Messina Francesco

Francesco Messina

Nato il 24.01.1926 a Pistoia

Intervista del: 02.09.2000 a Pistoia realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 115 durata: 40′ circa

Arresto: il 09.06.1944 a Montemurlo (FI)

Carcerazione: a Firenze al carcere Le Murate

Deportazione: Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Linz III

Liberazione: il 05.05.1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Francesco Messina nato a Pistoia il 24 gennaio 1926, sono stato arrestato il 9 giugno 1944 a Montemurlo, un paese vicino a Pistoia, dalle SS italiane.

Ci hanno portati al Comando SS di Firenze in via Bolognese dove siamo rimasti per tutto quel giorno, di lì alle Carceri di Firenze, le Murate, dove siamo rimasti tre o quattro giorni, di lì a Fossoli di Carpi, Modena.

D: Scusa, Franco: vi hanno arrestati a Montemurlo, perché?

R: C’era stata la scoperta di una radio clandestina, Radio Cora in piazza D’Azeglio a Firenze, vi era stata una delazione per cui avevano arrestato tutti quelli che erano lì, qualcuno (inutile fare i nomi) parlò e portò le SS dove eravamo noi a Montemurlo.

D: Tu facevi parte di una formazione partigiana?

R: Sì, andavo e venivo.

D: A Montemurlo avevate il vostro ….

R: Sì, c’era il Comando.

D: Vi ha arrestato la SS tedesca, in quanti vi hanno arrestato?

R: Cinque, due erano soldati italiani del sud, radiotelegrafisti e furono fucilati a metà giugno, i nomi che sapevo io erano Gallo e Panerai, ma non credo fossero i nomi veri.

D: Non sei mai stato interrogato?

R: Sì, sì!

D: Dove?

R: Al Comando SS.

D: A Firenze?

R: A Firenze in via Bolognese ma un interrogatorio abbastanza buono, sapevano già tutto.

D: Dopo quanti giorni ti hanno portato a Fossoli?

R: Tre o quattro giorni.

D: Sempre voi cinque o anche altri?

R: I due li fucilarono quasi subito.

D: A Fossoli in quanti vi hanno portato?

R: In tre.

D: Con cosa vi hanno portato?

R: In pullman.

D: Sei arrivato a Fossoli quando, se ti ricordi?

R: Direi a metà giugno del 1944. A Fossoli sono rimasto abbastanza a lungo fino al 21 luglio del 1944, di lì a Bolzano.

D: Restiamo un attimo a Fossoli, ti hanno immatricolato? Ricordi il tuo numero?

R: Sì, 1695!

D: Ricordi in che baracca eri?

R: Ero al 21°

D: Cosa facevate a Fossoli, lavoravate?

R: Poco, pochissimo, c’era da fare qualche lavoretto, spianare il campo ma si stava bene ….

D: Ricordi se nel campo di Fossoli hai incontrato dei religiosi anche loro deportati?

R: Sì, don Camillo che era di Bormio o di Livigno, poi don Angeli di Livorno, poi vi era uno grosso grosso che era il parroco di Correggio in Emilia. Ero a Fossoli quando ci fu la fucilazione dei 70 (si dice poi che erano 68) …

D: Come è avvenuta quella selezione, te la ricordi?

R: Benissimo! Una sera all’appello chiamano una lista di nomi, soprattutto immaginavamo noi che andavano in un altro campo, cosa che era logica.

Alla mattina si seppe che li avevano fucilati, si seppe in una maniera fortuita e fortunosa perché le donne del campo videro che una donna del campo aveva non so se un foulard che sapevano bene apparteneva a uno di loro, siccome questa donna era l’amica, l’amante, l’interprete spia di un tedesco italiano, parlava francese, tedesco, la bacchettarono bene bene e seppero tutto quello che dovevano sapere. Il comandante del campo disse che erano stati fucilati al Poligono di Carpi dove già correva voce nel campo che gli ebrei delle baracche, ebrei misti, non sapevano se considerarli ebrei o no, erano stati, qualcuno diceva, a scavare una fossa al Poligono di Carpi il che faceva capire il resto.

Conoscevo uno di questi ebrei, mi disse “Siamo andati a scaricare dei mobili”, non poteva fare diversamente, in ogni caso si seppe, mi pare avvenne il 12 luglio.

D: Quando eri deportato a Fossoli potevi comunicare con l’esterno del campo con i tuoi genitori, ricevevi pacchi o lettere?

R: Sì, una lettera la potevi scrivere ma non ci fu nemmeno il tempo.

Dopo nove giorni, il 21, la sera rileggono un altro elenco di nomi e questa volta vi ero anch’io per andare in un altro campo, non si sapeva se era vero o se era un campo come l’altro.

Si partì, questa volta su dei camion, ci portarono fino al Po dove si aspettò un barcone che venne dall’altra parte e si arrivò verso Mantova, lì con altri camion ci portarono a Bolzano.

D: Come ti ricordi l’ingresso a Bolzano?

R: Piccolo, brutto, mentre Fossoli era bellino nel suo genere di campo di concentramento, lì c’erano queste due baraccone, non c’erano nemmeno i pagliericci, proprio il primo trasporto che arrivò a Bolzano, dentro vi erano dei militi fascisti prigionieri, non ho mai saputo il perché, non abbiamo mai avuto contatti salvo che il capo baracca ci fu assegnato tra questi signori, dicevano che fossero dei fascisti dissidenti, ricordo che avevano un contegno molto militaresco, divise da milizia, marcavano a passo e bersaglieresco, un po’ il militarismo straccione che usava a quei tempi.

D: Ricordi il blocco che numero era?

R: No, perché non avevano ancora i numeri!

D: Il tuo numero di matricola lo ricordi?

R: Rimase quello lì perché ancora non era organizzato Bolzano, fu dopo che fu trasferito il comando del campo di Fossoli, ripeto, fummo il primo trasporto che arrivò e che partì.

D: Vi erano anche delle donne?

R: Quando c’ero io no, dopo so che ci sono state, eravamo un centinaio da Fossoli più i fascisti che abbiamo citato prima.

D: Questo capo baracca chi era?

R: Un fascista.

D: Non ricordi il nome?

R: Assolutamente no, non stava nemmeno con noi, noi non stavamo con lui data la sua origine, non era proprio il tipo adatto, mentre a Fossoli il capo baracca era eletto da noi.

D: Dei tuoi amici di Fossoli in quanti sono venuti in trasporto con te a Bolzano?

R: Un centinaio.

D: Ricordi il nome di qualcuno?

R: Sì! Luperini, Malagodi, tutti morti! Ve ne erano molti, venivamo tutti dallo stesso campo.

D: Lì siete rimasti quanto tempo?

R: Dieci, quindici giorni!

D: Eravate impiegati a fare che cosa?

R: Portare i pezzi di baracche per costruire il campo per gli altri, so che Bolzano divenne un campo abbastanza importante.

D: Non hai potuto più comunicare con casa?

R: No, no.

D: Dopo quindici giorni che cosa è successo?

R: Ci hanno messo su dei vagoni e ci hanno portato a Mauthausen.

D: Dal campo di Bolzano vi hanno messo su dei vagoni dove?

R: Credo alla stazione di Gries, non ricordo che fosse una stazione vera con dei passeggeri, probabilmente, era una specie di scalo merci.

D: Nel trasporto in quanti eravate?

R: Eravamo in 120, 130, è passato molto tempo!

D: Più o meno quanto è durato il viaggio?

R: Siamo partiti nel pomeriggio e siamo arrivati la sera a Mauthausen dove si entrava sempre di notte, se arrivavi di mattina rimanevi ad aspettare che fosse notte perché così non vi era gente per le strade, alle 9 o alle 10 aprirono e cominciarono i guai perché fino ad allora non dico fosse una villeggiatura ma quasi e la lunga marcia fino al campo, l’ingresso nel campo e la sosta fino alla mattina al muro del pianto, dove c’erano le docce, quelle vere, non quelle simulate a camera a gas. Era estate, peggio per quelli che ci capitavano d’inverno dove la gente moriva di freddo, doccia, vestiti non con le divise regolamentari a strisce ma con stracci, alcuni erano abiti borghesi, altri divise militare, io avevo un paio di pantaloni rossi militari, forse francesi del tempo di Napoleone, e lì si entrò nei blocchi di quarantena che non era una quarantena sanitaria ma attitudinale, per insegnarci come dovevamo comportarci e lì ci rimasi un mesetto tra una baracca e l’altra.

D: Ricordi le baracche quali erano?

R: Mi sembra che la prima fu la 16. Era la prima che si trovava entrando perché vi era un altro campo della quarantena, poi la 17 e poi per pochi giorni alla 18 che era quella dalla quale poi partimmo vestiti con la divisa, il numero, il mio era 82437. Il triangolo rosso, IT, (si diceva che avevamo la targa), il numero sul petto a sinistra, il numero sulla gamba destra e una cosina di latta attaccata al polso, non lo tatuavano come avveniva nei campi, se si scappava già vi era la pettinatura strana con la striscia rasa, bastava questo per essere ….

D: Cosa ricordi di questo mese di Mauthausen?

R: Abbastanza male, i giorni erano brutti e le notti brutte come i giorni. I giorni erano brutti perché si lavorava generalmente alla cava, 186 scalini senza scarpe, in mutande oppure con questi strani vestiti che avevamo ma niente zoccoli, con le pietre sulle spalle, su e giù, su con la pietra giù senza pietra.

Di notte si dormiva in quattro, vi erano i pagliericci stesi a terra, in quattro per ogni pagliericcio messi piede contro bocca, bocca contro piede, ma eravamo tutti sporchi per cui non aveva importanza.

D: Poi è venuto un altro trasporto con una selezione?

R: No, hanno chiamato un certo numero di persone, ricordo che gli italiani erano solo 7, 8, gli altri ebrei, polacchi, russi, francesi, jugoslavi, greci, e in treno, vagoni non carri bestiame, da Mauthausen a Linz c’è poca distanza. Più che Linz era un sobborgo industriale di Linz e arrivammo al campo che era un po’ meglio di Mauthausen nel senso che dormivamo in due per letto, poi per lungo tempo rimasi solo, avevo il letto, la cuccetta tutta per me e lì rimasi fino al 5 maggio.

D: Questo era Linz III?

R: Linz III, il campo di Linz I era stato distrutto da un bombardamento poco tempo prima che arrivammo noi a Linz III con molti morti e molti compagni miei venivano da Linz I.

D: A Linz III eri impiegato a fare che cosa?

R: Ero impiegato a fare lavori prima di essere assegnato a un lavoro fisso che era a una fabbrica di carri armati che si chiamava ……… per essere esatti la mia fabbrica era ………. Poi ve ne erano altre.

Quando i bombardamenti si intensificarono molte volte non si lavorava in fabbrica e si andava a trovare le bombe, a scavare le buche dove vi erano le bombe inesplose ma non sapevamo se non scoppiavano più o se erano a scoppio ritardato in modo da rendere accessibile, naturalmente, venivano poi gli artificieri tedeschi che pensavano a disinnescare.

D: Il campo Linz III era molto grande, vi erano molte baracche?

R: Saranno state 20 baracche dove si abitava, poi vi erano le altre, cucina ecc. ma dove c’era l’acqua ci si lavava, poi l’acqua non ci fu più per cui non ci lavammo più, siccome i bagni erano una cosa … bisognava spogliarsi in baracca, andare nudi al bagno che era abbastanza lontano nella neve con il freddo, poi un pochino di acqua calda, acqua ghiacciata poi senza asciugarsi tornare in baracca bagnati e rivestirsi, per cui meglio sporco che lavato in quel modo.

Dove abitavamo noi una ventina di baracche, ogni baracca era composta da due Stube, camerate, con in mezzo l’appartamento del capo baracca, vice capo baracca, capo Stube ecc.

D: Eravate in tanti come deportati?

R: Circa seimila!

D: Italiani?

R: Forse trecento.

D: Ricordi il nome di qualcuno?

R: Ricordo quello che ho detto prima Piccoli, Mugnaini, Cerchiai, penso che siano morti a parte il primo che se non è morto proprio ora, speriamo di no, ma gli altri penso per età, non so se sono ancora vivi. Poi vi era Otto Popper, austriaco di Vienna ma era stato preso in Italia a Milano, quindi, era targato IT, italiano, ebbe ancora fortuna ma poi sfortuna. Non so se interessa ma Popper era una bravissima persona, un caro amico, era quello con cui dividevamo il letto, i primi giorni quando andammo all’appello disse “A me sembra che insieme al vice capo campo ho giocato a poker a Vienna”. Quando ci fu il comando per lasciare il piazzale dell’appello si avvicinò a lui e disse il suo nome non andando direttamente da lui; l’altro si voltò si riconobbero e diventò il segretario del blocco, quello che segnava tanti morti, tanti arrivati, tanti presenti all’appello, dopo poco si ammalò, non so di che cosa e morì. Per essere lì fece la morte migliore che poteva fare, probabilmente, se fosse stato curato meglio se la sarebbe cavata, era giovane, una quarantina d’anni.

D: I posti lavoro rispetto al campo erano molto distanti?

R: Il mio era abbastanza vicino, andando piano dieci minuti un quarto d’ora ci si arrivava.

D: Vi erano anche dei civili?

R: Sì, vi erano i Meister che erano civili, il mio era lussemburghese volontario e poi vi erano molti IMI, non sapendo che nome dare ai prigionieri italiani militari, prigionieri di guerra non erano, civili non erano per cui avevano sulla divisa IMI, Internato Militare Italiano, in tedesco si scrive lo stesso.

Ricordo uno con il quale ci si parlava in tedesco perché era al CRAN, era un paranco che scorre su dei binari e quando doveva caricare dei pezzi ci si parlava in tedesco urlando, un giorno lo vidi scendere dalla scaletta in divisa e gli dissi, era la vigilia di Natale, “Buon Natale paese” e ci si riconobbe e fu quello che venne, dopo che eravamo stati liberati, al campo a cercarmi e mi disse se volevo andare al campo suo che mi avrebbe ospitato con altri italiani, c’era da mangiare, perché lì dove ero io non c’era più niente da mangiare, eravamo liberi ma non sapevamo che cosa fare, viveri non ve ne erano, aspettavamo che gli americani ci portassero qualche cosa ma non ci portarono nulla perché erano occupati a fare la guerra. Il nostro comando del campo che era formato da spagnoli, russi, fra l’altro lo spagnolo era un mio amico, andammo con questo italiano che si chiamava Rosito di Foggia, e chiesi se mi faceva uscire. Rispose: “Per ora non facciamo uscire perché vogliamo responsabilmente che qualcuno si prenda cura di voi, di noi, se poi non si vede nessuno vi si lascia andare via tutti”, così avvenne, nessuno venne, andammo via per i fatti nostri e finì lì.

D: Scusa, Franco, quante ore lavoravate?

R: Dodici ore, la nostra giornata era dalle 6 alle 6, turno di giorno e turno di notte. Naturalmente alle 6 dovevamo essere già sul posto di lavoro, quindi, credo che fosse alle 4,30 perché fra appelli, andarci, alla sera finiva alle 6 con l’intervallo per il lunch a mezzogiorno o a mezzanotte per cui erano 12 ore di presenza perché anche il lunch avveniva in piedi, era quasi lavoro anche quello.

D: Voi eravate addetti alla produzione bellica?

R: Carri armati Tigre.

D: Tu eri addetto in particolare a che cosa?

R: Con una squadra, di italiano vi ero solo io, Emile che era francese, Ivan russo, tre polacchi, e un ebreo polacco. Il lavoro era revisione cioè contare i buchi, non era un lavoro pesante ma vi era molto freddo, era più che altro la presenza. Quando vi furono i bombardamenti diventò molto più pesante perché c’era da sgomberare le macerie e andare ad isolare le bombe cadute.

D: Nella fabbrica vi erano anche delle donne?

R: No, non nella mia, eravamo in massima parte deportati, poi una quindicina di IMI e i Meister che erano tedeschi, il signore di cui parlavo prima era lussemburghese, quindi, equiparato ai tedeschi.

D: Il momento della liberazione te lo ricordi?

R: Lo ricordo male perché stavo molto male. In un primo momento avevano detto che dovevano trasferire il campo a Ebensee che essendo tra le montagne sarebbe stato occupato dopo, anche questa è una mania dei tedeschi: da Auschwitz li portavano a Mauthausen, in quel momento mi ero fatto male ad un dito lavorando ed ero nella baracca 14 che era quella di quelli momentanei invalidi. Dovendo fare questo sgombero fecero una selezione che consisteva nel fatto che sfilavano davanti ad un caporale della sanità e lui ci chiedeva “Puoi marciare?”, ovviamente risposi di sì, mi rimisero in blocco nella mia baracca per marciare su Ebensee, cosa che non è mai avvenuta.

Questo trasporto sarebbe stato a piedi e non fu fatto, non so per quale motivo, tanto che tornai alla baracca 14 con il mio ditone rotto.

Fanno un’altra selezione con la domanda “Puoi marciare?” … va detto che a parte il dito rotto ero in una condizione da non reggermi in piedi. Rispondo di sì e lui fu di parere diverso per cui mi rimise nel blocco 14. Devo dire che nella prima selezione quelli che non potevano marciare li fecero morire di fame nella baracca 14, senza ammazzarli, quindi, quando tornai nella baracca 14 la sgomberammo da tutti i cadaveri che c’erano e li abbiamo portati in una camera dove il camion li portava a Mauthausen, lì non c’era né camera a gas né crematorio, era un piccolo campo. Venne poi un contrordine, il governatore di Linz voleva strade sgombre per via del traffico militare e dei profughi, non ci credo perché eravamo seimila ma per buona fortuna cambiarono idea, ci misero tutti in fila, malati e sani, per muoverci e non sapevamo dove. Ci portarono nelle vicinanze di Linz, un paio d’ore di marcia, a una grande caverna sulla montagna vicino a Linz non più scortati dalle SS, ma scortati da vecchi, sdentati, ricordo che siccome erano senza denti la crosta del pane non la potevano mangiare e ricordo uno, figlio di cane, che aveva visto che stavo aspettando che la buttasse via e allora pestò bene bene questa crosta perché non la mangiassi io.

I russi che erano i più forti, i più numerosi con gli spagnoli che erano pochi ma organizzati molto bene si rifiutarono di entrare nelle baracche pensando che fossero minate.

Non capivo più nulla, ero in uno stato pre-comatoso, dopo qualche ora ci riportarono al campo, in fila scortati da questi vecchi territoriali. Ricordo che quando fummo nelle vicinanze del campo, spagnoli e russi, il piccolo comando che si erano preparati prima, presero i fucili a questi signori che non chiedevano di meglio che tornarsene a casa propria perché era gente di lì e tornammo al campo da liberi, tornammo al campo perché non avevamo altri posti dove andare e ricordo che andai nella mia cuccetta e che sentii sparare a lungo.

D: Questo quando avvenne?

R: La sera del 5 maggio, alla mattina andammo in questa strada alla caverna, qualche ora lì e poi era già scuro.

D: Gli alleati quando sono arrivati?

R: Gli alleati non li ho mai visti, ma non gliene faccio una colpa, evidentemente, erano occupati in altre cose perché come dicevo prima questo comando aveva chiuso il campo per consegnarci in maniera organizzata e responsabile e poi ci sparpagliammo, ognuno andò per conto suo e io andai in questo campo di ex militari italiani che era lì vicino, il campo 34, dove stetti per qualche giorno, ma stavo molto male e mi dissero di andare nelle vicinanze di Linz in un paese dove c’era un ospedale militare e il comandante era un ufficiale italiano, era un campo americano per cui noi italiani avremmo potuto sperare in un trattamento migliore. Mi ci portarono in macchina, una macchina rubata sul posto, e rimasi lì, eravamo rimasti solo italiani e jugoslavi, prigionieri di guerra, della breve guerra del 1941 perché gli americani l’hanno fatta a casa, gli inglesi e i francesi anche, i russi anche se non erano molto contenti di andarci perché so che poi, siccome erano vivi e questo puzzava di collaborazionismo, si erano battuti come potevano, la zona russa era vicinissima a dove eravamo noi, li avevano restituiti per cui si stava benissimo, eravamo in pochi. Fui curato e poi tornai a casa, a Bolzano.

A Bolzano andai all’ospedale civile, di lì venne una commissione svizzera che avevano organizzato a Malles, in Val Venosta vicinissimo al confine svizzero, un ospedale svizzero con personale svizzero, medicinali svizzeri, il cibo arrivava dalla Svizzera tutto a carico loro e stetti lì per una quindicina di giorni.

Di lì di nuovo a Bolzano all’ospedale civile e da Bolzano a Milano, da Milano a Torino e continuavo a stare male, sempre all’ospedale, per farla breve tornai a casa nell’agosto del 1946, avevo bisogno di cure.

D: Un anno dopo la liberazione!

R: Sì, un anno dopo!