Ratti Angelo

Angelo Ratti

Nato il : 02.05.1926 a Cernusco sul Naviglio (MI)

Intervista del: 26.05.2004 a Milano realizzata da
Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL:n.194 – durata: 80′ +41′

Arresto: 18.12.1943 a Cernusco sul Naviglio (MI)

Carcerazione: a San Vittore a Milano

Deportazione: Reichenau, Mauthausen (57616), Gusen I, Gusen II

Liberazione: a Gusen II il 05.05.1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Organizzazione materiali ed inserimento dati: Elisabetta Mascarello, Elena Pollastri

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

Io mi chiamo Angelo Ratti. Sono nato a Cernusco sul Naviglio il 2-5-1926. Sono stato arrestato il 12 dicembre 1943. Il 18 dicembre esattamente.

D: Dove sei stato arrestato?

R: Siamo arrestati a Cernusco.

D: Da chi?

R: Siamo arrestati dalle SS.

D: Italiane o germaniche?

R: C’erano gli italiani e i tedeschi perché, diciamo, che la scoperta di quello che stavamo facendo noi è stata fatta da quelli della Muti che nel motivo dell’arresto che noi eravamo sei studenti e dopo il coprifuoco noi andavamo fuori a strappare i manifesti fascisti. Uno di questi della Muti ha individuato uno di noi e una mattina l’hanno preso e lo hanno portato in una caserma e l’hanno fatto parlare. Questo è stato costretto a parlare e ha dovuto dare i nomi. Il 18 dicembre del ’43 arrivano a Cernusco un camioncino di SS con dei fascisti che erano quelli che sapevano gli indirizzi di tutti noi e ad uno a uno ci hanno preso tutti.

D: Tu eri in casa?

R: Io ero in casa. Di lì quando ci hanno preso tutti ci hanno portato nella caserma dei carabinieri di Cernusco e c’era un furgone. Ci hanno messo su e ci hanno portato a San Vittore, quella sera stessa lì. Il 18 dicembre del ’43 è stata la sera che hanno ucciso Resega a Milano, il famoso federale, quindi non ti dico che atmosfera appena entrati a San Vittore. C’erano questi qui della Muti che picchiavano, urlavano, quindi è stata una serata indescrivibile dallo spavento, perché noi avevamo diciassette anni, diciassette e mezzo, diciotto, il più anziano aveva ventuno anni e lì ci buttano nelle celle, isolati. Siamo rimasti lì per quaranta giorni isolati. Abbiamo subito un interrogatorio in viale Monte Rosa, però, devo dire che ci hanno spaventati, nel senso che durante l’interrogatorio avevano in mano la pistola per dire “Vi facciamo fuori, eccetera, eccetera”; però non ci hanno picchiati. Dopo di questo interrogatorio ci hanno riportati a San Vittore e ognuno nelle sue celle. Arriva il 3 marzo del ’44; si sentivano già le voci di una spedizione in Germania, però noi non sapevamo dove si doveva andare e dove si doveva finire. Alla sera verso le undici e mezza, mezzanotte, in ogni cella arriva la guardia carceraria con uno della Muti che andava a prelevare il detenuto, chiamiamolo così, e li portavano giù nel sotterraneo. Insomma, alla fine eravamo un gruppo di cento. Ci hanno caricato su questo camion e qualcheduno è riuscito a scrivere dei bigliettini buttarli giù, dicendo: “Siamo qui, destinazione ignota, eccetera”. Qualcheduno è riuscito a trovare dei biglietti e a recapitarli poi ai genitori. Questo però l’abbiamo saputo dopo la liberazione, quando siamo rientrati in Italia. Va beh di lì ci portano alla stazione Centrale, sotterraneo. Erano circa le 5 del mattino ed eravamo in cento. Cinquanta per vagone. Naturalmente il vagone non era completamente libero, c’erano dei cassoni delle SS. Non so cosa avevano dentro, probabilmente delle cose che portavano via dall’Italia, probabilmente quadri, non lo so, cose di un certo valore. Di conseguenza il vagone per un quarto era ristretto, quindi noi eravamo costretti a stare in piedi perché non c’era la possibilità di stare seduti oppure facevamo dei turni. E arriviamo alla sera circa alle 20 a Innsbruck. E ci portano in una località chiamata Reichenau. che credo che sia una periferia di Innsbruck e lì c’era un campo strano. Ci portano lì. Ci mettono dentro, anche lì, in due baracche chiuse. Cinquanta da una parte, cinquanta dall’altra, però anche lì eravamo stretti, non c’era la possibilità di sdraiarsi. E facevamo dei turni. Prova ne sia che noi eravamo i più giovani di questa deportazione qui. Non c’era posto da dormire e qualcheduno di noi, per esempio il mio amico Camerani, è andato a dormire sulle travi della baracca per lasciare il posto agli altri. E lì siamo stati chiusi circa otto giorni. Quindi immaginate chiusi senza una finestra. Bisognava fare i bisogni in un mastello di legno. Ti portavano da mangiare una volta al giorno. E quando ti portavano da mangiare, la prima cosa era di portare fuori questi bidoni di… puzze, eccetera, eccetera. Naturalmente siccome era pieno, uno si sporcava anche le mani ma non è che c’era la possibilità di lavarsi. Quindi bisognava ritornare in baracca e stare lì. Qualcheduno cominciava un po’ a… c’era qualche anziano che cominciava a disperarsi. Passano otto giorni e di mattina del 13 marzo del ’44, sempre alla mattina al buio, verso le quattro e mezza, cinque, ci caricano su un treno, carrozza vagone bestiame, destinazione ignota sempre anche lì. Noi non sappiamo dove andiamo. Arriviamo verso le 19 di sera, mi ricordo che era una serata triste, pioveva. Stazione Mauthausen. E cos’è questo Mauthausen? Con noi c’era un anziano che nel ’15-’18 era stato prigioniero a Mauthausen. Però non era quello il campo, era un altro. Però, si è ricordato. Ma dice “Ma questo qui, io ci sono già stato”. E mi ricordo che questo qui era un ex-comunista, cioè un ex-comunista, era un attivista del partito comunista e aveva il tatuaggio di falce e martello sul braccio. Era proprio un comunista convinto, un combattente, un antifascista al 100%. Arriviamo a questa stazione di Mauthausen. Un buio, un silenzio, quando arriviamo. Ad un certo punto ci scaricano e allora sentiamo i cani che gridano, le SS che con il frustino … “Fate presto, incolonnatevi, state zitti”. E i cani che abbaiavano. Ci incolonnano a cinque per cinque. E dalla stazione ad arrivare su al campo erano circa quattro chilometri. E arriviamo alla sera circa… siamo arrivati alle 19, saremo arrivati su circa alle otto e mezza, nove, di sera. E lì, prima di arrivare, vediamo una muraglia, una cosa, “Ma cos’è questa cosa?”, impressionante. Queste mura, nere, di pietra, scure. Era un’ossessione. “Ma dove andiamo?” Alla fine ci fanno salire e vediamo l’entrata, con le croci. Una cosa spaventosa. Aprono il portone e ci mettono appena dentro e ci lasciano lì. Ed eravamo sempre cento. Con noi c’era un anziano che aveva una gamba di legno e poi c’era un tenente degli alpini, che era stato con i partigiani, che l’hanno preso. Come hanno fatto a saperlo i tedeschi non si sa. Questo aveva la scabbia. A un certo momento ci mettono lì in fila. Via, lasciate giù tutti i vostri vestiti, anelli, orologi. E tirano fuori questi due qui. Non so dove sono andati a finire in quel momento. Comunque questo è stato uno dei momenti della, diciamo, della umiliazione che può avere un uomo, cioè nudi, completamente. E ci buttano sotto un sotterraneo dove c’erano gente strana in quel momento, vestiti con delle divise a righe, conciati, però anche abbastanza, in quel momento cattivi perché noi eravamo italiani e quelli erano i famosi Friseurs, cioè i barbieri, quelli che tagliavano i capelli, i peli, insomma, ti rasavano completamente. “Ah, siete italiani, siete dei fascisti”. Gli spagnoli con gli italiani non è che avevano molta simpatia perché ricordiamoci che i nostri italiani sono andati ad affiancare il Franco. Questi qui, però, erano oppositori di Franco e hanno combattuto contro Franco. Franco ha vinto, diciamo, la guerra in quel momento di Spagna e sono stati costretti a scappare in Francia. La Francia è stata presa dai tedeschi. I tedeschi hanno preso questi spagnoli e sono stati i primi, cioè nel ’42 gli spagnoli, ’41, erano già a Mauthausen. Vi voglio ricordare che Mauthausen è stato aperto nel 1938 e i primi detenuti erano gli oppositori di Hitler erano la maggior parte tedeschi ed austriaci. E il campo ha cominciato a funzionare con questa gente qui. Inoltre per riorganizzare il campo cosa hanno fatto i tedeschi? Hanno preso la maggior parte dei detenuti criminali comuni, li hanno levati dalle galere e li hanno messi lì ad organizzare il campo e a fare il Kapò. Di conseguenza il campo lo avevano in mano loro. Beh, torniamo diciamo a questa rasatura. “Ah, siete italiani, siete fascisti”. Dico: “No, non siamo fascisti. Abbiamo combattuto. Siamo contro”. “Allora siete Badoglio”. Quindi, se eri fascista non andava bene; se eri Badoglio non andava bene perché c’erano anche i russi lì. Insomma, di conseguenza ci hanno trattato un po’ male questi spagnoli qui. Finito questo tipo di disinfezione ci portano in un’altra camera e lì vediamo un mucchio di vestiti, di abiti a strisce grigie, blu; con degli zoccoli, uno a destra, uno a sinistra. E ci dicono “Prendete una giacca, un paio di zoccoli, pantaloni e una camicia e una mutandona lunga”. E lì era un problema perché lì bisognava fare in fretta e non è che c’erano le misure, quello che capitava, capitava. Insomma, non ti dico che ad un certo punto ci siamo guardati in faccia, uno lo vedevi con lo zoccolo di destra più lungo di quello di sinistra, oppure due destre. E cominciava già il tormento. E di lì ci portano su e ci fanno attraversare la piazza dell’appello del campo, e ci portano in una zona di quarantena. La quarantena cos’era? Erano dei blocchi dove i primi arrivati li mettevano lì in attesa che in un secondo tempo i campi dove avevano bisogno di manodopera li prelevavano e li mandavano a destinazione. Il primo impatto. Arriviamo lì, a uno a uno “Come ti chiami?” nome, cognome, eccetera. “Ecco, da questo momento tu non sei più Ratti Angelo. Il tuo nome è questo”. E mi danno una targhetta. Il mio passaporto. La mia carta d’identità. 57616. Loro naturalmente lo dicono in tedesco. Questo numero qui era la cosa più importante perché quando ti chiamavano, ti chiamavano per il numero. Se non rispondevi, erano botte. Di conseguenza io ho avuto la fortuna di avere sempre con me un carissimo amico che poi è morto che lui è stato, ha fatto la campagna russa, era un sottotenente, è ritornato dalla Russia, ha fatto un po’ il partigiano, l’hanno preso. Però questo sapeva benissimo il tedesco e di conseguenza con lui, mi aiutava a parlare, “Guarda che questo numero te lo devi memorizzare”. Era un po’ più anziano di me, però era un po’ il fratello maggiore e mi ha aiutato in parecchie cose. Allora, dopo averci dato questo numero di matricola ci danno un ago e un filo per cinque. Sempre le cose per cinque. Ci danno questo numero di targa. Sul numero di targa c’era scritto il tuo numero, uno che andava sulla giacca a sinistra, e sulla coscia sinistra. Bisognava cucirlo e, cavolo, io non so cosa voleva dire cucire. E’ una cosa… come faccio? Però questo mio amico Franco, lui ha fatto il militare “Ci penso io, vieni qua che ti faccio” E ci ha messo, diciamo, il nome. Di conseguenza però prima di darti volevano sapere la professione, eccetera, ti guardavano le mani, se avevi i calli, se avevi le belle mani. E lì cominciavano a fare delle selezioni. Chi aveva le mani grosse aveva un certo tipo di lavoro. Il laureato che aveva le belle manine era destinato ad altre destinazioni. Lì ci buttano in quarantena. E c’è ancora adesso, si chiama Campo due. Però ai tempi che siamo stati noi lì, il campo della quarantena era alla baracca 16. La baracca 16, come tutte le altre, era divisa in due, blocco A e blocco B. e ci buttano dentro. E lì entriamo e vediamo questa gente strana, spaventata. La maggior parte erano dei russi e c’erano anche dei bambini. Tutti stravolti. Ed erano già come le sardine a dormire; abbiamo capito che avevano fame e volevano da mangiare. Ma avevamo lasciato quel poco pane che avevamo all’entrata del campo. e lì bisognava entrare per dormire. Insomma non ce la facevamo. Alla fine il Kapò ha incominciato, col tubo di gomma, a picchiare a picchiare finché siamo riusciti ad entrare. Magari avevi i piedi in bocca dell’altro. E abbiamo cercato di dormire. Era un dormire per modo di dire. Poi avevi il gomito dell’altro e il piede che picchiava. Era una tortura che andare… non c’era bisogno delle botte.

D: Scusa Angelo, oltre al numero ti hanno dato anche il triangolo?

R: Sì, il numero era già, se vuoi adesso ti faccio vedere. C’era una striscia di stoffa. Triangolo rosso con dentro IT, che voleva dire italiano. Cioè noi avevamo IT, i russi avevano UR, i francesi avevano la F, i polacchi avevano la P. Allora, triangolo rosso, IT, e il numero di matricola. Questo sempre sul petto e sulla coscia sinistra.

E alla mattina arriva il Kapò … e lì continua a gridare. Ma cosa c’è da gridare? E con questo bastone ci picchiano e ci buttano fuori. Alla mattina alle cinque fuori in un cortiletto tra la parete della baracca e il muro dove poi c’erano i fili di alta tensione per evitare che qualcheduno potesse evadere. Una cosa impossibile. Poi ne riparleremo di un’evasione che hanno fatto i russi. E lì ci buttano fuori. Un freddo cane. Per scaldarci cominciamo uno a mettersi vicino all’altro, con la schiena, farsi i massaggi. Poi arriva una specie di caffè. Arriva il Kapò. Ci chiama tutti e ci dà delle scodelle e ci dà circa un mezzo litro di, noi lo chiamavamo caffè ma chissà cos’era; era una cosa impossibile. Dopo del caffè, arriva l’appello. C’è l’appello, ci mettono sempre in fila a cinque a cinque e aspettiamo lì in piedi che arriva il guardiano delle SS. Ci hanno detto “Mettete su il berretto. Quando entra la SS, il kapò dice “Giù il cappello”, cioè a un dato momento dicevano: “Cappello giù, cappello su”. Allora il capo-baracca, che era diciamo il contabile di chi entrava e chi usciva e gli dà il numero dei detenuti della baracca. Questo qui glielo dice in tedesco e poi fanno il conteggio per vedere se effettivamente da quello che gli ha detto era giusto. Capitava magari che l’appello durava anche mezz’ora, ed era una meraviglia. E capitava invece che chissà perché ti lasciavano lì due o tre ore, all’appello, sempre in piedi. E arriva. Beh, finito l’appello ci lasciano sempre in quel cortile lì perché era un cortiletto piccolino. Eravamo cinquanta di qui, cinquanta di là noi italiani e in più c’erano anche i russi. Quindi eravamo già circa un quattrocento persone in quel raggio lì. A mezzogiorno dicono che arriva la zuppa. Allora arrivano due detenuti con delle… e queste facce qui, strane, con queste divise. Nessuno sorrideva. Avevano tutti una faccia strana, spaventati. E ci portano questi.. li chiamavano bidoni di zuppa. E viene fuori un Kapò che era addetto a distribuire la zuppa. Naturalmente a uno a uno in fila ci danno questa Miska e andiamo a prendere. Senza il cucchiaio. Non c’era il cucchiaio. Appena che te la metti in bocca, una cosa terribile. Noi avevamo ancora delle riserve da San Vittore, dall’Italia, quindi non eravamo proprio dei morti di fame e allora questi russi qui che già erano prigionieri da parecchio tempo venivano lì: “Italiano, italiano”. E gli davamo la zuppa a questi russi e polacchi. E però vedere questa gente che mangiava con la Miska in mano, come i cani. Poi dopo con il dito a prendere il fondo. “Ma dove siamo arrivati? Questi qui sono proprio morti di fame. E’ possibile che mangino in quella maniera lì”. Ad un certo punto dico: “Ma sono proprio degli incivili. Come si fa?” La giornata praticamente era quasi finita. La sera sempre la stessa storia. Nella baracca, parte nella Stube A e parte nella Stube B. Allora il Kapò si presenta nella nostra Stube e dice: “Fate attenzione che quando dovete andare a fare i vostri bisogni, assolutamente silenzio, non dovete farvi sentire perché se il capo-blocco sente un rumore sono venticinque legnate che prendete. Naturalmente quando veniva il Kapò a parlare veniva fuori l’interprete italiano. E noi, combinazione, avevamo il Franco Ferrante, un magistrato anche lui deportato a Mauthausen nello stesso trasporto, poi lui è andato a finire a Ebensee. Comunque, in ogni baracca c’era sempre l’interprete, o che era italiano per gli italiani, russo per i russi. Quando dovevi alzarti e andare a fare il tuo bisogno, era un problema perché dovevi passare sulla testa di uno, sulla pancia dell’altro ed era impossibile anche non fare rumori. Insomma, sono cose abbastanza… Alla mattina arriva una SS. Dentro alla nostra baracca c’erano degli ebrei. Allora tutti contro la baracca, contro le pareti della baracca, e questi cinque, sei ebrei in mezzo alla baracca. E lì vediamo questa SS che ride, scherza, e fa sdraiare questi ebrei e gli fa fare quella famosa ginnastica che noi l’abbiamo fatta anche a San Vittore con il maresciallo, che era il comandante di San Vittore. Allora, bisognava camminare con i gomiti e la punta dei piedi, avanti e indietro. La SS controllava che se uno cedeva, lui aveva il suo frustino e frustava. Da quel momento lì noi, dico “Ma noi dove siamo arrivati?” impauriti e vedendo queste cose qui dico “Ma dove siamo?” mi facevo la domanda. Però nessuno parlava. E questa cosa qui succedeva ogni due o tre giorni. Ogni due o tre giorni capitava il fatto che la mattina entrava la SS e pigliava qualcheduno e si divertiva a picchiare i prigionieri. Ogni tanto, lì era quarantena, alla mattina arrivava uno della SS e chiedeva allo Schreiber che aveva bisogno di cinque, sei uomini. A me è capitato tre volte, sfortunatamente. “Fuori andate a lavorare”. A lavorare ci mandavano alla cava. Alla cava di Mauthausen è stato un cimitero per i detenuti. C’era una scalinata di 149 gradini. Uno sconnesso, non erano tutti uguali. Ci portavano giù in questa cava e ci davano una pietra da portare. Dalla cava bisognava fare questi gradini, attraversare tutto l’esterno del campo, lasciare giù la pietra perché dovevano costruire delle mura e fare un altro campo, cioè il campo due. Poi ritornare. Questa era veramente una cosa paurosa. Quando te salivi questa scala, il Kapò che picchiava, il cane che ti abbaiava, se combinazione uno doveva cadere, ne cadeva uno ma ne cadevano altri dieci. Quindi era una tragedia questa, che poi fu chiamata la scala della morte dove sono morti parecchi prigionieri. Adesso arriviamo alla partenza, perché Mauthausen era un campo di smistamento dove…

D: Prima della partenza scusa Angelo, tu con i tuoi amici di Cernusco che siete stati arrestati lì a Mauthausen eravate ancora assieme?

R: Eravamo ancora assieme. Sì, però, combinazione tre in un blocco. Blocco A e blocco B. Comunque eravamo sempre insieme.

Alla mattina del giorno di Pasqua che era il, mi pare circa il 15 aprile, circa settanta del nostro trasporto vengono chiamati per una destinazione, diciamola ignota, però era una destinazione di un campo di lavoro. E questi partono. E poi abbiamo saputo che dove sono andati si chiamava campo di Ebensee, ed era uno dei sottocampi di Mauthausen, perché Mauthausen aveva quarantanove sottocampi. E praticamente settanta sono partiti e siamo rimasti in trenta. E di questi trenta qui noi eravamo un po’ delusi… “Perché non siamo andati con loro, perché loro sono andati e noi siamo qui? Non era meglio che andavamo tutti insieme?” e lì cominciava la tristezza. “Noi qui cosa faremo?” comunque sia loro sono partiti e non ci siamo più rivisti. Con qualcheduno che è ritornato ci siamo rivisti dopo la liberazione a Milano; a Milano o in altri paesi. Dopo una settimana arriva il nostro turno e mi ricordo che quella partenza lì da Mauthausen eravamo circa duemila, duemila prigionieri di Mauthausen tirati fuori dalla quarantena pronti per andare in un altro campo però, il campo era più vicino e si chiamava Gusen. Era a circa otto chilometri da Mauthausen e a piedi ci fanno attraversare il campo, si esce dal campo, si scende e si arriva a Gusen. Ed eravamo circa duemila, sempre attraverso la strada che abbiamo fatto… e lì cominciamo a vedere un campo strano anche quello. A Mauthausen le baracche avevano un senso quasi di pulizia, tenuto bene, no? Lì invece una cosa obbrobriosa, scura, nera, le cose basse. Era una cosa più spaventosa, più rudimentale. Ci buttano lì. Anche lì, destinazione, chi in una baracca, chi in un’altra. E andiamo sempre a finire parte in una baracca, parte in un’altra; però alla mattina successiva c’è già il posto di lavoro. E da Gusen 1 si andava a costruire Gusen 2. questo era verso la fine di aprile. Si andava alla mattina e si ritornava la sera. C’è un particolare: a Mauthausen la sveglia era alle cinque del mattino. A Gusen 1, era alle quattro e mezza. Non si sa il perché. E lì andiamo a costruire il campo di Gusen. Era già quasi fatto perché avevano già cominciato i polacchi, eccetera, eccetera. Però non era ancora funzionale. Diciamo che erano gli ultimi lavori di rifinitura alle baracche, i gabinetti, eccetera, eccetera. E lì una sera io non lo conoscevo, con noi c’era un certo professor Carpi, e poi mi è venuto in mente era il preside di Brera ed era già anziano ed era in fondo al gruppo e ad un certo momento questo professore cade per terra perché non ce la faceva più. Allora io e il mio amico Franco, quello famoso di cui parlavo prima, e un altro che non ricordo il nome “E guarda qui il prufessur”, in dialetto, “è caduto per terra, andiamo a prenderlo perché questo qui non ce la fa”. E sottobraccio lo portiamo al campo, al rientro al campo, perché lì si andava solo a lavorare. Nel rientrare lì c’era un Kapò polacco e gli abbiamo detto, perché quel mio amico qui parlava il tedesco, il polacco parlava il tedesco, “Guarda che questo è un pittore di grido, non c’è la possibilità di sistemarlo perché non ce la fa più”. Combinazione, lì a Gusen 1 c’era un sergente maggiore delle SS, adesso non ricordo il nome esattamente, ed era di padre austriaco e di madre italiana e parlava perfettamente l’italiano ed era un amante della pittura. Quando ha saputo che c’era questo professore Carpi, naturalmente il polacco per farsi vedere bello dice “Guarda che c’è”. Allora questo qua va da Carpi e lo sistema. Però lui cosa doveva fare? Faceva i quadri delle sue amanti. Li dipingeva e faceva tutte le cose che gli ordinava. Di conseguenza lui, o bene o male, la vita del campo non l’ha conosciuta. Lui aveva una baracchina. Stava lì. Aveva qualche cosetta in più da mangiare rispetto agli altri. E se l’è cavata così. Arriva però, questa è una parentesi anche per citare il nome di Aldo Carpi, arriva però il giorno di andare a Gusen 2. Era il 7 maggio del ’44 e la solita storia. Il campo era vicinissima a circa cinquecento, seicento metri. Si attraversava un campo di patate e si entrava. E questo campo qui aveva solo due baracche, però sempre la baracca era grandissima. Stube A e Stube B, numero 1 e numero 2, 3 e 4. C’erano solo due baracche. Dietro alle baracche c’erano le latrine. Chissà perché con più si cambiava con più si peggiorava. Gusen 2, la sveglia non era alle quattro e mezza ma alle quattro. Cioè a Mauthausen alle cinque; a Gusen 1 alle quattro e mezza e lì alle quattro. E le latrine erano una cosa veramente puzzolente per dire profumo, no? Praticamente era una buca con una traversa di legno e lì ognuno faceva i bisogni. La differenza è questa, che se te ci stavi cinque minuti in più, c’era il Kapò con la gomma in mano e ti picchiava, ma maledettamente. Se poi se ne accorgeva che uno aveva la dissenteria, allora erano veramente dei momenti… ti picchiava e tanti li buttava nel… di fuori c’era una botte, li buttava dentro lì. Un mio amico, partendo da Milano anche lui nello stesso trasporto, è morto nella botte. Si chiamava Tufin. Partito anche lui da San Vittore con me. Morto lì nella… questo l’ho visto io con i miei occhi. E anche lì la cosa comincia a diventare dura. Però, adesso devo dire una cosa, che per esempio, noi che eravamo giovani eravamo un po’ incoscienti anche. Forse è stata un po’ la nostra fortuna. Incoscienti perché? Perché non si vedeva il pericolo, cioè una persona di una certa età vede il pericolo, non rischia. Noi giovani che eravamo abbastanza numerosi, si rischiava di più. E il morale era più alto del papà che aveva a casa la famiglia, i figli, eccetera. Io non ho mai pensato a casa, all’Italia, ai genitori. Dico: “Io di qui ne voglio venire fuori. Non mi interessa cosa succede in Italia, quello che succede a casa mia. Sicuramente, male che stiano, stanno sempre meglio di noi. Quindi devo cercare di combattere e di venirne fuori”. Allora, questo lo abbiamo saputo dai comitati antifascisti, perché nel campo c’erano i comitati antifascisti, per esempio russi, spagnoli; sapevano l’andamento di come andava la guerra, eccetera. Allora, il Gusen 2, il motivo per cui deve nascere Gusen 2, l’apertura di Gusen 2 fu nel 6 maggio del ’44. Allora, su ordine di Hitler presi Speer, che era il Ministro degli armamenti e dissi “Qui bisogna prendere le nostre fabbriche e cercare di metterle ai ripari perché stanno bombardando tutte le nostre industrie”. Speer era il Ministro degli armamenti, era uomo di fiducia di Hitler. Hanno scoperto St Georgen. E praticamente lì c’era la collina, qui bisogna fare dei tunnel e salvare le industrie perché i bombardamenti nelle grandi città sfasciano tutta l’industria. Allora il progetto era già pronto. Speer era lui che aveva fatto questo progetto su idea di Hitler e scoprono questa montagna e il motivo qual’era? Scavare la montagna e tutte le officine della Messerschmitt e della Stayer dovevano andare lì sotto per continuare l’industria bellica, eccetera. Allora, queste gallerie che dovevano fare erano nella località di St Georgen, era una collina. Noi quando arriviamo a Gusen 2, il lavoro era perforare la montagna. Perforare la montagna perché una volta terminata, in questa montagna qui andavano sotto le officine della Messerschmitt e della Stayer; cioè la Messerschmitt faceva le carlinghe dei Messerschmitt e la Stayer, piston-machine, eccetera. La galleria era nove metri di altezza e undici metri di base, perché lì dovevano passare macchinari. Insomma, nel giro di quindici mesi sono stati fatti diciassette chilometri di tunnel. Terminati. Allora, non vi dico le tragedie in queste gallerie perché bisognava perforare a mano questo materiale. A mano nel senso che c’era la chiamavano bora, un martello pneumatico con delle punte, che io dopo ve la farò vedere, e bisognava perforare questa montagna.

D: Ecco, Angelo, scusa. Voi da Gusen 2 raggiungevate St Georgen, come?

R: Con un treno, cioè erano dei vagoni scoperti. Era un tragitto di circa quattro chilometri. C’era un giro strano da fare, però si arrivava lì.

D: Ecco, vi caricavano lì vicino al campo di Gusen?

R: Nel campo di Gusen 2 entrava il treno e ognuno doveva salire su questi vagoni qui. E a distanza di circa quattro, cinque kilometri in linea d’aria non era distante ma bisognava fare un giro strano per arrivare al posto di lavoro. E naturalmente questi treni qui erano scoperti. Pioveva, non pioveva, non c’era problema per loro. Il problema era sempre nostro. Arrivavi la mattina bagnato. Ritornavi la sera bagnato. E non c’era possibilità di asciugarsi.

D: Ecco, una volta arrivati St Georgen, raggiungevate questa zona per fare gli scavi, eravate organizzati in squadre?

RISPOSTA: In squadre. Allora, si partiva col treno da Gusen 2 e c’era un tragitto di circa quattro, cinque chilometri, però in linea d’aria non erano quattro o cinque chilometri; in linea d’aria saranno stati un chilometro, un chilometro e mezzo. Si arrivava lì c’era una specie di scivolo e ci buttavano giù. Ognuno doveva trovare la propria squadra perché se sbagliavi erano veramente dei dolori, cioè ognuno doveva trovarsi in un dato punto con la stessa squadra. Quando tutto era organizzato si entrava in questo campo di lavoro, che praticamente erano le gallerie dove venivano fatte, dove c’erano le officine della Messeschmitt e della Stayer.

D: Tu eri addetto agli scavi?

R: Io ero addetto agli scavi.

D: Ecco, com’è che avveniva, parlavi prima del martello pneumatico, ma andava ad aria compressa?

R: Andava ad aria compressa. Io qui ho una punta che l’ho portata a casa. E questo materiale qui era anche friabile, abbastanza no, quindi bisognava stare attento perché ogni tanto c’erano delle vene, delle crepe che crollavano. Quindi era un lavoro anche pericoloso.

D: Ecco, poi il materiale che voi scavavate veniva caricato.

R: Il materiale veniva caricato su dei vagoncini, portati all’esterno della galleria, circa quasi ad un mezzo chilometro fuori dalle gallerie. E il comando lì si chiamava Libenaua, il comando che prendeva il materiale e lo portava fuori. E lì bisognava spianarlo, tanto è vero che dopo la guerra hanno trovato una montagna di questo materiale qui perché scavando diciassette chilometri di montagna figuriamoci. Ed era lì nelle vicinanze della stazione di St Georgen.

D: Ecco, scusa tu ti ricordi, oltre ai vagoncini, nelle gallerie c’erano anche dei nastri trasportatori?

R: Sì. Dopo, in un secondo tempo, siccome con il vagoncino si impiegava troppo tempo, hanno inventato i nastri trasportatori. Il materiale appena veniva perforato, sciolto, si buttava su questi nastri trasportatori e usciva fuori dalla galleria e lì c’erano dei vagoni che li portavano direttamente a smistare, che poi alla fine è diventata una montagna quella roba lì.

D: Il turno di lavoro di quante ore era?

R: Il turno di lavoro era dodici ore e dodici ore.

D: Cioè?

R: Dalle sei del mattino alle sei di sera. L’altro turno, dalle sei di sera alle sei di mattina.

D: Ecco, chiamiamolo il pasto a mezzogiorno, dove lo consumavate?

R: Sul posto di lavoro, cioè ci chiamavano fuori. Ogni comando veniva chiamato fuori dalla galleria. Loro sapevano che c’era un comando, ipotesi ti faccio un nome “Petsgruppe”, dove era il mio comando, eravamo quasi duemila, e lì c’era da mangiare per duemila. C’era circa un’ora di pausa. Ti davano questa, che poi il cucchiaio non c’era, non esisteva, però noi o col pezzo di legno o col pezzo di alluminio si faceva il cucchiaio di nascosto e si mangiava questa zuppa con il cucchiaio fatto da noi.

D: E poi, dopo la pausa dentro ancora?

R: Dopo la pausa si tornava in galleria a lavorare.

D: Fino al termine del lavoro?

R: Fino al termine del lavoro. Noi alle sei dovevamo essere fuori e alle sei c’era già l’altro turno, che erano dodici ore di lavoro. Se ne uscivano quattromila ne entravano quattromila. Di conseguenza il lavoro era continuato, ventiquattro ore su ventiquattro.

D: Quando terminavate il lavoro riprendevate il trenino?

R: L’appello, un tormento, prima di uscire. Se c’erano dei morti bisognava metterli sulla barella. Ogni nazionalità doveva portare il suo morto perché tanti morti capitavano ogni tanto che crollavano le gallerie cioè si entrava in cinquemila bisognava uscire in cinquemila. Non interessava se ce n’erano quattromila morti. L’importante era che il numero quadrava. Cinque entrati e cinque usciti. Morti o vivi non gliene fregava niente alle SS.

D: Prendevate il trenino?

R: Prendevamo ancora il trenino lì a San Gorge e si ritornava al campo.

D: E una volta ritornati al campo cosa succedeva?

R: Una volta ritornati al campo, sempre l’appello giù dal treno. L’appello. Poi ti lasciavano nel cortile. Alle volte magari quattro o cinque appelli, non si sa il perché, fino al momento in cui distribuivano la zuppa. Però, alla sera non c’era la zuppa, c’era il pezzettino di pane che inizialmente era per tre, una specie, un chilo di pane in tre; poi in quattro, poi in cinque, poi in sei. Il problema era come dividerlo questo pane perché quando era per sei, ogni sei davano il pezzo di pane. E come si fa a dividerlo? Lì c’era sempre il marchingegno dell’uomo. Il pezzettino di lamiera a fare il coltello, tagliare il pane con due bilancini, si divideva il pane o con i russi o con i cecoslovacchi o i francesi e si pigliava un pezzo di corda, si faceva la bilancina e si guardavano proprio, si mettevano su le briciole in modo che il pane doveva essere uguale per tutti. Quando poi lo mangiavi prendevi il pezzo di carta di cemento sotto per recuperare la briciola. Quindi praticamente siamo partiti in tre, in quattro, in cinque ad arrivare a sei. Un chilo di pane in sei.

D: E oltre al pane cosa vi davano la sera?

R: Alla sera ogni tanto c’era il pezzo di margarina. La chiamavano margarina, cos’era non si sa. O se non c’era la margarina c’era un cucchiaio di marmellata, ma non di marmellata nostra, chissà cos’era, oppure il salame, che era una cosa scivolosa. Era, non so, come mettere in bocca l’anguilla viva. Comunque era sempre buono perché la fame, amico mio, era troppo arretrata. Era una cosa indescrivibile la fame che noi abbiamo sofferto perché non è ipotesi il militare al fronte che soffre la fame. Giusto, però, arrivano i rifornimenti e si riempie la pancia. Noi più di quel tanto non ti davano da mangiare. Quindi la fame era arretrata. Bere era difficile perché l’acqua era inquinata. Di conseguenza le malattie, la dissenteria era una cosa allucinante. Gente che moriva, che andava al gabinetto, perdeva… Queste cose qui ti rendevano ancora la vita ancora più disastrosa del campo…

D: Ecco, il lavoro su sette giorni, sull’arco della settimana, voi andavate a St Gorgen quando? Tutti i giorni, anche la domenica?

R: Tutti i giorni; una domenica ogni quindici c’era riposo.

D: E lì cosa facevate?

R: Stavamo nel campo. Si pigliavano i nostri vestiti. Si guardavano i pidocchi. E si cercava di ucciderli, insomma, perché eravamo pieni di pidocchi. E la nostra giornata era quella di stare lì ad uccidere i pidocchi.

D: Un’altra cosa: tu hai raccontato che quando siete arrivati a Mauthausen, la prima volta vi hanno portato al Wäscheraum c’erano i Friseurs, vi hanno tagliato i capelli, eccetera. Poi all’interno del campo il taglio dei capelli o gli uomini che avevano la barba?

R: Questa è una cosa importante che mi dici. Allora, il taglio dei capelli veniva fatto circa una volta al mese. Una volta al mese, magari ti svegliavano di notte e in più ti facevano una riga di cinque centimetri, che la chiamavano la Strasse, cioè ti rasavano, però anche lì era una tortura perché questi Friseurs qui quando ti dovevano rasare non è che limavano. Finivi la tosatura che ognuno sanguinava perché dovevano fare in fretta ed era un tortura anche tagliare i capelli.

D: E anche la barba veniva fatta?

R: Sì, veniva fatta anche la barba. Io ero giovane e la barba non ce l’avevo. Combinazione. Veniva fatta anche la barba. Figuriamoci i rasoi, per modo di dire, perché magari il rasoio veniva usato per trenta, quaranta persone. Non è che per ogni barba quello che era addetto a fare la barba stava lì a…

D: Ecco, questo circa una volta al mese veniva fatto? Capelli…

R: Capelli, e sempre la Strasse. La Strasse bisognava sempre averla, guai se non ce l’avevi.

D: Se ti ricordi, anche a Gusen questo no?

R: Sì. Ma qui siamo sempre a Gusen, Gusen 2, questo è.

D: Se ti ricordi, tu hai potuto scrivere, comunicare o ricevere dei pacchi?

R: No.

D: C’erano dei deportati invece…

R: Allora io ti posso dire una cosa. Il mio carissimo amico, quello che abbiamo fatto, diciamo, da Mauthausen siamo arrivati alla liberazione. Questo aveva fatto il partigiano, era un tenente degli alpini. Si chiamava Rigamonti Franco, che abbiamo fatto tutta la deportazione insieme. Questo per me è stato veramente più di un fratello. Combinazione lui parlava bene anche il tedesco. E tante cose si riusciva a farle. Chi non riusciva a parlare non riusciva ad ottenere diverse cose. E stavamo dicendo? Adesso mi è sfuggito.

D: Il ricevere dei pacchi o scrivere.

R: Ecco, noi italiani, pacchi niente. Pare che chi riusciva ad ottenere dei pacchi erano dei polacchi. Ma raramente. Però, venivano selezionati diciamo. La maggior parte se c’era qualcosa di buono se lo portavano via loro. Ti devo dire che il fatto dello scrivere, ecco questo mio amico qui, Franco Rigamonti, è riuscito con un Meister. Sai che nelle gallerie, nei posti di lavoro, c’erano i Meister che erano i cosiddetti lavoratori volontari, costretti, però a loro era proibito parlare con i detenuti. Lui sapeva bene il tedesco. Ha conosciuto un Meister, era un veneto, ed è riuscito tramite questo qui ad avere i contatti con i genitori. Questo ha rischiato perché diventava una cosa… ti fucilavano, non c’era niente. Eppure questo Meister qui è riuscito a mettere il contatto, dare notizie ai genitori di questo Franco Rigamonti, mio carissimo amico, e riusciva a parlare.

D: E un’altra cosa, visto che tu che conosci bene sia Gusen 1 che Gusen 2, oltre a quel trenino che dicevi che vi portava a St Gorgen, lì a Gusen 1 c’erano degli altri treni? Tu ti ricordi se c’erano altri treni? C’era una stazione?

R: Ma, guarda, io sinceramente di Gusen 1 non ti so dire niente. Mi pare che c’era un treno. Però non è che lo so… mi pare che c’era un qualche cosa, però siccome io ci sono stato poco a Gusen 1, il treno era solo Gusen 2 – St Georgen dove era questo cantiere che era il massacro delle vite umane.

D: Un’altra cosa, fra i deportati tu ti ricordi sia a Mauthausen che a Gusen 1 e Gusen 2 se hai trovato anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì. Per esempio mi ricordo don Sordo. Il fratello del dottor Sordo.

D: E questo dove te lo ricordi?

R: Questo me lo ricordo a Gusen. Però, sai, lì di persone ne conoscevi parecchie. Magari le vedevi due, tre giorni, poi non le vedevi più. Poi ne riconoscevi una. Era tutta una…ed era molto difficile. In effetti noi che siamo partiti da Mauthausen, siamo rimasti in pochi, perché morivano però arrivavano sempre i nuovi. E te quando facevi parte di un gruppo di lavoro era difficile che cambiavi e, piano piano, ti facevi la amicizie; noi abbiamo avuto delle amicizie veramente da fratelli con gli spagnoli. Gli spagnoli sono stati per noi dei salvatori perché il primo momento gli spagnoli ci maltrattavano perché dicevano “Voialtri siete dei fascisti che siete venuti in casa nostra”. E allora questi qui erano antifranchisti ed hanno dovuto scappare. L’Italia era fascista, e noi ci hanno presi per fascisti. Poi invece hanno capito quale era la posizione politica e allora ti dirò che gli spagnoli avevano, sono riusciti ad avere in mano delle cose importanti nel campo, o chi faceva il capo-blocco, o chi faceva il capogruppo di lavoro e devo dire che ci hanno anche aiutati anche parecchio. Anche perché poi come lingua eravamo abbastanza vicini, si capiva. E ti devo dire un fatto personale con uno spagnolo. Dunque, io lavoravo con un gruppo a St Georgen e il comando si chiamava Petsgruppe. Questo era uno dei gruppi che erano i primi a sfondare la montagna proprio il primo gruppo che doveva perforare la montagna. Sai che dopo la montagna finita entravano le officine della Messerschmitt. E il capogruppo di questo qui era un delinquente tedesco, un delinquente comune. Tu non sai con le labbra sottili e quando parlava che lo vedevi ti faceva paura veramente ed era un pazzo. Questo comandava duemila uomini. Duemila ne comandava. E io sono capitato proprio nel suo gruppo ed era uno che bisognava stare lontani perché era un pericolo. Era un pericolo. E io mi ricordo un giorno cosa facevo. Io portavo gli spiz. Adesso te lo faccio vedere. Io ero addetto a portare questi spiz. Che cos’erano. La punta del perforatore della montagna. Questa ormai è consumata ma era lunga quaranta, cinquanta centimetri. Poi si consumava e io dovevo fare il giro del gruppo delle gallerie, quando erano consumate, ritirarle e portarle allo Smit perché c’erano un gruppo di fabbri che facevano le nuove punte. E un giorno porto questi spiz a fare il mio giro perché dovevo essere preciso, in ogni turno dovevo fare il cambio quattro volte. Però ci voleva del tempo perché dovevo andare dal fabbro, aspettare che mi faceva la punta. Quando arrivava così, te la cambiava, però bisognava dare il pezzo vecchio. Insomma, fatto sta che un giorno io avevo la febbre. Ho la febbre e non ce la faccio più. Dovevo portare questi spiz qui a fare il giro. E gli dico al mio amico Rigamonti: “Senti io non ce la faccio più”. Allora quando perforavi la galleria, quando era finita la perforazione si faceva una intercapedine di legno e di lì entrava il bitume e poi la galleria veniva finita. Allora, quel giorno cosa succede? Io avevo la febbre e gli dico: “Franco, io non ce la faccio più. Mi butto là e vado là a riposarmi. Controlla”. Naturalmente devo dire che i polacchi erano tremendi. Devo dire che i polacchi sono stati degli eroi anche, ma la maggior parte dei polacchi ci ha fatto soffrire. Erano veramente la vergogna del campo. Cattivi. La maggior parte dei capi erano polacchi, capi-blocco erano polacchi. Ce l’avevano a morte con gli italiani. Il polacco per noi era.. dopo il tedesco, era il polacco. Veramente, guarda, una cosa. che poi i polacchi hanno lasciato tanti morti, hanno avuto degli eroi, però per noi italiani siamo stati massacrati dai polacchi perché i Kapò polacchi erano peggio dei tedeschi. Mi dispiace dirlo ma questa è la mia realtà, dove l’ho vissuta io. Allora cosa succede. Ho la febbre. Gli dico: “Senti Franco, io vado su a cercare di dormire non ce la faccio più a stare in piedi”. Sai che un polacco mi ha visto andare su ed è andato dall’Oberkapò, cioè l’Oberkapò era il delinquente comune messo lì a fare il Kapò e aveva duemila prigionieri sotto di lui, con i diversi Kapò suddivisi in diverse squadre. Ad un certo punto questo qui era uno che quando prendeva un prigioniero per qualunque ragione lui se non vedeva il sangue non era soddisfatto. Guarda che ti strappava le orecchie, non è che lo dico tanto per dire. L’ho visto io. Lui voleva vedere il sangue, altrimenti non era soddisfatto. Ad un certo momento mi sento dire “Italieno …. vieni giù”. Dico: “Orca, malora, è finita. Questo qui è il Filip, io sono finito.” Vengo giù ed è stato un polacco ad avvisare questo, perché se te facevi la spia allora stavi bene in quel comando lì. Il ruffiano veniva protetto. Io sento “Italieno, italieno”. Dico: “O porco cane, questo qui è il Filip, qui sono finito.” Allora, mi chiama giù “Tu italiano adesso ti impicco. Kaput, assieme a quei quattro là”. Là c’erano quattro impiccati perché il Kapò poteva fare qualunque roba. Te eri nelle sue mani. Se ne fregava la SS. “Questo non ha lavorato l’ho impiccato, l’ho ammazzato”. “Va bene così. Bravo”. Anzi, gli davano il premio. Allora, questo qui mi chiama “Italiano, … tu, detto in italiano, non lavorare, tu delinquente, tu sabotatore”, perché non lavoravo. Allora, mi dice: “Per adesso mettiti là col sedere per aria”. Sedere per aria, come minimo erano venticinque … lui aveva la gomma con dentro un filo di alluminio o di piombo. E mi metto là e me ne dà venticinque. E devi contarle, fino ad un certo punto che svieni e vai per terra. E ad un certo punto io grido. E arriva uno spagnolo che mi conosceva, con il quale avevo lavorato. Proprio ci conoscevamo da quando siamo partiti da Gusen 1 con questo spagnolo qui siamo sempre stati insieme. Mi sente gridare, mi riconosce, perché lui era un sottocapo di questo Oberkapò e dice “Senti questo qui lascialo stare. A te ucciderne un altro cosa te ne frega. Uccidere uno, uccidere un altro, cosa te ne frega. Dammelo a me che lo metto a posto io”. Lo ha convinto. Allora mi prende con lui, questo spagnolo. Si chiamava Cardona. Mi ricordo il nome perché ormai quelle cose lì sono memorizzate nel cervello. Sono momenti della vita in cui non te le puoi dimenticare, cioè è un salvatore di una vita umana. Allora non ti dico il mio sedere cos’era. Era un pallone nero. Viene il momento di ritornare in baracca. Allora mi dice: “Italiano, viene con me”. Ci portano sui vagoni perché il tragitto da Gusen 2 al cantiere St Georgen era di circa quattro chilometri e lo facevamo su questi vagoni scoperti. E mi mette là in un angolo per dire “Italiano, Angelo, culo, stai attento”, perché avevo il culo che era nero, e dice: “Tu domani non devi più tornare a lavorare perché Filip, il Kapò, ti fa fuori”, perché lui lo conosceva. Quello era un delinquente comune, uno dei peggiori del campo, era uno che se lui non vedeva il sangue non era soddisfatto. “Allora te domani devi cambiare comando”. Entriamo nella baracca. Va a parlare con lo Schreiber. Da quella baracca lì mi porta in un’altra baracca. Quindi, praticamente, io sono stato allontanato da quello là. Dall’altra baracca ne è venuto un altro. L’importante era che i numeri funzionavano, cioè nella baracca ce ne erano mille, devono essere mille. Quindi, lui è riuscito a farmi fare lo scambio. Quindi io sono andato in un’altra baracca e sono andato a finire in un altro gruppo di lavoro, in modo che questo non l’ho più visto, perché mi ha detto: “Se io non ti cambio, quello lì domani ti fa fuori”. Qui devo dire che gli spagnoli con l’andare del tempo sono stati dei fratelli, sono stati quelli che ci hanno aiutati, veramente.

D: E nel nuovo comando cosa facevi?

R: Nel nuovo comando andavo a spalare la sabbia fuori, che era un altro comando rispetto a questo. Cosa succedeva? Succedeva che il materiale che usciva dalla galleria veniva con dei vagoncini, li buttavano lì e diventava una montagna e di conseguenza bisognava spalarla. Lì c’era il Meister, c’era il Kapò, e facevo quel lavoro lì. Però era un lavoro che almeno non vedevo quella persona lì. Quello se non vedeva il sangue lui non era soddisfatto.

D: E, Angelo, lì una cosa è importante. Tu citavi due fabbriche, la Messerschmitt e la Stayer. Ti ricordi se c’erano altre ditte?

R: Sì, ce n’erano altre però non le ricordo. Le più grosse erano queste. Le più grosse.

D: E tu sei rimasto lì a spalare fino a quando?

R: Sono rimasto lì fino quasi alla liberazione però ti devo dire una cosa. La mia salvezza è stata l’incoscienza della giovinezza. Perché non vedevamo il pericolo, affrontavamo certe situazioni, che uno anziano non rischiava. Per esempio, quando si andava a scavare le buche e c’è ancora a St Georgen un muro dove stavamo facendo un depuratore, c’era da fare un depuratore per diecimila prigionieri perché lì non c’era niente, c’era una latrina e bisognava gettarla nei campi. Allora stavamo facendo questo depuratore qui. Era un depuratore per diecimila persone.

D: Stavi dicendo che la tua salvezza è stata … poi il depuratore…

R: Sì e poi cosa succede? Dicevo l’incoscienza della gioventù che non vedevi il pericolo. Poi sprovveduti anche, te vedevi la morte ma te ne fregavi un cavolo proprio, eri diventato proprio peggio di una bestia.

D: Quando stavi scavando le buche per fare il depuratore cosa è successo?

R: Quando scavavo le buche per il depuratore, io guardavo il Kapò. Se il Kapò era girato io smettevo di lavorare, cioè qui bisogna preservare le forze. E gli italiani mi dicevano “Ratti stai attento che qualche giorno ti ammazza quello lì”. E io dicevo “Senti io finché posso devo far sì che le mie forze resistano, cioè sfido quello là, però dall’altra parte mi salvo le mie forze”. E di fatto ho sempre fatto così finché è andata bene. Difatti tanti che erano lì con noi sono morti sfiniti di lavoro perché la paura… erano più anziani di noi, la paura, la paura. Comunque, lì è stato un momento che il giovane praticamente non vede il pericolo però ha la forza di reagire perché io ho detto “Io qui ci devo ritornare, o in una maniera o nell’altra io ci devo ritornare”. Poi con questo mio amico qui Franco, abbiamo escogitato diciamo un sistema per guadagnarci qualche zuppa in più. Cosa succedeva? Che il Kapò nella baracca, lui aveva magari dei pezzi di carne, cioè il capo-blocco, aveva tutto però non aveva la legna per cucinarli. Allora questo cosa fa? Dice: “Angelo facciamo una bella cosa. Siccome questi Kapò qui, questi capiblocchi, non riescono ad accendere la stufa, perché non portiamo a casa dei pezzi di legna da St Georgen”, che lì ce n’erano di.. e allora cosa abbiamo fatto? Pezzettini di legno, facevamo una specie di fascinetta e la mettevamo sotto la giacca e quando c’era il controllo del conteggio, te eri così e nessuno immaginava che sotto avevi la legna. Quando rientravamo nel campo, questo andava dai capiblocchi e diceva: “Sentite, io vi do la legna così voi altri cucinate ma a me cosa mi date?” Allora lui contrattava, siccome lui parlava bene anche il tedesco riusciva tante volta a dare anche tre o quattro zuppe, ma di quelle zuppe caro mio che ci hanno salvato la vita. Allora io magari ne mangiavo una e l’altra la davo all’amico, al vicino. E lì siamo andati avanti per un bel po’ di tempo però poi ad un certo momento i russi ci hanno tenuti d’occhio e dicono: “Ma questi qui come mai riescono ad avere tutte queste zuppe qui?” E ci hanno controllato per vedere cosa facevamo.

Allora, questi russi qui dicono: “Ma come mai questi qui vengono a casa e prendono le zuppe e mangiano come dei maialini?” E noi con quelle zuppe lì abbiamo salvato diverse persone. Per esempio c’è un mio amico di Cernusco, è morto dopo la liberazione però con queste zuppe qui siamo riusciti a tenerlo in piedi. Che poi magari lì si faceva il commercio, io ti do la zuppa però tu mi dai un pezzo di pane, o viceversa. Allora i russi ci controllavano come facevamo. Allora cosa succede? Che un giorno incominciano a fare il lavoro che facevamo noi. Noi ce ne siamo accorti. E il mio amico qui era un sottotenente degli alpini, era più… lasciamoli fare. Portano via i pezzettini di legno fanno la fascinetta e poi quando arrivano al campo a chi glieli danno? Non sapevano a chi darli, quindi, praticamente loro hanno portato dentro la legna ma non sanno a chi darla. Quindi, uno dei russi viene dal mio amico qui e dice: “Ma la legna a chi la dai?” “Arrangiati, se vuoi te la metto a posto io. Mi dà due zuppe, una per me e una per te”. E allora lui cosa faceva? Loro portavano dentro la legna e il rischio era loro. Si faceva dare le zuppe, erano metà loro e metà nostre. E così noi siamo andati avanti per un bel po’ di tempo e vuol dire salvarsi la vita perché oramai cominciavamo a crollare. Fatto sta che poi questa cosa qui finisce perché ormai era incontrollabile, ti controllavano e quindi è finito anche quel lavoro lì. Allora il mio amico Franco dice: “Qui bisogna escogitare qualche cosa d’altro perché qui, adesso caro mio, mancano le zuppe e noi dobbiamo tirare avanti, cosa facciamo? Un lavoro pericoloso, rubiamo le lampadine dalla galleria e le portiamo dentro.” E facciamo così. Soltanto che se ti vedono con una lampadina te sei un sabotatore e quindi vai sicuramente all’impiccagione. Però noi abbiamo rischiato. Dalla galleria si pigliavano le lampadine, si mettevano sotto la giacca, si davano ai capi-blocchi. E i capi-blocchi ce le pagavano bene perché là le lampadine non c’erano. E loro, sai, volevano la luce, perché loro avevano la loro camera. Ed è stato il periodo in cui ci siamo rinvigoriti. Però ad un certo momento… adesso basta perché qui se ci beccano, noi non ritorniamo. E difatti abbiamo smesso perché era diventato un pericolo. Intanto tra la legna, tra le lampadine arriviamo verso la fine dell’anno. Quindi, siamo stati in grado ancora di stare in piedi. Ma ti devo dire che il momento più brutto della deportazione di Gusen 2 è stata la disinfezione del campo. Ora io mi meraviglio perché tanti libri parlano di disinfezione ma non entrano nei particolari come adesso io vi racconterò. Perché questo? Perché in Gusen 2 c’era il pericolo del tifo petecchiale. Sporcizia. Non c’era la possibilità di lavarsi. Si tornava a casa dal lavoro pieni di terra. Quindi, non ti lavavi. E le SS cominciano a preoccuparsi di questo tifo qui, perché se ti prende il tifo petecchiale non è che prende solo il campo ma bensì va oltre, a dieci chilometri all’esterno. E allora cosa decidono i comandanti del campo? Di disinfettarlo. Allora viene il momento della disinfezione. Questo è stato uno dei momenti più tristi e cruciali di Gusen 2. Questo succede il 5 gennaio 1945. La mattina, noi non sapevamo niente, quattro e mezza, tutti fuori dalla baracca. “Svestitevi”. Faceva un freddo cane. Nudi completamente. Ci danno una coperta in quattro. I vestiti vengono raccolti da un carro e li portano via. E ci hanno lasciati lì, dalla mattina alle quattro e mezza fino alla sera alle sei. Quindi io non ti dico i morti che vedevo vicino a me. Uno crollava, l’altro… era una cosa indescrivibile. Era un campo di battaglia, mitragliato completamente. E quei pochi rimasti lì con questa coperta, aspettare alla sera che da Gusen 1 che c’erano i macchinari, arrivavano i vestiti già disinfettati. Non ti dico la tragedia per trovare la tua, perché la tua giacca dove avere il tuo numero. Quindi, anche lì è stata una disperazione. Lasciamo perdere il momento di quando arrivano i vestiti. Il momento triste è quando noi entriamo nella baracca. La baracca era mezza vuota e ci guardiamo in giro; e degli amici che non trovavano più gli amici. E tanta gente che piangeva dalla disperazione perché diceva: “Ma dove sono andati a finire?” Erano là tutti nel cortile morti. Quello è stato uno dei momenti veramente… Quando te entri, come dire, entri in casa, hai la famiglia, hai i figli, hai la moglie. Entri il giorno dopo, non c’è più nessuno. Quindi medita un attimo cosa puoi provare. Gente che piangeva disperata perché non trovava più… ecco, io devo dire che questa disinfezione qui è stato l’inferno di Gusen 2. Pare in linea di massima che siano morte circa 5.000 persone. Tanto è vero che il giorno dopo squadre apposite per portare via i morti; il crematorio di Gusen non ce la faceva più e neanche quello di Mauthausen. Pare che oltre a questi due siano andati a finire nei crematoi di Hartheim. Per dire il massacro che c’è stato. Quando ti guardavi indietro ti sembrava di vedere non so come in Russia che congelavano lì. E’ stato un quadro, non so come descriverlo, proprio una cosa mostruosa. Per me quella lì è stata proprio la tragedia di St Georgen. E’ stato, gira e rigira, in ventiquattro ore è successo questo.

D: Angelo, come te la ricordi la liberazione?

R: Io della liberazione ho poco da dire, però c’è stato il momento del pianto, del pianto di gioia e c’è stato il momento che dico: “Finalmente ce l’abbiamo fatta”. Noi abbiamo promesso ai nostri cari amici che hanno lasciato qui la pelle che dovevamo testimoniare e da questo momento il nostro giuramento è di far conoscere al mondo cos’è stato il Lager, cos’è stato Mauthausen,… ed Auschwitz. Per noi è stata la vittoria.

D: Ecco, ma tu dove eri al momento della liberazione?

R: Ero lì a Gusen 2. Ero sempre lì a Gusen 2.

D: Eri nel campo?

R: Ero nel campo. Però ti devo dire che ci sono stato poco nel campo lì durante la liberazione perché avevamo fame. Allora eravamo già d’accordo in cinque o sei. “Ragazzi, quando arrivano le truppe di liberazione ci troviamo qui e scappiamo”. Perché guarda eravamo così stufi di sentire quegli odori, di vedere i cadaveri, di vedere quelle facce stravolte, di vedere delle facce che ti dicevano: “Aiutami perché non sto più in piedi”; gli odori, queste divise, e dico :”Qui bisogna scappare”. E allora eravamo cinque o sei e abbiamo deciso di uscire. Difatti non ti dico cosa è successo quella sera lì alle cinque quando è arrivato…

D: Allora, arriva il momento della liberazione, dicevi? Tu sei a Gusen 2 e in quattro o cinque dovete scappare.

R: Diciamo noi qui bisogna… cioè eravamo d’accordo di uscire perché l’odore del campo, i morti, le disperazioni, dico: “Fuggiamo e diciamo di andare a trovare qualcosa”.

E con me c’era un altro amico di Cernusco che è stato deportato con me e gli dico: “Allora Pierino vieni con noi”. E lui è morto là dopo la guerra, dopo quindici giorni è morto. Dico :”Vieni con me”.

D: Pierino come?

R: Colombo si chiamava. Era uno dei deportati di Cernusco. E gli dico: “Ti trovi qui e andiamo fuori insieme”. Ad un certo punto si presenta, si mette a piangere e dice: “No, io Angelo non ce la faccio più. Non me la sento. Andate voi”. Difatti noi cosa facciamo? Usciamo dal campo. usciamo dal campo, facciamo circa duecento, trecento metri e troviamo degli ex- militari italiani, prigionieri anche loro, ma prigionieri di guerra e ci vedono lì, sai, magri, qualcheduno era come mussulmano sai che in campo mussulmano voleva dire che ormai stava morendo, era alla fine. E questi militari italiani ci vedono e dicono :”Ma chi siete voi? Da dove venite? Cosa avete fatto?” E lì gli raccontiamo la nostra storia. Veniamo da un campo, eccetera. “Ma come siete conciati. Avete fame?” “Sì”. “Venite con noi”. Ci fanno fare circa trecento, quattrocento metri. Loro avevano perquisito una baracca dove c’erano dentro le SS e lì avevano tutto: riso, margarina… alla fine ci buttano lì in questa baracca e si cucina. Insomma, io quella sera lì ho mangiato un catino di riso così, un catino. Il giorno dopo a momenti crepo. Allora questi militari qui cosa hanno fatto. “Stai qui nella branda, riposati che ci pensiamo noi”. Sono andati fuori nelle cascine. Andavano nelle cascine. Si sono fatti dare dello zucchero, della marmellata e mi hanno tirato su. Mi hanno tirato su piano, piano. Praticamente mi hanno salvato la vita perché poi tanti alla fine sono morti per lo stomaco che ormai non ce la faceva più. E difatti siamo stati lì circa una settimana e dopo ci siamo rifugiati in un luogo dove c’erano delle piccole baracche, dove c’erano degli ufficiali della Wermacht che stavano lì, non so perché. Erano delle baracche piccoline però c’era la cucina con tutta la batteria e siamo rimasti lì per un quattro, cinque giorni. E andavamo fuori ad arrangiarci per mangiare. Un bel giorno chi è che mi trovo? Aldo Rovelli. E’ venuto lì con noi e lì abbiamo parlato: “Finalmente siamo liberi”. Andavamo nelle cascine a rubare. Abbiamo rubato anche delle caprette. E poi questi austriaci qui andavano al comando a lamentarsi che noi rubavamo il bestiame, le galline, eccetera. Fatto sta che gli americani un bel giorno arrivano, ci prendono e ci riportano al campo. Ci dicono: “Dovete ritornare perché stiamo organizzando di farvi rimpatriare per l’Italia”. Io ritorno al campo e vado a cercare il mio amico Pierino, questo qui di Cernusco, che avevo lasciato.

Cosa si è messo in testa questo qui e altri tre o quattro? Dopo che siamo andati via hanno detto: “Andiamo via anche noi”. Volevano andare verso Linz. Ad un certo punto gli americani li hanno visti e li hanno presi e li hanno portati dentro al campo. Vado a cercarlo. Non c’è, non c’è. Vado in infermeria e me lo trovo là disteso. Dico: “Pierino come stai?” “Io non vengo a casa, guarda questa è la mia cintura, questo…, non so cosa aveva, il numero di matricola, portalo a casa ai miei genitori”. “Su, su, Pierino, dai che ormai la guerra è finita. Torniamo”. “No, io non ce la faccio”. Lui era più vecchio di noi. Fatto sta che rimane lì in infermeria. Poi alla sera prima di andare via vado lì dall’addetto all’infermeria, perché c’erano delle donne volontarie americane che facevano le infermiere e anche dei prigionieri che erano lì, erano dei romani, gli ho detto: “Questo è un mio amico, se succede qualcosa venite ad avvisarmi che sono alla baracca là di fronte. Se succede qualche cosa”. Vado là la mattina alle cinque, è già morto. Questo è stato uno dei momenti tristi del campo. Abbiamo salvato la vita e dopo quindici giorni mi muori qui. E purtroppo io ho dovuto dare notizia ai suoi genitori. Quindi momenti veramente tristi quando vai da un genitore e gli dici che suo figlio è morto in quelle condizioni. E purtroppo ho dovuto farlo.

D: E tu sei rimasto lì al campo fino a quando?

R: Io sono rimasto lì al campo fino, diciamo… aspetta perché esattamente noi siamo tornati… fino aspetta… ai primi di giugno. Poi viene il momento in cui c’è il rimpatrio. E di lì ci portano a Linz, in un campo di smistamento che è grandissimo; era un campo grandissimo veramente. Pronti per preparare i convogli per… e lì purtroppo nel campo c’era un mio carissimo amico, era un napoletano, forse magari l’hai sentito nominare. Si chiamava Sapone, era un meridionale, era già più anziano di me ma un furbacchione di uno. Il vero napoletano, appena che poteva cercava di arrangiarsi in tutte le maniere. E siccome eravamo nello stesso campo, un giorno ci mettiamo a parlare io e lui. Da allora siamo diventati… era il vero tipo di napoletano, el gratava, el faceva de tut. Arriviamo in questo campo di smistamento, ma grandissimo a Linz e lui sente che arrivano dei prigionieri dalla Grecia. Grecia, Samus, e li hanno portati in Germania anche loro; però erano lì per rimpatriare. E questo qui va in giro a fermare tutti questi ex militari. Ad un certo punto, guarda caso, ferma mio fratello, uno di Gorgonzola, uno di Melzo e uno di Milano. E gli dice: “Voi da dove venite?” Noi veniamo dalla Grecia, Samus e poi ci hanno portati qui. “Te come ti chiami?” Uno dice il suo nome, poi ad un certo punto mio fratello dice: “Io mi chiamo Ratti”. “E di dove sei?” “Di Cernusco”. “Ma qui c’è un Ratti di Cernusco”. Mio fratello credeva che era mio padre, perché mio padre era un antifascista già dal 1922; gli hanno tagliato le orecchie i fascisti a mio padre. E allora siccome mio fratello sapeva che quando arrivava Mussolini a Milano, mio padre lo pigliavano, lo portavano in caserma e doveva restare lì. E allora questo qui gli dice: “Ma te come ti chiami?” “Ratti”. “Ma di dove sei?” “Di Cernusco”. “Ma sì, ma c’è un Ratti qui con me che è di Cernusco”. Mio fratello credeva che era mio padre perché lui è andato via che io avevo ancora i pantaloncini corti, cioè lui era del 1910 e io ero del 1926, quindi c’erano sedici anni di differenza. “Come si chiama?” “Ratti, sì, ma Angelo”. Mio fratello si è messo a tremare, dice: “Ma come mai mio fratello, io credevo che era mio padre”. “Adesso te lo trovo io”. Guarda il destino, questi quattro ex-militari qui, compreso mio fratello, hanno messo lo zaino a dieci metri dalla baracca dove eravamo lì noi pronti per partire. Ad un certo punto questo Sapone qui, questo napoletano, entra in baracca. C’erano da fare sette, otto gradini, e io ero là che dormivo. “Angelino vieni qua che ti faccio vedere tuo fratello”. “Senti Sapone, perché si chiamava Sapone, non rompere i cosiddetti perché tu sei pieno i palle”. “No, no, stavolta ti dico la verità. Io sono stato padre per te”. Quante palle che raccontava. Viene là e mi prende. Dice: “Vieni che ti faccio vedere tuo fratello”. Allora io comincio a dire: “Questo qui non racconta palle, questa volta dice la verità”. Vado fuori e me lo vedo. E lì ci siamo abbracciati. Io avevo diciannove anni. Mio fratello piangeva come un bambino e io neanche una lacrima, neanche una lacrima; cioè questo è quello che ci hanno lasciato i tedeschi nell’animo nostro, proprio niente. E lui era tutto preoccupato “Chissà a casa” e una balla e l’altra, “Come staranno e te come fai ad essere qui?” E io gli ho raccontato un po’ la storia. Poi viene il giorno della partenza. Siccome la precedenza era per i reduci dei campi di sterminio e lui doveva partire dopo, io sono andato dal comandante della spedizione e gli dico: “Senti, d’accordo la precedenza è nostra però io ho qui un fratello che è un ex-militare, lo devi caricare con noi”. Difatti è venuto a casa con noi. Te pensa quando noi arriviamo a casa.

D: Ma che percorso avete fatto, Linz?

R: Sempre in tradotta, Linz-Bolzano, Bolzano ci siamo fermati lì un… pensa che mio padre a Bolzano è andato su tre volte a portare a casa i prigionieri e ha portato a casa Calloni che è stato uno deportato con me. E gli ha chiesto: “Ma il mio Angelo dov’è?” Fa: “Mì al so no in due l’è, a un dato moment ci hanno divisi”. E lo ha portato a casa. E non ha trovato me. Fatto sta che dopo due o tre giorni arriviamo noi a Cernusco. Te figurati a casa nostra la mamma che vede due figli, non ti dico il pianto a non finire. Sai che i cortili una volta nei paesi erano grandi. Quando hanno saputo che siamo ritornati non ci stava più una mosca nel cortile. Tutti lì che volevano sapere se si conosceva qualcheduno. Poi alla fine è arrivata una signora di Cassano d’Adda, combinazione lo conoscevo questo qui, che chiedeva di suo padre e io così proprio col cuore duro, mi chiede, e dico: “Sì, sì, è morto”. Come dire è morta una pulce. Mi ricordo che poi mia mamma ad un dato momento mi dice: “Ma ti viene a chiedere del padre e te gli dici che è morto come fosse…” E gli dico: “Mamma, purtroppo io di morti ne ho visti a migliaia, a migliaia, e ancora adesso la mia testa non è qui ma è a quello che ho visto là”. E questo è stato un momento di crepacuore per i genitori.

D: Scusa Angelo a Bolzano vi hanno fermato un paio di giorni? Ma dove vi hanno messo?

R: Sì. adesso non mi ricordo. Era un campo di smistamento che mi ricordo dove tutti i prigionieri della Germania dovevano passare per quel campo lì. Prima di tutto per vedere, c’erano le visite mediche, se avevi delle malattie infettive. Ci volevano le generalità. E difatti ci hanno rilasciato un documento.

D: Ascolta, era un campo o una caserma?

R: Ma guarda…

D: Erano baracche di legno?

R: Erano baracche di legno grandi. Adesso non ricordo esattamente il particolare perché nel momento in cui sei libero pensi di tornare, non vai a guardare il particolare. Comunque ci controllavano soprattutto delle malattie. Noi avevamo ancora della scabbia, gente ancora con la scabbia, tifo. E allora se uno era malato, lo fermavano e lo mandavano per guarire.

D: E dopo da là in treno sei venuto?

R: No. Dopo di lì siamo venuti a casa col pullman perché mio padre veniva su con dei camion a portare, e ne ha portati a casa di prigionieri, ma parecchi. Purtroppo suo figlio non lo ha portato a casa.

D: E questo quando era? Quand’è che tu sei tornato?

R: No, dunque, io sono arrivato a Cernusco il 19 giugno del 1945. Sono stato ancora uno dei fortunati.

D: Senti Angelo hai nominato due commandi di Gusen 2, Libenaue e Petsgruppe, ti ricordi altri nomi di commandi?

R: Dunque, Libenaue, Petsgruppe che erano i commandi bastardi; Mekelgruppe, Betongruppe.

D: E cosa faceva questo Mekelgruppe?

R: Il Petsgruppe era il commando dove perforava la galleria. Anche il Mekelgruppe. Erano due commandi grossi. Poi c’era il Betongruppe che, quando la galleria era finita nella perforazione, bisognava bitumarla, allora questo commando qui facevano le impalcature e mettevano il bitume per finirla. E di questi gruppi qui c’erano tanti altri sottocomandi, per esempio c’era il Transportcomand, poi c’era che mi ricordo, adesso il nome esattamente, era quello che guidavano i locomotori per trasportare il materiale, poi ce n’era uno particolarmente che era solo una persona, si chiamava Dante Dovera, forse l’avete sentito nominare ed era uno del ’43. era uno delle Commissioni interne della Breda di Sesto. L’hanno preso a Sesto.

Dante Dovera. Era già un sindacalista ai tempi del ’43. E questo era l’unico commando con una persona sola. Allora quando si entrava per il controllo, allora i capi dicevano Mekelgruppe, duemila persone. Petsgruppe altre. Questo qui diceva che era lui addetto alle pompe dell’acqua del cantiere ed era l’unico.

Sì, ma di commandi ce ne erano tanti. Adesso esattamente… Poi c’era il comando del Transport.

D: Per quanto riguarda il campo di Reichenau, lì non sei stato immatricolato?

R: No. Lì è stato solo un campo di deposito, siamo restati chiusi.

D: Quindi non siete neanche potuti circolare…

R: No, noi vedevamo in giro delle facce ancora come li abbiamo visti a Mauthausen ma non era un…

D: Vestiti civili o…

R: No, vestiti a righe ma la maggior parte erano russi. Nessuno parlava. Non sentivi niente.

D: E invece a Mauthausen l‘immatricolazione te l’hanno fatta nel campo di quarantena dentro nella tua baracca?

R: Sì, cioè dopo la…

D: Dopo la rasatura.

R: La rasatura e la vestizione. Prima di entrare nel blocco dove dormire, hanno dato il numero.

D: E ti hanno fatto tutte le domande che dicevi?

R: Sì, che mestiere facevi.

D: Ma cos’era? Un uomo con un tavolino?

R: Sì, perché ogni baracca aveva il suo Schreiber. Lo Schreiber era quello che aveva in mano, diciamo, l’ufficio di amministrazione. E lui doveva sapere tutto: chi eri, che professione avevi, perché eri lì, eccetera. Dopodiché loro dalle cartelle che questo qui… magari ti destinavano ad un dato tipo di lavoro. Ma siccome in quel momento lì la manodopera era la maggior parte voluta proprio per il lavoro grosso della galleria, non c’erano dei lavori… E qualcheduno invece andava a finire, quando la galleria era finita andavano a fare il meccanico, cioè lì c’erano le officine dove facevano le carlinghe per i Messeschmitt e le Maschinenpistolen della Stayer. E allora qualcheduno andava a finire nel cantiere, qualche meccanico andava a fare il meccanico.

D: Quindi era lo Schreiber che ti ha dato il numero di matricola?

R: Sì, era lo Schreiber.

D: E poi un’ultima cosa su San Vittore. Dicevi che sei stato quaranta giorni in isolamento. Più o meno allora se sei stato portato a San Vittore al 18 di dicembre, fino alla fine di gennaio. E poi sei partito da lì il 3 di marzo?

R: Sì.

D: Allora il mese di febbraio ti hanno messo in una cella comune?

R: No, mi hanno messo insieme ad un altro, che combinazione, guarda caso, questo qui aveva una paura, non parlava, non riusciva a dialogare. L’ho saputo alla fine della guerra chi era questo. Era un ex-tramviere che ha fatto il partigiano. Noi siamo partiti. Lui non è partito. Sono riuscito a sapere attraverso l’azienda tranviaria, lui lavorava all’azienda tranviaria di Milano, lo hanno fucilato.

D: Ascolta, i sei di Cernusco in quanti siete tornati del vostro gruppo?

R: Quattro. Uno però è morto subito appena a casa, dopo. Quindi, in totale tre.

D: Tutti più o meno sui diciotto, diciannove anni? Te, Roberto…

R: E Calloni. Calloni è conciato in questo momento poverino. Conciato, fa fatica a camminare, gli hanno già scavato il braccio un po’ di volte. E’ martoriato poverino.

D: Ascolta tu Angelo quando sei ritornato su per la prima volta?

R: Dunque io sono ritornato una prima volta se non sbaglio nel ’49 o ’50 che siamo andati col treno, non con i pullman. E mi ricordo quella volta lì al crematorio di Gusen, io non so come ho fatto, ma ad un certo punto io scavo e mi sono trovato due gamelle ancora. Due gamelle e le ho portate a casa. Erano dei cimeli da conservare. E ormai ero sposato. Ad un certo punto facciamo il trasloco e mia moglie mi dice: “Ma queste due gamelle qui. Ma sì buttale vie, ma vada via il cuore ma cosa te ne fai qui?” Mi piange il cuore parlare di quelle cose, sarebbero dei cimeli da mettere in vetrine e li ho buttati via. L’unica cosa che ho tenuto è questo e il numero di matricola e basta.

D: Angelo, tu quando sei tornato hai raccontato quello che avevi visto?

R: No, io quando sono tornato non ho mai parlato perché ho tentato di parlare anche con i genitori ma nessuno ci credeva. Quindi non trovavi un dialogo comprensivo di poter emergere…

D: Tu te la saresti sentita comunque di raccontare?

R: Sì me la sentivo però non trovavi il riscontro di chi ti voleva sentire e dava la sensazione che raccontavi delle gran balle. Di conseguenza dico: “Lasciamo perdere perché tanto non ci credono”. Però, dopo, con l’andare degli anni, qualche libro ha cominciato ad uscire, e allora abbiamo cominciato a riprendere. E forse il nostro errore è stato quello che i primi anni non abbiamo parlato. Questo è stato un grosso errore da parte nostra ma d’altra parte dobbiamo dire non ci credevano.

D: Ascolta, tu eri studente, hai proseguito i tuoi studi?

R: Sì, ma dopo un po’ di tempo.

D: Cosa studiavi?

R: Perito grafico, sono riuscito ad avere poi il diploma.

D: Non subito?

R: No, perché c’è voluto anche del tempo a rimettersi. Se vuoi ti posso raccontare un fatto come posto di lavoro; adesso qui usciamo dal campo. non vorrei, perché vorrei raccontare quella storia lì della galleria.

D: Racconta quella lì.

R: Io mi trovavo, vuoi che porto qui la…

D: Te la porto io.

R: Allora qui si vede un vagoncino dove la montagna veniva perforata, si riempiva il vagoncino e si portava fuori dalla galleria. Qui eravamo proprio all’inizio del perforamento. C’erano diversi punti, cioè iniziavi a perforare, poi dovevi armare perché crollava. E qui eravamo proprio un gruppo di sette o otto proprio alla testa della galleria e ad un certo punto mi viene da fare il bisogno e allora devi chiedere al Kapò: “Posso?”, quello là ti dice di sì però erano cinque minuti. Ma pensare che da qui già andare ce ne volevano cinque. Fatto sta che vado di corsa, ritorno. A trenta, quaranta metri prima di dove lavoravo c’era un gruppo di lavoro qui che stava caricando della sabbia. E lì un italiano mi dice: “Ratti come mai? E’ tanto tempo che non ci vediamo. Come va? Come non va?” e gli dico: “Senti, siamo qui. Però lasciami andare se io ritardo lo sai che come minimo sono venticinque”. Io sto per andare e quello là mi prende per la giacca e mi dice:”Allora come va? Quando finisce la guerra?” Nel frattempo è crollata la galleria. Sono rimasti sotto tutti. Se in quel momento quello non mi prendeva io rimanevo sotto. Ecco, da quel momento lì devo dire che quella è stata forse l’unica volta che io ho pianto perché vedere i compagni a morire in quel momento lì proprio eri diventato peggio di una bestia feroce, non ti fregava più niente. Bastava sopravvivere. Te ne fregava anche, adesso non voglio esagerare o tuo fratello… ormai il tuo cervello era fuso, eri una bestia feroce. E ad un certo punto crolla questa roba e io sono rimasto lì come un cretino e mi sono messo a piangere disperatamente. Allora, squadre di soccorso, abbiamo dovuto aspettare di tirare fuori i cadaveri, farli su con la carta di cemento e poi riportarli al campo.