Minarelli Atos

Atos Minarelli

Nato il 19.02.1923 a Vigarano Mainardo (FE)

Intervista del: 22.08.2000 a Bologna realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL:n. 117 – durata: 49′ circa

Arresto:15.12.1944 in Piemonte

Carcerazione: a Le Nuove a Torino

Deportazione: Bolzano, Mauthausen, Gusen 1

Liberazione: a Gusen 1 il 5 maggio 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Minarelli Atos, nato il 19.2.1923 a Vigarano Mainardo in provincia di Ferrara.

Sono stato arrestato il 15 dicembre 1944 nelle Langhe in Piemonte come partigiano. Avevo una squadra a mia disposizione. Mi ero fermato in una cascina per prendere dell’acqua perché eravamo in ritirata, ci dovevamo ritirare sulle montagne. Mi sono accorto che la mia compagnia era andata avanti, io mi ero fermato in quella cascina per prendere dell’acqua.

Mi sono visto tutto in una volta circondato dagli arditi del Duce che avevano una testa da morto sul berretto. Io potevo difendermi, ma non ho potuto perché in quella famiglia c’erano quattro/cinque donne, cinque o sei bambini, si sono messi a piangere.

Io sapevo che se avessi reagito loro avrebbero distrutto la famiglia e allora mi sono dato prigioniero. Ho consegnato le armi, mi sono dato prigioniero. Dopo lì ne hanno feriti altri sette o otto in quel combattimento in quel momento.

Dopo tutti quei feriti li hanno caricati su un camion con due mucche, li hanno trasportati in un piccolo paese in provincia di Cuneo eravamo, non mi ricordo bene il paese come si chiamasse.

Quei piccoli feriti che si lamentavano su quel carro… Loro dicevano: Senti i tuoi amici come cantano bene”, mi prendevano anche in giro. Arrivati a quel paese c’era un certo Boni, un boxeur, Massimo e allora per dare spettacolo alla compagnia mi ha preso fuori e poi ha cominciato a darmi dei pugni nella faccia, dappertutto, mi ha spaccato tutta la faccia. La compagnia che rideva al mio spettacolo.

Poi dopo ci hanno messi in una piccola stanza, la sera ci hanno comandati alla morte, hanno fatto dei verbali, che ci avevano presi armati e condannati a morte. Eravamo andati in un paesino in provincia di Cuneo, dovevamo essere fucilati di mattino alle sette.

Lì ho trovato due o tre miei paesani anche. Ce n’era uno di Cento, un certo Fiorino del battaglione Mussolini che io volevo che facesse sapere qualcosa alla mia famiglia, invece lui aveva soddisfazione di uccidere un suo paesano con la sua pistola stessa.

Il maggiore non gli ha dato l’ordine, dice: “Dopo fai il palo per l’esecuzione, non puoi ucciderlo da solo”. Siamo stati due ore davanti ad una piccola chiesetta, picchiati, torturati. Infine è arrivato verso le undici, è arrivato un camion di tedeschi. Io credevo che fosse la fine. Me l’aspettavo la fine.

Invece ci hanno portato in un paese che si chiamava Canelli in provincia di Asti che era stato occupato da loro, prima eravamo lì noi. Lì la notte ci hanno ammanettati, caricati su un camion, ci hanno portato alle carceri Nuove di Torino.

Alle Nuove di Torino dopo cinque giorni, tutte le mattine una battutina ci davano, dopo cinque giorni una notte ci siamo cambiati i numeri, il mio numero era 777, dopo mezzanotte, si aveva paura, ci hanno messo lì soltanto per ostaggio, se c’erano dei morti venivamo fucilati. Pensavo fosse la fine.

Invece siamo andati nel salone, c’erano delle suore, ci hanno dato delle sardine, ci hanno caricato su due corriere e ci hanno portato a Bolzano.

Dalla mattina siamo arrivati a Bolzano verso le cinque di sera, era già buio. Arrivati a Bolzano…

D: Scusa, Atos, quando questo, ti ricordi quando?

R: Il 22 dicembre.

D: E ti hanno portato a Bolzano, vi hanno portato con degli autobus?

R: Sì. Con due autobus. Da una parte eravamo ammanettati, quelli che erano segnati in rosso, col triangolo rosso. Invece gli altri erano liberi, anzi si sono fermati, avevamo avuto un bombardamento, invece noi eravamo legati là, sono fuggiti, ma noi eravamo fermi là.

Dopo arrivato a Bolzano il 22 dicembre alla sera, ci hanno tagliato i capelli, ci hanno mandato nelle baracche. Prima di noi erano arrivati quelli di Bologna, che venivano dalle carceri di Bologna quel giorno.

Il giorno dopo ho trovato degli amici, c’era il mio capo Costa qui di Bologna, c’erano degli amici di Milano che conoscevo da qui perché eravamo un po’ parenti, erano del mio paese.

Dopo tre giorni ho fatto la mano ad andare fuori a lavorare perché c’era un Laimi di Ferrara. Io speravo di andare a lavorare nella Imi di Ferrara perché lì avevo degli amici. Invece mi hanno mandato a fare il manovale, a chiudere una caserma. Portavo su dei massi di pietra che chiudevano la finestra per fare una prigione. Era una caserma militare. Lì a Bolzano, sempre vicino Bolzano, andavamo a piedi alla mattina e tornavamo alla sera.

D: Ti hanno immatricolato a Bolzano?

R: Sì, 777 come eravamo là nelle carceri di Torino, portavo lo stesso numero. Ci hanno dato una tuta di tela, poi ci hanno mandato fuori a lavorare.

D: Ti ricordi il numero o la lettera del tuo blocco di Bolzano?

R: Non mi ricordo bene perché era dentro subito lì dietro, adesso il blocco non me lo ricordo più. Davanti nel cortile c’era il blocco E dove c’erano le donne. Noi eravamo dietro, la casermetta, il numero non me lo ricordo.

D: E lì a Bolzano hai fatto solo quel lavoro lì di manovale?

R: Solo quel lavoro lì.

D: E sei rimasto fino a quando a Bolzano?

R: Fino alla partenza per Mauthausen.

D: Cioè quando è avvenuta la partenza?

R: E’ arrivata l’8 gennaio, siamo arrivati l’11 gennaio a Mauthausen. Siamo partiti l’8 gennaio.

D: E hanno chiamato tutto il tuo gruppo?

R: No, io avevo chiesto di andar fuori a lavorare il mattino perché sapevo della partenza. Allora il mio capogruppo era Costa qua di Bologna, l’avvocato Costa. Ho fatto chiedere al capo campo se potevo andare fuori a lavorare, chissà che mi scansa la partenza, ho tentato di scansare la partenza.

Infatti, mi hanno mandato fuori a lavorare. Hanno detto alle due partono, erano già le cinque, ero già contento, alle cinque rientravo, sono già partiti, mi sono salvato la partenza.

Invece mancavano dieci minuti alle cinque, si è fermato un camion lì davanti dove lavoravo, hanno chiamato il mio numero. “Sali sul camion”. “Dove mi portate?” “Ti portiamo alla caserma lì al campo che ti prendiamo la tuta e poi ti portiamo in stazione”.

C’era un tedesco, gli ho chiesto dove mi portavano. “Qui vicino, qui in Austria a Mauthausen ti portiamo”. Io non sapevo cosa voleva dire Mauthausen in quel momento. “Ti portiamo qui vicino a Mauthausen”.

Mi hanno portato in caserma, mi hanno preso la tuta. Io avevo un paio di pantaloni e una maglietta. L’avevo messo su alla braga perché era piena di pidocchi, era nevicato, era sotto la neve. “Io sono nudo”. “Via, fuori nudo come sei”. Allora son corso a prendere i miei pantaloni di tela, le mie magliettine.

D: Allora, sono venuti a prenderti mentre tu eri a lavorare?

R: Ero a lavorare. Mi hanno caricato in fretta, ci hanno portato al campo, ci hanno preso la divisa e poi ci hanno caricato di nuovo e ci hanno portato in stazione. Non era ancora partita la tradotta, ne mancava ancora otto o dieci, ci sono venuti a prendere sul lavoro.

Verso le cinque e mezzo, le sei di sera siamo partiti. Quando sono salito sul treno i miei amici, i miei compagni mi hanno chiesto da dove venivo, cosa facevo. “Io ero un partigiano”. “Allora sei disposto a fuggire?” “Come fuggiamo?”

C’era una dottoressa di Milano, mentre ci ha salutati ci ha messo due scalpelli e martelli in segno dei milanesi. Avevamo uno scalpello e un martello; abbiamo tentato di aprire un buco lì vicino a dove si poteva aprire il vagone.

Abbiamo cominciato a lavorare. Prima di arrivare al Brennero dovevamo rompere il buco. Infatti, abbiamo fatto questo. Una parte cantava, una parte bucava, ma su con noi nel vagone c’erano due slavi.

Un bel momento siamo arrivati in una stazioncina, noi avevamo già fatto il buco, pronti come partiva ad aprire e fuggire prima che prendesse la corsa. Ma questi due slavi si sono affacciati al finestrino e hanno fatto la spia.

Io il tedesco lo capivo perché ero già stato sei mesi in Germania. Ho detto: “Ragazzi, hanno fatto la spia che abbiamo rotto il vagone”. Grandi colpi, i tedeschi urlavano di qua e di là. Sono entrati nel vagone. Io sapevo quello che facevano, mi sono buttato a terra subito, ci uccidono.

Invece un ragazzo di diciassette anni, a lui non importava niente, è andato lì, io non sono un partigiano, mandatemi indietro, mandatemi a casa. Gli hanno spaccato le ossa a forza di botte. Poi hanno voluto sapere chi stava bucando. Erano due ragazzi milanesi. Gli hanno dato tante botte col caricatore del mitra; gli hanno tutti scarnati i nervi delle braccia. “Adesso rompetele”. Ma non avevamo niente, un po’ di carta igienica, li abbiamo impaccati così e abbiamo continuato il nostro viaggio dal giorno 8 gennaio, siamo arrivati l’11 a Mauthausen. Al mattino, siamo arrivati l’11, senza mangiare, senza bere, senza niente.

Quando ci hanno fatto scendere dal vagone alla mattina presto ci hanno dato una pagnotta di pane che era tutta bagnata e due o tre sardine di sale. Ma io avevo ventuno anni e la fame c’era.

Ho spezzato la mia pagnotta sulla ferrovia perché era gelata e poi mi son messo a mangiare. Abbiamo continuato, in poco tempo l’ho mangiata. “Non mangiare, non mangiare, è tutta gelata, ti fa male. Quando saremo al campo.” La fame a ventuno anni è grande. Io mangiavo.

Poi quando abbiamo cominciato a salire il Danubio a me piaceva cantare. Lì c’era anche un vecchietto con una valigia che era il Senator… come si chiama, quello che ha fatto il libro “Si fa presto a dire fame”. Come si chiamava quel senatore lì?

D: Caleffi.

R: Caleffi, c’era il senator Caleffi, io non conoscevo questo vecchietto, aveva una valigia, gli ho dato un aiuto a portare la valigia, gli ho detto, “Cantiamo, ragazzi, cantiamo”. Lui l’ha messo anche su un libro che c’erano quegli alpini che cantavano.

Ma nessuno più ormai aveva voglia di cantare. Quando abbiamo cominciato la salita del Danubio tutti hanno smesso di cantare. Io ho portato la valigia del senator Caleffi per un pezzo fino a là.

Quando siamo arrivati dentro nel campo, ci hanno fatto fare un bel giro davanti a dove c’erano i bagni, ci hanno fatto buttare via le valigie, gli orologi, tutto quello che contenevano, tutto in terra.

Poi ci hanno messi tutti in fila per il bagno. Io ero in fondo. Tutti i miei amici: “Vai giù, vai giù”, perché pioveva. Io senza una maglietta, nudo così, mi facevano compassione gli altri. Il secondo scaglione sono fuggito giù anch’io.

Non l’avessi mai fatto perché quando sono stato là sotto, nessuno se n’era accorto. Ci hanno dato il rasoio dai capelli fino alle unghie dei piedi, tutti col rasoio così che faceva sangue. Tutti col rasoio dalla testa fino alle unghie dei piedi, tutti i peli.

Poi ci hanno dato una pennellata con della roba che bruciava e poi dopo sotto il bagno, acqua bella calda, bollente che si stava bene, poi acqua fredda e noi siamo saltati fuori, fuori, fuori.

Mentre si usciva ci davano due pezzi, un paio di mutande, una camicia, una magliettina, due pezzi, fuori, fuori, vestirsi in mezzo alla neve, fuori perché non c’era tempo da perdere. Siamo andati fuori, ci siamo vestiti un po’ lungo la scala, un po’ mentre uscivamo, un po’ fuori.

Poi abbiamo aspettato che facessero il bagno tutti gli altri, poi siamo andati nelle baracche, là fuori in mezzo alla neve, non so quanti gradi ci fossero, 12, 13, 14, 15 gradi sotto zero. Nevicava, c’era la neve in terra e poi ci hanno portato nelle baracche della quarantena.

Qui abbiamo fatto quaranta giorni di quarantena. Tutte le mattine si andava fuori a lavorare, prendevano cinque, sei, sette di qua e di là, li mandavano fuori a lavorare. Dopo tre giorni sono andato fuori a lavorare, a spalare la neve, no, a portare via dei sassi che portavano, alcuni dalla cava li portavano lì vicino, dietro noi c’era un muro con due baracche, non entrava nessuno, entravano soltanto i tedeschi, l’ufficiale tedesco, SS.

Non si sapeva cosa c’era perché lì delle mattine sono andati a portar via dei morti tutti massacrati, li portavamo davanti al forno crematorio. Ci sono andato per una mattina o due anche.

Quelle mattine lì mi portavano fuori a lavorare con quei sassi lì. Arriva uno. Io avevo un paio di mutande senza cintura, senza niente, mi cadevano sempre giù, ogni sasso mi cadevano sempre giù le mutande. Una botta, una legnata sul sedere. Arriva uno, “Dammi uno”. “Prendi questo maccherone italiano”. Ha preso questo maccherone italiano che ero io. Eravamo chiamati maccheroni noi.

“Vieni con me”. Con una carrettina a due ruote. Siamo partiti. Con una mano portavo la carretta, con l’altra mi tenevo su le mutande. Quando siamo arrivati lì, siamo andati a prendere gli abiti che erano arrivati dei borghesi, perché gli abiti dei borghesi dovevano andare in disinfezione. Siamo andati lì e quello che mi portava era uno spagnolo.

Ha cominciato a parlarmi, a chiedermi da dove venivo. Io gli ho detto che ero italiano; si capiva abbastanza bene lo spagnolo. C’era una cintura, l’ho presa subito. Lui aveva già fatto per darmi le botte. Ho detto: “Guarda, mi cadono i pantaloni”, le mutande allora mi ha lasciato prendere la cintura.

Tutti questi abiti, in quel momento c’era un carico, c’erano degli ebrei, c’erano dei bambini, delle donne e degli uomini, perché eravamo in gennaio, ad Auschwitz non potevano più entrare perché Auschwitz era già stata invasa.

Li hanno fermati lì, poi li hanno divisi, i bambini da una parte. Era una cosa che spezzava il cuore, vedere questi bambini, prenderli dalle madri, le madri che urlavano, i bambini che urlavano e loro gridavano: “Giudei, giudei”, delle botte.

Li hanno portati via. Io poi ho portato via quegli abiti, li ho portati fuori dal campo, Io ero nudo con un freddo.

Poi il giorno dopo si è fotografato il giorno prima, siamo stati fuori tutta la giornata che ci fotografavano uno per uno. Io non so il motivo, uno per uno, ci fotografavano uno per uno. Siamo stati fuori dalla mattina fino alla sera. Alle cinque, siamo rientrati alle cinque, con un freddo, ci ammucchiavamo, ci facevamo i massaggi, qualcuno sveniva in terra. Tutto il giorno così.

D: Quando ti hanno immatricolato lì a Mauthausen?

R: Quasi subito, due giorni dopo.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: Sì: 115.616.

D: E lì a Mauthausen fino a quando sei rimasto?

R: Per una ventina di giorni, venti, ventidue giorni. Qualcosa così, poi siamo andati a Gusen.

D: Quale Gusen?

R: Uno.

D: E da Mauthausen a Gusen con cosa vi hanno portato?

R: A piedi.

D: A Gusen ti ricordi il blocco dove ti hanno messo?

R: Sì.

D: Che blocco era?

R: Il blocco 40, adesso ho un poco dimenticato. Aspetta che mi ricordo…

D: Se te lo ricordi dopo. A Gusen 1 cosa facevi?

R: La Styr.

D: Lavoravi?

R:Alla Styr.

D: Ed era esterna al campo?

R: Sì, esterna, ma si andava a piedi. C’erano circa duecento metri, neanche.

D: E tu cosa facevi?

R: Facevo il tornitore e il fresatore.

D: La Styr costruiva per l’industria bellica?

R: Sì, mitragliatrici e fucili.

D: E tu eri addetto alla costruzione di armi?

R: Sì, la costruzione delle armi.

D: Ci spieghi una giornata di lavoro?

R: Sì. C’erano due turni, dalle sette di mattina alle sette di sera. O dalle sette di sera alle sette di mattina. Noi facevamo i turni. Alle sette di mattina noi uscivamo dal campo per andare al lavoro, gli altri venivano fuori dalla fabbrica e rientravano. Ci davamo il cambio lungo la strada. Si cominciava il lavoro. Mezzogiorno un mestolo di zuppa. Mezz’oretta, un mestolo di zuppa, bisognava partire di nuovo. Alle sette di sera si rientrava.

Lo stesso ci si dava il cambio lungo la scalinata, usciva il turno, noi scendevamo. Sempre così.

D: Ma le officine erano dentro in capannoni?

R: Tutte baracche di legno. C’erano tre, quattro file di macchine. Tre, quattro file di macchine ogni baracca e lavoravamo in settanta, ottanta, cento dentro ogni baracca.

D: Una volta che i pezzi erano finiti… Scusa un attimo. Stavi dicendo?

D: Ah, certo. Quando eravamo in quarantena quelle due baracche che erano dietro noi una notte s’è cominciato a sentire sparare di qua. Allora il Kapò che era spagnolo ha detto: “Guai chi si muove. Guai chi si muove”. Al mattino abbiamo preso, abbiamo portato fuori. Prender su tutti quei morti che avevo visto il gesto che avevano fatto, hanno buttato e che c’era la corrente. Hanno preso i pagliericci li hanno buttati sui fili per poi fuggire. Era una carneficina perché il sangue correva, ne hanno uccisi un mucchio. Poi dicevano che li avevano presi tutti.

Là nel cortile li prendevamo e li portavamo nel forno crematorio, non dentro il forno crematorio. Lì davanti c’era una scaletta, li mettevamo lì davanti, loro li prendevano dietro. Li portavamo lì davanti, tutti insanguinati. Ho visto cosa c’è in quelle baracche. Davano da mangiare come davano da mangiare ai maiali. Gli vuotavano la zuppa lì dentro, loro dovevano mangiare con la bocca così. Ho visto tutto.

Dopo otto, dieci giorni ci siamo vestiti e ci hanno portato a Gusen a piedi. Siamo arrivati a Gusen. Lì al mattino ci hanno dato tre numeri, uno al braccio e due ai pantaloni. Prima ne avevamo soltanto uno al braccio. Invece lì ci hanno dato i tre numeri, uno al pantalone, uno alla giacca e uno al braccio.

D: Ma sempre il tuo numero di Mauthausen?

R: Sempre il numero di Mauthausen 115.616. Ci hanno dato i tre numeri. Lì abbiamo cominciato il lavoro. Io sono stato fortunato, sono andato alla Styr. Una grande paura perché io non avevo visto mai una fabbrica, ero un contadino che lavorava in campagna.

Quando sono arrivato là solo con il rumore io stavo impazzendo. Fortunato che ho trovato un russo che mi ha voluto bene subito, mi ha insegnato il trucco perché se rompeva più frese al giorno, era sabotaggio, mi facevano male. Al mattino lui ha rubato tre frese al campo, ha aperto gli sgabuzzini, poi ha messo sotto il pattume e diceva, quando ne rompo una ne metto su un’altra.

Allora ho preso la mano, andavo bene. Poi lui ha preso la mano e andava abbastanza bene. Quel russo è stato la mia fortuna. Quel ragazzo russo. Lì incominciavamo il lavoro dalle sette del mattino alle sette di sera, c’era il turno, un mestolo di zuppa a mezzogiorno e così.

D: Atos, quando le parti che voi facevate erano finite, chi le portava via? Con cosa venivano portate via?

R: Le portavano fuori, lì c’erano i prigionieri che erano addetti al trasporto. Lì fuori c’è anche il mio amico di Bologna, avvocato Costa. La sera quando faceva buio veniva in baracca, veniva là un po’ a scaldarsi. Se lo vedeva il Kapò erano botte. Alle volte doveva fuggire di corsa perché se arrivava il Kapò lo picchiava. Lui era al trasporto fuori alla pioggia o al vento. Invece noi eravamo coperti almeno.

D: Se tu ricordi Atos, lì a Gusen 1 hai visto dei treni, c’erano dei treni?

R: C’erano i trenini che andavano su alla cava delle pietre e che andavano sotto le gallerie. Quando suonava l’allarme, ci facevano andare tutti dentro una galleria di corsa a piedi. Noi ci andavamo volentieri, perché quando era andata via la neve c’era un prato con l’erbetta. Quello era il nostro mangiare. Tutti correvano volentieri. Ero sempre là davanti perché lavoravo alla quarta baracca, andavo a Styr, c’erano trenta baracche, ero alla quarta, sono stato fortunato, quando suonava l’allarme, fuggivo e potevo mangiare un po’ più d’erba degli altri, ero tra i primi.

D: E quando tu sei rimasto a Gusen 1 hai sempre lavorato lì alla Styr?

R: Sempre lavorato alla Styr.

D: Fino a quando?

R: Fino al giorno della liberazione, al 5 alla sera. Il 5 maggio alle cinque alla sera.

D: Il tuo lavoro esattamente com’era? Cos’era?

R: Il tornitore percussori delle mitragliatrici oppure il mio lavoro è sempre quell’incastro … espulsore della cartuccia. E’ sempre stato quello. Lavoravo su due macchine.

D: E dovevate fare un certo quantitativo?

R: 700 pezzi al giorno. Si facevano sempre continuamente, non si poteva perdere tempo a parlare, discutere. Uno doveva andare sempre avanti a continuare il suo lavoro.

D: C’erano anche dei civili lì nella fabbrica?

R: Civili, c’erano più che altro, io vedevo solo partigiani. Non so se ci fossero dei civili. Il mio capoblocco era un tedesco, triangolo verde, un criminale tedesco, capoblocco.

D: No, dico in fabbrica a lavorare?

R: Lì non si può tanto parlare. Non si poteva parlare in più di tre. Se si parlava, al massimo con quello con cui lavoravi lì perché non si poteva uscire o fermarti nel gruppo a parlare. Anche quando ci si fermava la mezzora per mangiare, tu dovevi mangiare, parlare al massimo col tuo vicino, non si poteva parlare in più di tre.

Era difficile, perché anche al mattino prima di andare al lavoro c’erano due ore dalle cinque, un po’ fuori fino alle sette. Lì stavi in fila un’ora, un’ora e mezza sotto la pioggia. Per andare a lavorare, ci dovevamo mettere in coda, come quando rientravamo che anche i morti dovevano sfilare. Quelli che morivano, li facevi sfilare per la conta, non doveva mancare nessuno. Lì venivano contati tutti. Lì ho avuto tre episodi a Gusen.

Mi sono salvato dalla morte tre volte, il destino è così. Mi sono salvato quando mi hanno condannato gli artefici del Duce alla fucilazione là a Ponti in provincia di Cuneo che sono arrivati i tedeschi, mi hanno portato allo stadio e poi al carcere di Torino. Quella è stata la prima salvezza.

La seconda un giorno, non so se fosse una festa internazionale, dovevano uccidere due per baracca. Quel russo che lavorava con me, lui sapeva tutto quello che doveva succedere nel campo. Io non so chi fosse, lui sapeva sempre tutto.

Dice: “Stai attento quando rientri questa sera, ne devono uccidere due per baracca”. Allora io prima di entrare faccio un giretto. Infatti c’era una baracca alla 35 che era un criminale, era là che uccideva a furia di botte. Io stavo a guardare, dovevo pur rientrare. Se vedono che manco e mi cercano, vado alla finestra, dormivo davanti alla finestra.

Eravamo un gruppo di italiani, eravamo quattordici, quindici italiani. Allora busso nel vetro. “Cosa fai lì fuori? Vieni dentro, non succede niente”. Vado dentro, come rientro c’è il Kapò, mi preleva.

C’era un ragazzo di Asti, ha trovato la scusa che mancava un po’ di rosso dal triangolo rosso. Era una scusa perché avevamo il boccettino, potevamo darlo. Quel ragazzo di Asti viene a prendere le mie difese, “Vai via, vai via che devono ucciderne due, che non ti prendano. Ne devono uccidere due oggi ogni baracca”.

Invece ne hanno preso un altro, un russo e mi hanno portato via. Fuori dalla baracca un russo tutto infangato. Il destino lo manda dietro di me, prende il russo. Mi porta nella baracca dove andavamo a fare il bagno la mattina, dove c’erano i gabinetti.

Li ha legati con una corda dietro le mani, poi ha tirato su le travi, tirati così vivi, lasciati morire così. Si muore lentamente. Alla notte quando sono andato in bagno erano attaccati e guardavo che doveva essere la mia fine, quella doveva essere la mia fine. Anche quella volta lì m’è andata bene.

Il 22 aprile quello russo mi dice: “Stai attento, è arrivato il comandante nuovo. Quegli scheletri che sono in infermeria non vuole lasciarli agli invasori, agli americani”. Allora dico: “La camera d’aria l’abbiamo, si dà una gonfiatina, prendo una pompa si dà una gonfiatina, diventiamo belli grossi”. Si scherzava.

Alla sera quando sono rientrato avevamo cinque, sei, sette amici in infermeria. “Dai che andiamo a vederli”. Le due infermerie erano due baracche, si era formata una sola, tutti cadaveri. Sono andato a vedere tutti questi cadaveri, ma una cosa incredibile, non si può descrivere. Tutti questi scheletri, uno che morsicava l’altro, che era diventato pazzo. Una cosa… Io sono venuto via subito.

Alla notte verso le undici sono uscito a prendere un po’ d’aria. Quando stavo per rientrare davanti all’infermeria c’era tutti i tedeschi con gli elmetti e le maschere a gas davanti alle finestre chiuse, hanno dato il gas a tutti.

La mattina quando sono uscito sono andato a vedere, hanno dato il gas a quattrocento, quattrocentocinquanta, non so, una baracca, nella baracca stessa hanno dato il gas. A più di quattrocento, quattrocentocinquanta hanno dato il gas nella baracca.

Dopo quei giorni i forni crematori, perché a Gusen c’erano due forni crematori, andavano giù la notte per bruciarli; dovevano eliminarli.

Il 27 aprile io monto al mattino, quello che ha montato alla notte si conosce che la morte è il suo lavoro, tutti pezzi sbagliati. Dico col Kapò ci sono tutti i pezzi sbagliati. Meglio, dice, che tu sei un italiano, tu vai al Krematorium.

Quello era un polacco, per lui era una soddisfazione mandare al Krematorium un italiano. Allora non li poteva vedere nessuno gli italiani. Si sfregava le mani, questa volta vai proprio al Krematorium.

Il giorno dopo c’era una SS che quando facevamo l’appello a mezzanotte anche c’era quella SS lì, un ragazzo grande, lui non parlava mai. Una notte s’è rotta la cinghia… è quasi mezzanotte, c’è l’appello, vai, vai, il Kapò, quando diceva vai doveva andare.

Quella notte lì veniva un’acqua, una pioggia, lo fai per baracca. Quando arriva fuori nel cortile, la mia baracca è la quarta, lì c’è già la SS che mi aspetta. Via di corsa.

C’era un Kapò che era un polacco, un uomo che era centoventi chili che ammazzava la gente come niente, ammazzava anche i suoi paesani, non importava niente. Anzi un giorno c’erano due che dicevano: “Quando andiamo a casa te la facciamo pagare”. Li ha uccisi tutti due a colpi di zoccoli, due polacchi suoi amici. Era un criminale.

Quando arriva dentro questo criminale mi salta addosso, botte. Il tedesco dice, “Gut, basta”. Mi ha salvato il tedesco, mi ha salvato dalle botte. Quella notte lì è andata così.

Il 27 aprile come già detto viene questo sabotaggio. La mattina dopo il 27 aprile arriva questo tedesco alle cinque di sera, il Kapò dice: “Guarda”, mi picchia in una spalla, mi dice “Vai, vai che c’è il tedesco che ti aspetta”. C’era quel ragazzo con gli stivaloni sulla porticina che mi aspettava.

Mi porta davanti a quel comandante nuovo che era arrivato sei giorni prima. La paura che io avevo. Quando sono entrato comincio a parlare un po’ in tedesco, un po’ in italiano. “Mi parli italiano che io so bene l’italiano”. Era un italiano di Bolzano, dell’Alto Adige, uno dei nostri italiani.

Ho pensato, per quello forse mi ha salvato quella sera, perché ero italiano anch’io. “Parla con l’italiano”. “Guarda, quando sono rientrato stamattina tutti i pezzi erano sbagliati. Si conosce che quello che lavorava con me è morto, bisogna che sia morto, perché sbagliare tutti i pezzi, ha lasciato un mucchio, c’erano ancora tre pezzi da rifare, bisogna che sia morto. Il Kapò mi ha detto di lasciarmi andare così mi manda al forno crematorio se ci sono i pezzi sbagliati, prendo la colpa io, invece io non ho nessuna colpa, anzi ho lavorato tutto il giorno per disfare il mucchio, anche per fare tutti i pezzi ho lavorato”.

Lo dice al comandante, il comandante dice: “Vai a vedere se è la verità”. Tutti i morti, non scappava un morto, venivano registrati tutti i morti, registrati uno per uno, lì non scappava niente. Se mancava uno si stava fuori finché non veniva ritrovato.

Infatti, è andato a vedere, dice, “Sì, kaputt”. Mi ha detto: “Puoi andare”. Siamo usciti. Mi ha messo la mano sulla spalla. “Di dove sei?” “Di Ferrara”. “Ferrara è stata occupata, liberata dagli americani”. Dico: “Almeno la mia famiglia si fosse salvat!”. “No”, dice, “non c’è stata nessuna resistenza, tutto è andato bene”. Dico: “Lei lo sa che è tanto tempo che lotto per vivere? Ringrazio per quella sera che mi ha salvato dalle botte”. “Lascia stare. Mi raccomando, tra pochi giorni vedrai che ce la fai e andiamo a casa”.

Il 27 aprile ho saputo che Ferrara era già libera, che l’Italia era già stata liberata.

L’Italia è libera, l’Italia è libera, allegria con tutti i miei amici che lavoravano là dentro. Siamo stati liberati il 5 maggio alle cinque di sera. Quelle notti quando uscivo di notte per andare in bagno mi fermavo a guardare quel forno crematorio che buttava fuori quelle lingue di fuoco, un po’ si sentivano delle cannonate, un po’ speravo che arrivassero presto. Sono arrivati il 5 prima delle cinque di sera.

D: E dov’eri tu?

R: A Gusen. No, ero in riposo, non ero a lavorare. Eravamo lì che si doveva fare l’appello che si doveva andare a lavorare. Gli altri stavano lavorando, lavoravano, ma non c’erano più le SS, erano due giorni che erano fuggite. C’erano soltanto quei vecchietti della Wermacht e i Kapò che comandavano.

D: E cos’è successo alla liberazione?

R: Alla liberazione, quando ci hanno detto “Ci sono gli Americani, ci sono gli Americani”, alè, specialmente sono partiti i russi, io mi sono nascosto perché non mi prendessero per sbaglio, mi sono salvato fino adesso, mi sono ritirato nella mia baracca a guardare.

I russi e quegli altri sono corsi al forno crematorio, tutti quei Kapò che hanno trovato li hanno fatti fuori. Dopo un’oretta sono uscito, c’erano morti dappertutto, tutti i Kapò, specialmente i russi, addosso, li hanno massacrati tutti, tutti i Kapò sono stati massacrati. Sono stati massacrati tutti.

Dopo lì con delle carrette li hanno presi tutti, in un’oretta e li hanno portati fuori. Hanno chiuso la porta, non sono potuti rientrare subito gli americani finché non hanno ucciso tutti i Kapò, dopo hanno aperto la porta, sono entrati gli americani a girare. Anzi dopo che è entrato un italo-americano, abbiamo dato l’assalto alla cucina, l’assalto alle patate, chi bolliva di qua, chi cucinava qualcosa di là.

Chi ha mangiato molto è morto il giorno dopo. Ne sono morti un mucchio. Io il giorno dopo sono andato al forno crematori, ce n’era un mucchio, oltre quattrocento, perché c’erano dei miei amici di san Giovanni Persiceto che cercavano i fratelli, perché c’erano delle famiglie intere.

Poi sono andati a vedere questi cadaveri per trovare i loro fratelli, non li hanno trovati. Sono stati bruciati, io sapevo che nell’infermeria erano già stati bruciati.

C’era uno che cercava il fratello, un ragazzo di 18 anni, io pensavo che fossero stati entrambi bruciati quella notte che hanno dato il gas, invece uno s’è salvato dopo che è venuto a casa, non era neanche più normale.

Invece quel ragazzo di 18 anni è morto dopo là. Dopo fuori dal campo hanno fatto un’infermeria gli americani, un capannone per prendere i malati. Dopo che seguivano noi c’erano due dottori, un dottore che non so come si chiama, un dottore di Modena anziano che veniva nelle baracche, perché noi italiani eravamo tutti assieme, eravamo andati insieme ai russi.

Lì i malati venivano a prenderli, venivano nelle baracche quelli che avevano bisogno di essere curati, gli urgenti. Dopo trovai un italo-americano la mattina dopo, voleva vedere tutto il campo. Gli ho fatto vedere il forno crematorio, la ghigliottina dove li attaccavano, dove li mettevano col laccio al collo, ha preso giù le fotografie.

“Venite a trovarmi, sono a Gusen paese, più avanti. Vieni a trovarmi al mattino che ti do tutto quello che vuoi da mangiare”. Io avevo dei buchi così dappertutto, nella schiena, buchi nelle gambe perché dormivo sulle assi, nelle gambe delle piaghe così, dei buchi avevo dappertutto. Sono andato a pesarmi, ero 37 chili vestito, con i vestiti, con due zoccoli, con gli scarponi, tutto. Il mio peso era 35 chili al massimo. Quando mi hanno arrestato ero 102 chili.

Il mattino dopo sono partito, sono andato a trovare quell’italo-americano. Quando sono arrivato era lì che consumava il rancio. Allora mi sono nascosto. Fette di pane, i pezzi di carne in una botte. Come ho visto che non c’era più nessuno, sono andato nella botte per cominciare a mangiare. Mi sono visto circondato.

Allora ho cominciato a dire il nome di quel sergente italiano. Sono andati a chiamarlo. “Cosa fai? Non vedi che sono rifiuti?” “Rifiuti questi! Non mangio da sei mesi, non vedo un pezzo di pane, solo rape bollite”.

“Adesso vieni con me, ti porto fuori io”. Mi porta fuori dove facevano il mangiare loro. Due gavettoni, mi porta fuori della carne, ma per me era porcheria, era salata. Erano sei mesi che mangiavo queste rape. Per me era carne salata che restavo a bocca aperta. Dicevo, “Ma cosa mangiano, così salato?” Invece era normale, era normale, ero io che mi ero abituato a mangiare solo delle rape. Per me un po’ di salato mi sembrava una cosa salata.

Allora mi ha dato del pane, dei salami. Mi ha caricato. Sono andato dentro con cinque chili di zuppa, con lo zainetto di pane, di salame, di tutto. “Vienimi a trovare che ti do tutto quello che vuoi”.

Poi mi ha presentato il suo generale che mi ha dato anche un pacchetto di sigari. Poi ha raccontato tutto quello che aveva visto nel campo al suo colonnello, il colonnello non era ancora venuto a vedere.

Così dopo sono rientrato. Dopo ho messo su il burro, ho messo su un fornellino con un tegamino. Di notte mi svegliavo, mettevo del pane a friggere, la margarina, lo mangiavamo. I due o tre amici uno di Parma che gli ho salvato la vita, era in infermeria. Non era più capace di alzarsi. Se tu lo prendi su tutte le sere e poi lo fai camminare, è tornato a casa. E’ morto per un brutto male a Parma.

Due o tre di Milano, più anziani di me che erano dell’età di mio padre. Lì c’erano tutti quelli di Milano. C’era il professor… quello dei succhi, delle doghe di Milano… Carpi, c’era Carpi, c’erano due avvocati di Milano, c’era un certo Rossi, c’erano tutti quelli lì.

C’era Pedrazzoni che ha fondato il Comitato di Liberazione lì, tutti quei tesserini che abbiamo li hanno firmati loro, avevamo un tesserino noi.

D: Atos, scusa, a proposito di tesserino, al triangolo. Tu dicevi che avevi il triangolo rosso. Avevate dell’inchiostro?

R: Sì, se per caso andava via, nel triangolino rosso in mezzo salta via il triangolo, noi avevamo un pennellino dove c’era il barbiere, perché ogni otto giorni ci davano il rasoio sulla testa, una riga sulla testa, erano obbligati a darla.

Lì c’erano degli spagnoli, c’era quel ragazzo di diciassette anni, … qualche mestolo di zuppa in più, gli spagnoli perché facevano quel lavoro, anche quel ragazzo che gli dava una mano, qualche mestolo di zuppa in più gli davano.

Avevamo un vasettino di rosso se a uno saltava via lo smalto, si doveva dare subito lo smalto che saltava via. Lì saltava via lo smalto soltanto in un angolino. Era stata una scusa quella. Questa è una scusa perché doveva uccidere due per baracca.

D: E tu a Gusen uno dopo la liberazione fino a quando sei rimasto?

R: Siamo rimasti un quattordici, quindici, venti giorni. Poi dopo ci hanno portato a Mauthausen perché lì sono venuti i borghesi. Anzi, noi abbiamo fatto una rivolta. Non volevamo andare a Mauthausen. “Portateci al confine d’Italia e poi portateci a casa. Portateci a Bolzano, quando siamo sui camion portateci a Bolzano.”

Invece no, abbiamo fatto una rivolta perché non volevamo andare. Sono venuti gli americani con l’elmetto in tasca, un maggiore italo-americano che era un maggiore medico, ha fatto un grande discorso. C’era l’avvocato Costa. Dice: “Noi vogliamo andare in Italia perché noi siamo quei partigiani. Dicevate partigiani sabotate le ferrovie, fate sabotare qui, fate sabotare là, c’è andata male, siamo qui per quello”.

“Ma cosa volete voi Italiani? Vent’anni fa avevate bisogno degli americani per liberarvi, adesso dopo vent’anni… Fra vent’anni avrete ancora bisogno degli americani. Fuori”. Ci hanno caricato sui camion, ci hanno mandato a Mauthausen.

Dopo circa un mese che eravamo a Mauthausen il 2 luglio siamo venuti in Italia. Io sono venuto a casa il 2-3 luglio. Il 2 luglio sono arrivato a casa.

D: Ma come sei arrivato? Come hai lasciato Mauthausen?

R: Ci hanno portato col camion e caricati, ci hanno portati alla stazione. Alla stazione ci hanno caricato su un treno, quando è arrivato ad Innsbruck s’è fermato. Poi siamo partiti e siamo andati a Bolzano. Da Bolzano poi c’erano i camion che portavano alle città. C’erano i camion di ogni paese, si saltava su, ci caricavano, ci portavano a casa.

D: E sei arrivato a casa a luglio quindi?

R: In luglio.

D: A Ferrara?

R: A Ferrara, il 2 luglio.

D: Ascolta, durante il tuo periodo di deportazione a Bolzano, a Mauthausen e a Gusen 1 hai visto per caso se c’erano anche dei religiosi?

R: Eh, con me c’era il prete, don Narciso. Ce n’erano due. Don Narciso, quello di Milano, poi ce n’era un altro, non mi ricordo più come si chiamasse. Con don Narciso, eravamo sempre insieme. Anzi, una sera lì a Mauthausen, quando sono andato a Mauthausen il primo giorno ci hanno dato un pezzo di pane e della zuppa a volontà con delle patatine con semolino, non erano proprio rape, semolino.

Io che ero già stato militare in Germania sapevo che quello era un rancio per i militari. Allora dico con l’avvocato Costa e gli altri ragazzi, se ci danno questa roba siamo dei signori, gli ho detto.

Infatti l’avvocato mi dice sempre, avevi ragione. Non abbiamo più mangiato di quel semolino e patate. Si mangiava senza cucchiaio e ci hanno dato un bel pezzo di pane.

Io sono andato a Gusen 1, don Narciso è andato a Gusen 2. Mi sono informato, lui portava gli occhiali. Siccome sapeva il tedesco, si procurava qualche giornale. I Kapò l’hanno visto con un giornale in mano, gli hanno dato tante botte, via gli occhiali, non ci vedeva più. Il mio amico che era lì, partigiano con me, lui l’ha visto, l’ho visto morire, è morto a Gusen 2, è morto.