
Carlo Todros
Nato il 23/03/1923 a Pantelleria (TP)
Intervista del 19/07/2000 a Brescia
TDL n. 36 – durata: 51’
Arrestato nel settembre del 1944 a Imperia Porto Maurizio (Imperia)
Incarcerato a Imperia, Savona e Genova
Deportato nei lager di Fossoli (MO) e Mauthausen
Liberato il 05/05/1945 a Mauthausen
Nota sulla trascrizione della testimonianza:
La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.
Mi chiamo Carlo Todros, sono nato il 23 marzo del 1923 a Pantelleria, provincia di Trapani. E però posso dire di essere piemontese perché a Pantelleria sono solo nato, e poi mi sono trasferito a Torino, perché mio padre era torinese, mia mamma invece era nativa di Pantelleria e a suo tempo, in quei tempi si usava che la mamma quando aspetta famiglia andava dai genitori, e quindi io e mio fratello siamo nati tutti e due a Pantelleria, però effettivamente siamo torinesi. I nonni erano torinesi, una famiglia ebrea di Torino, molto importante, avevano una posizione molto rilevante in Piemonte, e quindi poi noi ci siamo – dopo un periodo di permanenza in Liguria – ci siamo trasferiti a Torino. La permanenza in Liguria era derivata dal fatto che scoppiata la guerra, i bombardamenti a Torino erano molto pesanti, e allora mia madre, preoccupata, ci siamo trasferiti in Liguria a Imperia dove da giovani, da piccoli, avevamo fatto una parte delle elementari delle medie e una parte delle superiori, almeno mio fratello, e avevamo certamente delle conoscenze e il posto era molto più tranquillo, chiaramente.
Ci siamo trovati bene fino ad un certo momento, quando nel 1938 il governo italiano guidato da Mussolini, il fascismo, emette le prime leggi razziali, le prime leggi razziali che prevedevano l’espulsione dalle scuole statali del regno degli studenti italiani, ma di religione ebraica. Noi sino a quel periodo eravamo considerati ebrei, come in effetti risulta dai documenti a Torino, e quindi siamo stati espulsi dalla scuola pubblica; e abbiamo avuto la possibilità, chiamiamola possibilità e fortuna, di poter continuare a studiare, perché come sempre in Italia le leggi prevedono sempre delle scappatoie: la legge diceva che i cesarini italiani, per quanto si riferiva agli studenti di religione ebraica, dovevano essere espulsi da tutte le scuole statali del regno, quella parola ‘statali’ ci ha consentito di essere accolti da un istituto privato di sacerdoti, i Fratelli delle scuole cristiane, che ci hanno accolti, e quindi abbiamo potuto continuare a studiare. Chiaramente però, il fatto di aver subito questo affronto – che noi consideravamo un affronto non essere più uguali agli altri ragazzi e agli amici che avevamo – ha iniziato una contestazione. Una contestazione che non va intesa una contestazione come può avvenire oggi, con manifestazioni con… diciamo, sollevazioni o altro, era una contestazione basata su incontri che noi avevamo tra noi giovani, ebrei chiaramente, che erano stati espulsi, e quindi valutavamo la situazione. Non potevamo essere favorevoli, chiaramente, ad un regime che ci considerava diversi dagli altri e quindi in un periodo di dittatura, perché in quel periodo in Italia vigeva la dittatura fascista, siamo stati subito segnalati, registrati, controllati, e quindi abbiamo subito poi tutta la deportazione proprio a seguito di questa segnalazione.
Noi come ho detto prima eravamo sfollati in Liguria, a Imperia, avevamo formato questo gruppo, piccolo gruppo di amici che si riunivano per valutare la situazione in cui ci si trovava; e sino al momento in cui, dopo l’8 settembre del ’43 – quando ritenevamo che tutto fosse finito, e invece è iniziato allora il nostro calvario – dopo l’8 settembre del ’43, con l’invasione tedesca dell’Italia settentrionale, chiaramente sono iniziate le persecuzioni perché i tedeschi usano dei sistemi diversi dagli italiani e appena arrivati in Italia, occupate le varie zone, si sono fatti segnalare le persone pericolose, o gli ebrei, o le persone che avevano avuto delle restrizioni della libertà prima. E quindi immediatamente dopo… dunque, l’8 settembre del ’43 l’Italia chiede l’armistizio… dopo quindici giorni i tedeschi invadono l’Italia settentrionale; a fine settembre del ’43 incomincia il nostro calvario perché arrivano i tedeschi a Imperia e su segnalazione veniamo immediatamente arrestati. Veniamo arrestati sia io che mio fratello, assieme a altre persone, e veniamo trasferiti nel carcere di Imperia per un primo interrogatorio, poi è durato…
D: Scusa Carlo, quando vi hanno arrestato?
R: Dunque, verso fino settembre del ’43, pochi giorni dopo l’occupazione nazista dell’Italia settentrionale. Veniamo trasferiti a Imperia, nel carcere di Imperia, dopo un sommario interrogatorio; veniamo trasferiti a Savona, nel carcere di Savona. I sistemi dei tedeschi sono diversi dai sistemi italiani, hanno una procedura che deve seguire un iter stabilito, dobbiamo seguire delle tappe, delle varie tappe, sino poi alla conclusione che è la deportazione.
D: Scusa, Carlo, vi hanno arrestato dove?
R: A Imperia, a Porto Maurizio, verso la fine di settembre del 1943. Veniamo trattenuti pochi giorni nel carcere di Imperia, poi veniamo trasferiti nel carcere di Savona. Dopo qualche giorno ancora del carcere di Savona, senza essere interrogati, veniamo trasferiti nel carcere di Marassi a Genova. E qui inizia il periodo tragico, perché siamo sotto la protezione delle SS tedesche. A Marassi veniamo trattenuti e ci fermiamo circa un mese, a Marassi in una cella eravamo in sette, io e mio fratello, Raimondo Ricci, Enrico Nicola Serra, Nino Esposito, e un altro che poi… quattro sono stati liberati e io e mio fratello e Raimondo Ricci e il Serra siamo stati deportati. Restiamo in cella un mese a Marassi senza interrogatorio, iniziano le prime… ci rendiamo conto subito che le cose sono cambiate perché siamo in mano alle SS. Sino al giorno in cui veniamo chiamati e trasferiti su un camion e portati… da Marassi veniamo trasferiti alla stazione, alla stazione ci caricano su un treno e veniamo trasferiti in un luogo che noi non conoscevamo, che è Carpi, Fossoli. Veniamo portati in un campo di concentramento, questo è un campo di concentramento certo, un campo di raccolta. Il campo di Fossoli si può dire ha raccolto il 90% dei deportati italiani, Bolzano è venuto dopo nel senso che dopo la liberazione, dopo diciamo… lo smaltimento del campo di Fossoli, i prigionieri sono stati portati a Bolzano. A Fossoli il 90% dei deportati sono dei prigionieri, poi sono stati deportati. Come ho detto prima, era un campo di raccolta: man mano che dalla Germania arrivavano richieste di lavoratori, chiamiamoli lavoratori, prelevavano dal campo di Fossoli la manodopera e la trasferivano in Germania. Eravamo divisi dagli ebrei, in questo campo c’era anche Primo Levi – che non conoscevamo ancora, lo abbiamo conosciuto dopo la liberazione – e una parte di questi ebrei sono partiti quasi tutti prima di noi e sicuramente sono andati ad Auschwitz. Noi, dopo tre mesi circa di permanenza a Fossoli, abbiamo… una mattina veniamo svegliati, veniamo raggruppati nella piazza dell’appello, vengono chiamati i nominativi, i nomi di quelli che devono partire, e partiamo per una destinazione ignota. E veniamo trasferiti su camion alla stazione di Carpi – noi eravamo a Fossoli, che sono cinque chilometri da Carpi, dove c’era la stazione – e qui inizia il viaggio verso la… verso l’ignoto perché noi non sappiamo assolutamente dove veniamo trasferiti.
D: Scusa Carlo, a Fossoli vi hanno immatricolato?
R: Sì, a Fossoli avevamo un numero. Questo numero non me lo ricordo perché non avevamo ancora bene la percezione di cosa volesse dire perdere il nome. Avevamo una vita abbastanza facile a Fossoli, certo, però non mi ricordo il numero di Fossoli.
D: Ecco, ti ricordi nel periodo che tu eri deportato a Fossoli, se c’erano anche dei religiosi?
R: Beh sì, molti religiosi c’erano. Adesso i nomi non me li ricordo, però dalla prigione a Mauth… al campo di sterminio i sacerdoti hanno sempre prevalso su tutti gli altri. Gaggero, Don Gaggero – adesso non ricordo se era a Fossoli, ma sicuramente era a Fossoli, io poi l’ho conosciuto a Mauthausen – era un uomo eccezionale come tutti i sacerdoti, perché i sacerdoti erano quelli che avevano pagato perché avevano dato aiuto o ai partigiani o agli ebrei, quindi erano moltissimi i sacerdoti nei campi di sterminio.
Quindi quella mattina partiamo per destinazione ignota. Qui un particolare va ricordato, perché mia madre… non perché è mia madre, ma mia madre ha sofferto come abbiamo sofferto noi, soprattutto perché aveva due figli. Io mio padre non l’avevo più, non l’ho conosciuto, è morto quando io avevo pochi anni, e mia madre ci ha sempre seguiti in tutte le traversie di questa nostra avventura; e nel periodo in cui noi eravamo a Fossoli lei si era trasferita a Carpi, si era trasferita a Carpi e ci portava aiuto, per quanto era possibile, in viveri, in abbigliamento, e quindi anche lei ha sofferto, forse più di noi, la nostra deportazione. Quella mattina, su informazione di una signora che ci ha aiutato parecchio quando eravamo a Fossoli, ha saputo che noi partivamo e quindi ce la siamo trovata di fronte alla stazione di Carpi, noi eravamo già sul carro bestiame, era ancora aperto. E poi siamo partiti, siamo partiti per una destinazione ignota, e non sapevamo dove si andava. Inizialmente avevamo capito dove eravamo perché chiaramente il carro bestiame aveva una feritoia da cui vedevamo fuori, e sino a Bolzano avevamo capito che eravamo in Italia. Poi dopo Bolzano non c’è stata più possibilità di sapere dove fossimo diretti.
D: Eravate in tanti sul tuo Transport?
R: Nel vagone eravamo una cinquantina. Una cinquantina di prigionieri che hanno provocato delle difficoltà non indifferenti perché intanto eravamo carichi di bagagli, questo era un nostro desiderio, portarci il più possibile roba, se avessimo saputo la fine che avremmo fatto non avremmo subito… sopportato quel sacrificio per portarci via la roba. Noi avevamo talmente tanti bagagli che non potevamo distenderci, dovevamo stare in piedi, e abbiamo fatto tre giorni di viaggio, tre giorni e tre notti sempre in piedi, perché pensavamo che quel bagaglio costituisse poi la nostra salvezza; invece non è servito a niente perché come siamo arrivati ce lo hanno portato via.
D: Ecco, in che periodo è avvenuto questo Transport?
R: Dunque, siamo partiti a fine… il 10 di maggio del ‘44. Il viaggio è durato tre giorni e tre notti; e all’interno del vagone sono successe scene indescrivibili perché chiaramente i giovani hanno subito maturato l’idea di tentare la fuga, però dentro al vagone c’erano delle persone anziane, dei vecchi, dei bambini, e i tedeschi prima di partire ci avevano dato la solit[a] informazione: ognuno di voi che scappa fuciliamo dieci prigionieri. E allora abbiamo ritenuto di non sottoporre a questo rischio delle persone che non avrebbero potuto scappare con noi e quindi abbiamo desistito, anche perché come ho detto prima, ritenevamo di arrivare in un paese che non sapevamo quale per lavorare. Eravamo giovani, robusti e forti ancora – io in quel periodo pesavano quasi novanta chili – e pensavamo di superare quel periodo, e quindi abbiamo proseguito il nostro viaggio, tre giorni e tre notti.
Arriviamo di notte, perché poi una delle caratteristiche dei tedeschi era quella di non creare curiosità, o sollevare delle indagini da parte di nessuno, si arrivava sempre di notte. Siamo arrivati di notte in un luogo, ci fanno scendere dal carro bestiame, noi siamo scesi abbastanza sollevati pensando di aver terminato il nostro calvario. Siamo arrivati alla stazione di Mauthausen e la prima cosa che leggiamo appunto, Mauthausen, per noi un nome assolutamente sconosciuto, non sapevamo dove si trovasse questo paesino che oggi sappiamo bene dove si trova. Scendiamo dal treno e ci incolonnano con tutti i bagagli. Per andare al campo esisteva una strada, ma noi non facciamo la strada, ci fanno iniziare a conoscere il nuovo sistema a cui saremmo stati poi sottoposti, e ci fanno fare tutto il tragitto dalla stazione al campo, che sono quasi cinque chilometri, attraverso i campi in salita, attorniati da due file di SS, da dei cani lupo ammaestrati per quel compito in modo egregio, e soprattutto carichi di bagagli. Eravamo in cinque: io, mio fratello, Raimondo Ricci, Enrico e Nicola Serra; e Nicola era malato, era il più anziano di noi, e non riusciva a portare su i bagagli. Perché poi oltre a tutto il trasferimento non è avvenuto in forma normale ma abbastanza velocemente, di corsa, bastonati dalle SS quindi dovevamo fare doppia fatica. Il terrore nostro è che Nicola, non potendo trasportare i bagagli, li lasciasse, li perdesse, e allora ce li siamo caricati noi; oltre a quello che avevamo già ci siamo caricati i suoi bagagli. Abbiamo faticato. Chiaramente abbiamo faticato, però, a un certo momento, siamo arrivati in un piazzale, e qui è iniziato l’incubo. Perché di notte il campo di Mauthausen era al buio, esistevano solo due luci, uno sulla sinistra e uno sulla destra. La luce sulla sinistra era… proveniva da una baracca, era la baracca numero uno che era la lavanderia, l’abbiamo visto dopo, e sulla destra invece abbiamo notato una cosa per la quale noi non eravamo preparati: un’immensa ciminiera che fumava e che ogni tanto lanciava delle fiamme, e con un odore che dava fastidio, e non sapevamo che quello era il crematorio. Non conoscevamo ancora niente, assolutamente niente dei campi di sterminio, appena entrati nel campo poi le informazioni erano immediate, eravamo a conoscenza di tutto. Il crematorio fumava giorno e notte, certo. La baracca di sinistra sotto la quale siamo stati trasferiti era la baracca delle lavanderie, non era una lavanderia tradizionale certamente. Arrivati sotto questa baracca ci fanno spogliare, denudarsi completamente, e ci fanno lasciare tutto quello che avevamo portato davanti a noi. In quel momento arrivano dei prigionieri, con delle portantine, delle specie di carrelli, buttano dentro tutta la nostra roba: anelli, orologi, catenine, fotografie, tutto quello che avevamo viene portato via. La biancheria viene portata in questa baracca che era la baracca numero 1, dove veniva ripristinata.
Ecco, questa è un’altra cosa che va tenuta presente. Il sistema tedesco era arrivato a organizzare una cosa che nessuno forse avrebbe potuto pensare. In un periodo di guerra, dove l’industria era adibita alla produzione di armi, non avevano più tempo a produrre abbigliamento o cose di genere voluttuario, chiamiamolo così, e quindi se noi pensiamo che dodici milioni di persone sono entrate nei campi di sterminio con un bagaglio immenso di roba che si sono portati su, pensate che cosa abbiamo contribuito noi a fornire alla Germania. Loro non avevano più neanche bisogno di fare abbigliamento perché tutto quello che noi avevamo lo hanno distribuito poi alla popolazione. Veniva lavato, ordinato e messo in ordine in questa baracca numero 1, e poi distribuito alla popolazione. Nudi come vermi, e anche qui va fatto presente il fatto della nudità. Parliamo di 53, 54 anni fa, certamente le cose sono cambiate, ma il fatto di trovarti nudo in mezzo a delle persone, anche se uomini, a parte che c’erano delle donne, quindi quando parlo di queste cose, soprattutto quando parlo nelle scuole, dico: certo che noi abbiamo sofferto, però se consideriamo la nostra sofferenza in rapporto a quello delle donne, le donne hanno sofferto veramente! la donna nuda, in mezzo a degli uomini, trattata allo stesso modo nostro, perché quando si entrava in un campo di sterminio erano due le possibilità: lavorare, essere sfruttato o morire subito. Se eri nella possibilità di essere sfruttato, non esistevano più sesso, niente, tutti uguali, eravamo tutti dei numeri, vestiti tutti allo stesso modo, trattati tutti allo stesso modo. Quindi immaginate che cosa quella notte devono aver subito, sopportato quelle povere donne in mezzo a degli uomini nudi. Noi eravamo anche nudi ma eravamo anche in difficoltà noi.
Passa la notte con un freddo che non vi dico, poi il sistema nervoso cominciava a ceder. Alla mattina sentiamo suonare una sirena, anche qui il sistema tedesco. Vedete, noi siamo arrivati a Mauthausen e non siamo entrati subito nel campo, perché avremmo disturbato la vita normale del campo. Il campo riposava, lavoravano i lavoratori, i turni di lavoro a Mauthausen erano di dodici ore, dalle sei del mattino alle sei di sera, poi uscivano quelli delle sei di sera, [e tornavano] alle sei del mattino dopo. Il campo quel momento riposava, quindi noi non potevamo entrare a disturbare la vita del campo. Alla mattina a una certa ora abbiamo sentito suonare una sirena, poi abbiamo sentito delle urla, dei conteggi, delle grida, solite scene allucinanti. Poi abbiamo sentito un rumore strano di zoccoli che uscivano, erano i lavoratori del mattino. Ecco, in quel momento allora, noi abbiamo la possibilità di entrare nel campo. Entriamo nel campo, eravamo all’esterno sempre del campo ma dietro la baracca della lavanderia, veniamo portati sotto la baracca della lavanderia dove c’è una doccia. Questa era una doccia, certamente noi non sapevamo ancora che due baracche, tre baracche dopo esistevano delle docce che erano delle docce finte che erano la camera a gas. E qui ci fanno fare una doccia che per quanto fredda o tiepida non ha importanza, ci ha dato sollievo perché dopo una notte di quel genere ci ha dato del sollievo. Abbiamo fatto la doccia e poi seconda fase dell’annullamento della personalità. Arrivano dei barbieri, dei prigionieri, come noi, come tutti, perché nei campi di sterminio tutto era in mano ai prigionieri, ad eccezione della camera a gas che veniva fatta funzionare dalle SS tutto il resto era in mano ai prigionieri. Arrivano dei barbieri, ‘Friseur’, che in genere erano spagnoli. Gli spagnoli erano quelli che erano arrivati prima e che quindi avevano occupato i posti diciamo migliori: barbieri, cucine, lavanderia eccetera. E quindi arrivano questi signori, e inizia la seconda fase dell’annullamento della personalità. Nudi – pensiamo sempre alle donne, assieme a noi – veniamo depilati completamente, rasati a zero, e depilati in tutto il corpo, quindi immaginiamo quello che devono aver subito quelle povere donne. Dopo veniamo… dopo questo trattamento che ci ha lasciati scioccati, perché non eravamo abituati, a gruppi di cinque veniamo portati sopra all’interno del campo dove ci sono dei tavolini, con delle SS sedute dietro, e vicino alle SS c’è un prigioniero italiano che conosce il tedesco. E qui ecco, io mi riferisco sempre alla scena del film ‘La vita è bella’ di Benigni, che… quel punto è un capolavoro, perché quando lui entra nel campo che arriva le SS, e chiede se c’è qualcuno che sa il tedesco, perché deve dare delle informazioni, lui che non sa una parola di tedesco, dice “ci sono io” perché c’ha il bambino vicino. E quindi traduce quello che ha detto il tedesco in un modo eccezionale eh, veramente un’opera d’arte quel punto. Invece noi che siamo già più grandi, abbiamo… dobbiamo sapere dove siamo arrivati, e allora vicino alle SS c’è un prigioniero italiano che traduce quello che dice il tedesco, nome cognome professionale, tutte stupidaggini perché avevano già tutti gli elenchi. E poi le solite frasi che iniziano a lasciarci scioccati perché la prima frase che ti dice, dice “tu di qua non uscirai più vivo, uscirai di là”, e allora ti faceva vedere quel famoso camino che la notte avevamo visto fumare. “Da questo momento tu non sei più un uomo, ma sei un numero, il tuo nome non esisterà più, il tuo numero è…”, e ognuno aveva il suo numero, io avevo il numero 76.604, che poi in tedesco, per uno che non sa il tedesco, non è semplice. E poi ti informava che se non rispondevi a una chiamata di quel numero eri passibile di morte, quindi noi i primi giorni eravamo tutti tesi a cercare di ricordare ‘sechsundsiebzig sechshundertvier’ [76 604]: non è semplice per uno che non sa il tedesco. Lo abbiamo imparato poi a nostre spese. “Dunque tu da questo momento non sei più un uomo ma sei un numero”, e poi la frase, ecco, questa è quella frase che noi ricordiamo, sempre la ricordiamo perché dimostra come si è trattato di una categoria di uomini, di un popolo, perché i tedeschi sono così sempre, ancora oggi sono di una precisione, sono, sono… stabiliscono una cosa e la fanno, non c’è niente da dire, non sono come noi che le leggi le facciamo e poi le variamo. Comunque, la frase che loro ti hanno detto in quel momento, dopo, quando siamo tornati a casa, ci siamo accorti di quale… di quale previsione erano riusciti a creare un sistema del genere, “nessuno di voi tornerà a casa, però può essere che qualcuno sopravviva. E quando tornerà a casa e racconterà quello che ha visto e che ha subito, non sarà mai creduto.” Ecco vedete, proprio quello che si è verificato. E dirlo in quel periodo non era facile per vedere quello, invece si è verificato proprio quello, “nessuno di voi sarà creduto”. E in effetti quando siamo tornati, che abbiamo cercato di raccontare, ricordando quel periodo, ma anche gli stessi familiari, non erano in grado di poter recepire quello che noi dicevamo, e molto spesso preponevano ai nostri discorsi le loro sofferenze certo, la fame, i bombardamenti, il periodo di guerra che per noi erano cose ridicole. E quindi abbiamo deciso per un certo periodo di non parlare più, e non abbiamo più parlato, sino al momento in cui, per fortuna, è sorto dal nulla Primo Levi e ha iniziato a scrivere i suoi libri, ‘Se questo è un uomo’, ‘La tregua’, ‘I sommersi e i salvati’, che hanno fatto conoscere questo problema in modo più importante. E allora sulla sua scia abbiamo iniziato a testimoniare, sempre però su richiesta: noi non ci imponiamo mai, noi soprattutto nelle scuole, andiamo quando ci chiamano e ci pregano di raccontare la nostra esperienza.
Dopo questo primo contatto con le SS veniamo trasferiti in un blocco di quarantena. Questo si chiamava quarantena perché per loro era un blocco dove iniziava la prima selezione. I più robusti sopravvivevano, quelli che erano già deboli non gli servivano e quindi dovevano morire. Quaranta giorni in un blocco dove a malapena si stava in 200 persone – eravamo in 500 – dormivamo in terra, senza possibilità di avere materassi e niente, e stavamo tutto il giorno fuori, pioggia sole non ha importanza, sporchi come non vi dico. Io ricordo sempre, quando si arrivava alla sera che si doveva andare a dormire… dormire? no, si andava nella baracca, si dormiva in 500 in un luogo dove a malapena ci stavano 200 persone, allora si dormiva come le sardine testa e piedi, testa e piedi, no? Io ricordo che alla sera, quando si avvicinava il momento, ci avvicinavamo io e mio fratello, e stavamo vicini, perché perlomeno dicevamo “almeno dormiamo, so che dormo con i piedi di mio fratello, invece di dormire con i piedi di uno che non conosco”.
E quindi la notte passava, poi passava il giorno dopo e a questo ritmo su circa 500 siamo sopravvissuti in 250, 250 che erano quelli validi per poter essere sfruttati per il lavoro. E allora si usciva da questo blocco di quarantena e si veniva trasferiti nelle baracche, o trasferiti nei sottocampi, perché Mauthausen è il campo centrale, però Mauthausen aveva 52 sottocampi e quindi a seconda delle necessità… Perché loro avevano trovato anche un altro sistema, che era quello di evitare il trasferimento di persone avanti e indietro, nei luoghi dove esisteva un posto di lavoro una fabbrica o un qualcosa creavano un piccolo campo, che era sempre soggetto alle angherie dei Kapò, i famosi Kapò che poi senza controllo si comportavano in un modo spaventoso. E qui va fatto presente – io lo dico sempre non ho vergogna, sono stato anche in Polonia, e lo dico anche a loro – i peggiori carnefici nei campi di sterminio sono stati le SS sì, però seguiti a ruota dai polacchi. Non c’è niente da fare, io capisco che per salvare la loro vita hanno dovuto comportarsi in un certo modo, però noi italiani queste cose non le avremmo fatte sicuro. Soprattutto nel campo, nell’infermeria di Mauthausen, che era in mano ai polacchi, i Kapò erano polacchi, “tanto eran gente che doveva morire”, quando arrivava l’ora della zuppa, o del pane, se lo tenevano loro, e facevano morire i prigionieri. Comunque, queste sono altre considerazioni.
Veniamo trasferiti nei blocchi… all’interno del campo e qui avviene il primo trauma, cioè il secondo trauma, il primo trauma come ho già detto è stato quello quando ci hanno tagliato i capelli a zero, che io non ero abituato e ho pianto la prima volta. La seconda volta invece, in quel momento i prigionieri dovevano essere distribuiti per i vari lavori, e fanno l’appello e chiamano me, e non chiamano mio fratello. Ecco, allora in quel momento mi sono sentito perso, perché dividermi da mio fratello ritenevo fosse una cosa molto pericolosa, e in effetti sarebbe stato pericoloso. Mio fratello allora con un atto di incoscienza, perché si può solo dire incoscienza, e senza sapere delle conseguenze a cui sarebbe stato assoggettato, vista… – anche a lui spiaceva dividersi da me – ha avuto un atto di incoscienza. È andato dal capoblocco che era un triangolo nero, un criminale, mio fratello un po’ di tedesco lo parlava, e ha avuto il coraggio di chiedere a questo Kapò se era possibile tutti e due fuori o tutti e due dentro. E questo qui non so neanche come mai, preso alla sprovvista, ma poi lui non gliene fregava niente, però il solo fatto di aver chiesto un qualcosa a uno di questi Kapò costituiva già una grave colpa; invece questo qui forse quella mattina era in buone condizioni, ha guardato mio fratello e gli ha detto “va beh, tutt’e due dentro”. E siamo rimasti tutti e due a Mauthausen per un anno.
Un anno intero a Mauthausen… E poi anche questo è un fatto che va, e qui è sicuramente, io lo dico spesso, è sicuramente un miracolo che è derivato dalle preghiere di mia madre, perché non è possibile che tutto quello che è avvenuto, in contrasto con le regole di Mauthausen, sia avvenuto nei confronti miei e di mio fratello. Nei blocchi in cui noi dovevamo essere rinchiusi, non erano mai composti da prigionieri della stessa nazionalità, ed era un sistema che loro avevano trovato giusto: non creare solidarietà ma creare rivalità, anche nei blocchi; quindi, in un blocco non esistevano mai due della stessa nazionalità. Io e mio fratello siamo vissuti un anno assieme, nello stesso blocco, e dormivamo assieme io e mio fratello. È un miracolo che non ci sappiamo giustificare. Dormivamo in un castello di legno, dove a malapena ci stava una persona dormivamo in due. E dato che non dormivamo supini, ma dormivamo di fianco, perché non ci si stava, avevamo una coperta in due solo, e dormivamo avvolti in questa coperta. I blocchi erano costituiti da… tutto in legno, dalle finestre, che poi alla notte venivano tolte, perché loro dicevano che l’igiene era la prima regola [ride, ndr], pensate al freddo d’inverno in Austria. Eppure, con quella coperta e con il calore del nostro corpo io non ricordo mai di aver avuto freddo, non mi ricordo di aver mai avuto un raffreddore, e non ricordo di essermi mai ammalato. Questo è stato molto importante perché ammalarsi in un campo di sterminio voleva dire morire; quindi, è stata una condizione di favore, favorevole, molto favorevole. Mio fratello che, come ho detto, sapeva un po’ di tedesco, ha avuto la fortuna… mio fratello era ingegnere, si era dichiarato ingegnere, anche se non lo era ancora, ma lo era quasi. Ecco, qui un altro miracolo si è verificato. Nella nostra baracca c’era un austriaco che era il comandante del Baukommando che era il comando costruzioni. Perché Mauthausen aveva i vari comandi, il comando costruzioni serviva per dare schiavi nelle varie zone vicino a Mauthausen, per costruire qualcosa. E questo qua poi del Baukommando era un triangolo nero, cioè un criminale, che non sapeva neanche cosa volesse dire scrivere o fare un progetto. Quando ha sentito che mio fratello era ingegnere, gli ha chiesto se andava a lavorare da lui. E questo è stato effettivamente una fortuna enorme per mio fratello perché lavorava in una baracca al coperto, faceva progetti, progetti relativi alla costruzione di qualcosa. E ha avuto poi la possibilità di aiutare anche me perché mi aveva… mi distribuiva nei posti meno faticosi, e con me anche Raimondo, Raimondo Ricci che era con noi. I due Serra, invece, purtroppo sono stati trasferiti subito dopo il blocco di quarantena e non ne abbiamo più saputo niente, sino a qualche giorno prima della liberazione che io ho rivisto Enrico, Nicola era già morto. Appena dopo pochi giorni della deportazione quello era già andato perché era molto malato e debole, era morto subito. Enrico invece l’ho rivisto, pensate, l’ho rivisto qualche giorno prima della liberazione del campo.
Io lavoravo a costruire il rifugio antiaereo del comandante del campo, il colonnello Ziereis. Loro pensavano di vincere la guerra quindi i campi avrebbero dovuto essere mantenuti in efficienza ancora, quindi aveva bisogno di un rifugio antiaereo, e avevano chiesto degli scalpellini di professione; ed io, quando chiedevano… davano qualche incarico ero sempre il primo che alzavo la mano. Io ero scalpellino di professione, mai visto uno scalpello, mai vista una pietra; e quella notte mi sono accorto che forse avevo trovato il lavoro ultimo, perché il capo del blocco diceva “dovrai lavorare delle pietre, però se rompi la pietra sei considerato un sabotatore e quindi vai…”, quindi, ecco, ho trovato il lavoro finale. Per fortuna invece ho trovato vicino a me Andrea, che era uno scalpellino di professione, che faceva la sua pietra e poi faceva la mia anche.
A mezzanotte avevamo mezz’ora di riposo, avevamo un bidone di acqua e rape in più degli altri, perché lavoravamo per il comandante. A mezzanotte avevamo mezz’ora di riposo, io ricordo che eravamo a fine aprile, e in occasione di quella mezz’ora di riposo uscivo dal bunker dove lavoravo per andare a pigliare una boccata d’aria fuori. Mi trovavo nel campo, ma fuori da questo bunker sotterraneo, e vedevo continuamente arrivare delle colonne di scheletri umani che li portavano nel campo 3 dove li raccoglievano per poi eliminarli. Io ero appoggiato alla baracca che mi riposavo, pigliavo una boccata d’aria fresca e passano queste colonne di scheletri, nudi, tutti nudi… [breve interruzione, ndr] E dopo quel periodo di lavoro in questo bunker sotterraneo, quella notte esco fuori a prendere una boccata d’aria e sono appoggiato alla baracca e vedo arrivare, passare, che passavano continuamente queste colonne di scheletri che andavano al campo 3 per poi essere eliminati. In un attimo mi sento chiamare “Uccio”. Io mi chiamo Carlo, Carluccio, in Liguria a Imperia, se voi andate a Imperia chiedete Todros non lo sa nessuno, ‘Uccio’ mi conoscono tutti, ero ‘Uccio’ io. Allora mi guardo, non riconosco, non lo riconosco, perché erano scheletri, tutti uguali, non facevi… facevi fatica a riconoscere una persona. “Sono Enrico, ho fame!”. Ecco, non mi ha detto niente, “ho fame”. Allora io dico “Enrico, un attimo!” Mi precipito nel bunker sotto, raccolgo un secchio di quelli della calce sporco, non ha importanza, lo infilo nel bidone della zuppa, lo porto su, e mi avvicino alla colonna che stava proseguendo, in fondo c’era le SS, gli dò questo secchio di zuppa, non so quanti litri contenga, 6, 5-6 litri: tutto d’un fiato se lo è bevuto, tutto d’un fiato. In quel momento arriva la fine della colonna, arriva la SS, mi chiama, e mi… Come succedeva sempre era obbligatorio, ti dovevi avvicinare, metterti sull’attenti, mützen ab, giù il cappello. Come mi tolgo il cappello mi arriva una sventola a questo orecchio di una potenza tale che sono rimasto intronato per qualche giorno. E poi mi dice [ripete il gesto della SS col braccio teso a ordinare il riposizionamento, ndr]: dovevo anche io andare insieme agli altri. E allora in quel periodo, sapevo parlare il tedesco, gli ho detto che io stavo lavorando per il colonnello Ziereis, per fare un lavoro speciale, allora lui sentendo parlare di Ziereis, mi dice “Raus”. Ma questo schiaffo lo ricordo per un motivo, perché dopo qualche giorno certamente lo avevo già dimenticato, però quando sono tornato a casa dopo la Liberazione, andavo d’estate al mare in Liguria come sempre – non nuotavo più come una volta a livello professionistico, ma a livello amatoriale – come entravo in acqua mi restava l’acqua nell’orecchio, e non usciva più. Una volta quando nuotavo entrava l’acqua ma poi facevi così e usciva, in quel periodo non mi usciva più. È arrivato un certo momento che mi ha formato del pus e mi portava infezione. Allora mia madre si è accorta che io non rispondevo più bene, che non sentivo bene allora mi ha portato da uno specialista a Imperia, il quale è rimasto meravigliato, dice “ma signora, suo figlio ha un timpano spostato”. Con quello schiaffo mi aveva spostato il timpano. Me l’ha messo a posto subito. Quindi questa è la… diciamo, la nostra avventura. Tornati a casa abbiamo ripreso, per quanto possibile, dopo un periodo di ricostituzione fisica, perché non eravamo in condizioni…
D: Ecco, scusa un attimo…
R: Prego.
D: Allora, la liberazione, come te la ricordi tu?
R: Beh, la liberazione me la ricordo in modo molto molto chiaro. Non sapevamo che era il 5 maggio chiaro, non avevamo né orologi né calendari, sapevamo solo che la mattina alle cinque suonava la sirena. Avevamo già delle sensazioni, perché vedevamo l’SS più umana, meno crudele, più che di umano meno crudele, non ci trasferivano a lavorare fuori lontano dal campo, vedevamo aerei in continuazione che passavano e bombardavano, quindi avevamo la percezione che qualcosa stesse succedendo. Quella mattina alle cinque non suona la sirena. Non suona la sirena allora scendiamo ugualmente, perché noi ci si svegliava sempre a quell’ora, scendiamo e arriviamo nella piazza dell’appello e Mauthausen, pur essendo costruita tutta in pietra – aveva sopra queste mura dei reticolati di filo spinato attraversati dalla corrente, le garitte delle sentinelle sempre con le mitragliatrici puntate dentro – quella mattina non c’era più nessuno. Allora, meravigliati, non avevamo capito bene cosa stesse succedendo, dopo qualche momento, un’ora non so quanto, si apre il portone principale del campo ed entrano i primi carri armati americani. Ecco allora in quel momento qualcuno dice “vi siete accorti di essere liberi?” “No, noi no non ci siamo accorti di essere liberi, ci siamo accorti di essere vivi”. E quindi in quel momento sono avvenute scene non di gioia, di esultanza: eravamo apatici eravamo scheletri umani, chiaro? Io in quel periodo non so quanto pesassi, ma dopo che mi han portato in quelle tende che gli americani avevano costruito al di fuori del campo – cercavano di darci un po’ di sollievo e di aiuto, e il medico che ci pesava – io pesavo 38 chili, un metro e ottantadue, 38 chili, si faceva fatica a stare in piedi. Però eravamo… eravamo vivi, ecco, eravamo liberi non ce ne siamo ancora accorti, perché non avevamo ancora ben capito… avevamo perso proprio il senso della libertà.
E questo, come aneddoto finale, va raccontato che dopo un certo periodo di permanenza ancora dentro al campo, perché non avevamo neanche la forza di camminare, gli americani avevano messo a controllare… non erano controlli erano persone, non so neanche chi fossero, erano dei militari, delle persone anziane, con delle divise azzurre, scure, erano lì solo per controllare che non succedessero fatti strani. Io quella mattina con un io amico sono uscito dal campo per andare a vedere cosa c’era fuori. Arriviamo davanti al portone del campo – questo per dire che non avevamo capito bene ancora che cosa volesse dire essere liberi – e mi presento davanti a questo signore, mi metto sull’attenti, mi tolgo il cappello, gli dico “76604, vorrei uscire dal [campo]” e lui mi guarda e mi dice “nein” “come – dico – no? e allora siamo prigionieri come prima”. E lui ha capito il mio stupore, e mi dice “no 76604, eine Mann, un uomo, prego”. Ecco, in quel momento abbiamo capito che eravamo tornati uomini liberi perché fino a quel momento avevamo solo capito di essere vivi, ecco, e nient’altro.
Usciamo dal campo, facciamo pochi metri, c’è un carro armato americano, e come al solito gli americani… c’era questo soldato ufficiale non so chi fosse, sulla torretta del carro armato che fuma. Ecco, in quel momento mi sono ricordato che io prima fumavo, e allora gli ho chiesto [Todros mima il gesto con cui chiese al soldato americano una sigaretta, ndr]. E scende sotto nel carrarmato, esce fuori, mi ricordo una stecca di Lucky Strike, una stecca di Lucky Strike, ce l’ha tirata. Abbiamo acceso la sigaretta. La prima, non ti dico… dopo due boccate eravamo dist… siamo, non so quante ore rimasti distesi.
Comunque, dopo questo periodo, il campo si stava svuotando, ogni nazione veniva a prelevare i superstiti, noi italiani… saremmo ancora là oggi, sicuramente saremmo ancora là oggi se non interveniva la Croce Rossa svizzera. Eravamo gli unici abitanti del campo di Mauthausen. Stavamo bene, perché avevamo una baracca dove avevamo tutto, io dormivo su tre materassi di lana che ero andato a rubare nelle ville delle SS e… però volevamo tornare a casa. E allora il comandante americano dice “io non posso perché noi siamo ancora in guerra ancora, non abbiamo terminato – dice – l’unica…”. Insomma, passano… passano circa tre mesi, e dopo dice “facciamo un ultimo tentativo, telefoniamo alla Croce Rossa svizzera e vediamo se possono darci una mano”. Per fortuna, dopo quindici giorni, sono arrivate cinquanta camionette, e hanno caricato i pochi superstiti. Eravamo 250, su 5.750.
E di lì è iniziato il viaggio di ritorno, che è stato faticoso, lungo, però un viaggio organizzato bene, infermieri, ci facevano fermare ogni tanto, ci visitavano. E quindi siamo tornati finalmente a casa. Mia madre…
D: Ecco, scusa Carlo…
R: Dimmi.
D: Quando, e le tappe di questo viaggio di ritorno, se te le ricordi.
R: Beh, le tappe, dunque il via… il quando è, dunque, 5 maggio a metà luglio, metà luglio del ’45. Le tappe… so che abbiamo attraversato delle… non so dirti che città abbiamo attraversato. Abbiamo fatto sicuramente la Germania, abbiamo visto delle distruzioni che non avevamo mai immaginato, città rase al suolo completamente. E poi siamo arrivati al confine svizzero. Qui, e questo lo ricordo sempre perché quando siamo arrivati al confine svizzero non c’hanno fatto entrare. Pensate che hanno dubitato della nostra condizione. Loro hanno giustificato dicendo “noi non sappiamo chi sono, non vogliamo che entrino persone che non siano gradite…”. Ma se veniamo da Mauthausen, chi possiamo essere? Niente, non ci hanno fatto entrare. Abbiamo dovuto girare, fare tutto un giro, siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano siamo andati dai preti, come sempre ci hanno dato un po’ di aiuto. Poi abbiamo trovato – eravamo io e mio fratello Raimondo Ricci – abbiamo trovato un camion che caricava della merce e la portava a Milano, ci siamo saliti sopra, dietro, e ci siamo portati verso Milano. Arriviamo a Milano, figuriamoci, i treni in quel periodo non esistevano, rari… niente. Siamo rimasti alla stazione per un certo periodo, poi abbiamo trovato un treno che andava verso Genova.
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