Cosmar Franco

Franco Cosmar

Nato il 28.05.1927 a Remanzacco (UD)

Intervista del: 14.10.2004 a Bologna realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 198 – durata: 79′ circa

Arresto: 02.01.1945 in Jugoslavia

Carcerazione: Tolmino (GO), a Gorizia

Deportazione: Mauthausen, Gusen

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Cosmar Franco nato a Remanzacco in provincia di Udine, il 28.05.1927 e adesso sono residente qui a Bologna da tanti anni, una quarantina di anni.

Io sono stato deportato perché sono stato preso in combattimento.

Ero nella formazione partigiani della divisione Valnatisone, Brigata Piccelli, io sono stato preso in combattimento in Jugoslavia, a Barcis, in Jugoslavia. Dovevamo attraversare il fiume e la vecchia ferrovia.

Sembrava sul momento, come dicevano i nostri ufficiali che erano essi d’accordo con i repubblichini. Poi però cosa successe da noi? Da noi è venuto a mancare un uomo, un uomo che abbiamo cercato tutto il giorno e non l’abbiamo trovato.

Alla notte, quando siamo partiti, sarà stata mezzanotte, abbiamo disceso questo paese, attraversando questa ferrovia. C’era un chiaro di luna e il prato sembrava una tavola da biliardo quanto era bello…

Allora, davanti a noi c’era la pattuglia, le mitragliere e subito dietro a noi la seconda squadra del secondo distaccamento del battaglione…

Arrivati quasi in fondo, si sentì uno sparo o due perché la pattuglia era riuscita a sparare perché era un’imboscata dei tedeschi, tedeschi, repubblichini e anche alpini come loro si sono definiti. Fatto sta, che lì ci hanno fatto prigionieri.

D: Franco, scusa, quando questo è accaduto?

R: Io sono stato preso il 2 gennaio del 1945…, sono stato fatto prigioniero. Abbiamo avuto l’assalto sul campo con trentuno o trentatre morti, tutto il resto, gli altri tre battaglioni si sono ritirati, non hanno accettato il combattimento perché erano tutti allo scoperto. Per noi è stata un’improvvisata questo tradimento e nessuno se lo aspettava.

Ci hanno portato su i tedeschi, prima hanno cominciato a venire con il mitra attorno a noi…, ci volevano ammazzare, poi c’erano anche i repubblichini, i fascisti jugoslavi, i cernisi che sono gente cattiva quelli.

Ci hanno portato giù in una casa, c’erano tre o quattro case, ci hanno messo al muro per fucilarci i tedeschi.

Poi, hanno detto: No, questa è zona nostra, voi non li fucilate, perché abbiamo avuto abbastanza morti, voi non li fucilate”.

Allora mandavano di là la staffetta tedesca, per avere l’ordine dal comando tedesco di sapere cosa dovevano fare di noi. Ci hanno legati dentro, e poi io avevo il vestito di un soldato tedesco, hanno cominciato a dire: “Tu, kaput”.

Poi giù botte, ci hanno legato con le mani di dietro e lì aspetta per delle ore, finché arrivò la staffetta e ci dissero: “Via”, ci hanno fatto camminare fino a Tolmino a piedi, con un buio terribile.

Ci hanno messo dentro le carceri a Tolmino, arrivammo in quindici, c’era un ufficiale con noi, Paride, fatto sta che ci hanno messo a dormire per terra, senza una coperta, senza niente, sul cemento così, un freddo, un freddo, roba da matti. E ogni tanto entravano dei fascisti con la baionetta in canna che ci volevano ammazzare. I tedeschi ci proteggevano. Gli italiani ci volevano uccidere, gli jugoslavi ci volevano uccidere, i fascisti… Siamo stati senza mangiare.

Quando entravano a fare i compiti gli ufficiali, prima entrava la truppa con il mitra spianato e poi piano, piano entrava l’ufficiale, e diceva: “Ragazzi, mi dispiace per voi, però non posso darvi da mangiare”. Senza mangiare, io non so niente. “In ogni caso, stasera”, disse, “quando arriverò, se riuscirò a racimolare qualcosa”.

Questo qui è venuto alla sera, tutti i soldati, ci ha portato una pagnotta, quelle nere che si è diviso in quindici persone. Poi disse: “Ho lasciato ordine a tutti gli alberghi di qua, di Tolmino che le cose che a loro avanzano, di non gettarle via, ma di tenerle a parte per voi altri”.

Siamo stati cinque giorni, tra fame e freddo, non riesco a descriverlo. Una sera è arrivato lì l’ufficiale tedesco, e ci ha detto: “Preparatevi, mettetevi in fila”; ci hanno legato, ci hanno messo in fila, in mezzo alla fila con questa gente che ci voleva ammazzare. E io pensavo: “Ci vogliono ammazzare tutti”. Ci proteggevano però i tedeschi. Fatto sta che ci hanno buttato sul camion allo scoperto e in ogni camion, sopra alla tettoia dell’autista c’era un uomo con il mitragliatore, e di dietro c’era un soldato con il fucile.

Io avevo le mani slegate e giravano su e giù e nel convoglio di prima avevano caricato dei piselli secchi e io volevo prendere dei piselli per mangiare, con la fame che c’era. Non si vedeva l’ora di partire, siamo partiti, altrimenti ci scoppiava il cuore con quella gente che ci voleva massacrare, da un momento all’altro potevano dire: “Salta su”, e ti ammazzavano che per loro era tutto regolare.

Allora partimmo, e loro avevano paura che i partigiani per strada, nella zona partigiana succedesse qualcosa come un’imboscata ecc.

Speravo anch’io, ma niente da fare. Allora dissi a un mio amico: “Ho le mani ghiacciate, ho un freddo da matti. Come facciamo?” “Sei solo te slegato, anzi tu prendi quello di dietro, e quello davanti si gira, ci spara e ci ammazza”.

Fatto sta che arrivammo a Cividale, posto di blocco dei cosacchi, dopo Cividale siamo passati al mio paese di Arnazacco, da Arnazacco fino a Gorizia. A Gorizia ci hanno messo nelle carceri, e nelle carceri era pieno di pidocchi. Tutta la gente che gridava, cantava canzoni slave, patriottiche, tutti i giorni e notte a cantare perché erano i giorni che arrivavano i tedeschi e prendevano a secondo la gente che volevano ammazzare e dicevano: “Tu, tu fuori”. E uno pensava che si andasse a casa, chissà dove, invece li portavano al castello e li fucilavano.

Ogni tedesco che i partigiani uccidevano lì attorno, uccidevano un soldato, dieci partigiani e un ufficiale.

Fatto sta che ci hanno interrogato e come sono entrato io dalla SS, vestito così da soldato tedesco e poi era una divisa estiva, di quelle di tela.

Hanno fatto tante di quelle domande e non ne potevo più.

Allora non mi hanno picchiato.

Hanno provato a mandarmi in carcere, poi in carcere ci davano quella sbrodaglia regolare, tutti i giorni, tutte le mattine arrivavano con quel martello nelle sbarre, finché un giorno si dormiva sul fieno, sulla paglia, il gabinetto era un secchio, finché un giorno mi sono sentito chiamare: “Cosmar, si prepari, deve venire giù con me”. Pensai: “Questi qui mi fanno fuori, mi chiamano per nome”, forse perché ero vestito da tedesco… Invece quando sono arrivato giù, mi dissero: “Guarda che c’è un signore che ti vuole vedere.”

“Come mi vuole vedere?” Non davano loro a un partigiano preso con le armi in mano, la possibilità di avere un colloquio con qualcuno.

Mio padre avevo lavorato sempre in Germania, aveva anche conosciuto mia madre in Germania e sapeva la lingua. Si vede che lui ha incastrato questo tedesco… , e mi ha fatto avere il colloquio con mio padre.

Mio padre mi disse: “Ti ho portato una valigia”, quelle di cartone legate con le corde perché in Germania è freddo. “Da domani partirai per la Germania a lavorare”. Come sapeva mio padre che partivo l’indomani? Perché aveva parlato con l’ufficiale tedesco. Fatto sta che quando sono arrivato dentro alla cella sono rimasti tutti di stucco, e mi hanno detto: “Non ti hanno fatto niente?” “Sono qua…”

L’indomani mattina, tutti fuori dalle celle in fila per quattro, fuori tutti.

E ci hanno portato alla stazione di Gorizia.

Lì in stazione c’erano tutti i vagoni aperti. Lì ci hanno incastrato sopra questi vagoni e poi quando era pieno chiudevano… Allora aspettavamo che partisse il treno, passò un giorno, passò il secondo, passò il terzo… e il treno non partiva. E la gente del paese, ogni tanto, quando un tedesco o un italiano lasciava un po’ passare, buttavano giù qualcosa da mangiare, però lo prendevano sempre quelli che erano davanti, quelli che erano di dietro non prendevano niente. Lì l’egoismo dell’italiano era quello di tenersi tutto per sé.

Io non avevo niente, anche quello di dietro a me non aveva niente.

D: Posso chiederti? Dicevi che avevi addosso una divisa da tedesco…

R: Sì, perché avevano bloccato un convoglio tedesco. I convogli andavano a prendere i generi alimentari, da Gorizia andavano a Tolmino, Caporetto.

Allora, noi facevamo così, quando c’era da prendere qualcosa, perché il mangiare non arrivava …, ho mangiato tante di quelle rape…

D: Non avevate aiuti?

R: Sì, c’erano gli aiuti, ma non lasciavano passare. In Friuli c’erano trentanovemila uomini tra cosacchi, Repubblica di Salò, Jugoslavi. C’erano trentanovemila uomini…, poi qualcosa mi sfugge sempre. Lì non riuscivano a passare. Noi avevamo una zona molto dura lì.

Noi, tutti i giorni, era chiamata anche divisione d’assalto, tutti i giorni noi avevamo un rastrellamento perché noi partigiani, la linea di Tarcento che andava in Austria era l’unica che andava, le altre linee erano saltate tutte. Lì non sono riusciti la linea a farla saltare dietro ai monti perché i tedeschi hanno messo una grande contraerea che li disturbava e quando si alzava su alta quota, buttavano giù le bombe, con il vuoto d’aria le bombe si spostavano, non andavamo mai a colpire il bersaglio.

Allora il Generale Alexander, comandava il generale Alexander, diceva: “Domani passano due divisioni di tedeschi, dovete fare saltare la linea, disturbare, ritardare”.

Questi qua poi che cosa facevano? Si fermavano sì, ma venivano contro di noi a combattere.

E noi avevamo sempre il combattimento…

Ecco perché era chiamata divisione d’assalto.

D: In quanti eravate, più o meno, in questa divisione?

R: Eravamo seimila credo.

D: Quindi si può dire che sei stato preso a Barcis, o vicino a Barcis.

R: Sì, c’è un ponte di legno e mi mandò la fotografia quell’ufficiale che lui ha detto che è un alpino, che è repubblichino, che sparavano contro di me. Due ne ho trovate.

D: Dopo…

R: Sì, su in montagna le ho trovate.

E’ un caso. Io non ho odiato quella gente perché lui cos’ha fatto? Lui ha scelto una via e io ho scelto quell’altra. Se a me andava male, se andava bene a lui, cosa succedeva? La stessa cosa. Non si può odiare per questo, come odiavi sul fronte nemico non si può odiare, dopo la guerra non si può odiare perché ognuno combatte per il suo paese, per il suo ideale e tutto il resto.

Per quello dico che non si può odiare.

Perché loro, spiego questo famoso… repubblichino, lui non vuole essere chiamato Repubblica di Salò, repubblichino, alpino che anche lui, dopo la Liberazione, ha avuto delle cose che non trovava mai lavoro perché era dei repubblichini.

Ha dovuto girare tutta l’Italia per trovare lavoro.

Era come per il Friuli.

Nel Friuli, quando uno era stato partigiano, secondo loro era stato comunista e non trovava lavoro.

Era la stessa cosa.

D: Accennavi prima a Porzius?

R: Sì.

D: Cioè?

R: Io ho conosciuto tutti quelli di Porzius, perché tutti i giorni io passavo di lì per andare a prendere i medicinali o per andare a prendere armi e munizioni. I lanci che facemmo sulla valle di Porzius, gli inglesi di Pippo, di notte,buttavano giù questi qua e buttavano giù anche gli ufficiali, buttavano giù gli inglesi. E io andavo sempre lassù.

Queste donne che loro dicono, l’avevano condannata come spia, le donne che avevano quelle di Porzius e le altre c’erano quando io andavo su, ma io non sapevo che erano ricercate.

D: Siamo rimasti quando eravate alla stazione di Gorizia nei treni.

R: Siamo stati lì tre giorni fermi e per fare i bisogni, ogni tanto aprivano lì fuori ai vagoni, davanti al pubblico che era fuori, poi dentro Roma, lì in piedi senza potersi neanche sedersi, ma neanche voltarsi. Ci avevano talmente incastrati dentro che non passava neanche l’aria.

Finché un pomeriggio, verso sera, il treno andò avanti, andò avanti, ma non molto, si fermò a Pradamano, è un paesino prima di Udine, su un binario morto perché c’erano i bombardieri che andavano su e giù e allora avevano paura dei bombardamenti.

Il giorno dopo, di notte, ci hanno portato alla stazione di Udine e ci hanno collegati insieme a quelli della Risiera di San Sabba, e noi di Udine, di Gorizia e poi quelli di Udine sul treno. Hanno collegato tutti i vagoni, senza mai uscire, e siamo andati via.

Ogni galleria, se c’era un allarme, dovevamo stare dentro alle gallerie con quel fumo, che non si respirava. Anche un giorno si stava là dentro.

Infatti per arrivare a Mauthausen ci abbiamo messo una settimana, sempre chiusi nei vagoni e lì era venti gradi, anche ventidue a Tarvisio.

Quando siamo arrivati a Mauthausen, siamo arrivati a Mauthausen verso sera.

D: Che periodo era più o meno?

Sai il giorno in cui siete arrivati a Mauthausen?

R: Il giorno, con precisione, non lo so.

D: Era sempre gennaio?

R: All’inizio di gennaio.

Fatto sta che di lì ci hanno aperto tutti i vagoni, la prima cosa che ho guardato quando ci hanno fatto scendere, il nome della stazione dove eravamo: Mauthausen e ho detto: “Guarda dove sono arrivato?”

Pensate mio padre che era uno della guerra del 1914 – 1918 è stato prigioniero a Mauthausen e mi raccontava che mangiava le ortiche per sfamarsi e sono arrivato qui anch’io.

Dopo, messi in riga, siamo andati un bel po’ avanti, non abbiamo attraversato il paese di Mauthausen, ci hanno fatto prendere le mulattiere, di notte, al buio e cammina, cammina non si arrivava mai in fondo.

Ad un certo punto si videro delle luci, tutto un chiarore.

Man mano che si andava avanti si vede che si ingrandiva questo colosso di campo.

In una parte Mauthausen è tutta di cemento armato.

Lì si vide questo portone alto, a fianco c’era una piscina… questi riflettori che sparavano addosso. Si è aperto il portone e ci hanno fatto entrare, dentro ci hanno fatto mettere in fila e sulla destra venne fuori un uomo dicendo che era il capo del campo, su un balcone, parlava in tedesco, io il tedesco non lo capivo.

Dopo un po’, quelli del campo, i tedeschi hanno detto: “Via tutte le valigie…”, si è messo via prosciutto, salame, e in tutto il viaggio noi siamo rimasti senza mangiare.

I tedeschi hanno sequestrato via tutto.

Di lì ci hanno fatto andare su a destra, un’altra decina di gradini, poi un gran portone di nuovo qui, si è aperto ancora il portone, e subito dopo il portone a destra, una scalinata dove c’erano i bagni, le docce.

Ci hanno fatto spogliare tutti nudi, un freddo…, fuori c’era il ghiaccio e la neve, tutti nudi, e lì a fare la doccia, calda, fredda, calda, fredda, ghiacciata.

Di lì i tedeschi, la SS ci ha fatto togliere tutto…, chi aveva la fede, chi aveva l’orologio d’oro, tutte quelle cose lì.

C’era da noi un prete jugoslavo, di Lubiana, lui sapeva il tedesco. Aveva una catenina, ha detto in tedesco: “Per piacere, non me la portate via, è un ricordo di mia mamma”. Questo tedesco l’ha guardato in faccia e ha cominciato a offendere, hanno fatto un girotondo e l’hanno pestato. Non l’abbiamo più visto, non so dov’è andato a finire, se l’hanno ammazzato, non l’abbiamo più visto.

Di lì nudi, ci hanno detto: “Fuori in baracca“. Fuori, con il ghiaccio, tutti nudi, e via camminare scalzi fino alla baracca, in quarantena, ho saputo dopo che era quarantena, perché ho saputo dopo che la quarantena era distaccata dalle altre baracche, la quarantena era dall’altra parte, dicevano che si stava lì quaranta giorni e poi ti mandavano a lavorare.

Siamo andati in quarantena, lì ci hanno dato i vestiti, non quei vestiti rigati, erano dei pantaloncini, messa una pezza con la riga e il numero di matricola e poi ci hanno dato il bracciale con il filo di ferro, la placchettina e si doveva dire il numero in tedesco perché se non sapevi dire il numero in tedesco non mangiavi.

Poi siamo arrivati dentro lì. Adesso, disse, andate a dormire… Ma dove a dormire? Che non c’era neanche un letto, niente.

“Vedete lì in fondo? C’è un mucchio di sacchi”, erano di carta fatta attorcigliata con dentro della segatura, avevano sdraiato tutti questi materassi e ci avevano messo a dormire come le sardine. Così, io i piedi in bocca a lui, lui i piedi in bocca a me.

Camminava sui nostri corpi… e dava tante di quelle botte…, non potei neanche muovermi tutta la notte. Finché è giunto da noi un ebreo nella nostra baracca, che l’ebreo non poteva venire dentro, eravamo solo italiani.

Questo capo della baracca è venuto lì dicendo: “Sei italiano?”

Prende uno zoccolo da uno lì, lo getta lui questo zoccolo, ma lui prende questo ebreo e gli spacca la scatola cranica, l’ha ammazzato.

Al mattino arrivavano lì i barbieri, lì tutti nudi ci hanno rapato fino all’ultima pelle.

Avevano dei rasoi …, non gliene fregava niente perché per un lavoro che facevano prendevano una minestra in più.

Ci hanno rapato, e poi c’era un secchio come quella colla che va sui manifesti, con un pennello te la mettevano di qui, di là, per paura dei pidocchi.

Dopo di lì ci hanno mandato fuori, a un freddo, tutti rannicchiati uno vicino all’altro, saremo stati lì tre o quattro ore.

Ad un certo punto arrivò il capo blocco e disse: “Tutti in riga, guai se uno di voi sgarra e che stia fuori riga”.

Fatto sta che ci metteva in riga in quella maniera e se sgarravi prendevi tante di quelle botte da matti. Perché passava quello delle SS, si doveva pazientare e tutto il suo gruppo doveva essere a posto e tutti presenti. Bisognava avere il cappello così, altrimenti erano botte.

Di lì, rotte le file, ci portarono il caffè secondo loro, il caffè arrivò in un bidone, era tutto foglie di tiglio e ci hanno dato un pezzettino di pane, sarà stato 50 grammi e un po’ di margarina quella minerale, arancione carica. Meno male pensammo, qui ci danno da mangiare…

Quando arrivò la minestra…, a mezzogiorno pensammo ci daranno qualcosa! A mezzogiorno arrivarono lì e dissero: “Chi è volontario e vuole andare a prendere i bidoni di minestra?”…. ti davano una minestra in più. Noi non abbiamo visto la realtà del campo, quello che succedeva niente. Dopo fatto la quarantena si vedeva veramente quello che era il campo, ma non eravamo convinti neanche con questo, vedevamo della gente portare dei morti sulla coperta e poi buttarle là a mucchi, ma non pensavi che fosse…

Fatto sta che sono andato a prendere la minestra, sono tornato indietro. Molti di loro quando ci hanno dato la minestra non l’hanno mangiata.

Sulla porta che era di metallo in fondo della quarantena, c’erano quei poveretti che erano magri, malmessi, che venivano ad elemosinare questa minestra e il primo giorno dicevano che faceva schifo e non la mangiavano.

Fatto sta che molti di loro non la mangiavano… Di lì ci portarono,qualche giorno dopo, a fare le fotografie in due o tre pose con il numero di matricola.

Avevamo la riga qua in mezzo

Poi ci hanno dato un paio di guanti di feltro…

D: Ti ricordi il numero di matricola?

R: 126691.

Fatto sta che, la mattina, siamo andati a lavorare prima a Gusen e poi da Gusen siamo andati alla stazione ferroviaria, non avevo mai visto quella stazione ferroviaria, avevo visto che c’erano i vagoni, però non era la stazione. Erano dei binari che passavano così. Fatto sta che ci hanno fatto caricare tutti sui vagoni aperti, in ogni vagone c’era un tedesco, e lì ci hanno portato alla stazione di Linz, tutta bombardata, massacrata, vagoni in alto, a destra, a sinistra, tutta roba che arrivava dall’Italia, pane, pasta, miele, tabacco, guai se toccavi qualcosa.

Il primo giorno che si lavorava un freddo cane. Nessuno si rende conto di quello che fa lo spostamento d’aria sui binari, distrugge come se fosse un cappello…, da non crederci.

C’era un maresciallo dei tedeschi cattivo, con il cane lupo… e pretendeva di più di quello che noi potevamo fare.

Fatto sta che alla sera, dopo dodici ore di lavoro, ci hanno portato a Gusen a dormire.

Dovevamo aspettare, perché a Gusen facevamo i turni a lavorare nelle miniere sotto e poi c’erano le fabbriche di armi,… facevano dei pezzi… quando andavano al lavoro loro,noi andavamo a dormire nelle loro cuccette.

Al mattino mi alzai, e quando mi svegliai il Kapò, il Kapò era uno senza un braccio, cattivo come una bestia……, cominciava a dire…., fatto sta che i miei zoccoli non c’erano più. Mi avevano rubato gli zoccoli.

Come facevo adesso a camminare sui binari, se c’erano dei vetri e con il freddo che c’era?

Io ho guardato, ho preso un paio di zoccoli di quelli che dormivano, li misi, e avevo le dita così, sono andato a lavorare in quella maniera lì e so che mi ha fatto un’infezione lì dietro.

Mi venne fuori un’infezione, un bozzo lì…, e si doveva lavorare lo stesso.

Io dicevo… c’era la gioventù italiana, non ne avevano più di anziani, c’era qualcuno che comandava, però erano tutti giovani italiani. “Tu, italiano kaput crematorio”. Non sapevo neanche crematorio cosa volesse dire, ancora perché non avevo avuto il tempo di vedere queste cose.

Fatto sta… “crematorio” diceva.

Era questo il fatto. Mi era rimasto un po’ impresso. Ognuno di noi, con il freddo e la fame sveniva non è che dicesse: “Prendilo, rimettilo là che poi rinviene”. No, in due si doveva prendere, uno per i piedi e uno per le mani, vivo e buttarlo dentro alla buca, dai uno, dai due, dai tre, dai tre, dai quattro e seppellirli, buttando sopra la terra, vivi.

Mi sono preso anche paura io, … crematorio, camera a gas.

Ritorniamo a Gusen, alla sera, io scoppio dalla febbre, non stavo neanche diritto dal male che mi faceva e lavorare sempre con quel male, finché ho detto al Kapò di Gusen, dissi… “Le faccio vedere…”, mi ha dato un manganello sulla schiena che sono rimasto secco e sono dovuto andare a lavorare lo stesso. I miei amici mi guardavano.

Sono andato a lavorare e lì piangevo dal dolore e non c’è stato niente da fare.

Allora, alla sera, invece di andare a dormire a Gusen, siamo andati al campo n. 2 di Linz, c’è la caserma delle SS che gli americani hanno bombardato, la caserma, hanno fatto saltare un mucchio di gente del campo e hanno ammazzato un mucchio di deportati.

Allora, di lì siamo andati a dormire, solo che ci hanno messi e da varie ore eravamo già lì.

Dopo dodici ore di lavoro chiamarci e stare lì delle ore, aspettare per mandarci in baracca e darci quel po’ di minestra calda, io sentivo urlare a destra, a sinistra.

Io stavo male e mi faceva male. Passò di dietro questo tedesco, quando mi ha visto curvo mi ha dato tante di quelle botte, ecco perché ci avevano mandato in baracca, perché secondo loro mancava una persona, non mi vedevano e lì sono stati fuori … per colpa mia.

Un’altra sera siamo andati a dormire a Gusen, a Gusen non c’era posto quella sera lì e dove si dormiva? Fuori delle baracche.

Ci hanno dato una coperta e basta… C’era il fango. Io ho messo la coperta sopra e sotto niente. Di notte ghiaccia e più o meno il corpo scalda un po’. Alla mattina staccarsi dal ghiaccio per non rovinare anche il vestito, se lo rovinavi eri rovinato del tutto.

Strappai un po’ alla volta, e via a lavorare di nuovo.

Allora dissi al tedesco, alle SS … e l’altro: “Tu italiano… kaput”.

Come kaput?

Solo che poi è arrivata un’anima buona, dietro di me, uno vestito da SS e disse: “Vieni con me…”, era un italiano, “e non ti meravigliare che sono delle SS, ho dovuto accettare anch’io queste cose qui perché altrimenti facevo la fine che dovresti fare te adesso. Vieni qua, metti sotto quel … che nessuno ti tocca”.

Fatto sta che nessuno mi ha toccato.

Alla mattina, a Gusen di nuovo, … a Mauthausen ci hanno portato quelli che eravamo ammalati.

D: Franco, scusa un attimo, quando tu parli di Gusen, ti riferisci a quale Gusen?Gusen 1 o Gusen 2 ?

R: Sai che non l’ho mai capito. Per me era tutto Gusen, che era schifoso Gusen.

Non lo so che Gusen era.

D: Allora, quelli ammalati lì a Gusen li prendono…

R: No, gli ammalati hanno chiesto la visita medica…

Li prendono e li portano a Mauthausen…

D: A Mauthausen dove? Dentro al campo di Mauthausen o in fondo…

R: No, dentro il campo di Mauthausen perché doveva essere la Commissione Medica a dire se eravamo recuperabili o no. Ci hanno fatto fare la doccia, fuori, nudi, in attesa del responso della Commissione Medica. Fatto sta che siamo stati lì quattro o cinque ore, un freddo, e mai preso un raffreddore.

Pensavamo tutti: “E’ meglio che ci ammazzano, altrimenti qua…,” invece è stato contrario… Poi all’ospedale, anzi era un’infermeria, sono arrivato là, giù…, non sono andato dentro alla baracca, mi hanno messo subito in sala operatoria, mi hanno disteso su un tavolaccio, mi hanno mezzo legato, mi hanno tagliato con un po’ di tintura e c’era il pus che schizzava da tutte le parti.

Poi sono andati con le forbici a tagliare e poi hanno messo una stecca di legno, c’era un barattolo con dentro una cosa nera, come una pomata, me l’hanno messa sulla ferita, senza cucire niente e la fasciatura non con la garza, con i rotoli di carta igienica li adoperavano per fasciarci. Poi mi portarono in baracca.

Quella lì non era una baracca, quando ho visto questa gente, tutta aperta, che mi guardava…, sono morti viventi! Ma quella gente lì è ancora viva?

Si vedeva solo gli occhi e i denti, le mani scarne, si vedevano le ossa, e mi guardavano e io guardavo loro.

Poi mi hanno assegnato un posto, eravamo in sei, era a tre piani, tre alla testa e tre ai piedi, il materasso sempre così stretto, con un asse di legno e una coperta in sei.

Di lì, dopo, mi venne la febbre a 41.

Cominciai a tossire sangue…, non sapevo cos’era. Passò un dottore, un dottore che andò da un russo, questo russo lavorava alla cava delle pietre, era un colosso, gli usciva l’acqua dalla pancia, chissà cos’era. Fatto sta che gli fa questa puntura, al petto, non ricordo più, so che appena fatta la puntura, questo russo ha cominciato… hai visto le bolle dei bambini di sapone?…

Poi io dissi: “Dottore…, guardi qui”, avevo rotto un lembo della coperta, dove c’era tutto il sangue. Allora mi ha visitato. Io ho ascoltato, non ha detto: “Dategli una camicia”, niente… Ha detto: “Guarda, ragazzo, vuoi vivere? Se vuoi vivere, se arrivano i miei colleghi quel sangue non glielo devi fare vedere perché qui la tubercolosi…”, non disse tubercolosi, non sapevo neanche che era tubercolosi io. Questo qui disse: “Se i miei colleghi ti vedono, ti fanno fuori. Hai visto cosa hanno fatto al russo? Toccherà a te”.

Io camminavo per cercare qualcosa da mangiare. Davano un mestolo di minestra al giorno, senza pane, senza niente, all’ospedale.

Andavo in giro a vedere, fuori l’erba era rasata tutta.

Si tirava su tutto, quello che c’era di commestibile, con le patate dei fiori, delle piante, non era rimasto niente fuori.

Qualcuno fuggiva, di notte, dalle finestre, andava nei rifugi delle SS e qualche volta gli davano una buccia di patata, e sembrava avere risolto chissà che cosa. E lì, tutti a destra, sinistra, fuori e poi arrivò la dissenteria.

La dissenteria, cinque giorni, se dura cinque giorni muori.

Fatto sta che uno con la dissenteria in cinque giorni diventa pelle e ossa perché va in continuazione al gabinetto.

Dov’era il gabinetto? In fondo dove a destra c’era il mucchio di cadaveri, e a sinistra c’era un asse per traverso e lì si facevano i propri bisogni, due o tre alla volta, tutta roba liquida, che di consistente non c’era niente.

Fatto sta che la dissenteria…, non si arrivava mai al gabinetto e te la facevi addosso.

Infatti tutto per terra, pieno di liquido. Era una cosa brutta.

Chi cadeva giù, pur di arrivare, cadeva giù già sfinito, morto.

Chi, mentre faceva i bisogni, cadeva e moriva lì, chi arrivava gli dava uno spintone e cadeva dentro tutto questo liquido che era lì, si affogava anche di liquido.

Non eravamo più degli esseri umani, eravamo delle bestie. Ma neanche delle bestie, le bestie…

Tutti al gabinetto, su e giù…, cosa succede dopo? Che quello che ho avuto io all’inguine, mi venne dall’altra parte.

Lì facevano molti esperimenti, c’era della gente che aveva aperta tutta la muscolatura dei piedi, la schiena…, facevano gli interventi e poi c’era tutta questa carne aperta.

Andai lì, mi portarono giù di nuovo in infermeria, stavolta svenni perché ero molto più debole.

Però guarivo presto anche…, c’era uno di fianco che disse: “Partigiano tu di dove sei? Sei di Olzano?” Olzano, il mio paese. Dissi: “Non sto bene”. E lui mi ha detto: “Ti aiuto io a letto, ti aiuto io a portare …” Ma quando sono tornato, un giorno non c’era più, si vede che era morto.

Però, con tutto questo, un giorno successe il patatrac. Arrivarono i tedeschi dentro le baracche e pensai: “Ci ammazzano tutti”.

“Fuori, fuori, lasciate tutto lì, a mani vuote”, eravamo sempre nudi a 24 gradi sotto zero, broncopolmoniti… Fatto sta che dissero: “Fuori tutti”.

Non sapevo cosa era successo, però non pensavo che fosse qualcosa che qualcuno avesse fatto la spia.

Noi avevamo qualcuno con i cucchiai di ferro e cosa facevano? Battevano come il contadino batte la falce,è dura la lama, si indurisce la lama e fa una lama tagliente per l’erba, e per tutto. Anche le assi di legno, sai quanto carbone delle assi di legno ho mangiato io per fermare la dissenteria che me le dettero i francesi? Poi dopo un po’ ci mandarono tutti dentro di nuovo. Era successo che lì da noi mangiavano i cadaveri, aprivano la pancia dei cadaveri, pelle e ossa, cos’era più commestibile? Secondo lei cos’è di più commestibile? Secondo lei cos’è? Il fegato. E litigarsi i pezzi di fegato, e poi andarsi a nascondersi sotto i letti a castello che gli altri ti assalivano.

Qualcuno è andato a riferire ai tedeschi…, e avevano paura che venisse la peste. Così portarono via tutto, anche quello. Che brutta…

D: Franco, quando tu parli dell’infermeria di Mauthausen quale intendi, quella dentro nel campo?

R: Quella giù nell’ospedale.

Quel dottore lì mi salvò la vita anche quello, due volte. La prima volta per la selezione degli ammalati mise fuori la chiacchiera che erano tutti ammalati gravi e ci portarono su al campo, dicendo che nel campo avevano fatto un ospedale per i più gravi. Io sono andato nella fila di quel dottore. Quando sono andato là mi ha scartato e mi sono messo a piangere.

Siamo andati in baracca, passò la giornata, alla sera successe che arrivò uno lì e disse: “Sapete chi sono io? Sono quello che è scappato da quel convoglio che oggi hanno fatto”.

“Cosa hanno fatto?” “Hanno mandato tutti alla camera a gas”.

“Non vi presentate più, altrimenti vi gasano tutti”.

Il dottore lo sapeva.

Poi di lì, poiché io ho vissuto in Francia, ho fatto scuole in Francia, parlavo poco l’italiano, ho conosciuto dei francesi lì dentro e ai francesi davano il pacco della Croce Rossa, solo ai francesi. E noi chi eravamo? I figli di nessuno?

E lì era l’ultima fila dove c’erano i cadaveri.

E di lì, ho detto al francese: “Per domani ti danno il pacco, sei fortunato, per domani ti danno il pacco così ti rimetti in carne, ti tiri un po’ su.”

E disse: “Spero che domani ci diano il pacco, di mangiare e stare meglio”.

Dissi: “Te lo auguro”.

La mattina mi alzai e dissi: “Vado a salutare il francese, così faccio amicizia che salta sempre fuori qualcosa”.

Andai là, questo qua aveva già la bava alla bocca.

E pensai: “Oh Dio, questo qua ha già la bava alla bocca”. Le bestialità di un uomo quando è alla disperazione: io scambiai il mio numero di matricola con il suo.

Quando chiamarono lui, presi il pacco io. Mi sono mangiato due scatolette di carne in scatola americana, qualche galletta, la sigaretta e il tabacco le tenevo per fare gli scambi con la minestra. Chi era ammalato di fumo…, io non voglio morire di fumo, volevo morire di mangiare e faceva lo scambio.

Il giorno dopo hanno fatto la spia…, venne l’interprete della SS, in fondo alla baracca, qui disse: “Qualcuno ieri ha ritirato il pacco francese ecc., salti fuori, lo consegni”. Era un furto, lì impiccavano, o in forno crematorio, o gli sparavano in testa.

Allora io zitto, sotto la baracca, di nuovo sotto ai letti castelli, per fortuna che hanno lasciato andare dopo. Hanno visto che nessuno si presentava…, meno male ho detto.

Poi, tutta la notte a stare attento, con dei dolori alla pancia, avevo mangiato la carne dura, mi rotolavo dal dolore, dal male, anche l’egoismo per mangiare…. Fatto sta, a vedere gli altri che mentre mangiavo, quello zoppo moriva dal letto, veniva fuori blocco di sangue, portarli via con tutto sangue, urine e quel po’ di grasso che erano di calorie intorno…

E’ una cosa indescrivibile, pazzesca.

Il giorno dopo dissero: “Da domani tutti i francesi si devono presentare, verrà consegnato un pacco e partiranno per il sanatorio in Svizzera…”. Quando questi due pullman della Croce Rossa erano pieni, partivano e se ne andavano. Al mattino c’erano sempre gli stessi pullman, altri due pullman. Pensavo che veramente andassero là in sanatorio, altri due pullman e così, fin quando sono finiti i francesi. Non si è saputo più nulla. Dissi a questo francese: “Se tu vai a casa, telefona a mio fratello che lui è ufficiale dell’esercito di De Grulle”.

Fatto sta che finisce la guerra, arrivano gli americani, non è che arrivano gli americani, perché era successo, secondo la storia che mi raccontavano loro che come c’è stata la fuga dei russi, che si è saputo di Mauthausen, qualcuno aveva raggiunto, passato il fiume, il Danubio, la zona dei russi. Allora hanno detto: “Là stanno uccidendo sempre, ogni giorno di più”. Tutti quelli che arrivavano dagli altri Lager, là non c’era posto e li hanno tutti gasati, tutti uccisi, chi moriva ghiacciato, morto, al mattino, li avevano uccisi tutti, ma era parecchio tempo che arrivavano dagli altri Lager, Dachau e tutto il resto. Fatto sta che i russi hanno detto agli americani: “Guardate o voi andate avanti o noi non guardiamo più niente, attraversiamo il Danubio e andiamo noi …” Fatto sta che è arrivata una pattuglia americana con due autoblindo, non c’era più un tedesco…, ne hanno beccati parecchi. Sono arrivati lì, hanno tirato giù la svastica… , con le autoblindo, hanno parlato e poi cosa hanno fatto? Hanno armato la gente, i deportati e li hanno messi…

Hanno dato l’ordine che nessuno doveva uscire dal campo fin quando non fosse arrivato il grosso della truppa.

Siamo stati quasi una settimana, perché avevano paura che noi andassimo fuori, ci hanno maltrattato, pestato questi austriaci. Avevano paura che andassimo fuori a fare qualcosa contro il popolo austriaco.

Qualcuno è scappato, fatto sta che di lì sono arrivati gli americani dopo tre giorni, tutta la truppa. E cosa ci davano da mangiare? Latte e verdure per dilatare un po’ lo stomaco.

Ci hanno messo su delle barelle. In quel momento hanno portato una catasta di casse da morto, fatte di quattro assi, ma visto che le casse da morto occupavano molto posto, li buttavano dentro alle fosse comuni.

Poi di lì li hanno portati in ospedale loro, da campo, su una barella, i più gravi e lì tutte le mattine facevano l’ispettorato, guardavano come stavi, e in fondo a questa baracca c’era adibita un’infermeria e tutte le sere mi facevano una puntura di un calmante che avevo dei dolori enormi e vicino a me c’era un italiano, che lui era un partigiano piemontese, uno che ha fatto l’università, sapeva l’americano. E mi raccontò, era gonfio, mi raccontò che lui aveva nascosto dei documenti molto importanti della casa reale, che lo sapeva solo lui, li ha nascosti, murati in montagna, e lo sapeva solo lui. Fatto sta che lui ne parlò con gli americani e quando hanno saputo che documenti erano, gli americani li hanno messi da parte lì e gli hanno fatto il plasma, delle trasfusioni ecc., e niente da fare.

Lui è morto, nessuno ha saputo niente e lui ha detto: “Se mi salvate lo dico, se non mi salvate non dico niente”. Tutto è andato così, è morto. Lì siamo stati lì un bel po’. Ci portarono all’ospedale a fare dei lavaggi, non so se era luglio, in radiologia e lì mi trovarono la TBC bilaterale attiva. Tornai sull’autoambulanza, mi avvicinai ad altri italiani, e dissero: “Tu sei tubercoloso, sei tisico…”, non sapete la paura che avevo di questa malattia, facevo dei chilometri per non andare vicino ad uno quando era stato ammalato.

Mi faceva tanta paura. E dissi: “Non posso tornare a casa”.

I miei, quando sapranno che ho la tubercolosi, che sono tisico, non mi vorranno neanche a casa…

Dicevano: “Non scherzerai mica… con le tecniche nuove, con una puntura di calcio guarisci”.

Così, dai oggi, dai domani, mi hanno convinto.

Di lì mi hanno portato distaccato nelle baracche delle SS dove ci stanno i vari monumenti. Sei stato a Mauthausen? E’ subito dietro al nostro monumento, c’è la baracca delle SS, dove c’è il numero in italiano c’era la cucina americana e tedesca.

Lì, alla baracca delle SS, mi hanno messo in questa baracca, su un castello, tutti erano a bassa quota, non erano sul letto a castello, su un letto normale. Ho pensato: “Cosa ci sarà qui dentro?” Ho aperto, i materassi erano tutti fatti con capelli di donne, dormivi sui capelli delle donne. E ti davano da mangiare scatolette di fagioli…, allora abbiamo reclamato e abbiamo detto: “Come mai voi mangiate uova, mangiate… e a noi date questa porcheria con la febbre…?” Abbiamo reclamato, ma non c’è stato niente da fare. Ci davano quello e dovevamo mangiare quello. I mesi passarono finché un giorno vidi che stavo in piedi a camminare, mi sono alzato piano piano, al secondo portone che ho detto io, in fondo a sinistra c’è una garitta in fondo, per le scale dove c’è il monumento…, c’è un portone, in fondo a sinistra c’è una garitta, lì c’erano i militari americani, che noi eravamo in isolamento, ma non sapevo il perché, dopo si è saputo. Allora ho cominciato a camminare trascinando i piedi e quando sono arrivato vicino a questa garitta che ho girato a destra, c’è ancora il filo spinato largo tre metri… e in mezzo arrotolato così. Sentì che uno mi disse: … “Ma sei proprio tu che sei ridotto così? Cosa fai di là?” “Sono in ospedale risposi”. “Come in ospedale…? Sai che noi partiamo domani mattina? Si è riunita la Commissione medica del Vaticano e ha detto che i primi a partire devono essere gli ammalati”.

“E voi partite e noi rimaniamo qua? E’ una schifezza…”

Allora disse: “Sai cosa fai? Stasera, vieni qua alle sette, che loro quando scambiano stanno dieci minuti e anche di più, a chiacchierare e ridere anche di là e noi prendiamo delle assi di legno, e quando si addormentano tutti, andiamo di qua…”

Allora, piano, piano, presi una coperta, ma era pesante, che se cadevo…, fatto sta che sono arrivato là e gli americani parlavano tra di loro…, sono andati via loro, in quattro e quattro otto abbiamo girato… Siamo andati di là e c’era un rebus quando siamo andati in baracca. Non c’entravo io, ero l’ultimo, non sapevano da dove venivano…. , tutti hanno reclamato. Allora dissero: “Facciamo così, scrivete la vostra data in cui siete stati qui a Mauthausen”. Io ho scritto la data e sono risultato il più vecchio.

Alla mattina siamo partiti, abbiamo lavorato due mesi…, giorno e notte…, morivano anche dopo, abbiamo fatto il saluto a tutti i nostri morti. C’erano delle donne che hanno avuto dei bambini con le SS per salvarsi.

Ci hanno caricato sui carri bestiame.

Idem quando siamo arrivati… su ogni vagone c’era un americano con baionetta in canna.

Tutti questi austriaci prima ci sputavano in faccia, con la bandiera sembra che piangessero, piangevano perché eravamo ancora vivi, questi disgraziati! Vedi il mondo come gira!

Quando il treno è partito, al mattino è partito presto, verso mezzogiorno fermarono il treno vicino a due, tre case contadine e sulla sinistra c’erano dei binari morti dove c’erano dei vagoni letto con della gente dentro.

Lo fermarono lì e c’erano prigionieri politici, militari e civili.

I civili erano ben messi.

Allora questa gente, fermato il treno a mezzogiorno, sparpagliati un po’ qua e un po’ là… Poi c’erano le patate che erano nate così, un campo di patate… Hanno cominciato ad accendere il fuoco, con le patate… , quella disgraziata di contadina là ha cominciato a urlare e quando sono arrivati gli americani hanno detto: “Cosa succede?” E lei ha risposto: “Guardi il campo, uccidono le galline…”

Ha sparato in aria questo americano.

Arrivato sui vagoni, cosa è successo? Vennero dentro due ragazzi tedeschi, austriaci… lì hanno preso questi ragazzi e li ammazzavano. Se non arrivava l’americano ammazzavano, ha cominciato a dare ordine di sparare in aria altrimenti li ammazzavano sul serio.

Da lì, verso sera siamo arrivati in un altro campo, anche lì un campo di concentramento, di lì ci hanno fatto scendere piano, piano e la prima cosa che ho cercato, ho cercato un letto. “Stasera, italiani”, dissero, “facciamo i maccheroni”.

Dopo un po’ che ero lì sdraiato, sentii: “Vieni…” Risposi: “Cosa è successo? Cosa c’è?” “Vieni”, mi dissero.

Allora mi alzai piano piano e quando sono arrivato a metà strada, vidi un gruppo di gente americana. “Cosa è successo?” dissi.

“Ti ricordi quello che ti ha spaccato la schiena? E’ un italiano”.

“Cosa dici?” risposi. “Ha avuto il coraggio di venire con noi. Mi ha aperto le valigie: orologi, collane d’oro… mi hanno ammazzato di botte”.

Sono arrivati gli americani…, ma penso…ha avuto un bel coraggio a venire via con me…. Come faceva questo a sapere che lui mi ha massacrato di botte?

Arrivati a Bolzano, il treno camminava piano piano, la gente a baciare la terra…, arrivati a Bolzano, tutti questi signori con le fotografie dei figli e dicevano: “Questo lo conosci? Lo hai visto?” E’ difficile ricordarsi.

Oltretutto dove lavoravo io…., senza niente, si cambia fisionomia e cambia tutto. E mi hanno dato un uovo con un panino, mia madre mi dava dei soldi…, ho aperto l’uovo e lo mangiavo con il pane.

Poi hanno detto: “Venite, ragazzi che vi diamo dei vestiti civili, venite che buttate via quelli lì”. Dicemmo: “Va bene”.

Mi hanno dato i vestiti civili, sono arrivato lì e mi hanno detto: “Mi dispiace, abbiamo solo una camicia”. Rigata anche quella. “Mi dia pure la camicia” dissi.

Dopo un po’ mi dissero: “Vai all’ospedale”.

Ma io risposi: “Non mi prendono neanche vedendo che io sono tubercolotico”.

“Ma dai”, mi dissero, “cosa dici?”

Dissi:” No, non ci vado”, finché la febbre mi ha convinto e sono andato dentro all’infermeria in ospedale, avevo il pus che mi colava…, avevo tutto sangue marcio. Volevano operarmi. Ma io dissi: “No, mi hanno già operato due volte, quel cane là”.

Fatto sta che in ospedale mi misero in un letto con lenzuola bianche, coperte bianche, dormivo un po’ di qua e un po’ di là…, mi hanno fatto delle punture e dormii tutta la notte. Alla mattina dormivo ancora e sentii: “Quelli di Udine si presentino che stamattina si parte e si va a casa”. Così pian piano mi sono svegliato, mi hanno preso mi hanno portato sulla corriera e siamo partiti.

Dove c’erano dei punti che non erano sicuri, facevano scendere tutti e passava l’autista. Dove si mangiava, nei posti in cui loro avevano già preparato per mangiare, sempre dalle suore o dai preti, mangiavo, ma appena mangiavo mi facevo tutto addosso, non tenevo più.

Avevo talmente la pelle che non tenevo più niente, avevo fatto tutto addosso. Allora mentre andavano a mangiare, io andavo al gabinetto…. “Dai, vieni a mangiare” e io dicevo “No, non ho fame”. Non potevo dire all’autista: “Fermati” a metà strada, per me.

Siamo arrivati a Pordenone e … mi ha convinto a medicarmi. Sono andato con lei, mi ha medicato e tutto, e poi da lì siamo arrivati a Udine alla sera.

Ha avuto un bel cuore di dire: chi vuole andare a casa, lo portiamo a casa.

E lì sono andato alle scuole IV Novembre che erano le scuole apposta per gli ammalati, IV Novembre ad Udine. Lì c’era il dott. De Bellis, con le suore lì dentro. Il dottore mi disse: “Avvisiamo tutte le vostre famiglie”.

Dissi: “Dott. Bellis, mi faccia un piacere, non lo dica a nessuno dei miei”.

“Perché?” mi disse. “Se mi vedono così…, sono pelle e ossa”.

“Va bene”, mi rispose.

Andai a letto, mi medicavano, mi misero una zanzariera contro le mosche per tutto il pus che mi colava giù, finché un giorno un pomeriggio dopo mangiato, sentivo parlare, dopo un po’ sento che uno mi scuote. Dissi: “Cosa c’è?” E’ venuto un signore con il dott. De Bellis, e lui ha detto: “Questo è Cosmar”.

“Ma non è mio figlio questo qui, ho visto mio figlio prima di partire per la Germania, non sarà mica ridotto così. No… Poi, vede che ho la lettera che mio figlio è morto a Mauthausen.”

Poi allargarono la zanzariera e parlava con questo dottore che mi voltava la schiena, parlava con il dottore. Allora mi sono affacciato alla porta e dissi: “Papà”!

Quando si è girato, quel che si è sentito lui non lo so dentro di sé, ma so che non è riuscito a parlare per un bel po’.

Disse: “Sei proprio te?”

Dissi: “Sono proprio io, sono arrivato”.

Di quelli che arrivavano della Croce Rossa Internazionale del Vaticano, gli ammalati arrivavano lì e dopo due o tre giorni morivano tutti. Erano già alla fine, senza avere neanche la soddisfazione di vedere i propri familiari.

E’ quello che mi fa rabbia.

D: Quando sei entrato lì quand’era?

R: Era il 26 o 28 giugno.

D: Del 1945?

R: Sì.