Gibillini Venanzio

Venanzio Gibillini

Intervista del: 25.03.2002 a Nova Milanese (MB) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n.97 – durata: 80′

Arresto : giugno, luglio 1944

Carcerazione : a Milano a San Vittore

Deportazione : Bolzano, Flossenbürg, Kottern,

Liberazione : durante marcia della morte

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Gibillini Venanzio. Sono sopravissuto nei campi di Flossenbürg e Dachau. La mia storia comincia dopo l’8 settembre del 1943, quando gli alleati concedono l’Armistizio agli eserciti italiani.

Io ero l’ultima classe chiamata a militare. Ero andato a militare il mese di agosto del ’43 e venuto l’8 settembre, siamo stati due giorni in caserma e poi abbiamo fatto la fuga e dopo di lì ero considerato disertore, renitente, tutti quei proclami che con la nascita della Repubblica Sociale Italiana mi rendevano condannabile per la fucilazione. Perché non presentandosi a tutti quei bandi che nell’autunno del ’43, che la Repubblichetta Sociale Italiana ha tappezzato tutta Milano di quei bandi, allora sono finito per varie cause a lavorare al deposito di Milano Greco. Deposito che fa parte della zona industriale di Sesto San Giovanni di allora, adesso non so se ne fa parte ancora.

E lì naturalmente esisteva la Resistenza.

D: Sei finito a lavorare dove esattamente?

R: Sono finito a lavorare al deposito locomotive di Milano Greco.

D: E tu avevi quanti anni?

R: Avevo 19 anni, perché non ancora diciannovenne fui chiamato a militare.

Lì si sono avvicinati degli uomini, perché io allora ero un ragazzo di 19 anni, che dicevano appunto che lì non si lavorava e che al momento opportuno si sarebbero fatti dei sabotaggi, perché se no tutto quel materiale, tutto il materiale rotabile: locomotrici e altro che venivano riparati nel deposito finivano per i nazisti e poi veniva portato tutto in Germania.

Noi essendo diversi, essendo scappati dopo l’8 settembre, sbandati dopo l’8 settembre, già dimostravamo da che parte pendevamo.

Allora nel mese di giugno o luglio, adesso non mi ricordo più di preciso, comunque gli atti di sabotaggio si sono verificati. Sono saltate due o tre locomotrici e il deposito dell’olio. Allora i tedeschi, i nazisti hanno fatto una retata e hanno portato a San Vittore diversi compagni.

Anch’io finii a San Vittore e fui indagato come sabotatore.

D: San Vittore in che raggio?

R: A San Vittore, periodo bellico, perché era diviso in due parti: c’erano tre raggi per la sezione politica e tre raggi per i reati normali, reati per ladri eccetera.

A San Vittore sono finito anch’io come indagato per sabotaggio nelle Ferrovie dello Stato. Un bel momento, quando un giorno vado all’aria, perché ho fatto subito ventidue giorni in segregazione, la cella 62, al 1° piano del 5° raggio.

Il 5° raggio era un raggio silenziosissimo, al piano terra esistevano tutte le celle con fuori l’etichetta “pericoloso”, “pericoloso”, “pericoloso”. 1° piano idem. E poi ogni tanto arrivavano delle disposizioni, perché esisteva anche lì una certa Resistenza e malgrado tutto la Resistenza funzionava anche a San Vittore che “diffida da questo”, “diffida da quello là”, “spia fascista”, “spia qui”, “spia là”.

C’era un certo Bruno Zanotta che è stato un animatore per quello, perché ha dato compassione proprio per la causa giusta della Resistenza.

Sono all’aria, perché all’aria ci portavano quelle poche volte che ci hanno portati, nello spicchio d’aria da soli e in cima a questa rotonda c’era un secondino che parlava con un altro e diceva: “Chi deve pregare la Madonna adesso sono solo i ferrovieri”. E infatti ho saputo che tre ferrovieri, tre uomini che avevano 40 anni o forse più, li hanno portati indietro, non so se erano i responsabili di tutto quello, li hanno portati indietro e hanno fermato tutti gli operai che lavoravano al deposito e davanti a tutta la maestranza li hanno fucilati.

Invece io ho subito un interrogatorio solo a San Vittore. Un giorno, dopo non so quanto tempo che ero in cella da solo, si apre la porta e viene un secondino che mi dice: “Interrogatorio”. Sono sceso giù nell’ultima cella, infondo al piano rialzato, proprio al piano terra; c’era un ufficio, una cella adibita ad ufficio, c’era un tedesco. Suonavano le 10,00, perché al tempo di guerra alle 10,00 suonavano le sirene per coordinare se tutto funzionava bene e per vedere se funzionavano anche quelle. E c’era un SS che scriveva a macchina e poi c’era un altro vestito in kaki, perché era il mese di luglio, tutto elegante in un altro angolino della cella, in una scrivania. Nessuno parlava. Io ero lì in piedi sull’attenti davanti a loro, nessuno diceva niente. Poi quello in borghese, che ho saputo chi era dopo, si alza con il pacchetto delle Serraglio. C’erano le Serraglio, un pacchetto azzurro, piatto e mi chiede: “Fumi?” e io gli ho detto: “No”. E lui “Fumi!” e io ho capito che era un po’ una imposizione e allora ho accettato la sigaretta. Lui ha preso l’accendino, me l’ha accesa e ho cominciato a fumare. Si è seduto ancora, poi si alza e intanto che stavo fumando mi ha dato una tremenda sventola e mi ha fatto volare la sigaretta. E mi dice: “Vai avanti, raccogli la sigaretta e vai avanti a fumare”. Allora io ho raccolto la sigaretta e sono andato avanti a fumarla e poi incominciavano a fare delle domande un po’ a trabocchetto: se conoscevo il tizio. Io dicevo che non conoscevo nessuno, io ho lavorato qualche mese ma non conoscevo nessuno. Beh in conclusione, dopo non so quanto tempo, mi dice:” Ti manderemo in Germania a lavorare, guadagnerai dei soldi che manderai a casa a tua madre” e mi ha fatto firmare delle carte che io ho firmato senza sapere cosa erano e poi sono tornato ancora in cella.

Invece mi hanno mandato in Germania, a lavorare sì ma non …

D: Scusa due cose: quando ti hanno arrestato, non ti hanno arrestato in fabbrica?

R: No.

D: Ecco, dove ti hanno arrestato?

R: Lì è stato un po’.. Lì hanno ingannato un po’ mia madre, perché si sono presentati due dell’UPI, e si sono presentati dicendo che erano miei compagni di lavoro, che dovevamo scappare insieme perché la cosa diventava…

D: Dicevi che quelli dell’UPI sono venuti, hanno raggirato la mamma…

R: L’hanno raggirata dicendo che erano miei amici, dovevamo scappare insieme e lei ci ha creduto. Gli ha detto dove mi trovavo e in poche parole mi hanno arrestato.

Uno di quei due ha aperto una borsa e mi ha detto di non cercare di fare il furbo perché se no mi avrebbe sparato dietro e mi hanno accompagnato a San Vittore in mezzo a loro due.

D: Eri da solo?

R: Ero da solo.

D: Dicevi che lì a San Vittore, in cella, sei stato per più di venti giorni da solo in isolamento. Poi ti hanno messo in cella con altri?

R: Sì. Dopo mi hanno tolto dall’isolamento, quando ormai tutta la mia sorte futura era destinata e mi hanno messo dal 5° raggio, che era il raggio più terribile, mi hanno messo nel 6° da dove poi siamo partiti.

E lì sono andato a finire in cucina. Ho fatto gli ultimi dieci giorni, un paio di settimane, in cucina a fare da mangiare per i detenuti politici.

D: Ti ricordi qualche tuo compagno di cella di San Vittore?

R: Ero con Molteni Mario, mio compagno ferroviere che poi lui è ritornato in ferrovia nel dopoguerra ed è deceduto nel ’98-’99. E Dario Borroni che è deceduto a Flossenbürg. Da Flossembürg l’hanno mandato a Mauthausen ed è morto a Mauthausen o Gusen non so di preciso. E poi un certo Bosè Egidio, anche lui ferroviere che è morto a Flossembürg.

Perché di sette tre sono stati fucilati, sette ci hanno deportati in Germania, cinque sono rimasti lassù, Gargano Andrea è morto a casa ma subito pochi giorni dopo e io e Molteni Mario siamo sopravvissuti; che Molteni è deceduto tre o quattro anni fa.

D: Poi c’era anche Esposito?

R: E poi c’era Esposito. Esposito era sullo stesso piano, adesso non mi ricordo più. Il papà di Esposito era nella cella 64 se non sbaglio. Quella notte che nel Piazzale Loreto, quando hanno assassinato i quindici martiri di Loreto, l’hanno tirato fuori e sentivo dire: “Ma dove vado?” “Vai in campo di concentramento a Bergamo” Invece alla mattina all’alba li hanno portati in Piazzale Loreto e li hanno fucilati tutti.

In Piazzale Loreto c’è un particolare: mia mamma si trovava, dove abitavo io da ragazzo, dall’ortolano, non so in un negozio a fare la spesa e ha sentito la novità e ha lasciato lì tutto ed è venuta in Piazzale Loreto per vedere se c’ero anche io. E le hanno detto: “Signora se trova suo figlio niente scene.” E li ha fatti girare. Poi l’ultimo sembrava che era girato e le hanno detto:”Suo figlio è un ingegnere” e lei ha riposto.”No,no” e le hanno detto:”Beh allora l’ultimo era un ingegnere” e non c’entrava niente con me.

E di lì invece, il giorno 17 agosto, fui inviato al campo di concentramento di Bolzano.

D: Con che cosa vi hanno portato a Bolzano?

R: Con dei pullman dell’azienda tranviaria o del municipio. Durante la notte hanno fatto tutto al 6° raggio, tutta la chiama. Il primo di tutta la chiama era sempre il Padre Gianantonio Agosti. E alla mattina, albeggiava già al mese di agosto, era il 17 di agosto, ci hanno portato a Bolzano.

D:Scusami Venanzio, chi c’era a fare la guardia sul vostro pullman?

R: La 24^ Legione. I ragazzi della 24^. Portavano un fez con il fiocchetto sulla spalla. Erano ragazzi più o meno della nostra età, naturalmente fiancheggiati da auto con su i tedeschi.

Ma seduti sul pullman proprio con noi c’era la 24^ Legione fascista.

D: E siete arrivati a Bolzano?

R: Siamo arrivati a Bolzano.

D:Come te lo ricordi l’ingresso nel Lager di Bolzano?

R: Allora non era come adesso, era periferia lontana. L’impressione un po’ brutta, perché erano capannoni quasi industriali.

Io fui mandato al blocco B e la mia matricola era 3111, a Bolzano. Naturalmente lì abbiamo subito visto delle scene un po’… La scena di padre Gianantonio, perché lì tutti venivano già rasati, davano via un triangolino di Bolzano, perché quella sera lì una coperta, un qualche cosa e una scena un po’ toccante che abbiamo visto è stata la scena di prendere il Cappuccino che era con noi, Padre Gianantonio, preso per la barbetta a pedate nel sedere tagliandogli la barba, tagliandogli i capelli che come religioso, se non hanno rispetto per un religioso che con un saio di Cappuccino, che era della chiesa dei Frati di Via Premuda Porta Monforte. Lui era dentro perché era stato arrestato perché nel confessare gli ebrei in Duomo gli dava documenti falsi e per quello ha pagato. Da Flossenbürg è finito a Dachau nel blocco dei religiosi con diversi religiosi italiani. Invece noi dopo Bolzano siamo finiti…

D:Parlami ancora di Bolzano. Ti hanno messo nel blocco B, ti hanno dato un numero.

R: Il numero 3111 con il triangolino rosso politico.

Lì era già dura la vita, naturalmente lì la fame per noi ragazzi del popolo si sentiva più degli altri, perché con noi c’era anche gente che stava bene: generali, professionisti, gente che poteva avere i loro famigliari alla porta che gli portavano i viveri di sussistenza. Invece per noi ragazzi del popolo la fame si sentiva. Io la sentivo già a Bolzano, la sentivo già anche a San Vittore. Però a Bolzano si sentiva di più perché scarseggiava già e poi cominciava già proprio quel timbro di nazismo, di teutonico che cambiava un po’ l’aria che si respirava. Era buona l’aria come clima ma…

D: Cosa ti ricordi del campo di Bolzano, oltre questi capannoni?

R: Mi ricordo che come sono entrato i capannoni li trovavo sulla destra. Adesso non mi ricordo, il B doveva essere il penultimo, doveva essere stato un blocco centrale. Poi c’erano le celle in fondo per le punizioni. Di rimpetto a questi capannoni c’era il comando. C’era la cucina, c’era il comando.

E mi ricordo che d’estate, qualche sera, non sempre, ci hanno fatto fare delle docce. La doccia consisteva in un tubo in cui passava dell’acqua forellato in doversi punti, all’aperto.

D: Quindi la doccia la facevate all’aperto?

R: Sì. Quella poche volte non sempre. Lì ci portavano fuori, c’era una cava, e quelli che ci portavano a lavorare, però lì c’erano tanti tipi di trasporto.

Ho trovato dei miei amici che abitavano nella zone dove abitavo io in Milano, che uno mi ha raccontato che un certo Marangoni era appena partito per Mauthausen, ma lui era finito invece a lavorare in una fabbrica in Germania. Perché lì partivano un po’ tutti: i rastrellati, chi non aveva da San Vittore un qualche cosa già prenotato per il viaggio partivano a lavorare. Invece la maggior parte eravamo politici, per esempio Teresio Olivelli, per me una figura molto nobile, portava la coccarda in più di dietro. Una coccarda come fuggitivo perché i settanta trucidati a Fossoli, lui non so dove si è nascosto se in un fienile o dove, è stato lì due o tre giorni e quando è arrivato a Bolzano portava già quella coccarda rossa di dietro. Deve essere stata rossa e bianca o qualche cosa di pericoloso perché era già fuggito e ripreso al momento che avevano evacuato il campo di Fossoli.

D: Tu mi dicevi prima che a Bolzano ti hanno dato il numero e un triangolino. Ma voi avevate i vostri vestiti ancora?

R: Sì, a Bolzano io mi ricordo che avevo un vestito grigio con un gessato o qualche cosa di simile. Avevo una bella camicia, le scarpe con il carro armato che si usava allora, poi in tempo di guerra anche.

D: A lavorare quindi uscivate dal campo?

R: Sì, ci portavano in una cava a lavorare, sempre con quei camioncini lì a riempire, sempre quei lavori di facchinaggio, di sterro.

E anche lì la fame già la sentivamo noi. Perché io ed Eugenio, che adesso non c’è più poverino, noi dormivamo proprio vicino a Padre Gianantonio e Padre Gianantonio per essere un religioso era un po’ coccolato da tutti, specialmente dai professionisti, e allora lui dormiva con una borsa, una sporta, un qualche cosa sulla pancia con dentro le mele e le pere e una volta io ed Eugenio abbiamo provato a vedere se riuscivamo a portare via qualche cosa dalla borsa. Invece lui mi ha fermato la mano e poi ce ne ha date una per uno. Perché lui essendo un uomo già anziano, un uomo di cinquanta anni forse già allora, era un po’ coccolato da tutti gli ufficiali superiori che c’erano con noi, professionisti, letterati. Non so c’erano avvocati, dottori e allora era un po’ ben visto, ecco.

D: Ti ricordi se tu nel periodo che sei rimasto a Bolzano hai ricevuto da casa tua qualche lettera o qualche pacco?

R: No, niente. Ho scritto io una lettera che conservo ancora. Tutta lacerata naturalmente. Scritta con una matita, un foglio di carta con una busta rossiccia, non proprio rossiccia e c’era timbrato ……… che scrivevo censurata e che chiedevo ai miei se potevano mandarmi, allora fumavo, tabacco, cartine, qualche galletta per mangiare, un po’ di marmellata, qualche cosa, perché la fame la sentivo già lì. E invece… Comunque al mio ritorno quella lettera l’ho trovata ancora e adesso l’ho fotografata. E’ un documento che ha cinquantasette anni circa, carta anche del tempo di guerra.

Si capisce poco o niente. Comunque fotografata soprattutto per la busta, l’indirizzo e il mittente.

D: Ti ricordi quando tu eri lì a Bolzano se hai assistito, se hai visto azioni violente?

R: Ecco questo me lo ha chiesto anche Maris, però quel caso lì delle azioni violente io non le ho viste perché sono successe in ottobre novembre, più avanti.

Io ero già partito per la Germania. Perché lì quando il campo si riempiva preparavano il trasporto. Il trasporto prima di noi è andato a Mauthausen, il nostro è andato a Flossembürg e poi ce n’è stato un altro subito che è andato ancora a Dachau.

D: Ecco ti ricordi altre due cose: nel campo hai visto se c’erano delle donne?

R: Sì le donne c’erano e ce n’erano anche tante. Anzi le donne le sentivo anche cantare alla sera, perché a Bolzano la sera cantavano le donne.

Poi c’era un certo Lupo, un ragazzo partigiano, che cantava bene. Cantava quelle canzoni un po’ nostalgiche: “La bella Madunina”, “La mamma”. Quei motivi che al momento della sera che eri nella tua cuccia ti veniva un po’ di malinconia. E dove esistevano le donne si sentiva .., perché le donne sono forse, su certe cose, sono più coraggiose e più resistenti in tante cose rispetto all’uomo.

D: E oltre a Padre Gianantonio hai visto altri religiosi?

R: Religiosi li ho conosciuti dopo. Ma dopo leggendo libri dopo la Liberazione ho trovato che più o meno la mia stessa Via Crucis l’hanno fatta diversi. Per esempio a San Vittore quando c’ero io c’era Don Paolo Liggeri, c’era un Vescovo di Crema Don Manziana che è finito nei blocchi, uno è finito a Mauthausen e dopo verso la fine, l’inverno del ’44, la primavera del ’45 erano finiti tutti nel blocco religioso di Dachau.

D: E sempre lì a Bolzano per caso tu hai visto se c’erano anche dei bambini?

R: Si. C’erano gli ebrei, c’erano famiglie intere. Perché al 5° raggio di San Vittore, al 5° raggio sopra ai camerini, c’erano famiglie intere di ebrei. Che, anzi, sentivo a quanto dicevano che gli facevano fare anche delle cose orribili o li facevano mettere giù davanti alla latrina a camminare. E allora lì li tenevano separati da tutto il resto di noi non ebrei al 5° raggio. Che poi la maggior parte di loro sono passati per Bolzano, ma poi sono partiti e sono andati nei campi dove sono entrati e sono passati per il camino.

D: Quindi tu a Bolzano, nel periodo che sei rimasto, sei uscito per andare a lavorare in questa cava.

R: Sì, una cava dietro lì.

D: E non ti ricordi più o meno dove? Facevate tanta strada, poca strada?

R: Non tanta, perché andando a lavorare alla cava non incontravamo mai nessuno. Perché era già periferia di Bolzano allora. Era una strada lunga verso le montagne e sulla destra c’era questo campo, si usciva e si andava in questa cava …… con i lavori di sterro, non so cosa combinavano con quel lavoro lì.

Tanti giorni ci lasciavano anche in pace a Bolzano, tanti giorni non ci facevano niente. Si aspettava gli eventi, si organizzava da mangiare e basta.

D: E il comandante del campo, comunque delle SS del campo, ti ricordi …?

R: Del comandante del campo mi ricordo di Maltagliati. Maltagliati era il fratello, un parente della famosa Evi o Eva Maltagliati attrice di cinema.

Non so, ecco io allora ero un ragazzo, comunque Maltagliati. Poi a Bolzano, proprio il comandante lo vedevo quando alla sera parlava, faceva discorsi, però non mi ricordo né nome e né niente. Di Maltagliati si.

Poi anche lì hanno fatto i capi blocco, una cosa e l’altra. Fra l’altro il capo blocco del mio blocco lì a Bolzano se non sbaglio era Mazzullo, Luigi Mazzullo, che era tenente dell’aviazione allora, adesso è generale. Anzi adesso è l’ambasciatore italiano dei deportati a Dachau. C’era Castelli che era già un pittore. Ce n’erano diversi, tutta gente che ho incontrato a Bolzano che poi a Bolzano sono arrivati con noi tutti quelli dei Lager di Fossoli. Lì la maggior parte erano gli arrestati degli scioperi del marzo del ’44. Ce n’erano diversi che poi…

C’era un certo Ferrario che è rimasto là e ce n’erano diversi di quei ragazzi lì, adesso la fisionomia… Tanti nomi li ricordo, leggendo dei libri li ricordo perché parlando di questo periodo erano senz’altro con me.

D: Il campo di Bolzano aveva una recinzione?

R: C’era una cinta, una mura. C’era un qualche cosa di così, perché sembrava quasi una falegnameria, un deposito, un hangar, tipo hangar, qualche cosa di simile.

D: E c’erano delle …. delle sentinelle?

R: Le reti delle sentinelle sugli angoli naturalmente e le entrate erano un cancello che si vedevano di fuori.

D: Non c’erano scritte?

R: No, non credo, almeno non mi ricordo di questo.

D: Lì a Bolzano tu sei rimasto quanto tempo?

R: A Bolzano sono rimasto dal 17 di agosto fino al 5 di settembre, alla mattina che ci hanno incolonnati i famosi cinquecento e ci hanno portato allo scalo di Bolzano, sullo scalo merci, per una destinazione che non si sapeva; la destinazione era ignota.

Anzi tanti dicono che dopo o prima di Monaco, non so dopo Innsbruck, è stato fermo, il treno ogni tanto rimaneva fermo, che dovevamo andare a Mauthausen e invece all’ultimo momento siamo andati verso…

D: Ecco scusami sempre, dal campo di Bolzano, in questo posto che vi hanno portato allo scalo tu dici eccetera, vi hanno portato come?

R: Per cinque, incolonnati a piedi. Camminavamo, non so se era l’Isarco o un fiume vicino; quello mi ricordo.

Era mattina presto, si vedevano già gli operai con le biciclette che entravano; perché lì era zona industriale. Entravano in fabbrica. E a noi ci hanno portato in questo scalo, c’erano già pronti tutti i vagoni e dopo un po’ di cerimonia, non so se con una lista o con un numero, adesso non so di preciso quando, io penso sessanta o settanta, ci hanno messo dentro, chiusi i vagoni fuori, anche il finestrello del carro bestiame, era con i reticolati anche quello. Basta, chiusi dentro lì tutti i sogni di evasione erano impossibili, perché tanto adesso si parla ma allora non si poteva. Prima di tutto per gli anziani che c’erano con noi, ufficiali, che se mettevamo in repentaglio la vita di loro, perché se ci mancava qualcuno…

E poi dopo insomma la mattina, dopo tre o quattro colpi che si è mosso il convoglio, era la mattina del 5 di settembre, hanno aperto i vagoni il 7 di settembre con le urla dei cani. Eravamo arrivati a Flossenbürg allora.

D: Quindi il tuo viaggio è durato due giorni e due notti. Avevate sul vagone qualche cosa da mangiare e da bere?

R:No, io non avevo niente, perché anche a Bolzano avevo già sofferto la fame, perché non avevo niente, non aveva niente la mia famiglia in tempo di guerra, non c’era niente. Naturalmente noi siamo partiti con tutto quello che avevamo addosso e chi aveva valigie o borse. Io avevo il mio fagottino e non c’era niente.

Allora c’era gente che aveva avuto i mezzi e sono partiti. Naturalmente di notte mangiavano, perché avevano vergogna a farsi vedere mangiare. Perché questa è la verità, non si può mangiare. Perché sai nel momento che vai verso l’ignoto pensi subito :”Qui soffrirò la fame”, allora se hai una scatoletta cerchi di conservarla per il domani. Invece quando siamo arrivati a Flossenbürg il domani non esisteva più, perché là c’è stato portato via tutto, tutto, tutto. Dai capelli, i peli, la barba; tutto ci è stato portato via. Nudi come ci ha fatto nostra madre. Basta, lì non avevi più niente.

D: I bisogni corporali durante il trasporto?

R: I bisogni corporali erano un po’.., anche lì, perché insomma c’erano persone anziane, persone che avevano bisogno più sovente rispetto ad un giovane.

La resistenza, perché adesso io alla mia età un viaggio di quelli lì mi buttano giù dal treno. Comunque per fare la pipì andavamo dove c’era la porta che scorreva e lì si faceva la pipì sperando che si perdeva tramite le fessure. Ma per fare qualche cosa di più pesante, di più bisognoso dovevamo farlo con un pezzettino di carta e poi buttarlo da quel finestrello lì, perché? Perché si è verificato che dal 5 al 7 di settembre che di giorno c’era un caldo terribile, chissà che puzzo che c’era dentro quel vagone lì perché sessanta, settanta persone chiuse lì con quella finestrella lì. E invece di notte un freddo incredibile perché era l’incontrario, di notte c’era freddo.

Poi anche la notte per trovare di allungare un po’ i piedi, trovare la posizione. Poi in quel pezzettino lì c’era gente anziana, cercava di resistere magari se aveva bisogno proprio dei bisogni fisiologici di farli di notte, perché è un po’ meno vergognoso, un po’ meno deplorevole che farli in faccia a tutti anche se la luce filtrava poco, ma di giorno ci vedevamo in faccia, invece di notte puoi farle scomparire.

Ma tra i corpi, tra gli odori e il resto puoi immaginarti.

D: Il treno si fermava ma le porte non si sono mai aperte?

R: Non si sono mai aperte.

D: E da bere e da mangiare?

R: Per bere e mangiare quando siamo partiti hanno messo una cassa, non so chi l’ha pagata, perché ce l’hanno fatta pagare quella cassa lì. Una cassa di mele sul mio vagone, perché sugli altri non so cosa ci fosse stato. Sul mio carro, no vagone. Sul mio carro bestiame l’hanno messa. E sono venute fuori due mele a testa, una o due mele a testa. Basta, quello lì è stato il nostro vitto e basta fino a Flossenbürg.

D: Una volta arrivati a Flossenbürg, dopo due giorni e due notti di viaggio, allora lì hanno aperto i vagoni.

R: Perché quella ferrovia terminava proprio a Flossenbürg; l’ultima stazioncina tedesca terminava a Flossenbürg. Arrivati a Flossenbürg basta, prima che il treno si fermava definitivamente si sentiva già urlare in tedesco. Ma l’abbaiare dei cani!

Lì albeggiava, era l’alba del 7 di settembre. Poi hanno aperto il vagone e ci hanno fatto saltare giù lì.

Naturalmente ognuno vedeva quell’altro com’era conciato, perché io non potevo specchiarmi. Vedendo i compagni, ognuno vedeva la faccia dell’altro. Lì ci hanno incolonnati per cinque e dopo quando siamo scesi tutti con il nostro bagaglio, io non avevo niente.

La stazioncina di Flossenbürg era proprio all’imbocco del paese, poi c’era una salita che sarà stata lunga 1,5 o 2 km, non so. Tutto il paese su quella strada lì e poi in cima c’era il campo. E sicché andando su, quando ci hanno messo per cinque, camminavamo verso il Lager, la prima cosa che mi ha scioccato, che ci avrà scioccato un po’ tutti, era la vista di questi zebrati.

Io vedevo già quei vestiti da galeotto con la testa rapata, con gli zoccoli silenziosi, magri. Io pensavo: “Ma qui è una colonia penale”, non so come i film che si vedevano quando ero ragazzo e cercavo di non pensare che dovevo finire in quel posto lì.

Siamo entrati e infatti la zebra era tutta sparsa per tutto il campo.

D: Lì avete attraversato il paese?

R: Tutto il paese, fino in cima. Perché adesso anche in cima dove c’è il campo ci sono delle villette. Invece prima c’erano solo le villette degli ufficiali delle SS e Flossenbürg era tutta quella strada lì con a parte quei cascinali, con la chiesetta protestante che c’è. Ci sono due chiesette mi sembra. E basta.

D: Gli abitanti del paese vi hanno visti?

R: Ci hanno visti, ma indifferenti proprio. Anche i bambini, niente, come fossero abituati forse a vedere questi passaggi.

E dopo circa quaranta giorni abbiamo rifatto quella strada ma tutti vestiti elegantemente con la zebra nuova, con gli zoccoli nuovi ai piedi senza più bagagli, senza più niente e l’abbiamo fatta per andare a …

D: L’ingresso del campo di Flossenbürg, quando siete arrivati, come te lo ricordi?

R: All’ingresso del campo di Flossenbürg c’è la Kommandantur che è una cosa impressionante. Adesso è bella pitturata dipinta. Metà è del comune e metà è una associazione di ex deportati.

Allora invece era tipo teutonico con quella specie di torre centrale lunga e vedendo proprio di facciata si entrava verso la nostra destra che c’era come una lingheretta, qualche cosa, come un ballatoio subito lì rialzato e lì c’erano già i cancelli che si aprivano e lì si entrava e ci contavano sempre per 5: 5,10,15, ecc. e intanto ci contavano. Si entrava non dal portone. Abbiamo girato indietro che era la piazza dell’appello, e lì chi aveva i bagagli li aveva depositati. Qui sto già parlando di Flossenbürg. Dopo un po’ è uscito un ufficiale e ha detto che adesso ci avrebbero chiamato per nome e che sarebbe stata l’ultima volta che avremmo sentito il nostro nome e al momento che avremmo sentito il nostro nome avremmo dovuto rispondere “Qui”

Ecco dovevamo rispondere così. Infatti quando è arrivato il Gibillini Venanzio io risposi “Qui”. E siamo stati lì un po’, perché era mattina e quando siamo arrivati nel blocco che ci hanno assegnato era sera, diventava già buio.

Lì siamo stati circa una, due, tre ore, perché ci hanno abbandonato lì con un indifferenza totale. Però vedevo che dentro erano tutti di corsa, tutti silenziosi. Poi ci hanno portati allo spogliatoio sotto una tendopoli e lì ci hanno spogliati. Lì i nazisti hanno detto che ci dovevamo spogliare e consegnare tutto quello che avevamo: dalla fede alla catenina, una fotografia. Non dovevamo avere niente e tutto ci sarebbe stato restituito al momento opportuno.

Mi hanno fatto una specie di ricevuta con un pezzo di carta e poi me lo hanno stracciato proprio come presa in giro.

Io naturalmente non avevo niente e quando mi hanno tolto il vestito e la camicia che avevo su, io basta non avevo più niente da nascondere.

E lì c’è stata gente che ha cercato di salvare qualche cosa: una fede, una fotografia. Ho visto stracciare dei soldi di carta piuttosto che darli, ma se li pescavano li avrebbero uccisi senz’altro; li avrebbero uccisi a bastonate. E nei tubetti di dentifricio mettevano dentro la fede o la catenina, che poi in quell’ambiente lì non siamo più andati.

Dopo eravamo tutti nudi, un po’ grotteschi, perché noi allora avevamo diciannove, vent’anni anni ed eravamo i giovani. Ma c’era gente di quarantanove, cinquant’anni, c’era gente già con un po’ di pancetta un po’ di qualche cosa che andava un po’ storto insomma. E il nostro processo di spersonalizzazione lì cominciava già in pieno, perché quando un uomo è nudo davanti ad uno vestito con gli stivali e con in mano un frustino è già una nullità quello che è nudo e mantenersi davanti a quello lì.

D: Ma anche Padre Gianantonio era con voi?

R: Si, anche lui tutto nudo.

D: Quindi anche lui ha subito questo?

R: Tutto quel processo lì. E se c’era anche il Sommo Pontefice, tanto per dire, l’avrebbe subito anche lui. Cardinali, Prelati, alti Prelati li hanno subiti tutti.

Dopo averci denudato ci hanno portati al bagno. Il Wäscheraum c’erano due scalinate che scendevano in un seminterrato ed entrato nel primo locale seminterrato tutto piastrellato, tutto fatto bene. Naturalmente sui fianchi del Wäscheraum i primi colpi che ricevevi li ricevevi con il Gummi che era un tubo di gomma con dentro dei fili elettrici, ma esistevano anche a Dachau, esistevano dappertutto. E quello lì ti dava il colpo, ti intontiva senza lasciarti il livido quasi, perché la gomma era piena fuori, sicché era pesante. E qui ti pigiavano e quelli che pigiavano erano vestiti zebrati. I primi colpi non è che li ricevi in un posto talmente terribile, coraggio ragazzi qui dovete…. Qui niente, tutti picchiavano, tutti urlavano e non si capiva più niente.

Allora ci hanno messo dentro quel locale lì, prima c’era una preanticamera abbastanza grande tutta piastrellata e c’erano dei manifesti, dei poster proprio, delle gigantografie con il pidocchio che scritto in tutte le lingue diceva: “Difenditi da questo parassita che sarà la tua morte”.

Poi siamo entrati in profondità più avanti e c’erano dei traversini di legno con su il pavimento, le solite docce.

Prima ancora sono venuti i Friseur, i parrucchieri che erano tutti compiti che svolgevano gente aristocratica del campo. Perché lì il bifolco, il triviale, il duro acquistava valore in un Lager, invece il laureato, quello con gli occhiali con i denti d’oro veniva menato.

Lì ci hanno sbarbati un po’ dappertutto, ci hanno tolto i peli da tutte le parti. I capelli erano già tagliati da Bolzano e lì ce li hanno tagliati ancora. Poi ci hanno fatto la Strasse, con una macchinetta molto fine proprio una strada. La strada di Hitler, che partiva dalla fronte e finiva alla nuca. Poi ci hanno disinfettato con il petrolio, non so che cosa fosse lisoformio non credo, era un qualche cosa che bruciava enormemente perché tagliati i peli e barba dappertutto con quelli che ormai non erano più rasoi ma erano coltelli e tutti mezzi insanguinati e dopo ci hanno cacciati sotto le docce. Quando eravamo sotto le docce hanno aperto l’acqua calda così bollente che ti spelavi e acqua fredda che faceva contrasto. Penso che sia stata una cosa veloce, poi fuori. Arrivavano sempre colpi che si cercava di schivare perché il più impappinato, il più anziano li prendeva invece io avendo diciannove, vent’anni cercavo di schivarli.

E lì ci hanno fatto una visita medica, tutti nudi davanti ad uno che penso sia stato un dottore, un ufficiale medico con i suoi aguzzini intorno, si andava davanti ci guardava davanti, ci giravamo e ci guardava da dietro e poi un incaricato di quelli lì con la vestaglia bianca con una vernice rossa ci faceva una lettera sulla fronte: A, B, C; penso che sia stata una lettera. E lì era già una selezione che facevano per la forza lavoro e la forza non lavoro.

Dopo di quello ci hanno vestito. C’erano un mucchio di stracci della guerra ’15-’18 e non so ad uno capitava magari una cosa spaccata, rotta o scalcinata, ti buttavano lì una giacca e un paio di pantaloni e penso una camicia. Biancheria intima lì non esisteva più.

Naturalmente quando siamo stati vestiti per la sera ci hanno dato già il filo e qualcuno ci ha incaricato che quel filo doveva durare per diversi per attaccare il nostro numero di matricola che lì ero diventato il 21626 triangolo rosso. Politico perché nel Lager si distingueva il politico perché era la maggioranza di quasi tutti i Lager, che era il triangolo rosso. Poi c’era il triangolo verde che erano i signori del Lager, perché la maggior parte erano criminali, la maggior parte tedeschi che sapevano la lingua e più erano feroci e più facevano carriera.

E poi il Lager era formato da tutta una miriade di gente che girava intorno: gli addetti alla … , gli addetti ai bidoni, gli addetti alle latrine, gli scrivani, tutta una miriade di gente che organizzavano e riuscivano anche a mangiare qualche cosa di più di quelle miserrime razioni che davano via.

D: E poi ti hanno mandato in blocco.

R: E poi mi hanno mandato nel blocco. Nel blocco naturalmente dopo due giorni ormai era arrivato sera e cominciava già a diventare buio quando tutta questa cerimonia è durata un giorno, perché pensa che chi arrivava al mese di gennaio con il freddo con i 15-20 gradi, io sono arrivato a settembre, con i 15-20 gradi sotto zero tutta quella processione che abbiamo fatto noi loro la facevano all’aria aperta fuori nudi così delle ore sotto la neve, sotto all’acqua. Che poi lì a Flossenbürg erano 1000 metri, non so, è sempre stato freddo. E dopo mi hanno assegnato il blocco. Naturalmente nel blocco avevamo bisogno del gabinetto. Due giorni e due notti, ormai era al terzo giorno, e allora si doveva andare cinque, dieci persone alla volta alla latrina e poi ritornare indietro. I primi che vanno:”Eh che gabinetto!”. E allora siamo andati tutti anche per la curiosità di vedere questa latrina. E la latrina era un locale, mezzo blocco, un quarto di blocco, con due buche profonde in mezzo con delle tavole di legno per accomodarsi e tutto intorno c’erano dei lavandini sempre in legno con ad ogni vetro un rubinetto con “Vietato bere: acqua non potabile”. E sotto quei lavandini c’erano già i morti. Erano già accatastati sotto i lavandini in attesa perché il crematorio era sotto.

Sotto il blocco 23, il blocco 24, esisteva il crematorio. Che poi per andare giù nel crematorio c’era una scalinata che si andava giù con una trentina di gradini, non so di quanti metri. Però loro non li portavano giù con la barella. Sotto l’ultima garitta c’era un sottopassaggio con un vagoncino, caricavano i corpi decessi e scivolavano giù sul tetto del crematorio. Dal tetto del crematorio li scaraventavano proprio davanti all’ingresso e poi venivano bruciati. E quell’odore lì del crematorio stagnava tutto il giorno quando poi c’era la bassa pressione che pioveva, perché là in quaranta giorni che sono stato a Flossenbürg ho visto il sole non so se una volta e mezzo o due, il resto sempre freddo perché si andava verso ottobre.

D: Il numero del tuo blocco qual era?

R: Il mio blocco era il 23. Vicino al nostro blocco c’era il 24, che non era il Bunker, erano i terminali.

Quando uno non moriva allora via, veniva portato al 24. Al 24 venivano buttati là dentro e basta. Se aveva la forza di uscire a prendere la zuppa usciva, se no moriva lì con gli escrementi. E quando uno se la faceva addosso, tutti i Kapò dicevano: “Ah italiano sporcaccione!” Prendevano l’idrante e ti lavavano con quello per far vedere che noi eravamo degli sporcaccioni. Di conseguenza ti veniva la broncopolmonite e non morivi per la dissenteria ma per la broncopolmonite fulminante.

D: Ci racconti una giornata di Flossenbürg? La sveglia, cosa vi davano da mangiare.

R: A Flossembürg era molto terribile. Prima di tutto perché è stato anche l’impatto della deportazione, la prima settimana c’erano già morti due fratelli. Dopo dieci giorni, anche per il crepacuore, perché capivi che non potevi sopravvivere dentro lì. E’ stato considerato forse uno dei peggiori, per niente ripulito, venticinque legnate, venticinque frustate, un gabellino apposta per metterti lì. E poi se vedeva che ero un italiano amico, chiamava me per picchiare. Io picchiavo adagio andavo giù anche io finché usciva un russo o un polacco per non prender lui picchiavo forte. E quando picchiavano i Kapò te dovevi contare i colpi che ricevevi e loro addirittura si fermavano a riposare e a prendere fiato.

D: E da mangiare?

R: Da mangiare al mattino alle 4,00 d’estate, 4,30 dicono d’inverno, ma noi abbiamo sempre fatto quasi il mese di settembre e ottobre, c’era ………: 5, 10 minuti l’appello. Allora subito, perché l’appello ti uccideva. Fuori pioveva nevicava, tu sempre sugli attenti; quegli appelli lì erano terribili.

L’unico pregio che aveva era che era un po’ calda. Però io non so quante volte l’ho bevuta. Dopo verso le 11 ti davano la zuppa. In quel blocco lì eravamo circa in seiciento e non c’erano le gamelle per tutti; c’erano circa cinquanta, sessanta gamelle. Di conseguenza le gamelle continuavano a girare fino a che avevano servito tutti i deportati, tutto il blocco. Di conseguenza nessuno voleva entrare per primo, perché forse entrando per primo aveva la gamella pulita però pescava l’acqua perché il bidone fresco, 50 litri di roba se c’è qualche cosa di sostanza o pesante resta sul fondo e lui non mescolava, lui pescava l’acqua e ti dava l’acqua. Allora gli addetti a quello spingevano con il tubo di gomma per andare sotto. Poi l’affare girava fino a che arrivava l’ultimo che andava sotto. Ma l’ultimo poteva pescare il pezzo di ratto, un pezzo di carota, qualche cosa di sostanzioso. Questo alle 11,00. Poi si parlava alla sera. Di sera rientrando in blocco, chiamandoti per numero, che se non uscivi al tuo numero giusto le prendevi, perché dicevano che sabotavi e che prendevi la razione di un altro che non ti aspettava, e lì la sera c’era il pane che da sei è diventato in otto poi una fettina di pane tedesco fatta nel Lager, non so di che composizione fosse quel pane lì. E poi c’era o una fetta di margarina o un cucchiaio di marmellata o una fetta di salame.

Ogni tanto davano una fetta di salame, ma un salame gommoso proprio che lo masticavi ma tutto era buono da cacciare nello stomaco che non so di che cosa fosse stato fatto. E quello lì era la razione che ti aspettava al giorno.

Naturalmente durante il giorno quando non ci prendevano, perché lì eravamo in quarantena, perché qualche comando, cinquanta uomini con me, no uomini 50 pezzi, 50 Stück. Dicevano, per portare pietre alla cava ci lasciavano in pace e si parlava solamente: “Se andiamo a casa faccio fare da mia mamma la pastasciutta, lo spezzatino, il pane, il tonno”

D: E il lavoro invece?

R: Lì eravamo in quarantena perché sai i tedeschi organizzati, perché prima di contaminare quelli che erano già moribondi ti facevano fare la quarantena. Allora lì il lavoro consisteva nel portarti alla cava, sempre quei lavori di sterro, sempre con picconi, zappa e martello.

E lì c’erano degli affari da mettere sulla spalla come zaini in legno che avevano come appoggio una tavoletta o diverse tavolette dove tu mettevi la pietra, il masso e lo portavi. Tante volte penso che li facessero portare su e poi riportare giù, non so.

Comunque penso che tante cose le facessero fare proprio per demolire e lì sentivi proprio la mancanza. Io vedevo le nubi nel cielo che si spostavano e vedevo la libertà di un qualche cosa fisicamente che si spostava, il poter viaggiare, il poter spostarsi. E questi erano i lavori. Finita la quarantena a Flossenbürg già si parlava che per sopravvivere lì, perché nessuno rimaneva nel campo madre. Flossenbürg non so quanti campi satelliti aveva intorno. E l’unica sopravvivenza era di finire in un comando diciamo dolce, che faceva paura già a qualcuno anziano che abbiamo trovato dentro.

Il primo trasporto italiano è stato il nostro ma proveniva da altri campi. Ci hanno detto: “Cercate di difendervi dall’inverno, perché se arriva l’inverno che siete a Flossenbürg a portare le pietre non si salva più nessuno”. Allora gli ultimi tempi, ormai era l’ottobre del ’44, i tedeschi capivano che la guerra la perdevano, malgrado tutto, allora avevano bisogno di meccanici. E allora ci è arrivata la voce che dovevano fare un esame per vedere chi era meccanico.

Loro hanno fatto presto a fare l’esame. Nella piazza dell’appello hanno messo un tavolino con non so se era un ingegnere o un civile tedesco e lì siamo andati tutti uno ad uno davanti a questo ingegnere e lui aveva degli strumenti su questo tavolino che erano il calibro, la vite micrometrica, le punte elicoidali. Ha preso in mano un calibro e mi ha chiesto: “Quant’è?” Tanti millimetri tanti decimi. Poi ha preso in mano la vite micrometrica è mi ha detto:” Quanto?”. Poi ha preso due punte elicoidali mi ricordo: una affilata bene e l’altra invece da una parte affilata malamente e dall’altra non poteva più tagliare. E in principio che se uno ha fatto il meccanico… e chi ha indovinato quello lì penso che l’abbiano indovinato quasi tutti. Chi l’ha indovinata ci hanno mandato a Kottern, un sottocampo di Dachau. Però lì abbiamo cambiato matricola, abbiamo cambiato tutto. Perché ho abbandonato Flossenbürg con il 21626 e sono andato a Dachau e sono diventato il 116361. Questo era il mio nome a Dachau. E da Flossenbürg ci hanno mandato addirittura, ecco il viaggio che da Flossenbürg va a Kottern non me lo ricordo più. L’abbiamo fatto sul treno ma penso che non ci hanno neanche chiuso sul vagone, perché c’erano due SS seduti lì. Ci hanno tolto quegli stracci che al momento opportuno ci aveva dato al momento della doccia a Flossenbürg, ci hanno dato una zebra nuova, degli zoccoli nuovi e anche un cappello. E non so se il numero da Dachau ce l’hanno dato direttamente lì o se ce l’hanno dato a Kottern. Adesso questo non me lo ricordo più.

Di conseguenza dicono che il treno non si è fermato più neanche ad una stazione, si è fermato su una scarpata, e di lì ci hanno portato nel Lager. In quel Lager c’erano circa 2000 persone. Era un piccolo Lager rispetto agli altri, però il trattamento era sempre quel trattamento. In più però noi lavoravamo per la Messerschmitt in un capannone. Lavorare per la Messerschmitt era stata la mia fortuna penso, perché io ho schivato quasi tutto l’inverno, via che un quindici, venti giorni che ho fatto a trasportare delle lamiere con la slitta ghiacciata all’aperto, perché quei lavori ti decimavano completamente, invece lì facevo l’aggiustatore.

Dovevo, con delle dime, limare dei pezzi che poi li montavano E lì quando entravi le SS ti portavano alla porta, poi i Kapò ti portavano al posto di lavoro e poi entravano i Meister. I kapò non potevano più far niente al momento che entravano i Meister. I Meister erano dei civili che ci davano il lavoro. Man mano che questi Meister segnalavano che il tale non rendeva più venivano inviati ancora a Dachau e quando andavi a Dachau non so se facevi in tempo a fare un altro trasporto.

Se andavi a Dachau, perché non facendo più produzione perché eri deperito, la maggior parte di tutti noi, insomma dei duecento circa che abbiamo fatto la marcia di eliminazione ormai eravamo poche decine. Tutto il resto era tornato a Dachau.

D: E lì quante ore lavoravate?

R: Dodici ore di lavoro al giorno. Dodici ore per quindici giorni di notte e dodici ore per quindici giorni di giorno. E ogni quindici giorni ci cambiavano il turno e quella domenica lì ci lasciavano in libertà. Quella domenica lì si poteva scambiare qualche parola, andare a cercare qualche amico che poi magari scoprivi che era tornato a Dachau o era andato da qualche altra parte. Perché quando siamo tornati ci siamo detti dove eravamo finiti.

Noi eravamo NN: entrati nella notte e usciti nella nebbia. Si scompariva così. E voglio dirti un particolare. In quella fabbrica lì con me e con i Meister c’erano anche i militari. E c’era un ragazzo tedesco, un aviatore tedesco, che più o meno avrà avuto la mia età e io ho iniziato a lanciargli degli sguardi e lo vedevo bello pulito nella sua divisa che mangiava e che beveva. Lui mi guardava e forse io gli facevo compassione vestito da zebrato, affamato, pieno di pidocchi, e ha cominciato che quando beveva la birra ne avanzava sempre un pochino nella bottiglia e poi mi faceva un cenno come dire di andare lì a prendere la birra. E questa cerimonia è durata per un po’ di tempo, perché ha fatto tanti mesi anche lui lì. Quando facevo il turno di giorno lo incontravo. E un giorno, giudicandolo un buono, un dolce, non come un SS, un giorno ho osato. Vedevo che stava affettando il pane e lo mangiava con la marmellata e gli ho chiesto se me ne dava un pezzettino. Lui mi ha guardato e mi ha detto:”Nein”. Come dire: “Niente. Perché sei prigioniero? Sei un bandito? Sei un partigiano?” E con quello è cessata anche la cerimonia della birra. Perché forse io non dovevo chiedere, perché prima di tutto era pericoloso anche per lui, perché il tedesco, il nazista non considerava quegli atti, quei valori non li considerava. Se uno doveva morire doveva morire. Era una bocca in meno da dare da mangiare, anzi uno che non lavorava era inutile tenerlo in vita, doveva andare al crematorio.

E questa era la mentalità del nazista. E la compassione e quegli atti, perché se vedevi qualche atto che ti centrava, che ti toccava, qualche flash che vedevi perché qualche cosa che era il contrario della malvagità ti restava impresso. Perché io quel ragazzo lì quando vedevo che ha continuato per diversi giorni, forse per settimane a darmi la birra ho pensato che forse a cercargli un pezzetto di pane mi avrebbe dato anche quello. Invece il pane non me lo ha dato. O era poco anche per lui, comunque mi auguro che viva ancora e che sia al mondo e sia un uomo felice.

D: Lì a Kottern quanto tempo sei rimasto?

R: A Kottern sono rimasto tanto, sono rimasto un infinità. A Kottern non ce la facevo più. La Pasqua del ’45 era …… proprio, perché per entrare al Revier dovevi avere almeno 39 di temperatura, 39 di febbre. Se no non entravi al Revier. Mi hanno controllato la temperatura. Il Revier di Kottern era in miniatura, non era una baracca. Dove mi hanno messo era un tavolazzo tutto lungo su tutta la lunghezza della Stube che era in muro e uno vicino all’altro. E lì avevo la febbre. Naturalmente entrando al Revier perdevi tutto. Nudo con un camicione sempre a righe e mi hanno messo lì sul castello. E un infermiere, un deportato anche lui, un polacco, mi ha dato una pillola. Non so che pillola fosse, ma mi ha fatto cessare la febbre e basta mi hanno tolto dal Revier e sono tornato in fabbrica.

Ma gli ultimi giorni la fabbrica ormai bombardata una volta, due, tre è stata bombardata definitivamente. Allora ci adoperavano solamente per fare quei lavori sempre di sterro. Sulle massicciate delle ferrovie dove c’erano i binari divelti, dove c’erano i vagoni, case, macerie, tutti quei lavoracci lì, fino alla fine che al 25 aprile, alla mattina ormai c’era stato un appello in generale e solamente il comandante è rimasto. Lì ci hanno incolonnati, ci hanno permesso di prendere la nostra coperta.

Pioveva come Dio la mandava e con la coperta sulle spalle o sulla testa sottobosco, non nelle vie principali, e anche lì abbiamo camminato due giorni e due notti. Tanti dicono che ci hanno dato dei chicchi di grano; bevevamo l’acqua piovana perché il camminare ci ha provocato una sete terribile. Io non mi ricordo cosa ci hanno dato, questo particolare non me lo ricordo. Però l’hanno detto in due o tre e io ne prendo atto.

E così fino a che siamo arrivati a Fronten. Arrivati a Fronten, questo è quello che ho visto io, ho visto un razzo luminoso alzarsi.

Tornando indietro un passo, intanto che noi camminavamo, ci portavano sempre verso le ultime città tedesche e poi c’era l’Austria. Ci portavano verso l’interno, non so. Noi vedevamo tutta la ritirata dell’esercito tedesco che veniva contro di noi come marcia di direzione. Si vedeva proprio lo sfacimento. Siamo arrivati lì che era sera e ho visto un razzo luminoso alzarsi verso il cielo. In quel momento le SS che ci accompagnavano si sono fermate. Naturalmente la colonna era ormai tutta disordinata, perché man mano che restavi indietro sentivi gli spari e venivano seminati anche per la strada. Poi sono arrivati degli autocarri che si sono fermati e le SS sono andate su e sono filati via. I Kapò hanno cercato ancora di tenerci inquadrati e lì non si capiva più niente perché in quel momento c’era il caos più terribile. Poi i russi e i polacchi con la loro forza da spinta d’urto per cercare da mangiare non ci sono stati più né Kapò né mica Kapò. Lì lì sono andati a cercare tutti e i Kapò sono stati sopraffatti. Però come siamo entrati in paese i contadini asserragliati nelle loro case ci sparavano contro perché vedevano questa marea di zebrati affamati e le loro truppe tedesche che si allontanavano e questi qui che venivano avanti, allora ci sparavano. Allora io, Eugenio e un certo Bruno ci siamo messi sotto una tettoia fuori dalla strada provinciale, perché era un piccolo paese dove c’era solo quella strada lì, ci siamo messi lì e poi però la fame era più forte di noi e siamo andati a cercare da mangiare. E infatti siamo andati in un magazzino dove c’erano dei civili e non civili che si azzuffavano per prendere qualche cosa e abbiamo visto dei barattoli che nessuno li prendeva e allora piuttosto che niente ne abbiamo preso uno e lo abbiamo aperto e dentro c’erano i cetrioli sotto aceto. Ecco la prima cosa che ho mangiato è stata quella e così ha disinfettato tutto. Dopo però abbiamo preso un carrellino che una donna tedesca aveva già riempito di cibarie, scatolette di carne, abbiamo fatto la fuga e siamo andati ancora sotto quel cascinale dove eravamo prima e piovigginava ancora. Era il 27 aprile. E lì tra il cetriolo che abbiamo mangiato, tra una scatoletta di carne, siamo crollati tutti e tre e ci siamo impappinati lì che se tornavano le SS ci facevano fuori tutti. Alla mattina invece c’era un’alba stupenda, c’era un sole che annunciava proprio la libertà. E’ uscito il contadino con tre caraffe di latte appena munto e ce le ha date. In quel momento non avevamo ancora visto le truppe alleate, invece dopo un po’ hanno cominciato a passare i carri armati e i camion che andavano in su più o meno dove andavamo noi a piedi, verso l’Austria e sono passati per tutto il giorno.

Io ho visto che tutti i veicoli portavano la stella bianca e allora ho chiesto al contadino :”Chi sono?” E lui ha detto che non erano russi ma americani. E quindi al mattino abbiamo capito realmente che eravamo liberi.

D: E dopo per tornare in Italia?

R: Gli zebrati alcuni sono ritornati a piedi, alcuni sono ritornati in Dachau, alcuni sono andati verso la Svizzera: Ferruccio Belli, Magenis sono andati verso la Svizzera e in Svizzera li hanno messi ancora nei campi di concentramento per fare la quarantena. Era un campo di concentramento bello ma erano ancora chiusi lì dentro. Invece io, Eugenio Esposito e Bruno Donelli siamo sempre rimasti insieme. Allora siamo andati verso l’Italia e siamo entrati in Austria in una cittadella del Tirolo e la differenza vedevi che le bandiere bianche della resa le vedevi dove eravamo stati liberati e invece come siamo entrati in Austria c’era la sua bandiera nazionale rossa e bianca, purché si definivano anche loro invasi dai nazisti. Però dico una cosa, perché i nazisti negli ultimi giorni ci hanno fatto fare quelle marce lì che hanno seminato tantissime persone. Sono partiti in 14000 e sono arrivati in 1000-1500 persone, seminati tutti per la strada. Quella è stata l’ultima carneficina inutile da fare fino al momento che sono arrivati gli americani, fino a che non hanno visto i carri armati americani hanno continuato a punirci e ad ucciderci.

D: E poi in Italia però da dove sei entrato?

R: In Italia sono entrato da Bolzano.

D: Dal Brennero?

R: Dal Brennero. Io avevo organizzato uno zainetto, avevo tolto la zebra e invece Eugenio l’aveva portata a casa, mi sono pentito perché potevo almeno tenere il triangolo; l’unica cosa che ho portato a casa è il cucchiaio. Perché noi eravamo dei barboni, avevamo il cucchiaio e la gamella con un pezzo di corda attaccato all’altra corda che faceva da cintura. Gli americani con la camionetta in quindici persone con quindici zaini ci hanno portato a Bolzano. Lì siamo andati all’ospedale di Bolzano e ci ha preso in mano la Croce Rossa e dopo con il camion del Comitato di Liberazione di Cernusco sul Naviglio siamo partiti da Bolzano e siamo arrivati a Milano.

D: Quando sei arrivato a Bolzano c’era un comitato di assistenza?

R: Sì c’era qualche cosa, ma non come forse ci doveva essere. A parte che rientravano dalla Germania di tutte le qualità: rientravano i lavoratori liberi, rastrellati. Non tutti erano dei campi di eliminazione. Io ero nei campi di eliminazione ma c’era gente che era là a lavorare. In Austria siamo finiti in un asilo ospite; eravamo occupati dentro in un asilo austriaco in una bellissima cittadella di montagna. E lì ci hanno dato la tessera. Invece quando siamo arrivati a Bolzano ci hanno fatto una visita medica sommaria e a Bolzano abbiamo iniziato a vedere gente con le fotografie che cercavano i loro parenti e che chiedevano da dove venivamo e se avevamo visto i loro parenti. E penso che l’amico Esposito ha saputo della fine di suo padre che è stato fucilato in Piazzale Loreto, malgrado lui l’avesse sospettato, però la conferma l’ha avuta a Bolzano proprio al ritorno di quei quindici fucilati in Piazzale Loreto che poi sono stati tirati su per le gambe dai nazisti.

D: Lì a Bolzano ti hanno fatto un certificato di rientro?

R: No a Bolzano non me lo hanno fatto, però me lo hanno fatto a Milano. Ce l’aveva anche Eugenio, me lo hanno fatto in Porta Vittoria. Era un tesserino rosso dove c’era scritto proveniente da Dachau.

D: Quindi te lo hanno fatto lì a Milano.

R: A Milano all’ex sindacato fascista.