Todros Alberto

Alberto Todros

Nato il 21.07.1929 a Pantelleria (TP)

Intervista del: 01.09.2000 a Varigotti (SV) realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 162 – durata: 55′ circa

Arresto: novembre 1943

Carcerazione: nel carcere di Savona, nel carcere Marassi a Genova

Deportazione: Fossoli, Mauthausen

Liberazione: 5 maggio 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Alberto Todros, nato a Pantelleria il 21.7.1920.

D: Quando?

R: 21.7.1920.

D: Alberto, i motivi dell’arresto, del vostro arresto.

R: Per individuare i motivi dell’arresto devo fare una premessa. Io sono figlio di un matrimonio misto tra un ebreo e una cattolica. Cattolica mia madre, ebreo mio padre. Durante la Prima Guerra Mondiale mio padre era di stanza a Pantelleria, ha conosciuto mia madre e si è sposato appena finita la guerra nel 1918, fine del ’18, inizio del ’19. Ha portato mia madre a Torino, per cui io sono nato a Pantelleria perché come tutti i siciliani, come tutte le donne siciliane, quando devono partorire, vanno presso i genitori a Pantelleria. Infatti anche mio fratello Carlo è nato a Pantelleria. Trasferiti a Torino, nel ’25 ho perso il padre, per cui ho vissuto con la madre, sostenuto dai nonni paterni. La vita è stata una vita di stenti, difficile, perché senza padre a Torino non era facile vivere. Però ho potuto fare gli studi fino all’università, quando ad un certo momento nel 1938 durante il fascismo sono state promulgate le leggi razziali. Qui c’è la prima origine del mio interessamento alla politica, in quanto essendo figlio di matrimonio misto, non battezzato perché i miei genitori avevano deciso che ci saremmo battezzati, avremmo fatto la scelta religiosa alla maggiore età, non battezzato, sono stato dalle leggi razziali dichiarato di razza ebraica. Perciò espulso da tutte le scuole pubbliche. Per poter continuare ho dovuto iscrivermi all’Istituto San Giuseppe dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Torino, perché era ammessa, essendo mia madre cattolica, la possibilità di continuare gli studi nelle scuole private. Ho fatto il liceo scientifico e appena finito il liceo scientifico le leggi razziali erano già state promulgate, non avrei potuto iscrivermi all’università. Qui c’è un episodio importante della mia vita: essendo intenzionato a continuare poiché essendo dichiarato di razza ebraica col liceo scientifico non avrei potuto fare nulla come occupazione, mi sono recato al Politecnico dove ho incontrato il direttore amministrativo, che si chiamava Martini, al quale ho chiesto, essendo figlio di matrimonio misto, battezzato, perché mia madre mi aveva poi fatto battezzare, di iscrivermi al Politecnico, anche se dichiarato di razza ebraica. Naturalmente tralascio tutte le vicende, sono state vicende lunghe che mi hanno portato ad un colloquio col Preside del Politecnico, dopodiché hanno accettato che io mi iscrivessi al Politecnico prendendomi la responsabilità di dichiararmi di razza ariana. Mi sono iscritto al Politecnico e ho fatto il primo biennio. Però da quel momento la mia attività si è svolta contro il fascismo che mi aveva così emarginato, creato mille problemi, dichiarato di razza ebraica anche se io mio padre lo avevo conosciuto fino a cinque anni, cioè per pochissimo tempo. Quando il Politecnico è stato bombardato io mi sono trasferito con la famiglia ad Imperia, ad Imperia Porto Maurizio dove ho continuato a fare dei viaggi di studio ad Acqui dove era stato trasferito il Politecnico. Viaggi che sono stati interrotti, perché durante un viaggio, io ero all’età della leva, però essendo dichiarato di razza ebraica ero stato escluso dal servizio militare, di conseguenza mi trovavo senza documenti militari e con la mia età… una pattuglia ha rastrellato il treno. Io ho capito che se mi prendevano mi avrebbero arrestato, mi sono gettato giù dal treno e non sono più andato ad Acqui per evitare inconvenienti di questo tipo. Però a Porto Maurizio proprio per la mia origine e le vicende che avevano tratteggiato la mia vita mi sono gettato nella politica con un primo contatto con un gruppo di giovani antifascisti, coi quali facevamo delle riunioni clandestine, divulgavamo la stampa clandestina di quel tempo e discutevamo sul da farsi per lottare contro il fascismo. Fino a che è venuto l’8 settembre.

D: Scusa Alberto, con te c’era anche tuo fratello?

R: Mio fratello è venuto dopo. Nel primo periodo delle riunioni con questi giovani antifascisti c’era un giovane comunista, c’era un liberale, c’era un giovane del Partito d’Azione, c’erano diverse componenti dell’antifascismo giovanile di allora. E’ intervenuto l’8 settembre, avevamo avuto notizie che i tedeschi si avvicinavano ad Imperia, occupavano la Liguria. Da allora per evitare che le armi che esistevano ad Imperia cadessero in mano ai tedeschi la prima cosa che abbiamo fatto con questo gruppo di giovani, siamo andati sul molo d’Imperia. Ad Imperia c’è un lungo molo che penetra nel mare per circa settecento metri. Abbiamo buttato in mare tutti gli otturatori dei cannoni antisbarco. Poi siamo andati alla capitaneria del porto dove abbiamo gettato in mare delle casse di munizioni, pistole, mitra, tutto quello che abbiamo trovato. Poi ci siamo recati alla caserma della quarantunesima fanteria tra Porto Maurizio e Oneglia, abbandonata dall’esercito perché l’8 settembre l’esercito si è sciolto, sono scappati tutti. Abbiamo incominciato, ed è qui che è entrato mio fratello, con alcuni giovani raccolti a Imperia abbiamo iniziato a trasferire le armi che abbiamo trovato in un rudere nella collina antistante la caserma della quarantunesima fanteria. Durante uno di questi viaggi un compagno di scuola mi ha visto da lontano, dalla collina di fronte e questo fatto si è poi tradotto nel motivo fondamentale del mio arresto, perché ad un certo momento verso le 18.00 dell’8 settembre abbiamo avuto notizia che i tedeschi erano arrivati ad Imperia. Per cui la prima cosa che si pensava facessero era di recarsi nella caserma per vedere cosa era successo. Abbiamo abbandonato il trasferimento delle armi e ci siamo recati nelle nostre abitazioni. Questo compagno di scuola appena i tedeschi hanno preso possesso della città e ristabilito le cariche fasciste e tutto l’apparato fascista che si era dileguato all’8 settembre, appena stabilito questo rapporto ha fatto una denuncia. Questa denuncia è andata in prefettura, il prefetto, che era ancora il prefetto del periodo badogliano, ha ordinato immediatamente l’arresto. Di conseguenza la milizia volontaria ha fatto il primo arresto. Io in quel periodo per poter vivere facevo il supplente in una scuola magistrale superiore di un comune vicino a Imperia dove la scuola dopo i bombardamenti si era trasferita, Ponte Dassio. Mentre sto facendo lezione arriva il commesso e mi invita a recarmi in presidenza. Mi reco in presidenza e in presidenza trovo i poliziotti della questura di Imperia che mi dicono che devo recarmi con loro dal questore per un interrogatorio. Mi portano sotto, mi caricano su una macchina, vanno ad Imperia. Quando arrivano a Oneglia, anziché proseguire per la questura, mi scaricano al carcere di Imperia. E lì è il primo arresto.

D: Quando è avvenuto questo?

R: Questo è avvenuto ai primi di ottobre del ’43. Ai primi di ottobre del ’43 mi portano nel carcere a Imperia dove trovo tutto il gruppo che aveva con me fatto il trasferimento di armi dalla caserma della quarantunesima fanteria alla collina di Imperia. Rimaniamo ad Imperia in carcere, ritrovo mio fratello, sono nella stessa cella con mio fratello. Il capo del carcere, un certo Cangemi, era un antifascista. Di conseguenza ci ha molto aiutato per i rapporti con la famiglia. Potendo avere rapporti con la madre io mi sono ricordato che il figlio del prefetto era un mio carissimo amico. Allora io invito mia madre ad andare a parlare al figlio del prefetto, il quale parla al padre e il padre che cosa fa? Stabilisce che ci può rilasciare considerando i fatti che abbiamo compiuto come una ragazzata. Io ero il più vecchio, avevo ventitré anni, gli altri erano tutti più giovani di me. Per cui dopo quindici giorni di carcere ci mettono fuori. Io riprendo a fare lezioni all’Istituto Magistrale Superiore di Fisica e Matematica quando un giorno il verbale del prefetto va in mano alla Gestapo, la quale non crede che quanto asserito dal prefetto sia un fatto da lasciare non colpito e ordina l’arresto di tutti i sette ragazzi che avevano fatto l’azione l’8 settembre. Per cui ad un certo momento i carabinieri, invitati dalla Gestapo, si recano nelle case di tutti i sette ragazzi e non trovano nessuno, perché erano tutti fuori casa e li invitano a recarsi dai carabinieri. Loro discutono se recarsi dai carabinieri o no, poi ad un certo momento, dato che tra i sette c’era il figlio di un comandante della Milizia, Gazzano, il quale dice: “Se ci fosse stato qualcosa di particolare mio padre sarebbe stato avvisato”, decidono di presentarsi. Si presentano tutti e sei dai carabinieri, i quali li arrestano, li ammanettano, li legano alla catena tre e tre e li portano da Porto Maurizio di nuovo al carcere di Imperia. Io non c’ero perché ero a lezione di matematica a Ponte Dassio. Quando torno da Ponte Dassio e passo davanti al municipio d’Imperia li vedo tutti e sei arrestati coi carabinieri che vanno verso il carcere. Vado a casa, mia madre disperata dice: “Hanno arrestato di nuovo tuo fratello, scappa almeno tu”. Io vengo preso da un tormento: scappare o non scappare? Poi a un certo momento, dato che ero il più anziano e responsabile dell’azione, ho deciso di presentarmi ai carabinieri. Di fatti ho preso un pacchetto con la biancheria, mi sono presentato alle tre ai carabinieri, i quali, meravigliati, mi hanno preso e mi hanno portato in carcere.

D: Questo quando?

R: Questo sempre nel novembre del ’43. In carcere ad un certo momento è arrivato l’ordine di passaggio alla Gestapo di Savona. Allora ci hanno preso dalle celle, tutti e sette ci hanno caricati su un furgoncino e ci hanno portato a Savona. A Savona nella piazza della stazione c’era un albergo occupato dalla Gestapo. Ci hanno consegnato alla Gestapo, la quale ci ha trasferito al carcere di Savona. Il carcere di Savona era un carcere vecchissimo, terribile, senza i confort normali di un carcere, per cui noi siamo stati scaraventati in una cella con dei delinquenti comuni, con dei ladri, con dei prigionieri comuni. Siamo stati lì alcuni giorni, fino a quando verso la fine di novembre un giorno ci hanno fatti uscire dalle celle insieme ad altri, ci hanno portato nel cortile. Nel cortile c’era un furgoncino, ci hanno caricato su quel furgoncino e ci hanno portato a Marassi di Genova sotto la SS. A Marassi di Genova siamo entrati in questo carcere che era terribile, perché non si usciva a prendere aria, si mangiava una volta al giorno, una fetta di pane e un cucchiaio di zuppa, non si poteva stare seduti sul letto, la sentinella controllava dallo spioncino in continuazione. Bisognava stare in piedi, tutte le mattine c’era l’ispezione del comandante del carcere della SS che ci faceva mettere in perfetto ordine d’altezza, controllava se i letti erano fatti alla perfezione. Se non erano fatti alla perfezione succedevano dei pasticci. Di conseguenze è stato un periodo dove sia per la mancanza di aria che per il vitto scarso siamo tutti quanti deperiti abbastanza. Per cui quando nel febbraio del ’44 è arrivato l’ordine di trasferimento a Fossoli di Carpi eravamo tutti già abbastanza provati, deperiti e provati per il carcere che avevamo subito. Ci hanno caricati su un carro merci e coi binari che erano davanti al carcere ci hanno portato alla stazione. Lì un fatto particolare: mentre formavano il treno che sarebbe andato a Fossoli, davanti al treno che si stava formando è passato un treno della Genova Ventimiglia sul quale c’erano dei conoscenti di Imperia. Quando mi hanno visto, io ho detto: “Voi dove andate?”. Loro hanno detto: “A Imperia” dal finestrino, “Tu chi sei?”. Ho detto il mio nome, mi ha detto: “Non ti riconoscevo più” tanto ero deperito. Allora ho potuto attraverso di loro mandare notizie a mia madre. Siamo partiti, siamo arrivati a Fossoli e a Fossoli la scena che si è manifestata all’entrata nel campo è stata una scena terribile, perché si passava per arrivare al campo politico davanti alle baracche dove c’erano gli ebrei, dove c’erano bambini che giocavano all’esterno. Era quasi sera. Giocavano all’esterno delle baracche dove c’erano dei vecchi. C’era una popolazione di ebrei che aspettava di essere trasferita al campo di concentramento. Siamo entrati nella baracca numero 10 di Fossoli e a Fossoli si è sparsa una prima voce che saremmo stati liberati se aderivamo alla Repubblica Sociale. Dato che la baracca non era ancora organizzata, mancavano i castelli, mancavano i materassi, mancava tutto quanto necessario per poter vivere, durante la notte abbiamo discusso cosa fare. Una parte ha optato per presentarsi per poi scappare e andare in montagna, una parte ha deciso di non presentarsi e io e uno dei due fratelli Serra, perché con noi c’erano altri due fratelli, abbiamo deciso di non accettare. Ma la cosa non era vera, infatti alla mattina non se n’è nemmeno più parlato. La nostra vita a Fossoli è stata una vita abbastanza interessante, perché eravamo all’aperto, si lavorava in lavori molto leggeri, ricevevamo i pacchi dalla madre, che intanto si era trasferita a Carpi, ci mandava tutti i giorni il pacco dei viveri, si poteva discutere. E’ lì che io ho avuto i primi incontri politici con alcuni comunisti e socialisti, che facevano durante le ore di riposo le scuole di partito ai giovani. La vita è andata avanti fino a giugno del ’44, quando una mattina si è sparsa la voce che il giorno dopo ci sarebbe stato un trasporto per la Germania.

D : Scusa, Alberto, a Fossoli ti hanno immatricolato?

R : Sì, mi hanno immatricolato. Io avevo una delle prime matricole, adesso non mi ricordo nemmeno più il numero, mi sembra il 10, perché il campo politico è stato costituito con il nostro gruppo. Poi sono arrivati da Genova, da Milano, da Torino, sono arrivati altri prigionieri e siamo diventati un gruppo numeroso. Tralascio tutti i tentativi di fuga fatti, perché sono scritti in un libro di memorie che io ho compilato. Fino a che, arrivata la notizia, una mattina si è presentato il maresciallo delle SS, ha incominciato a chiamare un certo numero di persone e man mano che li chiamava si allineavano da una parte. Dopodiché sono arrivati dei pullman, ci hanno caricato sui pullman e portati alla stazione di Carpi. Durante l’andata alla stazione si doveva compiere un tentativo di fuga che non si è compiuto, però è descritto in un libro che Bonfantini, uno dei prigionieri che era con noi, ha scritto, “Il salto nel buio”, dopo il ritorno. Siamo arrivati alla stazione di Carpi, ci hanno caricato su questi carri bestiame, cinquanta, sessanta per carro. Era giugno, faceva caldo. Mia madre intanto, che aveva ottenuto a Verona dalle SS il permesso per venirci a trovare a Fossoli al campo di concentramento, quando è arrivata le hanno detto che noi stavamo partendo per la Germania. E’ venuta alla stazione, tramite l’aiuto della popolazione di Carpi, che è una popolazione meravigliosa, che ha fatto delle cose meravigliose per l’antifascismo, ha raccolto dei viveri, dei vestiti ed è venuta alla stazione. Ha cercato di avvicinarsi al treno, inizialmente le SS non l’hanno lasciata venire, poi resistendo e scavalcando un muretto si è avvicinata al vagone, ci ha consegnato questi viveri e questi abiti. Il treno ad un certo momento hanno chiuso i vagoni ed è partito. Tra l’altro, alla partenza ci hanno detto che durante il viaggio per ogni prigioniero che sarebbe scappato, all’arrivo dieci sarebbero stati fucilati. Ad un certo momento con noi nel vagone c’era un anarchico di Genova che era un uomo coraggiosissimo, che era già scappato due volte dalla SS, il quale alla partenza, mentre noi abbiamo ricevuto i bagagli dalla famiglia, lui ha consegnato alla moglie tutti i suoi bagagli, ha detto: “Ci vediamo in tal posto, perché io scappo”. Infatti appena chiuso il vagone ha incominciato a tentare di tagliare il fondo del treno, perché gli addetti alla stazione di Carpi ci avevano consegnato un fiasco di vino con dentro un fascio di lime per il ferro e poi una mezza forma di formaggio, ci avevano dato un mucchio di cose. Per cui questo qui con le lime che aveva trovato nella valigia ha incominciato a segare il fondo del treno. Però era giorno, non si poteva scappare in quel modo, perché la SS occupava un intero vagone e controllava tutti gli altri vagoni. Per cui ci siamo messi d’accordo a una certa ora, appena veniva buio, di tagliare il filo spinato che c’era sul finestrino del vagone, calarsi giù uno alla volta. Lui si è proposto di essere il primo, con l’impegno di attaccarsi alle sbarre di apertura del vagone e aprire la porta del vagone. Infatti questo qui ad una certa ora, appena si è fatto buio, io ero sotto il finestrino, l’ho aiutato a salire, è uscito dal vagone, sì è trasferito davanti alla porta e ha aperto la porta del treno. Appena aperta la porta, io l’ho tirata, tre o quattro sono saltati giù, io ho chiamato mio fratello. Mio fratello, faceva molto caldo, eravamo tanti nel vagone, si era addormentato, per cui si è svegliato. Nel momento in cui arriva fino alla porta del vagone, il treno si ferma a Rovereto, per cui non siamo potuti scappare. Dopo la partenza abbiamo tentato di rifare lo stesso gioco altre volte, ma non ci siamo più riusciti, perché gli altri prigionieri si sono opposti dicendo: “Una volta possiamo dire che l’hanno aperta dall’esterno, lo facciamo due volte ed è la fine di tutti”. Per cui siamo arrivati a Mauthausen. L’arrivo a Mauthausen è una cosa allucinante: di notte, con questi SS coi cani, con le grida, i colpi col calcio del moschetto, del fucile se non facevamo presto. Siamo scesi dai vagoni, ci siamo incolonnati e abbiamo iniziato la salita verso Mauthausen, perché Mauthausen è in cima a una collina e ci sono parecchi chilometri per poter salire. Io e mio fratello avevamo i bagagli che ci aveva dato la madre. Durante la salita non ce la facevo a portarli su e lui continuava a dire: “Resisti, resisti che questi saranno la nostra salvezza”. Ad un certo momento con molta fatica resistendo a lasciare i bagagli vediamo nel cielo una luce che man mano ci avviciniamo aumenta. Sembrava un incendio. Invece, era l’illuminazione del campo. Quando arriviamo davanti al campo si aprono le porte del campo e noi entriamo dentro questo campo di concentramento che aveva un grosso piazzale, a destra c’erano la lavanderia, la cucina, l’ospedale e a sinistra tutte le baracche. Entriamo e ci mettono tra il muraglione, sembrava una fortezza con dei muraglioni alti tre metri con sopra il filo spinato con l’alta tensione. Ci mettono tra la baracca della lavanderia e il muro per la notte, perché siamo arrivati a sera tarda. Tra l’altro, pur essendo in giugno faceva freddo. Vediamo delle ombre che si avvicinano, che sono come dei fantasmi, perché hanno la testa rapata con una striscia in mezzo alla testa, poi hanno dei vestiti con tanti tasselli di colore diverso, un numero. Sono prigionieri del campo che si avvicinavano e ci dicono: “Domani vi porteranno via tutto, perciò date a noi i valori che avete e noi, quando ritornate nel campo, ve li restituiamo, oppure date a noi i valori che vi diamo una bottiglia d’acqua” perché eravamo tutti assetati dopo un giorno e una notte passati nel vagone, eravamo tutti assetati. Allora molti accettano, lì succede una scena che a raccontarla sembra ridicola, che tutti cercano di mangiare tutto quello che possono. Appena sanno che gli portano via tutto, mangiano lo zucchero, mangiano quello che possono. Alla mattina arriva la SS, ci fa spogliare completamente, si ritira da una parte i documenti, i gioielli, i soldi, tutto quello che abbiamo. Mette i vestiti su un mucchio di vestiti e poi, mano a mano che siamo spogliati, ci manda sotto la lavanderia, c’erano le docce.

Ci manda sotto le docce dove nella prima camera c’erano degli altri prigionieri che con un rasoio senza sapone, senza niente ci depilano completamente, sia i peli del pube che le ascelle, i capelli. Ci depilano completamente e poi ci mandano in un secondo salone dove ci sono le docce. Uno alla volta veniamo messi tutti lì dopo essere stati classificati, catalogati, prima di entrare …. Quando siamo tutti dentro questa grande doccia esce l’acqua, ci fanno la doccia, naturalmente doccia senza sapone, senza niente. Poi usciamo dall’altra porta e ci sono due mucchi di vestiti, mutande e camicia. Si passa davanti ad un mucchio, ci danno una camicia, dall’altro le mutande e poi fuori. Naturalmente non essendo scelte c’era il magro che aveva le mutande grandi, il grasso che aveva le mutande piccole, tra noi facciamo dei cambi per avere il minimo della possibilità di vestirci con questi. Poi ci mettono in fila e ci portano nei blocchi di quarantena. La quarantena era un periodo che si passava in un blocco tra una baracca e l’altra, era il periodo più terribile del campo dove avveniva la prima eliminazione. Tutti i deboli che non resistevano venivano subito mandati all’ospedale ed eliminati. In questa quarantena io ero al blocco 17, erano quattro blocchi di quarantena, 15, 16, 17, 18, poi c’erano due blocchi, 19 e 20, che erano i blocchi della morte. Pur essendo all’interno del campo avevano una seconda cinta che li ricingeva e lì dentro venivano mandati i condannati a morte, erano trattati…tra poco lo descriverò quando tratterò della fuga che hanno tentato. In quarantena la vita era terribile perché si stava in piedi tra i due blocchi, senza scarpe, con camicia e mutande. Questo avveniva per noi fortunatamente a giugno, ma per gli altri anche a gennaio. Si stava lì in mezzo, sempre in piedi, non si beveva, non si poteva far niente se non chiacchierare tra noi, non ci si poteva sedere per terra perché il capo della baracca subito arrivava col manganello di gomma e ci dava delle bastonate. Ad un certo momento alla mattina ci mettevamo in fila e facevamo la ginnastica col cappello: “Mutzen ab, Mutzen auf”, cioè su e giù il cappello. Poi arrivava l’orzo, il mestolo di orzo che ci davano. Tra l’altro avevamo poche gamelle, per cui ce la passavamo uno con l’altro. Poi rimanevamo lì, a mezzogiorno ci davano un mestolo di zuppa di rape che era terribile, i primi giorni non si riusciva a mangiare, poi la fame faceva mangiare anche quella zuppa. Dopo si passava al pomeriggio, alla sera davano una fetta di pane e un cucchiaio di margarina. Poi ci facevano mettere, questa è la cosa più allucinante, in fila e ci portavano dentro il baraccone dove c’era il camerone per dormire. C’erano dei materassi di paglia per terra. Ci portavano a due per volta e ci mettevano uno con la testa e uno coi piedi, come le acciughe, uno con la testa e uno coi piedi. Finita la prima fila c’era un piccolo corridoio in mezzo, seconda fila, un altro corridoio, terza fila. Naturalmente quando non ci stavamo tutti, perché eravamo molti, veniva il comandante con questo bastone di gomma a picchiare per farci stringere, stringere e far entrare quelli che erano rimasti fuori. Naturalmente si passava lì la notte senza poter dormire, perché io cercavo di avere sulla faccia i piedi del fratello o dell’amico e di conseguenza era meno… Tra l’altro i piedi scalzi dopo essere stati tutto il giorno nel cortile fangoso. Alla mattina ci si alzava, ci si doveva lavare nel Wascheraum, che era una vasca con tanti zampilli dove ci si lavava alla bell’e meglio. Poi si tornava fuori, si stava così quaranta giorni. Al quarantesimo giorno o trent’otto, trentasette secondo i bisogni veniva il trasferimento al comando di lavoro. Allora veniva la SS con un elenco, chiamavano un certo numero di nomi e questi che venivano chiamati venivano inquadrati a parte, poi uscivano dalla quarantena, li vestivano con la giubba di tela e i pantaloni di tela e gli zoccoli e andavano nel comando cui erano destinati, perché erano destinati ai vari comandi di lavoro attorno a Mauthausen, nelle officine, in vari luoghi dove c’era il lavoro forzato. Io non vengo chiamato, mentre mio fratello viene chiamato. Io non sono stato chiamato perché arrivando a Mauthausen ho detto che ero studente d’ingegneria e sul mio cartellino hanno scritto “Bauteckniker”, tecnico in costruzioni, perché ero studente di ingegneria civile edile. Tecnico in costruzione, perciò come specialista non vengo chiamato. Qui era un comando di manovali, di fatti sono stati portati a Melk e la metà è morta subito, dopo i primi mesi. Non vengo chiamato, non mi ero mai diviso dal fratello. Vado dal segretario del Baukomando e chiedo di non dividermi dal fratello, di mandare anche me in questo comando. Lui prende il mio cartellino e dice: “No, tu non puoi perché sei tecnico specializzato, devi rimanere qua”. “Allora lasci mio fratello qua”. Quello dice: “Non posso, non posso”. Poi con la mia insistenza cosa fa? Prende mio fratello, lo toglie dal comando, lo rimette in quarantena e mette al suo posto un altro prigioniero. Il giorno dopo io vengo chiamato al Baukomando e mio fratello invece rimane in quarantena. Vengo chiamato al Baukomando che era il comando costruzioni. Tutte le mattine alle 7.30, alle 8.00, secondo la stagione alle 8.30 venivamo inquadrati nella piazza d’appello e portati fuori a fare dei lavori edili, strade, baracche, a fare dei lavori, muretti di recinzione, a fare dei lavori. Io vengo destinato al gruppo degli scaricatori. Ad un certo momento arrivavano camion pieni di ghiaia, cemento, sabbia, materiali edili. Io dovevo tutto il giorno scaricare questi materiali e portarli nel deposito.

D: Scusa una cosa, Alberto. Quando vi hanno immatricolati a Mauthausen?

R: Appena arrivati.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 77.604. Era molto importante perché da quel momento la nostra identità è scomparsa e siamo diventati dei numeri. Faccio questo lavoro con la preoccupazione, tornando in campo tutte le sere, di non trovare più mio fratello. Faccio questo lavoro per quindici giorni, è un lavoro faticoso, sento che non ce la faccio più. Combinazione, il segretario di questo comando era un delinquente comune, un ergastolano viennese, il quale quando ero arrivato aveva sentito che io ero italiano, lui amava molto Venezia, Roma, Firenze, per cui si ricorda di me e mi manda a chiamare dal luogo dove scaricavo i camion. Mi mette un registro davanti di pagine bianche e mi chiede se sono capace di fare le linee nei fogli tutti uguali, dato che sono studente di ingegneria dovrei essere capace. Mi mette alla prova. Naturalmente io lo faccio, lo faccio molto bene perché erano fogli a quadretti, per cui era facile col righello fare tutte queste righe. Lui contento dice: “Va bene, allora rimani qui a lavorare con me”. Mi mette a lavorare in una baracca al caldo. Questo qui era uno dei primi arrivati a Mauthausen, un Kapò, mangiava ogni ben di Dio perché facevano il traffico con l’esterno, con i gioielli dei deportati. Mi faceva sedere vicino, ogni tanto si faceva delle grosse pastasciutte. Tra l’altro essendo viennese faceva con lo zucchero e il cioccolato. Quando rimaneva un po’ me lo passava. Era il dolce più prelibato che ho mai mangiato nella mia vita. Dopo una settimana di questo lavoro al chiuso, al caldo, al coperto mi dice: “Ma come mai sei qui tranquillo e sei sempre lì preoccupato, silenzioso?”. Gli dico: “Io ho mio fratello in quarantena, tutte le sere che vado su ho paura di non trovarlo più”. Mio fratello in quarantena quando andavo a trovarlo alla sera, perché alla sera dopo il lavoro, dopo aver mangiato avevamo mezz’ora e potevamo girare nel campo, andavo verso la quarantena e alla quarantena lo trovavo e diceva: “Hai fatto male a togliermi”. Adesso era con dei russi, con tutti altri… “Io non capisco nessuno, non conosco nessuno, almeno andavo con gli amici. Se mi mandano a lavorare non so come farò a resistere senza conoscere nessuno”. Allora lui mi dice: “Perché non me l’hai detto prima?”. “Io non gliel’ho detto, Lei è già così gentile con me, non volevo…”. Allora alla sera arrivo, questo era un uomo potentissimo perché il comando all’interno, l’organizzazione era in mano a questi Kapò. Alla sera ritorno, trovo mio fratello trasferito nello stesso mio blocco e nello stesso mio comando.

D: Che era il blocco del campo libero numero?

R: Dieci, numero dieci.

D: C’era anche Don Gaggero?

R: C’era anche Don Gaggero, è stato un elemento favoloso. E così alla mattina dormiamo nello stesso letto in ottanta centimetri io e lui, siamo di nuovo assieme, viene a lavorare e a prendere il mio lavoro a Mauthausen, il lavoro da scaricatore. Io continuo a scrivere, a fare il segretario. Insomma, fatto sta che, per farla breve, la mia vita a Mauthausen è stata una vita fortunata, perché tolto questo mese di quarantena, tolti i quindici giorni passati a fare lo scaricatore, ho trovato un lavoro stabile, seduto, mangiavo qualche cosa di più, stavo al caldo rispetto agli altri che invece hanno passato dei momenti terribili. Con la mia posizione ho potuto vedere dei fatti terribili, per esempio l’uccisione dei sabotatori di Vienna. Erano trentasei operai di Vienna che sono stati arrestati per sabotaggio e mandati nella scala della morte. A Mauthausen c’era una scalinata che andava alla cava di pietra di 186, 187 gradini. A questa scala lavorava la compagnia di punizione, caricavano dei grossi massi sulla schiena e li facevano portare su per i 186 gradini tutto il giorno, fin quando non ce la facevano più e li eliminavano. Questi operai viennesi sono stati mandati in questa compagnia, hanno cominciato a caricare delle pietre molto pesanti e andare e venire. Man mano che cadevano li ammazzavano. Io ho visto, perché lavoravo vicino, ho visto cadere uno per uno tutti questi deportati, ammazzati. La cosa strana che mi sono sempre chiesto è come mai quando hanno visto il primo, il secondo, il ventesimo, il trentesimo non si sono mai ribellati. L’istinto di conservazione è più forte della volontà di ogni uomo, per cui speravano sempre che la cosa finisse. Ho visto tanti altri episodi importanti, per esempio a un certo momento è arrivato a Mauthausen un gruppo di ebrei ungheresi trasferiti nella collina, perché nel campo non c’era più posto. Nella collina, di fronte alla camera dove io dormivo. In questa collina li hanno recintati, li hanno lasciati lì che morissero un po’ alla volta. Io alla sera arrivavo dal lavoro, c’era il mucchio di cadaveri di quelli che erano morti durante il giorno, tra i quali c’erano ancora molti vivi, perché si vedevano delle braccia e delle gambe che si muovevano. Poi veniva il carretto, li caricava e li portava nel forno crematorio. Li hanno ammazzati quasi tutti, donne, vecchi, bambini, tutti, fino a quando li hanno poi caricati su dei pullman. Noi l’abbiamo saputo, li hanno portati sul Danubio e hanno affondato la vecchia nave nella quale li hanno caricati.

D: Vicino a te, nel blocco 10, dormiva Hans, se non mi sbaglio.

R: Sì. Dunque, Hans è stato un deportato che mi ha aiutato molto. E’ stato un po’ la causa quasi della mia morte, perché in quarantena è arrivato davanti alla quarantena… Hans era un deportato di Bolzano che parlava benissimo il tedesco e che era stato messo in un comando importante, quello del pane. Lui una sera, saputo che erano arrivati degli italiani, è venuto davanti al blocco di quarantena, è il primo che mi ha spiegato che cosa era Mauthausen, quale inferno era Mauthausen. Poi prima di andare via mi ha dato una sigaretta. Naturalmente la sigaretta non si poteva fumare nel cortile, allora quando siamo entrati nel blocco, messi a dormire, abbiamo trovato un fiammifero e, quando il Kapò è uscito, abbiamo acceso la sigaretta. Poi io l’ho passata al mio vicino che era un comandante partigiano, Valentini. Valentini l’ha passata a Vecchi. Mentre passava la sigaretta a Vecchi è entrato il capo blocco, li ha visti e li ha presi tutti e due. Li ha portati nel Waschraum, noi abbiamo sentito gridare, sentito delle urla che non finivano più. Poi questo qui è entrato dentro e ha detto: ” Chi ha acceso la sigaretta venga fuori”. Io avevo acceso, questi erano vicino a me, non potevo che essere io ad aver acceso la sigaretta. Allora mi sono alzato, sono arrivato lì e ho trovato tutti e due insanguinati, svenuti per terra e quello ha cominciato a picchiare me. Mi ha picchiato, quando svenivo con un secchio d’acqua mi faceva rinvenire, poi ha detto: “Adesso vado a chiamare la SS”. Dato che al nostro arrivo a Mauthausen ci avevano letto il regolamento di Mauthausen, cioè chi veniva pescato a fumare veniva impiccato immediatamente alle travi del blocco, questo dice: “Vado a chiamare la SS”, c’era un segretario spagnolo, politico che dice: “Ragazzi, siete finiti perché se arriva la SS vi impicca tutti e tre”. Io parlavo tedesco perché avevo studiato al liceo scientifico tedesco, parlavo un po’ di tedesco. Allora gli dico: “Ma Lei è un fumatore, erano quattro mesi che non fumavamo in carcere, ecc. Abbiamo ricevuto una sigaretta, abbiamo sentito il bisogno di fumare. Lei dovrebbe capirlo”. Questo qui è uscito, dopo un quarto d’ora invece di tornare con la SS è tornato e ha detto: “A dormire”. Alla mattina ci ha chiamato fuori, ci ha detto chi voleva andare all’ospedale, perché eravamo tutti pieni di botte, di ferite, ecc. Ci avevano detto che andare all’ospedale era meglio non andare, perché lì si moriva. Abbiamo detto di no e abbiamo continuato la nostra vita. Quando siamo andati a lavorare e ci hanno messi al blocco 10, nel letto di fianco al mio c’era Hans, il quale si alzava alla mattina molto presto per andare al comando del pane. Dato che non aveva tempo di fare il letto, perché lì volevano il letto squadrato, fatto alla perfezione, abbiamo fatto un contratto. Dice: “Sentite, voi mi fate il letto quando vi alzate un’ora dopo, un’ora e mezzo dopo, io tutte le sere vi porto un pezzo di pane”. Abbiamo fatto il contratto e abbiamo mangiato il pezzo di pane tutte le sere che lui ci portava e abbiamo fatto il letto.

D: Alberto, scusa, il forno di panificazione era dentro nel campo di Mauthausen?

R: No, era fuori.

D: Ma fuori giù verso il villaggio?

R: Fuori, nelle baracche esterne dove c’erano gli uffici, la segreteria, dove c’erano le baracche della SS. Era fuori.

D: Il momento della Liberazione.

R: Il momento della Liberazione è stato una cosa meravigliosa e drammatica nello stesso tempo. Noi sette, otto giorni prima della Liberazione, che è avvenuta ufficialmente il 5 Maggio del ’45 naturalmente, prima della Liberazione un giorno ci comunicano che non andiamo più a lavorare. Allora noi abbiamo subito capito che stava finendo, perché avevamo le notizie che la guerra andava male, che gli alleati erano vicini. Però il comitato internazionale dei deportati nel campo ci ha informati che avrebbero tentato di farci fuori tutti, allora ha dato delle disposizioni per cui ciascun gruppo, ciascuna nazionalità doveva aggredire una parte della cinta per cercare di fuggire, qualora avessimo visto che facevano i preparativi per eliminarci tutti. Fatto sta che mentre noi facevamo questa organizzazione loro non hanno fatto in tempo a far niente. Una mattina hanno raccolto tutti i gioielli, i soldi, le cose che avevano, sono saliti, hanno preso i Kapò e sono scappati. Per cui ci hanno lasciati liberi. Alla Liberazione è successo il finimondo, perché di 40.000 persone che eravamo 30.000 stavano morendo di fame. Per cui organizzare il campo era difficilissimo. Di fatti il CLN ha armato delle squadre per ogni nazionalità e le squadre costringevano i deportati ad andare in cucina a far da mangiare, costringevano i deportati a tenere un minimo di pulizia. Facendo da mangiare, cos’è successo? Che cambiando il vitto è scoppiata un’epidemia di diarrea. Per cui morivano come le mosche. Il blocco era come un gabinetto, pieno, non facevano in tempo ad andare nel Washraum, tutti i letti…era una morte continua. Tanto che, questo è l’episodio più bello di Mauthausen, Don Gaggero, che era in una condizione terribile, aveva le gambe gonfie, magro, stava in piedi per miracolo, raccoglieva tutte le lettere, i dati dei moribondi e poi un giorno mi dice: “Alberto, io ero stato nominato segretario, non segretario politico, segretario burocratico del comando della baracca 10”. Mi dice: “Senti, io voglio andare a Mauthausen”. Prima mi dice: “Facciamo la sepoltura a tutti quelli che muoiono”. E abbiamo incominciato col primo a fare la sepoltura, ma morivano così tanti che non siamo riusciti a farlo. Poi mi dice: “Voglio andare a Mauthausen a prendere l’ostia e gli abiti per dire la messa al campo”. Parte, va a Mauthausen, dal prete di Mauthausen, si fa dare l’ostia, si veste da prete, ritorna al campo e dice la messa al campo di Mauthausen. Un episodio meraviglioso, perché l’abnegazione di Don Gaggero è stata una cosa indescrivibile.