Stanzione Mirella

Mirella Stanzione

Nata il 11 marzo 1927 a La Spezia

Intervista del: 06/09/2000 a Roma

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 41 – durata: 60′

Arresto: 2 luglio 1944 a La Spezia

Carcerazione: a La Spezia e Genova

Deportazione: Bolzano, Ravensbrück

Liberazione: maggio 1945, marcia della morte

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Mirella Stanzione e sono nata a La Spezia l’11 marzo del 1927. Ho qualche difficoltà a ricordare il passato di deportata in un campo di sterminio nazista. Ricordare è doloroso. Inoltre mi chiedo: “Si vuole veramente sapere? Capire?”. Forse io non dovrei pensare e dire questo, forse la mia testimonianza può servire a far sì che non si ripetano gli errori commessi in passato. E quindi è giusto che in qualità di sopravvissuta io parli della mia esperienza.

Il 2 luglio del 1944 le SS tedesche, armi in pugno, sono entrate in casa mia, a La Spezia, e mi hanno arrestato insieme a mia madre. La mia era, ed è una famiglia antifascista; mio fratello era partigiano. Per la logica nazista combatterli ed essere contrari al regime vigente costituiva un motivo più che valido per l’arresto e la deportazione. Che io e mia madre personalmente avessimo partecipato attivamente alla lotta partigiana non aveva nessuna importanza, per il nazismo bastava che in famiglia uno solo li combattesse perché tutti gli altri componenti della stessa famiglia fossero colpevoli. Gli avvenimenti susseguitisi al mio arresto sono simili a quelli subiti da tutti coloro che hanno vissuto la mia esperienza: la prigione prima a La Spezia, a Villa Andreini, poi a Genova, a Marassi, indi al campo di smistamento di Bolzano in attesa di un ulteriore trasferimento in Germania. Tutti questi trasferimenti avvenivano nel più assoluto segreto. Dal giorno dell’arresto non abbiamo mai saputo quello che ci sarebbe accaduto e dove ci avrebbero portato. Il primo, ma non ultimo, trauma subito è stata la prigione. In cella in isolamento sino alla fine degli interrogatori da parte delle SS tedesche; il pagliericcio infestato da cimici, il bugliolo sono stati il primo impatto con la nuova realtà. Eravamo però solo agli inizi e non era il peggio.

La destinazione finale di questo calvario è stato per me Ravensbrück. Il viaggio da Bolzano a Ravensbrück in carro bestiame sigillati, insieme ad una sessantina di compagne, durato sei giorni e sei notti, mi ha fatto rimpiangere la prigione. Ignare di quello che sarebbe accaduto, ignare della destinazione, spaventate, confuse, parliamo poco, non sappiamo niente ma abbiamo paura. Nel nostro subconscio avvertiamo che i giorni a venire saranno difficili, la realtà però andrà ben oltre ogni più fervida immaginazione.

Ravensbrück era un campo di concentramento a ottanta km da Berlino, verso la Polonia. Popolato solo da donne e bambini. Questo è forse il motivo per il quale non  è molto citato. Al nostro arrivo vediamo mura, filo spinato e le torrette di controllo presidiate da soldati armati. Il Lager si presenta grigio, tetro, silenzioso. Si odono solo comandi secchi in tedesco e il latrato dei cani che insieme ai soldati ci circondano.

Sulla piazza del Lager notiamo una colonna di donne: sono le deportate che ci hanno precedute. Sono magre, sembrano affaticate, sono visibilmente sporche e molte sono rapate.

Hanno poco l’aspetto di donne, indossano una divisa a righe e ai piedi hanno gli zoccoli. Tutte però han ben visibile sul vestito un numero e un triangolo di colore diverso che le contraddistingue, le qualifica.

Il mio triangolo come politica è rosso e il mio numero è il 77415. Per la logica nazista il primo compito delle ausiliarie tedesche consiste nel rieducare la deportata. E per questo motivo la disciplina deve essere dura e duro deve essere il lavoro. Non è ammessa nessuna trasgressione, tantomeno qualsiasi forma di ribellione. Le botte, il frustino, il bastone, la cella di punizione servono a rendere chiaro questo concetto.

Questa forma di “rieducazione”, dico rieducazione fra virgolette, non è fine a se stessa: l’industria tedesca ha bisogno di manodopera e i deportati, anche se stremati dalla fame, dal freddo e dal lavoro servono allo scopo. Poco importa se non vivranno a lungo, qualcosa potranno fare lo stesso per aiutare la macchina bellica. Ad un costo minimo per l’industria. Per arrivare a questo, però non basta togliere ogni resistenza fisica, bisogna annientare psicologicamente la dignità, la personalità del deportato. Tutto mira a questo: il duro lavoro, la fame, il freddo, la sporcizia, i pidocchi, le botte, le umiliazioni, la paura del dopo. La paura del dopo: questa è una sensazione che non si può descrivere, non posso dire quello che provavo, non sono in grado di trasmettere a chi mi ascolta l’ansia, il terrore che sentivo dentro di me di fronte all’ignoto.

Il tutto acuito dal fatto che non conoscendo il tedesco e nessuna delle altre decine di lingue europee che sentivo intorno a me, ogni fatto assumeva proporzioni enorme. Tra l’altro essere italiana costituiva di per sé un aggravio: eravamo mal viste sia dalle tedesche che dalle francesi, dalle russe, dalle polacche; non veniva preso in considerazione che se eravamo state deportate era per i loro stessi motivi; per loro eravamo lo stesso fasciste. Solo dopo lunghi mesi questo atteggiamento mutò. Ho vissuto tutto il periodo concetrazionario con le sofferenze e le paure che tutti i deportati hanno provato e sono sicura che se ho potuto sopravvivere è stato proprio perché avevo accanto mia madre. La sua forza ha fatto sì che non abbandonassi mai il desiderio e la speranza di tornare a casa insieme a lei. Insieme a lei mi è stata di grande aiuto Bianca Paganini con la quale, sin dalla prigione di La Spezia ho vissuto questa tragica esperienza. Devo dire che mia madre è stata sì un aiuto psicologico, ma nello stesso tempo motivo di grande sofferenza. Non riuscivo a sopportare, quando anche per motivi più banali, dovevamo stare nude in fila davanti ai soldati e vederla vergognosa della sua nudità, cercare di coprirsi con le mani facendosi piccola piccola. Ed ora io dovrei parlare di tanti piccoli particolari, ma preferisco che mi vengano rivolte delle domande.

D: Grazie Mirella. Partiamo dall’inizio, vi hanno arrestate e sono entrati in casa le SS a Spezia e hanno preso te e mamma. Vi hanno accusato di qualcosa in particolare?

R: Più che accuse volevano sapere da noi… perché io avevo finito da poco 16 anni, non è che potessi dire di aver fatto chissà che cosa per il movimento partigiano, direi proprio di no, se non aiutare mio fratello nella distribuzione di qualche piccolo manifesto, ma veramente poca cosa. Quindi loro volevano sapere quello che stava succedendo in casa mia. Se conoscevo questo, se conoscevo quell’altro. Io ricordo che sul tavolo delle SS c’era una mia fotografia. Tra l’altro io non sapevo neanche da dove venisse questa, poi ho capito che era stato mio fratello che per giustificare la presenza in casa mia di un altro partigiano, gli aveva dato la mia fotografia dicendo che era il mio fidanzato. Quindi mi hanno chiesto questo. Naturalmente sono rimasta un attimo così, perché è logico, poi non ero in grado in quel momento di essere molto pronta nelle risposte, comunque ora non ricordo esattamente le domande … ma mi hanno … più o meno… le conoscenze, chi veniva, chi non veniva, che faceva, e io poi alla fine ho detto “io non so niente”. E lo stesso è stato per mia madre, più o meno le stesse domande, anzi dirò di più, mia madre è stata interrogata più volte, forse hanno preso in considerazione la mia giovane età, hanno capito che io più di tanto non potevo dirgli, ma comunque neanche mia madre poteva dire tanto.

Io sono stata due mesi nella prigione di La Spezia, a Villa Andreini, dove, il primo impatto l’ho detto, è stato tremendo, perché a parte che naturalmente non conoscevo nessuna cella, le celle di allora erano molto diverse da quelle che ora vediamo, non facciamoci illusioni, la mia era una piccola, piccola cella, molto sporca, con solo un pagliericcio e solo il bugliolo non avevo altro.

D: Ed eri da sola in cella o con mamma?

R: Ero sola in cella, perché dovevamo stare in isolamento fino a quando gli interrogatori non finivano. Dopo di che ci hanno unito.

D: Ti hanno immatricolata a Villa Andreini?

R: Sì, ma non so il numero. Non so niente, mi hanno preso anche le impronte digitali.

D: E gli interrogatori sono sempre stati condotti dalle SS?

R: Sempre, io non ho mai visto un fascista. Mai.

D: Presenza di italiani?

R: Mai, io ho solo visto le SS tedesche. Brigate nere non le ho mai incontrate.

D: E dopo due mesi?

R: Dopo due mesi ci hanno condotto a Genova. Ci hanno portato con un camioncino, anzi a metà del tragitto i partigiani hanno cercato di assalire il camion per liberarci, ma non ce l’hanno fatta, perché i tedeschi hanno fermato il camion e si sono messi tutti in cerchio con i mitra, non erano mitra non mi ricordo come li chiamavano allora Maschinenpistole forse… Quindi è stato un attimo di speranza svanito subito nel nulla. Voglio dire una cosa. A La Spezia c’erano le suore, che dopo il primo momento di incertezza, perché naturalmente chi entra in carcere in genere si presuppone chissà cosa abbia commesso, hanno capito invece dopo che eravamo lì per motivi politici e che eravamo delle brave persone. Questo invece non è successo a Genova a Marassi. Io ho un ricordo tremendo di queste suore, perché ci hanno trattato come trattavano le prostitute, le ladre e le assassine; ci hanno messo in una cella insieme a loro. Quindi un ambiente tremendo, c’era anche la Bianca con me, con la mamma e la sorella. Non hanno mai avuto, non dico una parola buona, ma un atteggiamento buono, non hanno mai fatto distinzione tra noi e le altre, perché eravamo diverse, se non altro i motivi erano diversi. Ho visto una volta sola la madre superiora in carcere; è venuta, e per consolarci ci ha dato un libro: “L’ultimo giorno di un condannato a morte”.. “Così potete leggere”. Ci siamo un po’ guardate, non potevamo fare nessuno commento perché era inutile.

Da Genova, sempre con dei camion, ci hanno trasferito a Bolzano.

D: A Genova, siete state nuovamente interrogate?

R: No, basta. Interrogazioni non ne ho più avuto.

D: E quanto tempo siete rimaste nelle carceri di Genova?

R: Noi a Genova siamo stati poco, meno di un mese, per fortuna; dico per fortuna perché non sapevo ancora quello che mi sarebbe successo.

D: Poi da lì, dicevi il trasferimento al campo di Bolzano.

R: Al campo di Bolzano, di cui ho quasi un bel ricordo confronto a tutto il resto, nel senso che ci davano delle zuppe di orzo discrete, ci trattavano anche non male direi. Ci facevano lavorare, mettevamo dei bottoni nelle tende da campo. E lì siamo stati un mesetto circa, ora le date non me lo ricordo bene.

D: Il percorso da Genova a Bolzano come l’avete fatto? Ed eravate solamente un gruppo di donne o c’erano anche uomini?

R: No, nel mio camion eravamo solo donne. Io ricordo solo donne e ricordo che ci hanno fatto fare una sosta proprio in Piazza del Duomo a Milano e chi ha potuto ha buttato dei bigliettini dicendo “avvisate” ecc. ecc. Abbiamo avuto per un attimo la speranza che la cittadinanza ci aiutasse in qualche modo, ma era molto difficile.

Di quel viaggio io ho un ricordo abbastanza triste e sconvolgente, almeno per me. E’ evidente che essendo su un camion ad un certo punto si doveva soddisfare i nostri bisogni fisiologici. Quindi ci hanno fermato in un campo, c’erano anche dei soldati italiani in questo trasporto che ci hanno accompagnato. Erano della milizia precisamente. Allora ci hanno fatto scendere in questo campo, ci hanno messo tutti, hanno fatto un circolo loro col mitra spianato, col viso rivolto verso di noi e ci hanno fatto mettere tutti in mezzo. Secondo loro in quel modo noi avremmo dovuto soddisfare i nostri bisogni. Tra l’altro questi, e mi dispiace dirlo perché erano italiani questi, sghignazzavano; questa è una cosa che veramente non riesco a perdonargli.

Poi il resto del viaggio è proseguito più o meno normalmente.

D: Ti ricordi più o meno in quante donne eravate in questo transport?

R: No. Il camion era pieno di donne, quindi ne potrà contenere, una trentina; eravamo una addosso all’altra quindi, ma non mi ricordo perché… a parte che sono passati tanti anni, a parte che ho cercato di rimuovere, anche perché io sono stata zitta per parecchio, per quasi cinquanta anni a dire il vero, non volevo parlare di queste cose. E dirò poi perché. In quel momento non è che si guardava tanto, si contava, eravamo veramente spaventate e frastornate.

D: Come ti ricordi l’ingresso nel campo di Bolzano?

R: Ricordo che ci hanno fatto andare subito alle docce, ci hanno spogliato, ci hanno … A Bolzano non rapavano nessuno, almeno che mi risulti. Ed è la prima volta che mi sono trovata insieme a tante donne nude. Io ogni tanto casco nella storia del nudo, perché io parlo di avvenimenti avvenuti più di cinquanta anni fa; allora il nudismo non era di moda. Il fatto anche di vedere un’altra donna nuda a me personalmente dava fastidio, non solo vederla ma farmi vedere, avevo un certo pudore. E quello era ancora il meno, perché poi la cosa naturalmente si è aggravata. Ci hanno dato delle tute, pulite devo dire la verità. Non ricordo di avere un numero, non lo ricordo assolutamente.

D: E il blocco te lo ricordi?

R: Sì, il blocco me lo ricordo vagamente. Neanche il numero mi ricordo, no quello di Bolzano l’ho quasi cancellato, perché era una cosa che, per mangiare …

D: Per mangiare dicevi cosa ti davano?

R: Era discreto diciamo, venendo dalla prigione; ad un certo punto una zuppa di orzo era ancora accettabile.

D: Ti sei mai chiesta il fatto, allora La Spezia Villa Andreini, poi carcere di Marassi, poi Bolzano, lo sradicamento dal tuo territorio da casa tua, dalle tue amiche, dai tuoi amici, mentre eri in viaggio, mentre eri su, se te lo ricordi. La separazione forzata diciamo…

R: La separazione forzata era soprattutto quella con mio padre, mio fratello, non sapevo cos’era successo di loro; non ho mai saputo niente di loro fino al mio ritorno. Non solo ma noi abbiamo lasciato la casa aperta, il nostro appartamento è rimasto aperto e quindi è stata fatta un po’ man bassa; non so se devo ringraziare i tedeschi o gli italiani, ma comunque qualcuno devo ringraziare di questo.

D: Quando eravate a Bolzano avete potuto comunicare con l’esterno?

R: Mai, mai potuto comunicare. L’unico momento in cui abbiamo potuto far questo è stato a La Spezia, nelle carceri, perché i miei familiari – io avevo zii, la nonna ecc. -, quando hanno saputo del nostro arresto si sono informati dove eravamo, quindi hanno preso contatto con le suore e anche per questo forse c’era un trattamento anche benevolo nei nostri confronti, in quanto nel limite del possibile portavano anche qualcosa alle suore, parliamo di cibo insomma, perché allora era quello che serviva.

D: Scusa Mirella, a Bolzano ti ricordi se hai visto dei religiosi?

R: No, mai visti. Io non ho mai incontrato religiosi, mai, almeno non si è mai qualificato nessuno come religioso.

D: Parlavi prima di lasciare la casa aperta. Cosa significa concretamente? Che non avevate chiuso niente?

R: Io sono uscita per prima dall’appartamento, mi ha seguito mia madre, la porta è rimasta aperta. Non chiudeva nessuno.

D: Quindi religiosi non ne hai mai visti. E di bambini, di ragazzetti a Bolzano?

R: A Bolzano i ragazzi no, li ho visti durante il trasporto per Ravensbrück; e una volta arrivati a Ravensbrück c’è stata la divisione tra noi donne e i bambini, dopo di che io non li ho più visti.

D: Ma questi bambini sono partiti da Bolzano con voi per andare a Ravensbrück?

R: Sì, per forza, perché sono arrivati con noi, perché c’erano delle mamme che avevano dei bambini; non erano nel mio blocco però, erano in altri blocchi. Deve essere stato uno degli ultimi che è partito per la Germania.

D: E c’erano, se ti ricordi, anche degli ebrei a Bolzano che potevi capire che fossero ebrei, o che qualcuno ti ha detto?

R: No, perché noi, non so se abbiamo fatto bene o no, in un certo qual modo forse sì, è servito a noi, abbiamo fatto come un gruppo ben unito: io, mia madre, la Bianca, la Bice, eravamo sempre insieme, ci sostenevamo a vicenda. Quindi, sì le altre le ho conosciute ma non come queste che ho appena citato.

D: Poi un giorno vi hanno chiamato, a Bolzano?

R: E ci hanno messo sul treno.

D: Dal campo dove vi hanno portato e come vi hanno portato? Per prendere questo, per mettervi sul transport, se ti ricordi naturalmente…

R: Molto probabilmente con un altro camion, giuro che in questo momento questo non me lo ricordo.

Io mi ricordo il carro bestiame, quello me lo ricordo molto bene.

D: Ma vi hanno fatto salire in una stazione, in uno scalo?

R: Sì sì, penso quella di Bolzano. Penso perché eravamo lì, e quindi…

D: Vi hanno dato del cibo per il viaggio, vi hanno dato qualcosa?

R: No, io non ricordo questa storia del cibo. Sì, ci hanno dato qualcosa durante il viaggio, forse un pezzo di pane, però giuro che non me la ricordo bene questa storia. So che qualcuno aveva fatto anche un buco nel vagone, perché c’erano i bisogni fisiologici da soddisfare. Eravamo ammassati, eravamo una sessantina.

D: E ti ricordi più o meno il viaggio quanti giorni è durato?

R: Sei giorni e sei notti, con intervallo a Linz sotto bombardamento. E’ stato lungo il viaggio, è stato molto lungo.

D: E poi il treno si è fermato dove? L’ultima stazione, chiamiamola così

R: A Fürstenberg. Quando siamo scese ci siamo guardate intorno e abbiamo visto un posto diciamo delizioso: c’è il laghetto, le villette, quasi quasi ci siamo sollevate, dice: “Be’ insomma non è che ci hanno portato …”. Non ci eravamo accorte che accanto al laghetto c’era il Lager. Però entrati nel Lager, a piedi siamo andati quel pezzetto, lì è l’unica volta che ho visto un gruppetto di uomini dall’altra sponda del lago, saranno stati una ventina, non di più, con la divisa. Quindi è questo che ce li ha fatti riconoscere come deportati. Dopo di che uomini non ne ho mai visti. Ho saputo che c’era qualche cosa anche per gli uomini, perché io parlo di Ravensbrück come di un campo di sole donne e bambini ma evidentemente c’era un distaccamento; perché io sono stata a Spello a una manifestazione, una signora mi si è avvicinata e mi ha detto: “Signora mio marito è stato anche a Ravensbrück”. Il che mi ha lasciato un po’ sorpresa, perché a parte quel gruppetto di uomini io non avevo mai visto, non sapevo neanche che esistesse; quindi non so dire, ma probabilmente era un piccolo Lager perché come uomini ce n’erano pochi.

D: L’ingresso di Ravensbrück come te lo ricordi, il giorno che siete arrivati?

R: L’ingresso l’ho detto un po’ prima, è stata una cosa come una mazzata sulla testa. Perché vedere i block, tutti uguali, vedere solo soldati, cani, questo grigio, questa cosa stretta, fili spinati, che poi ho saputo dove passava la corrente elettrica. La piazza del Lager dove siamo stati in quarantena per un giorno e una notte, non sapendo che cosa sarebbe successo, e ogni tanto quando poteva qualche detenuta si avvicinava e ci chiedeva se avevamo l’oro … noi non riuscivamo a capire perché questa storia dell’oro. Dopo l’abbiamo capito, evidentemente serviva come baratto per avere qualcosa, che c’era un certo traffico anche lì; è logico soprattutto da parte di coloro che c’erano da parecchi anni, quindi erano ben smaliziate, quelle che avevano i posti di comando tra le stesse deportate e che erano le peggiori tra l’altro.

Dopo alla mattina siamo andati alla cosiddetta visita. In fila indiana entriamo, la prima cosa che ci fanno, naturalmente nude, ah no prima ci portano alle docce. Non sapevamo che esisteva la faccenda della doccia l’abbiamo saputo dopo per fortuna; ci danno un asciugamano così quello che usiamo per il bidet, con un pezzettino di sapone, per lavarci. Però non potevamo asciugarci con un asciugamano così, comunque l’abbiamo fatto lo stesso.

Siamo andati alla visita e la prima cosa che hanno fatto è stata la visita ginecologica … anche quella è una cosa che non si può; mia madre era così terrorizzata che diceva: “Mia figlia è signorina non me la rovinate”. Va be’. La visita ginecologica cercavano l’oro, era questo lo scopo. Poi ci hanno guardato se avevamo i pidocchi, noi non avevamo i pidocchi, mentre aspettavamo fuori ogni tanto vedevamo uscire una donna rapata e la cosa ci aveva alquanto sconvolto perché evidentemente non rapavano tutti. Era un altro modo così di demolirci, perché non si sapeva quello che ci sarebbe successo. A me non mi hanno rapato; poi ci hanno dato non più la divisa, perché erano finite, quando sono arrivata io, parliamo della fine di settembre, quindi ormai le divise si vede non arrivano più. A me hanno dato una gonnellina di seta marrone, con una camicetta marrone sempre di seta con le maniche corte, questa camicetta ricordo, marrone con dei fiorellini bianchi e questo basta.

Tutto quello che avevo di mio me l’hanno requisito.

D: Biancheria intima?

R: Niente, niente. Io avevo quelle che avevano loro, della roba che noi lasciavamo della nostra, poi buttavano tutto da una parte, e poi la davano a quelle che venivano dopo, quindi magari venivi con una scarpa di un tipo e la scarpa dell’altro, però un buon paio di scarpacce ce l’avevo, ma quello che non avevo era il sopra.

Per quanto riguarda la biancheria intima forse è bene che si sappia che fino a che livello di cattiveria: tempo addietro, ogni tanto naturalmente ci penso, mi sono detta, ma la biancheria non me l’hanno data, “Ma come mi cambiavo?”. Allora ho pensato a lungo, ma non è possibile che io per tutto quel periodo sia stata con le stesse mutandine, perché è assurdo pensare a questa cosa. Allora incontrando la Bianca, le ho detto: “Bianca tu mi devi togliere una soddisfazione: come abbiamo fatto?” La risposta è stata: “Abbiamo fatto”. E questa è un’altra cosa…

D: Vi hanno tolto tutto?

R: Tutto, non avevamo niente. Hanno pensato bene di toglierci pure le mestruazioni e quindi secondo loro biancheria non ne avevamo più bisogno tra l’altro. Subito appena entrate in campo immediatamente a tutte noi si è fermato tutto, non so che cosa; qualcuno parlava di bromuro, non lo so cosa mettevano nel famoso Kaffee; dicono che mettevano qualche cosa lì. Uscite poi dal campo, dopo la liberazione, tutte abbiamo ripreso; quindi evidentemente veniva dato qualcosa che bloccava, però le iniezioni non ce le hanno fatte; per me mettevano qualcosa nel cibo, chiamiamolo così cibo per essere bravi.

D: L’immatricolazione quando ve l’hanno fatta?

R: Subito all’ingresso del campo. Ci hanno chiesto nome, cognome professione, chi era studente naturalmente almeno così mi ha dato l’impressione … una volta vestite ci hanno consegnato una pala. Io non avevo mai visto una pala; io vengo da una città di mare e non capivo che cosa dovevo farci con questa pala. Ci hanno portate fuori dal campo, dove dovevamo secondo loro spianare una collinetta di sabbia in circolo. La cosa avveniva in questo modo: io una palata la passavo alla vicina e si tornava sempre in tondo, senza senso la cosa. Questo per dodici ore sotto la pioggia, sotto il vento, sotto il freddo. Vestita poi come ho detto prima, il primo giorno con questa pala in mano ci siamo guardate tutte negli occhi, tutte intendo il mio gruppo e abbiamo visto dei lacrimoni che scendevano giù. Tra l’altro io avevo accanto a me una russa che evidentemente era una contadina, perché lei questa spalata la prendeva bella colma e mi rimproverava, mi chiamava “Mussolini” perché io non ero svelta a fare queste cose.

Per fortuna non è durato molto questo tipo di lavoro.

D: Scusa, oltre al numero e al triangolo vi hanno fatto per caso una foto?

R: No, a me non risulta.

D: Quando declinavi le tue generalità riempivano una scheda?

R: Tutto, i tedeschi sono precisissimi. Riempivano una scheda, tanto è vero che quando io per il vitalizio che c’è stato concesso chiesi … perché non avevamo niente in mano, mica avevamo il libretto di lavoro; sì potevamo testimoniare una con l’altra, ma concretamente fogli non ne avevamo. Allora ho scritto alla Croce Rossa Internazionale di Bad Arolsen, la quale mi ha risposto dicendo che non risultava niente perché in effetti quando il campo è stato evacuato, i tedeschi hanno tentato di bruciare tutti gli archivi. Però pare che non ci siano riusciti completamente, perché dopo alcuni mesi Bad Arolsen mi ha scritto che avevano trovato qualche cosa che si riferiva a me e mia madre, però solo nome e cognome, numero di matricola e la qualifica politica. Basta non hanno trovato altro. Comunque a me bastava per lo scopo che serviva.

D: Il blocco di quarantena.

R: Il blocco di quarantena mi sembra il 17. Non sono sicura, perché ne abbiamo cambiati due: nel primo blocco dove c’erano le francesi, queste ci hanno fatto una specie di rivolta, non ci volevano. Quindi ci hanno sbattuto in un altro blocco dove c’erano invece le tedesche con il triangolo nero, triangolo verde ecc.; quindi non erano politiche erano tutta un’altra razza.

D: Dopo questi primi lavori diciamo inutili

R: E gravosi …

D: E gravosi, mamma era sempre con te?

R: Sempre non ci siamo mai separate. Soltanto una volta, pare quando eravamo all’appello. “Voi sapete cosa è l’appello?” Questa triste cosa che poteva durare dalle due alle tre ore, sempre alle quattro del mattino, vestita come ero vestita. Tanto è vero che dopo un po’ di tempo l’ausiliaria tedesca, si vede in un momento di  follia, ha provato pietà per me e mi ha chiamato e mi ha fatto dare un vestito, con le maniche corte, ma non era di seta, perché, fra l’altro quella gonna di seta, e le donne lo sanno questo, la seta quando è sporca si trincia, e mi si era trinciata tutta in senso verticale; quindi avevo il gonnellino un po’ alla Josephine Baker, quindi lasciamo perdere… Allora mi ha dato questo vestito; no, anzi mi ha dato una divisa che io ho passato a mia madre perché mia madre aveva un vestito anche lei con le maniche corte, ma un po’ più pesante del mio, dopo, non so in che modo misterioso, sono riuscita a trovare una specie di cappotto, in questi mucchi di cose perché c’è qualcuno che maneggiava e che me l’ha fatto avere. Questo cappotto era nero, abbastanza lungo, deforme logicamente, però non avevo le calze; allora, io ho tolto le fodere della manica del cappotto e mi sono fatta le calze con quella e con quella io sono rimasta fino alla fine.

Dicevo prima che l’appello era una cosa … bisogna provarla per sapere cosa significa, perché alle quattro del mattino, sotto il mar del Nord, con quella temperatura stare ore e ore in piedi immobili perché non era permesso fare un piccolo movimento; c’erano i cani lupi che ci circondavano e chi ci controllava, a parte i soldati. Questa conta non tornava mai e si ricominciava, quindi poteva durare due, tre, quattro ore. Era una cosa veramente allucinante, due volte al giorno: all’inizio e alla fine del lavoro.

D: A proposito di lavoro dopo vi hanno mandato a lavorare?

R: Sì dopo. Dicevo prima che una volta ho rischiato di dividermi da mia madre, e pare, così mi è stato detto, perché io le lingue non le sapevo, però il francese quello scolastico un po’ lo conoscevo,  aveva una Stubova che era una prostituta francese, che in fondo era buona quella, e pare che così mi è stato detto… quando venivano effettuati i famosi trasporti, passaggi da un campo all’altro, lei ha visto che c’era il mio numero e quello di mia madre, perché quello di mia madre precedeva, era il 77414 e ha capito che ora non ricordo se era lei o se ero io che era, e allora ha fatto in modo di mettere al posto di mia madre o mio non ricordo… un’altra persona che era sola. Ecco, l’unica volta, poi per il resto siamo stati sempre assieme.

Dopo questo periodo nel Lager grande siamo andati nel sottocampo di Ravensbrück, dove c’erano dei blocchi adibiti alla lavorazione di manometri per la Siemens. Anche lì il lavoro era dodici ore di giorno e dodici ore di notte; non era particolarmente gravoso, perché eravamo sedute, dovevamo equilibrare questi manometri, eravamo al chiuso non lavoravamo all’aperto e già questo era un vantaggio; quindi da questo lato sono stata anche abbastanza fortunata… però in quelle condizioni fisiche, denutrite in quel modo, dodici ore di lavoro … poi io dovevo fare in parte anche quello di mia madre, perché mia madre non ci riusciva. E  fare tutta la notte era una cosa, perché poi quando tornavi al block non è che ti facevano dormire tranquillamente: tra l’appello, tra che ti chiamavano  perché dovevo fare qualche servizio nel campo, portare bidoni o che so io, caricare carbone ecc. queste cose qua, il riposo era minimo.

Premetto che questi manometri non so quanti, erano delicati, bastava poco che saltava la spirale non si poteva più usare; e allora dovevamo cercare il modo di buttarlo via senza che se ne accorgesse. Avevamo una sorvegliante belga che ti aiutava in questo senso.

Un giorno, a Natale, i dirigenti della Siemens o chi per loro ci hanno chiamato e volevano darci un regalo, un regalo! Volevano, io ricordo, un sacchetto di sale come regalo e invece mi si dice che era un marco, due marchi non mi ricordo che doveva servire sempre per il sale; ci siamo messi in fila e davanti a questi, abbiamo detto tutti “Nein” non abbiamo accettato niente. Era il minimo questo. Le polacche e le russe lo hanno preso.

Siamo stati lì nel sottocampo fino quasi alla fine, siamo rientrati circa un mese prima della liberazione. Nel Lager grande, dove abbiamo trovato una situazione molto peggiore di quella che avevamo lasciato. A parte il fatto che ormai essendo la guerra agli sgoccioli non arrivava più niente, quindi se prima ci davano un pezzetto di pane, che doveva durare tutto il giorno, una fetta così, la zuppa di rape… all’inizio può darsi che c’era qualche patata io non l’ho mai vista perché ci pensavano le capoblocco prima a prendersele e a distribuirle; comunque, qualche volta trovavo qualche buccia di patata. E il “Kaffee” la mattina e poi basta non avevamo niente.

Nel Lager grande gli ultimi tempi è stata una cosa tremenda, perché non c’era neanche più questo: c’era una brodaglia nera con dei filetti che sembrava erba, una cosa stomachevole, comunque la mangiavamo.

Lì è successo, eravamo sempre tutte unite, che ad un certo punto ci hanno diviso: la Bianca e la sorella sono finite in un altro piccolo sottocampo, io e mia madre e altre siamo rimaste lì. Non si sa perché, io dico sempre per ulteriore forma di cattiveria, il mio gruppo viene fatto evacuare, le altre rimangono in campo. Perchè l’idea era quella di ammazzarci tutte così non rimanevano testimoni, comunque a noi ci fanno evacuare. Io premetto che avevo sulla schiena sedici ascessi, sedici lo dico perché me li hanno contati, purulenti, dovuti al fatto che le mestruazioni, l’organismo cominciava a reagire, quindi io li ho avuti tutti sulla schiena. C’era chi li aveva sulle gambe, sulle braccia, sul viso; naturalmente questi ascessi purulenti, erano così e così rimanevano. All’uscita del campo per la prima volta mi viene consegnato un pacchetto della Croce Rossa, uno a me uno a mia madre; dopodichè ci mettono in fila, ci troviamo in una colonna composta da noi, dai soldati tedeschi in fuga e dalla cittadinanza tedesca in fuga. Si diceva che la destinazione era Amburgo. I tedeschi scappavano perché i russi ormai erano alle porte, loro sapevano che i russi avevano il dentino avvelenato nei loro confronti, quindi avevano una paura matta. Camminiamo per due giorni e due notti, in quelle condizioni, io poi portavo anche questa cosa di mia madre. Allora a me sembrava molto vecchia mia madre, ma in realtà poi non era così vecchia perché aveva 44-45 anni; quindi cercavo di alleviarle … poi in effetti non era ridotta molto bene.

Questa evacuazione è stata una cosa tremenda perché eravamo sfinite, gli unici riposi erano quando arrivava l’aereo russo, che ci mitragliava, allora ci facevano sdraiare per terra, nelle cunette, lungo la strada no? E questo abbiamo fatto, ormai eravamo in condizioni … mia madre tra l’altro aveva perso una scarpa e non si sapeva come fare; alla fine non so per quale misterioso motivo ne ha trovata una che si vede era stata abbandonata, e allora ha messo questa scarpa e mi pare che non fosse neppure quella giusta … non ti potevi fermare durante la colonna manifestare la stanchezza, perché se cadevi per terra ti sparavano. Questo, davanti a me è successo questo: una donna è caduta l’SS è arrivato o soldato, ha sparato, aveva una copertina questa non so come l’aveva trovata, in quel momento tu non guardi bene, “Ma che sto facendo?”. Io ho preso istintivamente questa copertina, perché capivo che mi poteva servire. Dopo due giorni o due notti ho detto “Sentite, c’ero io, mia madre e una bambina ebrea che proveniva da Auschwitz ed era rimasta sola, aveva dieci, undici anni circa, perché i suoi erano stati tutti ammazzati e lei siccome era di Rodi e parlava italiano, ha sentito parlare noi in italiano, si è avvicinata, ed è stata sempre con noi negli ultimi tempi. C’era una signora milanese, c’era un’altra signora di La Spezia. Ho detto: “Sentite qui moriamo”, perché non c’è possibilità che si riesca  ad arrivare dove loro pensano di farci arrivare. A quel punto se dobbiamo morire, moriamo sedute. Allora quando durante un bombardamento ci siamo messe in questa cunetta, dove c’era vicino una casetta, quando ha fischiato il soldato, non ci siamo alzate non ci potevano puntare in quel momento di grande confusione, la colonna è partita e siamo rimaste lì.

E lì è cominciata la grossa avventura, sole in un paese in quelle condizioni, perché raccontare delle evacuazioni ci vorrebbe un romanzo perché è una cosa allucinante anche quella, con la croce sulle spalle, perché sul mio cappotto c’era una grossa croce, perché doveva essere riconoscibile facilmente, cosa potevamo fare? A un certo momento passano degli italiani, ex militari internati, sentono che parliamo italiano, ci chiedono, rispondiamo ecc. vi cerchiamo noi dei vestiti; vanno e cercano dei vestiti, stanno con noi. Un giorno, ci mettiamo in cammino, dietro la colonna, dice “Voi state zitte, in modo che non si capisca che voi siete prigioniere”; la mattina dopo ci svegliamo e i nostri pacchi della Croce Rossa, non aperti, erano partiti e così erano partiti gli italiani. Non ho avuto neanche la soddisfazione di aprirlo, a parte il fatto che non avrei potuto neanche mangiare perché succedeva un guaio grosso, però pezzettino per pezzettino … e lì io ora finisco perché credo di capire che ormai … è cominciata la grande avventura per venti giorni, venticinque giorni in su e giù per la Germania dell’Est non sapendo dove si stava andando non si capiva niente, avevamo trovato un carretto con un cavallino che poi è stato requisito dai russi, ah perché la mia liberazione è avvenuta in questo modo: io dormivo in un fienile, ad un certo punto apro gli occhi e mi vedo davanti un soldato russo, lì ho capito che era finita la guerra, perché lì ancora non sapevo che era finita. Mi offre della vodka, dopodichè se ne va; poi ho visto un manifesto per la strada dove si diceva che l’8 maggio era stata firmata la pace. Però noi eravamo lo stesso ancora sbandate, ci dicevano che dovevamo verso Lodz. Arrivati, un ufficiale russo ci ha fermato e ci dice: “Ma voi siete italiane? Dovete andare verso Lemperg”. Quindi abbiamo fatto dietrofront, sembra quasi una barzelletta, viverlo è stata una cosa, finchè poi dopo ci hanno fermato definitivamente. Era una grossa confusione, era una massa di persone che stava girando per la Germania, uno di qua, uno di là, chi andava in Russia, chi andava in Polonia, chi andava in Francia … Ci hanno bloccato e ci hanno messo in un campo di raccolta insieme ai militari italiani in attesa del rientro che per me è venuto il 25 ottobre, quindi è stata lunga, sono rientrata il 25 luglio…

D: Cioè, sei rientrata il 25 ottobre perché è venuto qualche rappresentante dello Stato italiano?

R: Troppo lusso vedere un rappresentante dello Stato italiano. Poi in ottobre, forse qualcuno all’inizio si è fatto vivo, con il risultato che, e questo è bene che io lo dica … beh da Bolzano poi mi hanno messo sul treno, sono arrivata a Genova, dove avevo la zia, l’ho fatta chiamare, quando la zia ci ha viste vestite in quel modo, ha fatto un falò … perché è evidente eravamo … pidocchi dopo non li avevamo più perché io e mia madre ce li toglievamo a vicenda e poi siamo arrivate a Spezia dove, ho saputo da mia zia che i miei erano vivi. Ho avuto la fortuna non solo di ritrovare i miei vivi, ma la casa non bombardata, perché c’era anche questo da aspettarci.

E lì è ricominciata la mia vita chiamiamola normale, ho ricominciato a studiare. Ma una cosa, ecco perché io sono stata zitta per cinquanta anni, nessuno neanche i miei compagni di scuola, nessuno mi ha domandato “Ma che cosa ti è successo?”. Nessuno. Non solo, e questo mi aveva colpito, non perché io volessi raccontare, non avevo nessuna voglia, pensavo che ci fosse un certo interesse a capire, a sapere … qualche cosa, era così fresca la cosa. Ancora qualcuno non lo sa che io sono stata in campo di concentramento, perché siamo arrivati agli estremi di provare quasi un senso di vergogna a dire “Sono stata in un Lager tedesco”. Tutto questo accentuato dal fatto che ero donna quindi “Perché non sei rimasta a casa? Chi te l’ha fatto fare e che cosa avrai fatto, eh! Sia con i tedeschi che con i russi.” Io ho visto solo i russi, gli americani li ho visti a Monaco quando sono rientrata … Allora di fronte a questo uno dice “Ma no, non vale neanche la pena che io sprechi la mia parola per queste persone; mi dispiace mettere nel mucchio tutti gli italiani, ma devo dire che è così. Qualcuno probabilmente invece lo farà proprio perché non vuole spingermi a parlare, pensando che mi faccia molto male, è vero questo, però si capisce se a una di queste persone non gliene importa niente o addirittura mi giudica una prostituta.

D: Ancora un salto a Ravensbrück. Era un campo esclusivamente per donne, eravate tantissime..

R: Se pensi che io avevo il 77415 significa che prima di me ne erano arrivate 77 mila.

D: Di sicuro c’erano anche donne in stato interessante, le hai viste tu?

R: Certo, certo. Le ho viste prima, dopo non ho visto più niente.

D: Anche i bambini?

R: Anche i bambini perché venivano messi in blocchi separati, quindi i bambini io non li ho più visti. Non so quanti di questi ne siano sopravvissuti.

D: Ti ricordi del forno crematorio

R: Sì, mi ricordo, l’ho visto. Per fortuna non mi ci sono avvicinata, ci si sentiva sempre l’odore acre, tra l’altro mi è stato detto che le ceneri sono state tutte buttate nel lago di Fürsternberg. C’erano le cornacchie, sopra, ho detto tutto.

D: Il caffè .. ma in realtà..

R: Il caffè non era caffè, insomma era una brodaglia nera che veniva data al mattino al risveglio perché entrava aprendo la porta, questa urlando “Kaffee”.

E in quella gamella dove facevamo tutto lì, veniva messo …

D: In fabbrica, c’erano anche dei civili?

R: No, io non l’ho visti dei civili perché i tedeschi avevano, probabilmente lo erano, perché avevano un camice bianco i capi, può darsi che erano civili, può darsi, perché erano gli emittenti della Siemens.

D: Un’altra cosa sul lavoro, era un turno di dodici ore…però tu accennavi che eravate sedute, al coperto quindi non esposte alle intemperie. Ma c’era un controllo fisico psicologico durante il momento del lavoro?

R: Certo, certo. Non ci potevamo muovere, non era possibile, anche nel campo. Mia madre un giorno aveva la febbre a quaranta, avevamo una piccola infermeria, è stata ricoverata, per fare che cosa non lo so, perché non avevano niente, ma comunque è stata ricoverata. Io non sapevo niente di mia madre, allora un giorno di nascosto, perché non si poteva fare questo, sono arrivata al Revier e ho cercato di vedere dalla finestrella se vedevo mia madre. E questi blocchi avevano intorno, dire aiole è un po’ troppo … i tedeschi sono molto molto “poetici”, infatti dentro al blocco dovevamo entrare senza scarpe sennò lo sporcavamo. Io ho messo naturalmente un piede su questa terra e non mi sono accorta che avevo dietro di me un comandante del campo; mia madre non l’ho vista, però a un certo punto ho visto lui, il quale ha cominciato a urlare come un pazzo in tedesco, quindi non ho capito niente, fra l’altro la lingua tedesca, voi lo sapete è una lingua dura, rabbiosa, poi se sono alterati ancora peggio; si è accorto che ero italiana, perché mi ha chiesto chi ero, ho detto che ero una italiana, ha urlato come un pazzo, alla fine mi ha fatto segno di tornare nel mio blocco. Io sono tornata nel mio blocco, non so descrivere il terrore di quel momento, perché io non avevo capito cosa questo mi voleva fare; sapevo che avevo fatto una cosa contraria al regolamento, quindi mi dovevo aspettare qualunque cosa, perché lì se commettevi qualcosa non era strano che ti mettessero all’ingresso del campo con un cartello, in piedi tutto un giorno dicendo quello che avevi commesso. Ora io non potevo capire e sapere che valutazione dava a questo mio atto, quindi sono andata dentro al mio block, perché era un giorno che facevo il turno di notte, per quello ero libera di giorno; mi sono sdraiata sul letto, sul giaciglio, i castelli tremando come una foglia, a questo punto la mia vescica non ha retto dalla paura, quindi che è successo che ho bagnato la compagna di sotto che me ne ha dette di tutti i colori. E io ero raggomitolata in questo pagliericcio aspettando da un momento all’altro che mi venisse qualcuno a prendere, perché mi ha dato le botte, non è solo che mi ha urlato, prima mi ha dato le botte, poi ha urlato come un matto, invece dopo non è successo niente. Però io credo … un’ora, due ore, quanto è stato … non so se potrò mai provare quello che ho provato in quel momento, il fatto di non capire le lingue era tremendo, veramente peggiorava tutto.

D: Hai mai assistito ad atti di violenza nei confronti di altre deportate?

R: No, in modo particolare no. Se no, con il frustino queste cose, lì erano piccole cose in confronto.

D: In confronto a cosa?

R: In confronto a quello che ti potevano fare, perché c’era anche la cella di punizione, di isolamento, dove non si sapeva bene quello che veniva fatto lì; insomma i sistemi di punizione erano tantissimi. E poi chi mi diceva che non mi potevano … è vero che io ero giovane e quindi potevo essere ancora valida come mano d’opera, ma mi potevano anche mandare al forno.

D: Selezioni non ne hai mai subite?

R: No, l’unica selezione se così si può chiamare è questa del ritorno dal campo: quando sceglievano le più giovani per mandare, e a me non hanno scelto, non sembravo tanto giovane.

D: Hai detto che quando sei tornata a casa…

R: Mezza vuota; i mobili c’erano quasi tutti, a parte quelli che allora si usavano col grammofono, quello penso è partito subito, la biancheria e poi come si chiamano i gingilli che si adoperano a casa, quelle cose più preziose se le sono prese.