Bocchetta Vittore

Vittore Bocchetta

Nato a Sassari il 15.11.1918

Intervista del 16.05.2000 a Bolzano realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 1 – durata 45′

Arresto: 04.07.1944 a Verona

Carcerazione: Montorio Veronese (VR)

Deportazione: Bolzano; Flossenbürg; Hersbruck

Liberazione: maggio 1945 a Regensburg durante la marcia della morte

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Nato a Sassari il 15.11.1918. Sono stato arrestato il 4 luglio del 1944, a Verona, dai fascisti. Sono stato portato alle casermette di Montorio, vicino a Verona, dove sono stato interrogato e torturato. Poi, insieme ai compagni del secondo CLN provinciale di Verona, sono stato trasferito alle Carceri degli Scalzi di Verona, dove sono rimasto per un certo tempo, e dove ho subìto altri interrogatori dalle SS. Da lì, insieme ai miei compagni, sono stato portato al Palazzo delle Assicurazioni in Corso allora Vittorio Emanuele, a Verona, dove c’era il Comando Generale della SD. Dalle celle di quel sotterraneo, insieme ad altri prigionieri che ho trovato già lì, e che erano stati torturati, sono stato condotto al Campo di concentramento di Bolzano; insieme con questi compagni, considerati pericolosi, siamo stati chiusi nel blocco E. Dal blocco uscivamo solo per un’ora al giorno, a prendere aria; vi siamo rimasti pochi giorni. In questi pochi giorni una parte di noi è stata fucilata. Un’altra parte, ad un certo momento, è stata fatta uscire dal blocco: insieme ad altri circa 450 detenuti a Bolzano siamo stati caricati su un vagone, su cui eravamo in circa 130/150 ed era uno di quei famosi carri bestiame delle ferrovie tedesche che ci ha condotti in Germania, al Campo di Flossenbürg. Alla stazione di Flossenürg siamo usciti e ci siamo incamminati verso questo famoso campo, di circa 75.000 prigionieri; siamo stati consegnati alle torture e alle note sevizie dei campi di sterminio nazisti, a Flossenbürg.

D: Lungo il tuo tragitto sul vagone piombato è successo qualcosa di particolare a te e ai tuoi compagni?

R: Sì, nel pavimento del vagone io ed un compagno siamo riusciti ad aprire un piccolo varco per poter scappare, ma siamo stati trattenuti dagli altri prigionieri, dagli anziani, che ci hanno impedito la fuga, o meglio il tentativo di fuga, perché si poteva anche morire, visto che si doveva scendere in mezzo alle ruote del convoglio. Quindi abbiamo dovuto tacere, molto a malincuore, ed accettare le sorti imposte adesso non dalle SS ma dagli stessi compagni. Da lì, dopo un paio di giorni, il treno si è fermato: noi non avevamo niente, specialmente il nostro gruppo non aveva niente, eravamo stati prelevati dalle carceri, non eravamo neanche preparati alla deportazione, e non avevamo scorte di nessun genere, eravamo con i vestiti che avevamo addosso. Il treno si è fermato un paio di giorni dopo la partenza, si sono aperte le porte e ci hanno dato dell’acqua, l’unica cosa che abbiamo visto. Dopo non so quanto tempo, dopo 2 o 3 giorni, siamo arrivati a Flossenbürg. Siamo scesi alla stazione di Flossenbürg, abbiamo camminato in fila per 5 fino al piazzale del Campo, dove abbiamo visto la grande caserma della SS, tuttora esistente, e dove si apriva il Campo di concentramento che noi credevamo fosse un campo di lavoro, non un campo di sterminio. Infatti sul pilone sinistro del cancello d’entrata, c’era una placca con scritto “Arbeit macht frei”. Sapevo il significato di queste parole, e ho pensato che forse andavamo a lavorare. Noi non sapevamo del nostro destino ma siccome il nostro gruppo era già stato condannato a morte, il nostro destino sembrava migliorare con queste parole; andare a lavorare voleva dire ancora vivere. Per la maggior parte del mio gruppo sarebbe stata meglio la morte perché sono morti ugualmente di stenti e di percosse e di sevizie nei primi 2 mesi. Io mi sono salvato con un altro, per la mia età e anche per una serie di circostanze. La delusione della speranza dell’Arbeit macht frei viene stroncata subito, perché alla sinistra del campo ho visto una colonna di sciagurati vestiti malamente, erano di stracci quei vestiti, se si vogliono chiamare vestiti, questi indumenti zebrati, a righe; caricavano delle grosse pietre. La scena è stata forte, anche se poi abbiamo visto molto di peggio. Siamo arrivati, abbiamo varcato il cancello che ci ha portato in questa grande piazza. Da lì siamo stati radunati vicino ad una specie di cantina, con una scala di ferro che scendeva. Prima di scendere queste scale, che portavano alle docce, ci hanno fatto spogliare nudi, tutti. Con me c’erano persone che stimavo molto: c’era Francesco Viviani, c’erano dei preti, c’erano dei professori, c’erano delle persone insigni e molto austere, e questa austerità è stata, credo, eliminata con un colpo di spugna, solamente con la spoliazione e con la rasatura di tutti i nostri peli, in tutte le parti del corpo, e con l’ispezione fisica. E poi, una volta nudi e puliti, siamo stati spinti lungo queste scalette e siamo entrati nella cantina, che era uno scantinato grande, dove c’erano le famose docce. Qui siamo stati ricevuti da una squadra di dèmoni, che avevano dei pezzi di gomma, Schläger o Gummi si chiamavano e li usavano come scudiscio, come arma, senza nessuna ragione, senza nessuna provocazione. Così, di colpo, sono cominciate le grida furibonde di questa gente che non diceva parole ma urlava, urlava in una maniera sconnessa, ci terrorizzava. Siamo stati spinti come anime dell’inferno, e questo provocò panico e caos tra di noi.

Ecco già tra di noi il primo istinto di sopravvivenza: l’uno contro l’altro, una grande confusione, le grida che continuavano finché non si sono aperte le docce; le percosse sono continuate, completamente irrazionali, senza nessuna logica in apparenza, perché in realtà la ragione c’era, il fine era molto preciso: quello di cominciare a farci scrollare di dosso la nostra personalità e la comunione tra di noi, quello di disorganizzarci, e soprattutto di spaventarci e di annullare la nostra volontà. Cosa che è avvenuta puntualmente. Finalmente chiusa l’acqua, siamo stati spinti in un altro capannone dove abbiamo avuto il primo silenzio dopo queste grida, questa cosa terribile tra l’acqua e le nostre stesse grida. Nel secondo capannone ci siamo rivestiti e ci siamo spogliati dell’ultimo possesso che avevamo e che erano la nostra persona, il nostro nome, la nostra personalità. Ci hanno dato degli indumenti a righe, zebrati, ci hanno dato un maglione verde dell’esercito italiano, una cuffia di lana verde dei nostri alpini, cosa molto strana perché era roba italiana, poi un paio di zoccoli che non erano veramente zoccoli: erano una specie di ciabatte con la suola di legno. Abbiamo avuto la nuova personalità, abbiamo perso il nome, abbiamo acquisito un numero che veniva applicato sulla giacca con un triangolo. Eravamo circa in 450 dal Campo di Bolzano. Siamo partiti anche con le donne, ma siamo stati separati appena arrivati al campo, quindi non sappiamo che sorte loro abbiano avuto. Con la perdita della nostra persona abbiamo cominciato ad avere anche i primi soprusi, cioè i capricci del kapò, che era un caporale. Il primo kapo che abbiamo avuto era un caporale, non so se era delle SS; aveva l’uniforme militare tedesca, ed era, credo, un caso patetico di pazzo, perché ci ha torturato per una ventina di giorni in una baracca chiamata baracca di quarantena. E’ una cosa molto strana che si faccia la quarantena in un campo dove tutti sono destinati a morire in breve tempo; credo che la morte violenta arrivasse molto prima della morte per epidemia. Questo forsennato non ci diede possibilità per giorni e giorni di dormire. Noi venivamo spinti in una baracca dove c’erano dei castelli e dove eravamo circa 400/450, adesso il numero non lo so, ma eravamo in soprannumero. I posti nella baracca saranno stati un centinaio, intendo i posti per dormire, cioè questi castelli a tre cassoni, e dovevamo metterci insieme al primo che capitava. Anche il fatto di non destinarci con ordine, anche questo era studiato perché serviva proprio alla lotta tra di noi, all’istinto di occupare il posto non si sa contro chi o per chi. In queste cuccette poi, una volta riempite e pochi minuti dopo che noi si cominciava a trovare non dico riposo ma quiete, tornava dopo qualche minuto il caporale: “Raus!” e ci faceva uscire. Poi restavamo fuori, faceva molto freddo, ed eravamo appena in settembre. Abbiamo avuto anche delle bufere di neve in quei giorni, stavamo fuori mezz’ora, un’ora, al freddo, poi ci faceva rientrare per qualche minuto e ci faceva uscire. Così per diversi giorni.

Una delle vicende che sono rimaste scolpite nella mia memoria è stata la spoliazione ultima, quella dei denti d’oro: un paio di giorni dopo il nostro arrivo, il caporale ci ha fatto uscire, ci ha fatto mettere in fila, e con una tenaglia ha tolto a tutti quanti quelli che li avevano il dente o i denti d’oro, poi raccolti in una latta. In quelle occasioni c’è stata un’altra vicenda interessante e nuova per me, quella che poi si chiamò, non so come si chiamava allora, la “stufa umana”. Avevamo avuto una bufera di neve, un freddo intenso, e non so se per istinto, visto che eravamo tutti “nuovi”, o perché qualcuno lo abbia indicato o che altro, ma quando ci buttavano fuori dalla baracca, e dovevamo correre e formare un circolo, intorno a questo circolo dal centro ancora ancora e ancora, formavamo tutti un circolo – come di buoi muschiati – per ripararci dal freddo. Quindi “stufe umane” in quanto quelli che stavano nel centro si proteggevano dal freddo. E lì ho visto i primi morti, morti di freddo; i più anziani sono caduti lì. In questa quarantena, che è durata poi solo 20 giorni, ho visto la peggiore delle esperienze che si possa avere nell’anima, diciamo così, perché mi sono reso conto dell’assuefazione alla morte della gente del campo, e parlo non solo dei kapò e del caporale, ma di tutti. La baracca di quarantena era su una specie di altopiano, chiusa su tre lati, mentre il quarto lato dava su una scarpata: sotto la scarpata c’era quello che sapevamo chiamarsi il crematorio. Nella nostra cultura il crematorio allora non era concepito, e ci sono voluti molti anni, ed anche questioni religiose, per capirlo, ma non è stato tanto il crematorio di per sé a spaventarci quanto l’odore costante, il fumo che ci entrava nelle narici e che a me è rimasto per moltissimi anni, questo odore di carne bruciata. Queste sono state le prime emozioni.

Ma il concetto della morte è arrivato presto, perché dal cancello che ci divideva dal resto del campo, entravano di continuo degli “zebrati puliti”: così chiamavamo quelli che erano addetti a lavori non sporchi, ed erano coloro che abbiamo poi chiamato “monatti” ovvero 2 che portavano delle barelle. Entravano con delle barelle vuote, accompagnati da questi spettri, figure indescrivibili di uomini non più uomini, senza più carne, scheletri coperti di pelle, teschi non morti ma ancora vivi, però non vivi, con questi occhi che mi sono rimasti infissi nella memoria, occhi senza vista, che guardavano, puntavano nel vuoto, ma non vedevano, erano ciechi e nello stesso tempo erano aperti, ed erano impressionanti. Camminavano barcollando, probabilmente – anzi quasi sicuramente – incoscienti, spinti pacificamente da questi monatti e barcollando andavano a cadere in quella che hanno voluto chiamare latrina. E’ un eufemismo per quello che era considerata una latrina: era una buca scavata per una decina di metri, sotto una tettoia di lamiera. Nel mezzo di questa buca c’era un sostegno, e bisognava appoggiarvisi per non caderci dentro; qui si gettavano le nostre viscere. Vicino a questa latrina venivano accumulati questi personaggi non più vivi e ancora vivi, queste figure surreali, questi esseri non più umani che avevano perduto la loro anima, la loro coscienza; cadevano lì, alcuni seduti, alcuni distesi. Poi veniva un monatto specializzato. Nei primi giorni non avevamo il concetto di quella che era la gerarchia del campo: c’erano “i puliti” e “gli sporchi”. Pigliavano una manichetta di acqua gelata e irroravano di continuo questi corpi. Insomma molti morivano lì, anche se la morte cerebrale era già sopravvenuta in precedenza. Poi, quando dovevamo fare i nostri bisogni, dovevamo camminare su questi corpi e, per evacuare, dovevamo attaccarci a questa trave. E’ lì che ci siamo abituati alla morte, perché abbiamo cominciato ad ancorarci, per non cascare nella buca, ai piedi o sulle mani di questi poveretti. Poi tornavano questi monatti, sempre con le lettighe vuote, le riempivano di 2/3 corpi e vedevamo che li portavano lungo questa specie di sentiero serpeggiante dall’orlo della scarpata verso il crematorio. Qualcuno l’ho visto che aveva ancora dei movimenti, però non credo che fosse vivo; forse erano le ultime contrazioni, o forse erano davvero ancora vivi. Una volta arrivati nel crematorio, venivano buttati sul pavimento del crematorio; c’erano delle vasche in cui venivano preparati, spogliati, quelli che non erano già spogliati, e poi messi nel forno. Di forno ce n’era uno solo, e lavorava continuamente, notte e giorno, con esalazioni terribili; serviva per bruciare i morti di questo terribile campo di 75.000 anime, se anime si possono chiamare. Questo è stato il battesimo del KZ tedesco, nazista. La quarantena si ridusse ad una ventina di giorni. Dopo una ventina di giorni di tortura – perché questo “Raus, weg, raus” – dentro fuori dentro fuori – è continuato per 20 giorni, abbiamo perduto i primi compagni.

Finalmente, un giorno siamo chiamati all’appello e portati nella piazza dell’appello con una nuova, chiamiamola se vogliamo, vita. Ora, mi domando: che cosa c’entra la quarantena in una città di morti, in una città di gente destinata a morire il più presto possibile? Non solo la gente è destinata a morire ma la stessa morte è calcolata in maniera scientifica perché la vita duri 3 mesi. A noi era dato cibo corrispondente a 180 calorie giornaliere, calcolato esattamente per 90 giorni, 90 giorni di vita e di lavoro d’inferno; quindi non era più una questione né di punizione né di condanna, era già tutto un calcolo di eliminazione.

Ecco la parola “sterminio”.

Io mi sono domandato molte volte: questa che noi chiamiamo morte, e che ancora costituisce la principale ragione del nostro muoverci e del nostro pensare, questa paura della morte cosa era arrivata a costituire – non dico per il popolo tedesco che vedeva la morte tutti i giorni dagli aerei dai bombardamenti, dai figli che morivano su tutti i fronti – ma per i nazisti che custodivano questo campo? Arriviamo all’assuefazione alla morte; il concetto della morte è stato superato così da arrivare a concepire qualcosa che potesse compensare questo concetto della morte; mancava un brivido, mancava un’emozione. Questa gente era veramente senza anima, e questa emozione veniva probabilmente ricreata con la tortura, con questi 3 mesi di vita. Infatti noi sapevamo che eravamo stati condannati a morte e che la morte era il nostro destino: perché allora non ucciderci subito? Perché quei 3 mesi erano il concetto massimo della punizione: dovevamo essere non eliminati ma puniti, perché eravamo i loro nemici. Questo è stato il programma dei campi di concentramento nazisti.

D: Vittore, dopo la quarantena a Flossenbürg, cosa succede?

R: La mattina di cui ho parlato siamo usciti dalla quarantena, siamo entrati in questo piazzale, dove ci hanno radunato; ci hanno chiesto chi sapeva usare il calibro, visto che si sarebbe dovuto andare a lavorare nelle fabbriche di guerra – cioè sembrava che ci venisse offerta una via di scampo. Sono stato io – ed anche qui avrei un peso sulla coscienza – a suggerire al nostro gruppo del CLN di Verona di non piegarci, di non andare a costruire le bombe che bombardavano e le munizioni che uccidevano i nostri concittadini e i nostri paesi. Abbiamo rifiutato. Fra di noi c’erano degli ingegneri, gente che conosceva benissimo quel lavoro. Tra questi c’era Guglielmo Bravo, un geniale meccanico che poi mi morì tra le braccia un paio di mesi dopo. In quel momento poteva essere un atto di protesta, che però pian pianino svanì, perché l’eliminazione totale della nostra coscienza era veramente arrivata al punto di superare le persone e le amicizie; l’amicizia ad un certo momento veniva tolta. Comunque, su questa piazza ci hanno denudato e ci hanno attribuito, a seconda del nostro fisico, ad una di 3 categorie (1, 2, 3), scrivendo i numeri sul petto, con un inchiostro rosso. Da lì hanno portato noi che avevamo il numero 3 – tra cui io ed un paio di compagni del CLN che sono rimasti con me fino alla loro morte – a Hersbruck. Hersbruck era un qualche cosa che la stessa Germania sta scoprendo ora. Hersbruck era un campo di lavoro. Hersbruck era un campo aperto nell’agosto del 1944 che ha avuto 8 mesi di vita perché è stato chiuso nel marzo del 1945; era un campo fatto per ospitare – diciamo ospitare – 5.000 individui. La forza del campo non ha mai raggiunto il numero di 4.000. Nel giro di 8 mesi sono morti circa 20 mila uomini: 10 mila sono morti a Hersbruck, e altri 10 mila, se non di più, moribondi non ancora morti, venivano portati al crematorio di Flossenbürg, poiché Hersbruck non aveva crematorio. Quindi i corpi che avevamo visto, quegli spettri ancora vivi, erano parte di questo programma. I morti di Hersbruck venivano denudati e accumulati in una baracca, che io ho visto; rimasero congelati per l’intenso freddo dell’inverno, e vennero poi tolti nella primavera, ai primi di marzo, cioè poco prima dell’evacuazione del campo: vennero bruciati nei boschi di Happurg, vicino a Hersbruck. A Happurg c’era appunto il lavoro, che consisteva nello scavo di enormi gallerie, che non sappiamo a cosa sarebbero servite; perlomeno certamente noi non potevamo saperlo. L’inferno di Hersbruck non è indicato solo dalla morte di 10 mila persone, da questo avvicendarsi continuo, da questa morte costante che era come una mitragliatrice di morti. Anche lì l’assuefazione era totale, non c’era più differenza tra vita e morte; anche fra noi, quando moriva un nostro compagno, una volta morto non esisteva più. Forse qualcuno rimaneva oggetto anche utilitario di scambio di speranze, di cose fra di noi. La grande imperatrice, la grande torturatrice era la fame, una fame che non si può descrivere, una fame, come una malattia. La fame era diventata padrona assoluta di tutte le parti del nostro corpo, anche del pensiero: la fame era fisiologica, il desiderio di vivere era psicologico, se si può chiamare desiderio perché c’era addirittura indifferenza; però non ho mai assistito a dei suicidi. Si vede che la spes ultima dea fa parte del processo biologico della nostra vitalità. Qui ho visto morire ad uno ad uno i miei compagni: per la maggior parte mi sono morti nelle braccia. La fame con le torture, ma più che le torture l’inimicizia fra di noi, la mancanza totale di solidarietà, mors tua vita mea, le torture fatte da questi che erano in maggioranza polacchi, ucraini, da questi kapo, il cui bisogno di sopravvivere arrivava ad estremi di crudeltà inenarrabili; poi ognuno di loro a sua volta soccombeva davanti a uno più crudele. Come dico e come ho detto, ho visto morire personaggi meravigliosi, e ho visto morire migliaia, migliaia di persone.

Appena arrivati al campo di Hersbruck, subito siamo stati messi in colonna; ci hanno dato la baracca 14, quella degli italiani; poche ore dopo ci hanno fatto mettere in colonna, uscire dal campo, attraversare con gli zoccoli – con questa specie di zoccoli – seminudi come eravamo, con questi vestiti insufficienti a coprirci, la cittadina di Hersbruck, quella che io ricordo come due file di case. I tedeschi, gli abitanti di Hersbruck, ci vedevano molto bene. Ci accompagnavano dei Posten, soldati che abitavano fuori del campo, e insieme a loro c’erano delle SS che avevano il cane, uno, due, tre cani. I cani venivano allenati con queste marce; lo posso dire con certezza perché venivano aizzati sulle nostre caviglie, sulle nostre carni. Attraversavamo il paese per circa 6/7 chilometri, accompagnati da questi cani che erano delle bestie feroci, ed arrivavamo in un luogo in cui ci aspettava un altro dei soliti treni. Salivamo su questi vagoni; ci stipavano in maniera che non si poteva mettere un capello fra di noi, tant’è vero che ho imparato a dormire in piedi nel corso di quei circa 40 minuti del tragitto del treno, per 7/8 km. Questa era la distanza – una quindicina di chilometri tra Hersbruck e Happurg. A Happurg c’era il lavoro. Bisognava scendere dal vagone, salire o meglio inerpicarsi su questa collina molto ripida, con dei boschi; si arrivava su spiazzi, su specie di terrazze, dove c’erano gli ingressi delle gallerie. In questi spiazzi ricordo molto bene le grandi marche dell’industria meccanica tedesca: BMW, Siemens, Junker ed altre marche che ora non ricordo, scritte sulle gru, macchine enormi. E lì c’erano ingegneri tedeschi; ricordo bene uno di loro che mi chiamò “Badoglio! Arbeit, sempre manciare niente lavorare”, secondo il concetto che avevano dell’Italia. Infatti ci riconoscevano appunto dalla “I” che avevamo sopra il triangolo rosso.

Qui ho cominciato a lavorare. Il primo giorno che sono entrato ho avuto l’opportunità di scegliere tra prendere picco e pala oppure il Transport; stupidamente ho scelto il Transport. Non mi ero reso conto che ero un po’ troppo alto per quel lavoro: dovevamo trasportare enormi pesi sulle spalle. Ricordo che il primo peso è stato un’enorme bombola di gas. A 3 di noi hanno ordinato di portare questa bombola; io, che ero il più alto, dovevo camminare con le ginocchia piegate perché gli altri si abbassavano a loro volta, e così il peso ricadeva su di me; era una cosa atroce. Però in qualche modo sono riuscito a passare al picco e pala e ho lavorato lì per qualche tempo. Passavamo davanti ai cittadini di Hersbruck. C’è un particolare molto interessante: nessuno – che io abbia visto – dal campo di Hersbruck è riuscito a scappare, perché veniva ripreso dai villici. In testa avevamo la Lagerstrasse, ci rasavano una volta alla settimana, ogni 10 giorni ci levavano la barba, i peli ecc., ma ci lasciavano qualche millimetro di capelli con una striscia in mezzo alla testa che noi chiamammo Lagerstrasse. Serviva ad identificarci nel caso ci fossimo coperti o travestiti ed anche in caso di fuga. Tre prigionieri russi tentarono la fuga, furono sorpresi e presi, condannati all’impiccagione nella piazza del Lager di Hersbruck: noi siamo stati obbligati ad assistere per garantire che non saremmo scappati. Tutto il sistema era terrore, e anche questo ne faceva parte. Ho visto morire i 3 russi con un’indifferenza che aveva colpito anche me, che avevo già assorbito cose orribili; tuttavia in questi 3 russi c’era una specie di scherno; pensavo che non fossero spaventati solo per far dispetto ai loro carnefici. Sono stati impiccati e poi hanno fatto diverse altre esecuzioni. Dicevo che i corpi dei morti venivano accatastati in una baracca. Verso la fine di questa odissea, io ricordo che, in un giorno d’inverno, sono riuscito ad avvicinarmi ad una di queste baracche. Ho avuto la malasorte, in questi miei 7/8 mesi nel campo di Hersbruck, di vedere le vicende più importanti di questo campo, tanto è vero che ero diventato un esperto del campo: sono stato uno di quelli che ha resistito di più. Ho visto appunto il trasporto di questi morti, accatastati, levati da questa baracca, messi su dei camion. Coprivano il camion, li portavano nel bosco, proprio vicino ad Happurg, dove c’erano le gallerie. Ho saputo molto tempo dopo – era una cosa completamente segreta – che lì facevano delle fosse comuni e li bruciavano, facevano cioè delle pire, perché non c’era crematorio. Nel corso di un mio viaggio circa un paio di anni fa, mi è stato riferito che due contadini avevano visto l’operazione, e che sono stati scoperti, uccisi e bruciati: erano tedeschi. Questo ce lo hanno detto gli stessi tedeschi, quindi non c’è ragione che non sia vero, perché ci sono i loro nomi.

Questa era l’assuefazione alla morte: per il tedesco di allora era indifferente uccidere o non uccidere, e forse questo più che spiegare giustifica, se giustificare si può, il concetto dello sterminio, il programma di distruzione, e questo odio, calmo e calcolatore.

Sono riuscito a salvarmi appunto perché sono diventato un esperto, e anche grazie all’alma mater, vogliamo chiamarla così? Nel campo infatti si era distinto un italiano, che si chiamava Teresio Olivelli, di cui oggi è in corso il processo di beatificazione, al quale sono stato chiamato per testimoniare. Era un uomo molto intelligente, sapeva parlare benissimo il tedesco ed era stato per caso – l’unico caso di un italiano – che era riuscito a diventare furiere della nostra baracca. Olivelli è stato furiere, cioè ci ha dato un po’ di sollievo per breve tempo: di solito i furieri erano delle persone terribili, erano dei castigatori. Olivelli fu poi ucciso da loro, ma nel breve periodo in cui è vissuto, mi ha presentato al Doktor cioè al medico. Il medico era un gobbetto ucraino, era del Revier, cioè dell’infermeria o quel che sia. Olivelli disse a questo medico ucraino, del quale probabilmente era amico, e che parlava il francese: “Questo è un giovane professore”, e il gobbetto rispose: “Professore di cosa?”, “Di filosofia”. Il gobbetto rispose semplicemente “Ah!” e cominciò a parlare in francese, accennando a qualche teoria filosofica. particolarmente mi chiese se io, che sapevo parlare un po’ di francese, conoscessi Voltaire. Risposi “Naturalmente!”, e poi mi chiese se avevo letto Le Candide di Voltaire. Tutto qui, questa è stata la nostra conversazione. Qualche giorno dopo hanno “sostituito” Olivelli, e io sono stato perseguitato dal nuovo Schreiber, perché mi avevano rubato gli zoccoli e dovevo andare a lavorare scalzo: allora decisi di sfidarli e di darmi ammalato. Senza sapere che in quel Revier dove sono andato a farmi visitare c’era il gobbetto, l’ho trovato, guarda le coincidenze!. Ha fatto finta di trovarmi febbricitante, mi ha regalato un termometro, cioè me lo ha dato e non me lo ha ripreso – quasi fosse un messaggio. E io per 2 mesi e mezzo o 3 sono rimasto ricoverato in questa infermeria truccando il termometro, scaldandolo, quando una volta alla settimana venivamo controllati. Così ho potuto resistere fin a quando non mi hanno scoperto. Questo lo devo forse all’alma mater o alle vicende strane della vita che ti fanno incontrare nei momenti più disperati delle àncore di salvezza. E’ stato il dono che ho avuto da Voltaire. Mi hanno scoperto proprio nel momento in cui qualcuno mi ha visto, ed avrebbe potuto tacere perché non c’era nessun bisogno di dirlo, ma la solidarietà era sparita. La prima cosa era rivelare quello che faceva l’altro, anche per distogliere l’attenzione da sé: un polacco mi vide e mi fece subito la spia, così mi “pescarono” mentre scaldavo il termometro, mi presero, mi diedero la punizione solita – che consisteva in 50 gommate sul sedere, che è una cosa terribile – e mi mandarono allo Strafkommando o Compagnia di punizione. La compagnia di punizione di un campo di sterminio!! E che altro poteva essere? si chiamava Scheissekommando ed era la “compagnia degli escrementi”: si doveva riempire una botte a ruote, prelevando con un bussolotto dai pozzi neri e dai depositi delle latrine. Poi io ed altri due dovevamo spingere la botte sui pendii per concimare: vendevano le nostre feci ai contadini per i loro crauti!

E’ durato poco tempo perché eravamo già al mese di marzo (1945), e un giorno hanno smesso i lavori fuori, hanno sospeso i lavori della galleria, e si è rilassata un po’ la disciplina del campo.

Finalmente si cercava di nasconderci, non si usciva più, ma si cercava la gente da far lavorare nel campo per la pulizia. Sono riuscito ad evitare tutto, ormai ero un esperto, fin quando è venuto il momento dei Transport, cioè dei trasferimenti da un campo all’altro. Praticamente Hersbruck è stato evacuato nel giro di 15 giorni, con le colonne che uscivano dal campo.

Io sono rimasto nel campo perché ero molto malridotto e sono stato spedito con l’ultimo gruppo, non so quanti saremo stati, eravamo quasi tutti molto malandati, e abbiamo cominciato la famosa “marcia della morte“. Io sono riuscito a fuggire insieme con un giovane francese durante uno di questi Transport.

E così sono qui.