Pedrotti don Guido

Don Guido Pedrotti

Nato il 31.01.1914 a Malè (Trento)

Intervista del: 31.05.2000 a Cazzano di Brentonico realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL: n. 8 – durata: 60′

Arresto: 2 novembre 1944 a Bolzano
Carcerazione: Bolzano, sotterranei del corpo d’armata
Deportazione: Bolzano, Mauthausen, Dachau
Liberazione: 25-26-27 aprile 1945 a Dachau 1 da parte dell’esercito americano.

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Don Guido Pedrotti. Sono nato a Malè il 31 gennaio del 1914.
Ho vissuto prima a Malè, poi a Mezzolombardo e poi a Trento, dove ho intrapreso gli studi nel seminario minore e poi nel seminario maggiore. Consacrato sacerdote nel 1938 sono stato destinato cappellano in Val di Fiemme, a Tesero. Poi da Tesero a Isera e da Isera al duomo di Bolzano.
Eravamo ai tempi del fascismo e non sono mancate le parole dure e di condanna del fascismo; questo forse è stato l’inizio dei sospetti sulla mia persona. Purtroppo giunse la guerra, il duomo (di Bolzano) fu fortemente bombardato con tutta la zona intorno, la stazione fu pure fortemente bombardata. Anche le case della parrocchia furono fortemente bombardate, per cui la maggior parte delle persone rimaste in quel di Bolzano dopo l’8 settembre (1943), dalla parrocchia del duomo trovarono la possibilità di trasferirsi nella zona popolare e nella zona semirurale. Ecco quindi che era logico che io lasciassi la cura d’anime al duomo e mi portassi nella zona popolare e delle Semirurali. E avvenne quel che avvenne.

Dopo l’invasione nazista la cura d’anime era assai difficile. Tanto più che nella mia parrocchia delle Semirurali nel tardo, diciamo, tempo della mia permanenza, sorse il campo di concentramento o Polizeiliches Durchgangaslager di via Resia. Questo mi portò necessariamente a cercare di entrare nel campo a portare aiuto. Un fatto voglio sottolineare, perché è stupendo: quando io distribuivo la santa comunione, le donne delle Semirurali e delle case popolari mi portavano i bollini delle tessere e li deponevano sul piattino della santa comunione, così io avevo la possibilità di acquistare pane nella vicina bottega e mandarlo nel campo di concentramento. Questo mi è stato molto facile perché diversi miei parrocchiani lavoravano vicino al campo di concentramento nel Genio Militare e potevano avvicinare gente che dal campo di concentramento veniva mandata a lavorare proprio al Genio Militare. Un po’ alla volta sono entrato quindi a conoscenza del campo di concentramento e ho trovato una via meravigliosa per fare entrare ogni genere di aiuto, a cominciare dal denaro.
Gli aiuti mi venivano particolarmente da Milano, proprio dal cardinale Schuster e dal suo segretario monsignor Bicchierai. Vi erano anche diverse fonti di denaro da parte di ebrei parenti di deportati chiusi nel Lager.
La cosa andava avanti meravigliosamente bene, specialmente perché nel campo di concentramento di Bolzano vi era un sacerdote che usciva per vari servizi.

D: Chi ti aiutava nella parrocchia delle Semirurali? c’era un altro sacerdote?

R: Vi erano due sacerdoti, uno purtroppo è partito presto per andare nella sua valle, e l’altro era don Daniele Longhi, il quale aveva l’abitazione sopra la chiesetta delle Semirurali. Quello diventò il centro degli smistamenti e degli aiuti. Don Daniele Longhi era sacerdote cappellano dei lavoratori, e lavorava alla zona industriale. Anche da lì partivano le lettere che facevamo entrare, il denaro, gli aiuti, e particolarmente cibi che venivano depositati nelle baracche del Genio Militare e dagli stessi deportati introdotti nel campo di concentramento.

D: Quindi tu e don Daniele Longhi organizzavate gli aiuti dall’esterno?

R: Senz’altro.

D: Parlavi prima di un sacerdote deportato che usciva per lavoro.

R: Era don Andrea Gaggero di Genova. La cosa mi è riuscita particolarmente facile perché veniva condotto sempre a lavorare negli uffici tedeschi con il compito di accendere le stufe a carbone. Ho conosciuto un maresciallo che stava facendo le pratiche per sposare una bolzanina con rito religioso. Da lui avevo quello che volevo, potevo entrare, potevo parlare. Il maresciallo aveva la fidanzata in quel di Merano ed aveva piena fiducia in me. Il guaio è stato che nel campo di concentramento di via Resia quella mattina disgraziata due giovani deportati sono stati scoperti mentre stavano pulendo e oliando un revolver. Io venni a sapere subito la notizia e parlai a padre Gaggero, appunto là nel luogo dove lui si trovava a lavorare. Gli dissi: “Quando entri, mi raccomando, getta tutto quello che ti ho consegnato”. Si trattava di un malloppo consistente. E’ stato anche per la negligenza di don Daniele Longhi, ma è stato anche grazie a Dio un aiuto, poiché così sono potuto andare nei campi di concentramento ad aiutare tutta quella gente.
Dissi a padre Gaggero: “Getta tutto quando arrivi alle Semirurali, dentro i giardini, dentro le casette, qualcuno li raccoglierà, se è onesto mi riporterà il malloppo e se no servirà a quella gente”. Credendo che si trattasse della solita perquisizione, padre Gaggero invece portò il plico, tutti loro furono completamente perquisiti, e il malloppo uscì fuori. Fece un grande errore, e disse: “Me l’ha dato un cappellano militare italiano”. Ero io il solo dei cappellani militari italiani, ero cappellano dei vigili del fuoco, hanno fatto presto a trovarmi.
Quando sono venuto a conoscenza di questo, mi si sono presentate due soluzioni: la prima, di andare all’Adige, cioè fingere di gettarmi nel fiume e lasciare un biglietto d’addio: ma avevo due fratelli che lavoravano alla zona industriale, allo stabilimento Lancia, e senz’altro o loro o i miei genitori sarebbero stati portati in campo di concentramento. La seconda soluzione era quella di fuggire, ma, come nel primo caso, sentii una voce che mi disse: “Coraggio, vai avanti, avrai da soffrire molto ma tutto finirà bene”. Perciò tutta la notte non pensai ad altro che a far sparire dalla mia camera tutti i documenti; rimasero soltanto gli elenchi di presenza e di assenza dei chierichetti. Quando perquisirono la mia stanza e trovarono su questi elenchi un più in rosso e un più in blu, li interpretarono come liste di partigiani, ma io dimostrai loro che uno dell’elenco non aveva nemmeno 12 anni. Ricordo di aver fatto sparire durante la notte tutto quanto era compromettente. E così arrivò il mattino del 2 novembre, giorno della commemorazione di tutti i defunti.

D: Di quale anno stai parlando?

R: Del 1944.

D: Quindi quella mattina andasti a celebrare la messa?

R: Sono andato a celebrare le tre messe dei defunti. Alla seconda messa ho visto un ufficiale della SS e due guardie locali della SOD (Sicherheitsordnungsdienst) ahi ci siamo! Terminata la seconda messa, mi sono recato in confessionale. Si sono avvicinati, hanno aperto la tendina, “Raus!” fuori! e subito mi hanno portato nella mia abitazione. Hanno osservato a destra e a sinistra, e hanno osservato bene perché mi hanno fatto sparire – l’onestà del Terzo Reich era tutto quello che di bello c’era – particolarmente una bella radio Grundig, di valore. È partita la macchina da scrivere, è partita anche la bicicletta, che poi recuperai dopo la guerra, poiché l’avevano data ad un’impiegata della SS.

D: Ti hanno arrestato in quella circostanza?

R: Eh sì, e sono finito subito nel sotterraneo del Corpo d’Armata. Là rimasi chiuso tutto il giorno, ma fortunatamente avevo portato con me una borsa, l’avevano controllata, e c’era dell’ottimo strudel. Venne la notte, ero nel deposito del carbone, l’ho sistemato a forma di letto e ho dormito da prete, grande grazia del Signore. Alla mattina venne un bravo uomo non SS ma anziano, e mi diede uno spintone credendo che fingessi di dormire. Mi sono svegliato e siamo andati agli interrogatori. Io non parlo di torture perché la tortura più grande era la paura di dover parlare, allora giurai in partenza di non rispondere, e ad ogni domanda che mi rivolgevano io rispondevo: “Ich weiß es nicht” (Io non lo so). Dissi che quello che avevo fatto nel campo di concentramento era una cosa autorizzata da Verona, ed era vero, anche se non in quel modo, e che questa autorizzazione si trovava presso un sacerdote cappellano delle carceri. Un’ora dopo me lo vidi, anziano poverino, comparire davanti! Fortunatamente lui presentò questo permesso.
Ricordo un fatto terribile: dentro nel campo di concentramento c’era il famoso dottor Lepetit, che era stato arrestato a Milano e portato nel campo di Bolzano. Gli avevano detto che se avesse portato nel Lager una farmacia con molti farmaci avrebbe fatto il farmacista e sarebbe rimasto fisso a Bolzano. Quando tutto fu portato a cura del povero Lepetit, egli partì per la morte; io feci l’impossibile per fargli coraggio, gli dicevo sempre: “Tutto passa e si scorda, anche Hitler col suo partito”, ma lui negava. Forse perché nella sua vita aveva fatto sempre un lavoro di concetto e non aveva mai provato quello che abbiamo provato noi cappellani militari nell’esercizio del nostro ministero di assistenza ai soldati. Noi non vogliamo nessuna guerra, né l’abbiamo fatta, eravamo solo per l’assistenza, e spesso ho cavato fuori dalle macerie, come cappellano dei vigili del fuoco e comandante, anche tedeschi, e li ho salvati.

D: Dopo il Corpo d’Armata dove ti hanno portato?

R: Dopo il Corpo d’Armata mi hanno portato al campo di concentramento di Via Resia.

D: Ti avevano lasciato la veste talare?

R: Tutto, tutto. Allora ebbi un sentore. Fui chiuso subito nelle famigerate celle e capii che ero destinato ad altra sede. E venne il giorno.

D: Nel campo di Bolzano quanto tempo sei rimasto?

R: Vi sono rimasto tutto il mese di novembre. Venne il famigerato trasporto. Mi hanno dato le vesti sacerdotali e siamo stati condotti alla zona industriale, proprio di fronte allo stabilimento Lancia. Ho avuto dagli operai dello stabilimento Lancia l’ultimo saluto; a loro dissi di dare notizie ai miei fratelli e di andare a casa mia a portar via tutto quello che di bello e di buono c’era, e sono riusciti.
Una cosa è interessante: coloro che mi arrestarono, sulla porta della mia abitazione mi fecero scrivere “Torno subito / ich komme bald”, e da allora incominciarono a parlarmi in tedesco.

D: Del tuo trasporto cosa ricordi? In quanti eravate sul vagone?

R: Eravamo il solito vagone bestiame. Qualcuno è riuscito a segare le assi e a gettarsi dal vagone, alle fermate o durante i rallentamenti. Però ricordo un fatto che è una meraviglia: a Innsbruck sono riuscito ad avvicinare una persona dal finestrino, gettare un biglietto per annunciare alle mie due zie, Maria e Pia ambedue sposate a Innsbruck, che ero diretto alla destinazione che ero riuscito a leggere scritta col gesso sul vagone bestiame: “Mauthausen“.

D: Ricordi quanto è durato il viaggio?

R: Il viaggio è durato un giorno e una notte, poi siamo giunti alla stazione che serviva Mauthausen. Lì siamo stati scaricati dai kapò in maniera bestiale, e diretti a piedi al campo di concentramento. Dopo la solita storia di depositare, controllare, dare i dati, i vestiti ed anche i soldi che avevamo addosso, ecco che ad un certo punto io mi trovai nella zona di quarantena. Lì alla mattina la solita conta al freddo, batteva ormai il vento lassù nella famigerata rocca di Mauthausen.
Il nome vuol dire dogana, Maut è dogana, Haus è casa, casa della dogana: la navigazione sul Danubio si fermava lì dove a valle c’erano il controllo e la dogana.

D: Anche tu come gli altri deportati hai subito la spoliazione e la rasatura?

R: E abbondante perché, se purtroppo ne ho pochi in testa, ne avevo tanti sul corpo. Con dei rasoi che erano dei seghetti, con poco rispetto della dignità. Quando poi penso che i kapò era gente che era stata fatta a sua volta prigioniera, e, come è avvenuto nel campo di concentramento di Bolzano, sono poi passati ai tedeschi, la cosa era veramente umiliante. Per me l’umiliazione è sempre stata la peggiore e la più profonda pena, perché a mano a mano che il rasoio passava su di me, io pensavo ai kapò.
Un giorno si presentò un giovane, di cui fornisco particolari perché sarei contento se si facesse una ricerca in quel di Trieste. Mi disse: “Io qui nel campo di concentramento sono Oberschreiber: scrivo, annoto, sono triestino, cresciuto nel collegio di un istituto salesiano; si fidi di me perché c’è la possibilità di trasferire da Mauthausen a Dachau tutti i sacerdoti che sono residenti. Mi faccia un elenco.” Quella famosa notte non dormii, ma alla mattina mi dissi: “Giochiamo!”, e gli consegnai l’elenco. Noi sacerdoti siamo stati subito di nuovo vestiti coi nostri abiti, anzi ci hanno messo come divisa i vestiti della campagna di Russia della Prima Guerra Mondiale, che puzzavano maledettamente di naftalina. Alla stazione ci hanno messo sul vagone di un treno normale Vienna-Dachau, o meglio Vienna-Monaco.

D: Don Guido, ricordi il tuo numero di matricola di Mauthausen?

R: No.

D: Assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: Il famoso triangolo, eccolo qui. Non l’ho voluto ricordare perché voleva dire essere ridotti come gli animali. La verità è che il numero originale l’ho dato per una mostra, ma quelle mostre sono mostri e nulla mi è più tornato indietro.

D: Assieme a te, quando hai compilato l’elenco dei sacerdoti a Mauthausen, hai messo solamente gli italiani?

R: No no. C’era anche il cardinale Beran, che allora era monsignor Beran, ed era nel campo di concentramento ancora dall’occupazione della Cecoslovacchia; era assistente spirituale degli universitari, e a resistere ai nazisti a Praga gli ultimi sono stati gli universitari. Sono stati fatti prigionieri e poi portati nel campo di concentramento. Però avevano un beneficio: ricevevano pacchi dalla Cecoslovacchia.

D: Ricordi qualche altro sacerdote che era con te a Mauthausen?

R: Al momento non potrei dire. Ci ripenso.

D: Quindi ti hanno portato alla stazione di Mauthausen e ti hanno caricato sul treno, non più sui vagoni bestiame.

R: Era un treno normale che fermava nelle varie stazioni; giunto in quel di Monaco, il vagone finì a 24 chilometri da Monaco, dentro il campo di concentramento di Dachau. Il campo di concentramento di Dachau era un campo di coltivazioni, come si direbbe oggi. Durante la Prima Guerra Mondiale avevano portato dalla Selva Nera tanta terra nera; lì c’erano le cosiddette Gewächshäuser, cioè delle vere e proprie serre. Adesso se volete vi posso dire chi lavorava particolarmente in quelle serre: i sacerdoti. Nel campo di concentramento vi era infatti anche un convento intero di benedettini, dal padre portinaio fino all’abate, che si distinguono nello studio e nelle ricerche di nuove piante e di nuove, diciamo, coltivazioni. Lì dentro eravamo adibiti al lavoro. Volete che vi racconti anche che cosa si faceva lì dentro? Si celebrava la messa. Avevamo una specie di cassa come quella della frutta, e vi avevamo nascosto tutto il necessario per celebrare la messa; noi si lavorava a curare le piante ed a trapiantarle mentre l’altro celebrava la messa; alla fine si faceva la comunione. Un bel giorno capitò uno della SS e trovò che le varie piantine non erano state mosse, ma una invece era stata nascosta. Appena si sentì la porta aprire, mi disse: “Tu maledetto, guarda, non hai fatto niente!”, e io risposi: “Mi scusi, ma quelle sono le piante riservate ad un altro e lui le deve curare”; così ce la siamo cavata. Volete anche qualche cosa sul famoso Plantage? Alla rivendita delle piante e dei vasi veniva sempre una Fräulein in bicicletta; veniva da un istituto di suore. La Fräulein arrivava e comprava. Alla rivendita erano addetti sacerdoti polacchi, e con domande e strategie capirono molte cose. Così fecero un doppio fondo nel cestino della Fräulein e di lì entrarono le ostie, il vino, anche l’olio per la consacrazione di un vescovo, che era uno jugoslavo.

D: Quando siete arrivati da Mauthausen a Dachau, eravate tanti sacerdoti?

R: No, eravamo un vagone. E in quel vagone è avvenuto quel che non doveva avvenire. Io avevo le mutandine corte per paura dei pidocchi, e il povero monsignor Beran si era portato sette paia di mutande di lana, sette paia! Quello della SS imprecò: “Maledetto, guarda quello, che ha le mutandine e tu invece hai tutto questo. Dov’è la tua carità cristiana?”. Mi ordinò di bastonarlo, lo feci con poca forza, e lui mi disse in latino: “Non suaviter sed fortiter”, perché se erano deboli, i colpi non venivano contati, cioè “non soavemente ma forte”, così gli diedi sette colpi forti.

D: Tra i sacerdoti italiani c’era per caso don Valota con te?

R: Sì, don Valota.

D: L’elenco era molto lungo?

R: Era molto lungo, perché vi erano molti sacerdoti, anche belgi e del paese del Papa, polacchi. Finimmo tutti nel Block 26, di cui metà era usata per soggiorno nostro.

D: Guido, ti ricordi se c’era con te anche Don Crovetti?

R: Don Crovetti, sì.

D: E c’era anche qualcuno di Bologna?

R: Anche. E’ una cosa che non dovrebbe essere ma il tempo, ringraziando il cielo, cancella.

D: C’era anche don Paolo Liggeri?

R: Don Paolo Liggeri, che poi tornò in quel di Milano ed ebbe una grande missione.

D: Quando siete arrivati a Dachau avete subito un’altra spoliazione?

R: Sì; il guaio è stato quello che avevano diffuso la voce di stare attenti perché dopo la doccia avrebbero mandato dentro il gas. Per delle ore ci lasciarono nel locale dopo la doccia, fortunatamente soffrimmo tanto il freddo ma non avemmo la condanna al gas. Io anche in quella occasione sono finito in quarantena. Il giorno preciso dell’8 dicembre, giorno dell’Immacolata, dopo l’appello, si avvicinò a me un sacerdote, il caro canonico rosso. Era redattore del giornale Dolomiten, che era un settimanale di lingua italiana e tedesca. Dopo l’8 settembre (1943) andò in ufficio, e subito fu preso e portato a Innsbruck poi nel campo di concentramento di Dachau.

D: Ti ricordi come si chiamava questo sacerdote?

R: Aiutami.

D: Don Rudolf.

R: Rudolf Posch, Rudolf Posch.

D: Di dove era don Rudolf Posch?

R: Rudolf Posch era proprio bolzanino, e aveva un altro fratello sacerdote, monsignore.

D: Prima accennavi al blocco 26 di Dachau. Nel blocco 28 chi avevano concentrato?

R: Praticamente di fronte al nostro blocco, nel blocco 27, c’erano jugoslavi. Alla fine i tedeschi se la prendevano con tutti coloro che avevano rallentato la loro marcia e la possibilità della loro finale vittoria, e volevano anche giustiziare i deportati jugoslavi. Noi italiani avevamo la “I” di Italia a forma di colonnina, loro avevano la “J” di Jugoslavia con un riccetto: io ho fatto tagliare il loro riccetto e sono diventati italiani.

D: Quando dici che celebravate la messa al Plantage, intendi dire che lo facevate di nascosto?

R: Senz’altro, come avevamo tutto clandestinamente. La ragazza poi è diventata suora e c’è anche un film su questo fatto tedesco molto importante ed interessante. A noi è andata sempre franca.

D: Anche in baracca celebravate messa?

R: Sì, avevamo una vera cappella, anche se povera; quando è stato consacrato il sacerdote deportato, malato di tbc, avevamo il pastorale in legno e l’ostensorio in legno, erano meravigliosi! Lì abbiamo deciso quello che è poi stato l’esito del Concilio Vaticano II. Abbiamo infatti deciso che, finita la prova e se il Signore ci avesse dato la grazia di poter ritornare a casa, allora avremmo unito tutte le vere fedi in un solo sforzo per ricordare che, se in nome di quel Cristo e in nome di Dio eravamo stati nemici, avremmo dovuto creare una nuova Europa.

D: Oltre ai cattolici nel blocco 26 e nel blocco 28, c’erano anche appartenenti ad altre religioni deportati con voi?

R: Sì, specialmente erano da notare i protestanti e poi quelli della nuova religione cecoslovacca, che cioè avevano aderito al regime comunista.

D: Voi sacerdoti deportati portavate la zebrata?

R: Eh sì, quello era il distintivo. Un fatto è interessante, che è valso poco per don Guido, ma quelli che più erano propensi alla fuga, ovvero i russi e gli italiani, venivano rapati con un rialzo, e poi in mezzo alla testa vi era una striscia rasata a zero che noi abbiamo soprannominato l’asse Roma – Berlino.

D: Don Guido, c’era qualche differenza tra voi sacerdoti deportati e gli altri deportati?

R: Sì.

D: Nell’alimentazione?

R: No, non nell’alimentazione, che era in mano ad un capoblocco, sacerdote pure lui, e che faceva i controlli del mattino e della sera. Sono arrivato al punto di ottenere che se uno aveva 40 gradi di febbre non doveva essere portato fuori e il Blockältester, cioè il sacerdote capoblocco diceva: “Più uno che ha la febbre”. Così abbiamo evitato, almeno per la nostra baracca, di portare fuori i moribondi.

D: Ricordi altri sacerdoti italiani con te nel blocco 26?

R: Sì, purtroppo quel povero padre milanese che è arrivato pieno di pidocchi. Era confessore. Lo conoscete, lo avete trovato? Era a Milano in duomo, proveniva dalla Val di Non.

D: Forse padre Giannantonio?

R: Padre Giannantonio. Ebbene era distrutto dai pidocchi, lo abbiamo aiutato. Quando uscivamo al lavoro, eravamo bestie da macello. Come tutti. Quando eravamo dentro…credo che ci sia stato anche un miglioramento perchè a un certo momento hanno chiamato sacerdoti che si trovavano dentro al campo di concentramento, ma le loro parrocchie erano ai confini della guerra russa che avanzava; venivano lavati, con doccia e bagno, e rivestiti e mandati ai loro paesi, per far vedere che non li avevano uccisi e si poteva mettere a tacere qualcosa.

D: Don Guido, ti ricordi di don Fortin?

R: Anche di Don Fortin.

D: E di padre Manziana?

R: Padre Manziana, poverino, in che stato era ridotto! Ricordo anche padre Girotti, il grande domenicano, il quale teneva conferenze che erano qualche cosa di stupendo e di meraviglioso perché era uno dei commentatori ufficiali della sacra scrittura, credo dei salmi. Anche quello in che condizioni. Se fossero rimasti in un altro blocco, Manziana e padre Girotti e altri sarebbero finiti male.

D: Don Aldrighetti te lo ricordi?

R: Come!? Chi dimentica Aldrighetti, che non capiva niente di tedesco, e mi stava sempre alla destra e a sinistra a chiedermi cosa avessero detto? Quando è stato il momento che gli americani hanno sfondato e sono sbarcati e hanno costruito il ponte, fuori a Dachau era una giornata di vento dalle Alpi Bavaresi e il discorso di Hitler era questo:”è un bene che gli Alleati siano sbarcati, perché oro sono più forti per mare e per aria, ma noi siamo più forti e fortificati: sbarcheranno 10 Alleati e ne annienteremo 100; 100 Alleati e ne annienteremo 1000; 1000 Alleati e ne annienteremo 10000 e così via.

D: Cosa ricordi della liberazione?

R: Della liberazione mi ricordo che abbiamo sentito sparare a salve da lontano i cannoni degli americani che puntavano su Dachau. Basta forni crematori per la povera gente! Bruciarono giorno e notte tutte le possibili documentazioni, tutti gli scritti, tutte le cose compromettenti, e girava per l’aria la carta bruciata.
La vergogna più grande era però questa: arrivarono nel campo di Dachau dei vagoni con dentro poveri figlioli che avevano come indumento una coperta con un buco, e basta. E basta. Dovemmo salire sui vagoni con le maschere, a causa dell’odore e del fetore, perché erano stati abbandonati a morirvi di fame e di sete.
Il giorno della liberazione fu intorno al 25 aprile, 27 aprile. Finalmente, alla mattina entrò un carro armato americano, sfondò il famigerato cancello dove era scritto Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) ed entrarono. Ecco che sulla torre di comando apparve un ufficiale che lesse queste parole e le tradusse in varie lingue: “Non è da discutere l’ordine: nessun deportato politico deve cadere vivo nelle mani degli alleati, usate qualsiasi mezzo, firmato Hitler. E tutti siamo rientrati nelle baracche avviliti. Io invece cantavo: “non hai sentito durante questa guerra, vedrai il giorno in cui ci sarà il crack. Ecco quale sarebbe stata la vostra fine, se la provvidenza di Dio non ci avesse mandati a liberarvi.” Poi incominciò a fotografare, recitò il padrenostro in diverse lingue, era cappellano militare, e alla fine gettò sigarette, confetti e biscotti, ogni ben di Dio dal comando. E lì in quel di Dachau, con il cardinale Beran, all’indomani fu eretto un grande altare e fu celebrata una grande messa di ringraziamento. Il cardinale disse queste parole testuali: “Confessando Cristo siamo entrati in questo campo di concentramento, dobbiamo essere pronti a ritornarci, se fosse necessario.” Così fu poi per lui, perché anche in seguito fu perseguitato e si dovette nascondere quando i russi giunsero a Praga.
Per finire, posso raccontare l’arrivo al Brennero? Arrivati al Brennero si diceva: “Giunti al Brennero, canteremo Fratelli d’Italia, Giovinezza – c’erano anche i nostalgici – Bandiera Rossa”. Io dissi: “Giunti al Brennero, canterò io!” E così, giunti al Brennero, andai al microfono e cantai: “Mamma son tanto felice, perché ritorno da te!”, e si fusero le lacrime e il canto.