Cantoni Rosa

Rosa Cantoni

nata il 25 luglio 1913 a Pasian di Prato (UD)

Intervista del 26/06/2000 a Udine

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 21 – durata: 59’

Arresto: 1 dicembre 1944 a Udine

Carcerazione: Udine

Deportazione: Ravensbrück (Matr. 97.323); Abteroda; Penig

Liberazione: aprile 1945 a Penig

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Cantoni Rosa, sono nata a Pasian di Prato, che sarebbe vicino a Udine, qui alla periferia di Udine, il 25 luglio del 1913.

D: Quando ti hanno arrestata Rosina?

R: Ecco, io sono stata arrestata i primi… non mi ricordo se 1 o 2 dicembre del 1944, cioè verso… alla fine dell’anno, ecco. E sono stata arrestata dai fascisti. Io stavo andando a un appuntamento con un compagno, al quale dovevo dare delle cose, come si faceva a quel tempo, insomma, lui ne aveva per me delle altre. Invece di trovarlo lui, a quell’ora lì, alle 9 e mezza del… alle 8 e mezza del mattino, attendevo, lui non veniva. E allora ho fatto… sono salita, ero in bicicletta, sono salita per andare un po’ più avanti pensando che ritardasse per qualche motivo. Escono dalle siepi di qua e di là – perché ero però alla periferia di Udine – due giovani in borghese che erano della milizia della polizia fascista, insomma, della 63ª Legione Tagliamento, mi pare, che aveva sede in via Aquileia, a Udine. Allora questi mi chiudono la strada e io devo fermarmi, e mi chiedono la carta d’identità, e quello che sembrava il capo della pattuglia me l’ha presa, l’ha letta e se l’è messa in tasca, nel taschino. Allora fra me e me ho detto “adesso ci siamo”, perché sennò me la restituiva. Ho cercato di dire qualcosa così, che ho fretta qua e là, ma insomma, [a] loro non gli importava niente. “E così deve venire con noi”. Due sono rimasti lì e due… siamo partiti a piedi, perché erano a piedi loro, io avevo la bicicletta, uno di qua uno di là, e a piedi abbiamo attraversato tutta Udine. Poi è suonato l’allarme, siamo andati sotto un ponte. E quindi mi hanno portata alla caserma della milizia dove, prima di tutto, mi hanno fatto sedere. Era vicino a me un fascista più anziano, sembrava panciuto insomma, sembrava un buon papà, che ha cercato di essere gentile con me, dicendomi che io sembro una persona per bene e che abbia fiducia in lui, che se le dico qualcosa, che rispondo alle sue domande e che eventualmente lui pensa che potrebbe mandarmi a casa. Allora io non avevo voglia di parlare tanto, tanto sapevo che… ero già preparata a queste cose, insomma, le conoscevo senza averle mai provate, ma sapevo come si comportavano, perché cercavano prima con le belle di farti… E allora ho detto: “Guardi, io sono l’ultima ruota del carro”. Perché avevo molta cosa… non potevo dire “non ho niente”. “L’ultima ruota del carro”, come si usa dire. Una che non ha niente, che non sa cosa fare, più di così… “che non ho compiti particolari, che non conosco nessuno, a parte una persona, la quale mi porta dei pacchetti che poi viene a riprenderli: una specie di deposito, ecco”. “Ma perché fa questo?”. “Perché” – e allora ho detto – “perché mi sembra, secondo il mio punto di vista, che dò una mano a chi, per dirla franca, non è fascista, e non è nazista, e non vuole insomma… vuole cambiare: io sono d’accordo con questi”. E allora così, visto che non era possibile fare niente mi hanno mandata su e poi fatto altri interrogatori, interrogatori stupidelli, così, perché proprio vuoti. Un gruppo di fascistelli lì mi ha chiesto… mi ha detto: “Voi siete comunista?”. Perché danno del voi, parlavano col voi. E ho detto: “Come faccio a essere comunista? Non ci sono neanche partiti in Italia, siete soltanto voi. Quindi io non sono niente, no? Non chiedetemi chissà che cosa perché io non so niente. Non avrei niente di utile da… per voi”. A secco, così. Insomma, poi due-tre volte ho girato un po’ di uffici là, che mi interrogavano. C’era un caporione, il quale mi ha detto: “Ma come lei è così calma? Non ha paura di quello che può capitarle, no? Sono i suoi compagni!”. Era un buffone. Un bell’uomo, stupido. “I suoi compagni che si buttano in ginocchio di fronte a me”. Ma io ho detto: “Non ho l’abitudine d’inginocchiarmi. Così e basta, no?”. E insomma, così, varie cose. Poi ho fatto un’altra trafila, ho preso un paio di ceffoni da un fascista, il quale – meridionale questo – voleva che [fossi] messa a confronto con un giovane che, a dire il vero, non lo conoscevo. Era un biondo, alto. Io ho detto: “Non lo conosco, non l’ho mai visto”. E lui, anche lui ha detto: “Non la conosco”. E così questo ha urlato: “Tutti uguali, voi banditi non vi conoscete mai?”. E allora mi è venuto a dire qualcosa e gliel’ho detta. Gli ho detto: “E voi fascisti? Cosa credete di essere?”. Pim-pum, due ceffoni. Me li son tenuti e basta. Però ero contenta di averlo detto, dico francamente. E poi, insomma, mi hanno chiuso in una stanza, vuota, dove c’era solo ritratto di Mussolini, là, in alto, che mi guardava.
Han messo dentro una povera pazza, che era con la sorella. Due sorelle di Caporetto. Erano state fermate da un fascista che conosceva… perché erano tre fratelli, i quali, secondo loro, erano partigiani – saranno stati – e volevano sapere dove erano dalle sorelle. Una non sapeva niente perché era veramente fuori di senno, e urlava, aveva la bava alla bocca, una roba tremenda. Era stata in manicomio per dieci anni, l’avevan tirata fuori per via della guerra, per tenerla a casa. E insomma… e così, ho avuto il mio da fare. Ecco, questa è stata una paura che ho presa, perché questa qui… Io sono andata vicino per cercare di calmarla, perché ho capito che era malata, e lei si è rivoltata con le mani così e mi correva dietro per prendermi per il collo. E insomma, abbiamo fatto un po’ di corsa intorno a questa stanza e per fortuna hanno buttato dentro anche la sorella che l’ha calmata. A mezzanotte circa siamo andati… ci hanno accompagnati in carcere, a Udine, il carcere di via Spalato, dove… sì, si passava dalla milizia. La milizia faceva la raccolta, prendeva la gente, e poi la passava, che andava sotto la SD. La SD era la sicurezza Deutsch., la sicurezza della Germania.

D: Scusa Rosina, la caserma della milizia dov’era?

R: In via Aquileia, in fondo. È stato bombardato… Poi son [state costruite] case nuove, negozi lì, eccetera… Era una vecchia caserma. E siamo andati di notte, insomma. C’era una bella luna, me la ricordo ancora. Mi hanno accompagnata a piedi in carcere e… [la] farei troppo lunga se racconto anche questo, ma ho fatto una bella chiacchierata con quel fascista che mi teneva per il braccio. E poi dietro di me venivano le due sorelle, quella malata e quella sana, e avevano altre due, uno di qua uno di là, poi dietro ancora c’erano tre ragazzi molto giovani, sbrindellati, vestiti presi in qualche bosco, in qualche posto, così, ed erano legati con una corda tutti e tre e due della milizia, uno di qua, uno di là e uno dietro, tre insomma. E io aprivo la strada con questo qua, il quale ha cominciato a parlarmi e a dire: “Ma” – dice – “è la prima volta che porto in prigione una persona… ho portato ancora di quelle passeggiatrici, così, ma non una persona… lei mi sembra una persona per bene ecco, come mai insomma”. “Eh” – ho detto io – “robe che succedono in questi anni belli”. E così siamo venuti nel discorso e io gli ho detto: “Guardi che lei… come fa lei a non sapere che la Germania perde dappertutto?”. Perché ormai era il ’45, quindi si andava verso… la Germania… era già stato liberato Auschwitz anche mi pare. No no, non ancora… E comunque si andava avanti, la Germania perdeva, l’Italia perdeva, il Fascismo perdeva. E allora lui: “Ma lei…”. “Guardi” – ho detto – “voi perderete la guerra, la Germania perderà la guerra quindi la perdete anche voi, perché voi siete al servizio”. Ma siccome mantenevo sempre quella calma, come adesso che parlo, questo stava ad ascoltare ed era anche un po’ impressionato. Dice: “Ma come fa lei a sapere tutte queste cose?”. “Come faccio? Niente” – ho detto – “non occorre niente, basta pensare un po’ e cercare di capire, di informarsi no”. E così siamo arrivati chiacchierando fino al carcere. Al carcere mi hanno presa in nota, come facevano per tutti. E questo qui mi guardava e non andava via, e allora poi dice: “Scusi sa, ma potrei salutarla?”. Allora io ho pensato un momento e mi allungava la mano, e allora ho pensato “Sì”. Ho detto: “Perché no? Si ricordi però di quello che abbiamo parlato oggi, si ricordi bene, ci pensi sopra”. E ci siamo lasciati così. Non so se ho fatto bene. Male no sicuro perché ho capito che non capiva niente, e che in quel momento nessuno gli aveva detto certe cose e incominciava a pensarci su, un poco. E così, finita la storia.
Sono stata in carcere. In carcere sono stata interrogata tre volte da un maresciallo. Era un austriaco, di cui ricordo il nome anche. E questo maresciallo parlava molto bene l’italiano, perfettamente. Era un professore di violino, aveva sposato una contessa friulana. Conosceva tutto il Friuli e quindi, quando l’Austria è stata incorporata con la Germania tutti gli austriaci sono diventati tedeschi sotto il nazismo, lui ha avuto… hanno approfittato del fatto che parlava bene l’italiano che conosceva tutta la zona, e era al servizio della polizia per interrogatori. Ma non interrogatori cruenti, interrogatori così, di inizio, perché quello che li faceva cruenti ho avuto la fortuna che era lontano, andato in Germania per discutere magari robe… e che sarebbe tornato fra un po’ di giorni. Ma quello era… dicono che era tremendo, eh… Comunque, altre volte mi ha interrogata. La prima ho risposto così, come ho potuto. Sì, ho risposto cercando di non dire niente, come al solito. E allora, poi mi ha richiamata. La prima volta, quando sono… mi hanno chiamato… Perché in carcere dal mattino alle 9 fino alle 5 della sera si era sempre in attesa di essere chiamati per interrogatori, si era sempre – come si dice – col cuore in mano, no? Perché si pensava di venire chiamate a interrogatori, eccetera. E allora, insomma, quel giorno lì, quella mattina lì, chiamano Cantoni Rosa, e allora vado. E tutte le compagne lì… una mi tira via… che avevo un fazzoletto rosso attorno al collo, mi tira via il fazzoletto. Un’altra mi fa il segno della croce, perché era così… un modo, così un po’… anche diremmo affettuoso. “Non parlare”. “No no, non parlo io, non so niente io”. Allora vado giù. Andando giù per le scale avevo un certo batticuore e allora mi aprono la porta e mi passa tutto. Una roba straordinaria. Sono padrona di me tanto bene. Allora entro, senza dir niente, e vedo quel signore, nella scrivania lì che mi guarda. “Buongiorno Giulia”, mi ha detto. Da notare che io avevo nome, così detta battaglia [nome di battaglia, ndr], era Giulia, ed ero stata segnalata tempo prima… una Giulia di Udine che aiutava la Resistenza, ma non avevano fatto ancora il nome vero, così quando è capitato quello là che era già in prigione e han trovato non so come… perché è morto a Dachau questo poveretto… E allora: “Buongiorno Giulia”. E io non rispondo, non sono mica Giulia. E allora lui dice: “Ho detto lei, non è Giulia lei? Il suo nome di battaglia non è Giulia?”. “No” – ho detto – “io mi chiamo Rosa Cantoni, o se vuole Rosina, perché da sempre mi hanno chiamato Rosina, in famiglia, i miei amici… e battaglie non ne ho fatte”, così. E lui era tranquillo per fortuna, anche lui, come me. Un personaggio molto dritto e che non mi ha fatto tanta impressione vederlo. Ho conosciuto dopo il figlio anche, dopo la guerra. E quindi dice… mi chiede se conosco questo, col quale dovevo trovarmi. Ho detto che “non l’ho mai visto, non so chi sia”. E allora dice: “Ma, beh…”. Insomma, mi fa altre domande. Io rispondo che non so niente, come ho detto agli altri, così. Continuavo sempre a dire quella, che non ero… non conoscevo né i capi né niente. Conoscevo solo una persona sola alla quale davo, e restituivo, prendevo pacchetti, e così ho dovuto ripetere anche che… mi pare che secondo il mio pensiero era giusto aiutare così. “Come?” – dice lui – “Aiutare i poveri soldati tedeschi, i partigiani li uccidono sparando alle spalle”. Allora mi ricordo di aver detto questo: “E i poveri soldati tedeschi cosa fanno in Italia? Se tornano a casa loro, nessuno andrà a cercarli a casa loro, no? Tornino a casa loro”. È stato zitto, non ha detto neanche […] Meno male. Avrà detto “ha ragione ‘sta qua”, forse. La seconda volta invece mi ha fatto chiamare. “Allora, non conosce questo?”. “No, non conosco”. “E allora chiamo un secondino lì… fammi venire qui tizio”. E allora tizio arriva, con la testa bassa, così, non mi guarda. E lui dice: “E questo lo conosce?”. Io ormai dovevo dir di no. Ho detto di no. Naturalmente dopo lui invece ha detto di sì. E allora lui ha detto: “Sì? E come si chiama? Che nome di battaglia ha… aveva?”. “Giulia”. Giulia, no? E allora… “E quando vi trovavate?”. Insomma, [ha confessato] tutto: due giornate settimanali che ci incontravamo per mezz’ora, così, per darci robe, eccetera. E allora dice: “E’ giusto quello che ha detto”, mi fa questo. “Se l’ha detto lui”, ho detto io. Eh, era giusto sì. Però sul nome di battaglia aveva detto un altro nome: aveva detto di chiamarsi Oscar, invece aveva… non mi ricordo più, un altro nome di battaglia. Ma insomma, non sono stata a dire “no, non eri così, ti conoscevo…”. Facciamola finita ho detto, tanto… Dopo, la terza volta invece mi han detto che sanno… sanno che so molte cose, che non le voglio dire, che me le farà dire quel tizio che era andato a Berlino. “Quando torna, quello fa parlare tutti. E come? A forza di pugni, di schiaffi e di cose peggiori” ha detto. E allora sono andata. Invece, per fortuna, intanto che quel tizio era via – non era ancora giunto – una mattina sentiamo leggere una sfilza di nomi. Eravamo in quattordici donne che sono state mandate… era venuto su un treno da Trieste, il quale aveva pochi ebrei, perché ormai eravamo verso la fine. I rastrellamenti erano fatti di ebrei, no… e tanti. Ma [c’erano anche] partigiani, sia sloveni, croati, come tanti italiani, [provenienti] dalle carceri di Udine, che erano affollatissime, specialmente nel reparto uomini, perché [c’] erano state le grandi… i grandi rastrellamenti, le grandi battaglie della fine estate e tutto l’autunno, ed era stato un macello. Anche se, pur essendo arrestati tanti, morti tanti, però la Resistenza continuava a ingrossarsi lo stesso, e a fare, ancora. E allora il carcere era pieno. Di donne non [c’] era tanto posto, ma non eravamo molte, quattordici, così. C’erano due zingare anche: erano in tre in carcere, ma una era incinta e dal carcere di Udine l’hanno mandata via. Forse se era un altro carcere dove i tedeschi erano lì, anzi, [e] doveva fare un figlio, andava a morire. Comunque, è andata così per questa, è rimasta lì. Le altre due son andate via con noi. E così tanti uomini e anzi sotto… prima di imbarcarsi sul treno insomma, [ci] siamo salutati in tanti. E mi ricordo che c’era una certa Noemi che era in carcere con me, e sapeva che il marito sarebbe stato portato in Germania. Allora mi ha detto: “Senti, se vai giù, chiedi di Bepi, di mio marito. Gli dici che lo saluto tanto e gli dai un bacio, per me”. “Sì sì” ho detto. Ho cercato questo [Bepi] e l’ho salutato. Poverino è rimasto là, a Dachau. E anche quello da cui è sorto l’arresto mio, quello non l’ho visto: probabilmente ha cercato di evitarmi, non sono neanche andata a cercarlo. E allora ho salutato quello lì, ci siamo baciati. “Coraggio” ho detto. Poverino, era un giovane così dolce, carino, si vedeva. È morto a Dachau. E di quelli lì sono morti tantissimi uomini, perché erano già alcuni debilitati per la lotta partigiana, o feriti, e poi maltrattamenti, eccetera. Erano in molti. Il treno era pronto: carri bestiame, uomini, donne. Tante donne, del Friuli Venezia-Giulia, cioè dalla provincia di Udine in gran parte, Pordenone, ma più di Udine e… di montagna e di pianura. E poi tante di queste erano… alcune di Gorizia, provincia di Gorizia, di Trieste, ma più di tutto dell’Istria. Perché l’Istria era sotto l’Italia, in quel tempo, no. Dopo la guerra del ’18 era stata [annessa] e però queste si dicevano, si intendevano [slave] ed erano partigiane di Tito. Ma ragazze in gamba! Giovani, alcune un po’ più anziane, ma altre anche giovanissime. Erano quattro sorelle, mi ricordo, quattro belle ragazze, con la madre. Una andava dai ventidue e la più piccola ne aveva quattordici, e la madre. E insomma, storie così.
E questo treno è stato… come si sa. Il viaggio in treno, in piedi, giorno e notte. E dopo [ci furono] alcuni battibecchi… no battibecchi, chiarimenti, avvenuti tra… a cui sono intervenuta, a dire il vero, io. Perché c’era una donna anziana che diceva che tutti… Lei non può vedere gli italiani perché sono tutti traditori e fascisti. Allora le ho detto che “si sbaglia, perché se noi siamo qui non siamo…”. “Eh, ma io non dico voi!”. “Vabbè, lei ha detto tutti gli italiani, e io non intendo che metta anche i miei fratelli e tutti quanti, che non sono fascisti. Mai stati. E ricordatevi…”. A me non interessava tanto lei, perché era vecchia. È morta là, poverecia. Mi interessava più le altre che capissero, perché avevano fatto piazza, si erano ritirate tutte assieme, senza toccarci, e non mi andava quella cosa lì. Allora ho detto: “Guardate, se siamo qui, noi, siamo appunto perché non siamo fasciste, e perché in Italia ci sono le carceri… dietro là nei vagoni ci sono dei vagoni pieni di giovani partigiani italiani che sono stati presi appunto perché non erano né fascisti né niente”. Insomma…

D: Scusa Rosina, quando questo è avvenuto? Quando sei partita te? Ti ricordi?

R: Ecco… sì. Il 10 gennaio [1945], perché le feste, e le robe, le abbiamo fatte tutte lì, sì, tutte in carcere. Il 10 mi pare, verso… In carcere, era dura però in carcere.

D: E siete arrivate quando?

R: Ecco, io non so. So che ci pareva fossero passati non so quanti giorni, una roba tremenda, lunga. Ma abbiamo passato alcune notti, no? Mi ricordo quando veniva sera, il fiato, l’umidità, si gelava nelle pareti del treno, perché era gennaio. Si andava nel nord, era tutto un luccichio dentro. E sempre in piedi, oppure accovacciate un po’ a turno, ma dura, è stata durissima. Di giorno però riprendevamo fiato. E a dire il vero dopo è venuto anche un simpatico… [una simpatica] amicizia fra quelle altre e noi e le altre… siamo state dopo sempre assieme, sempre molto amiche, che ho alcune che ancora conosco. E sì, siamo arrivate di giorno, dopo un lungo viaggio in treno. Una volta sola ci hanno dato da mangiare, perché avevamo qualche cosetta dal carcere, portato dentro [sul treno]. Io avevo un paio di wurstel, un po’ di pane, chi aveva divideva con le altre, no? E chi non aveva mangiava quello che gli davano. E insomma, gli uomini – il treno è stato diviso – gli uomini, di cui erano anche degli ebrei, alcune famiglie ebree, allora hanno separato gli uomini dalle donne, i bambini che sono venuti con noi a Ravensbrück, e gli uomini sono andati a Flossenbürg e poi a Dachau… e poi a Dachau. E così, non saprei se abbiamo fatto tre giorni e tre notti… lì attorno insomma, ma era un’infinità, sembrava di essere nati… nate sul treno. E cantavamo però. Per fortuna avevano le canzoni partigiane slovene, erano bellissime, mamma mia che cori! E allora si andava dietro. Cantavamo canzoni partigiane tutta la strada, per darci animo. Giova, molto! E così siamo arrivate a Ravensbrück. Siam passati Berlino. Berlino tristissima, dall’alto, si vedeva Berlino giù, no? Gente… tristezza proprio, gente pallida, rabbiosa, si vedeva chi passava sotto là. E siamo poi proseguite, e mi ricordo di aver visto la scritta ‘Sachsenhausen’, in grande, così, e lì probabilmente era il campo di Sachsenhausen e il treno passava davanti. Allora ho detto io: “Oh, guardate! […] Sarà un campo lì”. Era un gran portone… e sì, difatti era lì. Abbiamo passato Sachsenhausen e siamo andati ancora più su, fino a Ravensbrück, il quale è circa 80-90 chilometri, non so, da Berlino, verso nord-est. E quando siamo arrivati a Berlino: “Finalmente siamo a Berlino, chissà cosa ci tocca adesso, ma intanto abbiamo finito di andare in treno”. E così ci tocca come è toccato a tutti, a tutti quelli che arrivavano in un campo: spoliazione, cappelli, via vestiti, tutto… porta via tutto, orecchini… Avevo un bellissimo orologio io, era stato di un ufficiale della SS, ed era morto, e a quello che me l’ha portato ho detto: “Che bell’orologio che mi hai portato!”. Perché mi prendeva in giro: “Non hai neanche un orologio”. “Eh, son povera”. In quella volta non riuscivamo a comperarci l’orologio, neanche lavorando. “E allora ti farò avere uno io”. Questo qua era un compagno che era stato preso… bravo, medaglia d’argento, morto a Mauthausen. È stato arrestato gli ultimi tempi, ma partito dopo di me, un mese dopo. E’ partito moribondo, perché lo hanno tanto bastonato, tanto torturato: Periz, Orio [Giovan Battista, o Giobatta, Periz, nome di battaglia ‘Orio’; ndr]. E così mi ha portato questo… “Uh” – poi ho detto – “e il padrone chi era?”. “Un colonnello della SS” – ha detto – “lo abbiamo mandato a Codroipo”. Codroipo è un paese qua vicino, e così… e così è tornato a casa sua l’orologio…
E poi tutto il resto: la doccia, i vestiti, orribili… coi pidocchi, dicevano che erano disinfestati ma erano… Dopo, quando siamo entrate nelle baracche che ci avevano segnato, dalle cuciture uscivano i pidocchi secchi, uscivano secchi, come foglie secche, perché senza… andavano a cercare nutrimento, che eravamo noi. Correvano su per i vestiti, mamma mia che roba! Però m’è toccato di fare quel giorno lì un’esperienza, che sono stata tanto tempo senza ricordarla, perché succede anche una fortuna: che quando sei sbattuto in particolari situazioni, le robe che ti capitano in questo momento vanno tutte dietro, perché hai ancora da pensare “Chissà cosa mi tocca? Devo andare di là, devo andare di qua… seguiamo…”. Ma comunque, siccome eravamo circa… un centoventi saremo state – quelle slovene… quelle istriane e noi, e anche le due zingare – divise, così, a sorte, [a] metà. Una parte l’han condotta per trovare dove metterle, e l’altra avrebbero procurato per noi… Intanto in questo grande cortile c’era una tenda nera – che è stata dentro un po’ di ore anche quella compagna lì di Treviso no, la Moimas [Albina Moimas, ndr] – che sembrava un circo, come le tende del circo, grande, nera. Entriamo lì, e ci dicono: “Andate lì che presto, subito, fra poco torneremo a prendervi per portarvi al punto di destinazione”. Va bene, entriamo lì. E vediamo nella penombra di questa baracca, di questa tenda, un mucchio di donne, ma un grosso mucchio di donne, tutte così, a cono, perché man mano che… eh… e sotto probabilmente erano già tutte morte, vestite di nero. Sopra però galleggiavano alcune che si muovevano ancora un pochino, particolarmente due, una specialmente, bianche, come quella carta, con quegli occhi infossati, neri, facevano un senso. E un momento dopo arrivano due inservienti, prigionieri che facevano dei lavori per l’interno, così, e portavano un recipiente con patate lesse. Probabilmente… io non so se l’hanno fatto per farci vedere cosa succede, che sia di… o se hanno fatto [per portare] lì le patate per noi, perché noi non eravamo destinate a morire, ancora. C’erano ancora tre o quattro mesi per vivere noi, lavorando, e mangiando niente, quasi. Insomma, arrivano queste. E queste qui che erano condannate, senz’altro, a morire d’inedia, cioè messe lì, senza bere, senza mangiare, freddo tremendo – la notte specialmente, su là, sopra Berlino, in gennaio – in quelle condizioni, senza poter ribellarsi… perché non ti ribelli, come fai a ribellarti in un campo di sterminio, se non hai neanche la forza, non hai neanche le armi, non hai niente? Se ti ribelli ti succede solo peggio perché ti bastonano, ti fanno star male. Allora queste qui, queste sopra, si sono allungate, specialmente una, che era molto alta – si vedeva dalla sagoma – e ha messo la mano nell’orlo del recipiente, e le patate sono tutte corse, rotonde, correvano sul pavimento, e si sono chinate, perché non stavano in piedi, a prenderle su e a portarle subito alla bocca. Ma a vedere lo spettacolo, era una cosa spaventosa. Vedere queste, già quasi morte, non potevano muovere le mandibole perché orami erano strette, non potevano… Aprivano appena un po’ la bocca e cercavano col dito di mandar dentro, e tenevano stretta la patata perché non… ma non riuscivano a mandar dentro, a ingoiare. E quelle sotto – che erano ancora un po’… che capivano, appena appena, per istinto di conservazione, che erano sotto di loro – che cercavano di andare a portargli via il pezzettino che avevano sulla bocca. Ed era una cosa spaventosa. C’era una ragazzina, giovanissima, si è messa a piangere, ha detto: “Oddio, così succederà anche per noi”. Nessuno gli ha risposto: perché, chi lo sa? Fatto sta che queste due han gridato, [ed] è venuta la tedesca. La tedesca ha incominciato a urlare, con il bastone di gomma, a dire di tutto a queste povere disgraziate, che si son rimesse al punto di prima, in silenzio. Non ho sentito… neanche un piccolo grido abbiamo sentito. Niente, niente di niente! E si sono rimesse lì, e ci guardavano queste due sopra, con quegli occhi fondi. E così han preso su le patate e le han portate via… Noi non le avremmo mangiate, come fai a mangiare quando vedi… Magari ti allungano le mani, e se li dai da mangiare ti mettono anche te dopo lì, no. Sì, non era possibile. E così hanno portato via le patate e un po’ dopo sono venuti a prenderci. E subito tutta questa visione è andata dietro per un bel po’ di tempo, eh. Quando ho cominciato a pensare, a rivangare, con un po’ di calma, e mi è tornata su, ma… perché tutto andava dietro. E così siamo andati in questa… era una baracca di… come si dice, cosiddetta ‘quarantena’. Ma non si faceva quarantena ormai, eravamo in gennaio del ’45, una settimana almeno. Allora lì era kapò una tedesca, col triangolo verde, perché come voi sapete, eravamo… si distingueva la categoria delle prigioniere, uomini o donne che fossero stati, dal triangolo che portavano. Perciò i più numerosi erano i triangoli gialli e i triangoli rossi, poi venivano i verdi che erano delinquenti comuni, generalmente tedeschi o polacchi, uomini specialmente, testimoni di Geova, omossessuali, zingari: insomma, ognuno un colore, no. E poi c’erano anche il colore di giallo e una lista rossa, che sarebbero stati ebrei… mezzi ebrei, sì cioè, misti…

D: Scusa Rosina, ti hanno immatricolata lì a Ravensbrück?

R: Sì, sì, ci hanno immatricolate, dovevo dirlo prima quando abbiamo [parlato della] vestizione. Allora ci hanno dato, hanno messo… c’erano dei mucchietti già pronti di vestiti, cosiddetti vestiti, e con un paio di zoccoli di legno, spaiati: una che aveva i piedi piccoli aveva un numero quaranta, quella del quaranta aveva… dopo si cambiavano un po’, oppure vedevi una che girava: “Chi ha una scarpa in più, di sinistra o di destra?” – perché aveva una scarpa sola. E così ci hanno dato il numero di matricola, che era scritto stampigliato in un pezzettino di tela bianca, e sotto… dovevamo sistemarlo sotto il triangolo rosso noi, triangolo rosso e il numero di matricola. Il mio numero di matricola era 97323. Ecco, questo ero io… eravamo tutte su quella cifra lì insomma no, quelle [che] si andava assieme. E così poi ci hanno portate nella baracca e questa col triangolo verde, una sera quando hanno chiuso – siamo state una settimana lì – la baracca, la sera che chiudeva, allora diventava gentile, perché aveva sempre il bastone e urlava di far paura, aveva una voce stridula, alta ‘sta donna, sembrava tagliata come una statua abbozzata, però è stata la migliore kapò che abbiamo avuta. E allora accendeva un coso per asciugare i panni lì, o aria calda insomma, e lì c’erano già tante altre ebree, ungheresi, buona parte ungheresi, e questa qui c’ha detto: “Guardate, voi siete qui per qualche giorno, e qui mangiate una zuppa, che insomma non è cattiva”. Difatti non era cattiva. “Però” – dice – “quando andrete in baracca starete molto male, perché dormirete male, mangerete peggio, e qui invece, sì, c’è un po’ di zuppa che aveva un po’ di patate, un po’…”. E dice: “Poi, vi dico un’altra cosa, che in questa zuppa, i primi giorni che uno viene si mettono…”. Perché alcuni medici dicono che non è vero, altri dicono di sì; io ho letto su un giornale molto serio […] che parlano di questa polverina, che non mi ricordo come si chiama, che è corteccia di un albero che nasce in America del sud, il quale ha potenza sia come veleno, ma anche la medicina son tutti veleni… sì, ti guariscono secondo come li usi… Allora lei dice: “Va’ che queste fermano le mestruazioni”. I medici dicono “il corpo si difende”: sì è vero anche questo, però i primi tempi han dovuto pensare a fare qualcosa… che i primi tempi quelle donne polacche che erano prima mandate dentro – o anche le non polacche, ancora sane, no – eh, come la mettevamo? Ci sta poco a dire. Ad ogni modo, è andata così [a] noi per una decina di mesi, più o meno. Qualcuna ha dovuto curarsi, a secondo il fisico; a me non han fatto niente, andavo meglio che non ci fosse. E dopo ci han detto: “Adesso voi preparatevi, vi faccio… state sempre in gruppi, non fatevi trovare sole, perché può passare qualcuno a prendervi e sfogare tutta la rabbia che ha, o fare pazzie insomma; allora cercate di stare il più possibile insieme e non disobbedire tanto perché qua non c’è pietà, non c’è pietà. Se volete tornare a casa dovete cercare di sopravvivere”.

D: Rosina, scusa, tu quanto tempo sei rimasta lì a Ravensbrück?

R: Dunque, gennaio, febbraio, marzo… tre mesi sicuro. Perché dopo febbraio c’hanno adunate col gruppo nostro, è venuto lì un capitano della SS, piccolo, con le gambe storte, con la voce stridula. Era rabbioso, perché non rappresentava tanto bene fisicamente la razza forte: questo ho pensato io, perché mi restava di pensare, sì. E allora questo ci ha fatto un discorso, ci ha detto [che] se vogliamo andare a lavorare in una fabbrica staremo meglio, avremo… eccetera. “Allora venite fuori!”. Nessuna è andata fuori. Noi eravamo partigiane, e andiamo a lavorare volontarie in una fabbrica? Che dopo, tra l’altro, ci bombardavano anche gli americani. E insomma nessuna di noi. Quella che aveva le quattro figlie cercava di mandarle fuori ma loro si sono rifiutate, anche la madre. E allora siamo rimaste ancora lì. Più avanti ci hanno mandate fuori, perché man mano si avvicinavano i russi a Ravensbrück. E man mano perché Auschwitz in gennaio era stato liberato e i russi correvano su, andavano avanti bene. E allora hanno mandato un po’ che [di donne] a Belsen, un po’ che di qua un po’ che là. Io ho avuto la fortuna di dover mettermi a camminare. No, anzi, prima a fare un pezzo in treno, tutto il mio gruppo, più altre. Hanno tenuto le vecchie lì, che sono morte, e altre mandate a Belsen che quasi tutte morivano, malate magari, eccetera. Però son rimaste ancora molte che sono state liberate dai russi. E io con le mie abbiamo avuto destinazione Buchenwald, ma un pezzo in treno e un pezzo a piedi, sai, non era la strada dell’orso! Dormire all’aperto, pioveva, era freddo in quel periodo lì. E insomma siamo arrivate [a] Weimar e Buchenwald. A Buchenwald non siamo mai entrate perché poi c’erano anche degli uomini, non so [di] che campo, collegati con noi, dietro: gli uomini li hanno tenuti lì dentro e noi, le donne, niente. E così quella notte – la ricordo sempre quella notte – pioveva a dirotto, non so quanti giorni non si mangiava, un freddo… e quello che era peggio è il sonno. Il sonno è una cosa tremenda, quando sei lì che… ti butteresti per terra tanto volentieri, magari anche sotto la tempesta, però ti tiene su sempre quello che “non puoi! non devi”, e vai avanti. Insomma, siamo arrivate in quel posto, là, Abteroda, c’era una fabbrica vicino un bosco. Lì siamo state un po’ di tempo. Ma lavori di quelli… lavoravano per l’aviazione. Mi ricordo che veniva un vichingo, altissimo, bell’uomo, giovane, un mantellone azzurro, pieno pieno [di sè]… Uh! Credeva di essere il re del mondo. E allora “Heil Hitler” – queste donne – “Heil Hitler”, [dicevano] queste tedesche addette lì a sorvegliarci. Aspetta che ti racconto anche questa, anche se vien da ridere adesso… sì ma non è che io piangessi per questo. Lì, tutte soffrivamo di dissenteria, perché fra le varie pidocchi, scabbie eccetera c’era anche la dissenteria, e se veniva tanta si moriva. Allora eravamo stanche, magari lavorare in piedi… C’erano delle francesi – molto brave le donne francesi… sì, ci hanno aiutate, abbastanza – e c’era una matrona. [In] questa fabbrica lunga lunga, con tante macchine, in fondo, all’inizio, c’era una poltrona, seduta lì c’era una matrona tedesca, vestita di nero, di scuro, non militarizzata sarà stata, si capisce. E lì, tutto il giorno seduta lì che guardava in giro così. Per andare in gabinetto si doveva… sì, siccome c’erano i servizi, e anche con water e tutto quanto, allora quelli che han scoperto prima ci han passato la voce “sapete che si può sedersi tanto bene?”. E allora un giorno – questo lo dico per me, per dare l’idea, ma succedeva a tutte, allora qualche volta si aveva bisogno, [solo] qualche volta, per fortuna – il primo giorno io vado lì, e si doveva dire una frase che si aveva imparato lì: “Bitte Frau, viel krank”, [mentre] si teneva la pancia. “In Abort”, perché l’Abort è il cesso. Bene, vicino a lei c’era un soldatino, biondo, color canape, quello delle pannocchie, con un fucile di quelli della guerra del ’15-’18, con baionetta in canna. Allora questa matrona che era lì vede me, piccola, con la croce sulla schiena, tutta… e dico: “Bitte Frau, viel krank, in Abort”. E allora questa a questo qua che era vestito non di SS [ma] di soldato tedesco, allora mi tocca la seconda volta, così. E questo mi viene dietro, baionetta in canna, io su per le scale, per andare all’Abort. Si andava dentro e finalmente ci si sedeva. Si sedeva fino a quando lui non cominciava a batter la porta. Io esco e lui mi guarda – avevo i capelli molto scuri, quasi neri – e dice: “Franzosa?”, se sono francese. “Nein” – ho detto – “Italien”. “Ah, italianska”. Detto ciò [capisco] che quello lì non è tedesco, difatti era croato. Allora abbiamo parlato un momento. “Italianska”. “Ja, Trieste” – ho detto – “Trst”, si diceva Trieste , anche se non è vero che siamo vicino, ma abbastanza. E allora, e lui dice – aveva voglia di sfogarsi poveretto – dice: “Hrvatsko, hrvatsko”. Mi parlava in croato dopo. Mi ha fatto capire che aveva bambini, ragazzini, tanti ragazzini. Povero, è che lo hanno preso, e lui si è lasciato prendere per salvare la famiglia, sennò… E allora ha detto: “Pochi mesi”. ‘Monat’, [così] dicono i mesi, ho capito che erano pochi, non mi viene la parola [in croato]. Poi: “Fertig Krieg”, finisce la guerra. “Ja, ja, bitte”. E allora via avanti, che lui mi accompagnava dopo senza parlare, giù per le scale. Lì [ad Abteroda] siamo stati poco perché poi avanzavano gli americani, si sentiva la notte che passavano, sparavano, passavano [sopra] il tetto della fabbrica. Era una bella fabbrica, in tempo di pace, ben fatta, tutto. E così una mattina… via. E siamo partite per un viaggio senza fine, perché avrebbe dovuto essere un viaggio come quei viaggi della morte dove la gente… non sapevano più dove metterci, no. Allora abbiamo camminato un po’, senza fine non ancora, perché abbiamo camminato un po’, e poi ci hanno messe… Era in mezzo a una campagna, un piccolo campo che erano solo ebree ungheresi, saranno state, non so io, cinquecento. E lì, tutte coi vestiti loro tutti sbrindellati, chi aveva le spalle fuori, chi aveva… ce n’erano due che camminavano in ginocchio, un’altra che pregava, impazzite, donne di una certa età, però c’era qualche giovane anche. E allora lì… Penig era, un piccolo… Non si poteva scappare da lì perché non era niente. Dove vai, in campagna? Era erba dappertutto e basta. Non c’erano alberi, non c’era niente. Ed era in sotto, così. C’era un piccolo… un po’ di baracche e così siamo state alcuni giorni lì. Intanto gli americani venivano… E allora una notte, una sera verso le due di notte, ci svegliano e ci mettono… E quello era veramente il viaggio che non si sapeva dove [saremmo andate], difatti si girava di qua e di là, si andava in su in giù, da una parte dall’altra. Non ti davano da mangiare. Erano due giorni che non mangiavamo niente, solo erba, quel radicchio famoso, che si mangiava lì, come i conigli. E insomma, così, non so come abbiamo fatto. [Siamo] partite, e poi via avanti e da un campo – non so da che campo perché… un po’ la debolezza, un po’ così, [e c’erano] anche uomini, era una grande fila di donne e uomini – e abbiamo trovato… sì, combattimenti per aria, e carri armati che bruciavano per la strada, era stata battaglia lì, e un aereo inglese che si abbassava a sfiorare la… per vedere. Non ci han toccati noi, han capito che era una cosa di prigionieri, una colonna di disgraziati. Fantasmi, sembravamo fantasmi. E così abbiamo camminato un giorno, una notte, un altro giorno, un’altra notte, e poi sorgeva un altro giorno. Sai cosa significa camminare senza che ti diano niente? E loro, i tedeschi, quando ci dicevano di riposare, allora si mettevano lì, si mettevano a mangiare pannocchie. Sì, non è che si mettessero lì a mangiare bistecchine, si arrangiano, però mangiavano no! Ti veniva un desiderio di assassinio straordinario, ci sta poco da dire. E mangiavano lì di fronte a noi perché sapevano che avevamo fame e che li vedevamo: la cattiveria ancora. E una notte invece, [dopo che] io tutto il giorno rimuginavo “non vado più avanti”, in quella notte lì sono scappata con quella di Udine – insomma, siamo andate di nascosto, non ci vedeva nessuno – in una casa bombardata, e lì abbiamo trovato un’altra friulana, una belga, e due, madre e figlia ebree. E siamo state lì. Dopo abbiamo aspettato l’alba e poi siamo andate… uscite, perché la guerra non era finita… i tedeschi… Abbiamo cercato un posto e il posto era un cimitero, siamo andate in un cimitero. “E adesso?”. Il cimitero… Ma prima di arrivare al cimitero abbiamo incontrato uno vestito di SS, tutto armato, solo, che veniva contrario a noi. Avevamo quella belga che parlava tedesco, come tutti i belgi, e francese, molto bene. Era della Resistenza. Era un po’ anziana ma in gamba la donna, alta, magra, alta. Allora andiamo avanti e ci troviamo vicino. E allora questo qua: “Ma, dove andate? Chi siete, dove andate?”. “Eh” – dice lei, perché noi avevamo nominato capo questa donna, lei ci teneva – “sì, eravamo in colonna, viel krank”. Insomma, in tedesco gli ha detto ‘ci sentivamo male, siamo rimasti indietro’. “E adesso dove andate?”. “Eh, andiamo a cercare di ritrovare la colonna”. “Siete matte!”, ci fa questo SS, vestito tutto armato, tutto qua pieno di robe [Cantoni indica la presenza di un cinturone, ndr]. “Perché” – dice lei, lei gli ha detto così perché credeva fosse tedesco – “ma di dove siete?”. Allora dice: “Io sono belga”. Quella volta – mi pare di vederla ancora, stava un po’ sorgendo il giorno – si alza in tutta la sua altezza – perché era piegata nello stomaco, pancia vuota – e dice: “Sei un belga, e non ti vergogni a indossare quella sporca divisa?”. E lui [che] si è arrabbiato dice: “Ma, cosa vuoi, ero studente e mi hanno fatto…”. Ad ogni modo ci ha insegnato che lì c’era un cimitero. “Aspettate lì che arrivino gli americani”. Gli americani sono mai arrivati, poi sono arrivati i russi. Insomma, è stata tutta una storia che comunque si è conclusa bene perché sono qua a raccontarla, ecco, ma ho fatto molte esperienze anche [dopo] questa storia.

D: Ecco ascolta, una cosa Rosina, il tuo rimpatrio, quando è avvenuto?

R: È avvenuto il 27 di ottobre del ’45. Sono arrivata a Udine, sempre in vagone bestiame.

D: Passando da dove?

R: Passando per il Brennero. Sì sì, per il Brennero, perché abbiamo fatto tappa a Pescantina. Anche lì ci sono state… coi frati che non ci davano da mangiare perché eravamo partigiane. E così, tante cosucce, sai. Poi siamo andati a Mestre e finalmente siamo riusciti per venire in Friuli, io e la Casati che era di Udine. [Su] un treno merci un ferroviere ci ha detto: “Voi non avete soldi, tornate a casa e salite sul treno, questo va a Udine”. Vagone del bestiame prima, del bestiame dopo. E siamo arrivate a Udine, di sera, e ho dovuto baruffare anche col tranviere, perché era l’unico tranviere, che era fetente fascista; per andare in pensione aveva i baffi… baffone, aveva un paio di baffoni così, me lo ricordo ancora. Era l’ultima corsa dell’autobus… del treno… del tram, del tram con le ruote, e sopra c’era solo un uomo. Allora io salgo e gli dico questo, educatamente, che “non posso fare il biglietto perché non ho soldi perché vengo dalla Germania”. E lui fa: “Cosa mi importa a me se viene dalla Germania lei? Deve pagare se no sale a terra”. “Va bene, mi butti giù, e domani ci vedremo in questura” ho detto. E allora quell’altro dietro, che sbolliva, si alza su, gli dice: “Ma non si vergogna? Cosa crede di fare? Qua!”. Ha tirato fuori… costava poco, gli ha buttato i soldi così. Allora è stato zitto, e io sono scesa. Ho ringraziato quell’uomo, e son tornata a casa di notte. Mia madre era a letto, e ho fatto… Mille cose si potrebbero dire…

D: Dicevi a Pescantina, i frati? Quali frati?

R: Ma, non so, erano frati vestiti di nero mi pare. Era un posto di ristoro e non ci hanno ristorate per niente. C’erano invece tre carabinieri, giovani, son passati di lì e ci han viste sotto la pioggia lì, in quella baracca, e hanno chiesto… E allora “Venite con noi”, nella loro caserma. Poverini, tanto carini, e ci hanno fatto il vin brulè, e poi ci hanno fatto raccontare la storia, seduti sulle loro brande, così cari. E così dopo siamo andati a Mestre per vedere di trovare un treno. Treni ce n’era pochi, allora treno bestiame, andiamo a Udine, e trovo… anche quello…

D: Scusa Rosina, la Liberazione in realtà, la tua Liberazione, è avvenuta dove e quando?

R: La mia Liberazione, ecco, liberata dal campo, è stato [al] cimitero. È stato il custode del cimitero che ci ha detto che non possiamo stare lì in quella baracca che era nel cimitero, perché lui deve avvertire la polizia, e ci ha portato patate lesse. “E domani mattina andate via!”. E così, a tappe. Poi abbiamo trovato italiani, militari italiani che ci hanno aiutate, e insomma…

D: E questo cimitero dov’era?

R: Dov’era?

D: Non te lo ricordi?

R: Se sapessi andrei una volta a trovare quell’Otto che era sepolto là, coi baffoni, che era scritto ‘auf wiedersehen’. [Avevo pensato:] “Se vado via di qua stai fresco che vengo a trovarti”.

D: Non ti ricordi il posto?

R: Era… no, perché abbiamo fatto tanta strada. Certamente era Turingia, penso, perché Buchenwald è in Turingia… ma forse eravamo passati anche più…

D: E nemmeno il periodo ti ricordi, quand’era la data più o meno?

R: Guarda… la data era… dunque, la Liberazione… ecco, io, quando […]