Esposito Eugenio

Eugenio Esposito

Intervista del: 20.03.1999 a Bolzano realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n.86 – durata: 69′

Arresto : il 31 luglio 1944 a casa

Carcerazione : a Milano, a San Vittore

Deportazione : Bolzano, Flossenbürg, Kottern

Liberazione : durante marcia della morte

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Eugenio, quando sei stato arrestato te?

R: Il 31 luglio del 1944.

D: E sei stato arrestato a casa tua, assieme a chi?

R: A casa mia, assieme a mio padre.

D: Chi è che ti ha arrestato?

R: L’UPI, Ufficio Politico Investigativo.

D: Perché, l’accusa qual era?

R: Partigiani, antifascisti.

D: Tu facevi parte di una brigata partigiana?

R: Sì, della 113° brigata GAP.

D: E dopo ti hanno arrestato. Era mattino quando ti hanno arrestato?

R: Al mattino, intorno alle 8.

D: Del mattino.

R: Del mattino, sì.

D: Sono venuti in casa …

R: Sono venuti in casa. Uno è venuto in casa a farmi credere che si doveva partire per l’Oltre Po Pavese. Mi ha messo fretta. Ha preso la scusa col dire “Dopo cambiano il posto di blocco a Pavia e non conosco le sentinelle che ci sono. Invece queste le conosciamo, ci lasciano passare”. E c’era tutto un trucco per far sembrare la cosa vera. E quando siamo scesi in macchina, e siamo scesi in strada, la macchina l’avevano parcheggiata dietro la casa dove abitavo io, e quando stavo per salire sulla macchina e salutare mio padre, che hanno detto di accompagnarmi, per non destar sospetti, quando stavo per salire in macchina e stavo per salutare mio padre, sono saltati fuori altri due con le rivoltelle, e su tutti sulla macchina.

D: Anche tuo padre?

R: Anche mio padre.

D: Tu avevi quanti anni?

R: Avevo 18 anni.

D: E tuo padre, invece?

R: 46.

D: Da lì, dove vi hanno portato?

R: In via Copernico, a fianco alla Stazione Centrale, all’Ufficio della UPI.

D: E lì hai subito i primi interrogatori.

R: Lì c’è stato il primo interrogatorio.

D: Cosa ti chiedevano?

R: Volevano sapere di mio fratello, e volevano sapere dei partigiani che c’erano nei pompieri.

D: Perché tu eri un pompiere, allora?

R: Ero un pompiere, sì.

D: E volevano sapere di tuo fratello perché? Tuo fratello dov’era?

R: Mio fratello doveva essere militare nei Paracadutisti della Folgore, invece era in montagna con i partigiani.

D: L’interrogatorio è durato fino a quando?

R: E’ durato fino al tardo pomeriggio. Dopo ci hanno messo in cella, che c’erano le celle giù al piano terreno. E verso mezzanotte è arrivata la macchina, ci hanno caricati, e ci hanno portati a San Vittore.

D: E ti hanno messo dove?

R: Alla cella 87, credo, del 6° raggio.

D: Sempre te e tuo padre assieme?

R: Assieme.

D: E lì sei rimasto quanto tempo, a San Vittore?

R: Sono rimasto dalla notte del 31 luglio al 1 agosto, fino al 16 agosto. Credo che sia il 16 o 17, che siamo partiti per Bolzano.

D: Però, alcuni giorni prima, ti hanno separato da tuo padre.

R: Due giorni prima ci hanno spostato di cella e cambiato il raggio. Ci avevano portato subito al 5° raggio, dopo qualche giorno al 6°. Ci hanno portato al 5° raggio, che è il raggio dei politici, e all’8 ci hanno separati. Lo hanno portato in un’altra cella e io sono rimasto lì.

D: A San Vittore non hai subito più interrogatori?

R: Nessun interrogatorio.

D: Nessuno ti ha chiesto niente?

R: Niente, più nessuno. Non ho visto più nessuno io.

D: Dopo, al 17 di agosto …

R: Il 17 di agosto.

D: Ti hanno chiamato.

R: Ci hanno chiamato la sera, forse il 17 o il 16. Hanno aperto tutte le celle e giù tutti nei corridoi del piano terreno. Eravamo lì tutti. Hanno vuotato il carcere quasi. C’era la partenza, dicevano, per Bolzano. Si doveva andare tutti a Bolzano.

D: Avevi un numero di matricola a San Vittore?

R: L’avevo, ma l’ho perso. Non l’ho più. Non so neanche che numero era. Ho fatto la richiesta. Sono andato là e me lo hanno dato. Mi hanno dato anche il certificato, che sono stato a San Vittore come detenuto politico, però non lo trovo più.

D: Poi siete partiti. Siete partiti con i camion con carri, con cosa?

R: Siamo partiti con i pullman della … di Milano. Forse c’era qualche pullman dell’Azienda Tranviaria. Comunque, erano tutti pullman con i finestrini sigillati e non si potevano aprire. Hanno tolto le maniglie, la maniglia per tirare giù i vetri dei finestrini.

D: Assieme a te, sul pullman, c’era qualche altra persona che conoscevi?

R: Quasi tutti. C’era un certo Bellamio, che dopo in Germania faceva da interprete. C’era Gibillini sul mio pullman. Eravamo in quattro o cinque, adesso non me li ricordo bene. C’era Giovanni Ferrario, che è morto a Dachau, che era uno degli ostaggi come me.

D: Ascolta. Il viaggio lo avete fatto passando da Verona, o passando dal Garda?

R: Da Verona.

D: Da Verona?

R: Da Verona, sì.

D: Poi siete andati a Bolzano. Voi non sapevate dove eravate diretti?

R: No, non si sapeva.

D: Siete arrivati a Bolzano e vi hanno messo nel Lager di Bolzano.

R: Sì, nel campo di concentramento di Gries. Ho visto che c’era scritto Gries. Abbiamo passato un ponte, un ponte sul fiume. Io a Bolzano non c’ero mai stato, non sapevo neanche com’era come città, insomma. So che abbiamo passato un ponte, e al di là del ponte abbiamo camminato un po’ e ci siamo trovati in un campo di concentramento.

D: Lì, ti ricordi in quale baracca ti hanno messo?

R: Era la seconda o la terza baracca di destra, era la B. Per me era la baracca B, che mi ricordo.

D: Ti hanno dato un numero qui a Bolzano?

R: Anche a Bolzano mi hanno dato un numero, ma non me lo ricordo.

D: Ti hanno lasciato i tuoi vestiti o hai dovuto spogliarti?

R: No, a Bolzano mi hanno lasciato i miei vestiti. Com’ero vestito, sono rimasto.

D: Lì, nel campo di Bolzano, sei stato addetto a fare dei lavori?

R: No, niente. Solo una volta, o due, siamo usciti un po’ a gruppi a lavorare nei frutteti, ma non mi ricordo neanche il lavoro. So che era un lavoro inutile, che si poteva anche farne a meno. Forse l’hanno fatto per farci fare una passeggiata.

D: A proposito di frutteti ecc, c’era un tuo compagno di deportazione, lì a Bolzano, che distribuiva a voi deportati delle mele. Ti ricordi chi era questo qua?

R: Sì. A me, che dava le mele, era Gianotta. E una volta me le ha date anche Olivelli.

D: Tu, soldi, non ne avevi?

R: Se avevo, avevo 5 lire.

D: E invece, questi due deportati distribuivano …

R: Non so. Gianotta i soldi li aveva, qualcosa aveva. Olivelli, non so, penso anche lui, o ha trovato un sistema di avere le mele. Non so come facevano. So che avevano le mele e le distribuivano.

D: Ti ricordi se nel campo, quando tu eri qui nel campo a Bolzano, hai avuto modo di vedere se c’erano dei bambini dentro nel campo?

R: Quelli, non li ho mai visti.

D: Non li hai visti. E le donne invece?

R: Le donne sì. Perché il blocco prima del mio era tutto di donne. Nel mio gruppo c’era un certo Lupo Dorino, che cantava bene, e la sera cantava. E le donne gridavano “Bis”. Volevano risentire ancora le canzoni.

D: Ascolta, ti ricordi se c’erano dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Con me c’era proprio Padre Agosti Gianantonio, un frate. Ha detto che era il frate che c’era nella Chiesa dei Cappuccini di viale Piave a Milano. Tant’è che, finita la guerra, sono andato a trovarlo lì. Dopo la Liberazione siamo andati a trovarlo in quella Chiesa lì.

D: Lui era stato arrestato e deportato perché?

R: Perché aiutava gli ebrei, nascondeva gli ebrei. Li nascondeva in Duomo, credo. Perché lui tutte le domeniche mattina, alle 10, faceva la messa in Duomo.

D: Nel Duomo di Milano?

R: Nel Duomo di Milano, sì.

D: E l’hanno arrestato …

R: E’ stato arrestato e portato a San Vittore. Lo ricordo ancora, un bonaccione, Padre Gianego, Agosti Gianantonio da Romallo. Era un trentino. Romallo è lì in Trentino.

D: Ed era nel tuo stesso blocco a Bolzano?

R: Nello stesso blocco.

D: Sai se celebrava messa?

R: No, non si poteva. Dopo, in Germania, veniva a benedire i morti che si trovavano nel gabinetto.

D: Ascolta, ti ricordi qui a Bolzano, tu sei rimasto pochi giorni qui a Bolzano …

R: Penso una ventina di giorni.

D: Ti ricordi se c’era un blocco celle a Bolzano?

R: Mi hanno detto che c’erano le celle, però non le ho mai viste.

D: Tu non le hai mai viste?

R: Mai viste.

D: E qui a Bolzano, sempre quando eri qui a Bolzano, hai assistito a episodi di violenza?

R: No, non posso dire di averne visti. Non ne ho visti.

D: Poi un giorno vi hanno chiamato, qui a Bolzano.

R: Sì, per una spedizione. Hanno detto che si andava in Germania.

D: Non hanno detto dove?

R: Niente, non hanno detto niente. Ci siamo accorti che siamo arrivati a Flossenbürg, perché c’era sempre uno che spiava attraverso il finestrino in alto del vagone bestiame e ha visto la scritta Flossenbürg. E dopo un po’ si è fermato il treno.

D: Dal campo di via Resia, dov’è che vi hanno caricato sui vagoni?

R: So che c’era un binario, che sembrava un binario morto. Non era in stazione. Sulla destra c’era un muro, come un muro di cinta di uno stabilimento, o un palazzo alto. Era di notte, non si poteva vedere di preciso dov’ero. So che non era in stazione.

D: E lì, vi hanno caricato sui vagoni?

R: Caricati su dei vagoni, piombati. Ci hanno messo su una cassa di mele per vagone. Non era roba tedesca. Era qualche comitato, qualche clandestino, che le ha messe su, non da parte dei nazisti, quello no.

D: Acqua?

R: Niente acqua.

D: Mangiare?

R: Mangiare, niente.

D: Solamente quelle mele lì?

R: Solo quelle mele lì.

D: In quanti eravate, più o meno, sul vagone?

R: Cinquanta per vagone.

D: Chiuso, sigillato …

R: Chiuso e piombato dall’esterno.

D: E via partenza.

R: Senza la possibilità di un posto dove fare i nostri bisogni, niente. E siamo partiti. Era notte.

D: Più o meno ti ricordi quanto è durato il viaggio?

R: Adesso non mi ricordo di preciso se erano due notti e tre giorni, o tre giorni e due notti. So che è stato abbastanza lungo.

D: Sete, fame?

R: Più che la fame, era la sete. Perché era da poco che era estate, ed eravamo ancora in carne. La fame è venuta dopo.

D: Dopo, dicevi, quando si è fermato il treno, eravate a Flossenbürg.

R: A Flossenbürg.

D: Scesi dal treno, che cosa è successo?

R: Scesi dal treno, incolonnati e contati. In marcia, e siamo andati nel campo di concentramento. Ma non è proprio vicino alla ferrovia il campo, perché abbiamo camminato un bel po’.

D: L’ingresso nel campo come te lo ricordi?

R: Mi ricordo un cancello e tutte le guardie fuori.

D: C’era una scritta da qualche parte?

R: Credo che c’era scritta quella famosa frase “Arbeit macht frei”. Olivelli e Bellamio, che erano i due interpreti, hanno detto che voleva dire “Il lavoro rende liberi”.

D: Dopo, dicevi, vi hanno messo in un capannone.

R: Non era un capannone chiuso. Era un posto, dove ogni tanto facevano gli spettacoli. Perché, per burlarsi di noi, ogni tanto la domenica facevano i concerti. Sembra un paradosso, ma la prima canzone che suonavano era sempre “Tornerai”. Quella faceva piangere tutti.

D: Ma l’orchestra era composta, da chi?

R: Da prigionieri.

D: Da deportati?

R: Da deportati. C’erano dei veri professori di musica.

D: E in questo posto qui, cosa avete dovuto lasciare voi?

R: Noi abbiamo lasciato tutto quello che avevamo. Messo tutto nei sacchi col nome, perché dicevano che a guerra finita ce li davano indietro.

D: Cioè, tutti i vostri vestiti …

R: I vestiti, gli oggetti. E hanno detto “Non abbiate paura, se avete oro mettete qua, che qua è sicuro”.

D: Quindi vi siete denudati.

R: Denudati completamente.

D: E poi?

R: Poi siamo andati alle docce. C’era una scala, che andava giù. Siamo entrati in quel gran locale, con tutti gli spruzzatori sul plafone e abbiamo capito che erano docce. Quando era ben saturo l’ambiente, quando eravamo dentro tutti, hanno aperto i rubinetti dell’acqua bollente, non dico calda ma bollente, che a tanti sono venute le piaghe. Quelli che sono capitati proprio sotto il getto, avevano le piaghe sulle spalle. E dopo, a furia di grida e urla, chiusa l’acqua bollente hanno aperto l’acqua gelata. E lì altre urla, perché l’acqua era troppo fredda. Dopo, spenta l’acqua, per farci asciugare, era un sogno un asciugamano, hanno aperto le finestre, hanno fatto aria corrente e ci siamo asciugati con l’aria corrente.

D: Ascolta, se uno non capiva gli ordini, che erano dati in tedesco, cosa succedeva?

R: Erano bastonate o calci, mai con le mani. Non toccavano con le mani, o con il bastone o con i piedi.

D: E con te c’era sempre Padre Gianantonio?

R: Era sempre stato con noi. Lo ricordo nudo, davanti a me, quando si andava giù alla scala per le docce.

D: Dopo, la rasatura.

R: Dopo c’è stata la rasatura.

D: La rasatura in tutte le parti del corpo?

R: La rasatura in tutte le parti del corpo. Dalla testa, fino sotto le ascelle, chi aveva il pelo sullo stomaco. Padre Gianantonio con la barba, tagliata. Abbiamo chiesto pietà per lui, perché la barba è simbolo dei frati, ma non c’è stato niente da fare.

D: Non ti ricordi se per caso, questo particolare della barba, non gli è stata tagliata a Bolzano a Padre Gianantonio?

R: Non credo che l’hanno tagliata a Bolzano.

D: Gliela hanno tagliata a Flossenbürg?

R: Credo che gliela abbiano tagliata proprio a Flossenbürg.

D: Quindi, depilazione, rasatura. Poi?

R: In tutte le parti del corpo. Poi ci hanno portato alla vestizione. Tutti nudi, attraversare il piazzale dell’appello, c’erano i magazzini, si camminava in fila indiana. Lì c’erano dei prigionieri che ti buttavano, chi la giacca, chi la camicia, chi i pantaloni e gli zoccoli, e basta. Senza fermarsi. Dovevi prendere tutto al volo, tutto di corsa, al volo, perché eravamo in tanti da vestire. Era già sera.

D: Ascolta, biancheria intima?

R: Mai vista, né calze, né mutande.

D: Una maglietta?

R: Chi aveva la maglietta, non aveva la camicia. Il capo era uno.

D: Poi, il blocco di quarantena.

R: Dopo, incolonnati verso il blocco di quarantena. L’abbiamo saputo dopo che era un blocco di quarantena. Il 23 era il blocco più terribile di Flossenbürg.

D: Perché?

R: Chi è stato a Flossenbürg, tutti sanno che cos’era il blocco 23 perché lì la morte era giornaliera, bastonate, tutto. Era il blocco più terribile. Quarantena non per le malattie, io penso per selezionare ancora il personale. Chi resisteva lì, poteva continuare a fare il prigioniero. Infatti, non sono passati dieci, quindici giorni, che sono andato al gabinetto, chiamiamolo gabinetto, perché era uno schifo, e ho visto un cadavere sotto i lavandini. Al ritorno sono andato da Padre Gianantonio e gli ho detto “Padre c’è un cadavere al gabinetto”. Sarà morto lì, ma è nudo. E’ andato là e l’ha benedetto. Dopo un po’ qualcuno è voluto andare a vedere anche lui. E’ tornato e fa “Guarda che ce ne sono due, tre o quattro di cadaveri”. Dopo abbiamo capito. Tempo di sera, i due, tre cadaveri, diventavano catasta perché portavano anche quelli del blocco 22.

D: Quindi, quando uno moriva, veniva portato …

R: Quando uno moriva, veniva spogliato, bagnato con il getto di acqua fredda, per bagnare la pelle per poter scrivere il numero di matricola sulla pelle del morto. La matita copiativa, si usa se è bagnata. E per non star lì a bagnarla ogni volta, bagnavano il cadavere e scrivevano il numero di matricola, che dopo veniva registrato e depennato come deceduto.

D: Vicino alla tua baracca, vicino al blocco 23, cosa c’era?

R: C’era il forno crematorio, però non lo vedevamo. L’abbiamo saputo, che era il forno crematorio, perché vedevamo sempre il carro passare. Al mattino passava il carro pieno di cadaveri, e vedevamo il fumo che usciva. Dopo ci hanno detto, gli anziani del campo, che lì c’era il forno crematorio. Di fronte c’era una garitta, una garitta con su le sentinelle, le mitraglie. Era un posto bello però, malgrado la garitta e il forno crematorio, perché più di una volta abbiamo visto i caprioli passare sotto le garitte. Era qualcosa di anormale vedere un capriolo in libertà.

D: Ascolta. Il tempo che sei rimasto lì a Flossenbürg, hai avuto modo di vedere se lì sono state consumate delle violenze?

R: Ma lì erano all’ordine del giorno le violenze. Tutti i giorni era violenza lì. Le 25 bastonate con un tubo di gomma. Basta pensare che il capo blocco era un assassino, un delinquente comune, e il capo campo un pluriassassino. Quelli lì ci comandavano. Il vice capo blocco era un polacco, più delinquente ancora del tedesco. Perché non sembra, qua si parla sempre di tedeschi, ma i polacchi ci hanno fatto piangere e ci hanno bastonato tanto. Non era solo quello lì polacco, tanti capi blocco e vice capi blocco erano polacchi.

D: Tanti Kapò.

R: Tanti kapò.

D: Ascolta, mi sono dimenticato di chiederti una cosa. Lì hai avuto anche l’immatricolazione?

R: Lì mi hanno immatricolato, sì.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 21.587.

D: Quindi, dovevi rispondere, ogni volta che ti chiamavano?

R: E’ un numero che non sono riuscito ad impararlo in tedesco. Ancora oggi, non sono riuscito ad impararlo. Se non si rispondeva, venivano a prenderti ed erano bastonate. Per fortuna che io ero molto amico di Bellamio, che faceva da interprete, e lui si intrufolava in mezzo e me lo spiegava in tedesco. E all’attimo capivo e rispondevo, qualche volta. Qualche volta andava male.

D: Com’era il gabinetto di Flossenbürg?

R: Il gabinetto di Flossenbürg, metta di vedere una grande fossa, profonda tre o quattro metri, lunga sei, sette, otto metri, larga tre, quattro, cinque metri. Sui bordi c’era una trave. In mezzo c’era un divisorio perché serviva anche per il blocco 22. Ai lati c’era una trave di legno, sia di qua che di là, nelle due parti, e ci si doveva sedere su quella trave lì per i bisogni.

D: Ma non era pericoloso, instabile?

R: Per uno sano non era pericoloso, ma tanti morivano al momento, o erano deboli e cadevano dentro la buca, e stavano dentro. Morivano dentro, seppelliti dagli escrementi di tutti quelli che andavano al gabinetto. Una volta ogni tanto, penso che lo vuotavano e tiravano fuori i cadaveri. Siccome i capi blocco, che mangiavano le patate e la frutta, la pelle non la davano a noi ma la buttavano dentro quel gabinetto lì, in quella buca, ho visto prigionieri russi andare giù, farsi da scala e andar giù a prendere quelle pelli lì e mangiarle. Io speravo di morire prima di arrivare a quel punto lì.

D: Durante la quarantena tu sei uscito anche dal campo per lavorare?

R: Lì, andavamo alla cava di pietra. Non tutti, facevano due o tre squadre. E si andava alla cava di pietra, che distava due o tre chilometri. Di notte brillavano le mine e spaccavano la montagna, e noi di giorno si andava a caricare le pietre. Pretendevano che erano cubi, come se la dinamite, quando scoppia, fa i cubi perfetti. E si stava lì anche a picchiarsi, l’uno con l’altro, tra noi, perché uno vedeva il cubo che andava bene e cercava di portarlo via, e l’altro voleva fregarlo. Perché era importante perché dopo c’era il controllo, c’era la sentinella che controllava. Se la pietra era troppo piccola o non era fatta bene, erano bastonate. Non c’era pietà lì.

D: Le pietre le prendevate lì dalla cava, e dove dovevi portarle?

R: Si ritornava al campo, ma non si rientrava nel campo. C’erano delle costruzioni su una strada, che anche la strada era nuova, che stavano facendo, e si depositavano lì, ai margini di quella strada, dove c’erano delle costruzioni che dicevano essere delle villette per le SS.

D: E poi ritornavate …

R: E poi si ritornava alla cava. Si facevano tre, quattro viaggi al giorno, andata e ritorno.

D: Ritornando al campo, ti ricordi se nel campo di Flossenbürg hai visto delle donne?

R: C’erano le donne. E per la verità c’era anche il bordello.

D: Dentro il campo?

R: Dentro il campo. Era dietro l’infermeria.

D: Ma chi ci andava?

R: I capi e anche qualche lavoratore, perché davano i buoni per potere andare. Quelli che lavoravano già negli stabilimenti, penso che avevano quei buoni lì.

D: Gli altri deportati del campo uscivano anche loro a lavorare?

R: Sì, tanti uscivano, ma non la maggioranza però. Sì rimaneva ad oziare tutto il giorno. Pochi uscivano. Si vede che non c’erano grandi industrie in giro lì. Chi usciva, dicevano che andavano fuori a fare le strade, a fare quella famosa strada lì, dove portavamo noi le pietre. Ma non era come negli altri campi, dove sono stato dopo, che c’erano proprio gli stabilimenti, lì grandi industrie, non ne ho viste io.

D: Lì sei rimasto un mese.

R: Un mese circa, sì.

D: Poi, che cosa è successo?

R: Siamo partiti ancora con il treno, anche lì, il viaggio abbastanza lungo, due giorni e due notti. Abbiamo visto Kempten, che c’è la stazione. Siamo scesi dal treno, e ci hanno incolonnato fino a Kottern, si vedeva il cartello, e lì c’era un campo di concentramento e siamo entrati lì. Come siamo entrati, il capo campo ha fatto il discorso, il discorso burla “State puliti. Non tentate di fuggire. Non rompete i vetri”. Non so, come se fossimo dei giocatori di calcio, a giocare lì in mezzo alle case. Ci ha proprio detto di non rompere i vetri, se no ci avrebbero punito. La prima zuppa che ci hanno dato però, era già più sostanziosa di quella che si mangiava a Flossenbürg. Era più spessa. Abbiamo detto “Qua stiamo bene”, ma purtroppo è durata poco lì.

D: Ascolta, ma a Flossenbürg non avete mai avuto contatti con la popolazione, o visto abitanti?

R: Mai visto un abitante di Flossenbürg, mai. Sembrava un posto fuori dal mondo.

D: Neanche quando siete arrivati …

R: Neanche quando siamo arrivati.

D: … che avete attraversato il paese?

R: Niente. Abbiamo attraversato il paese, ma era notte, era sera, c’era buio. So che siamo passati vicino ad una segheria, credo che c’era una segheria sulla destra, ma non abbiamo visto nessuno, come se ci fosse il coprifuoco. C’erano delle case, però mai visto una persona camminare in strada, nessuno. Sembrava un posto fuori dal mondo.

D: In questo campo qui nuovo, non a Flossenbürg, quello in cui sei arrivato

R: A Kottern

D: A Kottern ti hanno immatricolato di nuovo?

R: Lì, hanno cambiato numero di matricola. Era 116.355.

D: E questo era un sottocampo di Dachau.

R: Era un sottocampo di Dachau. Tant’è vero che, lì, non c’era il crematorio. Quelli che ammazzavano, o morivano, c’era il camion il mattino che li portava a Dachau a bruciare.

D: Perché eravate lì, voi deportati? Cosa facevate in questo campo?

R: Dopo due o tre giorni, ci hanno fatto a squadre e ci hanno divisi. Si partiva al mattino alle 6, e si facevano tre chilometri a piedi su una stradina che costeggiava il paese. Lì, si vedeva qualche abitante, ma quando passavamo noi le donne, nelle case, chiudevano le finestre. Non so perché, facevamo orrore, non lo so. E c’erano due stabilimenti, che dicono che erano due tessiture modernissime della Germania, che però sono state bombardate perché le hanno fatte diventare due stabilimenti.

D: Cioè, costruivate parti …

R: Parti di quei missili, diciamo.

D: E la ditta?

R: Io non so che ditta era quella lì. Per me, era un’azienda militare. Non lo so. Non c’era scritto niente fuori. So che costeggiavamo un fiume. C’era un ponticello da attraversare, e si entrava in quel cancello lì. Sempre scortati, e si facevano dodici ore di giorno per una settimana e l’altra settimana dodici ore di notte.

D: Questo nome qui ti dice qualcosa? “Messerschmitt”.

R: Sì. Ah ecco, era proprio la Messerschmitt

D: Avevate dei capi civili anche?

R: C’erano dei civili, ma i capi erano solo tedeschi militari.

Tanti civili, ma come maggioranza erano militari dell’Aviazione Tedesca. Dicono che erano tutti feriti che rientravano dal fronte e venivano lì in convalescenza, ma dovevano lavorare. Ci facevano vedere il lavoro che dovevamo fare noi.

D: Ah ecco, vi spiegavano che tipo di lavoro dovevate fare?

R: Sì.

D: Ascolta. Uno invece, non è che ti ha spiegato un lavoro, aveva chiesto se tu gli facevi un particolare oggetto in cambio …

R: Ho fatto i bocchini per le sigarette, e poi ho fatto anche degli accendisigari e porta sigarette. Tant’è vero che, uno di quelli lì, l’ho fatto io, e Castelli, che adesso è morto, l’ha inciso con il disegno che ci ha dato uno del campo, che era un capo della Mercedes. Era un prigioniero politico tedesco. Era all’ufficio di quello che teneva la registrazione del campo. E quello lì, a me e a Castelli, ogni volta che ci portava a far vedere il lavoro, tutte le sere, ci dava una mezza gamella di zuppa.

D: Ma un altro, invece, che era una SS …

R: Non era una SS. Me ne ha ordinato uno per lui ed uno per la fidanzata. Ne ho fatto uno prima di quelli lì. E quel militare lì, che era dell’aviazione, mi ha dato una fetta di pane. Sarà stato un etto e mezzo, due etti. E’ tanta manna. E’ il lavoro di più di una settimana. Facevo tutto di nascosto, perché se mi prendevano era sabotaggio, era impiccagione. Lì non si scappava. E quello lì ha fatto vedere ad un altro dell’aviazione, che lavorava lì anche lui, sempre in divisa, erano in due, e quando l’ha visto mi ha chiamato e mi ha detto che lo voleva anche lui, uno per lui e uno per la fidanzata. Allora a racimolare il materiale, che non era roba facile. Dovevo andare di notte, scardinare la porta, già scardinata per i bombardamenti, e i piani superiori bombardati, cercare gli interruttori di bachelite, portare via i pezzi. Io facevo quei bocchini lì delle sigarette e porta sigarette, che erano una meraviglia. Sono usciti dei gioielli. Neanche io credevo di essere capace di fare delle cose così belle. Il tempo l’avevo, ma sempre di nascosto però. Avevamo fatto il contratto che doveva darmi del pane. E quando sono andato a consegnarli, ero tutto contento. Ho detto “Stasera mangio”, e invece mi sono preso due calci nel sedere che mi hanno alzato da terra. Quello è stato il pagamento. E non era una SS, era dell’aviazione. Era rosso di capelli.

D: Lì, sei rimasto per quanto tempo?

R: Fino al 22 o 23 aprile del 1945. Purtroppo, tre o quattro giorni prima della Liberazione, diciamo, ci hanno caricato tutti su i camion ma è suonato un allarme ed è iniziato un bombardamento terrificante. Lì, ci siamo guardati un po’ ed ho deciso di scappare. Ci siamo trovati in cinque. C’ero io, c’era Gibillini Venanzio, c’era Selmi Umbro, c’era Nicolini e c’era …, un triestino, un istriano. Abbiamo fatto molta strada a piedi. Il pericolo era che si camminava vestiti da prigionieri. Allora abbiamo deciso di camminare a metà costa, sulle colline, tra una pianta e l’altra, per non farci vedere perché la strada era tutta piena di militari tedeschi che ritornavano sconfitti dal fronte, tutti feriti. E’ stata proprio una disfatta. Ho visto proprio la disfatta dell’esercito tedesco lì. Nel camminare, abbiamo trovato una donna che ci ha salutato. Noi abbiamo risposto al saluto e siamo arrivati ad un boschetto. Un boschetto, ma saranno state cinque o sei piante in fiore. Non posso dire se erano meli o se erano ciliegi, quel boschetto lì. Dopo 5 minuti che eravamo lì, è arrivata gente. Si sono presentati. Erano operai francesi, che lavoravano alla BMW. Ci hanno chiesto chi eravamo, e noi glielo abbiamo detto. E hanno detto “Non state in giro vestiti in quella maniera lì”, in francese, qualche parola si capiva, “perché vestiti a zebra, se vi vedono, vi pescano subito. Aspettate qua un’oretta, che andiamo dove lavoravamo, perché oramai lo stabilimento è distrutto, bombardato, cerchiamo dei vestiti borghesi e ve li portiamo”. Difatti, dopo un’oretta, sono arrivati con due sacchi pieni di vestiti. Ci hanno messo lì i vestiti, ci hanno dato una sigaretta per uno, cinque sigarette, e se ne sono andati. E noi ci siamo cambiati i vestiti. Nell’attimo di buttar via, anche i berretti ci hanno portato, cinque berretti, nell’attimo di buttar via i vestiti a zebra, abbiamo visto due canne di mitra e sentito delle grida. Ci siamo guardati in giro, ed erano due Sergenti delle SS del campo. Lì abbiamo capito che quella donna là ci ha indirizzato quella gente lì. Perché quelli ci hanno inseguito subito da come siamo scappati, però non ci vedevano. Si vede che hanno chiesto informazioni e qualcuno ci ha visto. Di sicuro quella donna là, è una che ha fatto la spia. E lì, avevano un bastone per uno, hanno passato il mitra nella mano sinistra e con la destra, con quel bastone lì, fino a che non hanno avuto in mano più niente, si sono sfogati su di noi. Tant’è vero che le ultime bastonate le ha prese il Gibillini Venanzio, che è caduto in un fosso, una pozza d’acqua, ma profonda 60, 70 centimetri. E ho detto “Quello lì annega”. E allora mi sono messo in ginocchio e con la poca forza che mi è rimasta l’ho tirato fuori. Il tedesco, quando ha visto così, si è sfogato ancora su di me e mi ha conciato proprio per le feste, però ho salvato Gibillini. Dopo, la strada che abbiamo fatto a fuggire, l’abbiamo fatta a tornare. Però hanno voluto che ci vestivamo ancora da zebra. Hanno voluto che ci vestivamo ancora da zebra. Noi, quando ci hanno detto di spogliarci e chi eravamo, abbiamo detto “Civili francesi”. E quelli hanno detto “Togli il berretto”, e voleva dire essere scoperti, perché noi avevamo la Strasse. Come italiani e russi, oltre ad essere rapati a zero, avevamo la Strasse per riconoscerci, perché se ci hanno bastonato da dar via, era nostra e per i russi. Loro erano i nemici e noi eravamo i traditori. Abbiamo fatto tutta quella strada, che avevamo fatto durante la fuga, ma siamo tornati indietro. Siamo passati da una cascina, e abbiamo capito che quella era la donna di uno dei Sergenti che ci ha preso. Ci ha dato un carrello a mano, una carretta, e ci ha accompagnato in un magazzino bombardato. Ci ha fatto caricare margarina, salami, wurstel e bottiglie di grappa, e ce li ha fatti portare alla cascina e dare a quella donna là. Dopo che loro hanno mangiato, noi si guardava, non si sono degnati neanche di passarci un pezzetto di pane, allora siamo tornati al campo, quasi tutto di corsa per arrivare in tempo. Siamo arrivati al campo che era l’una di notte, circa.

D: Però non siete entrati nel campo?

R: No, ci hanno lascito fuori. Uno è entrato, ha chiamato sei SS, sono usciti con il moschetto e hanno formato il plotone di esecuzione. Ho detto “Ormai ci fucilano”. E dopo hanno litigato i due Sergenti. Quello che ci ha preso per primo ha detto “Li fuciliamo subito”. L’altro ha detto “No, aspettiamo domani mattina, che arriva il turno di notte, che ora sono fuori a lavorare, e passano in rivista”. “Passare in rivista” per dire “Chiunque tenterà la fuga, farà la fine di questi e li fuciliamo davanti a tutti”. Il Comandante, sentendo quella discussione, ha preso la motocicletta ed è andato al Comando Superiore. E’ rientrato dopo un’ora e mezza, sentivo la motocicletta nella notte che si avvicinava. Nella fuga, che abbiamo fatto noi cinque, si sono aggiunti due tedeschi politici, che anche loro hanno tentato la fuga ma sono stati presi come noi. Quando è rientrato il Comandante con la motocicletta, ha bisbigliato qualche parola, e poi ho visto i due tedeschi che si sono messi in ginocchio per baciare la mano a questo SS. Allora ho detto “Allora siamo salvi”. Però ho detto “E se è solo per quelli lì, che sono tedeschi?”. Dopo, invece, ha mandato via il plotone di esecuzione e ci ha detto di rientrare tutti in campo. Ci ha messo in un Bunker, che sarà stato lungo tre metri per due metri, senza finestre, con una porta stagna, con dentro circa mezzo metro d’acqua. E siamo stati lì fino a circa le 11 del giorno dopo. Non ci si poteva coricare, stanchi com’eravamo, se no si annegava, e ci siamo messi a coppie, in modo da poter star seduti uno sul ginocchio dell’altro e viceversa. Ci hanno tirato fuori alle 11 del giorno dopo. Era una giornata splendida, bruciavano gli occhi per il sole, con tutto il buio che avevamo sofferto. Il primo sole a momenti ci brucia gli occhi. Ci hanno dato una fetta di pane e ci hanno detto “State in campo”. A lavorare non si andava più, perché ormai la guerra era alla fine. Dopo due giorni, ancora incolonnati, rimangono quelli dell’infermeria, che sono quelli che non possono camminare, ci hanno contato, plotoni di cinquanta per volta e file di cinque. Noi cinque, che abbiamo tentato la fuga, ci siamo messi tutti vicini. Abbiamo fatto una fila. E come ci hanno visto uscire, hanno detto “No, tu qua, tu là” e ci hanno separato, ma dopo un po’ ci siamo riuniti ancora. E lì si è vuotato tutto il campo. Era la marcia di eliminazione. L’abbiamo capito dopo, perché chi cadeva veniva ucciso. Chi tentava di fingersi morto, quando si ripartiva dopo i 10 minuti di riposo, veniva ucciso anche lui con un colpo alla nuca. Era una prova che volevo fare anche io, ma mi sono guardato bene di farla perché avevo visto l’esito. E abbiamo capito che si girava sempre in giro ad una collina. Era sempre quello il panorama. Fino a che, verso le 5 di sera, tutto il cielo è diventato rosso, e ci siamo chiesti “Che cosa vuole dire? Cos’è questa roba qua?”. C’erano degli ufficiali con noi, prigionieri, che hanno detto “Nell’esercito, quando ci sono questi razzi, vuole dire di evacuare la città dalle Forze Armate”. Ci siamo guardati in giro, e non c’era più una SS. E’ finito. Ho messo le mani in tasca, che era proibito farlo, finalmente dopo dieci mesi mi sono messo le mani in tasca, e siamo rimasti liberi. Tanti sono ritornati al campo, alcuni si sono fermati lì, ed io, in tre, ci siamo diretti verso le prime abitazioni. Abbiamo trovato una cascina e ci siamo accampati fuori dalla cascina, sotto i portici, a dormire. Prima, però, ho trovato un tedesco, che anche lui mi ha messo in mano un carretto e mi ha detto di andare ad un magazzino alimentare, mi ha accompagnato lui, e mi ha fatto caricare dei viveri. Mi mandavano a rubare. Ho caricato dei viveri e li ho portati nella sua villa, anche quello lì se mi avesse detto “Grazie”, neanche un pezzo di pane. Il giorno dopo, quando ci siamo svegliati, siamo andati noi a saccheggiare qualche negozio e abbiamo mangiato. Il mattino dopo, un gran rumore sulle strade ci ha svegliato. Ho guardato fuori, proprio per primo, e ho detto “Ci sono i carri armati”. E il Gibillini mi fa “Ma che distintivo c’è su? C’è su una stella? Allora sono americani.” Infatti, siamo usciti e come ci hanno visti, eravamo vestiti a zebra, hanno fermato tutta la colonna e sono scesi a prendere informazioni. Parlavano tutti il napoletano, quei militari lì. Devo dire che ci hanno trattato proprio bene.

D: E lì sei rimasto fino a quando?

R: La nostra intenzione era quella di seguire il fronte. I militari americani ci portavano da mangiare tutti i giorni, mattina mezzogiorno e sera. Arrivavano due uomini con la pignatta e ci davano da mangiare. Posto, loro, non ne avevano. Erano accampati anche loro. Ci davano da mangiare loro. E quando si spostava il fronte, noi li seguivamo perché l’intenzione era di seguire il fronte per arrivare a casa prima. “Perché questi vanno verso l’Italia” pensavo io “Vanno verso l’Italia, li seguiamo, e ci troviamo là”. Invece, ci hanno portato in un altro paese. Lì ci hanno fermati, perché il paese era un po’ più grande, non mi ricordo che paese era, e ci hanno messo in un asilo a mangiare e a dormire. Lì, con i medici, ci hanno visitato, e ci hanno tolto tutti i pidocchi con il DDT. Ci hanno spruzzato con una pompa, ci spruzzavano sotto i vestiti, e di pidocchi non ce ne erano più. Siamo stati lì qualche giorno. Dopo, sono arrivati dei camion americani, ci hanno caricato e ci hanno portato a Bolzano.

D: A Bolzano ti ricordi dove ti hanno portato?

R: A Bolzano ci hanno portato in una caserma. Tant’è vero che, meraviglia, a Bolzano giravano ancora i militari tedeschi armati, cosa incredibile. Era già finita la guerra.

D: Quanto tempo sei rimasto a Bolzano?

R: Poco, lo stesso giorno siamo ripartiti. Siamo ripartiti. Sono venuti i pullman. Ogni città mandava i suoi pullman. Milano ha mandato i pullman, Torino, Genova. Tutte le regioni mandavano i pullman, perché sapevano che c’era il rientro, e ogni comitato mandava i pullman. Io ne ho preso uno di Cernusco sul Naviglio, che ci ha portato fino alla Stazione Centrale di Milano. Abbiamo fatto una sosta a Trento. Un posto di preti ci ha dato da bere roba calda, e ci hanno dato un panino, credo. Poi siamo ripartiti subito, e siamo arrivati alla Stazione Centrale di Milano che era l’alba del giorno dopo.

D: E alla Stazione Centrale che cosa hai fatto?

R: Alla Stazione Centrale hanno fatto l’appello di quelli che eravamo. Quando sentivano il mio nome, tutti mi correvano incontro a guardarmi in faccia, ma nessuno parlava. “Sei Esposito Eugenio?”, “Sì”. “E allora vai a casa adesso?”, “Sì”. Allora mi hanno fatto un documento, un foglio di carta prestampato già. Hanno messo su il nome, la provenienza del campo, e mi hanno detto di andare a casa. Io esco dalla Stazione, dall’atrio, e sono rimasto imbambolato perché non sapevo dove abitavo. Non so che cosa mi è successo. Sarà stata l’emozione, perché non sapevo dove abitavo proprio. Dopo un po’ mi è venuto in mente che avevo dei parenti in quella zona lì. Pensa, pensa, e gironzolavo da solo, come una trottola. Penso e ho detto “Ma io, in viale Monza, avevo degli zii e dei cugini”. Allora ho chiesto dov’era viale Monza. Mi hanno indirizzato e sono arrivato in viale Monza. Ho bussato a tutte le porte dei palazzi, fino a che al 36 mi hanno detto “Sì, abitano qua”. Mi hanno detto il piano e sono andato su. Ho suonato il campanello, è uscita mia cugina e mi ha abbracciato. Mi ha detto “Sai di tuo padre?”, “Che cosa c’è?”, “Tuo papà è stato fucilato, qua in Piazzale Loreto”. Ecco, io l’ho saputo lì.

D: Poi ti ha accompagnato a casa?

R: Poi mi ha accompagnato. Prima di passare da casa, mi ha portato in Piazzale Loreto. Ho detto “Fammi vedere dove”. E quando sono arrivato lì, in Piazzale Loreto, c’era una catasta di fiori, corone e fiori. C’era il drappello dei Vigili Urbani in onore. Quando hanno saputo chi ero, si sono messi tutti sull’attenti. Dopo ho preso un taxi, che mi ha portato a casa. Mi ha detto “Non salire. Stai in strada, che vado su io”. Infatti, dopo 10 minuti è venuta giù a prendermi e ho trovato mia madre. Anche lei mi ha detto “Hai sentito del papà”, “Sì, ho sentito”.

D: A proposito del papà, il papà, che era stato arrestato con te, poi vi hanno diviso l’8 di agosto del 1944 nelle celle, il papà è stato fucilato?

R: Sì, in Piazzale Loreto.

D: Perché? Il motivo? Si dice che è stato per rappresaglia …

R: Rappresaglia di una bomba, che dicono che hanno messo le Gap in viale Abruzzi sotto un camion tedesco, dove sono morti nove tedeschi. Invece non era vero, perché nessuno può dire che erano morti dei tedeschi. Perché, né il rapporto della polizia, né i rapporti dell’ospedale, né la Prefettura, neanche i Comandi fascisti, neanche loro, lo hanno dichiarato, sono morti solo civili, non sono morti dei militari tedeschi. L’unico militare tedesco era l’autista, che ha avuto solo un graffio, qua sulla guancia, e basta. L’hanno medicato all’ospedale e l’hanno mandato fuori subito. Altri, in ospedale, hanno dichiarato che erano solo morti e feriti civili.

D: Dovevano essere ventisei ad essere fucilati.

R: Sì, nella lista erano ventisei.

D: Ricordi il primo di questa lista chi era?

R: Il primo ero io, il secondo mio padre, e poi avanti. E l’ultima ,era una donna, una certa Mozzolon Giuditta. Non se ne è più parlato. Abbiamo scoperto da poco che è morta a Sesto qualche anno fa. E’ stata insignita di medaglia d’argento. E’ morta che aveva quasi 90 anni.

D: Da ventisei…

R: Da ventisei, in undici siamo stati graziati. Dicono “graziati”, da pena di morte all’ergastolo, però ergastolo sempre come ostaggi. Eravamo sempre ostaggi. Per il primo fatto che succedeva, eravamo noi undici ad essere fucilati.

D: E poi, non tanto ergastolo quanto deportazione.

R: L’ergastolo voleva dire la deportazione nei campi di eliminazione, dove sono andato a finire.

D: In una parola, in due parole, l’esperienza dei Lager, che tu hai vissuto, cosa è stata?

R: E’ un’esperienza che non si augura a nessuno, neanche al peggior nemico. E’ un’esperienza che si può augurare solo a quelli che l’hanno fatta a noi.

D: Perché?

R: Perché è una cosa incredibile. Uno che non ha provato, non può credere. Si possono raccontare dei fatti, delle storie, ma uno che non l’ha provato ha il diritto di non credere. Io l’ho sempre pensata così e sempre la penserò così.

D: Per le cose che hai visto?

R: Per le cose orribili che succedevano in quei campi lì, la vigliaccheria, la brutalità, cose mai viste, mai sentite, mai scritte da nessuno.

D: Però ci sono state delle cose, chiamiamole così, belle tra di voi.

R: A beh, qualche atto di solidarietà c’era. Ho portato solidarietà sempre al mio carissimo amico Gibillini. A lui avevano rubato il pullover e soffriva molto il freddo. Io, a mia volta, in un …, che era la doccia per il controllo dei pidocchi, dopo ci davano un po’ di biancheria pulita in cambio di quella sporca, una volta o due è successo, sono riuscito a recuperare una camicia di tela, tutta ricamata però, bella, e la tenevo sotto il maglione. E quando Gibillini si lamentava che gli avevano rubato il pullover e aveva solo la giacca, era freddo, era quasi primavera ma era ancora la fine dell’inverno, l’ho chiamato da parte e gli ho detto “Senza farti vedere, adesso ti passo una camicia, che l’ho sotto nascosta”. Di fatti, ho tolto il pullover, ho tolto la camicia, e gli ho dato la camicia. Mi sono tenuto io il pullover di lana. A momenti mi bacia i piedi per quel favore che gli ho fatto, per quel regalo che gli ho dato, perché realmente c’era freddo e ne aveva bisogno. E poi l’altro fatto, quando gli ho salvato la vita, quando stava per annegare nel fosso, nel fossato, lì, mentre ci bastonavano.

D: Ci sono stati altri deportati ad avere fatto gesti di solidarietà?

R: Pochissimi, tant’è vero che non li ricordo. Pochissimi ce n’erano. Lì, si pensava magari anche a rubarci uno con l’altro un pezzetto di pane.

D: Dicevi, che un giorno avevi quasi perso la voglia di resistere.

R: Chi mi ha salvato, è stato un ingegnere. Mi stavo per buttare sui reticolati della corrente elettrica a 12.000/13.000 volt. Mi è corso dietro l’ingegnere, adesso è morto anche lui, poverino, e mi ha strappato via, prima di toccare i reticolati. Io mi volevo buttare contro, almeno era finita, mi risparmiavo sei, sette mesi di sofferenze.

D: Ascolta Eugenio. Secondo te, è importante che i giovani di oggi conoscano questo aspetto della storia, questi fatti della storia?

R: Non dico che è importante, dico che è obbligatorio. Per il semplice fatto, che da che c’è mondo, c’è mondo, la storia si ripete. Io sono convintissimo che questi fatti si ripeteranno. Se li dimentichiamo, questi fatti si ripeteranno. E’ una mia convinzione. Spero di sbagliarmi, ma io sono convinto che si ripeteranno.

D: E’ importante, secondo te, che gli studenti, i giovani, vadano, per esempio, nei Lager?

R: Devono andare nei Lager, devono visitarli, ma devono sapere tutto dei Lager e tutto di chi ha vissuto nei Lager. Devono sapere tutta la storia dei Lager e quello che hanno sofferto tutti quelli che entravano in qui Lager lì, perché erano tutti innocenti, quelli che entravano in quei Lager. Solo perché si pensava diversamente da un altro, che la pensava male.

D: Ascolta. Dopo il tuo ritorno a casa, in questi cinquantaquattro anni, le istituzioni, lo Stato, la Regione, i Comuni, qualsiasi istituzione, secondo te, si sono impegnati, hanno fatto qualcosa, rispetto ai deportati, rispetto alla deportazione?

R: Pochissimo. Quel poco che è stato fatto, e dovuto alle richieste fatte dai nostri dirigenti, delle nostre Associazioni, perché, liberamente, nessuna autorità ha fatto niente per noi.

D: Quanto ti è pesato il dopo Lager?

R: E’ pesato tanto. Mi ha pesato l’insonnia perpetua. La notte, per me, quando dura tre ore, dura troppo. Non riesco più a dormire.

D: Tu pensi che sia per questo?

R: E’ da allora, perché io da giovane dormivo. Da allora io non riesco più a dormire. Non so che cosa sia, ma è così. Io, quando sono gli orari stabiliti che avevo là in Germania, mi alzo. Mi alzo alle 3,30 o 4,30, e non vado più a letto. Giro per casa come un fantasma, ma non vado più a letto.

D: E i sogni?

R: I sogni, i primi tempi, erano duri. Gridavo di notte. C’era mia moglie che ogni tanto si spaventava. Me lo diceva “Stanotte hai parlato, hai gridato”, “Io?”, eppure era così.

D: Nel campo non sognavi?

R: Niente. Nel campo l’unico pensiero era qualche volta della famiglia. L’unico pensiero era quello di portare a casa la pelle.

D: Del tuo trasporto, che ti ricordi, in quanti siete ritornati?

R: Io penso il 30%, 35% su 500. Adesso siamo rimasti il 2% o il 3%. Sono tornati in pochi.

D: Appunto. Quella lì che zebrata è?

R: E’ la giacca che avevo io in Germania, nei campi di eliminazione. Adesso non c’è più, ma qua c’era il numero di matricola con il triangolo rosso e la scritta “I”. E questa mi ha scaldato fino oltre i 20 sottozero, questa, una maglia e un paio di pantaloni. Io non ho mai posseduto il cappotto. Tanti avevano il cappotto, in tanti campi, anche nei campi dove sono stato io, ma mai io ho avuto la fortuna di averlo. Sono venuto a casa, vestito così. Avevo anche i pantaloni, ma erano tanto schifosi e laceri che li ho buttati via.

D: Poi lì c’è un pentolino?

R: Questo non è un pentolino, questa è la mia gamella. Io qua ci ho mangiato dieci mesi, dal caffè, se si può chiamare caffè quella brodaglia che ci davano il mattino, acqua calda sporca, alla zuppa del mezzogiorno, perché la sera era sempre secco il mangime. Era una fetta di pane e un pezzettino di margarina, un etto di pane. Negli ultimi mesi poi, la razione è arrivata a meno di un etto di pane. Perché era un bastone in undici, un bastone pesa un chilo, una forma di quel pane lì tedesco rettangolare. Gli ultimi mesi, perché c’era un po’ di carestia anche per loro, ci davano un bastone in undici prigionieri, che vuole dire meno di un etto, con un pezzetto di margarina. E come si teneva da conto, non si mangiava subito. Durava una mezzora quella fetta di pane lì, però sempre vigilata. Perché, se camminavi con il pane in mano, te lo fregavano subito, non durava, lo curavi più della tua vita stessa. Non si poteva girare con un pezzo di pane così. Se era roba da mangiare, te la rubavano. Come io lo rubavo ad un altro. La legge era quella. La fame è fame.

D: Morte tua, vita mia.

R: Morte tua, vita mia. La fame non guarda in faccia nessuno.

D: Il numero di data, non l’hai detto. Caso mai, ripeti il numero di data.

R: Sì. Qua c’era anche il mio numero di matricola. Era tanto lacero, che l’ho buttato via. Era 116.355 con la “I”, che vuole dire italiano. Gli jugoslavi avevano la “J”, il Belgio aveva il “B”, la Spagna aveva la “S”. Ogni nazione aveva la sua sigla. E i triangoli, i colori dei triangoli distinguevano la categoria del deportato.

D: Eugenio, questa qui che cosa è?

R: Questa è una fotografia, che ho fatto dopo cinque o sei mesi. Ci siamo trovati, tre o quattro, “Dai, andiamo a fare una fotografia”. Io ci ho messo la giacca, ed un altro ci ha messo il berretto. E’ venuto a casa con il berretto. E abbiamo fatto questa fotografia qua, vestiti da zebra. Qua ero già ingrassato. Comunque non è che io ero magro. Ero gonfio. Il peso non c’era, però ero gonfio. Con un po’ di cure, che mi ha dato il dottore, è calato. Ha detto che era nefrite. Qua sono ancora un po’ gonfio, perché non ero così dopo cinque mesi, ero un po’ più magro ancora.

D: ….

R: Non so che materiale era, comunque erano bottoni normali. Su quella strada lì, quando seguivamo il fronte, abbiamo visto un posticino dove c’erano dei cadaveri di militari. Erano tutti feriti, ad uno mancava la gamba destra, ad uno mancava la gamba sinistra, e ho preso una scarpa di uno ed una scarpa dell’altro. Avevo un 42 e un 43. Sono venuto a casa con quelle scarpe lì.

D: Te le sei fatte andare bene lo stesso.

R: Le ho fatte andare bene. Meglio degli zoccoli.

D: Va bene.