Dalmasso don Angelo

Don Angelo Dalmasso

Nato nel 1918 a Robilante (CN) 

Intervista del: 01/09/2000 a Cuneo realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 46 – durata: 56′

Arresto: 3 gennaio 1944 a Cuneo
Carcerazione: a Cuneo: nel Palazzo Littorio, nella Caserma Piglione, nelle Carceri Giudiziarie; a Torino: nelle Carceri Nuove, all’Albergo Nazionale
Deportazione: Bolzano, Dachau
Liberazione: fine aprile 1945 a Dachau da parte dell’esercito americano.

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi presento, sono Don Angelo Dalmasso nato a Robilante in provincia di Cuneo, nella Valle Vermenagna, il 28 settembre del 1918. Sono stato in seminario a Cuneo, allievo poi dei collegi salesiani di Avigliana, Pinerolo, Torino, Foglizzo, poi sono ritornato in seminario e sono stato ordinato sacerdote il 19 di giugno del 1943, proprio i giorni in cui scoppiava l’inizio dell’epopea della Resistenza.
Il 19 di settembre di quell’anno io ero stato assegnato come vice parroco alla parrocchia di Sant’Ambrogio in Cuneo; il 19 settembre di quell’anno avveniva l’eccidio di Boves, ed uno dei miei compagni di ordinazione, Don Mario Ghibaudo, veniva ucciso dai tedeschi con il parroco Don Bernardi Giuseppe.
Gli eventi andavano avanti, si formavano le prime formazioni partigiane, soprattutto dei giovani delle nostre parrocchie, che non volevano andare alla leva fascista, alla leva, soprattutto i ragazzi del 1925-26 non volevano aderire alla leva fascista. E allora si formavano sulle montagne alcuni dei primi nuclei partigiani.
Uno dei primi fondato, diretto dal capitano Prato, si riunì a Monfranco, una località sopra Bandito di Rovaschia, nella Val Gesso. A natale del 1943 sempre, i giovani che erano quasi tutti appartenenti alle associazioni giovani di azione cattolica delle parrocchie cittadine di Cuneo, non volevano stare senza la messa di natale, e volevano scendere giù a Rovaschia per la funzione di mezzanotte. Circolavano già notizie che i Muti e soprattutto quelli di Salvi, il famoso comandante della Littorio mi pare, avrebbero fatto una rappresaglia nel paese.
Allora pregarono il vescovo di Cuneo di mandare un sacerdote a dire la messa di natale. Io ero vice parroco a Sant’Ambrogio che è attiguo al vescovado, il vescovo Monsignor Rosso mi mandò a chiamare, non mi comandò né mi propose di andare, mi disse se volevo andare, quindi sono andato di mia iniziativa si può dire, non perché il vescovo me lo abbia fatto fare. E sono andato a dire la messa su alle Baite di Monfranco, abbiamo detto la messa, i partigiani con quel capitano Franco che erano lì mi hanno dato un piccolo ristoro, ricordo della pastasciutta senza condimento. Poi siamo scesi giù e il giorno dopo nella chiesa di Sant’Ambrogio sono arrivati, non so se erano fascisti o chi erano, han chiesto di parlare con me, mi hanno prelevato e mi hanno portato dove c’era la sede del Littorio, adesso mi pare via XX Settembre, adesso è sede dell’Ufficio del Registro, mi pare.
A Cuneo allora nella chiesa di Sant’Ambrogio era il 3 gennaio, o il 2 gennaio, non ricordo ben preciso, ma mi pare il 3 gennaio (1944), era il primo venerdì del mese, i ragazzi dopo aver fatto una partita a pallone ci si radunava alle tre per un’ora di adorazione. In quel momento ho visto arrivare dei tipi strani in chiesa. Hanno aspettato che io finissi la funzione e mi hanno detto che volevano parlare con me. Io ho capito l’antifona, “qui vengono a prendermi”, c’erano già stati diversi arresti in città, soprattutto di esponenti antifascisti e soprattutto di sinistra. Allora ho chiesto di andarmi a prendere il cappello e avevo proprio l’idea di scappare attraverso il tetto della canonica, che era congiunto col Teatro Toselli, con l’Istituto San Michele, sapevo già la strada, sarei scappato, ma poi ho incontrato sulle scale il parroco che mi ha detto: “Se è solo per parlare non c’è motivi, vai pure”. Allora io ho preso il cappello e sono andato, mi hanno portato al Palazzo Littorio, che è in via XX Settembre mi pare, angolo, l’altra via non la ricordo bene. Lì un certo Commedi, che era della giustizia fascista o che so io, mi ha interrogato, ha chiamato anche un altro prete che era di Sant’Ambrogio, che loro conoscevano, Don Falco Carlo, e poi hanno telefonato all’Luesco, al Prefetto e ci hanno portati alla Caserma Piglione, che poi è stata destinata a distretto militare, ora però chiuso. Nella caserma Piglione ci hanno messo in una camera, una specie di cella, noi due preti, e siamo stati lì 4 o 5 giorni. Comedi con un altro è venuto sovente a interrogarci, e in quell’occasione hanno portato anche dei ragazzi della milizia della Littorio che noi avevamo preso in parrocchia per aiutarli. Forse proprio loro hanno fatto la delazione, sono stati la causa del nostro arresto. Lì per farmi paura volevano chiedere nomi, località. Io ero solo andato a dir messa, sapevo ben poco. Allora han fatto chiamare il plotone di esecuzione, era la sera del 4 gennaio, mi pare, verso le 16.00, mi ricordo lì nella caserma Piglione, mi hanno messo il plotone davanti e io cosa potevo fare? Ho detto che io, quello che volevano sapere, non lo sapevo, non ero a conoscenza di altri dislocamenti partigiani né di nomi né di famiglie di parenti di questi partigiani. Allora hanno parlottato tra di loro, poi mi hanno riportato in cella, “vedremo domani”. Il giorno dopo la stessa commedia; ricordo che Don Falco, bravo, dalla finestra della cella mi dava la assoluzione mentre io ero là davanti al plotone di esecuzione e poi anche la seconda, la terza e la quarta volta è finito tutto così in commedia. Poi dalla caserma Piglione ci hanno portati alle carceri di Via Leutrum, le vecchie carceri giudiziarie di Cuneo, che erano proprio nel territorio della parrocchia di Sant’Ambrogio, e io come viceparroco andavo a fare il cappellano lì, il vero cappellano era il parroco ma la domenica io andavo sul posto a dire messa.
Mentre andavamo giù, e io lì ero praticissimo, passando in piazza Virgilio c’era un funerale di un bambino, ricordo, quei funerali degli innocenti, sapevo già che c’era un’entrata in un vecchio palazzo dove si entrava in una cucina che dava in una bettola e si usciva poi nei portici di via Roma. Ho cercato di scappare ma ho visto che chi mi accompagnava aveva già la pistola in mano, e allora ho detto “rinuncio”. E ci hanno portati alle carceri giudiziarie, lì hanno fatto tutta la trafila abbastanza umiliante dell’ingresso in prigione, con la presa delle impronte, poi la spoliazione, poi tutto quel che c’era, e ci hanno confinati alla cella zero, Don Falco, io, e un tipografo di Cuneo, anche lui reo di aver stampato le preghiere dei partigiani e altre cose di propaganda antifascista, antitedeschi insomma.
Lì nella cella siamo stati febbraio, tutto marzo, aprile, maggio, fino a febbraio, perché verso la fine di febbraio ci hanno trasferiti a Torino. So che il parroco che era cappellano del carcere è venuto di sera, ci ha detto che le ragazze dell’Istituto San Michele passavano la notte in preghiera, ci aveva fatto capire che c’era qualcosa in aria, e avevano organizzato con i partigiani, mi pare che era Blengino, a lui poi hanno dedicato un’aula scolastica a San Lorenzo di Caraglio dove poi sono stato parroco. E lì io volevo sapere qualche cosa di più, lui mi ha solo detto di stare molto attenti, di avere molta fiducia e di avere molta speranza. Siamo partiti, era ancora buio, caricati su un vagone, eravamo 12, 13, da Cuneo, chiusi in uno scompartimento di quei vagoni antichi, di terza classe, tutto chiuso, sia gli sportelli per aprire sia anche i vetri per aprire, e arrivato lì ad un certo punto alla stazione di Maddalene entrano un signore col mitra, c’erano due tedeschi lì sul vagone con noi, poi hanno cominciato a sparare, io mi son visto proprio il fuoco che si incrociava sopra di noi, mi sono messo sotto la panca, un ragazzo di Sant’Ambrogio che era con me si è accucciato lì con me, Don Falco diceva l’atto di dolore. E poi hanno colpito un tedesco che mi è cascato proprio addosso. Solo che la cosa si è svolta in pochi secondi. Sulla porta dei due corridoi del vagone sono comparsi subito due carabinieri in tenuta, col mitra spianato lì. Poi il treno è subito partito tra gli spari. Se avessero staccato la locomotiva forse qualcosa si poteva concludere. Uno scrittore, uno storico cuneese, Fresia, ha scritto un libro, “L’immane sconquasso”, e fa memoria di questo fatto della stazione di Maddalene, solo che dice che quei prigionieri hanno preferito seguire il loro destino invece di approfittare. Io ho provato a toccare lo sportello ma era bloccato, anzi non c’era neanche più la maniglia, quindi come.
Poi quando sono ritornato, dopo, le cose si sono un po’ chiarite, ho cercato di parlare a questo: “ma a me avevano detto così”, forse anche i partigiani stessi per scusarsi della non riuscita, come era finita male l’azione, avevano inventato questa storia. E noi pensate con che animo siamo andati da Maddalene a Torino. A Savigliano hanno scaricato il tedesco morto, pensavamo che a Torino ci passano tutti per le armi, invece a Torino ci hanno portati all’Albergo Nazionale, sono ancora andato qualche volta a prendere un aperitivo. Portati su al primo piano, e lì subito ci han fatto stare, era il mattino ancora relativamente presto, siamo arrivati alle nove.

D: Scusa Angelo all’Albergo Nazionale cosa c’era?

R: C’era il comando delle SS tedesche, in via Roma proprio dietro quella piazzetta che c’è dietro le chiese di San Carlo e Santa Cristina.
Ci hanno portati su nel corridoio, siamo stati fin verso le sei del pomeriggio con la faccia al muro, senza niente. Io ho visto un maresciallo tedesco, un po’ bonaccione, un po’ grasso, e gli ho chiesto, sembrava un brav’uomo, gli ho chiesto da mangiare, mi ha portato un pezzo di pane. Poi aspettavamo lì, dico “o ci ammazzano o cosa fanno?”. Verso sera, verso le sei ci hanno portate alle (Carceri) Nuove e io sono andato a finire nella cella 71 del primo braccio, riservato ai tedeschi, braccio 1 e braccio 3, perché erano due i bracci. E lì sono stato, prima c’era già con me un sacerdote di Alessandria, di Solero, Don Robotti, anche lui faceva un po’, lui era un ex missionario, veniva dagli Stati Uniti, missionario degli emigranti, una persona un po’ irrequieta e si vede che l’avevano beccato per quello. Poi dopo un po’ di tempo mi hanno fatto star solo per diversi mesi, e sopra c’era scritto “sorveglianza speciale”. Poi sono arrivati altri compagni di cella, adesso lì per lì non posso ricordarli subito, se volete posso ricordare un papà, un vecchietto di Martignana Po che aveva il figlio in una cella vicino. Poi Cotta che aveva sposato la contessa di Robilant. Poi c’è passato un dottore di Milano, dottor D’Alessi, abitava in via … adesso non mi viene. Poi l’avevo incontrato, era però ammalato già ed è morto un po’ dopo la liberazione, l’avevo ancora incontrato a Milano. E siamo stati lì sempre chiusi, non ci portavano mai all’aria, eccetto una volta ci han portati sulla collina di Torino, a Villa Genero, che era presa agli ebrei, le SS ne avevano fatto un po’ il loro ritrovo, ci han portati lassù per pulire i viali, per fare dei lavori.

D: Scusa Angelo, tu avevi sempre il tuo abito talare?

R: No, in cella lo lasciavo appeso a un chiodo, lo mettevo quando mi portavano agli interrogatori. E mi ricordo una volta passavo per via Roma con le manette e due tedeschi per andare al Nazionale, e tutti mi guardavano. Lì al Nazionale di interrogatori ne han fatti diverse volte. C’era un certo tenente Peiper, che interrogava. Prima sembrava buono, c’era un’interprete, una signora. Poi ad un certo punto diventava anche furioso, aveva una riga di quelle lì da disegno, me l’ha rotta sulla testa. Chiedeva nomi, tutte cose che io sentivo da lui, che non avevo mai saputo, e quindi lui si infuriava. E poi dopo di nuovo riportato lì alle Nuove, fin verso settembre. A settembre ci chiamano tutti e dicono che ci mandavano a lavorare come tagliaboschi nel Tirolo. Per me uscire dalla cella era una liberazione, perché sempre quasi solo lì, non sapevo come passare il tempo. Scendo giù, sempre ho preso la mia talare, me l’avevano lasciata lì in cella, era già rossa di cimici, l’ho scossa un pochino, e poi lì ho avuto la fortuna di incontrare padre Girotti, che era già lì con tanti altri che aspettavano di partire. Ci hanno incolonnati lì, eravamo circa un migliaio o anche più, io ho approfittato per confessarmi, era otto mesi che non mi confessavo più, perché era venuto il cardinal Fossati a portare la comunione, ma aveva dato l’assoluzione in genere ma non aveva potuto avvicinare nessun sacerdote. Così abbiamo fatto amicizia e ci hanno portati a dei pullman che sostavano su corso Regina Margherita, lì di fronte alle Nuove. Ricordo che appena entrato io mi sono fermato un momento, sono stato un istante solo per dare uno sguardo a vedere se c’erano due posti da sedere per stare vicino a padre Girotti. Padre Girotti era dietro di me, un tedesco gli ha dato uno spintone che ha spinto me e lui proprio nel piccolo corridoio tra i sedili. Gli occhiali di padre Girotti sono andati dispersi, io mi sono arrabattato, li ho trovati, li ho rimessi un po’ in sesto perché si erano stortati, e così abbiamo cominciato il nostro viaggio per andare in Germania a lavorare, in Tirolo loro dicevano. Poi di sera, arrivati a Milano, ci hanno fermati nei sotterranei di San Vittore. Lì sono venute delle suore, c’erano sempre i tedeschi, a darci della roba da mangiare, anche a Torino ci avevano dato qualcosa, ma senza niente non sapevamo dove mettere. Lì è venuta una suora, poi ad un certo punto un tedesco, visto che queste suore si avvicinano troppo, ne ha presa una per il velo, gliel’ha strappato e l’ha strattonata via. Mi pare che questo episodio è ricordato nel triangolo rosso di don Liggeri. Ad un certo punto proprio lì nei sotterranei di San Vittore chiamano me e padre Girotti. Io pensavo “Qui il cardinal Schuster ha saputo qualcosa, magari ci vuol liberare”. Il cardinale Schuster aveva saputo di questo, solo aveva cercato di telefonare in serata, ma dice, non so se “Il Triangolo Rosso” o chi, dice che le SS erano tutti completamente ubriachi, non ha potuto avvicinare, parlare con nessuno. Solo che nella nostra chiamata in disparte ci avevano i nostri documenti, era perché i preti dovevano essere tre, e invece eravamo solo due, per questo han fatto tutta questa… E poi ci hanno ricaricati sui pullman, ricordo siamo passati a Verona, mi ricordo sempre di una chiesa con le luci accese alle finestre, ho detto “Ma guarda un po’, chissà quando potrò ancora arrivare” e ci hanno portati a Bolzano. Per me Bolzano è stata un po’ una boccata d’aria dopo nove mesi di cella, e lì ho incontrato già altri sacerdoti, altri amici. C’era il parroco di Soave, don Alessandro Aldrighetti. Poi c’era don Berselli di Mantova, c’era don Mauro Bonzi di Desio, c’era anche padre Gaggero che poi ha saltato un po’ il fosso ed è andato dall’altra parte, ma allora faceva tutto bene. C’erano solo questi. E siamo stati lì una quindicina di giorni, da metà settembre ai primi di ottobre. Era bello perché ci portavano a raccogliere mele nei frutteti lì intorno, c’era Ravinale, un comandante partigiano, i primi comandanti partigiani della Risalta, quindi Cuneo che aveva fatto provocare i fatti di Boves, questo Francesco Ravinale detto comandante Franco, padre Girotti ed io nella squadra, e andavamo a raccogliere mele. Il padrone ci lasciava portare, prendere a noi le mele che cascavano per terra. Solo che noi facevamo finta di essere poco pratici, usano quelle scale con un palo solo non con due pali gli scalini in mezzo, lì c’era un palo in mezzo con gli scalini a parte. E quando c’era il cesto un po’ pieno davamo il giro e così potevamo portare mele nel campo agli altri che era anche scarsi.

D: Scusa Angelo, quando sei entrato nel campo di Bolzano sei stato immatricolato?

R: Sì ci hanno dato, tolto tutto quel che avevamo, ci han dato una tuta blu con una croce sulla schiena, e poi un triangolo con un numero da applicare sui pantaloni, sulla gamba. E io ce l’ho ancora.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: Se volete ve lo faccio vedere, è lì, 4 mila e rotti. Poi a Bolzano, come dico, si stava relativamente bene, ho fatto amicizia con due ragazzi toscani, che sono riusciti a scappare, che andavano a lavorare fuori. Io ho detto “quasi quasi mi ci metterei anch’io”, ma io non ero in quel comando di lavoro. Loro poi complottavano con me, non sapevamo che tra i prigionieri, finti prigionieri, c’erano di quelli che facevano la spia, e soprattutto uno scugnizzo là. Difatti dopo la fuga di questi due ragazzi mi mandano a chiamare durante l’appello, chiamano me all’ufficio lì e il maresciallo tedesco quando rientro, era appesa lì al muro una striscia di cuoio, la prende in mano, e comincia a dirmi “tu eri amico di quei due?” “sì sì, mica da negare niente, erano miei amici perché dormivamo quasi vicino, assieme”. “Loro dovevano scappare, tu hai saputo che loro volevano scappare?” “Tutti vorremmo scappare” gli ho detto “perché qui è sempre prigione, noi la libertà è sempre una cosa che tutti cercano” perché proprio don Pedrotti aveva portato nel campo qualche cosa di viveri, e io avevo dato a loro qualche cosa “ma tu hai dato da mangiare a loro?” “sì sì, ci han dato della roba, noi come sacerdoti dobbiamo far parte agli altri, spezzare il pane con gli altri”. Aveva sempre questa cosa in mano, me la accarezzava sulla testa, e poi non mi ha picchiato, niente, è stato soddisfatto della mia falsa ingenuità e mi ha rimandato indietro. Gli altri tutti fuori, i preti dice che pregavano, gli altri tremavano, poi non hanno sentito né gridare né urlare, mi sono di nuovo messo al mio posto. Qualche tempo dopo, giorni dopo, mi pare 4 o 5 giorni dopo, ci hanno chiamati che ci portavano in Germania.

D: Ti ricordi il blocco in cui eri lì a Bolzano?

R: I blocchi erano dei capannoni, avevano un numero ma io proprio ricordare il numero, era il quarto o il quinto mi pare. In principio c’erano delle donne, era il quarto o il quinto, adesso ricordarlo bene sa, sono 50 e più anni passati. E so che in fondo al campo c’erano le latrine, lì si andava ordinatamente, gli ebrei facevano la guardia, gli ebrei avevano il triangolo giallo, noi rosso, c’era chi aveva il triangolo verde, chi aveva il triangolo nero, chi rosa, ecc. Noi rossi eravamo i politici. Poi ci hanno portati … un bel giorno ci hanno chiamati che andavamo in Germania, ci han ridato le nostre cose, io ho preso la veste talare, l’ho messa, e siamo andati, non era una stazione, era una strada dove c’erano le rotaie, il treno si è fermato lì, ci hanno caricati. Saliti lì sopra, 70 per vagone, di quei vagoni bestiame. Ho detto “durerà poco perché come si fa a star qui”, voi capite che la gente ha delle necessità, fisiologiche, succedeva quel che succedeva. So che era domenica. E lì chi bestemmiava, chi urlava, nei primi chilometri dopo Bolzano per andar su verso il Brennero, ad un certo punto gli ho detto: sentite io sono un prete. E lì han cominciato ad urlare anche di più. “Ma guardate che oggi è anche domenica, se non ci rivolgiamo a Dio qui gli uomini nessuno ci può aiutare”. Allora si son calmati, abbiamo detto tutti insieme il Padre Nostro e poi mi hanno ringraziato di quel momento di pausa, di tranquillità.
Alla stazione mi pare di Fortezza o di Brennero, ci han fermati lì molto tempo, perché avevano notato che qualcuno aveva tagliato il vagone e proprio nel nostro vagone uno aveva fatto un buco. Allora arriva un tedesco “Messer, Messer, Messer”. Per me “Messer” voleva dire tanto pane come acqua, ho poi capito dopo che voleva dire i coltelli, chi aveva dei coltelli.
Allora han trovato questo qui, c’aveva il coltello, l’hanno portato fuori, e poi gli han preso il coltello, gli han due o tre spintoni, poi l’han rimesso dentro. Mentre aspettavamo lì, c’era, voi sapete che i vagoni bestiame hanno quei piccoli finestrini triangolari in angolo, il finestrino è bordato di ferro, una cornice, una specie di bordo di ferro. Un ragazzo aveva messo la mano lì per appoggiarsi con le unghie fuori, le falange delle dita fuori. Un tedesco di fuori col calcio del fucile gli ha schiacciato tutte le unghie sopra questo, immaginatevi quel povero ragazzo. Io avevo un pezzo di fazzoletto, l’ho stretto lì, l’abbiamo adagiato in terra, io lo tenevo per la testa, finché poi il treno è partito, lui si è calmato un po’, i dolori gli son passati e siamo arrivati a Dachau.
A Dachau, ce n’è voluto, quasi due giorni ci abbiamo messo, tutti i momenti ci fermavano. Arrivati a Dachau non era anche lì una stazione, in piena campagna ci han fatti scendere, padre Girotti ed io ci siamo messi i primi, saremmo stati circa un migliaio e più, e ci han portati lì al campo di Dachau. Io ho visto quelle parole là “Arbeit macht frei” adesso non le ricordo neanche, ho poi saputo dopo che vuol dire che il lavoro rende liberi, anche gli schiavi fanno il lavoro.
Arrivati lì tutta la pietosa funzione dell’arrivo. Prima cosa arriva uno a urlare, urlava in tedesco, io capivo niente, finché viene un prigioniero vestito con i vestiti, i più fortunati avevano i pantaloni e il giubbotto a strisce bianche e blu, e si avvicina a me e dice di spogliarmi, era un sacerdote, padre Soste, del Lussemburgo. Dice “spogliati”, lì davanti a 2.000 vestito da prete, mi sembrava poco, padre Girotti mi fa “siamo arrivati alla decima stazione della Via Crucis, Gesù spogliato delle sue vesti.” Abbiam cominciato, ma il disagio è passato subito perché eravamo tutti, migliaia, eravamo tutti in stato adamitico. Siamo andati verso il capannone della disinfezione. Poi ci hanno dato una specie di straccio che copriva appena il necessario, e ci hanno portati alla baracca di quarantena, blocco 25, blocchi chiusi. Vuol dire che di lì non si usciva la sera, gli altri potevano dopo il lavoro, dopo la cena, chiamiamola cena perché è un insulto dir cena a quella brodaglia che ti davano. Quelli lì potevano uscire sulla piazza d’appello o sul viale, invece gli altri che erano nei blocchi dispari, fatti da quarantena, da ebrei, non potevano mai uscire.
Lì sono stato altri 15 giorni, eravamo quasi nudi, e nella baracca si poteva entrare solo per mangiare e per dormire, sempre fuori, al freddo, alla pioggia. E allora ci ammucchiavamo tutti lì e i più giovani da far da copertura esterna per riscaldarci un pochino. Ricordo sempre che un padre domenicano, padre Rot, che poi l’han trovato morto proprio lì a Dachau, era venuto, lui era di Colonia, ma era venuto a fare il cappellano di quella specie di cappella che sembra un tucul africano che han fatto in fondo là, quella rotonda con quella croce, quella corona di spine. Avendo saputo che c’era padre Girotti gli aveva portato un pezzo di formaggio a padre Girotti. Ma pensate se non è un santo padre Girotti, lui aveva solo 39 anni, moriva di fame come me, dice “no tu sei più giovane, hai più bisogno” e me l’ha dato, “mangialo tu”. Io poi avevo ancora salvato non so come, una scatoletta di piselli, e c’era un giovane francese, ha visto che io avevo quello straccio un po’ più decente, se mi dai quella scatoletta io ti do la mia canottiera, e l’ho cambiata, e poi ho detto “ma guarda un po’ come sono cattivo io che vendo la prigenitura per un piatto di lenticchie.” E quel ragazzo che ha fatto lo scambio era un seminarista francese. Poi è andato bene che noi sacerdoti, dopo qualche giorno, non 15 giorni di quarantena, un episodio lì mi ricordo sempre che, io ero dei più giovani perché avevo 23, 24 anni, mi han chiamato dicendo che ero incaricato di pulire il Wäscheraum, cioè i gabinetti. Io ho pensato bene di dire ad un altro che era lì “ma digli un po’ che io sono un prete”. L’avessi mai detto! Non l’ho più detto un’altra volta. Poi fortunatamente ci hanno portati al Block dei preti, che era proprio di fronte. Noi in quarantena eravamo il 25, di fronte il 26, Block liberi, liberi così, cioè aperti. C’erano tutti i sacerdoti, e lì c’erano già tanti altri: padre Manziana che è diventato poi vescovo di Crema, c’era don Fortin di Padova, c’era don Vismara di Bergamo, diversi altri, perché poi da Bolzano eravamo arrivati anche noi, altri 4 o 5. Poi sono arrivati da Mauthausen ancora altri in seguito. E lì tra sacerdoti, oddio era sempre Dachau, era sempre campo di eliminazione, ma eravamo tutti preti e nessuno rubava ad un altro, nessuno maltrattava l’altro. Però qualche volta i nervi scattavano anche lì, il Blockältester aveva tutto il suo da fare, era un bravo prete del Vorarlberg, una parte del Tirolo verso la Svizzera, a rimettere la pace, a mettere le cose a posto. Alla domenica il vescovo di Clermont Ferrand diceva messa, e al mattino poi, ad un certo punto lasciavano dire una messa, ma eravamo tremila e più preti lì, non si poteva dire, allora noi si concelebrava, diceva messa uno, e poi si andava al lavoro. Alla domenica invece il vescovo diceva messa più tardi per tutti. E qualcheduno riusciva a venire. Mi ricordo che veniva lì un francese che poi è stato ministro di De Gaulle (L’Abbè Pierre pseudonimo di Henri Antoine Grovès).
Nei giorni feriali andavamo a lavorare. Io ho cercato subito di trovare un posto di lavoro, perché a quelli che lavoravano alle dieci c’era il Brotzeit, tempo del pane, davano un piccolo supplemento di pane con un po’ di margarina, e quello aiutava a sopravvivere, perché con la razione del campo se sono venuto a 32 chili, io che adesso sono 80, è segno che le razioni erano molto molto misurate. Ho cercato un lavoro. Prima sono andato a scavare delle fosse, picco e pala, delle fosse profonde dove forse volevano fare o delle fossi comuni per i cadaveri, perché era proprio nella zona del crematorio, o nascondere, mi dicono, dei carburanti, questo non lo so. Però siccome era un po’ gravoso, appena ho potuto mi han chiesto di andare a fare un altro lavoro, un altro lavoro che consisteva nell’andare in una baracca vicino al campo, ci davano degli indumenti recuperati ai prigionieri, noi facevamo delle strisce, attaccate lì ad una sbarra facevamo delle trecce che poi arrotolavamo, dice che servivano – almeno questa è una spiegazione – facevano delle ballottole impastate con pece, servivano da cuscinetto alle navi che si avvicinavano al molo. E lì quando suonava l’allarme precipitosamente ci portavano di nuovo in baracca. Tutti si andava al nostro posto, eravamo rigorosamente al nostro posto. Un giorno vado al mio posto, ne trovo già uno, dico “no, è il mio posto”, e l’altro parlava in tedesco, io sapevo solo l’italiano, finché arriva la SS l’altro si è spiegato in tedesco, e il tedesco ha sentito nessuna spiegazione, aveva in mano quegli anelli di ferro, mi ha sferrato un pugno sulla mandibola e ho sputato 4 molari lì.
Poi, visto che quello era pericoloso, ho visto che dove stavamo facevano un altro lavoro, quello di far le asole alle tele mimetizzate, attaccar bottoni e fare asole. Io ho ancora adesso di quei bottoni, se volete ve li posso dare, se no poi li perdo. Ero diventato già un artista a fare asole, proprio bene le facevo, quantunque bisognava un po’ boicottare, non farle bene. Lì è andato fin verso aprile, quando ad un certo punto né più si lavorava, né più si usciva. Ad un certo punto neanche han detto di star tutti chiusi, e poi facevano dei Transport, portavano via della gente e volevano che anche alcuni di noi partisse con loro. E i preti nessuno voleva andare. Don Foglia, che era il parroco del Moncenisio che è andato poi, era di Susa lui, della diocesi di Susa, era poi andato in Brasile, e poi è morto cappellano di un ricovero di vecchi vicino a Passau, in Germania, ha detto “andiamo, qualcuno bisogna che vada, se no li obbligano”. Allora noi due ci siamo offerti, ci hanno dato una scatoletta con le ostie consacrate, e siamo andati lì, aspettando. Ho saputo che poi portavano fuori del campo e li falciavano tutti con le mitragliatrici, perché vedevano che gli alleati avanzavano e volevano sbrogliare il campo. Solo che in quel momento è venuto un acquazzone di quelli che Dio manda, e ci hanno mandati tutti nelle baracche. Ricordo ancora gli altri preti quando ci han visti arrivare dire: “Non sono partiti, sono ritornati”.
E così poi stavamo chiusi nelle baracche, non si sapeva niente; sapevamo perché i sacerdoti polacchi erano molto organizzati, avevano una radiolina nascosta e sapevano un po’ tutte le cose. Poi ci avevano ad un certo punto portati nella baracca dei polacchi, perché lì arrivavano sempre prigionieri, sia l’angolo di cappella sia le nostre camerate, già strapiene, sono state date a loro e noi trasferiti di là.
Finché ad un certo punto non si sapeva più niente. La storia l’ho poi saputa tutta dopo, l’ordine era di Himmler, di bruciare con i lanciafiamme tutto il campo e non lasciare nessun vivo in mano agli alleati. La cosa si è risaputa perché uno dei prigionieri, un cecoslovacco faceva da cameriere alla mensa delle SS, e ha visto che leggevano questa lettera, discutevano, disapprovavano. E poi l’han strappata e l’hanno lasciata lì. Lui facendo pulizia l’ha presa, l’ha portata all’abate di Olomuz che era lì con noi, lui l’ha ricomposta, e così noi sapevamo, aspettavamo che venissero a bruciarci vivi.
E lì la tensione era alta, stavamo, finché ad un certo punto un padre gesuita belga, padre Koening, che faceva tutte le sere un pensiero di meditazione quando era già tutto spento, in mezzo ai castelli, diceva due minuti in latino, un pensiero di meditazione spirituale. E poi dice: state bravi, facciamoci coraggio, la chiesa guarda noi, lo sapranno tutti, ricordate l’esempio di San Lorenzo. Poi quando sono andato parroco a San Lorenzo mi sono ricordato, ma lui è stato meno fortunato di me, che l’han bruciato vivo. Finché ad un certo punto era proibitissimo affacciarsi alle finestre ecc. Un prete belga, Koening si chiamava, no era bretone, i cognomi dopo tanti anni sfuggono, Romueil, o un altro. Si butta contro la finestra, esce fuori e va lungo il cortile per andare verso il cancello che separava il viale dal cortiletto della baracca.
Aspettavamo che le mitragliatrici cominciassero a sparare perché tutti i momenti si sentiva una sventagliata, lì era solo cose di cartone o di eternit, le pallottole passavano. Invece niente. Ad un certo punto questo qui, là dal cancello, si mette a gridare “sunt americani sunt” lì noi si parlava sempre in latino, allora la baracca si è sfasciata, tutti fuori, più nessuno ha ascoltato. Mi ricordo che monsignor Trochta, avevo fatto amicizia anche, era lì con me, cecoslovacco, che poi è diventato arcivescovo, cardinale ed è venuto a San Lorenzo a trovarmi. Mi ha preso per mano: non fare imprudenze. Siamo usciti anche noi, abbiamo girovagato un pochino per il campo, siamo andati, c’era anche un padre oblato italiano, padre Pinamonti con noi. Siamo andati fuori, lì erano tutti i magazzini delle SS, abbiamo visto cose meravigliose, magazzini dei fischietti, magazzini di stoffe. Io cercavo anche della stoffa bianca e nera per fare, bianca rossa e verde per fare una bandiera italiana. E poi fortunati abbiamo trovato una gallina sperduta che girava là. Io l’ho presa, l’abbiamo portata in là, e con una resistenza che ci eravamo organizzati l’abbiamo fatta bollire, e monsignor Trochta, che era allora un semplice prete, io e Pinamonti e Manziana abbiamo festeggiato la liberazione con brodo di gallina e carne di gallina.
Poi siamo stati lì.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Era verso la fine di aprile, 29, 28, non so, verso la fine di aprile (1945), erano le cinque del pomeriggio. Allora ci hanno portati sulla piazza d’appello, c’erano tutti lì, sulla torretta lassù del palazzo. E’ uscito il cappellano militare che in inglese ha detto di ringraziare il Signore che eravamo liberi e ha fatto recitare a tutti il Padre Nostro. Poi siamo andati nelle nostre baracche, e lì a noi sacerdoti, o anche a tutti gli americani, han portato scatole di carne, roba di formaggio, scatole proprio di roba un po’ pesante, roba da campo insomma. E questi ragazzi si sono messi a mangiare, allora han detto no, raccogliamola, dosiamola, perché gli intestini non sono preparati, tanti sono morti per aver mangiato troppo. E allora … ma come fai a togliere un pezzo di pane a uno che muore di fame. Difatti lì dopo sono morti i più, padre Girotti è poi morto poco prima, don Seghezzi è morto in quei giorni dopo la liberazione. Poi ad un certo punto dicono, c’era un campo lì vicino, un sottocampo di Dachau dove c’erano tanti italiani, francesi e polacchi. Io parlavo l’italiano e il francese, con me è venuto don Neviani perché parlava italiano ma era un sacerdote polacco. Siamo andati là a fare i cappellani di quel campo.

D: E si chiamava questo?

R: Allach. A piedi siamo poi andati e venuti, non è molto distante dal campo di Dachau, io non so quantificare la distanza. Lì solo che i primi giorni sono andati bene, abbiamo fatto funzioni, messe, ecc., ma poi gli italiani, approfittando, sempre i più intraprendenti sono partiti quasi tutti, e io cosa faccio lì. C’erano i francesi, c’era il polacco che parlava francese, ma quanti sono morti in quei giorni, ho raccolto. Avevo un libretto, ragazzi di Parigi ecc., poi questi partigiani cristiani di Torino mi han portato via tutto l’elenco, io poi sono andato a finire in Africa, non ho più tenuto contatto di queste cose. Poi ho finito, dico ma cosa faccio? gli altri sono scappati, scappo anch’io, vado a Monaco, là qualcosa trovo. Solo che Monaco sono più di 20 chilometri. Non passavo per le strade perché c’erano sempre militari, conciato com’ero, per i boschi, lì c’erano soldati che scappavano, c’erano dispersi ecc. di tutte le maniere, finché ho rischiato, mangiando erbe sono arrivato a Monaco. A Monaco cerco una chiesa, vado avanti, giro finché a Dom Pedro Platz ho visto che c’è la chiesa della Santissima Trinità. Attorno erano tutte rovine, mucchi di calcinacci, insomma detriti di case sfondate. Viene un sacerdote, un sacerdotino giovane, forse non giovane come me ma vestito bene, in clergyman, e io parlando in latino cerco di fargli capire che ero un prete sfuggito a Dachau e che cercavo aiuto. Lui ha sentito due o tre cose, ma penso che il latino non lo capiva neanche, mi ha preso per gli stracci, mi ha scaraventato su quel mucchio di rovine che c’erano lì, avevo in mano il calice un pacchettino dove avevo le cose che dicevo messa, che aveva portato questo cappellano militare a Allach, e tutto è andato in terra, ma lui ha lasciato il calice, ha lasciato tutto, ed ero lì: cosa fai adesso? Non so da quanto non mangiavo, dico “qui c’è solo più da chiudere gli occhi e raccomandarsi a Dio, non sono morto prima muoio oggi, qualcuno mi troverà”. Mentre ero io e raccomandavo l’anima a Dio arriva uno in bicicletta, si ferma, era padre Zanatta degli Scalabriniani, missionari degli emigranti. Mi vede lì, parla in italiano, gli ho raccontato tutta la mia storia. Lui ha raccolto il calice, le cose che avevo tenuto lì vicino, mi ha messo sulla sbarra della bicicletta perché non camminavo più, e mi ha portato a una scuola, un ex convento, una scuola, dove era anche tutto mezzo distrutto, dove lui raccoglieva tutti questi sbandati.
Arrivati lì, naturalmente c’è stata un po’ più di vita già, han cercato di rifocillarmi, so che era pentecoste, ho detto messa il giorno di pentecoste, lui era andato in giro per fare altre visioni. Intanto abbiamo preso contatto con una missione che arrivava da Milano, dall’Italia. E allora lì con questi qui in macchina siamo ritornati a Allach, a Dachau, mi avevano dato delle stecche di sigarette, io le ho lasciate sulla macchina, pensavo .. Invece vado per parlare, c’era già tutto lì quel che si arrivava a far repulisti avevano portato via tutto.
Poi arrivati a Monaco abbiamo cercato di scappare perché quel colonnello ha detto “Le cose in Italia tutto a scatafascio, allo sfacelo, cercate di arrangiarvi, vedete, scrivete, eccetera.”
Allora c’era con me uno che era, lui si è qualificato ufficiale dell’Intelligence Service, non so, parlava bene l’inglese ecc. Poi c’era don Neviani, c’ero io, e uno di Lucera che tra l’altro è venuto poi a Cuneo a rubarmi la bicicletta ancora. Siamo partiti, questo qui che era ufficiale dell’Intelligence Service aveva una macchina che poteva fare cinque chilometri dal punto dove eravamo. Noi abbiamo messo 15 e siamo partiti alla volta di Innsbruck, a sud. Abbiamo fatto una sosta a Benediktbeuren dai salesiani, era il 24, il giorno di Maria Ausiliatrice, dico “oggi lì fan festa da mangiare ce ne danno”, difatti ci hanno accolti bene. Poi mentre raccontavamo queste cose c’era una suora, si è messa a piangere, parlava bene italiano. Ho detto “ma perché suora lei piange?” “Voi andate adesso nei vostri paesi, racconterete tutte queste cose, e direte che i tedeschi sono cattivi. Noi tedeschi invece non siamo cattivi.” Cioè capiva il male che il nazismo aveva fatto come fama della popolazione tedesca. Come Dio volle con la macchina rotta siamo arrivati a Innsbruck, e lì siamo andati dal vescovo, veramente non c’è vescovo, l’amministratore apostolico, che loro vogliono sempre ricongiungersi a Bressanone, la loro vecchia diocesi era Bressanone, ci han messi là in una casa recuperata dell’azione cattolica che i nazisti avevano preso e gli americani avevano restituito. E poi sono arrivati quelli della Pontificia, come abbiamo potuto siamo arrivati a Monza, era il giorno del Corpus Domini, mi pare il 31 maggio, io ho detto messa nel duomo di Monza, poi ci han portati a Milano dal cardinal Schuster, ci ha dato cinquecento lire, una sgridatina, di essere un po’ più prudenti. E poi quando ho potuto sono arrivato a Cuneo.

D: Quando sei arrivato a Cuneo?

R: Il giorno del Corpus Domini. Poi sono stato un giorno e mezzo con don Liggeri in via Mercalli a Milano, poi col treno sono partito e arrivato a Torino sono andato dai salesiani di Benediktbeuren mi han dato dei libri, delle lettere da portare alla casa madre. So che sono andato a piedi a Valdocco la casa madre dei salesiani, e so che avevo una sete, era mezzogiorno passato, una fontanella, mi sono messo lì a bere. Poi: Oddio devo dir messa.
A Dachau dicevano messa nel pomeriggio, così a Maria Ausiliatrice ho detto messa, ho dato al prefetto generale dei salesiani le commissioni che mi avevano dato, e poi c’era una figlia di Maria Ausiliatrice lì alla casa delle suore che era di Borgo San Dalmazzo, e ho chiesto, io da due anni non sapevo più niente, i miei sapevano che ero a Dachau, ve l’ho già spiegato col colonnello Rampini, ho detto: sì su di là a Borgo, quelle vallate è tutto uno sfacelo, i partigiani, so che c’è stata molta guerra, molta battaglia ma non sappiamo niente.
E come sono arrivato a Cuneo il ponte era rotto, il treno si fermava dall’altra parte della Stura, c’era già mio fratello che era comandante partigiano con la macchina, e c’era tutta la parrocchia di Sant’Ambrogio, mi hanno portato in parrocchia poi a casa, a Robilante. E a Robilante mi han detto subito che la mia madrina era morta, questo ci tengo a dirvelo perché si era fatta suora di Santa Marta a Ventimiglia, quelle suore fondate da Tommaso Reggio che sarà chiamato beato domenica con Pio IX, Giovanni XXIII e padre Guillaume Joseph Chaminade. Mia zia aveva scritto il testamento che offriva la sua vita purché io ritornassi vivo. La sera del 29 settembre da Ventimiglia è andata a una frazione vicina a Latte, sempre sulla costa, per prendere dei viveri che avevano nascosto là, ha messo il piede su una mina è saltata in aria alle cinque, più o meno l’ora che gli americani sono arrivati a Dachau.
Caso raro ma per me è un miracolo.

D: Angelo hai detto il 29 settembre.

R: 29 aprile non settembre.

D: Quando eri a Dachau e andavate a lavorare alle dieci vi davano quel pezzettino…

R: Brotzeit.

D: Dopo ve l’hanno tolto?

R: Ecco qui quando si vuol far del bene bisogna farlo bene, non sbagliare. Il nunzio apostolico aveva ottenuto che tutti i preti non andassero più a lavorare, perché sembrava … E allora li hanno chiusi in baracca, ma togliendoci il lavoro ci han tolto quel pezzo di pane. Però dire non lavorare, non far niente, ci obbligavano ad andar a portare le marmitte, c’era quasi mezzo chilometro da fare con delle marmitte di 40-50 kg, e io con un chierico di Versailles, ma era olandese di origine, Hoffman, ci siamo ancora scritti, non veniva voglia di mangiare quella, avevamo poi la nostra razione che non finivamo mai perché era così disgustosa, erano crauti con bietole da bestie, senza nessun condimento, messo lì.

D: A Dachau fra i molti sacerdoti è mancato anche …

R: … padre Girotti.

D: E tu sei andato a cercarlo.

R: Sì sono andato a cercarlo perché lui l’avevano portato nel Revier, Revier vuol dire infermeria, ma là non si andava per curarsi ma per morire. Difatti l’hanno ucciso con una iniezione di benzina. Quando ho saputo che era morto, c’erano quelli che lavoravano, portavano le notizie, sono andato a cercare. Entrare lì: era tutto chiuso, tutto provvisorio, mi sono procurato delle sigarette, che era l’unica moneta per aprire le porte ma non ho trovato niente. Ho sfasciato un po’ di roba dell’ingresso, perché so che i cadaveri erano accatastati, una trentina erano nelle casse e gli altri messi sopra. Cerca cerca ma non lo trovavo. Finché ho cercato di scoperchiare uno, tutta la catasta è venuta giù, mi sono rovesciati quasi addosso, e il rumore ha fatto venir gente, io sono scappato, e così non l’ho più trovato. Solo che in quei giorni non li bruciavano più, perché forse non avevo più carburante o cosa, e lui certamente l’hanno poi sepolto in quelle fosse che ci sono vicino.
Missionario a Monaco per accudire gli emigrati italiani, come ci sono le missioni degli emigranti in tutte le città, in Francia, in Germania, anche in Inghilterra, ci sono questi missionari italiani che, anche in Svizzera, tengono, radunano gli emigranti italiani perché molti non conoscono la lingua.
Lui era dei domenicani di Torino, aveva studiato molto, aveva approfondito molto, era specializzato nello studio della Sacra Scrittura, per questo era stato diversi anni a Gerusalemme, allievo di un famoso biblista, al momento i nomi scappano sempre. Poi venuto a Torino naturalmente faceva l’insegnante di Sacra Scrittura ai teologi di Torino, sia dell’ordine sia delle altre congregazioni religiose. Poi c’era stato qualche malinteso lì, gli avevano tolto questo lavoro, ma subito prima della guerra. Poi lui si occupava molto anche di carità e degli altri. Ha stretto amicizia, appunto perché era molto studioso di sacra scrittura, con un professore ebreo, Iona, di Torino, e l’ha aiutato a …