Massari Giovanni

Giovanni Massari

Nato il 02.04.1925 a Castiraga Vidardo (MI)

Intervista del: 10.09.2003 ad Abbiategrasso (MI) realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 205 – durata: 59’+47′ circa

Arresto: novembre-dicembre 1944 in Val Grana

Carcerazione: Comando di Pradleves (Val Grana), Castello di Saluzzo (CN), Le Nuove a Torino

Deportazione: Bolzano, Mauthausen, Gusen 1

Liberazione: 5 maggio 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Massari Giovanni.

D: Nato?

R: A Castiraga Vidardo. Provincia di Milano.

D: Quando sei nato?

R: 2 Aprile 1925.

D: Giovanni ci racconti la tua storia da quando sei stato arrestato?

R: Incominciamo dalla montagna. Eravamo in montagna; un grosso rastrellamento, allora ci hanno chiesto di aiutare tutti, di aiutarci a vicenda per far fronte a quelli che arrivavano, tedeschi o… Ve bene. Non volevano che andassi, ad ogni modo ho voluto andare. Vado anche io, vado anche io e siamo andati. Siamo andati su di una montagna dalla parte di Pradleves Val Grana. Sono circa 1000 – 1200 metri circa, lì c’era una casetta, dovevamo fare la guardia a tutto quel costone di montagna. Due ore per ciascuno di notte.

Lì si vedeva tutta la pianura tranne che quel mattino lì c’era nebbia. Ad ogni modo di notte non è successo niente. Viene il mattino, finito i nostri compiti Lì si vedeva tutta la pianura tranne che quel mattino lì c’era nebbia. Ad ogni modo di notte non è successo niente. Viene il mattino, finiti i nostri compiti siamo scesi, eravamo, del mio distaccamento eravamo in due, poi c’era un altro di un altro distaccamento, poi c’erano altri due di altri distaccamenti e siamo scesi tutti assieme. Diretti alla centrale.

D: Scusa Giovanni, quando avveniva questo, in che periodo, in che mese, in che anno?

R: Nel periodo di novembre principio di dicembre.

D: Di che anno?

R: Del 1944.

D: Ma quando tu parli di distaccamenti, sono distaccamenti militari o erano formazioni partigiane?

R: Partigiani. Formazione partigiana.

D: Quindi tu eri un partigiano?

R: Esatto.

D: Di che formazione eri?

R: Giustizia e Libertà.

D: Quanti anni avevi allora Giovanni?

R: 19 anni.

D: Allora siete scesi dalla montagna.

R: Siamo scesi e siamo andati al comando. Al comando non c’era più nessuno, sono andati via. Cosa è successo? La gente fa “Ma siete ancora qua? Sapete che ci sono in giro i tedeschi?” Va bene, noi andiamo al nostro distaccamento.

Strada facendo, a fianco di solito c’erano quei tronchi di albero che loro mettevano attraverso la strada per qualche incursione tedesca. Non c’erano più. Erano spostati. Se si trovava la gente diceva “Andate su per i sentieri perché ci sono in giro i tedeschi”. Noi su per il sentiero siamo andati su al nostro distaccamento. Quello là è andato al suo distaccamento che era più in alto di noi e noi due siamo andati al nostro posto al nostro distaccamento. Là non c’era più nessuno. La gente del posto ci ha detto “Hanno lasciato un biglietto, se volete raggiungerli sono al tal posto così e così, Città del Fieno”. “Dov’è?”. Il mio amico che era di Cuneo, dice “Io l’ho fatta una volta, andiamo?”. Ma sul biglietto c’era scritto “Partite di notte”. “Ma no, dice, partiamo di giorno perché altrimenti io la strada non la so più”. Come si fa? Già sparavano in giro, sparavano. Porca miseria.

Allora che cosa si fa, su per la montagna, dobbiamo cavalcare la montagna e andare giù dalla parte di là. E su, e su, e su questa montagna, quando siamo arrivati in cima non c’era più vegetazione, non c’era più niente. Non so l’altezza di preciso. Si sentiva sparare da tutte le parti, ma dove sparano. Noi andiamo giù di là, e chi si è visto, si è visto.

Strada facendo per andare giù dal costone della montagna abbiamo sentito dire “Mani in alto. Mani in alto”. Ma io sono rimasto pietrificato. “Cosa state facendo”, dicevo. Credevo erano partigiani, invece erano tutti tedeschi. Una raffica di mitra per aria, avevano quella mitraglietta lì ed abbiamo alzato le mani. Non c’era niente da fare. Sono saltati fuori, saranno stati un centinaio. Nel bosco e nei dintorni lì. Sono venuti là e prima di tutto ci hanno tolto il fucile, la cintura, che cadevano persino i pantaloni. Mi hanno preso per qua e mi hanno detto “Adesso venite con noi”. “Dove sono i partigiani, dove sono i banditi?”, loro non chiamavano partigiani, “Dove sono banditi?” Ed io “Guarda, a dire la verità arriviamo qua adesso”. Ad ogni modo lì sono venuti tutti, tedeschi, fascisti, brigate nere, ce ne erano di tutti i colori…venivano da Milano. Quei fascisti lì erano collegati con i tedeschi e venivano da Milano.

D: Giovanni ti ricordi che giorno era quando ti hanno arrestato?

R: Quando mi hanno arrestato non lo so. Lì ho perso tutte le bussole.

D: Era inverno però?

R: Sì. Era il mese di novembre, la fine di novembre. Perché mi ricordo che il 28 novembre, anzi, ottobre è nevicato e dopo un po’, eravamo in dicembre, adesso non lo so.

D: E dopo da lì dove ti hanno portato?

R: Lì ci siamo incamminati e si andava giù dalla montagna e dicevano “Tutti Kaputt”, via tutto e siamo rimasti là con i pantaloni e la giacca e basta. Porca miseria. E siamo andati giù al comando. Giù al comando c’erano radunati tutti i fascisti e tedeschi, un disastro di militari.

D: Ma dove, in che paese?

R: Era Pradleves, Val Grana. Lì hanno incominciato l’interrogatorio. “Dov’è la benzina, dove sono i banditi, da dove venite…” ed hanno incominciato a picchiare. Lì insieme ai fascisti che c’erano lì e che venivano da Milano ce ne era uno che conoscevo e mi ha detto “Ma io ti conosco, tu sei di San Donato”. Perché io abitavo a San Donato. “Sei di San Donato” e lui era di Noceto, Porto di Mare e dalle parti di Piazzale Corvetto a Milano, Cascina Grande verso Chiaravalle. Abitava lì lui. “Ma io ti conosco, sei venuto là ad aiutare a buttar giù il fieno dalla cascina quando c’erano i bombardamenti ed ha preso fuoco la cascina”. “E sì, ho detto, eravamo sbandati”. “Va bene, fa, hai fame?” “Altroché, gli ho detto” “Hai le sigarette?” “Non ho niente, sono qui così”.

Mi ha dato tre sigarette, e mi fa “Adesso parlo con il comandante, se posso tirarti dentro qua, vieni a Milano, poi te ne vai, più importante è arrivare a Milano”. ” Va bene, prova”. Difatti è andato dal comandante, ed il comandante, sentivo, in quel momento è corso là uno di loro, non tedeschi, fascisti e mi fa “Cosa hai in mano?” ” Mi ha dato tre sigarette quel signore là”, ” Ma sei pazzo, gli ha detto a quello, tu sei matto a dare la roba ai partigiani”, che loro chiamano banditi. “Ma io lo conosco quello lì”, “Non mi interessa”, mi ha preso le sigarette, le ha rovinate e le ha buttate via. Intanto il mio amico parlava con il comandante, io lo chiamo amico perché abitava nelle vicinanze di San Donato.

È andato là e gli fa “Fallo venire qua”, io sono andato là, mi sono presentato, mi fa ” Di dove sei?” “Di San Donato”, mi ha guardato in faccia “Non hai vergogna, siamo tutti di Milano noi, siamo tutti di Porta Romana, non hai vergogna ad essere qui in mezzo a questa gente qua, in mezzo ai banditi?” Cosa potevo rispondere io, io ero al militare e sono scappato dal militare, per forza ho dovuto fare, però non glielo ho detto. “Vattene a posto”, mi ha sputato in faccia e fa “Ringrazia Dio che ti hanno preso i tedeschi, se ti prendevamo noi ti fucilavamo subito.” Io sono andato a posto e lì ha cominciato a prendere anche degli altri ed interrogarli, ogni tanto venivano là: “Vieni qua, dove sono i partigiani, dov’è la benzina, dove sono le munizioni, dove sono andati banditi?” Per il momento non picchiavano.

Viene la sera. Viene la sera tutti fucilati. Difatti eravamo in tredici. Tredici tutti là contro il muro, dietro l’albergo. Perché c’era il comando, era dentro l’albergo il comando di Pradleves in Val Grana, dietro c’era la mura. Volevano fucilare l’albergatore, volevano, c’era la moglie che impazziva, noi eravamo là contro il muro così. Viene là il tedesco, fa “Banditi, sì, banditi”, uno di quelli che avevano i gradi, “Te, fucilare”, arriva uno con il moschetto, con l’elmetto, fuori. L’hanno portato non so dove e si è sentito il colpo, uno è andato.

Poi “Te, dove sono i banditi, dove sono ecc,” “Non lo so”, “Fuori, fucilare”. Fucilare e quello là va fuori e si sente il colpo anche a lui. Poi fa segno a me, “Te fuori, no te, quello di fianco”; io tiro un po’ il fiato e di fatto è uscito quello di fianco a me e stessa fine. Sentito il colpo “bum”. Bene, lì così dopo un po’, dopo che hanno interrogato tutti sono venuti fuori tutti quelli là, “Non vi hanno fucilato?” “Non lo so, ho sentito il colpo, ma vedevo ancora il muro. Ci è andata bene.” Lì allora ci hanno chiusi nella cantina quella sera lì, nella cantina ogni tanto ne buttavano dentro uno. È venuto dentro un francese. Quando sentivi aprire la cantina, ne hanno buttato uno dentro per forza, era un francese. E non si capiva che cosa diceva. Tutto così.

Al mattino altro interrogatorio. Fuori dalla cantina c’era un’osteria lì vicino, eravamo nel gioco delle bocce, tutti là ad aspettare l’interrogatorio ed andava dentro uno per volta nell’osteria e là viene fuori uno con una faccia così. Ne hanno date chissà quante. Poi sotto un altro, poi sono andato io. Dentro.

Dentro erano là in quattro, uno picchiava di qua e mi buttava su quello là, quello là mi picchiava e mi buttava sull’altro. Facevano il giro, ma pugni e pedate. Volevano sapere dove era la benzina e dove erano le armi e dove erano andati banditi. Sempre questo. “Ma io non lo so, non so niente, che ne so io dove sono andati e dove era la benzina”. Noi eravamo su in cima alla montagna, non so cosa succedeva giù qua e giù botte.

Ad ogni modo dopo mezzogiorno ci hanno caricato sul camion, sul camion via, e vai e vai siamo andati a Saluzzo. Ci hanno rinchiusi nel Castello di Saluzzo al primo piano. Si vedeva in un angolo della finestra un po’ di pianura, faceva un freddo. Si vedeva tutta la campagna bianca, tutta la brina che c’era. Lì tutti i giorni interrogatori, però non picchiavano. Siamo andati in una Chiesa, nella Chiesa del Castello. Sembrava proprio Schuster, assomigliava tutto a Schuster nel parlare e diceva “Dove sono banditi? Perché sei qua? Da dove vieni?” Interrogatori così.

D: Sempre tedeschi che ti interrogavano?

R: Eh?

D: Erano sempre i tedeschi che ti interrogavano?

R: Sì, sì. Non si andava fuori dalla stanza del Castello senza la guardia tedesca. Questo sembrava un prete. Mi interrogava e dopo alla fine gli ho detto “Io ho detto tutto, cosa volete da me, non ho niente da dire.” E poi gli ho chiesto “Cosa ci faranno a noi?” “Non si preoccupi”, mi ha detto, “vi impiccano tutti.” “Vabbè, siamo a posto allora.”

Lì niente, siamo stati lì circa una settimana, circa. A mezzogiorno suonava la campana quella grossa del Castello, era mezzogiorno, quelli che c’erano dentro, i miei compagni dicevano “Ecco quando suona il campanone grosso è uno che va”, allora veniva addosso un po’ di paura. È passata circa una settimana, circa.

Un bel giorno di mattina presto presto, era ancora buio “Fuori tutti”, fuori tutti in colonna. In colonna, tedeschi a destra e a sinistra di questa colonna. Siamo andati al trenino, lì c’era un trenino, non so da dove veniva, forse da Cuneo e faceva Cuneo – Val Grana e andava fino a Torino e lì ci hanno caricato su questo trenino e siamo andati a Torino.

Siamo venuti a Torino ed in colonna abbiamo preso il Corso, e siamo arrivati alle Nuove.

D: Scusa un attimo Giovanni, su questo treno qui, i vagoni come erano? Erano vagoni passeggeri o erano carri di bestiame?

R: Era un trenino, un tram non era, era una specie di tram, ma era un trenino, aveva tante carrozze.

D: Ma c’erano anche dei civili o solo voi?

R: No, no, solamente noi. Non c’erano civili lì. I civili avevano paura. “Il primo che tenta di scappare” dicevano, “guardate che ci andate di mezzo tutti. Spariamo anche contro gli altri.” Allora “Non scappare, non scappare. Ti raccomando che noi non c’entriamo niente”. E lì siamo andati a Torino, in colonna.

Mi ricordo che era un Corso, e c’era gente a destra e a sinistra e ci guardavano e a destra e a sinistra c’erano tedeschi armati e ci hanno condotto alle Nuove.

Ci hanno messo dentro in una cella che deve essere stata la cella… non so, era uno solo che stava dentro. C’era una branda di ferro, l’abbiamo alzata perché non ci stavamo tutti dentro, eravamo in tre e non ci stavamo. Il bagno era un buco e basta, un buco così. Poi per tavolo c’era, usciva dal muro un pezzo di asse così e sopra c’era scritta la dama.

Quel legno lì, quell’asse lì che usciva dal muro, si capisce che, tornando indietro c’erano quelli che hanno tirato via dei pezzi di mattoni per fare la dama. C’erano dentro i pidocchi, c’erano dentro le cimici, cimici rosse c’erano. Erano rossi. E lì siamo stati così.

Ho incominciato a sentire le pulci, leva tutto, guarda la camicia, non erano pulci, erano pidocchi, pidocchi neri. O porca miseria. Non erano pidocchi, avevo la scabbia.

Quando venivano a portare il rancio, qualche cosa ci davano, gli dicevo “Guarda che abbiamo la scabbia”, “Arrangiatevi”. Lì da tre siamo diventati cinque. In cinque in una cella, tutti per terra, non c’era niente, né paglia né niente, tutti per terra così con la coperta e basta, ognuno aveva la sua coperta. Quello che andava in bagno, il buco era lì, perché sarà stata due e qualche cosa di lunghezza ed uno e qualche cosa di larghezza. Ci stava la branda perché si faceva su la branda. Si agganciava al muro e c’era quel pezzo lì che era piegevole. Si poteva tirare su ed il sedile lo stesso, ma sbandava tutto perché levavano tutto.

Lì quando uno andava in bagno si sentiva, no, l’odore non era niente. Si sentiva bagnare la faccia perché non era un bagno come i nostri, era un buco e basta, però c’era l’acqua corrente. Si tirava la corda, almeno andava giù. Parlando materialmente.

Lì passa un giorno, passa due, passa tre ogni tanto venivano là le suore e ci davano un tozzo con dentro le castagne lesse. Qualche cosa ci davano da mangiare.

Veniva là il secondino e gli dicevo “Guarda che io ho la scabbia, portatemi in infermeria.” Quasi tutti i giorni ci portavano giù uno per uno a fare ancora l’interrogatorio, allora “Portatemi in infermeria, altrimenti qua ce la prendiamo tutti perché attacca quella malattia.”

Il secondino era un fascista, sarà stato uno e cinquanta, uno e sessanta, sembrava Charlotte quando camminava e gli dicevo “Capo, guarda che noi abbiamo la scabbia” “A me non interessa, tanto vi impiccano tutti”, diceva sempre così. Ed io grattavo, quello là grattava, si può immaginare che cosa c’era dentro. Eravamo tutti infestati da quella malattia lì.

Lì siamo stati lì, non so, un quindici giorni.

D: Giovanni, lì ti hanno dato un numero a Torino, ti hanno immatricolato?

R: No, no, niente, niente.

D: Dopo quindici giorni che cosa è successo?

R: Ci hanno cambiato e ci hanno dato la divisa della Decima Mas, leggerissima, molto leggera. Nera. I miei li hanno buttati via, non so che cosa hanno fatto. Ma la scabbia c’era.

D: E dopo quindici giorni delle carceri le Nuove a Torino?

R: Dopo lì quindici giorni, lì perché io l’ho saputo, ci hanno caricati fuori tutti e ci hanno caricati sul camion, alle Nuove, ci hanno caricati sul camion e destinazione chi lo sa. Chi ha avuto fortuna, chi aveva un pezzo di carta in tasca ed una matita scriveva, “Avvisate tot che noi siamo partiti, partiamo e non sappiamo dove andremo”. Insomma. Ma io non avevo niente perché dopo la guerra ho saputo che mio padre e mia sorella hanno fatto di tutto per venire a Torino a trovarmi e sono arrivati lì “Sono partiti tutti” “Per dove?” “Non si sa”. Nessuno sapeva niente.

Lì con i camion, quel giorno, partiti. Preso l’autostrada e chissà, era chiuso tutto con il telone, e c’era giù anche di dietro il telone quasi tutto, non si vedeva niente, si vedeva un pochettino e basta. Si vedeva la strada in basso e basta, ed il camion andava.

Arrivammo a Milano, penso che era Milano, si sono fermati lì, guardo c’erano i fascisti così, c’era uno, come si chiama quello… Amedeo Nazzari sembrava, tutto lui. Un trench, aveva su un trench con la mitraglietta, in mezzo a tutti i fascisti per fare la guardia, se qualcuno scappa, i camion si sono fermati, forse a fare rifornimento.

D: Ecco Giovanni, i camion erano tanti?

R: Chi lo sa. Non si vedeva niente, i teloni erano giù dappertutto.

D: Sul tuo camion eravate solamente uomini?

R: Sì, sì, donne non ce ne erano.

D: Non ce ne erano?

R: No, no. C’eravamo noi, c’erano su due tedeschi con la mitraglietta e basta. Lì si capì che hanno fatto rifornimento al camion, non lo so. Ed ho visto quel tale lì in mezzo ai fascisti e sembrava tutto Amedeo Nazzari. “Ma quello là è Amedeo Nazzari”.

Lì i camion partono ancora a colonna, penso che erano a colonna, perché non si vedeva niente, era tutto chiuso. Parte ancora e si va e si va. “Ma dove si va? Dove andiamo?” Tanti dicevano “Andiamo a Verona, forse, là ci smistano ed andiamo a lavorare.” Speriamo che sia la volta buona. Vai e vai, difatti siamo andati a Verona. Verona nel Castello. Dentro nel Castello tedeschi dappertutto.

Lì siamo scesi dal camion c’era là un pullman ma era una corriera ancora di quelle vecchie, saremmo stati su, tutti pigiati così, saremmo stati su, non lo so, circa un centinaio. Tutti ammassati dentro. Su questo pullman qua, parte. Non siamo andati neanche dentro, non ci hanno dato neanche un caffè, niente da mangiare, niente niente.

Lì su questa corriera, la corriera comincia a partire, ma dove andiamo, chi lo sa, l’altro dice “Non lo so”. L’altro dice “Forse andiamo a Bolzano, là ci distribuiscono ed andiamo a lavorare”, “Speriamo, prima di qua, e poi di là, cominciamo ad andare a Bolzano, poi vedremo”. Lì ancora su questa corriera tutti chiusi dentro. Cominciava a far freddo, andare su tra quelle montagne, fino a Bolzano.

C’erano quelli feriti, c’erano quelli che volevano andare in bagno, tutto su, un odore, insomma una puzza che non si poteva respirare. Tirare giù il finestrino non si poteva perché c’erano su i tedeschi e “Guai a voi se aprite un finestrino”. Era tutto appannato e non si vedeva niente fuori. Fuori faceva freddo, dentro si moriva dal caldo.

Lì siamo andati a Bolzano, era buio oramai, non si vedeva niente, non so se era un campo di concentramento, cosa era non lo so. Era tutto buio. Giù da questa corriera, siamo andati dentro a questo campo di concentramento a Bolzano. Io non sapevo dove era, mai stato e mai sapevo che c’era un campo di concentramento, mai sentito nominare. Dentro lì. Ci hanno chiusi dentro lì. Tutta notte lì, a dormire. C’erano le brande a castello, quella sera lì.

Al mattino, su, ci hanno dato un pochettino di caffè. Ma a cosa serve il caffè. Ho bisogno di mangiare. Prima di tutto gli dico “Guarda che io ho la scabbia”, ” Bene, bene chi ha la scabbia fuori”, da uno solo che ero io, ne sono saltati fuori ancora tre. Allora “Perché non parlate?”

Allora lì dopo che cosa hanno fatto? Dopo il caffè mi hanno messo nudo ed hanno preso il pennello con…

D: Il disinfettante.

R: Come si chiama, lo zolfo. Tutto giallo. Ha cominciato da qua sotto, tutto giallo. Tutte le mattine dovevamo fare quella pennellata lì. Ma la scabbia cominciava a fare puzza, a fare l’acqua. Non era troppo bello.

Lì siamo andati avanti un po’ così. Ad un tratto una mattina c’erano quelli vecchi, perché il capannone era così, se lo ha visto quel campo lì, sembrano quei capannoni mezzo rotondi. A sapere portavo qua il libro che mi hanno mandato.

Lì le mura non andavano fino contro là, era dopo la metà. Quelli che dormivano sopra là, guardavano dall’altra parte, c’erano le donne di là o tenevano qualche cosa da mangiare. Andavo là io e non mi volevano. “Dove vai te, non si può venire qua.” Perché volevano prenderlo loro. Noi sempre lì a fare quella vita lì. Guarda a destra e guarda a sinistra, dove dormivo io, dormivo in basso, in primo piano, piano terra, sempre su un castello, ho visto un buco. Ho visto un buco grosso un dito, grosso così. Ho guardato di là ed ho visto una donna, “Signora, signora” ma lei non rispondeva, provo a chiamare più forte, perché se sentivano guai, se mi pescavano che c’era il buco lì erano guai anche per me, allora “Signora, signora”. Si sono accorti che c’era il buco, l’hanno chiuso e io sono rimasto ancora come prima.

Una bella mattina “Fuori tutti, fuori tutti, fuori tutti”, cosa c’è, cosa non c’è, tutti in colonna, un freddo. Saranno stati sette gradi sotto zero, sei sette gradi sotto zero. Un freddo, si vedeva, ma non c’era neve. Proprio quel freddo secco lì a Bolzano, terribile. Lì cosa c’è, cosa c’è, hanno scoperto che hanno cercato di scappare.

Poco lontano da me c’erano il letto a castello, hanno fatto un buco che doveva andare sotto le fondamenta ed andare fuori di là. Se andavano fuori di là c’erano i vigneti, la campagna. Mancavano ancora due metri, dicevano, e li hanno presi. è stato scoperto un mucchio di terra, tutti i castelli e noi fuori, un freddo. Io avevo su quella divisa lì, si può immaginare, gelavo.

Lì fuori “Chi è stato? I complici?” I complici nessuno voleva parlare. “Guardate che fuciliamo tutti.” I tedeschi “Se non parlate, guardate che fuciliamo tutti.” “Allora mi raccomando chi è complice vada fuori, cercheremo di aiutarvi”, nessuno vuole andare fuori. Siamo stati lì quasi tutta la giornata. Lì era successo alla mattina, subito alla mattina presto, all’appello.

Dopo mezzogiorno eravamo ancora là ed i soldati “Fuori”, ne sono andati fuori due “Siamo stati noi”, allora noi siamo rientrati, quelli là non li abbiamo più visti. Chissà se li hanno fucilati, li hanno messi, non lo so, non si sono più visti. Poi c’erano altri complici, avranno parlato e saranno saltati fuori degli altri. Lì siamo andati avanti così.

D: Scusa Giovanni, lì a Bolzano ti hanno dato il numero di matricola?

R: No. Niente matricola. Non avevamo matricole, avevamo il triangolo. Ci hanno appiccicato un triangolo colorato così sulla giacca, un triangolo rosso.

D: Senza numero.

R: Senza numero. Ed io dicevo, “Ma cosa vuol dire questo triangolo?” “Pericolosi”. Là dicevano che questi triangoli erano così perché eravamo pericolosi, ma io vedevo quelli di là perché c’erano anche degli altri, altri compartimenti, chi lo aveva rosa, chi blu, c’erano diversi colori, “Perché noi rossi?”, “Perché noi siamo pericolosi”.

Lì siamo andati avanti così, siamo andati avanti fino dopo l’ultimo e il primo dell’anno. Lì a Bolzano sono andato circa a metà di dicembre. Lì Natale, boh, è Natale sì, è Natale no, ci hanno dato un pezzettino di pane in più. Ma io non sapevo se era Natale perché abbiamo perso il filo delle date. Poi viene l’ultimo e il primo. Il primo dell’anno, i tedeschi, erano in pochi, erano tutti a far festa, solamente le guardie e basta. Ci hanno dato ancora un pezzo di pane in più, “Come mai?” “Perché è l’ultimo dell’anno”. Allora ho cominciato a dire “E’ già l’ultimo dell’anno”, perché prima non sapevo che giorno era e niente.

Lì dopo le feste circa l’8, mi pare, all’8 gennaio, sul camion ancora e siamo andati alla stazione. “Dove ci portano? Andiamo a lavorare?” “Ma chissà dove andiamo? Chi lo sa?” ed io sempre con quella divisa là morivo dal freddo. E siamo andati alla stazione, eravamo quattrocento, cinquecento persone.

D: Come fai a dire che era la stazione. Tu hai visto una stazione ferroviaria?

R: Era la stazione, non era proprio la stazione dove andavano…

D: I civili.

R: I viaggiatori così. Doveva andare il bestiame. Nei binari morti. Così. Giù dal camion lì sui vagoni. “Dove andiamo? Chissà dove andiamo. Boh”.

Siamo andati sul mio vagone, di bestiame, eravamo su in circa una trentina, lì ci hanno chiusi dentro, basta, chiusi dentro non si poteva più.

Dunque siamo partiti circa l’8 gennaio, ed abbiamo fatto tre giorni e tre notti su lì, si vedeva appena fuori, sa che ci sono quelli sportelli che si aprono, ce ne era uno di qua ed uno di là, quello di là facevamo da… e lì facevano tutto lì. Il freddo che faceva, si alzava sempre di più. Prima la puzza e poi gelava ed era un blocco solo, un disastro, paglia per terra non ce ne era, si dormiva così, senza coperte e niente, niente. Così come si andava su. L’aria quando il treno andava, l’aria veniva dentro e si moriva allora cosa si faceva? Ci si ammucchiava tutti, tanto per tenersi un po’ caldi. Facevamo il turno appoggiati al carro e tutti là a cercare di aiutarsi per il freddo che c’era.

Lì passa un giorno, ne passano due, sentivamo, eravamo già in Germania. Noi non sapevamo se era la Germania, chi lo sa. Dove andiamo nessuno lo sapeva, non si vedeva niente fuori. Appena, appena quando era chiaro si vedeva fuori e si vedeva tutta neve, tutta neve e basta e sentivamo parlare in tedesco. “Ma cosa succede?” e lì bim bum hanno aperto. Hanno aperto, sono saliti due tedeschi con la mitraglietta e uno fa “Noi vi uccidiamo tutti, fuori quelli che hanno tentato di fuggire”. Perché chi parla un po’ il tedesco, perché noi non si capiva che cosa diceva ed allora l’interprete lo diceva “No, noi non tentiamo di scappare”, “Abbiamo visto delle luci dentro”, non si capiva cosa dicevano. Cos’era? Era uno che aveva un pezzettino di candela e l’ha accesa così si scaldava un po’ le mani così. Loro hanno visto il chiaro dentro ed hanno aperto e volevano fucilarlo. Porca miseria.

Allora fuori tutti, guarda nelle tasche di tutti, allora si sono calmati e quando hanno visto che era quel pezzettino di candela lì, sono scesi hanno chiuso di nuovo e via. Il treno parte ancora, ogni tanto si fermava, sempre così. Stava fermo magari un quarto d’ora. Poi andava dieci minuti, poi si fermava, insomma è stato in ballo tre giorni e tre notti.

Siamo arrivati a Mauthausen, non si sapeva dove eravamo. Un bel momento, era mattino, cominciava a venir chiaro, si sentiva aprire il portone. Quello là non si apriva più, perché era tutto gelato, hanno aperto questo di qua, aprendo quello lì “Tutti giù, tutti giù”, “Dove siamo, dove siamo?” C’era una stazioncina come questa di Abbiategrasso e c’era scritto Mauthausen. “Siamo arrivati a Mauthausen. è buona, è buona.” “Perché?” “Perché si sentiva che quelli che ci sono già stati vanno a lavorare e stanno bene.” “Speriamo”, ho detto, “che sia quello.”

Lì tutti in colonna, c’erano quelli feriti, quelli che non potevano camminare. C’era giù la neve pestata, tutta pestata e ghiacciata, ogni tanto c’era qualche macchia rossa, questi sono tutti feriti che sono scesi e non ce la fanno più.

Lì tutti in colonna, via “Dove andiamo?” “Chi lo sa” tutti in colonna seguivamo loro, siamo andati. Strada facendo, non c’era in giro nessuno. Nessuno c’era in giro, c’era una donna vestita di nero, deve essere stata giovane, tirava lo slittino, perché c’era giù la neve ghiacciata, c’era su un ragazzino con uno zainetto a cavalcioni allo slittino o che andava all’asilo o che andava a scuola. Tutto quello che ho visto. Aveva su gli stivali, quelli neri che c’erano una volta, povera gente, insomma.

Lì niente, non si vedeva nessuno, non faceva neanche finta quella signora là. Uno ha tentato di dire “Signora, signora”, niente, orca miseria, no, no, camminando siamo andati su a piedi, dopo tre chilometri, non so, dalla stazione, siamo andati su fino alle carceri.

D: Al campo.

R: Al campo. A piedi, su, su. Lì c’è la strada provinciale, non si sapeva se era asfaltata o no, ma era tutta pestata, perché chissà la gente che è passata di lì, prigionieri senz’altro e siamo andati su. Su siamo andati dentro nel campo, varcato il portone, subito dentro a destra.

Lì seduti sulla neve contro il muro, la neve è tutta ghiacciata e tutta pestata, stavamo là ad aspettare, “Che cosa aspettiamo?” c’erano già dentro delle altre persone, lì c’erano le docce. C’erano le docce, poi c’era il crematorio e poi c’erano le cucine, tutto lì in fila a destra. E noi aspettavamo là. Aspettavamo. Lì chiedevano “Chi ha in tasca qualche cosa, qualche cosa di personale, fuori, ammucchiare, ammucchiare tutto e poi restituire, ammucchiare tutto e poi restituire”. Chi aveva l’orologio “Io darcelo a lui, no, no”, calpestavano per terra, lì c’era il muro, la buttavano di là, di là cosa c’era? Non lo so. Forse i tedeschi c’erano. Chi lo sa cosa c’era di là. Buttavano di là, o schiacciati sotto la neve. Tutto così, non c’era niente di personale.

Svestirsi tutti completamente nudi, e là c’era una porta dentro, e riparati un po’ dall’aria, tutto fuori, svestirsi tutti, e si andava a fare, ecco, facevano tutti i peli, tutti la testa così, tagliati tutti i capelli. I capelli li hanno tagliati però in mezzo ci hanno lasciato una striscia così, partiva dalla fronte ed andava fino di dietro. E passavano con il rasoio. La macchina che tagliava i capelli strappava, il rasoio non tagliava, bruciava tutta la testa, proprio tutto in mezzo qua. Facevamo la doccia, era fredda, era calda, ogni tanto era gelata. Sotto lì non c’è niente da fare. Per asciugarsi c’era un pezzettino di tela, chissà quante persone l’hanno adoperata. Cosa vuoi asciugarti con questa cosa qua, non ti asciughi niente, anzi ti bagni.

Lì ci hanno dato una camicia, un cappello zebrato, una giacca ed un paio di pantaloni. Fortunatamente ci hanno lasciato quelli che avevamo prima, le scarpe. Quelle lì le ho trovate ancora. Ho messo su ancora i miei scarponi di quando ero dei partigiani. Allora ho messo su i miei scarponi, con in mano quella roba lì “Fuori” “Ma dove andiamo fuori?” “Fuori, fuori” buttati fuori, dovevano entrare quegli altri. Fuori un freddo, dovevamo andare alla baracca. Alla baracca c’era circa trecento metri, circa.

Strada facendo c’erano le baracche, a destra c’erano i crematori, c’erano i bagni, ecc. A sinistra c’era una fila di baracche, noi dovevamo passare in mezzo e andare dietro a quelle baracche lì, al blocco 18, alla baracca 18.

Strada facendo nudi, con in mano la camicia, tutto così, i prigionieri che c’erano là ridevano, perché eravamo tutti nudi in mezzo la neve, allora prendevano delle palle di neve e ce le buttavano. E si mettevano a ridere.

Lì si camminava, a distanza si vedeva una specie di scala e della gente che camminava su. “Ma cos’è quello là?” “Boh”, non si sapeva niente. Difatti di lì siamo andati al blocco. Siamo andati alla baracca. Alla baracca non c’era niente. Per terra c’era un pochettino di paglia, quello sì. C’erano quelli che erano feriti, non potevano starci dentro. Allora tutti per terra sulla paglia così con la coperta sopra. Se uno doveva andare in bagno così, dovevano cavalcare uno sopra l’altro. “Ma che disastro che c’è qua” “E’ così”.

Lì cosa succede? Succede che siamo andati avanti un poco e gli ho detto “Guarda che io ho la scabbia”, lì c’era un prete dentro, e mi dice “Fa vedere”, mi ha guardato e fa “Tu hai la scabbia, ma non hai solo la scabbia, tu vai zoppo, sei ferito”, “No, ho una ghiandola in mezzo all’inguine che mi fa male”, un prete, io avevo un po’ soggezione. Va bene, tiro giù i pantaloni, perché abbiamo messo quelli che ci hanno dato. La camicia non aveva i bottoni, aveva un laccio così. I pantaloni erano russi, alla cavallerizza. Si capisce che i russi mettevano gli stivaloni per il freddo. Ciao sono stato fortunato in quella parte lì.

Lì siamo andati avanti così e ad un tratto si sente una sparatoria di notte “Cosa succede?” porca miseria. Venivano le pallottole dentro, perché c’era il muro. Io ero alla baracca 18 e dalla 19 e 20 di dietro c’era il muro, le pallottole passavano oltre la mura e venivano dentro sul tetto della baracca. Si sentiva pac, pac dentro. “Ma qua sparano”. Cosa è successo? Abbiamo saputo che hanno tentato la fuga trecento, non erano russi, perché io ero al blocco 18, metà noi che eravamo circa duecentocinquanta, dopo c’era dove c’era il capo, dalla parte di là erano russi, dopo le spiego il perché.

Ad ogni modo lì alla mattina mi dice “Vieni qua a vedere” attraverso la finestra, non si poteva né uscire né entrare. “Guarda là”, attraverso la finestra una montagna di morti, “Che cosa è successo?” “Ma guarda quanti morti che ci sono là”.

Cosa è successo? Era successo che avevano tentato la fuga trecento, penso fossero ebrei. Erano ebrei. Perché ci hanno preso, i tedeschi sono venuti là e quelli un po’ in forza, “Quelli che hanno un po’ di forza addosso vengono con me” e noi siamo andati là. “C’è da andare a prendere il caffè per le baracche”, “Andiamo, non si sa mai che c’è qualche cosa da mangiare”. Allora portavamo il caffè lì, partendo dove c’è la mensa, dove c’era la cucina, quei bidoni lì che saranno stati trenta, quaranta chili, trenta litri, quaranta litri, cinquanta litri, bidoni pieni di caffè. Per noi era caldo, per loro, penso che erano ebrei, per loro c’era sopra tanto così di ghiaccio. Loro se dovevano bere il caffè dovevano rompere il ghiaccio, ma aveva uno spessore di cinque, dieci centimetri, era stato fuori tutta notte. Gelava tutto. Quando si faceva il cambio al mattino dopo, si portava indietro quello avanzato e si portava quello vuoto, era ancora intatto, ancora con il ghiaccio, non lo rompevano, non erano capaci di romperlo, non lo bevevano.

Lo stesso quello che ci davano da mangiare, quella sbobba lì, era acqua, diciamo così, c’erano dentro un po’ di rape, erano barbabietole, quelle che davano ai cavalli. Erano non le bietole quelle rosse o quelle bianche, erano barbabietole, erano amare. Ad ogni modo si andava avanti. Noi prendevano il caffè che era caldo, il loro avevano sopra il ghiaccio. Ecco perché dicevo che quelli erano ebrei.

Perché un giorno, è venuto il tedesco “Venite con me e con le barelle, dobbiamo portare al crematoio quella montagna lì di morti”. Difatti quelli un po’ in gamba uno da una parte uno dall’altra, nudi, erano già nudi perché li svestivano loro, li mettevano sulla branda e li si portava al crematorio.

Al crematorio non si andava giù, c’era lo scivolo dal piano del cortile c’era lo scivolo ed andava giù direttamente dove c’era il forno crematorio e lì si metteva là, “Vrum”, andava giù, arriva l’altro con la barella, giù e poi via tutto il giorno così. Dicono che erano trecento circa. Sono fuggiti in sei che ce l’hanno fatta. In sei, il resto tutti morti.

Dunque lì finiti i morti, finito di portare via tutti i morti, andiamo bene così, andiamo avanti e sempre si dormiva per terra. Lì viene un’altra spedizione nuova. Nuova spedizione, tutti italiani. Noi dove andiamo, fuori tutti noi, fuori di notte al freddo. Quelli del blocco di là, allora, la baracca era metà e metà, noi tutti di qua, di là erano russi perché loro, io avevo su quella camicia lì, vestito malamente, così, loro avevano quei giacconi di trapunta, quelli a quadretti, stavano bene, pantaloni lo stesso, avevano su gli stivali quelli russi che tengono i piedi caldi, almeno sembra. E si camminava, perché “Fuori tutti”, sia di là, sia i russi come noi, perché arrivata la spedizione dovevano andare dentro, loro dentro con la nuova spedizione, e noi fuori tutta notte. Noi non abituati, c’erano quelli che si sono seduti sulla neve e stavano lì così sulla neve. Là c’erano i russi “Fate come facciamo noi”, si facevano capire, “Camminare sempre” tutta notte avanti ed indietro, avanti e indietro, tutta notte, tutta notte. Uno non ne voleva sapere aveva freddo poverino, forse aveva anche la febbre. Lo hanno preso, lo hanno tirato fuori e si divertivano a buttarlo in mezzo alla neve “Se non fai così, se non ti muovi, vai in fumo, muori”. Non lo volevano capire gli italiani, perché non eravamo abituati. Io facevo come facevano loro, allora la prima notte è andata bene, la seconda ancora, finché dopo, ci hanno messo i castelli, hanno messo i castelli, hanno messo a posto un po’, hanno tirato fuori anche i nuovi arrivati, li hanno messi nella baracca 17 e noi siamo stati lì ancora.

Lì abbiamo fatto la matricola, quattro, cinque per volta scortati, scortati dai tedeschi, si usciva, non era dentro dove si andava, si usciva dal campo, sempre pochi alla volta, cinque, sei o sette, adesso non mi ricordo, là c’era il fotografo, ci hanno fotografato, di fronte, di dietro, di fianco e poi ci hanno fatto l’impronta con il dito. Ecco, lì abbiamo fatto la matricola. E dopo che sono arrivati le matricole.

D: E la tua matricola qual era?

R: Ma le volete vedere. Queste sono le matricole che ci hanno dato. Siccome là non avevano niente, allora questo doveva essere appiccicato sui pantaloni, alla destra sulla coscia dei pantaloni e doveva essere visibile bene il triangolo rosso, con in mezzo IT che vuol dire italiano e di fianco c’è la matricola. Questo è il braccialetto. Il braccialetto, questo qua non è neanche ferro, è acciaio, mi pungeva tutto, tutto il braccio così, vedi quei ganci qua, sono ancora quelli, quei ganci qua mi penetravano dentro e guai se non li portavi, volevano vedere, questa è la matricola che avevamo.

D: Il tuo numero qual era?

R: 115.607, è scritto qua. Quando ci hanno dato questo allora hanno cominciato a chiamarci come numero, nome e così non se ne parla più. Tutto il numero.

Bene lì siamo rientrati ancora nella baracca e siamo stati lì, dovevamo fare la quarantena, ma che quaranta, saranno stato venticinque, dico io, venticinque giorni. Tutti in fila un’altra volta, tutti in colonna, un freddo, tutti in colonna a marciare “Dove andiamo? Chi lo sa? Dove si va?” i tedeschi di qua di là, a destra a sinistra, però non avevano cani, cani non li avevano. Erano armati di fucile e mitraglietta e basta. Anzi, tornando indietro un pochettino, abbiamo fatto l’addestramento con su e giù il cappello. Quando si vedeva un graduato tedesco, dovevamo tirare giù il cappello e dopo metterlo su, sempre su e giù, su il cappello, giù il cappello, su il cappello, abbiamo fatto un po’ di addestramento così nella quarantena.

Ecco dove ho visto la scala della morte. A distanza quando portavamo i morti al crematorio si vedeva da lontano, ma quella là è la scala “Cosa fanno?”, non sapevamo cos’era. Siccome là motori non ce ne era, cavalli non ce ne era, tiravano tutti con la forza delle braccia dei prigionieri, era una cava di pietra. Loro dovevano portare su dalla cava su per quella scala lì delle pietre, chi aveva il martino, lo metteva su, era fortunato, sulle spalle, chi non lo aveva. Io ho fatto un giorno solo. Ma non sulla scala, lì nella baracca. Ci hanno messo un pezzo di pietra sulla spalla e mi hanno mandato fino là al crematorio, e poi tornare indietro. Basta. Solo quello, tanto per addestrarci.

Lì in colonna, tutti in colonna, via “Dove andiamo?” “Chi lo sa”. Strada facendo, sempre di notte o mattino presto, siamo andato a Gusen, non so ci saranno tre chilometri, quattro, non lo so. Strada facendo lì, c’era ancora la neve per terra ed il ghiaccio, nessuno voleva aiutare quelli feriti. Dico “Qua bisogna aiutarci qua” perché altrimenti i tedeschi calciavano con il calcio del moschetto. Vado anche io ad aiutarli, “Mettimi le braccia al collo” e sono stato l’ultimo della colonna, stavo dietro. Sono restato indietro un po’, il tedesco di dietro, ha visto che non andavo avanti perché quello era ferito, con il moschetto, con la canna del moschetto me la ha buttata addosso alla schiena, mi ha dato una spinta sulla schiena e mi ha preso proprio la spina dorsale, ho visto le stelle, porca miseria. Sono rimasto a bocca aperta per il dolore, sembrava una scossa elettrica, ho detto “Aiutatemi, aiutatemi”, allora è venuto un paio di altri, ci hanno dato il cambio ma io l’ho sentito per un po’ però quel colpo che mi ha dato con la canna del fucile il tedesco.

Lì siamo arrivati a Gusen, arrivati destinati al blocco 14. Lì di nuovo doccia, di nuovo la doccia e così.

D: Quando tu dici Gusen intendi Gusen 1 o Gusen 2?

R: Gusen 1. Dopo siamo andati a Gusen 2 perché c’è stato un disguido. A Gusen 1 è stato.

Lì alla baracca 14, dunque io ero alla baracca 14, di fronte a noi c’era la baracca 22, e c’era dentro uno di Brescia, un corridore, era un dilettante corridore e ci siamo fatti amici. E c’era dentro padre e due figli di Bologna, un certo Cervellati.

Allora ci siamo conosciuti, italiani. Sotto di me nella baracca 14, sotto c’erano due italiani Perfumo Giuseppe e Perfumo Giovanni, erano sotto di me, a fianco. Proprio sotto di me perché io ero a metà, c’erano due russi, sopra di me c’erano altri due russi, io ero in mezzo, io ed un altro italiano, un certo Marini dalle parti di Alessandria, dopo è morto poverino, dopo le spiego perché.

Lì andiamo avanti così, hanno incominciato a darci il caffè, le prime volte.

Anzi tornando indietro, quando ero a Mauthausen, la storia dell’inguine, che il prete mi ha detto “Fammi vedere”, mi ha detto “Vai all’ospedale, ti curano, altrimenti qua, hai già la scabbia, prendi l’infezione e te lasci qua la pelle, dammi retta” mi ha detto. Allora lo ho ascoltato, sono andato in infermeria, là c’erano due dottori, e uno fa “Domani vieni qua”, ed io sono andato via, e camminavo zoppo. Avevo una ghiandola in mezzo all’inguine e la gamba nel piegarsi, un male bestia.

All’indomani sono andato dietro là. “Buttarsi sul lettino”. “Non andiamo bene, medicare, medicare. Prendi in mano il lettino, stringi forte”, mi hanno spruzzato su non so cosa, una cosa senza puntura ne niente, mi hanno spruzzato qualche cosa e poi ho cominciato a sentire “zim zam” su quei scaffali di vetro, forbici e coltelli, oh Madonna, mi veniva di sentirmi male “Mi raccomando, tieni stretto il letto, stringi i denti” ed ha cominciato a tagliare. Ed io gridavo. “Italien se non ti addormenti ti addormentiamo noi con un pugno”. Allora ho resistito. Nella bacinella è uscita tanta di quella porcheria che non so cosa dire.

Lì bene, ho riposato un pochettino, forse hanno finito, hanno cominciato ancora, prendono un altro coltello ed hanno cominciato ancora a tagliare. “Che ostrega stanno facendo?” Io gridavo, facevano segno con i pugni “Ti addormentiamo noi”, erano russi, parlavano il tedesco, si facevano capire, insomma. Bene, lì finito “Domani venire qua, medicazione”, allora ho cominciato la medicazione, sono andato indietro, hanno tirato fuori la garza dalla ferita, sembrava che aveva tirato fuori un serpente, si sentiva proprio la garza a venire fuori, o mamma mia, però il dolore è cessato.

D: Ma quando ti dicevano di tornare di lì in infermeria. Quell’infermeria dove era? Dentro nel campo?

R: Sì, lì, era poco distante dalla baracca 18, non so quale baracca era. Non era troppo lontano.

D: Ma era una baracca o era in muratura?

R: Non lo so, dire la verità era come una specie di ambulatorio.

D: Ecco.

R: Non so se era in muro o se era, mi pare in muro.

D: E’ quella sulla piazza dell’appello? Era sulla piazza dell’appello?

R: Sì, sì, da quella parte lì, insomma.

D: Dopo lì sei guarito?

R: Ad ogni modo, questo è tornando indietro. Lì la terza volta, medicazione ancora. Visto che stavo bene non sono andato più. Sono guarito. Sono guarito però la scabbia ce l’avevo ancora. Ce l’avevo ancora, allora quel prete glielo ha detto al Kapò. “Guarda che questo ha la scabbia, si infetta tutto”, “Fuori, fuori”, ed io sono andato fuori, qui adesso. Sono andato fuori “Chi ha la scabbia fuori”, non ero solo io, eravamo in sei, perché attaccava tutti. Allora c’erano là gli aiutanti, quelli che aiutavano il Kapò, hanno tirato fuori un boccettino così, come le gazzose di una volta e c’era dentro un liquido marrone, e mi hanno spalmato su un po’ su tutto il corpo nudo, tre giorni. Sa che sono guarito? Sono guarito, ha cominciato a calmare, non grattavo più, non sentivo più niente. “Ma guarda un po’, di là pennellate di qua e pennellate di là e qua un pochino di quella roba lì.

Lì dopo siamo partiti per Gusen.

D: Lì a Gusen 1 che cosa è successo?

R: Come?

D: A Gusen 1 che cosa è successo? Quando sei arrivato a Gusen.

R: Sì, niente ci hanno mandato dentro la baracca 14 e lì hanno incominciato a metterci in fila e si andava alla piazza del raduno, e c’erano quelli che comandavano e ci accompagnavano loro i primi giorni, dalla baracca si andava là, dove c’era la piazza dell’appello.

Là un disastro di gente c’era là e aspettavano il turno. C’era la scalinata di sasso, che andava su per la collina e poi c’erano le baracche che facevano da stabilimento, da fabbrica. Capannoni, ma erano baracche vecchie, grosse, più grosse delle normali.

Ad ogni modo lì ci mettevano cinque per cinque, immaginarsi una fiumana, una marea di prigionieri, cinque per cinque, tante volte è facile anche sbagliare, allora andava avanti, man mano che si passava il cancello, il cancello era di filo spinato. Aprivano quel cancello lì, c’era la scalinata poi ce ne era un’altra e poi si andava dove c’era lo stabilimento.

Lì c’erano i cani di qua e di là e pestavano, legnate. Le prime volte siamo andati là tutti insieme, si andava su, l’appello lì, facevi la scalinata, si andava ancora là davanti alla baracca dove si lavorava, altro appello. A distanza, a poca distanza, c’era un’altra cava di pietre. Quando sparavano le mine, arrivavano i pezzi lì. Bisognava stare attenti perché arrivavano anche sulla testa.

Siamo andati la prima volta su, andiamo su, bastonate a destra e a sinistra fino a che non si andava su, si andava su, ci hanno mandati dentro nello stabilimento, macchine dappertutto. “Ma cosa facciamo qua?” “Te che mestiere fai?” Uno diceva “Io faccio il contadino”, l’altro diceva “Io faccio il cuoco” “Io il pasticcere”. Tutta gente che voleva mangiare. Io dicevo “Io faccio l’operaio”, loro forse cercavano qualcuno che avesse un po’ di testa, invece eravamo tutta povera gente. Tutta gente che lavorava e basta.

D: Lì cosa costruivate? Quella fabbrica lì dove hai lavorato, cosa facevi?

R: Lì, appello, e poi aprivano il portone scorrevole e si andava dentro. Si andava dentro e là c’era il capo reparto. Il capo reparto era un polacco, “Sulla macchina, lì” mi hanno messo su di una rettifica, una specie di tornio. E lì uno che non è pratico, è dura. Ho visto un po’ come si faceva roba di meccanica e dovevo arrangiarmi a molare il ferro, ad affilare il ferro da taglio per il tornio ed io facevo le sicurezze del moschetto.

Arrivavano con la barella, i prigionieri li portavano lì, ci fornivano perché arrivava dalla fonderia, passava quello là e faceva una parte, quello là me la passava ed io dovevo passarlo alle frese.

Bene, quello che doveva passarle a me doveva farne almeno quattrocento o cinquecento al giorno. Tutti lì ne facevano seicento e gli altri li mettevano via per l’indomani, perché un domani che si guastasse il ferro o che non taglia più, tu dovevi fare la consegna la sera, dovevi fare la consegna di quello che hai fatto. Allora c’era da essere abbottonati, se non funzionava qualche cosa erano dolori.

Ed io destinato su questo tornio qua, andavo bene, fortunato, a poca distanza come verso di lei, c’era una stufa che era due volte questo tavolo qua, rossa veniva, si stava bene. Quelli che ci fornivano i materiali, venivano da fuori con le bufere, neve, pioggia, vento, freddo, come entravano mettevano giù la roba, fuori, perché altrimenti se li beccavano andare alla stufa erano botte, ma che botte. Lì andavo bene, non c’è male.

Un bel giorno si capisce che dopo come lavoro tanti morivano di deperimenti, mangiare ci davano un pezzettino di quel pane nero, la metà della metà, un pezzettino, un quarto di quella metà lì. Ma i pani non erano quelli lunghi, erano quelli corti, larghi così, saranno stati 10, o 15 centimetri per 20, così. Quei pani lì, neri, un pezzettino di quelli lì e ci davano un litro o mezzo litro di acqua e c’erano dentro un po’ di barbabietole tritate che col cucchiaio, il cucchiaio doveva farselo lei. La gamella, la davano loro, finito di mangiare la si depositava e poi si arrangiavano loro a lavarle e tutto, c’erano altri prigionieri, ed il cucchiaio dovevi arrangiartelo te, dovevi metterlo qua, altrimenti se lo perdevi o te lo rubavano, saltavi e dovevi mangiare così.

Lì sono andato avanti un po’ così a lavorare in quel modo lì, un bel giorno si capisce che mancavano gli operai perché morivano, viene là il capo reparto e fa “Domani te vai insieme e Joseph”, era un operaio che era sulla fresa. Che la sicurezza del moschetto andava dentro, incastrato dentro e la fresava, doveva essere preciso. Io facevo con il tornio e poi con la fresa lo facevano bene e preciso. “Va bene domani andrò con lui”. Un giovanotto grosso, al mio posto è andato un russo, non ha mai visto un’officina, niente, prendeva di quelle botte. Perché c’era il ferro da affilare e andava sulle mole, la mola ha la coda e doveva aspettare il suo turno, quando andava sotto non era capace, tornava indietro e metteva sul ferro e non tagliava. Allora il capo reparto botte, botte, questo ragazzo “Italien com”, io pianta lì che ero alla fresa e andavo là a fargli vedere, “Fai così, così e così”. Ma lui non capiva niente. “Ma te sei nato nel bosco o sei nato in un qualche paese”. Non capiva niente. Quello che si diceva non capiva, gli spiegavo il lavoro come doveva farlo, non lo capiva, non lo so, “Te sei nato in un bosco”.

Allora lì tutte le volte che andava ad affilare il ferro, il capo reparto prima mandava lui, e stava via un quarto d’ora perché non era capace, tornava indietro, non tagliava, doveva tornare indietro, non faceva la produzione. Botte, erano botte da orbi allora mi chiamava me, io stavo via venti minuti, lo tagliavo, mettevo a posto il ferro bene, che tagliava, stavo via venti minuti e non mi diceva niente, il capo reparto. Andava via lui dieci minuti “No, non taglia” dietro ancora e botte, sempre così.

Io ero assieme a quell’operaio, erano due frese, a poca distanza come da qua e lei c’era quella stufona lì mi diceva “Italien di dove sei?” “Milan”, “Oh, good”, diceva, “Good”, “Siete bravi a lavorare” “Milan, good”, questo giovanotto così. Sotto lì allora metteva a posto la fresa e cominciava, non ero capace “Italien tu devi imparare, altrimenti vedi questo, ti pesto, io ti tiro blu, ti cambio colore”, diceva. Poco alla volta, poco alla volta ho imparato. Erano due macchine, un po’ lui ed un po’ me alla stufa, e si andava là con su la giacchetta che non c’era e si andava contro, veniva rossa la stufa, ti tiravano indietro, ma il calore non lo sentivi, perché non avevi più grasso addosso, non hai più niente. Allora facevamo un po’ per uno.

Tornando indietro, ho avuto la fortuna di andare a svestire i feriti ed i moribondi lì dove facevano le docce. Cosa è successo? Portando via la roba per portarle alla disinfezione ho trovato un paletò che ho messo su subito, era un soprabito, però era lungo. Era lungo e dopo a Gusen l’olio chimico, l’acqua chimica mi asciugavo le mani perché non c’erano stracci e non c’era niente, però le mani erano sempre belle perché non screpolavano, sempre unte. Però il paletò pesava venti chili, perché era unto e straunto.

Lì si va avanti così. è venuto un bel giorno che, sono incominciati i bombardamenti, mandavano i manifestini ed allora quelli che prendevano il manifestino erano botte, li ammazzavano a botte. Quando suonava l’allarme bisognava andare al rifugio. Il rifugio che cos’era? Erano delle gallerie sotto la collina, lì dovevano mettere l’officina, lo stabilimento. Doveva andare sotto lì, tutto lì. Allora si andava lì, come le bestie.

Dentro picchiavano per far presto ad andare dentro, quando si usciva erano botte perché non si usciva svelti, erano sempre botte. Quando si faceva la scala per andare a lavorare, botte, c’erano due tedeschi di qua e due di là, chi aveva il Gummi, se era polacco metteva il filo di piombo, una volta c’erano i fili elettrici coperti di piombo, mettevano dentro quello lì e si facevano uno più bello dell’altro e pestavano con quelli lì. Altrimenti se era un graduato aveva il frustino, quello lì tagliava, bisognava stare attenti alla faccia perché segnava, era come una frusta.

D: Giovanni, come ti ricordi la Liberazione?

R: Adesso viene. Lì siamo andati avanti così, tagliamo un po’ corto e siamo andati fino quasi alla Liberazione.

D: Come te la ricordi la Liberazione?

R: La Liberazione me la ricordo che un mattino “Arrivano gli americani” si sentivano i cannoni sparare, sono loro, si vedeva l’apparecchio che girava per perlustrazione, quegli apparecchi piccoli con un motore solo. “Arrivano gli americani” “Americani o russi?” “Arrivano prima gli americani, i russi vanno da un’altra parte”. “Se sono americani meglio”, noi ci tenevamo più con gli americani, infatti, tagliando corto.

Quel mattino “Fuori, fuori” si rubava a destra e a sinistra, era un macello, e sono andato fuori anche io, sono andato fuori, mi sono messo dietro la strada e vedo che arrivano gli americani. Chi piangeva, chi rideva, chi bestemmiava, non so cosa dire. E morti, perché? Perché i tedeschi sono scappati tutti, allora morivano tutti dietro la strada. Perché quello che trovavano portavano via e mangiavano. E allora portavano dentro con i carri e con i camion, portavano dentro prima che arrivavano gli americani. I tedeschi sono scappati tutti, sono restati i galeotti tedeschi, ma avanzi di avanzi di galera. Quelli graduati sono scappati tutti.

Lì arrivano gli americani e di fatto è arrivata una jeep con davanti la Croce Rossa, avevano una bandiera bianca ed una bandiera della Croce Rossa, due camionette, due jeep e dietro c’erano dei camion, ma non camion con su la truppa, non so cosa c’era, non so se c’erano i rifornimenti forse.

Poi sono incominciati i primi carri armati, e dopo la truppa. I camion con tutta la truppa su, negri, bianchi, non si capiva. Ad ogni modo come sono arrivati hanno cominciato a buttare giù caramelle, sigarette, cioccolato, e buttavano giù biscotti, festa. Tutti addosso, ci ammassavamo tutti per accogliere quella roba lì. Sono entrati in Gusen 1.

La storia del Gusen 2, quando si faceva l’appello per andare sulla scala, per andare a lavorare, si passava per il cancello cinque per cinque. Si camminava marciando. Allora loro facevano cinque, dieci quindici, e via via, il tedesco li segnava tutti, per i ranci. Lì ho sbagliato fila, che ne so io, era una fiumana di gente, bisognava guardare bene con chi eri, perché se sbagli fila vai in un altro posto e difatti è stato così per me. Mi sono messo in un’altra fila, non mi sono accorto, e via passa. Invece di andare a lavorare dove andavo prima, andavo dritto “Dove vado adesso?”, mi hanno mandato a Gusen 2. Là facevano le carlinghe degli apparecchi e mi hanno messo insieme agli operai a inchiodare le lamiere delle carlinghe, a fare le carlinghe, un baccano dentro lì. Là non ero segnato, mangiare non ce n’era. Fortunatamente quegli operai un pochettino per ciascuno, c’era già poco, un poco per ciascuno mi hanno dato qualche cosa da mangiare. Alla sera sono tornato indietro, non faccio più quella stupidata, prima di passare quel cancello guardo bene. Infatti sono andato avanti così fino alla Liberazione.

D: L’ultima cosa Giovanni, quando sei rientrato in Italia?

R: Siamo stati liberati il 5 maggio, lì dopo ho fatto la congestione, mangia te, mangia te, mi sono sentito male, sono andato all’ospedale, in infermeria e sono stato lì, quanto non lo so perché non ho capito più niente perché sono stato senza sensi. Mi sono buttato su una cuccetta della SS che c’era prima e basta, mi sono sentito male, e non ho capito più niente. Chi lo sa chi mi ha portato all’ospedale. Non lo so. So che mi sono svegliato, apro gli occhi, avevo davanti due dottori e un’infermiera. Non ero capace di muovere un braccio, ero sfinito. Hanno parlato tra di loro, allora l’infermiera, mi ha detto “Italien, io avere in consegna”, lì era già finita la guerra.

Sono arrivati gli americani e via, poi ho fatto la congestione, mi sono trovato all’ospedale, lì nudo mi portava in bagno, mi teneva su, allora il bagno là era diverso, ci si sedeva, mi teneva su perché cadevo da tutte le parti. Mi portava a letto, mi accompagnava a letto e mi dava una medicina verde, sembrava menta. Questo fa venir voglia di mangiare, perché la voglia di mangiare non c’era, veniva su tutto. Infatti mi dava un cucchiaio di quelli lì, due al giorno, ed io gli dicevo “Dammene tre”, “No, no”, diceva che i dottori non volevano. Allora ogni tanto me ne dava tre. Allora ho cominciato a riprendermi un po’, ho cominciato a mangiare. Mangiavo e veniva su tutto. Lo stomaco non teneva più.

Ci davano i piselli ma non in brodo, asciutti e io “Non digerisco questa roba qua”, “Mangia, mangiare” diceva l’infermiera, caccia giù e su, caccia giù e su “Mangia sempre, fa niente se viene su, quel pochettino che rimane giù quello è il tuo buono. Ti fa bene”. E difatti mangia e butta su, mangia e butta su, fino a che sono rimasto lì un mese ed ho cominciato a riprendere, però non ero capace di camminare. Ero ancora sfinito. è venuto il momento di dire “Quelli che se la sentono li mandiamo in Italia, mandiamo a casa, ci sono le spedizioni che vanno in Italia.” Io a sentire così, malato, non malato, io vado a casa. E difatti così sono uscito dall’ospedale, sono guarito, non ho più niente, barcollando sono andato in baracca, ho preso in mano la baracca, c’erano tre gradini ad andare su, ho fatto una fatica, ma ce l’ho fatta. Lì allora ho cominciato a riprendere, ci davano i pacchi americani e c’era tutto in scatola, minestrone, pasta asciutta, risotto, riso, carne, carne con dentro la cioccolata, carne con mescolata la cioccolata “Ma chi mangia questa roba?” non andava giù “Mangia, mangia, mangia” e caccia giù, mi sono ripreso un po’ e sono riuscito a prendere. “Perché chi ha la febbre e chi non si sente lo mandiamo un’altra spedizione, non va a casa”. “No, no, io mi sento bene” invece non era troppo bene, barcollavo ancora. Però ce l’ho fatta, sul camion e via a prendere il treno con il camion, gli americani ci hanno portato con il camion e siamo venuti in Italia e ci abbiamo messo altri due giorni.

D: Vi siete fermati a Bolzano?

R: Prima abbiamo fatto la linea Linz – Salisburgo, mi pare, siamo venuti a Innsbruck e siamo stati lì una notte, abbiamo dormito lì nelle case matte di un vecchio aeroporto. Poi abbiamo preso ancora il treno e siamo venuti in Italia a Bolzano, siamo scesi a Bolzano. Lì c’erano già tutte le infermiere pronte a riceverci. Io avevo inciampato nei sassi attraversando i binari, si mettono a ridere, mi veniva voglia di prendere una pietra e scagliargliela addosso. “Voi ridete, ma io non rido. Non sono capace di camminare”.

Allora lì chi si sente dopo mezzogiorno, il giorno dopo, c’è il camion che va a Milano, chi non si sente parte dopo domani alla mattina. Ho detto ” A me non conviene”, perché partendo dopo mezzogiorno arrivi alla sera ed io dove vado a Milano alla sera? Allora aspetto l’altro giorno e parto al mattino. Gli altri sono partiti e aspetto il mattino. Aspetto il mattino e non c’è il camion. Parte subito dopo mezzogiorno, è arrivato circa alle quattro o alle cinque, va bene, l’importante è che vado a Milano. E siamo partiti sul camion, verso le quattro e le cinque, non ce l’abbiamo fatta ad arrivare a Milano, abbiamo dormito a metà lago di Garda in un oratorio, c’erano le suore e siamo andati sul cascinale, c’erano le fascine di legna, abbiamo dormito su lì, mangiare niente, non avevano niente neanche loro.

D: E poi sei arrivato a casa?

R: Allora siamo partiti al mattino presto, alle cinque sveglia, si va a Milano. Alle cinque, io non ho dormito tutta notte. Alle cinque sul camion e via, quelli che scendevano a Brescia, chi scendeva a Bergamo ed io sono sceso a Milano, eravamo in quattro o cinque.