Loredan Onesimo

Onesimo Loredan

Nato a Muggia (TS) il 20.07.1921

Intervista del: 21.06.2000 a Trieste realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 105 – durata: 36′ circa

Arresto: a Kocevje (Slovenia), nel marzo 1944

Carcerazione: a Lubiana (Slovenia)

Deportazione: Mauthausen, Gusen 2

Liberazione: 10.05.1945 a Gusen 2

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Allora io sono Onesimo Loredan, sono nato nel Comune di Muggia provincia di Trieste, ho sempre lavorato nei cantieri, sono stato nei partigiani.

D: Ma quando sei nato?

R: Nato il 20 luglio del 1921.

D: Ecco, poi quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato nel marzo 1944.

D: Dove?

R: A Kocevje, passato Lubiana.

D: Chi ti ha arrestato e perché?

R: Perché eravamo dei partigiani. Eravamo in trasferta, da un luogo per andare in un altro ed una mattina ci hanno aspettato, si vede che qualcuno ha fatto la spia, perché la sera sono scappati due di noi, e alla mattina tutto un fuoco e ci hanno arrestati.

D: Chi vi ha arrestato?

R: Ci ha arrestato prima erano i famosi domobranzi, come si chiamano? Quelli che difendevano, gli sloveni, sarebbero i partigiani del Governo.

Loro. Poi ventiquattro tedeschi con delle tute bianche con croce rossa davanti e croce dietro, noi eravamo già contro il muro, con le mani alzate. Vengono loro, ci prendono in consegna loro, eravamo circa un battaglione, circa 110, ed un terzo sono riusciti a scappare, un altro terzo feriti, morti là ed un altro terzo come noi che siamo rimasti fuori e di lì erano un cinque chilometri per andare, perché era sotto un monte. Lì la segretaria del comandante che era una piccola grossetta, è stata ferita qua sul petto, come quando si ammazza il porco. Dovevamo noi portare i feriti, tutti quanti, lei l’abbiamo messa su di una carriola, ed un po’ ognuno, brutto, bruttissimo da vedere.

Siamo arrivati a Kocevje, ci hanno messo in una scuola, in un’aula grande con tutti questi affari qua, con le mani su così, per terra, le gambe incrociate e bon. Poi interrogatori con i tedeschi. Mamma mia. Come siamo andati su, perché siamo andati, chi ci ha mandato. Noi abbiamo detto che non sapevamo niente, che ci hanno presi e bon. Loro volevano che andassimo con loro perché avevano quei cappotti lunghi di pelle, perché si stava bene, si mangiava bene, quello e quell’altro. Oppure, visto che, allora andrete a lavorare in Germania. Noi siamo operai, andiamo a lavorare, piuttosto che nel bosco.

Prima dei partigiani sono stato ferito, ho quattro buchi, una palla sola qua dentro e qua fuori, qua dentro e qua fuori. Una. Una e cadi per terra. Il comandante mi ha preso e mi ha portato di dietro e bon.

Poi otto giorni in un, loro dicevano, ospedale militare, erano tre baite, senza porte e senza finestre, con un po’ di paglia per terra, e lì. All’ottavo giorno ci hanno dato il permesso di montare di guardia a queste quattro baite che erano e portare il fucile mitragliatore sulla sinistra perché sulla destra era ancora la ferita fresca. Niente, un po’ di alcol e via, non c’era nessuna altra cosa.

Poi di lì da Kocevje, andate a lavorare in Germania, con un trasporto ci hanno portato a Lubiana, in prigione. Allora appena siamo arrivati chi aveva la febbre andava in infermeria al quarto piano e ci davano il termometro, io un po’ più furbo degli altri, ho fatto così è andato su e sono andato su. Un dieci giorni ho fatto su, perché abbiamo fatto la quarantena.

Dopo ci hanno mandato, allora non potevano fare perché c’era il binario rotto, non potevano fare il trasporto da Lubiana e ci hanno portato a Begunie. Begunie sarebbe su là, brutto posto. Di là abbiamo fatto cinque giorni là, su ancora, eravamo a visitare con la famiglia, guardi là, lei si chiama così e così, tal mese,il tal giorno. Dice è da pagare No, no, lei e famiglia non pagano niente” e la stessa cosa quando siamo entrati in campo in Germania.

Allora di là dopo il quinto giorno ci portano giù e giù al treno e ci mettono su questi vagoni piombati sopra, con il filo spinato, uomini, donne, bambini, tutti assieme. Due giorni siamo stati là dentro, in quello là. Perché siamo andati su, su fino a Mauthausen. Per fare i bisogni che cosa abbiamo fatto? Abbiamo preso una tavola su dal pianale e lì facevamo i bisogni tutti, uomini e donne, tutti. Come niente fosse. E ci hanno portato a Mauthausen, giù in stazione e ci aspettavano quelli del campo, ci hanno preso in consegna loro. Quelli erano bestie. Quelli erano veramente bestie.

Ci portano su, sulla prima cosa, quando siamo entrati ci registrano e dopo, spogliarsi nudi, rasati tutti, sopra e sotto, non dovevi avere un pelo addosso. Niente. Tagliavano e poi rasavano. Lì ci hanno dato un piccolo pezzettino di sapone e ci hanno messo dentro questo grande stanzone con delle serpentine sopra, con dei buchi, hanno chiuso le porte e tutto e mollano l’acqua. L’acqua era tiepida. Ci siamo insaponati, mollano l’acqua fredda e nessuno poteva scappare, tutto chiuso. Perché dopo lo stesso locale lo hanno adoperato per gasare, lo stesso locale. Adesso è ancora là.

Eravamo adesso in settembre con il Professor Sarti, il famoso registra di Strelher, eravamo su ed abbiamo visitato tutto, ero io a Mauthausen perché ero là dentro.

Là ci hanno vestito, zoccoli. Tutti vestiti, che cosa hanno fatto. Quei sacchi grossi di cemento, ma sono alti, alti, tutto dentro, cappotto, scarpe, tutto là, hanno chiuso ed hanno messo il nome, che dopo ci daranno indietro. Ecco là.

Là ci hanno portato ed abbiamo fatto la quarantena.

D: Ti hanno immatricolato là a Mauthausen?

R: Sì.

D: Che numero ti hanno dato?

R: Lo dico in tedesco o in italiano?

D: Tutte e due.

R: In tedesco è …. 65807.

D: Assieme al numero ti hanno dato un’altra cosa?

R: Sì, il triangolo con la punta in giù. Il triangolo rosso. Che noi eravamo considerati politici. Perché gli ebrei avevano tutta un’altra cosa, loro avevano la stella di Davide, e gli ultimi neanche quello là. Una pennellata gialla, con un pennello largo, uno sulla schiena, non avevano né numero né niente.

D: Poi ti hanno portato al blocco di quarantena?

R: Sì, al blocco 14, poi eravamo al blocco 16, mi pare, non lo so. Al 14 di sicuro e là dentro si stava tutti per terra. Non si poteva stare con la schiena giù, bisognava stare così e lui era sulla porta con il fucile mitragliatore e qualcuno voleva fare il furbo e si metteva giù. Lui ha camminato sopra tutti e quello lì era finito. Sul viso, sul corpo, basta quello, era finito, rimaneva là. Basta.

D: Lì nella quarantena che cosa hai fatto?

R: Nella quarantena ci hanno anche portato fuori là, dove allargavano il campo, su questo binario, lavorare, spianare e bon.

Poi finito là ci hanno portato davanti, davanti all’entrata e facevamo la massicciata per la strada che viene su, eccolo. Lì ho fatto quaranta giorni, sarebbe come dire quarantena, in agosto.

Di là ci hanno fatto il trasporto, mandavano di qua e di là, a me hanno mandato a Gusen che è subito sotto un paio di chilometri.

D: Quale Gusen?

R: Gusen 2.

D: Che cosa facevi a Gusen 2?

R: A Gusen 2 siccome io ero dei cantieri, operaio specializzato, allora mi hanno mandato nella fabbrica di apparecchi. Tutto quanto in galleria. Ogni mattina venivano con il treno dentro, ci caricavano sui vagoni aperti, non chiusi, e lì come bestie andare su e ci portavano dentro in galleria. Dentro addirittura dentro, non fuori. Niente, dal campo dentro. Lì si lavorava. Ero nel reparto carlinghe, dovevamo fare in 12 ore che si lavorava tredici fianchi di carlinga del caccia bombardiere monoposto. Caccia bombardiere quel famoso che il pilota faceva tutto lui. Allora l’asse dell’elica era la mitraglia, poi davanti due mitraglie sincronizzate con le pale dell’elica, una cosa enorme. Però la cabina non veniva fatta. Veniva fatta in un altro reparto fuori. Lì era il reparto ali, reparto carlinga, e così.

D: Tutto nelle gallerie?

R: Tutto dentro, tutto, tutto dentro. Dentro che cosa facevamo. Noi dovevamo prendere la lamiera di alluminio, metterla già su quello pronto, fermarla, bucare, mettere di dietro l’ossatura e ribattere. Ribattere con le brocche di alluminio, però duravano due ore, dopo due ore bisognava portarle al bagno galvanico perché, se era vero non lo so, dopo non si strozzava più. Quando si sbagliava passava la SS, il capo reparto, che era un lavoratore civile italiano, in quel reparto là, un lavoratore civile italiano, era lui il responsabile del reparto carlinghe e quando passava questo SS lui doveva fargli il rapporto, che cosa hanno fatto e lì erano botte.

D: Ma non è un deportato questo lavoratore?

R: No, no, era un lavoratore civile che lavorava in Germania, come era non lo so. Ma dopo viene il bello.

Allora io ho sbagliato qualche cosa e ne ho prese cinque con il nerbo e mi ha dato anche un pugno, io avevo qui un dente d’oro con la capsula, mi è caduto per terra. E cosa succede? Il tedesco mi ha dato la sua punizione, io mi sono preso il dente, viene questo lavoratore civile e mi dice: “Se me lo dai ti do un pane, questo e quell’altro”. Insomma, mi ha dato un pane di un chilo, io gli ho dato quello là. Ma poi viene il bello. Perché adesso bisogna riportarsi direttamente a quando siamo usciti dal campo.

Quando siamo usciti dal campo ci hanno liberato gli americani, poi torneremo indietro. Lì, strada facendo, prima di Linz, c’era il campo dei lavoratori civili, e lì c’erano già gli americani e li prendevano in consegna e lì ci hanno dato una piccola puntura con una piccola siringa qua, per la scabbia, orticaria. Facevi così e tutta una materia. E la scabbia è bruttissima perché ti penetra sotto, e dentro, mamma mia.

Adesso dovrei finire questo qua. Finisco perché finisco? Lì si parlava, io parlavo con uno e con l’altro, com’è, come non era, dico è lui, il capo del mio reparto come lavoratore civile, così e così. Loro hanno rapportato al comando del campo e mi hanno chiamato così ed io sì, è così e così. Vanno nella baracca sua, lui aveva quelle valigie di legno ed aveva un sacchetto così pieno di oro, denti, quello e quell’altro, su e giù e mi dice, prende questo lo mette sul tavolo e mi dice, cercati il tuo dente. A me, quelli là del comitato. Fatto sta che l’ho trovato, me lo hanno presentato e tutto. Alla sera hanno fatto la riunione in campo. E spiegano a tutti cosa è successo, questo e questo. Sa cosa hanno fatto di lui? Una cosa che ancora adesso mi vengono i brividi, lo hanno legato sul cofano di una doge vecchia che era là, lo hanno legato, lo hanno bagnato di benzina e gli hanno dato fuoco perché tutti si sono messi a gridare “Dagli fuoco, dagli fuoco”. Io non volevo fare queste cose qua. Questa è una testimonianza, e basta. Possiamo tornare indietro.

D: Gli hanno dato fuoco?

R: Fuoco, sì. Per noi era una cosa normale, perché a Mauthausen dentro là, si passeggia, quello grida “Due uomini con me, due uomini con me”, bisogna andare perché lì non si poteva scappare o dire di no. E ci hanno portato giù ai forni crematori, giù ad aprire questo portellone di questa stanza, come una cella frigorifera, c’erano tutti questi cadaveri e lì a prendere le pale, aprire il forno, il portello di ghisa, prendere il carrello, dargli una scassata che vada la cenere di quelli di prima giù, poi con la pala si metteva di fuori, da parte, era pronto per metterne su altri. Ma noi non abbiamo visto, abbiamo solo pulito il forno e ci hanno dato anche due sigarette, cosa rarissima e bon.

Quella l’unica volta che sono stato là. Poi si caricava. Questa è bella. Quando si rientrava dal lavoro si faceva la decimazione. Sai cos’è la decimazione? Tutti in fila. Il dieci fuori. Qui avevamo il numero, levavano tutto via, con la matita copiativa scrivevano il numero così in grande, un colpo in testa e se non andavi ti facevano, e restavi là. Finito tutto quei cinquanta, sessanta di loro, col carro, metti sul carro e porta sul mucchio.

Quando io sono entrato nel campo non c’erano ancora i forni crematori, c’erano le fosse comuni e sono proprio di dietro, al fianco del campo, un’enorme fossa con uno strato di cadaveri ed uno strato di calcina viva, uno strato di cadaveri ed uno strato di calcina viva, quella lì non era ancora riempita bene, già era pronta quell’altra là. Così erano quattro fosse. E poi hanno fatto il primo forno, il secondo, il terzo ed il quarto.

Adesso a Gusen dopo che ci hanno mandato in quell’altro campo sono rimasti solo i forni crematori perché i proprietari dei terreni ci hanno fatto le case sopra a migliaia e migliaia e migliaia di morti.

D: Ascolta, quando andavate al lavoro, vi chiamavano a Gusen 2, dal campo di Gusen 2, vi facevano salire su un trenino.

R: Un treno a scartamento ridotto, praticamente.

D: E vi portavano direttamente alla galleria.

R: Dentro. Facciamo conto come qua sarebbe il monte Pantaleone, tutto traforato di gallerie dentro. Tutto. Tutto dentro, tutto. Il lavoro si svolgeva tutto dentro. Verso l’ultimo tutte le imboccature erano già pronte per farle saltare per aria, poi non lo hanno fatto e non so perché.

Tre giorni prima non ci hanno portato sul lavoro, ci hanno lasciato in campo e basta, poi sono venuti gli americani.

D: Quando tornavate al campo, il treno veniva dentro?

R: Dentro, dentro. Tutto dentro, in campo.

D: Dentro nelle gallerie?

R: Sì, per andare sul lavoro dentro le gallerie, e dalle gallerie si andava direttamente in campo, a passo d’uomo. Non scappava nessuno.

D: Ti ricordi che baracca avevi tu a Gusen 2?

R: No, no, troppo.

D: Ti ricordi degli altri compagni tuoi che c’erano a Gusen 2?

R: Mi ricordo che alla sera ci si trovava anche del paese mio e si faceva qualche cosa, con il tabacco, perché si dava via il pane per una presa di tabacco.

La sera ci si trovava, il giorno dopo non c’era più. Dov’è? Lo hanno portato in Revier. Là sul mucchio.

D: Tu al Revier non sei mai andato?

R: Sì. Sì sono andato. Per questa scabbia, orticaria, ho marcato visita, che sarebbe meglio di no, perché lì se marcavi visita andavi dentro e bon. Allora che cosa ci hanno dato? Sulla mano un po’ di quella pomata, se non fai il bagno a cosa serve mettersi quella pomata. Invece dopo gli americani ci hanno fatto bagni nelle vasche di zolfo, è andato tutto via. Mi è solo rimasto una cosa, è brutto da parlare, sono rimaste le creste di gallo. Sai cosa sono le creste di gallo? La sporcizia. Chi si lavava? Dov’era l’acqua?

Poi il dottore nostro a casa ci bruciava quelle, mamma mia che male, quello era il peggio di tutto il resto, a parte le piaghe, una cosa e l’altra.

D: Alla liberazione tu eri a Gusen 2?

R: Sì.

D: Alla liberazione eri a Gusen 2. Come te la ricordi tu la liberazione?

R: La liberazione. Siccome la strada era un po’ più sopra elevata ed il campo era più basso sotto due metri. Sono venuti gli americani con due carri armati grossi e basta. E lì hanno preso via tutti, le guardie, i comandanti del campo e tutto.

D: Allora sono arrivati gli americani; tu dov’eri?

R: Dentro in campo. Là. E basta. Quando loro hanno preso tutti quelli là, non comandava nessuno. Chi andava in cerca di amici, chi andava in cerca per fare giustizia con i capi blocco e lì hanno messo un carro armato davanti, e tutti in fila in mezzo agli altri, tutti quanti ed un altro carro armato di dietro e sono andati via e noi basta, alla mercé. Chi andava via subito alla sera, perché questa cosa alle quattro di pomeriggio, al 10 di maggio.

Strada facendo che si andava giù verso Linz, venivano su gli americani con questi carri armati e ci buttavano fuori quei pacchetti conforto, dentro tre sigarette, tre carte igieniche, tutto a tre, perché non lo so, tre cioccolate e questi qua mangiavano, e poi li trovavi nel canale. Perché lo stomaco non era così. Ci davano un litro di brodaglia. Un litro di brodaglia con le rape. Le rape dieci minuti dopo non c’erano più. Allora cosa bisognava fare, legarsi qua i pantaloni perché se loro ti vedevano che con la dissenteria perdevi, ti portavano anche in pieno inverno e con la manica dei pompieri ti lavavano e rimanevi perché non eri più niente. Eravamo ossa e pelle. Da non potersi sedere, perché non ci si può sedere sull’osso, noi vediamo ancora qua, quando ci appoggiamo sull’osso, di dietro non era così, era così.

Quando si rientrava dal lavoro, levarsi la camicia e fare così, anche niente, guardare ed anche via, qua sotto era così, fare così e niente altro, ed una volta al mese, circa, ti portavano a disinfettare, quindi tutti quanti a levarsi la giacca, metterla per terra, tutto il resto dentro, che resti fuori il numero, il nome non esisteva, perché la prima cosa che facevano, ti spersonificavano, tu non sei più tu, con il terrore, è un terrore continuo, nessuno reagiva, niente, niente.

D: Quindi alla liberazione tu sei uscito subito dal campo?

R: No, no, siamo andati in cucina, io ed altri, non so chi, perché eravamo degli automi, non eravamo più noi, noi eravamo niente, non so. Si camminava così. In cucina abbiamo trovato quei piccoli pacchetti di cipolla secca, abbiamo fatto un po’ di polpette. Con questo stomachino che non era niente. Abbiamo dormito là in cucina. E la mattina ci siamo incamminati verso Linz che è a circa 27 chilometri da Gusen.

D: Sei andato a Linz?

R: Sì, verso Linz e strada facendo prima di arrivare a Linz ci hanno intercettato gli americani. E ci portano dentro in quel campo, nel campo dei lavoratori civili, dove è successa quella cosa.

D: Lì quanto tempo sei rimasto?

R: Una quarantena. Praticamente. Hanno incominciato con una zuppetta, praticamente niente, poi sempre di più, un po’ di riso, sempre più, fino a che negli ultimi giorni ci stava il cucchiaio con pasta e fagioli, così ci hanno proprio rimesso a posto, ci facevano il bagno nelle vasche di zolfo, dieci minuti dentro in questo zolfo, poi fuori, poi la doccia, è scappato tutto, scabbia, orticaria. Sono rimaste solo quelle là. Dolori.

D: Per il rientro in Italia?

R: Il rientro in Italia, il ponte di Linz, la stazione di Linz non era più niente. Il ponte di Linz lo hanno fatto provvisorio. Si vede per il treno e siamo passati con il treno, vagoni normali di terza classe e bon, giù, in mezzo alla campagna, ci si fermava, perché non lo so. E lì si andava giù, si andava in cerca di rape o qualche cosa da mangiare, non c’era niente, non ci hanno dato niente.

Siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano ci hanno messo nelle baracche. Lì eravamo quattro, cinque giorni, non so, e lì venivano da Milano, da Torino, da Genova, a prendersi ognuno i suoi, allora era sempre l’auto parlante che gracchiava, un trasporto per il rientro.

Noi per Trieste, ma Trieste non si può, perché c’era Tito. Allora niente. Allora siamo andati giù per Trento, ci hanno fermati a Verona, e a Verona non si può andare, si rimane là. Invece poi è arrivato l’ordine che Tito si è ritirato e bon, a casa.

Veniamo a casa e a Bolzano ci vengono a prendere i pompieri di Muggia, con il loro camion e bon, ci hanno portato giù a Muggia. Lì in piazza ci hanno fatto la piazza piena così, hanno fatto un paio di tavoli, hanno spiegato qualche cosa, ma noi non eravamo noi. A parte che oggi siamo diversi, ma quella volta eravamo proprio niente.

D: Dei tuoi amici, del tuo Transport, vi siete salvati in tanti?

R: Non lo so, perché non mi ricordo quelle cose. Anche del campo non ci si ricorda mica tutto. Allora che cosa era il campo, che cosa mi ha colpito? La baracca che avevano loro i tedeschi che erano prigionieri come i nostri, solo che per fare quei servizi, andavano dentro e si vedevano che andavano su e giù e quando non avevano lavoro si vedeva che erano appoggiati alla finestra. Poi si vedeva il comandante del campo vicino al portone, un soldato, un piccolo bambino, di pochi mesi, forse, a buttarlo per aria e lui si allenava con la pistola. Quello mi è rimasto, si rimaneva colpiti perché erano cose. Il terrore e basta. Allora dormire, specialmente negli ultimi giorni in quattro su di un posto, non era una branda, era solo legno, due con la testa in su e gambe in giù e gli altri due con la testa in giù e le gambe in bocca. Era quasi una cosa normale, però ci si ricorda poco di queste cose.

D: Quando sei rimasto a Mauthausen e poi a Gusen 2, ti ricordi se potevi scrivere o ricevere pacchi?

R: Niente, niente, che scrivere. No, niente, pacchi, niente, niente, non riceveva nessuno. Noi eravamo completamente isolati dal mondo, niente, niente, giornali, neanche roba vecchia, niente. Niente.

D: Ti ricordi se assieme a te c’erano anche dei religiosi?

R: Come no. C’erano anche i Geova. C’erano gli omosessuali. Ognuno aveva il suo triangolo, il suo colore. Però noi più di tanto. Che cosa sapevo io.

D: Hai visto anche sacerdoti?

R: Come no, sacerdoti, professori, ingegneri, ma tutti, di tutto, trattamento unico. Tutti uguali. Solo che agli ebrei gli davano gli ultimi giorni un pane in ventiquattro.