Tibaldi Italo

Italo Tibaldi

Nato a Pinerolo (TO) il 16.05.1927

Intervista del: 11.04.2008 a Vico Canadese (TO) realizzata da Giuseppe Paleari

TDL:n. 215 – durata: 98′ circa

Arresto:a Torino il 09.01.1944

Carcerazione:a Torino

Deportazione:Mauthausen, Ebensee

Liberazione:06.05.1945 a Ebensee

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

 

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Mi chiamo Italo Tibaldi, sono nato il 16 maggio 1927 a Pinerolo in provincia di Torino. Mio padre era ufficiale di Cavalleria alla scuola di Cavalleria di Pinerolo; dopo il disgregamento dell’esercito mio padre si unì alle formazioni della Resistenza sopra la Val Maira nel cuneese. Io sono diventato automaticamente staffetta, andavo su Torino per riferire le attività della Seconda Divisione Alpina Giustizia e Libertà della Valle Maira.

L’impatto che mi ha portato all’arresto e alla deportazione è avvenuto il 9 gennaio 1944 quando scendendo a Torino per riferire a quelli che avevano la gestione anche economica della struttura sono stato fermato su una delazione, di cui sarò poi informato al rientro, pertanto, il mio arresto è stato molto semplice perché a sorpresa la cosa diventa molto semplice.

Devo dire che il fatto che il mio arresto abbia comportato delle conseguenze successive molto pesanti non era assolutamente nei miei ragionamenti; non pensavo assolutamente a quello che poteva avvenire, sapevo che scendendo dalla montagna, avendo questo tipo di discorso potevo essere richiesto e potevo essere approfondito per i compiti che venivano svolti in montagna.

Sono stato trasferito poi all’ufficio della SD dove c’era il capitano Smith che interrogava, era un dipendente delle SS e dopo il suo interrogatorio il giorno 10 sono stato trasferito al carcere Le Nuove di Torino.

D: Italo, scusa, chi ti ha arrestato, erano italiani o germanici?

R: Erano italiani ma in borghese e altra gente in borghese probabilmente germanici.

D: Tu eri armato?

R: Ero armato, avevo una gioiellino che consentiva lo sparo semplice e anche la raffica. Purtroppo non ho mai più trovato una macchinetta del genere, sarebbe stato un simpatico ricordo.

D: Quando dici che sei stato interrogato da Smith, è successo in un posto ben preciso?

R: All’Albergo Nazionale in via Roma a Torino dove ci sono le due fontane, al primo piano. Vi era già un bel gruppo quando sono arrivato, vi erano personaggi di tutte le categorie; questo ha comportato il fatto che per me fosse una grossa novità vedere gente in borghese, mi sembrava che arrivando da una zona di ribelli dovessimo essere tutti pronti, invece, persone molto a modo, così mi sembrava, erano state prese nelle aziende, nelle fabbriche, infatti vedrò poi anche nella deportazione che vi è un mondo sociale molto eterogeneo e tutte le categorie rappresentante.

Il trasferimento dopo l’interrogatorio che avviene alle nove e mezza di sera e che mi lascia abbastanza grondante di sangue perché cazzottamenti vari, mi comporta il trasferimento alle carceri Nuove, verso le nove e mezza, via la cinghia dei pantaloni, la cravatta, le stringhe delle scarpe e vengo inserito al n. 60 del secondo braccio.

Quando entro trovo già altre persone che mi accolgono anche con diffidenza perché così sistemato posso aver fatto pensare che fossi stato buttato dentro come un infiltrato. Quindi, ho vissuto lì tre o quattro giorni, perché sono partito il 13 mattina, in una situazione che era per loro e per me di disagio. Saprò poi che erano due appartenenti al partito comunista, Montrucchio e Porcellana, avevano messo della dinamite sul tratto che viaggiava sulla ferrovia che da Pinerolo portava a Lusello San Giovanni.

A Lusello San Giovanni nella Val Pellice vi era una sezione staccata della Microtecnica, quindi il compito era conseguente.

L’altro era un barbiere il quale dirà: “Non ho fatto niente, magari facendo una barba mi sono espresso in termini negativi e mi sono trovato deportato”.

Il 13 mattina verso le tre e mezza sentiamo aprire le celle, sveglia, alzarsi, scendiamo nell’emiciclo del carcere. Siamo in 45, mancano 5 persone e il fatto che avviene conseguentemente all’attentato fatto da Pesce a un gruppo di ufficiali tedeschi, c’erano stati anche dei morti, hanno calcolato che i cinque ufficiali erano 50 nominativi ed esce un bando dal comando di Torino che dice: “Saranno deportati”. Parlano per la verità di Koncentration Lager, nel senso del concentramento, l’operazione sarà poi un’altra perché diventiamo KZ, un campo di eliminazione, differisco sempre fra eliminazione e sterminio perché considero che l’eliminazione è più quella di Auschwitz che è diretta per nuclei famigliari, Mauthausen è un campo politico per cui il trasferimento ha un significato più pesante, vi è un problema di stare molto attenti nel campo per quanto riguarda le varie nazionalità e dirò anche il perché.

Nel carcere mancano cinque persone e vengono raccolti cinque nominativi che sono cinque ebrei, i due Segre, padre e figlio, Trevese, due fratelli e Diaz che vengono conteggiati quindi abbiamo raggiunto i 50 e il numero è completo.

Si parte per andare alla stazione Porta Nuova dal lato dove sempre vengono caricati i carcerati, sulla via Sacchi. Arriviamo alla stazione e veniamo messi su questo carro bestiame e lì vi era il campo di sorveglianza, la SS di Torino cede alla polizia di frontiera la responsabilità di questo gruppo.

Il gruppo viene messo sul carro bestiame, 25 su un angolo e 25 su un altro angolo, sistemano in mezzo una di quelle panchine che chiamo dei giardini perché hanno la spalliera doppia, due da una parte e due dall’altra con il Machinenpistolen, la voce è che tutti dobbiamo stare seduti, che nessuno si muova perché sono pronti per procedere.

Il treno viene spedito in termini molto veloci perché alle cinque e mezza finisce il coprifuoco, cominciano ad arrivare altri treni, altra gente e questo dà fastidio, questo che parte dal binario 19 è un vagone un po’ strano, ci sono strani destini al binario 19, poi spiegheremo.

Viene agganciato ad una linea per Milano, il percorso lo conosciamo ma lo vediamo quando siamo al Brennero dove arriviamo alla sera, quasi a mezzanotte. Già ci accorgiamo che a destra e a sinistra ci sono le SS che camminano davanti e dietro con i cani, quindi, non è vero che non ci sia stato durante il trasporto qualche tentativo per tentare una fuga.

Vediamo dal trasporto, è composto da gente non giovane, quindi, il ragionamento fatto dal più anziano ha il suo significato, cioè: “Guardate ragazzi che questi hanno i nominativi, le famiglie, fanno rappresaglie per cui è inutile che facciate dei tentativi”.

In questa discussione, “andiamo, non andiamo”, qualcuno dice anche: “Questi quattro ce li mangiamo”. Tenete conto che avevo sedici anni ma avevo lo spirito di chi scendeva dalla valle e avevo questa reazione, io e gli altri anche, quel gruppo di giovani, finisce per accettare questa soluzione e in questo modo passiamo il Brennero ed arriviamo verso le 11,30 del 14 a Mauthausen.

E’ una stazione di confine, una fine corsa, passiamo il ponte sul Danubio e arriviamo a questa stazioncina. Leggere Mauthausen a noi non dice nulla ed io contraddico tutti coloro che dicono “Io ero stato destinato a…” perché non c’è nessuna destinazione in origine, non sai mai dove vai a finire perché possono anche cambiare in corsa, arrivano a Monaco e invece che a Dachau mandano in un altro campo.

Qualche anziano ricorda che nel ’15 – ’18 esisteva già un campo militare, infatti, troveremo poi il campo militare dove ci sono le salme di alcuni militari, le targhette, dove sono stati aggiunti dei deportati che ancora non erano in condizione di essere rintracciati nominativamente.

Penso che l’arrivo a Mauthausen per noi crei non una novità da paese a paese ma crea novità il fatto che dobbiamo attraversarla, cittadina molto bella, oggi lo posso dire perché sono anni che ci ritorno con tanti amici, lungo il Danubio, posizione splendida, noi passiamo in mezzo alla strada centrale e vediamo queste persiane che si chiudono, vediamo questi momenti che ci sembrano strani, noi che siamo scortati stiamo camminando su cinque, questo è il termine che ci porteremo dietro sempre, quando entriamo, quando usciamo siamo sempre per cinque, ed è anche più facile contarci. Il trasferimento avviene partendo dalla stazione per salire su fino al campo, non è molto lontano tuttavia è in salita e qualcuno è in difficoltà, stiamo viaggiando con il sacco, la valigia, siamo a gennaio del 1944, con la neve anche discretamente alta per cui il percorso è difficile, con le scarpine che abbiamo ma sarà altrettanto difficile camminare con gli zoccoli sulla neve perché lo zoccolo in legno si attacca per cui cammini sempre in bilico.

Si arriva a Mauthausen e veniamo dati in consegna alla gendarmeria di Mauthausen. Entriamo nel campo e l’impressione che ho avuto io è quella di essere in difficoltà iniziale che è quella di capire dove sei perché vedi questa fortezza ma non ti rendi conto del significato, non ti rendi conto di queste baracche se non quando vedi venire avanti in mezzo al piazzale dell’appello uno di questi carri da cavalli, con la barra in mezzo tirata da gente che ha la casacca a righe e sopra questo carro sono buttati un mucchio di cadaveri per cui cominci a pensare che la vita sia un’altra cosa. L’impatto che hai iniziale è che potresti anche affrontare in termini di condizioni soggettivamente forti, poi ti trovi in un impatto dove resterai coinvolto, poi lo sarai decisamente e bisogna adattarsi ad imparare la vita del campo, non è più la tua possibilità o la tua soggettività che conta ma sei coinvolto, qui si parla di globalità e in questa globalità ci sono 23 nazionalità, quindi difficoltà di capire, difficoltà di immaginare e attenersi anche a un comportamento che sia consono al campo. Sembrerà strano questo discorso ma se non capisci il campo non ce la fai.

Penso anche che il fatto di avere questo impatto così immediato, così forte crea due momenti, una reazione che è abbastanza naturale, quella di dire ci sono ancora quindi forse reagirò e dall’altra cominci a pensare che devi acconciarti a questa situazione.

Il fatto di arrivare subito a questa scelta è quella che ti dà una motivazione in più per continuare, diversamente, dopo poco tempo ti accorgi che non saresti uscito.

Pertanto, entri, ci siamo messi in queste file da cinque, viene chiamato un interprete, c’è un ragazzo che conosce bene il tedesco, Renato Orniotti, il quale fa da interprete e spiega quello che il comandante riferisce: “Siete in un campo di rieducazione, quindi, saprete che siete entrati da quella porta e quasi sicuramente uscirete di là”. Quando dice uscirete di là istintivamente guardiamo ma forse pensiamo che vi sia un’altra uscita, non ci rendiamo conto di che cosa vuole significare questa cosa, poi ci accorgiamo che in quella direzione c’è il camino dei forni crematori e impariamo dove è l’uscita e per troppi sarà l’uscita. Siamo messi con tutto a terra, tutti puliti, nudi, andiamo sotto, ci fanno la doccia dopo di che passiamo su un banchetto dove c’è il barbiere che, povero Cristo, con questa specie di rasoio che ormai ha tutti i denti, ci toglie tutti i peli davanti e dietro, prende questa cosa lo bagna, poi ci dà una pennellata di creolina poi ti giri e te ne dà una di dietro, in questo modo sei disinfettato perché tutto può esserci ma tutti disinfettati e tutti puliti.

Penso che questo impatto comincia a dirci qualche cosa, comincia a farci capire che il mondo lì è un altro, ci sono altre risposte.

Attraversiamo la piazza dell’appello e arriviamo alla baracca di quarantena.

D: Scusa, Italo, dopo la disinfezione siete andati nelle docce?

R: Prima della disinfezione andiamo alle docce, dal Friseur, poi ci danno la pennellata e andiamo alla baracca e quando adiamo alla baracca di quarantena non ci sono …

D: Siete sempre nudi o …

R: No, la vestizione arriva nella baracca, io ho avuto così …. attraversiamo, siamo subito alla baracca e veniamo immatricolati e registrati perché in quella sede ci chiedono che mestiere facevamo. Lo scrivano della baracca penso che sia polacco e insiste nello scrivere, io dico “Studente” e lui mette studente, così come ho nel certificato, mette vicino “manovale”.

Io dico “Sono studente non sono manovale”, “Vai, vai vai”, mi dice, forse quel “vai” è stata la fortuna perché lo studente non si sarebbe certo salvato, il manovale in qualche modo era utile. Ci viene assegnata la qualifica con il triangolo rosso dei politici e la scritta che viene messa sulla matricola, sopra il triangolo rosso sulla giacca e anche sul pantalone dove abbiamo solo la matricola. Ci viene dato un cinghietto in ferro con una cosina molto leggera in lamiera con il numero di matricola, questo mi sarà tolto poi … mi viene assegnata la matricola, sono il 42307 di Mauthausen e mi porto questo triangolo rosso di politico fino alla fine.

Vi è l’ingresso in questa baracca che non ha i letti a castello, ha solo per terra dei materassini di iuta che sono pieni di segatura, una cosina molto leggera, molto piccola, siamo 50 quindi abbiamo una numerazione che parte da 42.000. Abbiamo prima di noi un trasporto arrivato da Roma, 40.000 di matricola che ha fatto un percorso un po’ strano, è partito da Roma, Valenzano, ecc. due o tre superstiti che sono rimasti, oggi dovrebbero essere cinque o sei e vi è un amico a Roma che sta facendo questa ricerca.

Ne ho contati 257 che sono quelli che da Dachau sono stati mandati a Mauthausen, partiti da Roma il 5 gennaio sono arrivati a Dachau il 7, sono stati mandati al Wäscheraum, senza immatricolazione e poi 257 di questi me li sono trovati nella immatricolazione di Mauthausen quindi li ho inseriti. Li troviamo nella baracca quando arriviamo alla registrazione; erano arrivati il giorno prima, per cui noi arriviamo il 14 e loro erano arrivati il 13, dirò che la registrazione viene poi rilevata dal campo il giorno 15, questo per dirvi che se qualche volta trovate delle date che spostano un giorno non impressionatevi perché basta che siano arrivati alla sera magari li mettono il giorno dopo.

Qualche volta sul problema della numerazione hanno dei dati previsti, prevedono un trasporto di 540 persone, mantengono 500 numeri vuoti per poi inserirli, questo vale per le donne che vanno a Flossenbürg, i 60.000 di matricola.

La vita del campo di Mauthausen: siamo in baracca, non usciamo, non abbiamo compiti esterni, non andiamo in comandi esterni, il 28 viene questo trasporto abbastanza pesante, circa 500 che andiamo a Ebensee, lo sapremo poi. Veniamo chiamati per matricola anche perché siamo dei pezzi ed è più facile contare i pezzi che non nomi e cognomi ed è anche più facile come tempo, vi è un problema sempre di tempo, tempo, dobbiamo sempre correre.

Arriviamo in questa cittadina, posizione stupenda, c’è il lago, una cosa veramente stupisce, che cosa andiamo a fare? Ci sembra una stranezza questo trasporto ma la stranezza è che andiamo verso la parte di montagna e lì costruiamo il campo, ci sono quattro baracche, è arrivato prima di noi un altro trasporto che comprendeva tedeschi, polacchi, jugoslavi. Ci facciamo il campo nel senso che ci costruiamo tutto, mettiamo su le baracche, facciamo la recinzione, facciamo le guardiole per il personale di sorveglianza e qual’é la destinazione di questo campo?

La destinazione è la velocità che bisogna assolutamente adoperare per fare delle grosse gallerie che consentano il trasferimento di materiale utile alla missilistica perché vi è stato il bombardamento di Peenemünde da parte della RAF, è Alto Baltico per cui il senso di studio viene smantellato da questo bombardamento della Royal Force quindi la necessità di trasferire questo materiale rimanente in altri campi.

L’idea viene automatica perché è l’ultimo campo, quello più a sud visto da Peenemünde e si trova quasi al confine con l’Italia perché Salisburgo è a pochi chilometri dal Brennero.

La zona è bellissima, noi siamo lassù in questa zona, ci costruiamo il campo, abbiamo pochi rapporti con la cittadinanza perché non abbiamo un transito continuo se non attraverso due strade che vanno direttamente alle cave e ci vedono andare avanti e indietro e non c’è nessun atteggiamento particolare anche perché in quel momento avevano paura delle SS non di noi che eravamo messi in una condizione di non nuocere.

Arriviamo alle gallerie e cominciamo questo lavoro che farò dopo due lavori esterni, un lavoro al comando legno, dovevamo tagliare le piante per pulire la roccia e iniziare a fare la galleria.

Il secondo lavoro sarà sempre in galleria e la vita in galleria ad un certo punto era fatta su tre turni, mano a mano che si finiva il turno si faceva l’esplosione, c’era il crollo, quando si entrava si puliva con la pala per mettere fuori e liberare la zona. Dovevamo sempre arrivare a fine turno per cui 24 ore e lavoravamo con dei mezzi non ancora automatizzati se non dei perforatori che arrivavano ed erano utilizzati con i fioretti per bucare la roccia e che erano ad aria e potevamo indirizzarli abbastanza e ci aiutavano a perforare.

Devo dire che nei primi tempi i buchi venivano fatti in modo diverso; ci mettevamo questa macchina in spalla in due, spingevamo in su e facevamo il buco oppure siccome lavoravamo a un piano che distava sì e no cinque metri dal piano del suolo e sopra mettevamo una tavola verticale in modo che ci permetteva di essere uno contro l’altro con la schiena appoggiati, quello davanti con i piedi guidava, indirizzava la macchina che faceva il foro, quello dietro spingeva.

Questo contatto creerà quella che chiamo “la globalizzazione della solidarietà” perché se così non fosse stato anche nelle piccole cose, le piccole cose sono grandi cose, teniamo conto che è uno sguardo, un modo di comportarsi, nel comando legno, dico una banalità, ma se vengono destinate quattro persone, due sono 1,80 e due sono 1,50 e quei due di 1,50 si mettono in mezzo non portano niente mentre se c’è una scaletta in qualche modo si cerca di portare un po’ tutti, anche perché parlare non ci capivamo per cui non dovevamo fare lunghi discorsi, potevamo solo indicarci sull’opportunità, normalmente si trovava una soluzione che consentiva a tutti quanti di fare la propria parte.

Avevamo anche dei casi dove la gente non intendeva, il più esposto normalmente era l’italiano perché è una figura che viene discussa … Avremmo dovuto discuterne prima di iniziare l’intervista, la figura dell’italiano è belligerante, gli iugoslavi che ti dicono “Perché siete venuti in Jugoslavia?”, i russi che dicono “Chi te l’ha fatto fare di venire in Russia?”. Vi è poi questa frammistione fra l’internamento generalizzato, sarà poi un internamento militare e poi ci sono i lavoratori militari in Germania che sono altre figure, è difficile per loro cogliere, capire, la domanda che corre è “Come mai ti trovi nel campo?”

Torno una sera in baracca come le altre sere avendo lavorato al comando legno, sono all’interno del campo e vengo destinato dal capo baracca ad andare a lavorare con un gruppo di russi che hanno uno di loro che non ce la fa più e rimane in baracca.

Io li conosco come russi perché loro hanno la “R”, quindi, sono politici, poi ci sono degli “SU” che sono della Repubblica Sovietica; forse non è nemmeno giusto dire repubblica ma chiamiamola così, sono termini impropri ma … pazienza.

Questo impatto mi crea il fatto nuovo di incontrarmi con gente che parla un’altra lingua, sono isolato e studiato, evidentemente hanno questa sensazione di questo individuo nuovo che si inserisce e non riescono a capire perché ma per me è una normale sostituzione, non ho scelto, mi hanno buttato lì e vado, non puoi dire al capo “preferirei andare …”.

L’atteggiamento iniziale è di studio e io che sono il più giovane del gruppo non ho che da ubbidire, quindi, capito con la schiena con uno, un’altra volta sono io a spingere.

Dopo qualche tempo, abbastanza breve, vedevo che quello che avevo di schiena voleva parlare, anch’io ma … dice di essere stato in Italia, di essere stato a Roma, probabilmente, una persona che faceva parte di certi servizi che già avevano anche loro, scatta questo meccanismo strano per cui la domanda loro viene abbastanza immediata “Perché sei qua?”

Subito non ho una risposta perché mi sto chiedendo perché questo chiede “Perché ci sono, loro perché ci sono?”

Se me lo ha chiesto ci sarà una motivazione.

Dopo qualche giorno la domanda ritorna più sostanziosa “Mussolini, Badoglio, che cosa sei, con chi sei?” … “Non sono né con Mussolini né con Badoglio, sono un partigiano …. “

“Partisan” è un temine che impressiona e lascia sorpresi nell’interpretazione, noi li conosciamo i partisan, i russi li avevano avuti, sapevano come si erano battuti, Stalingrado, sapevano molto bene ma questa parola non riuscivano molto a … partigiano dove, quando?

Cercavo di spiegare che non essendo né questo né quello eravamo un’altra cosa, combattevamo il nazismo, loro hanno chiacchierato, è passato di nuovo qualche giorno e ho avuto la sensazione che per me era naturale, potevo dirla subito ma non ho mai pensato che potesse avere un impatto del genere, li ha molto interessati e ho visto un cambiamento di comportamento. Sono diventato il piccolo italiano, sono stato inserito in questo inserto e devo dire che mi sentivo protetto anche perché non dimentichiamo che i russi hanno pagato molto, i russi nel campo erano i russi ma la verità vera è questa, i tedeschi, i Kapò nel campo quando avevano a che fare con i russi avevano dei seri problemi perché avevano la velocità di espressione, tu oggi sei Kapò ma domani …. questi atteggiamenti erano molto pericolosi.

Ho creduto questo che sta avvenendo, a un bel momento non avremmo più parlato e la mia esperienza rimane la mia esperienza, finito e chiuso, ma se parlo noi c’eravamo, ecco il perché del discorso di cercare, approfondire, trovare, perché l’esigenza era di dire che eravamo tutti insieme, vi è stato anche un momento di pressione come succede in quelle condizioni dove ti abbruttisci a un punto tale per cui non ti rendi conto se sei o non sei perché il discorso della sopravvivenza ti pone dei vincoli precisi, cioè dire che puoi anche sopravvivere ma hai il dovere di essere uomo, avere un minimo di dignità e questa ritengo che sia una necessità primaria.

D: Vieni accolto nel gruppo dei russi …

R: Nel gruppo dei russi, cambia l’atteggiamento e durerà fino alla liberazione, il 6 maggio 1945, l’ultimo campo liberato, abbiamo il terzo cavalleria meccanizzata con il Capitano Timothy, con i due sergenti che entrano con l’auto blinda.

I russi mi hanno accompagnato fino alla fine e a loro devo anche un pezzo di pensiero, di ricordo perché la liberazione è una sola, se non è corroborata da tutti non ce la fai, non ti puoi salvare da solo, egoisticamente potresti pensare anche così ma quando ti accorgi che quando il campo è aperto per tutti siamo tutti pronti ad uscire ma non abbiamo la capacità, non abbiamo la forza, perché quando arrivi a 36 kg, tubercolosi polmonare bilaterale non hai nemmeno la forza di stare in piedi ma devi pensare che se sei arrivato fino a lì forse riuscirai ancora ad arrivare più avanti e ad andare a casa.

D: Avete costruito il campo di Ebensee, contestualmente oltre alle baracche avete costruito anche il forno?

R: Sì, il forno giù in fondo, l’ho indicato anche in quella piantina che ho fatto, ho rifatto in assonometria perché originariamente ho fatto anche il geometra, tanti destini in questi mestieri, adesso vi porto indietro poi vado avanti poi ti arrangi tu a collocare i pezzi …. il problema è che quando ho fatto il geometra nel Comune di Torino e mi hanno dato una zona un po’ in periferia, molto bella, ho seguito due scuole, poi mi hanno mandato al teatro Regio che è stato per me il biglietto da visita che mi porto dietro perché di teatro Regio se ne fa uno solo con un pazzo come l’architetto Monlino che è un personaggio eclettico e dice “Posa la macchina che prendo l’elicottero”, sono grato a tutti perché ho imparato sempre qualche cosa.

Vengo destinato in un momento di ferie alla zona centro dove ci sono le carceri, vado in Segreteria dal Direttore che mi dice: “Geometra se ci vediamo perché abbiamo alcuni servizi, la manutenzione ordinaria la fate voi, la straordinaria la facciamo noi, se potete darci una mano”. Dico: “Va bene ma è importante che parli prima con l’ingegnere perché voglio capire bene”. Parlo con l’Ingegnere Brizio e l’Ingegnere Capo Piasco e dico: “Ingegnere non si offenderà, vado dove vuole, faccio anche il giro di tutte le zone ma non mi mandi alle carceri perché è un ricordo troppo sulla pelle”. “Non ci abbiamo pensato!”, “Non potevate pensarci ma siccome ho transitato in quel luogo in condizioni un po’ diverse abbiate la bontà ….”

Per dire il destino, come il binario 19 è il binario che viene da Torino-Ivrea, come il discorso di dove sono stato portato subito quando mi hanno arrestato, alla caserma del genio che è diventato l’ufficio leva, passano gli anni, nel 1980 il Sindaco porta giù i ragazzi della leva e dove vado a finire? Vado a finire lì dove mi hanno portato qualche anno prima, ci sono delle botte di destino …

Primo incarico al Comune di Torino, Ispettore ai mercati generali … ero impiegato giornaliero, mi chiama il capo del personale e dice “Tibaldi lei è nelle condizioni ideali per fare questa funzione, faccia un salto ai mercati generali e dia un’occhiata”. Arrivo ai mercati generali, c’è una tettoia grande e sotto ci sono montagne di patate, e altre patate buttate lì, devo dire che gli impatti nella vita quando non hai più visto le patate, vedevi qualche volta la pelle, arrivi lì e vedi le montagne, allora dico che il mondo mi sta dando tanti di quegli schiaffoni che non finiranno mai, il destino ti porta queste cose.

D: A proposito di patate, nel campo l’alimentazione come era?

R: Il problema è che si tratta di fare la corsa alla gamella che è quella che hai dietro il sedere che hai appesa con il gancio che è questa di ferro smaltato rossa, con questa vai per prendere la zuppa che è un momento interessante e preoccupante per tanti versi perché quando entri e vedi il bidone in fondo cominci a metterti in fila e finisce che i primi non vogliono andare avanti perché prendono l’acqua, gli ultimi non vogliono stare indietro perché non prendono più niente, vedi che questa fila si spancia nel mezzo, a questa altezza tutti che spingono e gli altri che rallentano per cui si forma questa fascia che è feroce nel senso che sono quelli che sperano di beccare metà bidone.

Ti metti in questa cosa e vai avanti lì e ti arriva quello che ti arriva sperando che vada bene. Qualche volta c’è la fettina di pane, la domenica c’è il pezzettino di margarina, c’è questa specie di brodaglia non capisci bene se vuole essere un caffè o che cosa, le calorie sono talmente basse per quel tipo di lavoro, ma se vuoi la gente che lavora devi dagli da mangiare, non puoi pretendere di fare questi lavori pesanti. Cominci ad alleggerirti, ti inventi qualche cosa, mentre becchi il vagoncino che va ad attaccare i vagonetti dentro la galleria a lato hai i ciuffi d’erba, raccogliamo questa erba; lateralmente le locomotive hanno queste come dell’acqua, mettiamo questo batuffolo di erba dentro l’acqua, quando ha fatto due volte il tragitto è cotta per cui siamo dei furbetti, poi prendiamo dei pezzi di roccia che hanno sopra una patina che sembra margarina, la puliamo bene solo che questa ci crea nello stomaco un canale perché siccome è grassa, ha una funzione solo di riempirti la bocca, alla lunga questo sarà quello che creerà le grandi dissenterie per cui diventa un tubo solo, butti giù un bicchiere d’acqua e già va.

La vita del campo di Ebensee è una vita che non vivi perché non ci sei, alla mattina vi è sempre qualche problema perché o la visita dei pidocchi o qualche altra storia, a qualcuno mancano gli zoccoli, comincia che quelli che sono in condizioni così tolgono il nastrino e gli scrivono sulla pelle il numero di matricola e lo mettono fuori così già ci sono i gradi che ci sono e sei sicuro che rimane lì, quindi si alleggerisce il peso.

Alleggerendo il peso delle presenze, parlo di materiale umano in termini molto semplici. Per largo tempo noi subiamo i triangoli verdi che sono i delinquenti comuni, per la maggior parte tedeschi, qualche polacco, sono quelli usciti dalle patrie galere che avevano commesso uxoricidio o parricidio, cose di questo tipo, condannati a trent’anni ai quali è stata data un’ipotesi alternativa. Avevano una baracca con 500 persone, la gestivano, la dovevano mantenere in ordine, puntuale, precisa; la gente mangiava, dormiva, erano fatti del capo blocco, la gestivano come volevano, li legnavano, li ammazzavano, facevano quello che gli pareva ma dovevano tenerli sempre in ordine, funzionali che devono lavorare, soprattutto puliti, la pulizia prima di tutto.

Questo crea quel massacro che succedeva anche nei blocchi. Non si possono ricreare i gruppi nazionali perché sono fraintesi con gli altri, non solo, ma l’esigenza di non aver messo solo un gruppo nazionale nel blocco è dato dal fatto che lì forse si può studiare la fuga mentre se siamo blocchi di nazionalità diverse come dici a un russo “Andiamo via”?, Anzi, devi stare attento che la frase non circoli, ci sono anche questi timori e loro opportunamente fanno in questo modo di frammischiare le lingue per cui nasce il glossario del campo, questo linguaggio interno che è fatto un po’ di tutte le lingue dove abbiamo i termini più strani e dove ci sono poche parole e tanti sguardi.

Un’esigenza era quella di non lavorare, di osservare molto, di stare sempre con gli occhi aperti; purtroppo, tante volte non te ne accorgevi, ti arrivavano dietro e ti legnavano ma ogni minuto che guadagnavi era un minuto guadagnato.

Poi ci si accorgeva che si andava verso la fine; abbiamo lavorato come matti per andare avanti in queste gallerie, quando si usciva dalle gallerie si era distrutti la polvere rimaneva sui polmoni e di qui il fatto che tornando molti di noi sono andati al sanatorio.

L’operazione in galleria ha però un vantaggio, sembra strano, perché lavorando a 5 mt. e di notte quando la SS entra di là, con il cane, tutto bello pulito, gli apri l’aria per la nuvola di fumo e tu vedi la SS e lui non vede sopra, il cane le scale non le sale perché sono a pioli quindi è difficile, è un modo per salvarsi.

Questo per me è un nucleo molto importante, devo dire che ci si rende conto piano, intanto arrivano i pezzi per i missili, la zona dove fanno l’acqua sintetica, cercano di portare laggiù quello che loro hanno perso a Peenemünde. Arriva anche un gruppo che arriva da Sachsenhausen che viene direttamente a Ebensee e vengono poi mandati a Redl Zipf che sono quelli che fanno le monete false, un gruppo di falsari, poi ne conoscerò uno alla fine, l’ho visto ancora due anni fa che dice: “Io non esisto, non mi chiamo, mi chiamano gli altri e io mi chiamo “nessuno”, con delle mani d’oro che fanno queste monete intanto per poterle buttare sugli altri mercati, gli inglesi fanno monete inglesi, il discorso della moneta buttata in un discorso di questo tipo vuol dire falsare anche tutti i problemi economici.

Cominciano a passare come delle rondini sulla testa, apparecchi, le fortezze volanti che cominciano ad andare, vanno avanti e vanno a finire su Vienna, vanno a bombardare un po’ dappertutto. Ad un certo punto ti accorgi che il giro diventa quasi continuo perché si muoveranno con gli americani di giorno, questo è uno studio che ho visto dopo, e con gli inglesi di notte. Difficilmente gli americani viaggiavano di notte,gli americani avevano i grossi bombardamenti, gli Spitfire, i più piccoli giravano di notte perché facevano opera diversa come quella del lancio dei manifestini a firma di Truman, Stalin, Churcill che dicono negli ultimi mesi: “Attenzione perché vi consideriamo criminali di guerra, quindi l’umanità che avete a vostra disposizione salvatela, stati attenti”; cercano di intimorirli anche in questo modo e fanno capire che hanno finito.

Queste cose le recepiamo anche dall’atteggiamento del personale civile che ci segue nelle gallerie perché lì ci sono le ditte che ci hanno affittato, chiaramente il costo nostro non lo ricordo più, la trattativa avviene sempre con la società della SS per questi compiti e noi lavoriamo alla dipendenza di un Meister che ha premura perché viene sollecitato, trasferisce al Kapò questa sua esigenza, le SS invitano il Kapò a reagire e il Kapò mena anche perché deve far vedere alle SS che lui c’è. Qui nasce il discorso del rapporto tra le SS e il Kapò e i deportati; nei processi la SS dice: “Noi non eravamo nel campo, eravamo attorno al campo, facevamo sorveglianza”. Questo è falso primo perché ogni blocco aveva un responsabile delle SS che faceva la conta e parlava con il Kapò. Poi vi era l’appello e quando c’era l’appello c’erano tutti. Loro tentano questo marchingegno che non riesce, il Kapò si trova nella condizione che avendo accettato una soluzione deve comportarsi di conseguenza, non dico che lo giustifico ma dico che se già poteva maltrattarci in un modo, ci maltratta di più perché davanti alle SS doveva far vedere che è uno che osserva quello che gli è stato imposto, quindi, chi prende le legnate è sempre il deportato, non ne prende una ma ne prende 25 per volta che non sono date sul sedere perché forse le avresti anche accettate meglio, ma sul fondo schiena, cioè sui reni; quando le becchi sui reni ti alzi e fai la pipì con il sangue, non vi è altra soluzione perché i reni si sfasciano, le becchi una volta, le becchi due, la terza volta non ti tiri più su.

Il fatto è che ti corichi, ti metti giù e comincia questa legnata,le contano, tu le conti, quando hai finito ti tiri su, dici “Grazie”, atto più distruttivo che puoi dare perché già non ce la fai più e devi anche ringraziarli e da quel momento pensi di essere tranquillo per una qualsiasi stupidaggine. Quando hai il castello a tre piani, dormiamo tre per letto, due se siamo più fortunati, quindi due di piedi e uno con la testa, quello che è sull’ultimo piano quando deve salire mette i piedi sul primo, quindi nel salire schiaccia quel letto che non è a posto, quindi guai a prendere un letto a terra. Prendere un letto sopra: non aspettano tanto, ti chiamano due volte e poi ti tirano giù e vai per terra da due metri e mezzo. Se imbocchi il letto di mezzo sei controllato perché è chiaro che se ti muore uno vicino e sei nel letto di mezzo non puoi non dirlo, se sei lassù mangi anche la sua parte poi cerchi di andare avanti … lo dico onestamente: mi trovo una zuppa in più la mangio, vado a prendere le legnate ma intanto mangio. Queste cose sono quelle che ti fanno pensare che, comunque, forse più umanità si salvava, se ci fosse .. se ci fosse … 63 anni dopo parlarne con disinvoltura vuol dire anche fare a se stessi un grosso impegno perché onestamente la memoria tradisce tutti e tradisce anche te. La prima domanda che ho fatto non più tardi di 15 giorni fa che ero a Saint Vincent e ho incontrato i ragazzi, ho chiesto “Credete alla nostra memoria?”, hanno risposto “Sì” e sono andato avanti, ma è facile dire, “Quando si arriva a 81 anni mi vuoi dire che sei così limpido? Perché ricordi questi particolari?” Perché la scienza, non io, dice che io ricordo quei tempi e non ricordo che cosa ho mangiato ieri, è la meccanica della memoria, quindi, sotto questo aspetto mi sento abbastanza sereno anche perché non voglio mai fare una testimonianza né da protagonista né da vittima, non mi sento né vittima né protagonista, è stata una scelta così, ho creduto in quello che ho fatto, ho pagato per quello che ho fatto, ritengo di non essere un eroe, molti altri ce ne sono stati e non li abbiamo neanche conosciuti, non li abbiamo neanche ricordati, dell’oggi poi parleremo.

La liberazione il 6 maggio del 1945: verso le 14,30 del pomeriggio vediamo grosse nuvole di polvere … c’è il passaggio del giorno prima importante.

Il 4 il Comitato di Resistenza del campo di cui facevo parte con Ferrante, Dragoni e altri, riesce a far capire che siamo allo sbando delle SS per cui dobbiamo regolarci sul comportamento, non sappiamo se entreranno nelle baracche, non sappiamo il comportamento, il comandante del campo ci riunisce tutti, siamo in 18.00 sul campo di Ebensee, arriva con il suo cane, ha insieme le SS schierate con le mitragliette, dalle garrite vediamo gli altri che sono piazzati e noi siamo lì tutti schierati.

Sale su questo sgabello e inizia il discorso, tutto silenzio, e dice “Herren”, vuole dire “Signori”, siamo rimasti tutti, “Per un giorno siamo signori”, poi dice “Siccome noi abbiamo sentore che le truppe alleate arriveranno vogliamo salvaguardarvi, quindi, vi invitiamo ad andare in galleria e noi cercheremo di salvarvi il più possibile, vi garantiamo che faremo quello che dobbiamo fare e ci auguriamo che questo vi porti alla libertà, ecc. ecc.”

Il problema che lì parte l’impostazione del Comitato, tutti quanti rispondono “No”, subito non sanno perché rispondono no, il discorso è che davanti alle gallerie, specialmente all’imboccatura di un paio ci sono le locomotive … queste locomotive che servivano quei vagonetti che andavano avanti e indietro le hanno piazzate davanti all’imboccatura delle gallerie in modo che all’esplosione si chiudeva la galleria e morivano dentro come topi. Solo questo lavoro, far parte del Comitato di Resistenza di un campo era una cosa impossibile, voleva dire avere la pelle sulla corda ogni momento, se per caso si dovesse pensare che hai una funzione diversa. Ho sempre ammirato Franco Ferrante perché il fatto che sia stato spinto da noi a fare lo scrivano del blocco è stata una cosa per lui dolorosa ma per noi importantissima perché è l’unico modo per poter evitare di mandare qualcuno nei comandi più negativi per cui il lavoro che ha fatto questo uomo è stato immenso e gli va riconosciuto. Ricordo anche Morgante, e ce ne sono altri, li ricordo un po’ tutti perché li ho anche citati nella pubblicazione. Quindi, lì rimane fermo sullo sgabello, la cosa non lo ha reso felice più di tanto, poi scende, raccoglie le SS e vanno via.

Questo fatto ci fa pensare: “Perché adesso rientriamo nei blocchi e che cosa succede?”

Siamo tutti quanti in attesa di vedere che cosa succede. Succede che questi si cambiano e se ne vanno, lasciano gli abiti militari, si mettono in abiti borghesi e se ne vanno. Il comandante del campo viene beccato, gli americani arrivano, aprono la porta, le sentinelle non ci sono più ma hanno insieme la gendarmeria, i pompieri, questi ometti anziani con le bande rosse e blu, con dei fucili 91 alti così e ti fanno segno di stare lì, abbiamo tolto corrente ma siamo tutti nel campo, gli americani anche hanno paura perché 18.000 che scendono a Ebensee se la mangiano, non so con la pazzia che c’è in giro che cosa succede per cui il timore è anche questo.

L’arrivo degli americani è prima lo studio, questa punta avanzata che viene e entra, vede l’ambiente e poi spiegheranno, abbiamo avuto paura perché la gente si è avvicinata all’autoblinda e non potevamo sparare, siamo usciti subito, abbiamo rinchiuso la porta. Poi si sono dati da fare, sono stati a Ebensee, hanno requisito le panetterie, arrivano, impiantano il campo della sanità e lì quando arriva il blocco ci sono tanti di colore, entrano e dopo dieci passi che hanno fatto hanno tutti la mascherina perché al fondo del campo, vicino al forno, non hanno più bruciato, devo dire che la maggior parte tornavano a Mauthausen, li mandavano indietro a Mauthausen. Erano più veloci i forni di Mauthausen, a un certo punto non ce la facevano più e hanno fatto le cataste: corpi umani, legna, corpi umani, legna, poi bruci, sono le pire. Chiaramente queste cose creano odori, dalla pelle umana esce un odore che non è sopportabile ed è quello che diciamo quando parliamo con quelli che ci dicono che la gente non sapeva, spieghiamo che quelli dei comuni vicini lo dovevano sapere anche se non volevano perché quegli odori li avevamo noi e li avevano anche loro in casa, il vento non restava lì, si muoveva, sono risposte implicite che ti vengano.

Quando arriva la sanità si preoccupano di vedere che siamo tutti messi come siamo messi e comincia a cercare di salvare il possibile. Commettono anche loro un errore nella bontà, nella volontà di salvare il tutto arrivano con questi carri enormi con sopra dei mastelli in legno, che sono di marmellata, cioccolata. La gente corre e si mette con la testa dentro, dopo di che non avevamo più mangiato nulla … lo stomaco non ha potuto accettare tutto, quando è arrivata la sanità queste cose le hanno subito regolate perché i medici hanno subito detto: “Non si può fare queste cose” Io avevo una palandrana addosso perché era quella che mi andava bene, che poi ho lasciato non so più a chi, a chi era peggio di me.

Sono rientrato alla fine di giugno o a metà luglio e la prima cosa è la disinfezione, quindi, queste tendopoli dove ci mettono sotto doccia e poi viaggiano con i DDT, grandi pompate, poi sotto, poi dicono che fa cadere i capelli, so che me lo hanno dato dappertutto, davanti dietro sopra sotto, poi sono cominciati i ritorni.

Restiamo non dico come, non voglio dire come sempre perché non so altre situazioni, ma restiamo i buoni ultimi, restiamo con gli jugoslavi perché volevano farci rimpatriare insieme, “Vi portiamo a Tarvisio, voi andate di là e loro vanno di là”.

I russi sono partiti allineati e coperti, i francesi sono partiti in aereo, restiamo noi, 283 italiani che siamo così e dico: “Se non ci muoviamo …” ero malmesso perché ero già con il coso scritto qua per cui stare in piedi era dura. Parliamo con l’americano e gli diciamo che anche noi vogliamo rientrare, “Se non viene qualcuno a prendervi come rientrate?” bisogna organizzare questo rientro, possiamo anche accompagnarvi, ma siamo a Linz. Poi vi era una diatriba nel comando americano perché quelli di Mauthausen dipendevano dalla Undicesima Divisione che aveva un comandante e che naturalmente diceva: “Essendo Ebensee un sottocampo di Mauthausen lo dobbiamo gestire noi”.

L’altro di Linz diceva: “Siccome Ebensee si trova a pochi metri dobbiamo gestirlo noi”. Volevano gestirci tutti ma restavamo lì.

Siccome l’ospedale americano era stato fatto in una caserma a Salisburgo, siccome eravamo tutti messi così abbiamo detto: “Liberiamo il campo e li portiamo lì”, per portarci via arriva Monsignor Leonzio Nicolai, cappellano dei civili italiani liberi lavoratori della zona di Linz. Monsignor Leonzio viene con una signora che traduce per parlare con gli americani e i tedeschi perché anche se non ci sono più sei nel loro territorio, devi sapere le strade.

Gli americani come sempre raccolgono tutti e ci imbarchiamo su questi camion con Monsignor Nicolai, andiamo all’ospedale di Salisburgo e lì vediamo il personale della Croce Rossa americana, vediamo le dottoresse che hanno la croce rossa dietro, mi visita un medico cinese o giapponese che ha delle tavolette nere e dice “Qui dobbiamo fermare la diarrea, prendi questo tavolette e avanti, poi aspetta a rientrare perché ti dobbiamo mettere in condizioni …”, “Io vorrei solo andare a casa” … Chiedere di andare a casa non è così facile, poi non sai nemmeno se trovi casa e che cosa trovi, il ritorno è lungo.

Passiamo questo periodo a Salisburgo e rientriamo attraverso il Brennero e troviamo sulle Alpi ancora dei gruppi di SS che sparano sui vagoni per cui è andata bene anche lì.

Arriviamo a Bolzano e ci portano tutti all’ospedale militare, vengo ricoverato con uno che sembravamo Cric e Croc, perché io ero stilizzato e questo era piuttosto corposo, un caro amico, che vive a Trieste, un tenore, qualche volta abbiamo mangiato anche la zuppa perché lui cantava, bisognava fare di tutto, “Italiano cantare”.

Arriviamo a Bolzano, siamo all’ospedale militare di Bolzano, siamo insieme noi due, visita, credo che sia il responsabile dell’ospedale che dice “Ragazzi voi due … “, quello che era così gli facevo così e restava il bollo perché era tutta acqua, aveva conservato l’acqua, una cosa allucinante, io stringatissimo e dice: “Dobbiamo fare degli esami, ecc.”, ci bloccano subito.

Dice: “Non puoi viaggiare”, ma rispondo che vorrei solo andare a casa, perché devo andare in mezzo alla gente, “Vado a casa”.

Un bel giorno arriviamo sotto e vi era del personale utilizzato come autisti con le macchine. Un giorno scendiamo e vediamo uno di questi che si stava facendo una cotoletta sulla pietra, noi due guardavamo pensando: “Noi non abbiamo visto niente, questo che dovrebbe essere un nemico gli danno delle sberle di carne di questo genere, qui è un altro mondo”, e l’idea che questo ci potesse portare via con la macchina mi è venuta subito.

Siamo saliti su questa specie di macchina e abbiamo avuto la fortuna di non trovare nessun gruppo partigiano perché con questa macchina con gli stemmi magari ci sparavano dentro, avrebbero detto che eravamo dei fuggiaschi ed eravamo noi due lì sopra, immaginate che fine triste andavamo a fare, poi si dice “il fuoco amico”.

Arriviamo a Milano alla stazione, poi lui è andato, un mucchio di giri per la ferrovia per i bombardamenti, poi mi chiedo perché prima non hanno mai bombardato le linee del Brennero e di Tarvisio, hanno bombardato a Peenemünde, abbiamo avuto il primo trasporto ebreo che è partito da Merano due mesi dopo, potevano bombardare anche le linee sul Brennero, probabilmente avremmo bloccato il discorso della deportazione, sono considerazioni che fai oggi dopo tanti anni.

Arrivati a Milano messi nella stanza dei reduci e lì sono tutti seduti su carrozzelle, sulla brandina, ci mettono su due carrozzelle e l’altro dice: “Devo andare a Trieste”, e dico: “A Milano ci sei”. Dall’ospedale non potevamo andare a Trieste e poi a Milano.

Comincia il primo impatto, duro, arrivano i famigliari che ci chiedono notizie: “Eri a Mauthausen, hai visto mio figlio?”, ma è già difficile ricordare una persona nella figura originale o vedere una fotografia ma quando devi vedere una persona che non ha capelli, ha tutto quanto rasato è difficile individuarlo, anche gli occhi cambiano, le figure si trasformano, non riesci più a individuarli, qualcuno che ha avuto la fortuna di camminare insieme all’ultimo minuto può dire: “L’ho lasciato a Salisburgo”, ma andare a spiegare …oppure anche il discorso di spiegare a una madre che hai visto il figlio andare al forno crematorio e alla camera a gas, come si fa? Intanto la camera a gas non sapevi che cosa era, poi quando hai cominciato a capire che cosa era fortunatamente eravamo già da un’altra parte ma le cose sono successe, le cose ci sono, la camera a gas è lì, non è che non si vede, certo si vedono altre camere a gas molto più importanti per l’eliminazione diretta che è quella di Auschwitz ma qui quanti ne sono passati a Mauthausen anche all’ultimo minuto che si poteva evitare! Il discorso della falcidia anche sui politici doveva esserci perché era gente che doveva sparire, soprattutto austriaci.

Arrivo a Milano e vi è questo impatto molto difficile. Quando vai su non sai dove vai ma quando torni indietro non sai che cosa trovi, non hai corrispondenza, non hai mezzi di comunicazione. Se hai famiglia magari dopo due anni c’è gente che ha fatto scelte diverse, magari hai perso i figli, hai perso la casa con i bombardamenti, un mucchio di cose che ti portano a dire: “Voglio andare a casa”, sapendo che ci possono essere sorprese ma te le poni come qualche cosa che può succedere, tanto quello che è successo l’hai sulla schiena.

Un giorno fanno un trasporto su Torino-Milano, mi viene a prendere un ragazzone che aveva il vestito di cachi e che aveva la bandiera tricolore, faceva il servizio volontario; mi prende come prendere un sacco, mi prende leggero, ero 36 kg, mi mette sul vagone, siamo io e lui seduti tranquilli e questo vagone parte destinazione Torino.

Arriviamo a Porta Susa a Torino, si ferma e non partiva più. Vi era questo capo stazione che andava avanti e indietro, ad un certo punto dico: “Non parte più questo treno, devo andare a casa”. Non ho fatto partire il treno io ma mi sentivo di arrivare, arrivati a Porta Nuova mi prende in braccio e mi mette lì alla Croce Rossa.

Siccome siamo in estate sulla porta vi sono queste tende fatte di tanti piccoli cosini di lamiera che tintinnano, mi è rimasta impressa questa cosa.

Entro, mi mettono sulla sedia a rotelle, una coperta sulle gambe e sto seduto, poi mi chiedono chi sono, spiego le cose e dico: “Devo fare degli esami… ti mandiamo in sanatorio oppure ti mandiamo dove sono finiti un po’ tutti quelli della Lombardia”.

Questo discorso di andare in sanatorio …Mi chiedono come ti chiami, mi chiedono se ricordo il numero di telefono, mi danno il telefono, faccio il numero e qui arriva una scena un po’ così e dico “Pronto, casa Tibaldi? Ho conosciuto un certo Italo Tibaldi che era in campo di concentramento, sta bene e tornerà quanto prima”, mia sorella prende il telefono e sviene.

Arriva mia madre che era stata fuori e chiede che cosa è successo. “Sai, mamma, ha telefonato uno dicendo che ha conosciuto Italo … “Dove è?” “Non so dove è, non ho capito” “Come non hai capito!” Volano quattro ceffoni sono volati perché non aveva capito, mia sorella me lo ricorda sempre, ho preso quattro schiaffoni per te e dico: “Mettili insieme a quelli che ho preso io”.

Lei era andata al comando da Smith, padre ufficiale, quindi, militare, lei parte e va da Smith e vuole avere notizie di suo figlio. Smith aveva detto: “Non so dove è, ma se torna sarà un uomo”.

Non so se sono tornato uomo, voglio dire che certamente sono tornato vecchio perché otto mesi così ti mettono fuori dalla tua generazione, diventi immediatamente vecchio anche per il campo perché essendo uno dei primi arrivati, pur essendo una matricola bassa nel campo sono già un anziano per cui il campo l’ho conosciuto per tutto il periodo.

E’ un momento difficile, un bel momento vedo muovere le tendine e vedo mia madre: “Allora?” “Sono qua!” “Non hai le gambe?” “Sì, le ho però ho la scabbia” “Cretino! La scabbia cosa vuoi che sia”. Dicono: “Dobbiamo portarlo su perché lei capisce…” e lei risponde: “Io me lo porto a casa, garantisco quello che vuole, ho un medico di fiducia, poi se deve andare da qualche parte, faremo gli esami”.

Per essere sicuri dicono: “Lei deve andare almeno all’ospedale militare”.

D: Scusa, Italo, mamma ti porta a casa come?

R: Siccome non c’era benzina, c’era la carrozzella con il cavallo, mi mettono sopra lì e rivedo Torino, via Sacchi… Ad un certo punto facendo un pezzo di strada vi sono le rotaie del tram che accompagnano per andare verso la zona dove vado io. Vicino alla carrozzella vi è uno dei ragazzi del panettiere che hanno davanti la ruota più piccola con la cesta da mettere e dietro la ruota più alta, questo sta fischiettando, infila la rotaia e il pane per terra. Istintivamente mi sono tirato in piedi e ho trovato la forza, questo tira il cavallo e dice: “Che cosa è successo?” “Non ha visto tutto quel pane?” “Sì c’è pane, ne vedrà” …

Sono arrivato a casa e non c’erano ancor ai condomini, ma c’erano i quartieri, “Italo, Italo”, il medico dice: “Abbiate pazienza ma dobbiamo fare altre cose all’ospedale militare”, tubercolosi polmonare bilaterale, mandano l’ufficio leva e quando chiamano la mia leva mi chiamano e gli mando l’atto di riforma, mi riformano, sono riformato. Poi mi arriva il brevetto, ero comandante di squadra partigiana perché ne avevo 15 con me in montagna; mi arriva l’avviso che sono Sergente Maggiore per cui a 16 anni sono Sergente Maggiore, i casi della vita … riformato … A casa è complessa per me perché mi rendo conto che nessuno ha visto e pensato a cose di questo tipo, spiegare cosa c’era nel campo … un giorno mi giro di colpo e vedo che uno fa all’altro “E’ fuori di testa, cosa vuoi stare lì a fare domande”.

Ho conosciuto parecchie opportunità, ho cominciato a girare con Primo Levi che mi voleva insieme forse perché ero un po’ sbarazzino, non mi piace affrontare questo tema in termini truculenti, non è questa la strada per andare nelle scuole, con i ragazzi. Devi partire con la convinzione che loro sono interessati a capire e che hai il dovere di testimoniare.

Se così è il dovere della testimonianza ti porta quasi naturalmente a essere in mezzo, non credo di essere un caso particolare ma credo che il lavoro che abbiamo fatto l’abbiamo seminato in tanti anni, abbiamo lavorato e mi permetto di dire con qualche serietà abbiamo lavorato, senza erosimi e senza atteggiamenti che sono solo demagogici.

Purtroppo, oggi il numero dei sopravvissuti è molto esiguo perché è una legge naturale. A Mauthausen eravamo circa 8.200, alla liberazione eravamo 856, oggi siamo 200 e poi vi è il problema che non è questo il numero giusto ma il numero giusto è quello di quelli che ancora qualche cosa riescono a dire o a scrivere su questo argomento.

Sono esperienze che vanno collegate una all’altra. Parlare della deportazione in senso stretto si può concludere in tre secondi, parlare di trasporto forse anche, dare una visuale più ampia, neppure suggestiva, neppure emozionale, non mi interessa l’emozione, mi interessa quel poco di emozione che serve ad entrare in argomento dopo di che il giovane deve sapere lui leggere e vedere, capire, se è così lui stesso diventa un testimone perché porta avanti quello che ha visto, non quello che gli ho detto io.

Temo fortemente che l’oblio cerchi di superare un po’ tutto, penso che non ce la farà se sapremo tenere fermi i campi, se li difenderemo per quello che sappiamo. Devo dire che la Resistenza internazionale si è fatta viva anche nella deportazione internazionale. Credo che per alcune situazioni che conosciamo più approfonditamene ci sarà comunque, piaccia o non piaccia, il ricordo, parlo di Marzabotto, parlo della Risiera di San Sabba, parlo di Fossoli, perché no anche di Borgo San Dalmazzo. Sono esperienze legate a te ma se non le trasferisci in tempo… Se abbiamo un torto è quello di aver dovuto cominciare tardi perché prima non siamo stati creduti e forse anche a ragione, forse abbiamo faticato noi a inserirci perché l’umanità camminava, noi siamo rimasti indietro, abbiamo perso due anni e due anni nella vita di una persona contano.

Per me è stata una fetta di gioventù che mi sono bruciato così, non mi rimprovero nulla, un’esperienza che ho vissuto e devo dire che dall’accoglienza che trovo ancora adesso vuol dire che in qualche modo l’abbiamo spiegata con serenità.

Se hai questa tua visuale di globalità, di solidarietà che è stata espressa in tanti sensi, anche religiosi, e hai soprattutto la tranquillità di sapere che non hai fatto nulla per tornare, non so se mi spiego, ma sei tornato, forse il destino ha previsto così, voglio dire che vi è ancora una forza, una capacità di dire che passa ormai da testimone a testimone.