesti perché i partigiani esterni a Bolzano, al campo, non hanno mai fatto un’incursione, un’azione.

R: Allora no. Noi speravamo che ci bombardassero perché tutti i giorni passavano i bombardieri che andavano soprattutto .. andavano in Germania e poi bombardavano il Brennero, le linee ferroviarie. Noi speravamo che ci bombardassero, ma anche questo… Va beh che gli inglesi dopo la guerra hanno detto non potevano uccidere … Per noi poteva anche passare l’idea perché comunque eravamo ancora in Italia, ma l’avessero fatto sui campi di Germania, anche se moriva qualcuno per i bombardamenti! Va beh che dopo avrebbero avuto il problema di dove andare, dove scappare.

D: Quindi, rispetto al Comitato di Liberazione di Bolzano, non ti ricordi …

R: No, io so che sapevo che c’era, ricevevamo le notizie soprattutto di informazione sull’andamento della guerra, i compagni ce le passavano perché questo ci dava anche entusiasmo, coraggio insomma. E poi sapevamo che aiutavano, aiutavano noi e aiutavano tutti. Sapevamo chi erano.

D: Come è avvenuta, per esempio, all’interno del campo la tessera del Partito.

R: È avvenuto che un giorno, credo che sia stato Milanesi stesso a consegnarcela. Ci hanno detto: “A tutti i comunisti diamo una tessera”. Io, la prima tessera del Partito Comunista l’ho avuta in campo di concentramento. La Serafina ce l’ha ancora anche lei, l’ha conservata. Eravamo tutti contenti. Che è un’azione abbastanza rischiosa eh! Anche perché oramai eravamo alla fine e rischiavamo proprio di …

Io devo dire una cosa e l’ho sempre detta. Io, naturalmente non è che quei cinque mesi siano stati allegri. Poi, privati della libertà, senza sapere … nelle mani delle SS che non sapevi bene mai che cosa sarebbe successo di lì all’ora dopo, non il giorno dopo, poi comunque sotto la paura, il rischio di essere picchiati, di essere mandati in cella per qualsiasi cosa che a loro non andava. Sono stati cinque mesi e mezzo certo non allegri, anche se … almeno, io ne ho visti anche altri, essere lì per una motivazione di lotta, noi avevamo fatto la Resistenza, avevamo fatto i partigiani, eravamo antifascisti, va beh, sapevamo che eravamo lì non perché eravamo dei ladri o dei malfattori, quindi c’era indubbiamente una differenza e quindi questo ci dava anche un certo non dico orgoglio, ma certo una nostra forza ecco. Però, insomma, cinque mesi e mezzo non sono stati nemmeno corti, giorno dopo giorno e quindi abbiamo anche sofferto, non solo la fame … no, l’acqua noi l’avevamo. È quello che mancava, poi la salute e tutto quanto. Certo che quando io sono tornata, che ho saputo da quelli che tornavano dalla Germania quello che là era successo, io per un po’ di tempo non ho avuto nemmeno il coraggio di dire che ero stata a Bolzano. Mi aveva talmente colpita, scioccata, che li ho visti macilenti, che raccontavano … poi, quando abbiamo cominciato a vedere … no, quello l’abbiamo visto qualche anno dopo quando c’era la televisione, comunque abbiamo cominciato a saperlo, certo che è stato una cosa, anche per noi che eravamo stati comunque lì prigionieri, carcerati e deportati, però abbiamo capito che noi ce la siamo cavata; rimanendo a Bolzano abbiamo comunque salvato la vita. Poi le condizioni fisiche. va beh, avevamo vent’anni, quindi … però l’ho detto, avevamo sempre la tosse. Adesso, riguardando le lettere che scrivevo a mia mamma, ho visto che le chiedevo continuamente degli sciroppi per la tosse e le dicevo che avevamo sempre la tosse.

Poi noi, noi donne, avevamo avuto il problema della scomparsa, non completa, magari a cicli, del ciclo. Infatti ho una lettera dove dico a mia mamma di mandarmi un farmaco per questo. E le dico: guarda però che non sono incinta, non pensare che sono incinta, perché qui è una cosa, il ritardo nel ciclo, che colpiva tutte, tutte le donne giovani. Io, dopo la guerra, ho avuto anche dei problemi di carattere ginecologico, ho dovuto curarmi per una forma di infiammazione ecc. Che, non è escluso che sia stato per quel fatto, su cui si è poco indagato effettivamente, si è poco approfondito. Anche alcuni medici interpellati, ho letto da qualche parte, hanno detto che poteva essere, che poi è capitato anche a quelle in Germania, quelle peggio di noi, lo stress, la paura degli arresti, di quello che avevamo passato. Io sono stata picchiata quando mi hanno arrestata, sono stata duramente picchiata. Non lo so, però era capitato a tutte, anche a quelle che erano lì per ostaggio. Va beh, era sempre un arresto che subivano, quindi era sempre uno choc. Non lo so se invece mettessero qualche cosa nel cibo che ci davano. Non lo so, però questo fatto riguardava tutte. Forse è anche per questo che eravamo gonfie, per tutto un metabolismo, un ciclo tutto sconvolto dall’irregolarità del ciclo mensile probabilmente. E tutte quante, tutte quante avevamo avuto questo problema.

D: Per una donna che cosa è stato il campo di concentramento?

R: Per una donna è stato una cosa prima di tutto diversa da quella degli uomini e certo più pesante, più brutta proprio. Non solo perché le condizioni per noi erano più dure, non potevamo lavarci, non potevamo tenerci in ordine, vivere in mezzo ai pidocchi. Ma poi anche tornando. A un uomo non avrebbero mai detto cosa hai fatto nel campo di concentramento, non avrebbero mai avuto il sospetto di qualcos’altro. A una donna sì. A me personalmente non è capitato. Non è capitato perché quando sono tornata c’era la mia famiglia, mi sono sposata, l’ambiente dei compagni e così via, quindi nessuno pensava che io avessi fatto chissà che cosa nel campo. Però c’è stato anche questo aspetto. E magari le stesse famiglie. Le stesse famiglie che non erano state d’accordo con l’attività svolta magari da quella che aveva fatto la partigiana, da quella che aveva fatto qualche cosa e per questo motivo era stata arrestata. E che, quindi, le stesse famiglie chiedevano alle ragazze: “Cosa hai fatto, cos’hai fatto là?” Quindi, a un uomo credo che nessuno abbia mai chiesto. Quindi anche questo aspetto. È forse per questo che noi per un po’ di anni, ancora più degli uomini, non abbiamo parlato, specialmente quelle che tornavano dalla Germania; specialmente quelle povere compagne, le poche sopravvissute.

Io sono stata recentemente, alla fine di giugno, a Ravensbrück, c’ero già stata un po’ di anni fa, perché si è inaugurata la lapide … perché hanno fatto tutta una ricerca dell’ANED e pare che siano state un migliaio le donne italiane, quasi tutte antifasciste e partigiane, restate o passate da Ravensbrück, e lì hanno messo una lapide nuova con un maggior numero nel memoriale dell’Italia. E lì c’è un bellissimo lago. Adesso poi è tutto ben tenuto, ridente come si usa dire, e lì c’è la cenere di novantamila persone in fondo a quel lago. In novantamila morirono lì a Ravensbrück, tutte donne e bambini. Sì, anche qualche uomo, pochi però. E non solo italiane, ma anche francesi, tedesche, cecoslovacche, russe. Quindi, quelle che tornavano dalla Germania, le compagne veramente, quelle donne …

D: Onorina, secondo te è importante che i giovani conoscano queste storie?

R: Beh, io credo di sì. Purtroppo, per molti anni … intanto è mancata la scuola. Io mi sono molto arrabbiata con le dichiarazioni di Violante quando è diventato presidente della Camera perché proprio in quell’occasione lui ha detto una cosa che io ritengo sbagliata. Anche se l’ha detto con altre intenzioni, però in realtà metteva tutti sullo stesso piano. Allora dopo mi hanno chiesto una mia opinione sul giornale dell’Associazione dei perseguitati politici antifascisti, “L’antifascista” si chiama, e io naturalmente ho detto il mio parere. Poi ho proprio sottolineato che, in realtà, se c’è qualcuno a cui bisognerebbe fare qualche critica, è la scuola che è mancata. È mancata la scuola. Però qui il discorso sarebbe lungo. Perché noi che uscivamo dalla Resistenza, che eravamo felici e contenti che fosse finita, che il giorno più bello della nostra vita, io l’ho detto una volta e ho constatato che poi l’hanno detto anche altri compagni, è stato il Giorno della Pace, però abbiamo vissuto degli anni duri. Che è un altro ragionamento: la guerra fredda, la persecuzione contro i comunisti. Quindi, anche questo ha rallentato indubbiamente un certo … non potevano certo insegnare nelle scuole la storia. A parte che poi c’è sempre qualcuno che dice che bisogna aspettare tanti anni prima di insegnare la storia contemporanea, va beh! Però, certo è mancata l’informazione giusta. Per cui a volte ci dicono: “Eh ma voi avete fatto i martiri, avete fatto dell’apologia, avete parlato solo degli aspetti belli della Resistenza e invece ci sono stati anche delle pagine” … c’era la guerra però e non l’avevamo voluta noi. E la guerra è brutta. In guerra si ammazza e si è ammazzati, quindi … Questo può anche essere vero. Per quello che se, invece, la scuola avesse dato un’informazione storica, scientifica, questo non sarebbe forse avvenuto. Ammesso che sia anche avvenuto che qualche volta, qualche 25 aprile è stato celebrato in modo retorico, questo è anche avvenuto e mi ero un po’ arrabbiata anch’io, però, in realtà, è perché è mancata l’informazione a scuola. Per cui praticamente quasi due generazioni hanno saputo poco. E non è che adesso sappiano poi tanto di più; forse un po’ di più sì. Noi dell’ANPI e anche dell’ANED andiamo, quando ci chiedono, nelle scuole, in questi incontri con i ragazzi, anche delle elementari eh, e in generale sono simpatici, ci ascoltano. Di solito, questi incontri avvengono per l’interesse dell’insegnate. Perché, chi non ha questo interesse, che se ne frega, è difficile. Noi non possiamo mica imporci, noi andiamo dove siamo richiesti; se ce lo chiedono andiamo, altrimenti no. Quindi è un lavoro un po’ frammentario, così, qua e là, non certo su tutta la superficie scolastica in modo anche più scientifico. Beh, noi raccontiamo la nostra esperienza, diciamo le nostre cose. Io faccio sempre la premessa di dire che io non sono lì a dirvi: “Ah come sono stata brava, come sono stata …” No, io in quel momento, in quella situazione mi sono sentita di non restare estranea alle sorti del mio Paese e l’ho fatto. Adesso scopro che sono entrata nella storia; non io, ma tutti quanti. Se ce l’avessero detto a noi quarant’anni fa, ci avremmo fatto una risata. Però è storia, questo è vero.

D: Accennavi a Ravensbrück Lager femminile. Secondo te è importante che i giovani vadano a vedere questi luoghi della storia? I campi di concentramento.

R: Beh, io credo di sì, anche se è triste, c’è qualcuno che ha delle remore a portare i giovani a vedere cose così brutte. Credo di sì perché vedono che è vero. Vedono che è vero, ecco. È vero, il protagonista ti racconta la storia, questo è già molto, va beh che io l’ho vissuta, non sono qui a raccontarvi storie, però vedere il posto mi pare che è quello il punto insomma. Del resto non so, a volte si portano ai monumenti patriottici nelle ricorrenze, lì è un monumento di un pezzo di storia. E non solo dell’Italia, ma di tutta l’Europa, quasi di tutto il mondo.

Che poi la Resistenza abbia avuto anche qualche pagina oscura come si dice adesso, capirai! Può anche essere. Però, chi lo dice, io lo avrei voluto vedere in quel momento cosa avrebbe fatto magari. Poi, insomma, noi eravamo volontari, nessuno ci aveva … dall’altra parte no invece. Dall’altra parte ricevevano la cartolina di precetto e per paura magari andavano, poi erano anche pagati.

D: Un’altra cosa. Ritornando nel campo di concentramento, un atto di solidarietà.

R: Beh, ce ne erano molti atti di solidarietà. Io credo che è stato un momento di grande solidarietà. Non solo, ma anche nella Resistenza, anche nella lotta. Anche lì io ricevevo i miei pacchi, ero quasi l’unica del nostro gruppo, e subito lo distribuivamo fra tutti. Avrei potuto anche magari mangiarmela solo io.

Poi, appunto l’aiuto ai compagni che partivano, quelli che andavano in Germania, che sapevamo che andavano a stare peggio di noi, anche se non in quel modo. Quindi c’era la solidarietà, c’era senz’altro. Direi che era anche un fatto che ci permetteva di affrontare la situazione la solidarietà, perché non ti sentivi sola. Tu aiutavi un compagno, però magari saresti stata aiutata. Anche questo fatto. E’ stato un momento indubbiamente di solidarietà sì.

Mi pare che anche in Germania, sia pure nelle condizioni peggiori da quello che ho letto, nei campi di sterminio, almeno la Rolfi racconta questi episodi. Certo, poi potevi trovare anche quello che pensava solo a se stesso, l’egoista. In mezzo a migliaia di persone c’è, non è questo il punto. Però, in realtà… E la solidarietà, secondo me partiva soprattutto da quelli che erano deportati perché avevano fatto la Resistenza, avevano fatto comunque la lotta, sia pure in tanti modi.

D: A proposito di lotta, per esempio voi qui a Milano, nella tua formazione di gappista ecc., in quanti eravate …

R: Ah guarda, nella brigata c’erano dei momenti che si poteva anche essere in quaranta o cinquanta, non di più, Pesce l’ha anche scritto nei suoi libri.

D: Quaranta o cinquanta. Eravate armati?

R: Beh, le armi c’erano abbastanza. Per fare quello che dovevamo fare c’erano. Poi le armi sai si riducevano all’esplosivo per fare gli atti di sabotaggio e alle rivoltelle. Eh, non potevi portare altro, nemmeno lo sten anche se non era troppo lungo perché in città non potevi assolutamente, si riducevano a quello. Però, in generale, al massimo eravamo una ventina, la media. Sai, era una lotta che in parecchi sono passati nella brigata GAP, ma sono durati anche poco, però si capiva. Se non se la sentivano di affrontare quella lotta non venivano certo perseguitati, gli si diceva “Vai in montagna”. Fra l’altro, parecchi si sono comportati proprio coraggiosamente e sono morti in montagna.

D: Il tuo nome di battaglia qual è?

R: Sandra.

D: Chi te l’ha dato.

R: Io, mi piaceva. Sai, poi anche questo fatto, le donne …