
Ugo Zappa
Nato il 12 maggio 1921 a Milano
Intervista del 13/7/2000 a Ponteranica (BG), realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL: n. 42 – durata 49’
Arresto: 25 giugno 1944 a Taceno (CO) dalle SS per delazione
Carcerazione: Casargo (CO), in un teatro; Delebio (CO), in una scuola; Milano, nel Carcere di S. Vittore
Deportazione: Bolzano; Flossenbürg, matricola n. 21.752; Augsburg (sottocampo di Dachau), matricola n. 117.064
Liberazione: verso la fine di aprile 1944 presso Kaufering, sottocampo di Dachau, arrivato da Augsburg con una marcia della morte
Nota sulla trascrizione della testimonianza:
La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.
Mi chiamo Ugo Zappa, nato a Milano il 12.5.’21.
Sono andato militare il 5 gennaio del ‘41 in Guardia frontiera, e m’hanno mandato a Vipiteno. Da Vipiteno ci hanno spostati a Malles. Lì hanno creato una compagnia di Arditi, dove io sono entrato come trombettiere, e ci hanno fatto fare diversi corsi: prima di addestramento alla guerriglia, poi il corso sciatori, poi una specie di corso rocciatori. Poi da lì ci han portati sullo Stelvio. Sullo Stelvio, si diceva, avremmo dovuto attaccare la Svizzera come compagnia di arditi, però ci hanno ripensato probabilmente, e allora ci hanno rimandati a Merano. Dopo qualche mese di Merano c’hanno mandati a Dobiaco. Da Dobiaco a Sestri Pusteria a fare il corso sciatori. Da Sestri Pusteria ci abbiamo – penso – passato un po’ di mesi, ma la compagnia d’assalto Stelvio non funzionava più.
Ci han mandati a Napoli, a Villa Literno. A Villa Literno è stata completamente sciolta: una parte sono andati in Africa, una parte sono andati alle isole. Io, dato che ero un volontario nella compagnia di arditi, m’hanno fatto firmare per fare il volontario anche di guerra. E diciamo che qui ho preso un po’ una fregatura, perché assieme al volontario di guerra avevo fatto la firma anche per fare il corso di caporale, caporal maggiore, sergente. L’unico documento trovato è stato il volontario in guerra, l’altro non s’è più trovato, il fatto mi hanno spedito in Russia, nell’ARMIR, alla Compagnia mortai Ravenna. Lì ho fatto quello che han fatto tutti i militari, cioè la trincea, dove, con grande fortuna, sono riuscito a tornare perché rimbambito da un colpo di katiuscia m’hanno mandato in ospedale, o perlomeno nell’ospedaletto da campo. Intanto che mi trovo in questo ospedaletto, i primi battaglioni dei russi hanno cominciato a sfondare il fronte: è iniziato il ripiegamento. A me è andata bene perché nella trincea penso siano morti tutti, io però essendo in questo campo, in questo ospedaletto, ho fatto in tempo a ripiegare. Quanti giorni non me lo ricordo. So che ho fatto moltissimi giorni, circa una ventina, moltissimi chilometri in mezzo alla neve, in mezzo a tanti cadaveri, e sono arrivato dove non me lo ricordo; o perlomeno, molto è scritto sul diario che io ho scritto, e che ho sempre lasciato in un angolo semplicemente per ricordo.
Dalla Russia m’han fatto rientrare: grandi festeggiamenti. A Ravenna… Dalle caserme di Alessandria ci hanno mandato in Toscana. Dopo diversi mesi è successo l’8 settembre. L’8 settembre sono scappato come tutti; mi sono fatto una quindicina di giorni attraversando le montagne e sono arrivato a Bellano, dove c’era mia zia, una persona con cui ho sempre vissuto, perché ero orfano di genitori. Mi sono adattato a fare un po’ il manovale in ferrovia. Dopo un certo periodo hanno richiamato la mia classe. Io non ho voluto andare nella ‘Repubblichetta’ e sono andato nei partigiani, partigiani a Ca’ Maggiore, nella Compagnia Rosselli. Dopo un mese circa sono arrivati i tedeschi, han fatto un grande rastrellamento, siamo scappati tutti naturalmente, e scendendo nella valle sono arrivato al ponte di Taceno. Probabilmente l’avrei anche fatta franca se non ci fosse un tizio di Bellano, della milizia ferroviaria, che mi ha riconosciuto. Mi ha additato ai tedeschi che non ero un boscaiolo come il gruppo che c’era, e lì mi han fatto i primi interrogamenti, qualche schiaffone, e mi hanno portato nel teatrino di Casargo. Lì ho conosciuto Antonio Scolo, che anche lui era nei partigiani da quelle parti. Da lì ci han portato a Delebio. A Delebio conoscevo gente, ho fatto arrivare mia zia. Finalmente l’ho rivista e naturalmente è stato per l’ultima volta.
D: Delebio dov’è? Sempre lì sul lago?
R: Delebio è dopo Bellano, Dervio, Delebio. Comunque [è sempre lì] ad una quindicina di chilometri.
D: A Delebio dove ti hanno messo?
R: Nella scuola, infatti l’avevo detto, in una scuola.
D: E poi cosa è successo Ugo?
R: Niente, ci hanno caricato sui carri bestiame e ci hanno portati a San Vittore.
D: Ti ricordi in quale raggio di San Vittore ti hanno messo?
R: Quinto raggio. La camera mi pare che era, se non sbaglio, la 221; la cameretta singola, perché eravamo dei prigionieri politici, ribelli, e naturalmente ci tenevano separati.
D: Isolati quindi, nelle celle.
R: Isolati nelle celle.
D: Ecco, lì a Milano in carcere a San Vittore, quanto tempo sei rimasto?
R: Penso che siamo rimasti un paio di mesi, penso. So che abbiamo fatto in tempo a sentire… una notte terribile per tutti, terribile per tutti, perché è stata quella notte che hanno preso i quindici [partigiani] da portare in piazzale Loreto. Infatti eravamo tutti col cuore sospeso perché ogni tanto arrivavano, arrivavano a scegliere. Però non so quanti giorni, ci hanno trasferiti tutti, caricati sempre su dei pullman, e ci hanno portati a Bolzano. Però nei dintorni di Brescia sono riuscito a buttare un biglietto per terra, avvertendo mia zia che stavo andando in Germania.
D: Ecco, scusa Ugo, ti ricordi la data di quando ti hanno arrestato, più o meno?
R: Il 24… eh no, l’è scrit lé, è scritto lì. E adesso… me pare che l’era il ventiquatar de giugni. Eh, guarda, bisogna trovarlo lì.
D: Del ‘44?
R: Del ’44. Mi pare che era sul 24 di giugno del ’44, se non mi sbaglio.
D: Poi siete arrivati a Bolzano, nel lager di Bolzano.
R: Nel lager di Bolzano, dove ho fatto lo scopino, andavo in giro a fare pulizia, ci han tenuti – non mi ricordo quanto – un mese circa. Da lì ci han portati sui carri bestiame e ci han portati a Flossenbürg.
D: Ecco, scusa, cosa ti ricordi del lager di Bolzano, e il tuo numero di matricola del lager di Bolzano te lo ricordi, per caso?
R: Ma, lé al me ricordi no, se quel numero… no, a Bolzano credo… Non so se è a Bolzano che m’han dato il… se l’è… – eh, ormai ghe passà cinquant’an – hundert sieben […] vierundzwanzig [forse approssimazione di 117.064, numero assegnatogli a Augsburg, ndr], undici cento… No, guardi, no, no, no. Non so se me l’han dato lì o se han fermato il treno, me par a Dachau, e ci hanno dati il numero, e poi ci hanno rispediti – sempre sul treno – rispediti a Flossenbürg. Adesso non me lo ricordo. No, no, no, no, no…
D: Del campo invece di Bolzano, cosa ti ricordi? Eravate nelle baracche?
R: Dunque, nel campo di Bolzano c’era un enorme portone di ingresso, un grande cortile, e sulla sinistra quello che mi ricordo è che c’erano dei palazzoni, dei casermoni, e grandi, con una infinità di letti. Quello in particolare che mi ricordo è che alle spalle del mio letto c’era un muro divisorio, che non arrivava al soffitto; da quel muro divisorio si sentivano voci di donne. E alla sera avevamo preso l’abitudine di salire sulla spalliera del letto per guardare oltre il muro, e si vedevano le donne che cantavano, ballavano, e naturalmente ci facevano degli schiamazzi perché noi eravamo degli uomini.
D: Parlavi di un portone all’ingresso, del lager di Bolzano. Ma era un portone – se ti ricordi – in legno, in ferro?
R: Mi pare che era in legno, se mi ricordo. Mi pare che era in legno.
D: C’era qualche scritta sopra?
R: No, quello non me lo ricordo. L’unica scritta che mi ricordo l’era quella di Flossenbürg.
D: Ascolta, sempre del lager di Bolzano, ti ricordi se c’erano anche dei religiosi? Tu hai visto dei religiosi?
R: Sì, anche lì, è scritto lì. Gh’era un fraticello. C’era… c’era… cum’el se ciama? [come si chiama?] C’era un fraticello che l’era, l’era da… era da abbracciare quell’uomo lì, perch’el gh’aveva parole dolci per tutti.
D: Ugo, hai visto se c’erano anche dei bambini, dei ragazzini, dentro nel lager di Bolzano?
R: No, no. Del lager di Bolzano mi ricordo che c’era un fraticello che ci rincuorava tutti, e mi ricordo che c’era anche una donna – o perlomeno fra le tante – c’era una donna che abitava con me a Milano, in piazza Lega lombarda, era la mia vicina di casa. Era stata arrestata perché era in un ufficio straniero, e si chiamava… non me lo ricordo più, il cognome era Pastorini, aveva circa una trentina d’anni. Era in un ufficio straniero dove sembra c’erano forse degli americani, e allora hanno portato via anche gli impiegati, e ho incontrato per caso… L’unica volta che l’ho vista, poi non l’ho vista più.
D: Tu dicevi che lì nel lager di Bolzano come lavoro sei sempre stato addetto alle pulizie del campo.
R: Sì. M’han dato ‘sta cariola, e altro, e andavo in giro a fare pulizie, basta. Io non ho fatto altro che questo, fino al giorno che m’ han fatto smettere, che mi han caricato… Almeno, anca lì, m’han fa tirà su la mia roba e m’hanno caricato sulla… lì alla stazione, mi hanno messo sui carri bestiame per andare a Flossenbürg. Ora, il numero di matricola me l’han dato. Dove? Ma, lì non mi ricordo il numero di matricola. So ch’el sera fermato il treno, e ognuno di noi ci avevan dato… ce l’han dato prima di salire in treno, ce l’han dato… So che han fa ‘na sosta, ho sentito parlare di Dachau quando ci siamo fermati – non siamo scesi – però dopo siamo ripartiti, e siamo arrivati a Flossenbürg. E infatti, allora lì siam scesi, e ci han fatto fare un grande viale, di terra, e siamo arrivati davanti a un enorme cancello di Flossenbürg, dove c’era scritto – in tedesco naturalmente – che “il lavoro rende… felici”, qualcosa del genere. Infatti, dentro come lavoro era tutt’altro che felice.
D: Ecco, come avete superato l’ingresso di Flossenbürg… Allora, tu sei partito da Bolzano e vi hanno portato a Flossenbürg. Come hai superato l’ingresso di Flossenbürg, cosa è successo, cosa ti hanno fatto?
R: L’ingresso a Flossenbürg era normale, era un campo di concentramento. Quello che ci ha colpito erano le docce. Perché, naturalmente, gli anziani di questi campi ci hanno avvicinato e ci hanno spiegato cos’era quel posto lì, e ci hanno detto “attenzione alle docce, perché dentro lì gasano gli ebrei; se voi però non siete ebrei, siete solo partigiani, probabilmente non vi fanno niente.” E poi, altro discorso, “là in fondo c’è un blocco 22, ci sono dei moribondi; fra qualche giorno, quello che vi danno a mangiare non basta, avrete fame, allora andate lì vicino a questi moribondi, prendetegli pure da mangiare perché tanto a loro non serve più.” Poi m’han messo nel blocco 23. Dopo un po’ di giorni ci hanno inquadrati, han guardato quelli più… ci han messo la loro divisa – che mi spiace che non ho portato a casa, perché era un bel ricordo, sono riuscito a portare a casa solo il triangolo rosso – ci han messo questa divisa, han preso i ragazzi più grandi e grossi e ci hanno portato a scavare sassi in una maniera nei pressi.. non so, a qualche chilometro da Flossenbürg. Infatti lì ci ho vissuto per circa una ventina di giorni, a picchiare ‘sti sassi, perché dicono che ne avevano bisogno per marginare le strade, per arginarle. Dopo un certo periodo hanno fatto delle domande, ci han messo tutti in riga, ci han fatto delle domande – chi era meccanico, chi era elettricista – e io gli ho detto che ero un meccanico, e loro mi han messo in fila per andare in un reparto, e mi avrebbero trasferito. Però nel frattempo, in attesa di questo trasferimento, mi è venuta la pleure. Purtroppo pensavo di lasciarci le penne, perché fra noi c’erano anche dei medici, i quali medici mi hanno detto “non dire che hai la pleure, perché se sanno che sei ammalato ti mettono nel reparto” – noi eravamo il 23 – “ti mandano al blocco 22, dove ci sono i moribondi.”
Naturalmente, gentilmente mi tenevano sempre dentro quando facevamo la stufa che eravamo fuori ci si metteva in blocco, vicino alla parete del blocco, per riscaldarci, e a turno ognuno veniva fuori, quelli dentro uscivano e entravano quelli fuori. A me han sempre lasciato dentro per via della pleure. Non so, il padreterno, la fortuna, qualcuno che…
D: Quando tu parli di stufa, non intendi la stufa a legna e carbone…
R: No, sto parlando di quella fuori.
D: Cioè? Prova a spiegarla. Cosa facevate, la stufa umana sarebbe?
R: Diciamo che abbiamo la stufa umana. Infatti, nei momenti di sosta, non ci lasciavano nei blocchi, ma ci tenevano fuori. Fuori faceva freddo, non so chi l’abbia inventata, comunque ci mettevamo a mazzi, a gruppi, contro la parete del blocco. Naturalmente quelli dentro si scaldavano e quelli fuori no, quindi si facevano dei turni: quelli fuori a un bel momento entravano, e uscivano quelli dentro che erano, diciamo, bei caldi. Io con la mia pleure, ‘sta gente di cuore, umani, mi lasciavano sempre dentro per cercare di farmi passare o di guarire. Tanto è vero che quando sono rientrato in Italia, facendomi le radiografie han visto che avevo una macchia di pleure, il che vuol dire che mi era passata ed ero guarito, per opera di chi non lo so.
D: Ugo, tu hai parlato prima che quando sei stato arrestato, c’erano altri partigiani con te, c’era anche Antonio Scollo. Ti ha seguito anche lui a Flossenbürg?
R: Tutti. Abbiamo fatto tutto il giro. Scollo, e tutti gli altri. Naturalmente, ripeto, Scollo ci siamo legati perché eravamo di Milano, e abbiamo fatto… tutto il giro che ho fatto io l’hanno fatto tutto anche loro: Delebio, San Vittore, Bolzano, Flossenbürg. A Flossenbürg, ecco, e arriviamo a quel momento che han scelto i lavoratori, quelli che dovevano fare il meccanico, e i giovani invece li mandavano – mi pare – a Bersen Berger [Bergen-Belsen, ndr] – come si chiama quel posto lì – perché erano dei giovani. Però fino a quel momento siamo rimasti assieme.
D: Quando ti hanno scelto poi tu sei andato a fare il meccanico?
R: Dunque, quando mi hanno scelto… A parte che è passato un po’ di tempo: passata la pleure ho cominciato anche io a soffrire la fame, che oramai era passato qualche mese, e ci andavo appunto a portar via da mangiare a questi poveri. E avevamo però sempre il terrore delle docce. Perché purtroppo a un paio di gruppi – che han detto che erano ebrei – un paio di gruppi abbiamo visto la fine che gli hanno fatto fare. Che, appunto, entravano vivi e poi entravano dentro dei portantini, della gente addetta a questo lavoro, portavano fuori tutti i cadaveri gasati. E quello proprio è una cosa…
Un’altra cosa che mi è rimasto impresso per molto tempo, il fumo del forno crematorio. Era un fumo addirittura schifoso, che faceva venire il vomito i primi tempi, poi ci ho fatto l’abitudine e mangiavo anche se c’era quel fumo. A questo proposito, se si può, c’è stato qualcuno che ha scritto che i forni crematori erano cose finte, erano propagande nulle, e io su un giornale ho risposto, dicendogli che a questi signori li inviterei volentieri nel blocco di Flossenbürg a sentire il profumo che esce dai forni crematori, per capire che cosa veramente voleva dire la vita in un lager.
D: A Flossenbürg tu hai visto se c’erano anche delle donne deportate?
R: Dunque, a Flossenbürg c’erano delle donne, però erano lontane da noi, perché c’era una lunga fila di baracche, e non so se erano a metà o in fondo, però so che c’erano delle donne.
D: Prima parlavi di quel religioso che c’era a Bolzano. Vi ha seguito anche lui a Flossenbürg? È stato deportato anche lui?
R: Non lo so, questo non lo so. So che… No, a Flossenbürg non c’era. Ho conosciuto… no, quel là l’era un professore. Quello di Augsburg l’era un professore. No, niente. No, me ricordi no. Cum’è che’el se ciamava? [come si chiamava?]. Va beh, niente.
D: Ti hanno mandato poi allora a lavorare come meccanico?
R: Dunque, a un bel momento ci hanno spediti. Dopo, non so, un giorno o due di viaggio ci hanno mandati ad Augsburg, alla Messerschmitt, naturalmente, non certo a fare il meccanico. M’hanno invece messo a trasportare bombole di ossigeno. Perché c’erano le lavorazioni per gli aerei, quindi c’era chi facevano le carlinghe, chi facevano le ruote. Per un po’ di tempo mi hanno messo a trasportare bombole. Poi invece m’hanno messo a fare il battitore: avevo una forma – probabilmente doveva essere una piccola portiera – una forma dove io, con un pezzo di lastra, dovevo a mano battere e dargli la forma a questa portiera. Naturalmente, fra il poco mangiare, fra la debolezza, fra il freddo – perché erano capannoni enormi non riscaldati – qualche volta mi addormentavo su questi blocchi, su questi pezzi di lavoro, e naturalmente ho preso una fila di sberle, io e anche altri, perché naturalmente qualcuno di noi ci cascava.
E lì ci siamo rimasti fin quando gli americani non cominciavano ad avanzare. Avanzando cominciarono a bombardare. Però il brutto di questo trasporto fra il campo di Augsburg e il campo di… le officine della Messerschmitt, era un treno, che fin che gli americani non l’avevano bombardato andava bene, perché la facevamo in treno – viaggio da una ventina di minuti – quando invece gli americani l’hanno bombardato ce l’han fatta fare a piedi. E lì purtroppo era un brutto camminare, perché zoccoli di legno, la neve si appiccicava sotto gli zoccoli, molti di noi cadevano, e quelli delle SS ci legnavano per farci tornare in piedi. In questo periodo a Flossenbürg abbiamo passato dei momenti belli e dei momenti brutti, perché alla domenica ci facevano fare festa.
D: Scusa un attimo Ugo, non a Flossenbürg. Qui eri già nel sottocampo.
R: Ad Augsburg.
D: Ecco. Ascolta, il campo… il lager di Augsburg come era organizzato? Erano tante baracche?
R: No. Dunque, ad Augsburg erano dei capannoni, non proprio baracche, erano dei capannoni. E diciamo, perché era d’inverno naturalmente, si stava anche caldi, si stava anche bene. Qui il mangiare era abbastanza, era discreto, se non proprio buono, era discreto, anche perché dovevamo andare a lavorare. Qui ho conosciuto un ebreo, un professore mi pare ungherese – non mi ricordo il nome – ma so che parlava tre o quattro lingue fra cui l’italiano. Era qualcosa di meraviglioso, ci teneva tutti allegri, anche se lui era conciato più di tutti, tanto è vero che per questo suo discorso che faceva con tutti, c’era il capo blocco che non lo poteva vedere. Un bel giorno abbiamo saputo che l’avevano finito a legnate.
Qui ci facevano fare festa sabato pomeriggio e alla domenica. Augsburg è diventato nominato per le impiccagioni, perché al sabato pomeriggio ci radunavano in un enorme capannone. C’era una forca, ci han fatto imparare il nodo scorsoio, e, seduti, ci spiegavano il perché impiccavano. In via di massima erano russi, qualche ebreo, ma in via di massima russi, era gente che scappava: li prendevano e li tenevano buoni per il sabato pomeriggio. E ogni sabato ce n’erano tre quattro o cinque che li impiccavano, e noi dovevamo assistere, proprio perché era una lezione. Alla domenica non si lavorava. E era buono… perché incominciavano anche a arrivare le bombe degli aerei, e allora più di qualche volta, più di qualche notte, dovevamo uscire dai nostri capannoni, andare nei fossati che avevano scavato e magari passarci la notte, in mezzo alla neve, dentro in questi fossati, perché gli americani oramai erano vicini. È successo che un bel giorno han dovuto piantare lì anche la Messerschmitt.
D: Ecco, scusa parliamo di questo lager e di questo sottocampo di Augsburg. Era vicino al centro abitato il campo di concentramento, non i capannoni delle fabbriche.
R: No.
D: Era vicino a un lago, se ti ricordi?
R: L’unica cosa che mi ricordo era la ferrovia, perché fuori naturalmente non ci siamo mai andati. Noi uscivamo da un portone, c’era il binario. Probabilmente m’han detto che prima quella era una caserma, e aveva un binario che andava diritto alla Messerschmitt. Quindi noi vedevamo solo dei campi, vedevamo solo la Messerschmitt quando si arrivava: era inverno, quindi la visuale era quella che era, non si poteva vedere niente.
D: Lì nella fabbrica c’erano anche dei civili?
R: Nella fabbrica c’erano dei civili. Qualcuno ci passava anche le croste del pane, mentre invece qualche capoccione civile – e questo me lo ricordo bene, perché mi ha lasciato qualche segno sulla schiena – quando si sbagliava a fare qualche pezzo, indossava il camice bianco, si metteva i guanti, prendeva un randello, di gomma naturalmente, e controllava tutti i pezzi, e se qualcuno aveva sbagliato erano bastonate che ci arrivavano. Come in tutti i lager usavano il bastone di gomma, perché non faceva ferite, ma naturalmente faceva rompere le reni interne.
Naturalmente è arrivato anche il punto degli americani, ci han messo in colonna: a piedi dovevamo rientrare a Dachau.
D: Ecco, scusa ancora se ritorno, sempre in quel campo lì di Augsburg, eravate in molti, se ti ricordi? E c’erano anche delle donne?
R: No, donne no. No, donne no.
D: Ed eravate in molti come deportati?
R: Mah, penso più di un centinaio. Penso più di un centinaio, perché c’erano diverse camere – appunto, m’han detto che era una caserma – diversi saloni enormi, con tutti castelli, quindi l’era abbastanza pien cum’è… fra l’altro quando andavamo all’impiccagione, oh ma ghe n’era, c’era una valanga di sedie, e dietro quelli in piedi, quindi penso che eravamo sul centinaio, penso.
D: Mentre invece la fabbrica erano capannoni… piano terreno…
R: Sì, capannoni piano terra. Capannoni piano terra.
D: Ecco le evacuazioni, stavi dicendo, quando avete lasciato Augsburg, ti ricordi più o meno quando è avvenuto questo, in che periodo?
R: Forse è scritto, adesso non me lo ricordo. So che ci han messo tutti in colonna, ci han dato il solito pezzo… fetta di pane margarina, pezzo di salame, e ci han messo in colonna, e ci han fatti camminare, credo per un giorno e una notte. Siamo arrivati in un posto che credo si chiami Kauflin, credo [Kaufering, ndr]. Lì c’hanno fermato, perché erano in attesa di altri gruppi, perché dovevamo rientrare tutti a Dachau. E lì ci hanno spiegato che il famoso signor Himmler aveva dato ordine che tutti quelli che rientravano dai vari campi dovevano essere messi sui vagoni bestiame, attorno a Dachau, e lasciarli morire dentro. Lì purtroppo ho perso due amici, uno di Trieste e uno di Milano. Quello di Trieste aveva sui 45 anni, tanto è vero che la moglie m’aveva scritto; quello di Milano aveva solo vent’anni. Eh, ma almeno… erano mezzi moribondi, han detto che li avrebbero caricati sui camion, per portarli, però abbiamo sentito la solita sparatoria quando noi eravamo a circa duecento metri.
Ora, abbiam camminato per qualche giorno. Una bella notte ci hanno fermati in un bosco, e qui ho fatto il pensiero. Ho detto “andare a Dachau e crepare in un vagone bestiame non è una bella cosa. Qui tento. Scappo. Al massimo mi sparano.” Ce l’ho fatta. Sono riuscito – naturalmente ho aspettato che avevo l’impressione che le guardie dormivano, anche se qualche guardia ogni tanto cominciava a tagliare la corda, perché oramai gli americani li avevamo alle spalle – mi sono guardato in giro, tutto era tranquillo; ho cominciato strisciando per terra a camminare in mezzo alle piante, sono arrivato a un muro e ho detto “è una casa”: sono saltato dall’altra parte: era un cimitero; ho aperto una… almeno, sono riuscito a spostare una lastra di tomba, ho visto che era vuota, sono andato dentro, ho detto “io mi nascondo qua”. Ci ho passato la notte.
D: Da solo Ugo l’hai fatto?
R: Sono scappato lì, era… Ci sono stato fino al mattino. Al mattino mi sono alzato, sono andato giù, ho camminato, c’era una discesa, sono andato giù, c’era un fosso, e c’erano delle lumache. Non ho mai mangiato una cosa meravigliosa come quelle lumache. Fra l’altro avevo un po’ di paprika – non so da dove sia saltata fuori, dentro nel pastrano che avevo, c’erano dentro delle bustine di paprika – ho spolverato di paprika le lumache e sono stato…
Dopo aver vagato per qualche giorno sono riuscito ad arrivare vicino ad una cascina. Vicino a questa cascina c’era un giovanotto, che ho saputo dopo che era polacco, oh! Conoscevo qualche parola di russo, conoscevo qualche parola di francese, mi arrabattavo col tedesco, ha capito da dove venivo, e lui m’ha detto “vieni con me che ti porto in salvo.” M’ha fatto entrare in una stalla, e m’ha detto “resta qui, stai tranquillo che qui non ti tocca nessuno.” M’ha portato da mangiare, m’ha portato da bere, m’ha portato latte a non finire, da mangiare che c’era da star male per… Gli ho detto “ma quella gente là?”, e lui mi ha detto “stai tranquillo, perché stanno arrivando gli americani, quindi è chiaro che vogliono fare bella figura ad aver aiutato uno che è scappato da Dachau.”
Un bel giorno mi sveglio, almeno… dopo qualche giorno mi sveglio, mi trovo davanti quattro spilungoni con la divisa di americano. Fra l’altro il solito… il sergente che parlava mezzo italiano, gli ho spiegato chi ero, chi non ero. M’ han portato in casa, m’han dato da mangiare, poi m’han caricato su una jeep. Si son fermati in una casa, e qui mi spiace che ho dovuto… col mitra alla mano hanno obbligato quella gente a darmi degli abiti, delle scarpe, degli indumenti intimi, e ho dovuto lasciarci la mia divisa da galeotto. M’han portato nel campo – mi pare 205, comunque è scritto lì, 205 – dove han detto al capitano che comandava, un capitano di marina, che comandava il campo, “questo è un reduce di Dachau, me lo tratti bene.”
Lì ci son vissuto per diversi giorni. Era dopo aprile, mi pare sul maggio, m’han dato un foglio di carta per scrivere a mia zia. E finalmente io sono riuscito a mettermi… almeno, tramite questo pezzo di carta della Croce Rossa, [a] scrivere a mia zia. Oh, qui devo dire che sono stati abbastanza gentili, perché non mi han dato da mangiare, ma m’han dato piano piano prima il brodo: cioè da dove arrivavo han capito che avrei dovuto fare una certa dieta, perché? – e questo me l’aveva fatto notare anche l’americano quando mi portò sulla jeep – c’era gente che si… gli americani a tutti ‘sti prigionieri buttavano da mangiare, tutti mangiavano, ma molti crepavano di indigestione. Purtroppo gli scoppiava lo stomaco. Lì nel campo invece piano piano – naturalmente un po’ di rabbia per vedere gli altri che mangiavano sberle di carne e io che dovevo prendermi… mangiarmi il brodino o la zuppa – però m’hanno rimesso in forma bene.
D: Ti ricordi se questo campo era vicino a qualche città grossa?
R: No, l’era appena fuori da Dachau… sì, appena fuori di Monaco, periferia di Monaco. Infatti lì, Monaco di Baviera, mi pare che era il campo 205.
D: E lì sei rimasto fino a quando dicevi?
R: Dunque, sono rimasto fino… mi pare alla fine di giugno. Però nel rientro – naturalmente eravamo in molti che rientravano – m’hanno fatto fare fino a Brescia con un treno… sì, con un treno, poi a Brescia non c’era… beh, loro mi han portato a Brescia, poi mi hanno detto “arrangiati tu”. Infatti a Brescia abbiamo trovato un camionista, gli ho spiegato chi ero, da dove venivo, perché portavo ancora il triangolo – anche se oramai avevo solo degli abiti borghesi – m’ha preso ‘sto camionista e m’ha portato in piazzale Loreto. In piazzale Loreto, quando m’han visto arrivare con ‘sto triangolo è stata la fine del mondo. Perché non ho pagato il tram per arrivare a casa, tutti volevano accompagnarmi, anche perché ero diventato abbastanza rotondo. Perché dalla magrezza di Dachau al piano piano riprendendomi – di Dachau, pardon, di Flossenbürg – riprendendomi mi ero anche gonfiato, fra l’altro. Però anche se ero gonfio, sapevano – probabilmente lo sapevano già perché altri erano arrivati prima di me – sapevano che era una malattia la mia, e allora m’hanno accompagnato fino in piazza Lega lombarda, dove la portinaia quando m’ha visto ha fatto un urlo… e ha detto “è tornato l’Ugo.” Lì ho abbracciato mia zia, finalmente.
D: Scusa un attimo Ugo, questa storia del ritorno, cioè da Monaco ti hanno messo su un treno…
R: Su un treno fino a Brescia.
D: E non si è fermato a Innsbruck, da altre parti?
R: No, no. Almeno, che mi ricordo da Monaco so che mi hanno scaricato a Brescia. Perché il treno si fermava a Brescia.
D: Ma era un treno civile? Era un treno di passeggeri?
R: No, no, no. L’era un mezzo civile, un mezzo… perché molti erano su carri bestiami, molti erano su carrozze, ma vecchie stravecchie, perché se vedevi che erano… e io ero su una carrozza, ma che gli mancava un veder [vetro]. Ma, intendiamoci, non me ne fregava niente.
D: Ascolta, ma questo treno qui di chi era?
R: Non lo so.
D: C’era su del personale?
R: No. So che a me han detto un bel momentino “tutti questi di questo campo vadano là, trovino posto, o sul treno… o sui carri, o sui vagoni, perché arriva a Brescia.”
D: A Brescia c’era un comitato di accoglienza?
R: No, no, no. Non ho trovato nessuno. Brescia sono sceso e ho detto “qui cosa faccio?” Treni non ce n’erano, probabilmente non poteva continuare il treno perché c’era rotto qualcosa. Ho detto “qui vado sulla statale per Milano, vedo se c’è qualche camion”, combinazione ho trovato questo camionista che mi ha caricato e mi ha portato fino in piazzale Loreto.
D: Ugo, son passati 55 anni, e tu facevi sempre accenno prima al diario che hai scritto dopo.
R: Sì, perché io avevo diversi appunti… cioè, non appunti presi là, ma appena tornato ho voluto scrivermi subito quello che riuscivo a ricordare. Quelli della Russia l’avevo fatto prima, quelli di Flossenbürg l’ho fatto dopo, e li ho messi lì, non li ho mai toccati. Poi ogni tanto mi veniva in mente qualcosa e la mettevo giù. Nel ’75 finalmente mi son deciso a dire “cià, adesso con calma mi scrivo…” L’ho scritto, ma l’è sempre rimasto nel cassetto.
D: Ecco, ma io ti volevo chiedere: sei mai stato intervistato te in questi 55 anni?
R: No, no, no.
D: Nessuno ti ha mai chiesto niente della tua deportazione?
R: Ma guarda credo che neanche in Pelikan, eccetto i dirigenti, nessuno sapesse… io non ho mai raccontato niente a nessuno. A scuola insegnavo, qualcuno sapeva, qualcuno, ma altrimenti non… C’è gente che ancora al giorno d’oggi, intendiamoci non sono… ma non sa che io sono stato a Dachau, sono stato in Russia. Mument… [un momento] lo sanno i combattenti, perché quando c’è la riunione vado con loro e sanno che son stato in Russia.
D: Ugo, dei tuoi compagni di deportazione, che siete partiti da Bolzano per arrivare a Flossenbürg, quanti se ne sono salvati? Lo sai più o meno?
R: Se ne sono salvati molto pochi. Perché infatti quando ci sono le riunioni della associazione, che ci troviamo noi, che ci siamo conosciuti dalla Val Sassina, da San Vittore, da Bolzano, eravamo in una decina: oggi siamo quattro o cinque, cinque forse, perché diversi sono… a parte quelli che purtroppo sono morti subito. Perché infatti appena tornato siamo andati a trovare altra gente, ma era ammalata, gente che aveva contratto delle malattie, che purtroppo non ce l’han fatta a arrivare fino ai giorni nostri, per essere lì in associazione.
D: Ecco Ugo, l’ultima cosa, i numeri proprio non te le ricordi? I numeri di Flossenbürg…
R: Lassum legerli [fammeli leggere]. Campo di concentrazione Dachau comando d’Augsburg […] 7-19 ottobre ’44, numero detenuto 11… beh 117.064.
INTERVENTO: Sopra c’è anche quello di Flossenbürg.
R: Ah eccolo qua, ciula… eccolo…
INTERVENTO: Allora se li puoi dire tutti e due…
D: Allora i due numeri…
R: Dunque, quello di Flossenbürg è quello in alto che l’è 21752. Quello di Dachau è 117064.
D: Visto che questi ce li siamo ricordati?
R: Eh, per forza, l’ho legiù [l’ho letto].
D: Ugo.
R: Ecco, arrestato il 25 giugno del ’44.
D: Ecco, Ugo, ascolta un attimo. Quindi a Flossenbürg ti hanno immatricolato una prima volta, e poi quando ti hanno trasferito da Flossenbürg ad Augsburg ti hanno ancora immatricolato.
R: No, no, ho sempre avuto quel numero lì.
D: Eh ma 117 mila è quello di Dachau.
R: Ma perché Flossenbürg era sotto una dépendance.
D: Augsburg era un sottocampo di Dachau.
R: So che a me han dato questo numero e l’ho sempre tenuto, si vede che a Flossenbürg gh’el ‘ndava ben chel numer lì [gli andava bene quel numero lì].
D: No, ascolta, a Flossenbürg ti hanno dato il 21 mila, giusto? Quando sei arrivato con Antonio a Flossenbürg ti hanno dato il 21 mila. Poi quando sei andato ad Augsburg, che è un sottocampo di Dachau …
R: Allora l’è forse questo 117 mila ad Augsburg. Eh beh…
D: Esatto. Ecco, non ti ricordi quando te l’hanno dato questo 117 mila? Non te lo ricordi? Neanche dove…
R: So che io ad Augsburg avevo questo numero qui. Ma un mument, l’è quel che capisi no [è questo che non capisco], ma anche a Flossenbürg, mi sun cunvint che.. [sono convinto che] questo 21 mila qui…
D: E’ di Flossenbürg. Perché la prima immatricolazione te l’hanno fatta a Flossenbürg, dopo ti hanno trasferito…
R: No, un mument… Però a Flossenbürg loro m’han cambià il numer…
D: Ad Augsburg t’hanno cambiato numero, perché era un’altra dipendenza, dipendeva da Dachau.
R: Ah ecco perché dipendeva da Dachau. No, allora no. Quan’ m’ha fermàa [quando mi hanno fermato] a Bolzano… a Flossenbürg, mi pare che… m’avevano detto che lì vicino c’era Dachau, mi avevano detto.
D: Ma non è forse Ugo che il treno si sia fermato da Flossenbürg ad Augsburg, e lì ti hanno detto che vicino c’era Dachau?
R: No, allora probabilmente… ma me ricordi no [non mi ricordo] a Flossenbürg… so che avevo imparato questo numero qui, perché me lo continuavano a chiedermelo, almeno, quando c’erano le adunate dovevo rispondere così. Ma me pareva che anca a Flossenbürg… [mi sembrava che anche a Flossenbürg]
D: Flossenbürg era il 21 mila.
R: Perché strano… ah, no, un mument… questo mi è rimasto impresso perché probabilmente è l’ultimo numero che ho dovuto imparare, quell’altro al me ricurdavi più [non me lo ricordavo più].
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