Signorelli Angelo

Angelo Signorelli
Nato a Grumello del Monte (BG) il 17.08.1926

Intervista del: gennaio 1998 a Nova Milanese (MB) realizzata da Giuseppe Paleari
TDL: n. 153 – durata: 139′ circa

Arresto: 11.03.1944 a Monza, a casa
Carcerazione: a Monza alla caserma dei Carabinieri, a Milano a San Vittore, a Bergamo in una caserma
Deportazione: Mauthausen, Gusen
Liberazione: 5 maggio 1945

Autore della fotografia: Giuseppe Paleari

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Angelo iniziamo?

R: Va bene iniziamo.

D: Ascolta una cosa, tu quando avevi sedici o diciassette anni lavoravi alla Falck a Sesto, in quale Falck?

R: Falck Unione.

D: E lì che cosa è successo?

R: Lì è successo che dopo i fatti del ’43, dell’8 settembre, e poi ancora l’avvento della Repubblica Sociale diciamo così e allora è successo che le condizioni degli operai peggioravano continuamente, i ritmi di lavoro sempre più … e poco cibo, perché c’erano le tessere così, malcontento e poi una grande voglia di far finire la guerra.
L’importante era questo. Specialmente per noi giovani, e così quando si è incominciato a sentire che organizzavano questi scioperi noi giovani eravamo un po’ entusiasti di partecipare a questi scioperi.
Infatti nel mese di marzo ci sono stati questi grandi scioperi che noi, almeno io, ho partecipato e anche tutti i giovani lo devo dire hanno partecipato con entusiasmo.

D: Scioperi del marzo di che anno?

R: ’44. Marzo del ’44. Scioperi che sono durati tutta una settimana. Perché gli scioperi erano partiti così come si sentiva, dicevano che erano scioperi più che altro per dare un colpo per fare finire la guerra. Poi dovevano durare un giorno o due, poi invece sono durati tutta settimana perché anche i fascisti…
Io parlo dell’Unione lì a Sesto davanti alle portineria avevano piazzato tutti questi fascisti con fucili, mitragliatrici e mitra, e così hanno impaurito di più la gente e la gente si è allontanata dalle fabbriche e nessuno entrava. Comunque lo sciopero è stato si può dire totale, però subito questi scioperi pochi giorni dopo è scattata questa rappresaglia. Io ero giovane, avevo diciassette anni.
La notte dell’11 marzo, pochi giorni dopo lo sciopero, perché lo sciopero è finito verso il 6 o 7 marzo o che, era un sabato sera. Quella notte lì alle due di notte sentiamo mia madre che dice “Ma chi siete, cosa volete?”. Avevano piegato la porta, erano i fascisti e avevano il nome mio e quello di mio fratello, Signorelli Angelo e Signorelli Giuseppe e volevano portarci in caserma per interrogarci e tutte quelle cose lì.
Mia madre, anche i miei genitori si sono opposti ma non c’era niente da fare. Loro sono entrati in casa a malo modo. Come siamo scesi dal letto ci hanno puntato contro i mitra, hanno guardato se avevamo delle armi. Poi abbiamo dovuto seguirli, non sono valse né le resistenze né le lacrime dei miei genitori. Non è valso nulla.
Questo è stato un rastrellamento che nelle zone industriali di Monza, di Sesto e Milano in quella notte lì avevano arrestati tantissimi operai che avevano partecipato a questi scioperi.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Era l’11 marzo. La notte dell’11 marzo del ’44.

D: Ecco, quindi tu abitavi a Monza?

R: Abitavo a Monza in via S. Rocco, allora era via S. Alessandro. Poi ci hanno portato in caserma a Monza in via Volturno in caserma dei carabinieri.
Poi ecco, in casa mia sono venuti sette fascisti in borghese e ce n’era uno vestito da carabiniere. Loro hanno detto “Non è niente, dovete seguirci, domani mattina ritornerete a casa”, invece sono tutte le storie che dicono poi a casa non si ritornava più.

D: E ti hanno portato nella caserma dei carabinieri di Monza?

R: Sì.

D: Lì hai trovato altri operai?

R: Sì, altri operai perché in tutti i quartieri o rioni di Monza c’erano in giro queste squadre. Poi si è saputo che erano tutte della polizia segreta che aveva sede a Verona.
C’erano tutte queste squadre, ogni tanto arrivava una squadra di queste con cinque sei o sette persone arrestate quella notte. Difatti noi del gruppo lì di Monza quella notte lì saremmo stati circa una ventina o forse anche di più.
Poi ci hanno messo tutti in una prigione sotto, resta proprio sotto il manto stradale diciamo, sotto che guardando dalla via Volturno si vedono dei finestrini così piccoli. E lì siamo stati fino alla mattina.

D: Interrogatori non te ne hanno fatti?

R: No, lì niente. Lì alla mattina poi è venuto un pullman, ci hanno messo su e ci hanno portato a Milano.

D: A Milano dove?

R: In questura a Milano in via Fatebenefratelli, alla Prefettura di Milano. E lì ci hanno messo su tutti. Loro si sono seduti in mezzo tra di noi in borghese, avevano le pistole in mano hanno detto di non tentare, di non tentare la fuga perché loro avevano l’ordine di sparare. Poi, eravamo chiusi dentro in questo pullman, non si poteva fare niente.
Ci hanno portato lì a Milano. Lì c’erano altri……. Abbiamo trovato altri operai o tecnici che avevano arrestato quella notte lì di Sesto, di Milano, di Cologno dei paesi dintorni.

D: Di quelli di Monza ti ricordi qualche nome?

R: Sì, mi ricordo quasi tutti diciamo quelli di Monza. Ero io, mio fratello poi dei sopravvissuti c’era Muretti che poi è morto qualche anno dopo perché era molto conciato anche lui. C’era Galimberti Ettore, c’era Sperandio Giovanni, Terzi Alvaro, quelli di Monza perché erano pochi.
Siamo stati portati via in tanti ma siamo ritornati in pochi.

D: Sperandio Giovanni lavorava con te alla Falck?

R: All’Unione, sì.

D: All’Unione?

R: All’Unione. Invece mio fratello e Muretti lavoravano al Concordia. E invece Galimberti Ettore lavorava al Vittoria e insomma ne avevano presi un po’ da tutti gli stabilimenti diciamo.

D: E lì a Milano allora in Prefettura?

R: Sì la Prefettura lì.

D: Ne hanno trovati degli altri?

R: Sì altri di Sesto, tutti operai. Sesto, Milano e dei dintorni lì insomma. Gente che aveva fatto questi scioperi.

D: Lì vi hanno interrogato?

R: Ma lì, più che interrogatorio è stato… ci hanno letto il nostro, il nostro, l’accusa che avevano contro di noi.
L’accusa era: organizzatori e istigatori degli scioperi, atti di sabotaggio contro l’esercito tedesco e la Repubblica Fascista.
Questa era l’accusa. Ce l’hanno letta però noi non abbiamo detto né si né no. Non ci hanno fatto firmare niente. Questo era l’atto d’accusa. Poi il pomeriggio ci hanno portato a San Vittore.

D: Ecco, gli interrogatori chi è che te li ha fatti? I fascisti o i carabinieri?

R: Ma, erano forse dei magistrati, non so, perché erano in borghese. Lì in Prefettura non so chi erano quelle persone.

D: Non erano tedeschi?

R: No, no sempre italiani. Sempre italiani.

D: Poi ti hanno portato a San Vittore.

R: Sì.

D: Ti ricordi il raggio?

R: Beh il raggio, era un raggio dove c’erano tutti i politici. Adesso, il nome, il numero del raggio poi… Sono stato lì pochi giorni, sono stato lì 2 giorni io a San Vittore. Non ho avuto modo neanche di inquadrarmi bene. Io mi ricordo benissimo San Vittore quando ci hanno messo in questo raggio.
Quando ci hanno chiuso in queste prigioni. Quando, perché ci hanno messi una ventina o 17 o 18 per prigione eravamo. Ci hanno chiusi dentro lì e lì abbiamo trovato nella cella che ero io, trovato 2 o 3 operai della Caproni che erano già lì da qualche giorno. E questi qui della Caproni avevano subito un interrogatorio dai tedeschi ed erano stati anche picchiati. Anzi, c’era uno della Caproni che diceva che l’hanno picchiato così forte e quando lo raccontava piangeva. Ecco.
Niente noi in quelle condizioni lì siamo stati due giorni a San Vittore. La cosa che mi ha impressionato è stato quando mi hanno chiuso in questa cella con quei catenacci con tante mandate e mi sentivo molto molto demoralizzato diciamo perché ero giovane un po’ inesperto di queste cose e niente.
Ecco io dopo il secondo giorno che ero dentro a San Vittore è successo quel fatto che sono venuti quei due ispettori. Eravamo lì nella cella, una sera del secondo giorno sono entrati questi due ispettori. Io ero lì seduto proprio vicino alla porta, perché di letti a castello non ce n’erano, lì c’era un po’ di paglia, si dormiva lì. In un angolo c’era una specie di secchio per i nostri servizi. Ero lì seduto, sono venuti questi due ispettori; uno dei due mi guarda in faccia e mi dice: “Ma te che hai la faccia così da giovane, quanti anni hai?” E io gli ho detto: “17 anni”. Allora rivolto all’altro gli dice: “Guarda che qui c’è un minorenne, bisogna provvedere”. L’altro ha risposto così con arroganza dicendo: “Ma che minorenne e non minorenne; sono tutti lo stesso. Faranno tutti la stessa fine”. Ecco, io l’ho guardato negli occhi.
Quegli occhi non li ho mai perdonati nella mia vita, nei miei periodi di maggior sofferenza. Così quando mi ricordavo di questa persona lo ritenevo responsabile di tutte le mie sofferenze. Io l’ho sempre maledetto. Non lo perdonerò mai perché ha dimostrato di essere un uomo bestiale, non di essere una persona umana.

D: Questi ispettori erano italiani?

R: Sì, erano italiani, italiani.

D: Italiani. Ecco, dopo i 2 o 3 giorni che sei rimasto a San Vittore cos’è successo?

R: Ecco, dopo la sera del secondo giorno ecco, dopo, più tardi da quando erano venuti gli ispettori ci hanno cambiato raggio quella sera lì e ci hanno mandato in un altro raggio. E lì, non si sa poi perché ci hanno mandato in quel posto lì perché poi alla sera più tardi ancora verso le 10 è venuto l’ordine di partenza.
Ecco, io dico una cosa sola, che i nostri fascisti che sono venuti in casa ad arrestarci, poi, ci hanno portato a San Vittore e poi ci hanno mandato in quell’altro raggio, ecco, lì senza nessuna contropartita ci hanno venduto ai tedeschi.
Io dico queste persone che avevano la pretesa di comandare la propria nazione come potevano dare ai cittadini, anche se sono colpevoli di qualche cosa così, di dargliene in mano a degli stranieri. Oggi pretendono ancora di governare diciamo. Sono cose assurde.

D: E lì, il viaggio, siete partiti per dove?

R: Sì per Bergamo. Poi quando siamo andati lì c’era un camion e dovevamo, in quei camion lì dovevamo andar su. Erano quei camion militari con dei tendoni sopra, noi siamo entrati lì e non ci stavamo tutti ma forse con i calci dei moschetti ci hanno fatto stare tutti.
Poi, ci hanno tirato giù i tendoni e dentro si faceva perfino fatica a respirare, perché si fa presto a dirlo, ma essere chiusi.
Almeno noi eravamo in un camion solo ed eravamo forse un centinaio tra quelli di Sesto, di Monza, di Milano e paesi dintorni. E lì ci siamo stati tutti.
Io mi ricordo che si faceva fatica a respirare. Io piano piano con l’unghia sono riuscito a tagliare un po’ questo tendone ed entrava un filo d’aria. Altrimenti era una cosa incredibile.

D: Nessuno di voi però sapeva dove andavate?

R: No. Non si sapeva niente, non ci hanno detto niente. Anzi tra di noi ogni tanto qualcuno diceva: “Ci porteranno in qualche posto o ci fucileranno tutti”. Quando poi siamo in tanti c’è sempre qualcuno che pensa sempre. Ognuno dice la sua diciamo.
Dopo un paio d’ore di questo viaggio, perché non è che il camion…… e poi scortati da camionette di fascisti che erano davanti e dietro il camion. Poi siamo arrivati li all’uscita di Bergamo, nella città di Bergamo perché abbiamo fatto questo tragitto sull’autostrada.
Poi siamo entrati in Bergamo. Poi ci hanno fatto scendere. Ecco, quando ci hanno fatto scendere è stato un ritornare ancora a vivere perché su c’erano già tante persone che stavano male. Si sentiva l’aria pura della notte così si respirava a pieni polmoni. Ecco, questa è stata una bella cosa diciamo.

D: Ecco Angelo, eravate solamente uomini o c’erano anche donne?

R: No, lì erano tutti uomini. Tutti uomini, sì. Poi ci hanno incolonnato tutti in cinque, tutta una lunga colonna e siamo partiti. L’ora sarà stata verso le undici, undici e mezza di notte. Non c’era in giro nessuno perché c’era il coprifuoco.
Qualcuno che guardava fuori, perché la gente magari, quelli che sentivano qua i rumori perché loro urlavano per tenerci inquadrati. Poi se uno non stava bene inquadrato lo picchiavano così, insomma.
Ci hanno portato ad una caserma dei carabinieri, non so se è una caserma dei carabinieri. Lì non ci hanno accettato, forse hanno sbagliato il posto di portarci, poi alla fine ci hanno portato in quella famosa caserma. Era la caserma Umberto I mi pare. Che era una caserma di cavalleria dell’esercito. Lì siamo entrati, ecco.
Fino a lì ci hanno portato i fascisti, quando siamo entrati in questa caserma ci hanno dato in mano ai tedeschi. Però il primo ordine che hanno dato i tedeschi è stato: giù le mani. Perché loro ci hanno fatto fare tutto questo tragitto sempre con le mani in alto. Sempre camminando con le mani in alto. Una fatica anche a tenerle su e come uno abbassava le mani ci arrivava il calcio del moschetto sulle gambe o sulla schiena.
Quando siamo arrivati dentro lì, l’ufficiale tedesco ha dato l’ordine di abbassare le mani. E questo è stato perché si faceva fatica anche a tenerle su le mani, perché noi avevamo su anche i vestiti, io avevo il paltò perché era il mese di marzo e camminare con le mani in alto quasi tre quarti d’ora è dura eh.

D: Ascolta, e poi lì dove vi hanno messo?

R: Lì c’erano delle camerate, c’erano tantissimi altri prigionieri, persone che avevano arrestato, altri operai. Venivano da Torino, venivano dalla Liguria, venivano anche dalla Toscana, dalla zona di Lecco. Io ho trovato anche tanti di Lecco, che operai erano stati anche loro.
Tutta gente che avevano arrestato in quel periodo li degli scioperi. Li avevano portati lì. Lì hanno fatto il concentramento. Ma la prima cosa che mi ha impressionato quando sono entrato in quel posto lì era che tutte queste persone che era già da qualche giorno che erano lì tutti ci cercavano se avevamo qualcosa da mangiare.
Noi che venivamo da San Vittore, anzi, io a dir la verità, quella sera lì ci avevano dato da mangiare abbastanza bene, lì a San Vittore. Ci avevano dato gli spezzatini con le patate e un po’ di pagnotta e io avevo avanzato una pagnotta e l’avevo lì, e questa pagnotta quando questi prigionieri me la cercavano io gliel’ho data. Io ormai quella sera lì avevo mangiato, non sapevo cosa poi mi aspettava gli altri giorni.
Gliel’ho data e per mia meraviglia ho visto che questa pagnotta se la sono divisa forse una decina di persone e anche più. Un pezzettino per uno. Questa cosa mi ha molto impressionato perché è una cosa che non avevo mai visto. Poi ci hanno dato un posto anche a noi. Lì c’era giù un po’ di paglia un po’ dappertutto e hanno trovato un posto perché questa caserma ormai era tutta piena, hanno trovato un posto vuoto e ci hanno messo là. Anche noi là, il nostro gruppo là.

D: E lì sei rimasto quanto tempo?

R: Quattro giorni.

D: Lì hai subito degli interrogatori?

R: No, niente. Niente interrogatori. Ormai la nostra sorte era decisa. A noi non ci ha interrogato più nessuno.

D: Voi però non sapevate nulla?

R: No, non sapevamo nulla. Poi ho visto il giorno dopo com’era il trattamento in quei posti lì.
Il cibo lo davano una volta a mezzogiorno, una fettina di pane, ma una fettina di pane, con un po’ di brodo e basta. Era il cibo di tutta la giornata. Va beh che se si era lì non si lavorava e tutto. Però la fame era molto forte. Dopo, quando avevo così tanta fame, perché sono stato quattro giorni, avevo una fame, sono stato pentito di aver dato via questa pagnotta. Però quella sera lì non avevo fame, diciamo.

D: L’hai distribuito agli altri?

R: Sì.

D: Ecco, e quindi in quella caserma lì chi comandava erano i tedeschi?

R: Tedeschi. Sì.

D: Ascolta, i tuoi genitori?

R: Sì, i miei genitori da quando ci avevano portato via loro si sono dati da fare per sapere dove ci avevano portato. Non solamente i miei ma anche i genitori di tutti gli altri.
E poi lì a San Rocco dove abitavo io c’era un cappellano militare e si era dato da fare anche lui. Livio Mandelli si chiamava. Si era dato da fare anche lui per sapere dove ci avevano portati. E finalmente quel giorno lì avevano saputo che eravamo a Bergamo.
Noi siamo partiti quel 17 marzo, siamo partiti da Bergamo. Quella mattina lì verso le undici, le dieci e mezza, le undici sono arrivati i miei genitori e tanti genitori, familiari di quelli di Monza.

D: Che tu però hai potuto solamente vederli da lontano?

R: No, no, no. Li hanno fatti entrare in caserma. Li hanno fatti entrare in caserma. Sono venuti su lì, abbiamo parlato assieme. Li c’erano gli ufficiali. Tanto è vero che io avevo in tasca i buoni della mensa e li ho dati a mio padre e l’ufficiale tedesco ha voluto sapere cos’erano. Ha chiamato lì un interprete per vedere cos’erano. Poi quando ha saputo che erano i buoni della mensa allora… Chissà che segreti pensava che fossero.
Poi è venuto l’ordine, ci hanno portato giù nel piazzale di questa caserma. Ci hanno inquadrati e allora i nostri genitori li hanno messi un po’ da parte. Li hanno fatti uscire dalla caserma e poi a noi ci hanno dato un po’ di pagnotte a testa e un po’ di Bologna. Hanno dato sette pagnotte a testa e una fetta di Bologna diciamo. Questo era il cibo che ci hanno dato per il nostro viaggio.
Noi non si sapeva. Hanno detto che si partiva ma non ci hanno detto dove si andava.
Ci hanno inquadrato tutti. Poi ci hanno incolonnati verso la stazione. Ecco, io mi ricorderò sempre bene questo tragitto perché sono successe delle cose molto anche…

D: A piedi l’hai fatto?

R: Sì, l’abbiamo fatto a piedi. C’era questo lungo tragitto. Il nostro convoglio sarà stato come minimo di settecento, ottocento persone. Di prigionieri arrestati.
Poi ci seguivano i nostri genitori. I miei genitori e anche gli altri ci hanno seguito fino alla stazione.
Poi c’erano questi fascisti che ci accompagnavano a piedi. E poi di altre camionette che facevano la spola avanti e indietro con le mitragliatrici puntate. Perché loro prima di partire hanno detto di non tentare la fuga perché loro avevano l’ordine di sparare.
Poi la cosa bella è stata la gente di Bergamo. Perché era un pomeriggio. Siam partiti un pomeriggio. Saranno state le tre, le tre e mezza, quell’orario lì. E la gente di Bergamo ha visto questa lunga fila di prigionieri.
Questa gente ha incominciato a guardare e poi si è avvicinata. Vedevano tutti tutto questo lungo corteo di gente che piangeva. Perché i nostri familiari che piangevano. “Chi siete? Cosa avete fatto?” “E noi siamo operai che abbiamo scioperato e adesso ci portano in Germania. Così… non si sa”.
Ecco, questa gente di Bergamo, tantissimi, hanno dimostrato una grande solidarietà verso di noi. Andavano in negozio a prendere qualche cosa, fiaschi di vino, qualche cosa così e ce li portavano.
Ecco, io vorrei raccontare un piccolo fatto così. Uno davanti, che si trovava davanti a me, è uscito un po’ dalla fila per prendere un fiasco di vino che ci ha dato quella gente lì. Poi stava ritornando in fila e un fascista l’ha buttato via. “Vai via”. Perché pensava che era uno di quelli che.. Perché c’era un po’ di confusione lì. Lui è stato lì, poi è filato e se n’è andato.
E ci è andata bene. Mio fratello ha tentato anche lui vedendo questo qui. Ha tentato di svignarsela e invece ha preso il calcio del fucile sulla schiena e l’hanno messo in coda. Anche lì bisogna avere un po’ di fortuna.
Ecco, c’era della grande confusione. Voi pensate. Noi, la lunga fila, questi fascisti che ci seguivano armati, queste camionette che facevano la spola avanti e indietro, tutti urlavano, bestemmiavano, tutti. E poi la gente di Bergamo. C’era una gran confusione. E qualcuno penso che oltre a quello forse qualcun altro sarà riuscito ad aver la fortuna di svignarsela.
Poi siamo arrivati alla stazione, ecco.. Alla stazione abbiamo salutato i nostri genitori perché loro in stazione non hanno potuto entrare. Abbiamo salutato i nostri genitori.
Io mentalmente ho ringraziato e salutato la gente di Bergamo perché questa solidarietà che ha dimostrato nei nostri confronti è stata molto importante. E io devo dire che nei momenti anche di sconforto quando mi ricordavo queste cose mi aiutava sempre di più a resistere. Perché la solidarietà in quei momenti lì è una cosa molto importante.

D: Ascolta. In questo trasporto qui, questa lunga colonna che tu dicevi di prigionieri che andava verso la stazione di Bergamo, c’erano anche delle donne con voi?

R: C’erano sette donne. Ecco, le hanno inquadrate per ultimo. Erano sette donne che venivano da Lecco. Lavoravano alla Bonaita mi pare o alla Badoni mi pare. Ma adesso non mi ricordo bene. Lavoravano in quella fabbrica lì. Hanno scioperato.
Erano sette donne che sono state prese anche loro. Poi dopo ho saputo che erano queste sette donne perché ho conosciuto anche i deportati uomini di Lecco. Però queste donne le hanno messe su un vagone da sole, mi pare. Perché, io le ho viste solamente quando le hanno accodate alla nostra lunga fila. Erano in ultimo.
A dir la verità in questa nostra fila cerano anche due vestiti da fascisti. Due giovani vestiti da fascisti. Non so chi erano. Non so cos’hanno fatto. E li hanno messi anche loro nel nostro convoglio e sono partiti anche loro due con noi. Vestiti da fascisti.

D: Arrivati alla stazione cosa c’era ad aspettarvi? Alla stazione di Bergamo.

R: Dentro nella stazione c’era questo lungo treno di vagoni bestiame. Fino all’esterno della stazione ci hanno accompagnato i nostri genitori e tantissime persone che ci hanno seguito. Poi queste non hanno potuto entrare. Noi siamo entrati in questa fila e una quarantina in ogni vagone. Ci mettevano in media quaranta ogni vagone e poi ci chiudevano questi vagoni e li piombavano. Erano carri bestiame chiusi.

D: Chiusi dall’esterno?

R: Chiusi dall’esterno.

D: Tu sei stato su assieme a tuo fratello?

R: Sì. Noi eravamo lì tutti assieme. Io, mio fratello e il gruppo di Monza. Poi avevo su qualcuno di Torino, qualcuno anche della Toscana avevo su, perché sono tutti dialetti che non avevo mai sentito parlare: il piemontese, il toscano.
Io ero giovane e non avevo mai girato in giro. Allora sentivo questi dialetti e mi piaceva un po’ sentirli, ecco, questi dialetti così.
Ecco io devo dire una cosa, che quando sono entrato sul vagone poi ci hanno chiusi dentro. Poi quando questo vagone è partito, come è partito il vagone io ho avuto una grande crisi di pianto. Ho incominciato a piangere. Forse è stato un bene. Mi sono sfogato di tutta la tensione che avevo accumulato in quei giorni diciamo così. Poi finalmente quando sono riuscito a calmarmi c’era mio fratello che è mi stato molto di conforto.
C’era Galimberti di Monza che era una persona un po’ legata alla Resistenza. Era sulla trentina. Era più esperto di noi. Aveva già fatto delle azioni di partigiano insomma. Ecco, anche Galimberti mi è stato di molto aiuto moralmente.
Tanto è vero che poi quando si andava sul treno Galimberti è stato quello che ha tentato di schiodare qualche tavola dal pavimento per tentare la fuga, ma noi non avevamo niente.
Se avevamo qualche cucchiaio, qualche coltellino, qualcosa, invece non avevamo niente. Avevamo solamente le nostre unghie. E’ stato impossibile.

D: Angelo, i vagoni piombati, quelli che dici tu e quelli per caricare il bestiame sono quelli senza finestre?

R: No, ci sono dei finestrini piccoli così. C’è un finestrino in alto. Aveva questo finestrino in alto.

D: E basta?

R: E basta.

D: E lì eravate in quaranta?

R: In quaranta. C’era un po’ di paglia. Poi noi ci siamo organizzati in questo modo: in un angolo in fondo abbiamo fatto come l’angolo per il gabinetto.
Ognuno di noi nei nostri pacchi che avevano portato i nostri genitori avevamo un po’ di carta per cercare poi di pulirci; quando c’era un po’ si buttava fuori dal finestrino. Ci siamo organizzati in questo modo.
Ecco, la cosa più brutta di questo viaggio è stata la sete, perché loro sì ci avevano dato da mangiare però su questi vagoni non c’era neanche una goccia d’acqua. Voi pensate: mettete quaranta persone in un vagone dove non c’è niente altro che paglia. Solamente i movimenti. C’è sempre quella polvere. Quella polvere lì ci viene sempre una grande sete.
Noi il primo giorno sul nostro vagone avevamo sette o otto fiaschi di vino che ci aveva donato la gente di Bergamo. Eravamo in quaranta persone ed è stato abbastanza per bere quel bicchiere o due di vino. Perché sette fiaschi, otto fiaschi di vino sono dodici litri di vino; perché un litro e mezzo erano questi fiaschi.
Il primo giorno è andato abbastanza bene. Ma il secondo giorno, io dico sinceramente che il secondo giorno non c’era più nessuno che mangiava per la gran sete che avevamo. Avevamo lì ancora delle pagnotte, avevamo il cibo che ci avevano portato i nostri genitori, però non si poteva più neanche mangiare dalla gran sete.

D: Il treno non si è mai fermato?

R: La prima fermata l’abbiamo fatta a Verona. Si è messo poi su un binario morto e lì siamo stati fermi diverse ore. Ed è lì dove Galimberti ha tentato di schiodare. Perché quando il treno si fermava quelli delle SS venivano giù dal treno perché sull’ultimo vagone c’erano su tutti i soldati delle SS.
Quando il treno si fermava loro venivano giù e facevano, camminavano avanti e indietro di guardia. Però se si riusciva a tirar su qualche cosa, qualche asse e calarsi giù si poteva riuscire perché in qualche vagone è riuscito qualcuno a fuggire.
Poi c’era anche la paura, perché loro prima di partire hanno detto che i vagoni che arriveranno dove qualcuno è fuggito gli altri saranno fucilati. E allora…
Ma noi, il nostro gruppo di Monza con Galimberti, quando qualcuno ha tentato di fare delle azioni, quando tentava di schiodare queste assi lui ha detto: “Voi non ci pensate che quando arriverete, che quelli che arrivano non gli fanno niente”.
E aveva ragione, perché in quei vagoni dove sono fuggiti non è successo niente. Perché in un paio di vagoni qualcuno è riuscito a filare.

D: Ascolta. Ecco. Dopo Verona? Via.

R: Via. Poi ci siamo fermati ancora in un altro posto. In un paesetto del friulano. Poi abbiamo fatto la linea Tarvisio non quella del Brennero.
Abbiamo fatto la linea Tarvisio perché mi ricordo che in stazione lì a Tarvisio ci siamo fermati proprio nella stazione. Era anche lì un pomeriggio e c’erano fermi dei treni.
E noi dal finestrino che si guardava fuori si cercava l’acqua, l’acqua, l’acqua. E c’è stato qualcuno che è riuscito ad andare a prendere qualche fiasco d’acqua. Però sul nostro vagone saranno arrivato forse un paio di fiaschi d’acqua. E’ stato abbastanza per bere quel bicchiere a testa. Ecco.

D: Quando vi fermavate non veniva aperto il vagone? Voi, tu non sei mai sceso dal treno?

R: Siamo scesi una volta in Austria.

D: Quindi dopo Tarvisio Austria.

R: Austria. Mi ricordo che era una notte, ci hanno fatto scendere, hanno aperto il vagone, ci hanno fatto scendere per fare i nostri bisogni. Ecco, in quell’occasione lì ci hanno dato anche un brodino caldo. Un brodino caldo ci hanno dato perché anche il freddo si è sofferto tanto in questo viaggio. Perché esser lì fermi, così, insomma.
Il freddo e la sete che abbiamo sofferto. Anche lì c’era tanta neve. Abbiamo mangiato un po’ di neve per dissetarci. Però ci hanno fatto scendere e più di quei tre o quattro passi lì in giro al vagone non si poteva andare perché c’erano tutti questi soldati con i mitra puntati. Lì penso che nessuno ce l’ha fatta a fuggire da quel posto lì. Poi ci hanno chiuso, è’ stata l’unica volta che ci hanno fatto scendere di notte.

D: Dopo quanti giorni?

R: Abbiamo fatto, senza contare il primo giorno, tre giorni e tre notti. Tre giorni e tre notti diciamo.

D: Alla fine del viaggio dov’è che sei arrivato?

R: Siamo arrivati a Mauthausen.

D: Ma voi non sapevate dove andavate?

R: No, ma no. Niente. Non si sapeva cos’era. Però c’è stato uno che quando siamo arrivati nella stazione di Mauthausen, quando siamo scesi lì, si è messo a piangere. Una persona anziana si è messa a piangere e ha detto che andiamo su a Mauthausen perché lui era già stato prigioniero nella guerra del 1915-1918 e diceva che stava male. Era un prigioniero militare della guerra 1915-1918. “E’ un brutto posto. Andiamo a stare male”. Questo non era vicino a me e l’ho sentito così, e non so neanche chi sia, ecco.

D: Quindi siete arrivati a Mauthausen.

R: Sì, siamo arrivati a Mauthausen il 20 marzo.

D: Sempre del ’44?

R: Del ’44.

D: E lì cos’è successo alla stazione?

R: Alla stazione, siamo usciti dalla stazione. La prima cosa che abbiamo fatto, abbiamo cercato di mangiare un po’ di neve per dissetarci un po’. Perché la sete ci ha accompagnato per questo viaggio sempre terribilmente.

D: Era giorno o notte quando sei arrivato?

R: Era pomeriggio. Sarà stato prima di sera perché là poi, in quella stagione lì alle quattro incomincia a venire buio. Sarà stato sulle tre. Perché là le giornate all’est alle quattro, quattro e mezza è già buio d’inverno. Poi lì era marzo, insomma le giornate sono ancora un po’ corte.

D: E poi cos’è successo?

R: Ci hanno incolonnato tutti all’esterno della stazione. Hanno cominciato. Lì urlavano, ci incolonnavano a cinque. Tutti in fila per cinque.
Quella lì era una brutta giornata perché cadeva neve mista ad acqua. Faceva anche molto freddo. Noi, io e mio fratello, avevamo una piccola valigia in due e non avevamo dei problemi.
Però c’erano tante persone che avevano magari due valige perché tutti portavano queste cose con grande speranza. Perché quando si portano delle cose, vestiti, qualcosa da mangiare, quelle cose lì, si pensa che aiutano a sopravvivere.
Non si sa dove si va a finire e non si sa quale sarà il nostro destino. E tutte queste persone portavano ognuno le proprie cose con grande speranza.
Io e mio fratello abbiamo aiutato qualcuno. C’era un professore che aveva due valige e io l’ho aiutato a portare questa valigia. Anche mio fratello. Poi anche degli altri. Cercavamo di aiutarli perché era molto faticoso camminare, perché c’era neve. Queste stradine che andavano su al campo non erano stradine asfaltate. Erano stradine con neve e ghiaccio, si faceva molta fatica a camminare.
Però in questi scambi quando ci si fermava a prendere la valigia, a riposare un momentino si prendevano anche delle botte perché questi soldati delle SS urlavano e picchiavano sempre.
Ecco, io devo dire che quando andavo su, si andava su per questa stradina, si vedevano queste belle valli.
Avevo dentro di me una grande voglia di mettermi a correre, di scappare. Se ero in Italia l’avrei tentato, perché se non mi prendevano subito non mi prendevano più, perché io allora ero molto veloce a correre. Non so se se mi prendevano.
Ti potevano sparare. Perché lì di cani non ne avevano. Non potevano mandarmi dietro i cani. Di cani quando ci hanno portato su non ne ho visti. Invece ero all’estero. Non sapevo, poi non si sapeva dove si andava a finire. Anzi mio fratello: “No, non tentare, non tentare”. Mi ha dissuaso un po’ e siamo andati su. Perché dalla cittadina di Mauthausen ad andare sul al campo ci saranno circa quattro chilometri. E’ stata una marcia molto faticosa date le condizioni anche del tempo.
Poi quando siamo arrivati nelle vicinanze del campo la cosa impressionante è che abbiamo visto questi scheletri umani vestiti con quei vestiti a righe che spalavano la neve, e c’erano altri che li picchiavano.
Ecco, queste cose ci hanno un po’ impressionato. “Ma qui dove ci porteranno? Chi sono quelli? Chi sono gli altri?”. Perché non avevano delle divise. Quelli che lavoravano le divise, i vestiti a righe e gli altri avevano dei vestiti civili che picchiavano e urlavano.
Poi abbiamo saputo cos’erano. Erano i famosi Kapò che poi abbiamo incontrato e abbiamo capito chi erano.

D: La prima immagine del campo?

R: Sì. La cosa è stata molto impressionante. Io devo dirlo. Perché Mauthausen si presenta questa costruzione come una fortezza. Tutta fatta di pietre. E’ una cosa che mi ha impressionato.
Ma la cosa che a me personalmente ha impressionato di più erano quegli sguardi, quando siamo arrivati lì, di quei soldati lì delle SS. Con quegli sguardi freddi, cupi, che ti guardavano con quello sguardo che ti incutevano proprio paura. Per non dire terrore.
Io dico. Io la paura l’ho provata perché non posso dire di non averla provata. Quando sono passato sotto il portone di Mauthausen sentivo dei brividi di freddo che mi attraversavano la schiena. Avevo paura e non ho vergogna a dirlo. Ho preso la mano di mio fratello e la stringevo.
Poi la cosa impressionante è quando sono entrato dentro nel campo. Al lato destro e al lato sinistro c’erano questi due prigionieri che erano lì per punizione. Perché poi, come di solito era sempre così. Qualcuno non so per che cosa. Per punizione.
Prima li picchiavano selvaggiamente, poi li legavano alla catena, uno a destra e uno a sinistra e li lasciavano lì tutto il giorno a dorso nudo. Faceva freddo, faceva caldo. In quelle condizioni tutti insanguinati. Se alla sera erano vivi ancora li mandavano alla camera a gas, se non erano vivi li mandavano direttamente al crematorio. Questo era un po’ il destino.
Però quando ho visto queste due persone così conciate, così magre, insanguinate, così legate alla catena mi ha impressionato molto.
Poi noi ci hanno allineato lì sulla destra. Poi a gruppi di una ventina per volta ci facevano scendere giù sotto. Lì sulla destra. Dove adesso c’è quella chiesa lì.
Sotto lì, nel sotterraneo a gruppi di venti ci facevano scendere, ci facevano consegnare tutte le nostre cose. Se avevamo orologi o anelli d’oro, soldi. Lì ci hanno ritirato tutto.
E loro tutto quello che gli consegnavamo lo marcavano giù. Era tutta una cosa, guardate, assurda perché poi delle nostre cose noi non abbiamo visto più niente.
Poi ci hanno tolto i nostri vestiti. Nudi completamente. Tutte le nostre cose che avevamo portato con grande speranza, le nostre valige, quelle ce le hanno fatte abbandonare di sopra. Quelle non ce le hanno fatte portare giù. Le abbiamo lasciate di sopra. Poi tutti i nostri vestiti che avevamo. Ci hanno levato tutto. Ci hanno depilato in tutte le parti del corpo, ci hanno tagliato i capelli a zero e poi abbiamo fatto la doccia. Poi siamo usciti dall’altra parte perché c’era un’altra porta dall’altra parte e là ci hanno dato un paio di mutande e una camicia. E poi ci hanno portato in una baracca.

D: Angelo, cosa vuol dire lasciare tutto?

R: Vuol dire tante cose. Si fa presto a dire “lasciare tutto” ma noi in quegli attimi lì lasciavamo una parte di noi stessi. Tutto vuol dire tutto. Quello che noi avevamo di nostro più caro.
Io avevo un portafoglio. Avevo la fotografia di mio padre, di mia madre, dei miei fratelli. Avevo le fotografie di quando correvo a piedi, perché avevo vinto tante corse.
Tutto vuol dire tutte le nostre cose. Tanto per dire anche una stupidaggine, il pettine, quelle cose lì. Ognuno si era affezionato alle proprie cose. Tutte cose che poi noi non abbiamo più avuto. Non abbiamo più avuto il cucchiaio diciamo… cose che non abbiamo mai avuto. Sono cose insignificanti ma molto importanti quando non ci sono.
Lasciare tutto vuol dire lasciare una parte anche del nostro cuore.

D: E non potevate nasconderlo da nessuna parte?

R: Da nessuna parte. Dove lo nascondevi? Perché te uscivi dall’altra parte nudo completamente. E quando uscivi di là c’erano sulla porta questi guardiani che ti guardavano con le mani in alto.
Ti facevano allargare le gambe. Non so se si poteva. Io non ha mai visto qualcuno che avrebbe potuto portare via qualche cosa.

D: Quindi tu hai lasciato tutto?

R: Ho lasciato tutto. Poi ci hanno allineati e ci hanno portati in una baracca di quarantena lì a Mauthausen. In questa baracca di quarantena, era una delle solite baracche come le altre, divisa in due parti: parte A e parte B. Io ero dalla parte B, insieme a mio fratello, al gruppo di Monza e tanti di Milano.
Noi siamo stati quattro giorni a Mauthausen sempre vestiti con questa divisa: un paio di mutande e una camicia e basta. Lì in quei giorni lì eravamo dentro in baracca.
Il problema grosso è stato alla sera quando davano l’ordine di coricarsi per dormire. Letti a castello non ce n’erano. Bisognava dormire sul pavimento di questa baracca.
Eravamo circa in quattrocento, forse anche di più in ogni parte. E non ci stavamo tutti anche perché le baracche sono lunghe, però una parte in mezzo era per i servizi. Poi c’erano le camerette dei Kapò, e quelle cose lì.
Comunque noi non ci stavamo tutti. Dovevamo metterci di fianco perché se no non ci stavamo tutti. Poi il problema era sempre questo. Quando di notte uno doveva andare ai servizi o qualche cosa, muoversi così per camminare bisognava calpestare sempre qualcuno. Ci sono quelli che si lamentano, quelli che dicono qualche cosa e poi c’erano i Kapò che sentivano un rumorino e allora entravano e picchiavano.
Lì abbiamo capito un po’ le cose: come sarebbe stato il nostro destino. Perché per picchiare delle persone per niente. Anche lì, ti fanno dormire per terra, ti hanno depilato dappertutto, ti hanno portato via tutte le tue cose.
Però io dico sinceramente che quando siamo in tanti, siamo lì in tanti, in qualsiasi momento ci sono sempre i pessimisti e gli ottimisti. Però il più pessimista di noi era poi, molto, molto lontano dalla realtà che abbiamo trovato perché non si pensava mai che esistessero quelle cose che abbiamo trovato.
Ecco, noi siamo stati quattro giorni in quelle condizioni. Il primo giorno è venuto il capo. Un comandante tedesco che ha parlato. Mandato dalle SS. Che ha parlato in tedesco, poi l’ha fatto ripetere da uno che l’ha tradotto in italiano.
Il secondo giorno la mattina ci avevano dato quel pochettino di caffè. Era acqua sporca. Alla mattina amaro. Poi a mezzogiorno ci hanno dato quella gamella di crauti. Difatti nessuno di noi è riuscito a mangiare quella cosa lì. Perché erano proprio porcherie.
Poi è venuto il Kapò, il comandante delle SS e ha detto: “Italiani oggi nessuno di voi ha mangiato la zuppa. Avete rifiutato la vostra zuppa. Fra qualche giorno la cercherete e vedrete come sarà buona, ma più della vostra razione non vi sarà mai data”. E aveva ragione. Era diventata buonissima poi.
“Oggi siete in mille”. Lui ha detto mille perché di preciso non si è mai saputo quanti erano questi trasporti. “Oggi siete in mille, fra tre mesi sarete in trecento”. Guardate che augurio. “Qui dovete imparare a stare agli ordini e a non fare mai quello che volete voi ma dovete sempre fare quello che vi sarà ordinato di fare”. Tutti auguri che ti mettevano addosso quella cosa che chissà poi come sarà.

D: Angelo quelle donne che sono partite con te da Bergamo sono arrivate anche loro?

R: Sono arrivate a Mauthausen; lì a Mauthausen ci sono delle celle. E queste donne le tenevano lì. Poi partivano per gli altri campi destinati alle donne. Difatti a Mauthausen non si è mai vista una donna.
C’erano quelle che arrivavano a Mauthausen, però erano giù in queste celle. E lì poi stavano magari anche dai dieci ai quindici giorni fino a che facevano il trasporto e poi per le donne c’erano altri campi che forse erano peggio anche di quelli degli uomini.

D: Nella baracca dov’eri tu in quarantena, eravate solamente italiani?

R: Sì, italiani. Eravamo tutti noi italiani che siamo arrivati lì, in quel 20 marzo. Perché è stato un grosso convoglio il nostro.
Però anche lì, io prima vi ho detto che ho sofferto la sete sul viaggio, ma la sete l’avevamo sofferta anche i primi giorni e anche dopo perché non è che là si poteva bere e via.
Noi si andava al gabinetto. Tante volte c’era qualche rubinetto, ma si cercava di bere un po’ d’acqua lì ma loro hanno detto di non berla perché era inquinata dall’infiltrazione del Danubio. Però la gran sete che avevamo ci faceva bere anche quest’acqua.
Ce n’è voluta un po’ per smaltire la grande sete che avevamo dentro di noi, che avevamo sofferto durante il viaggio. Ce ne sono voluti di giorni.

D: E nella baracca, letti hai detto che non c’erano?

R: No.

D: C’erano degli armadietti?

R: No, no. Niente.

D: C’erano dei tavoli?

R: Niente, niente.

D: C’erano delle sedie?

R: Niente, niente. Noi si camminava sempre lì in piedi. Si poteva sedersi per terra. Niente. In questa baracca c’eravamo noi. Degli armadietti non ce n’era bisogno perché avevamo solamente la camicia e le mutande che avevamo addosso. Di nostro non avevamo niente.

D: Quindi neanche scarpe avevate?

R: Niente, niente. Avevamo solamente camicia e mutande e basta. E quando ci hanno dato la zuppa da mangiare neanche il cucchiaio. Questa zuppa si mangiava così. Così come un maiale diciamo. Succhiandola così diciamo.

D: Ascolta. E per lavarvi avevate sapone, avevate..

R: No, no il sapone è sparito dalla circolazione. Io in quindici o sedici mesi, sapone, riso e pasta sono spariti. Non li ho visti più.

D: Dopo quattro giorni cos’è successo?

R: Dopo quattro giorni ci hanno dato il resto del nostro vestiario. Ci hanno dato degli zoccolotti, tanti zoccolotti olandesi, tanti zoccolotti incerati ma con sotto il legno. Erano meglio di quelli olandesi perché quelli olandesi erano terribili. Ti spaccavano anche i piedi. Ci hanno dato un paio di calze. Ci hanno dato i vestiti a righe con su ognuno il nostro numero di matricola, perché loro avevano stabilito il nostro numero di matricola. Ci hanno dato il nostro numero lì.
Quando ci hanno dato i vestiti ci chiamavano ognuno e ad ognuno c’era su il suo numero di matricola.

D: Cosa vuol dire numero di matricola?

R: Numero di matricola vuol dire che noi non avevamo più il nostro nome dopo. Il nostro nome era diventato il numero.

D: Quindi quando ti dovevano chiamare non ti chiamavano più Angelo Signorelli?

R: No. Mi chiamavano per numero.
Io ero il 59141 e mio fratello era il 59142, perché loro penso che li hanno fatti numerati in ordine alfabetico. Perché i numeri sono partiti dal 58000 e tanti e sono finiti al 59000 verso 300 o che diciamo.
Tutto il nostro convoglio è stato lì. Ci hanno dato questo numero e questo numero è sempre stato il nostro nome poi.

D: Allora. Il numero l’avevi.

R: Avevamo qui sulla sinistra sulla giacca. Qui sulla destra sui calzoni e ci hanno dato un braccialetto con un po’ di corda. Un braccialetto in lamiera con su anche lì il numero.

D: Cosa vuol dire Angelo chiamarsi con un numero?

R: Chiamarsi con un numero vuol dire tante cose, ma per me che l’ho vissuta vuol dire una cosa molto semplice. Perché noi dobbiamo pensare che tutto quello che hanno fatto le SS non è che lo abbiano fatto così a caso. L’hanno fatto perché è stato tutto studiato a tavolino.
La spersonalizzazione delle persone. Loro ci hanno dato un numero. La spersonalizzazione delle persone. Quando te ti hanno levato tutto dopo averti levato tutto ti levano anche il nome.
Poi per conto mio io l’ho vista in questo modo. Per facilitare anche il lavoro degli aguzzini. Perché se noi lasciamo alle persone un nome, pensate che dietro il nome c’è sempre qualcosa di umano. Tante volte questo nome può ricordare qualcosa anche all’aguzzino. Magari il nome di un figlio o di un parente o qualche cosa e può avere degli attimi di debolezza. Tante volte può avere sul nome della simpatia o qualche cosa. Invece dietro un numero di umano non c’è niente. Un numero è un numero e basta. Il numero si dice senza nessuna emozione, invece un nome… c’è sempre una storia dietro un nome.
Loro quello che hanno fatto l’hanno fatto così. Poi l’abbiamo sperimentato in seguito cosa volevano dire queste cose, perché quando le abbiamo provate a Gusen cosa voleva dire essere chiamati sempre per numero.

D: Ecco Angelo, a proposito di numero. Tu prima l’hai detto in tedesco e in italiano, e chi non capiva?

R: Botte. Venivano massacrati anche.. Voi dovete capire che tutti questi Kapò che abbiamo trovato in questi campi avevano il diritto di vita e di morte su di noi. Si divertivano alle nostre spalle ognuno di questi Kapò.
Quelli che avevamo sul lavoro ci massacravano così, quelli che avevamo in baracca non erano i kapò che avevamo sul lavoro e allora anche loro dovevano divertirsi alle nostre spalle.
Il nostro lavoro finiva alle sei, si entrava in campo, poi c’era il primo appello, poi il secondo appello lì all’esterno delle baracche. Prima l’appello generale sul piazzale del campo dove ci contava la SS e lì dovevano esserci tutti. Poi ognuno andava alle proprie baracche e lì c’erano altri appelli. Noi venivamo tutti allineati all’esterno di ognuna delle proprie baracche, e lì questi Kapò che avevamo nelle baracche si divertivano anche loro alle nostre spalle. Allora incominciavano tutte queste storie.
Abbiamo parlato del numero. Loro si mettevano là tutti bene allineati all’esterno delle baracche e noi eravamo lì tutti allineati tra una strada che divideva una baracca e l’altra. Loro si mettevano sui gradini delle baracche così ci vedevano meglio e ci chiamavano per nome. Ci chiamavano per nome detto in tedesco.

D: Per numero vi chiamavano?

R: Sì per numero, adesso ho sbagliato. Ci chiamavano per numero detto in tedesco. Io però i numeri in tedesco bene o male li conoscevo prima perché da ragazzo lì dove abitavo io c’era una contraerea dove c’erano i soldati tedeschi e qualche cosa avevamo imparato.
Io l’avevo quasi capito il mio numero, però non mi sono mosso. Allora sono venuti a prendermi e mi hanno dato un sacco di botte. Però la seconda volta che hanno chiamato il mio numero ero pronto. Perché quando chiamavano il numero dovevi fare un passo avanti, levarti il berrettino, metterti sull’attenti e stare lì sull’attenti. E se non ti muovevi venivano loro a prenderti e ti davano delle grandi botte. Loro picchiavano.
C’erano quelli che picchiavano coi bastoni, quelli che picchiavano coi pugni a seconda. Ecco, in quelle occasioni lì era brutto se uno cadeva per terra perché allora si prendeva di quei calci sullo stomaco e sulla schiena che tanti ci lasciavano anche la pelle. Lì era molto brutto quando cadevi per terra. Ma tante volte ti davano di quei pugni che ti facevano tramortire.

D: Angelo, oltre al numero ti hanno dato un’altra cosa? Avevi un’altra cosa sulla zebrata?

R: “IT” è la sigla. Il triangolo rosso. “IT” che voleva dire italiano. I francesi invece avevano la “F” lunga, i russi la “R”, gli jugoslavi la “J”, gli ebrei avevano la stella di Davide. Agli ebrei lì a Gusen mettevano anche delle strisce di vernice sulla schiena. Oltre al numero li distinguevano così.

D: Ecco, perché il triangolo? C’erano triangoli di altri colori oltre al vostro?

R: Sì. Il triangolo rosso era quello dei politici. Poi c’erano il triangolo verde di quelli che venivano messi in prigione per reati comuni. Poi c’erano gli omosessuali che avevano il triangolo rosa, mi pare. Poi c’erano altri triangoli. Comunque, ogni categoria li dividevano. Loro li dividevano per queste categorie.

D: E tu avevi il triangolo rosso?

R: Triangolo rosso.

D: Quindi quello dei politici?

R: Sì.

D: Ascolta. Allora, i Kapò erano tutti tedeschi?

R: No. Ce n’erano tanti polacchi.

D: E quando vi chiamavano vi potevano chiamare anche in polacco?

R: Di solito erano o in tedesco o in polacco.

D: Ma chi capiva di voi il polacco?

R: Eh…, ce n’erano pochi. Anch’io quando mi chiamavano in polacco ne ho prese un po’ di più di botte. Ma poi l’ho capito anche in polacco.
Però per me che ero giovane, queste cose si imparano meglio quando si è giovani. Invece le persone che avevano una certa età queste cose non le imparavano mai e prendevano sempre delle grandi botte.
E loro quando ti picchiavano ti insultavano anche: “Italiano di merda, sei un cretino, scemo, figlio di puttana”, diciamo. Tutte parolacce che quando ti picchiavano te le dicevano.

D: C’erano anche molti anziani con voi?

R: Sì. Io ero giovane. Quando vedevo anche uno di trent’anni era anziano. Però anche sui quarant’anni, cinquant’anni ce n’erano. Forse anche di più. Però quelli resistevano poco.

D: Ti ricordi se c’erano anche dei sacerdoti?

R: Sì. Ce n’erano di sacerdoti. Io ne ho conosciuti. Ho conosciuto Don Narciso Sordi. Ho conosciuto anche altri sacerdoti. Poi sono andati a Dachau. Poi c’era Don Gaggero. Ce n’erano tanti.

D: Questi li hai conosciuti perché erano nella tua baracca?

R: No, nel campo, la sera. Magari si andava da una baracca all’altra. Io nella baracca non ho mai avuto sacerdoti assieme.
Poi, dopo i sacerdoti un bel momento li hanno mandati tutti a Dachau. Là li hanno messi tutti nella baracca dei sacerdoti.

D: E avevano anche loro, comunque vada, il numero?

R: Sì, sì.

D: Il triangolo?

R: Sì.

D: Come voi?

R: Come noi. Senz’altro.

D: Di Don Narciso Sordo cosa ti ricordi?

R: Sì, mi ricordo quella volta quando ho visto quei ragazzi. E’ arrivato un convoglio di ebrei ungheresi.
Li hanno fatti scendere dal treno. E poi, c’erano anche delle donne, c’erano bambini, c’erano questi uomini. Li facevano camminare con le mani in alto. Quando ho visto quei bambini così piccoli che camminavano con le mani in alto io ho detto a Galbani, quello di Lecco. Gli ho detto: “Ah, Pino, Pino “. Perché noi tante volte la sera si diceva qualche preghiera. “Ah, Pino, Pino se succede… per permettere queste cose ho paura che Dio non esiste”. E questo dietro di me che era un prigioniero anche lui vestito a righe come me mi dice: “Perché dice così? Non è colpa di Dio. E’ colpa degli uomini”.

D: Dopo, quando hanno completato la vestizione eccetera, ti hanno portato in un altro campo?

R: A Gusen.

D: Ecco, questo viaggio come l’hai fatto?

R: A piedi, ma non sulla strada provinciale. Tutte stradette in mezzo a quelle colline lì perché sono circa quattro chilometri.

D: In quanti eravate?

R: Io che ero giovane, molto attento alle cose, ho visto che quando siamo partiti da lì eravamo in meno di quanti siamo arrivati. Perché loro, se guardiamo il numero di matricola, hanno immatricolato circa seicentocinquanta o settecento prigionieri che portano il numero che sono arrivati. Però per me erano molti di più perché ho visto anche delle persone piuttosto anziane. Ce n’era uno anche senza gamba che non l’ho visto partire.
Io penso che quando siamo arrivati a Gusen una parte di noi sia stata selezionata e mandata alla camera a gas, penso. O forse al Castello di Hartheim. Perché ho visto che eravamo molto, molto meno.

D: Ecco, nella tua permanenza quando tu sei rimasto a Mauthausen, camere a gas, forno crematorio, eccetera, non sapevi nulla?

R: No. Non sapevo niente. Non ho visto niente.

D: Dopo, una bella mattina, vi hanno presi e portati al sottocampo di Gusen?

R: A Gusen.

D: Che era Gusen I o II?

R: Gusen I.

D: Gusen I. Lì cosa vi hanno detto che dovevate fare? Dovevate andare lì per lavorare?

R: Sì. Loro hanno detto che ci portano nel nostro campo di lavoro.

D: Ah.

R: E siamo partiti. Ci avevano dato il resto della divisa. Ormai tutti vestiti con quelle vestite là. E poi siamo arrivati lì a Gusen I. Ecco, oggi non c’è niente.
Anche lui si presentava un po’ come una piccola fortezza, con quel muro di cinta, con quelle torrette dove c’erano le sentinelle e così.
E anche Gusen mi ha molto impressionato. Non l’effetto come Mauthausen, però anche a Gusen quando abbiamo attraversato e siamo entrati in questa porta, in questa porta dove siamo entrati dentro, c’era questo muro, poi c’erano questi reticolati che abbiamo capito che c’era la corrente perché c’erano le cose lì di…

D: Porcellana.

R: Di porcellana.

D: Gli isolatori.

R: Ecco, gli isolatori. E lì c’era la corrente. C’era questo filo spinato molto alto. Poi c’era una parte di circa tre metri. Poi c’era il muro. E in quella parte di tre metri sotto era dove giravano sempre le sentinelle coi cani lupi.
Ecco, entrato lì mio fratello mi ha detto: “Ah, siamo finiti in un brutto posto” fa, “di qui sarà difficile scappare”. Perché noi avevamo sempre questa intenzione di poter tentare la fuga. E difatti da lì non è mai fuggito nessuno.
Poi la cosa che mi ha impressionato di più era che c’era sul lato sinistro nell’entrata, in fondo, c’era come questo camino da dove veniva fuori un fumo.
In una giornata di vento questo fumo faceva come un arco e veniva giù proprio lì sul piazzale del campo dove eravamo incolonnati noi. Era un fumo molto acre. “Chissà cosa stanno bruciando?”. Poi l’abbiamo saputo che era il crematorio. Comunque era un camino che andava sempre, giorno e notte.

D: E anche lì le baracche erano di legno?

R: Sì. Le baracche di legno. C’era una baracca un po’ in muratura che c’è ancora, c’era ancora, adesso non so se c’è. Perché adesso non entriamo più di lì. E poi erano tutte baracche in legno.

D: Ecco. Ascolta. E lì vi hanno messo in una baracca?

R: Lì ci hanno messo nella baracca 16. Una baracca di quarantena. Baracca di quarantena vuol dire che i nuovi arrivati sono in questa baracca isolati dagli altri prigionieri del campo. Anche lì ci hanno messo in questa baracca divisa in due parti Stube A e Stube B.
In mezzo c’erano le camerette dei Kapò. Però non era come a Mauthausen che c’erano anche i servizi. Per i servizi, per i gabinetti, c’era una specie di baracca all’esterno, in fondo. I servizi erano lì.
E poi il giorno dopo abbiamo incominciato a lavorare. Alla mattina, suonava la sveglia del campo alle cinque la mattina, bisognava uscire alla svelta come suonava questa sveglia. Abbiamo visto che questi Kapò scendevano, erano già lì pronti, e picchiavano, urlavano.
Tutto quello che noi facevamo doveva essere fatto di corsa. Perché noi dovevamo uscire a dorso nudo. Loro lo gridavano. Perché uno doveva uscire dalla baracca a dorso nudo se no lo picchiavano, lo mandavano indietro.
Poi abbiamo capito cosa volevano sapere e poi dopo si faceva così automaticamente. Si doveva uscire dalla baracca a dorso nudo, andare a lavarsi. Anche lì sempre lavarsi con l’acqua fredda. Sempre senza sapone. Però dovevamo lavarci, poi entrare in baracca, andare ai servizi, entrare in baracca.
Sulla porta della baracca non è che si entrava facilmente perché c’erano questi Kapò che ti prendevano per le orecchie, ti strattonavano, ti guardavano nelle pieghe del collo.
Se eri sporco o pulito, a loro piacimento ti bastonavano, ti mandavano indietro. “Italiano di merda” dicevano, “Vai indietro a lavarti ancora”. Ti mandavano indietro a lavare e poi finalmente entravi. Ti vestivi. Dovevi fare il tuo castello fatto bene, una coperta bella, fatta bene perché alla sera se non era fatta bene avevi la punizione. Poi tutte cose che abbiamo imparato.

D: Ecco, lì nelle baracche c’erano i letti a castello?

R: Letti a castello. C’erano di tre piani e si dormiva in tre in ogni piano. Due di testa, uno di piedi. Si entrava in queste baracche. C’era il posto centrale che era per le camerette dei Kapò.
Poi c’era la baracca vera e propria dove c’era una grande stufa che serviva ai Kapò della baracca per farsi cuocere le loro cose. Per farsi da mangiare. E poi era tutta occupata da letti a castello. Ce n’erano sul lato sinistro, sul lato destro e una fila in mezzo. Così c’erano solamente due corridoi di qua e di là e lo spazio vuoto.

D: Tavoli, sedie?

R: No, no. Anche lì niente. Noi per sedersi ci sedevamo sui bordi del letto a castello. No, non c’erano quelle cose lì. Li vediamo tante volte quando andiamo a Dachau. Ma lì non ce n’erano. C’erano un tavolo dove c’era la stufa, dove si sedevano i Kapò e le sedie lì. Ma dove eravamo noi non si poteva e uno non si poteva azzardare di andare a sedersi al posto dei Kapò perché dai Kapò si cercava sempre di stare lontano perché ti picchiavano sempre.

D: Ascolta. E ad andare a letto i vestiti, eccetera, dove li mettevate?

R: Beh, i vestiti li mettevamo li un po’ sulla spalliera lì da parte, perché non potevano rubarci i nostri vestiti perché avevamo il nostro numero di matricola. La camicia la tenevamo su. Le mutande le tenevamo su. Era solamente la camicia.
Le calze le nascondevamo sotto al letto, perché quelle sì che sparivano. Le calze le rubavano, e anche le scarpe. Si mettevano lì perché se no te le portavano via e non le avevi più.

D: Le scarpe che erano zoccoli però?

R: Sì, zoccoli. Zoccoloni o quello che erano. Tante volte capitavano anche delle scarpe un po’ mezze andate. Magari di prigionieri, di militari. A seconda dei periodi. Perché le scarpe non ti duravano sempre. Quando erano spaccati gli zoccolotti olandesi lì, anche loro partivano.

D: Non è che te li cambiavano?

R: No, no. Quando erano rotti, quando erano a pezzi te li cambiavano. Altrimenti li cambiavi con qualcuno di quelli che erano morti. Mettevi i tuoi rotte e prendevi quelli di chi li aveva un po’ più belli.

D: Ecco, prima parlavi…

R: Perché sulle scarpe non c’era il numero di matricola.

D: Prima Angelo parlavamo dei sacerdoti, no? Che tu nel Lager hai incontrato dei sacerdoti deportati. Sacerdoti italiani deportati.

R: Sì.

D: Ti ricordi chi erano questi sacerdoti?

R: Erano: Don Narciso Sordo, Don Gaggero, Don Liggeri. Quelli che ho conosciuto. Poi ce n’erano altri. Perché poi dal mese di luglio, agosto, settembre, non mi ricordo bene, questi sacerdoti li mandavano a Dachau. Ma prima erano lì. Li mandavano a lavorare.
Dovevano fare anche loro quello che facevamo noi. Erano dei numeri e basta. Poi questo penso che sia avvenuto per un accordo che ha fatto il Vaticano con le SS. Non so…

D: Ecco, c’è un episodio che ti ricordi di Don Narciso Sordo?

R: Sì. L’episodio di quando ho visto quegli ebrei che erano arrivati. Questa lunga colonna di prigionieri ebrei dove c’erano quei ragazzini lì. Ecco, io quando ho visto quei ragazzini lì di sei, sette, otto anni così piccoli, camminare con le mani in alto mi ha molto impressionato. E proprio ho detto a Galbani, quello di Lecco: “Ah Pino, Pino, penso che noi tante volte alla sera, specialmente loro di là e specialmente alla sera, cerchiamo di dire qualche preghiera, però per permettere questa cose ho paura che Dio non esiste”.
Ecco, in questa occasione ho conosciuto Don Narciso Sordo che ha detto: “Perché dici queste cose? Io sono un prete. Sono qui a soffrire come te”. “Sì, sì, lo so anch’io queste cose” gli ho detto, “Però le nostre condizioni fanno pensare qualunque cosa. Perché queste cose non dovrebbero succedere”. “Eh sì hai ragione. Però Dio dà la libertà agli uomini e sono gli uomini responsabili e questo lo sappiamo”.

D: Ecco ascolta.

R: Ecco lì ho conosciuto Don Narciso Sordo, in questa occasione. Perché lui forse in quel periodo lì lavorava nel comando però non si sapeva che era un prete.

D: A Gusen questo?

R: Sì a Gusen.

D: Don Narciso Sordi non è morto a Gusen dopo?

R: E’ morto a Gusen dopo.

D: Mentre invece gli altri sacerdoti sono stati portati…

R: Sì, anche Don Nigeri è sopravvissuto ma è stato mandato a Dachau.

D: Ecco ascolta, una giornata tipo diciamo. Nel campo di Gusen..

R: Sì.

D: Che tu hai fatto. Una giornata, un giorno qualunque.

R: Sì.

D: La sveglia la mattina?

R: Alle cinque. Ecco la sveglia alle cinque..

D: Anche d’inverno?

R: Sì, sì alle cinque sempre. Come suonava la campana noi di corsa dovevamo scendere ai nostri posti dove si dormiva e uscire a dorso nudo e andare a lavarsi. Sempre di corsa perché il tempo era poco. Sempre di corsa.
Si andava a lavarsi e poi si entrava in baracca. Tante volte ti mandavano indietro ancora.
Ti davano qualche bastonata sulla testa perché ti insultavano dicendoti che eri sporco ancora. Poi quando avevi la fortuna di entrare ti vestivi. Magari mettevi ancora la camicia un po’ umida o bagnata del giorno prima perché io ho sempre lavorato all’esterno. Non ho mai avuto la fortuna di andare nelle officine.
Poi ti mettevi lì e ti davano il caffè della mattina. Loro lo chiamavano caffè. Chiamiamolo pure noi caffè. Era un’acqua scura, sporca Sei volte alla settimana era amaro, un giorno era dolce. Bevevi questa acqua, che non aveva niente di buono, però era calda. E questo era molto bello. Specialmente d’inverno quando bevevi questa cosa. Questo era il cibo della mattina.
Poi per le sei e mezza dovevamo essere.. no per le sei e mezza. Per le cinque e mezza dovevamo essere già bene inquadrati all’esterno della baracca. Dovevi fare il tuo castello fatto bene perché se non lo facevi bene alla sera venivi chiamato fuori per le cinque solite bastonate.
Poi alle cinque e mezza eravamo tutti bene allineati lì all’esterno perché i kapò volevano sempre fare bella figura. Ti allineavano lì di fuori. Ti inquadravano di cinque in cinque. E poi verso le sei meno un quarto ti davano l’ordine della partenza e si partiva per il piazzale del campo. E lì ogni comando.. perché non tutti quelli che erano in quella baracca lavoravano in quel posto. A gruppi ci mandavano ognuno al proprio comando dove ognuno lavorava. Io i primi tempi no. Eravamo una quarantina e lavoravamo tutti.
Ecco, io devo dire che i primi periodi noi italiani eravamo in quarantena e uscivamo sempre per ultimi, perché il nostro lavoro in quarantena è stato quello che abbiamo costruito il campo di concentramento che è stato chiamato Gusen 2. Lì abbiamo fatto dei lavori tremendi. Lì abbiamo lavorato con tutti questi kapò che erano polacchi, che ci picchiavano continuamente. Comunque la quarantena per noi italiani è stata terribile.
Poi è successo anche quel tentativo di fuga di quell’italiano che poi l’hanno ucciso così in malo modo. Perché i tentativi di fuga finivano sempre con la morte. Atti di ribellione finivano sempre con la morte. Poi parlando generalmente. Poi alle sei si usciva dal campo. Si usciva per il lavoro e si lavorava fino a mezzogiorno. Ognuno, quelli che lavorava nelle officine.. ognuno al proprio posto di lavoro si lavorava fino a mezzogiorno.
Io prima, come ho detto prima, ho lavorato in quarantina. Poi quando è finita la quarantina sono andato in cava. Poi dalla cava mi hanno levato. Altri comandi. Però la giornata di lavoro era sempre quella. Si lavorava fino a mezzogiorno.
Poi sul posto di lavoro portavano questa famosa zuppa tedesca che come vi ho detto prima non era buona. Poi era diventata buonissima. Io dalla fame che avevo se me ne davano dieci gamelle le avrei mangiate tutte. Ecco, questa gamella così buona. Poi era diventata buona. Poi era bella calda. Guarda, loro la portavano sul posto di lavoro in quei bidoni grandi e poi la distribuivano con un mestolo. Era anche caldissima.
Ecco, noi che si prendeva in mano questa gamella così calda. Noi che si lavorava all’esterno sempre al freddo. Quando prendevi in mano questa gamella così calda ti sentivi ancora prendere a circolare il sangue nelle vene perché così calda per noi che avevamo le mani così fredde perché sempre a lavorare al freddo. Era diventato una cosa molto bella questa gamella così calda. Aveva ragione quello delle SS che ha detto: “Così buona”. Era diventata così buona che..
Poi, il nostro lavoro, la fermata per la zuppa era quel venti minuti, mezzora. Poi si incominciava a lavorare fino alla sera. Alla sera si entrava in campo alle sei. Le adunate all’esterno. Prima sul piazzale. Poi all’esterno delle baracche. Ecco, all’esterno delle baracche succedevano queste cose; che i kapò si divertivano anche loro.
Come vi ho raccontato prima la storia del numero, poi la storia del cappello. Davano quegli ordini lì: “cappello su e cappello giù”. Lì loro tutti attenti a vedere che quando davano l’ordine “cappello giù” dovevamo tutti assieme levare il cappello perché a quello fuori tempo andavano là e lo picchiavano. “Cappello su”, anche lì, quello fuori tempo prendeva sempre botte. E questi lo facevano per divertirsi loro perché loro sghignazzavano, ridevano, ti picchiavano, ti insultavano.
Poi finalmente quando davano l’ordine di entrare in baracca. Non è che andare in baracca si andava subito. Bisognava andare a lavarsi bene gli zoccoletti perché magari erano infangati. Perché se entravi in baracca così sporco ti picchiavano e ti mandavano indietro. Forse i primi giorni le abbiamo prese, ma dopo poi l’abbiamo imparata la lezione. Si andava a lavarsi. Noi già intirizziti dal freddo, lavarsi ancora con l’acqua fredda così.. pensate alle sofferenze.
Ecco, poi quando si aveva la fortuna di entrare in campo ti davano la tua razione di cibo della sera. Alla sera davano il pane. Davano la nostra fetta di pane. Ecco, il pane tedesco era un chilo.
I primi tempi ne distribuivano in tre parti e allora poteva anche non bastare, per l’amor di Dio, ma era già una buona parte. Poi ti davano una fetta di salame. Al lunedì e al martedì una fetta di salame. Sarà stata trenta grammi di salame. Al mercoledì una fettina di margarina. Al giovedì ancora il salame. Al venerdì un cucchiaio di margarina, un cucchiaio di ricotta. Al sabato ancora margarina e alla domenica una fettina di salame e una fettina di margarina o un cucchiaio di ricotta o di marmellata. Erano quelle cose lì.. Dovete sapere che questo era il cibo per tutta la giornata, diciamo..
Poi a lungo andare queste fette di pane. Perché alla fine del ’44, poi è incominciato il ’45, forse per i bombardamenti, forse per le ritirate che anche i tedeschi facevano, il cibo diminuiva sempre. Dovete sapere che negli ultimi mesi questa pagnotta veniva divisa anche in dieci, anche in dodici e anche in sedici. Era diventata proprio una fettina così.. Ecco perché anche negli ultimi tempi la mortalità è aumentata così tanto.

D: Ascolta, tu dicevi che la tua baracca era la sedici.

R: Sedici. In quarantena.

D: In quarantena. Poi è diventata?

R: La dodici.

D: La dodici. La baracca ventisette che baracca era?

R: L’infermeria.

D: E lì cosa facevano Angelo?

R: Io sono stato ricoverato in infermeria tre volte. Nella baracca d’infermeria io sono stato anche operato. Perché quando ero pieno di scabbia che poi mi ha fatto infezione.. Allora ho dovuto marcare visita perché poi non riuscivo più neanche a camminare perché avevo dei foruncoli grossi proprio qui sotto le gambe e oltre la febbre facevo fatica anche a camminare.
Noi avevamo paura ad andare in infermeria perché si vedeva che tanti che andavano in infermeria non ritornavano più. Invece quando sono andato in infermeria mi è andata bene perché.. Io devo dire che quando alla mattina mi hanno portato là.. perché ci portavano in un posto dove c’erano gli ufficiali medici. C’era uno anche delle SS oltre agli ufficiali medici dell’infermeria. C’erano anche dei prigionieri che erano dottori. Lavoravano in infermeria.
Lì, c’era quell’ufficiale delle SS. Mi ricorderò sempre. Mi dice.. Perché noi si andava in infermeria e quando si fa questa visita di controllo, eravamo là vestiti, e lui ha visto che ero italiano e mi dice: “Di che città sei?”.

D: Parlava italiano?

R: Sì, ha parlato in italiano: “Di che città sei?”. Io gli ho detto di Milano. Poi sono venuto a sapere che era un medico italiano che aveva sposato un’austriaca e si era arruolato nelle SS. Questo lo sono venuto a sapere poi. Però da quello che ho saputo anche da quelli che come il dottor Carpi, che lui anche sono stati tanto tempo in infermeria che faceva questi disegni, Cercava di aiutare un po’ gli italiani.
E lui mi dice: “Cos’hai fatto?” e io ci ho detto: “Avevo la scabbia. Poi mi ha fatto infezione”. “Allora fammi vedere”. Allora ho abbassato i calzoni e gli ho fatto vedere. E lui mi ha detto: “Non aver paura. Ti manderemo fuori guarito”. E così e stato.
Io lì sono entrato in infermeria e sono stato operato. Mi hanno messo la maschera. Poi sono stato operato. Poi sono stato medicato. E lì in infermeria mi è andata anche bene perché mi davano anche da mangiare. Perché tante volte quelli che erano in infermeria gli davano più razioni da mangiare. Forse l’avrà ordinato lui, quello lì delle SS.
Praticamente io sono stato ricoverato forse un dieci o quindici giorni, non mi ricordo bene adesso, sono uscito che mi ero ripreso abbastanza bene. Per me l’esperienza della baracca ventisette mi è andata bene.
Però nella baracca ventisette c’erano quelli che poi ho saputo che ci davano da mangiare. Poi li tiravano su un po’. Poi li mettevano nell’acqua per vedere quanto potevano resistere, cioè, era un po’ per fare degli esperimenti. Per vedere quando venivano battuti gli apparecchi tedeschi nella manica. Per vedere quanto un pilota poteva sopravvivere. Perché loro fino a che avevano la speranza che uno poteva sopravvivere allora vedevano un prigioniero, lo mettevano lì per poter vedere quanto poteva resistere. Per poterli recuperare nella manica. Ecco, erano tutte queste cose.
Invece il blocco trentuno. Dove è stato regolato il blocco trentuno era brutto. Quelli là li eliminavano. Punture di benzina, così. Là era per la diarrea, per quelle cose lì. Malattie più brutte diciamo.

D: Ti ricordi di aver visto il forno crematorio?

R: Si beh, si senz’altro. Poi non c’erano problemi per avvicinarsi al forno crematorio. Potevi avvicinarti perché non cerano delle cose che lo vietavano. Potevi passare vicino al forno crematorio.
Quando lavoravo al kartoffelkommando avevamo un carro dove mettevamo su quelli che massacravano nella giornata e portavamo questo carro fino all’esterno del crematorio. Poi li lasciavamo li e poi li scaricavano quelli addetti al crematorio, questi prigionieri, per il crematorio.
C’erano morti e moribondi sul carro, perché li massacravano di botte così tanto che insomma..

D: Angelo tu hai lavorato anche in cava?

R: Si, in cava.

D: A Gusen?

R: Si, 10 giorni.

D: Cosa vuol dire lavorare in cava?

R: Guarda io ho lavorato in cava 10 giorni. Dopo la quarantina, quando mio fratello è partito per le officine è stato a Schwechat, Mödling e poi mio fratello non l’ho visto più fino a quando sono ritornato a casa.
Ecco, lavorare in cava! Lavorare in cava vuol dire una cosa terribile. Guardate, io in cava ho lavorato una decina di giorni; ho capito che ormai ero alla fine. Perché in cava uno poteva resistere un mese, un mese e qualche giorno, due mesi ma poi non ce la faceva più. Il lavoro era massacrante, c’erano i capi più cattivi; i kapò più cattivi. E non trovavi neanche un filo d’erba da mangiare perché io che ho lavorato in giro per i campi, tanta erba, quei tipi di insalata selvatica ne ho mangiata tantissima, ma in cava non puoi mica mangiare le pietre. In cava non c’erano i fili d’erba. In cava c’erano botte, lavori e basta.
Il lavoro era svolto così in cava: c’erano dei minatori specializzati che piazzavano le mine, queste mine scoppiavano alle 10,00, a mezzogiorno, alle 15,00, alle 18,00 alla sera. Ecco voi dovete sapere alle 18,00 alla sera, i prigionieri rientravano e scoppiavano le mine. Però il materiale che veniva giù preparavano il lavoro per quelli che andavano alle 06,00 alla mattina. A mezzogiorno intanto che mangiavi quel quarto d’ora di fermata, scoppiavano le mine. Alle 10,00 ti facevano ritirate.
Ecco alle 10,00, quando fischiava questo fischio, ritiravano i prigionieri e facevano scoppiare le mine. Però dovete sapere che tutto il materiale che cadeva tra uno scoppio e l’altro doveva essere portato via tutto. C’erano le pietre grosse e quelle venivano portate vicino allo scalo merci e lì poi venivano caricate sul treno. Allora quelle servivano per fare fortificazioni o altre cose. Invece quelle medie venivano messe sui vagonetti e poi questi vagonetti venivano spinti nel frantoio; perché lì a Gusen c’era un frantoio. Queste pietre venivano frantumate, erano le famose ghiaie che servono per le massicciate ferroviarie. Tutti questi lavori dovevano esser svolti.
Dovete sapere che per portarle in questi posti, o alla massicciata per essere portate via col treno, o sui vagonetti, c’erano dei ponti obbligati e per passare di lì c’erano questi kapò che picchiavano sempre.
Ecco perché in cava era difficile, impossibile resistere; perché erano delle grandi botte massacranti. Perché quelli picchiavano, allora le bastonate non era come la sera che ti mettevi lì con il sedere per aria e te le davano sul fondoschiena. Ma quando picchiavano sul lavoro dove andavano? Andavano sulla testa, sulla schiena, sul collo, dappertutto; dove cadevano questi colpi che erano picchiati con violenza micidiale.
Ecco perché tanti alla sera, quando rientravano in campo, erano così massacrati che poi li portavano direttamente al crematorio.

D: Perché poi tu non hai più lavorato in cava?

R: Non ho più lavorato in cava perché una mattina che ero lì in fila, ero lì in fila per uscire, e io capivo che non ce la facevo più, non potevo più resistere perché era una cosa impossibile resistere, ero lì in fila quando lo schreiber che ci contava lì sul piazzale del campo, ci conta sempre a cinque a cinque, arriva davanti a me si ferma e dice: “wieviel jahre?” che significa quanti anni hai, e io mettendomi sull’attenti perché questa era la prassi, rispondo 17 anni. Allora lui mi prende fuori e mi dice “in cava bisogna avere 18 anni per andare”. Allora in cava non mi hanno più mandato a lavorare, per me è andata bene; mi hanno salvato diciamo. Perché anche quello lì era uno schreiber polacco, perché questi schreiber polacchi tante volte mi davano l’impressione che cercavano di aiutare a salvare qualcuno. Erano prigionieri anche loro, erano prigionieri politici.
Io poi soltanto li in baracca ho fatto il garten kommando, altri comandi e via. E’ andata bene perché io…
Però io ero sempre nella baracca 12 dove c’erano quelli che lavoravano in queste cave. Ecco perché vedevo che in cava in poco tempo, poi lì nelle baracche e anche nelle cave c’erano quei kapò lì che erano cattivi, tremendi. C’era Otto che picchiava sempre, lui non picchiava mai con il bastone. Lui picchiava sempre con i pugni e sempre nel basso ventre. Sghignazzava come un matto e finché uno non vomitava non smetteva di picchiare. Era terribile quell’Otto lì. Poi un bel giorno è sparito e non si è più saputo quello che abbia fatto, però ho saputo che è sparito perché era un omosessuale ed è andato insieme a qualcuno, erano cose vietate e l’hanno fatto sparire e l’hanno ucciso.

D: Angelo, il giorno di Pasqua del ’44, che cosa è successo?

R: E’ successo quel tentativo di fuga di Nada Luigi, quel piemontese. Eravamo ancora in quarantina e lui aveva pensato di nascondersi in una baracca, era una baracca sul posto di lavoro non dentro nel campo, sul posto di lavoro lui ha pensato che lì dove mettevano tutti gli attrezzi, i badili, tutte quelle cose, lui si è nascosto lì, aveva fatto dei sacchi, aveva fatto come delle cose di tela, dei vestiti e lui ha detto: “qui di notte quando ritirano le sentinelle”, lui aveva pensato di fuggire.
I suoi amici dicono che era uno che aveva sempre nella testa la sua famiglia, ed aveva sempre nella testa questa cosa qui di fuggire.
Io non lo conoscevo ancora e non l’ho neanche mai conosciuto.
Praticamente quella sera lì, alla fine del lavoro, quando ci allineano tutti lì ancora sul posto di lavoro, perché allora ci allineavano tutti lì per il primo appello. Perché loro ci allineavano qualche dieci minuti prima del sei, perché alle sei dovevamo entrare in campo e poi ci contano. Perché loro dalle SS se hanno avuto tutti questi prigionieri, loro i prigionieri dovevano portarli in campo. O vivi o morti dovevano portarli in campo, perché quelli che uccidevano li dovevano portare in campo. In campo dovevano entrare anche i morti, ecco perché c’erano quei carichi dove mettevano questi morti, perché là li contavano. Se questo commando usciva con cento prigionieri, cento ne dovevano rientrare; o morti o vivi.
Lì ne manca uno, e loro ci contano due o tre volte e poi partono alla caccia con i cani lupo, questi kapò. Sono arrivati due o tre comandanti della SS, fino a che l’hanno trovato. Non ci hanno messo molto a trovarlo perché i posti da cercare, saranno entrati in questa baracca e lo hanno trovato. Praticamente l’hanno trovato e lo hanno portato in mezzo a noi che perdeva sangue dappertutto. Chissà le botte che gli hanno dato. E poi lo hanno incolonnato ancora; è entrato in campo con noi. Ormai gli altri comandi erano rientrati in campo e noi siamo rientrati per ultimi. Quando siamo rientrati, perché quando rientrano tutti in campo rientrano le sentinelle che ci sono esterne.
Questo era il giorno di Pasqua. Quel giorno di Pasqua non abbiamo lavorato fino a sera. No non fino a sera ma qualche ora prima ci hanno fatto rientrare. Poi l’hanno messo lì, è venuto quello delle SS e ha dato l’ordine di farlo fuori, perché l’ordine doveva darlo quello delle SS.
L’hanno fatto prendere da quattro di Torino, l’hanno fatto portare al wascheraum e l’hanno fatto annegare nell’acqua. Tanti dicono la botte, tanti dicono…, ma io la botte non l’ho mai vista però lo hanno fatto annegare nell’acqua. Praticamente l’anno fatto annegare nell’acqua, quelli gli hanno tenuto giù la testa un po’ poi non ce l’hanno fatta più e poi gliel’hanno tenuta giù i kapò. Lui ha avuto ancora quell’attimo che ha avuto la forza di tirare su la testa e le ultime parole sono state: “mio Dio, mia moglie e i mie figli”. Poi i kapò gli hanno tenuto giù la testa ed è morto così.
Poi questo morto lo hanno messo all’esterno della baracca e ci hanno fatto girare in giro tutti noi. C’era quello tedesco che parlava e l’interprete che lo diceva in italiano, che è questa: “E’ la sorte riservata a tutti coloro che tenteranno la fuga o che si ribelleranno.” E infatti io, nel periodo che sono rimasto lì, ho visto dei casi di tentativi di fuga o di ribellione e hanno fatto la stessa fine. Anzi, ho visto un italiano che si era ribellato ad un kapò, l’hanno massacrato di botte e poi è venuto quello delle SS e gli ha sparato un colpo di pistola, uno per ginocchio. Poi lo hanno lasciato morire lì così ed alla fine lo hanno messo nell’acqua. Ma penso che quando lo hanno messo nell’acqua era già morto.
La prassi di mettere nell’acqua c’era sempre in tutti i tentativi. Vedi che anche quel generale russo lo hanno congelato vivo? Era una cosa che a loro forse faceva parte del loro modo di pensare.

D: Angelo e atti di solidarietà?

R: Si anche quelli ne ho visti tanti e molto importanti. Guarda se non c’erano atti di solidarietà io…….
Il primo atto di solidarietà è stato in quella famosa baracca, quando io e Galbani stavamo mettendo il verde in giro ad una baracca della Wehrmacht, dei soldati tedeschi.
Eravamo all’ingresso di Gusen II e lì c’era una baracca dove mettevano questo, perché lì mettevano, quando ritiravano questi soldati dal fronte, allora cercavano questi battaglioni di ricostruirli e allora li tenevano lì quei 15-20 giorni. Noi stavamo mettendo il verde in giro a questa baracca. Io e Galbani eravamo solamente noi di prigionieri, poco distante da noi c’era un gruppo di SS, e quando all’interno della baracca sentiamo questa voce che dice: “It”. Forse lui era da diversi giorni che ci curava, E per trovare l’occasione prima di tutto in baracca non ci doveva essere nessuno perché per quello penso che anche loro avevano paura perché c’è sempre la spia. E io faccio per guardare e mi dice: “no stai giù, stai giù, di dove siete?”.

D: In italiano?

R: Si, parlava in italiano. “Di Milano”, “andate dove portate lo sporco che ho messo là un pacco per voi”.
Io questo soldato tedesco non l’ho mai visto. Ho sentito la sua voce, parlava in italiano. Dove c’era il posto della pattumiere abbiamo trovato un pacco per noi. C’era del pane, della margarina, qualche fettina di salame. Noi per diversi giorni, almeno 5 o 6 giorni abbiamo trovato questo pacco per noi. Non abbiamo mai saputo chi era questo soldato. Ecco perché io non accetto mai di parlare male dei tedeschi, perché anche se in quel periodo hanno avuto una dittatura, che era anche forse una maggioranza del popolo tedesco, però c’era anche una parte del popolo tedesco che……
Altra solidarietà di tedeschi l’ho avuta dai prigionieri medesimi, però questo era un soldato.

D: Che tu non hai mai visto.

R: Non ho mai visto. Sarebbe stato molto bello se io dopo la liberazione……. Perché lui era lì, poi da lì è stato mandato al fronte. Può darsi che sia morto in guerra, può darsi che sia un sopravvissuto. Se è un sopravvissuto anche lui si ricorderà di queste cose. Però queste cose di solidarietà che sono successe sono molto importanti.
Poi ne ho dentro anche da prigionieri, anche da prigionieri politici austriaci, anche polacchi, anche di solidarietà spagnoli. Tra di noi ce n’è stata tantissima. Anche di noi italiani insomma. La solidarietà in quei posti aiuta molto.

D: Lì stavi accennando a spagnoli ed austriaci, dentro a Gusen c’erano italiani, quindi spagnoli.

R: Si ce n’erano tanti. Si può dire che c’erano oltre gli spagnoli, i francesi, polacchi, russi. Allora erano ancora lituani, ce n’erano anche di quelli. C’erano olandesi, belgi; ce n’erano un po’ di tutti.

D: Come facevate a capirvi?

R: Tra di noi c’era come una lingua internazionale. Potevo incontrare qualunque prigioniero poi io giovane imparavo bene le cose. Poi c’era un russo che lavorava con me che lui parlava quasi l’italiano. Ma sai com’era bravo Fiodorov? Poi lui aveva una mania per la lingua italiana. I miei amici principali sono stati anche quei russi, perché quando ero al garten kommando lavoravo anche al kartoffelmittel con Fiodorov, con Pavan, con Signorenko, con questi russi, con Paullo. Ma quel Fiodorov studiava da ingegnere e lui aveva proprio la mania di imparare la lingua italiana. Quando io e Galbani si parlava e lui sentiva qualche parola nuova mi diceva: “Cosa vuol dire questo? Cosa vuol dire quello?”. Ma sai com’era bravo? Anche lui chissà se sarà sopravvissuto, perché negli ultimi giorni è stato in reparto infermeria. Non so che fine abbia fatto. Poi un bel giorno è arrivata la Croce Rossa russa, dopo la liberazione, e i suoi prigionieri se li è portati via. Io non ho più avuto l’occasione se Pavan, Fiodorov siano sopravvissuti. Erano proprio… ma che bravi.

D: Anche questo è uno dei deportati politici?

R: Si lui faceva il partigiano. Lui è stato preso a 70 Km prima di Leningrado. Ma con noi italiani lui aveva il debole. Ci volevamo molto bene tra di noi, ci siamo aiutati molto.

D: Ascolta, poi arriva il maggio del ’45. Cosa succede nel maggio del ’45?

R: Nel maggio del ’45 la prima cosa che succede è stata quella che le SS una mattina noi non la vediamo più. Al posto della SS ci sono la Wehrmacht, cioè l’esercito tedesco. Tutti piuttosto anziani e loro hanno detto di non tentare niente che loro hanno l’ordine di tenere la disciplina e basta. Di stare lì e di non fare niente.
Infatti le SS, questi soldati così coraggiosi, così tremendi che per comandarci a noi …… allora non sono stati lì a difendere anche le loro idee. Coraggiosamente se la sono filata anche loro. Questa qui è una cosa da dire, perché loro hanno messo i vestiti in borghese e sono fuggiti. Avevano già i posti dove andare.

D: Voi sapevate che era imminente la liberazione?

R: Si perché a noi è andata bene, perché noi con più si sentiva avvicinare il cannone, perché era ormai da diversi giorni che si sentivano i colpi di cannone che si sentivano sempre più bene e significava che si stavano avvicinando. Perché noi avevamo anche la grande paura perché circolavano anche le voci che ci facevano fuori tutti. Per noi è stata una grande soddisfazione quando non c’è più stata la SS e c’è stata la Wehrmacht. E allora abbiamo avuto la speranza che la SS non ci facesse fuori e infatti. Perché la SS ci aveva dato l’ordine, da quello che si è sentito dire, di farci fuori. Ci dovevano far andare sotto le gallerie di Gusen, erano già minate e farle scoppiare. Ci ha dato l’ordine l’esercito alla Wehrmacht, però questo generale non ha eseguito questo ordine e a quanto pare abbia avuto anche un encomio dagli alleati.

D: E quando sono arrivati?

R: Il 5 maggio. Cioè la notte del 4 maggio c’è stato un cannoneggiamento. Lì dove c’è Gusen, noi guardiamo dietro dove ci sono le cave di Gusen, lì sopra era piazzata una batteria di cannoni tedesca. E quella notte c’è stato un forte cannoneggiamento, si sentivano i cannoni che sparavano e gli americani che rispondevano. Poi verso le 02,00 – le 03,00 c’è stato silenzio e allora noi la mattina, guardando verso la batteria tedesca, era completamente distrutta.
Gli americani avevano attraversato il Danubio e alla sera verso le 17,00 sono arrivati lì.

D: Dove ti trovavi?

R: All’esterno delle baracche. Si vedevano questi kapò, questi delinquenti diciamo, che erano sempre così spavaldi anche loro e gli ultimi giorni, quando si è ritirata la SS, si vedeva che parlavano tra di loro, che avevano paura. E allora cercavano di organizzarsi perché avevano paura che li facessero fuori anche loro.
Infatti, noi verso le cinque, come ho detti prima, si sente dire che sono arrivati gli americani. Pensate che cinque minuti prima noi in tutte le baracche, non eravamo radunati sul piazzale, in ogni baracca i kapò tenevano radunati i loro prigionieri e loro cercavano di tenerli lì e di fuggire subito. Loro avevano pensato a questo sistema.
Pensate che alle cinque meno cinque un russo che era là in piedi e non ce la faceva più a stare in piedi, è caduto per terra e l’hanno massacrato di botte. Questo alle cinque meno cinque. Alle cinque senti dire che sono arrivati gli americani e allora come si sente dire questo è cominciato il linciaggio dei kapò. I russi che avevano lì i kapò li hanno fatti fuori subito. E quella sera lì è successo un po’ il finimondo.
Gli americani che cosa hanno fatto? Hanno preso prigionieri questi soldati anziani, le armi le hanno buttate e poi hanno buttato su un po’ di benzina ed hanno dato fuoco. Poi gli americani sono partiti ed hanno portato via i prigionieri, quelli della Wehrmacht e poi non si sono più visti per qualche giorno. E allora i prigionieri russi, spagnoli, quelli fisicamente più in gamba hanno preso un po’ di armi hanno circondato il campo e poi c’è stata la caccia ai kapò. I kapò hanno cercato di fuggire ma hanno trovato dei prigionieri armati che li avrebbero fatti fuori perché li conoscevano; quella sera lì è successo il massacro perché tanti kapò sono stati uccisi.
Poi oltre ai prigionieri c’è stata la caccia anche al cibo; c’è stato l’assalto alla cucina. Io così giovane mi sono lanciato in cucina per cercare, dalla grande fame che avevo, e poi quasi ci lascio anche la pelle perché ci sono stati tanti morti quando c’è stato l’assalto alla cucina perché tutti ti schiacciavano lì…

D: Ripeti, l’assalto alla cucina….

R: C’è stato l’assalto alla cucina e io inconsciamente mi sono lanciato anch’io all’assalto. Guardate, tanti sono morti e io quasi non ce la facevo più ad uscire perché tutti ti spingevano. Sono arrivato dove c’era il bidone della ricotta e della marmellata, prendevo le mani di ricotta e di marmellata per mettermele nella bocca ma non sono mai riuscito di mettermele in bocca perché quelli dietro di me mi portavano via tutto. Una cosa assurda. Alla fine mi è andata bene che sono riuscito ad uscire fuori vivo da quel casino lì. E’ stato un errore che ho fatto anche io di lanciarmi all’assalto alla cucina; per la fame. E’ stata la grande fame.
Poi alla fine io e Galbani siamo andati dove c’erano i conigli per cercare di mangiarne qualcuno. Siamo andati verso le gabbie dei conigli e sul percorso ho trovato Richard, che era un kapò della baracca 16, era tutto insanguinato anche lui mentre stava fuggendo. Aveva in mano un coltello. Allora io e Galbani siamo fuggiti dentro ad una baracca perché noi eravamo disarmati. Poi abbiamo trovato un gruppo di russi che lo cercavano e che ci dicevano che era scappato, poi lo hanno inseguito e non so se lo hanno preso.
Praticamente noi siamo arrivati alle gabbie dei conigli e i conigli erano spariti tutti. Alla sera della liberazione io e Galbani, ho trovato un russo un mio amico, non Fiodorov, perché Fiodorov era in infermeria, perché se era Fiodorov, un altro di quei russi con cui ho lavorato insieme mi ha dato la testa del coniglio, mi ha dato anche troppo.
Allora noi abbiamo preso due o tre patate, siamo andati al deposito delle patate, abbiamo fatto cuocere questa testa del coniglio con le patate nell’acqua sporca, perché erano saltate tutti i rubinetti e l’acqua non c’era più. Allora c’era un po’ di pozzanghere d’acqua e abbiamo fatto cuocere un po’ tutto; questo stato quello che abbiamo mangiato noi il giorno della liberazione.
Per gli altri giorni dovevamo arrangiarci perché gli americani sono tornati dopo quattro o cinque giorni. Dopo ci hanno rastrellato, ecco perché tanti sono morti ancora dopo la liberazione, perché ognuno quello che trovava tanto da mangiare mangiava tanto e poi moriva, quello che trovava poco mangiava poco però………
Però non era colpa degli americani, perché di campi di concentramento lì ce n’erano tantissimi e in tutti posti dove andavano ne trovavano e trovavano gente affamata da curare e via. E loro dovevano andare avanti anche a fare la guerra e per quello ne sono morti tantissimi anche dopo.

D: E che cosa pensavi in quel momento lì?

R: Dalla liberazione? Si era contenti e tutto, si cercava di sopravvivere. Però il nostro pensiero era si per i genitori, per tutti e per tutto, ma il pensiero più forte era quello di trovare da mangiare. E’ una cosa assurda dirla oggi, ma in quei momenti là…
Sai in quante baracche siamo andati a svaligiare ma c’erano sempre vestiti. Ho buttato via anche la divisa e mi sono vestito di quei vestiti lì che trovavo nelle baracche. Perché lì c’erano tantissime baracche piene di vestiario, perché erano tutte cose che portavano via dall’Italia o da altre nazioni.
Ma noi cercavamo da mangiare e da mangiare non ne trovavi più. Alla fine per mangiare dovevi andare ancora al deposito delle patate e far cuocere qualche patata sempre con l’acqua sporca.

D: E la gente che abitava lì attorno?

R: Case ce n’erano poche. Poi siamo andati anche nelle famiglie e c’è stata una famiglia, ecco questa me la ricorderò sempre. C’è stata una donna piuttosto anziana che ci fatto entrare, a me e a Galbani, ci ha fatto da mangiare una pastasciutta dolce. C’era anche Terzi insieme e abbiamo mangiato questa pastasciutta dolce. Poverina, questi ci hanno raccontato un po’… però lei ci ha accolto bene, magari se l’è levato di bocca lei per darcela a noi.
Ma a noi era un fame che anche se mangiavi qualche cosa ce l’avevi sempre. Poi sono andato verso il Danubio, perché ci siamo allontanati un po’ dal campo, e abbiamo trovato le lumache. Là ce n’erano tantissime, ma sai che estensione di lumache che c’era? Poi abbiamo acceso il fuoco e le abbiamo fatte cuocere in mezzo al fuoco.
Ecco perché ne sono morti ancora tanti. E anch’io dopo mi sono ammalato e quando sono venuti gli americani alla fine mi hanno ricoverato in infermeria.

D: E poi il ritorno a casa.

R: Il ritorno a casa anche questo. Perché io quando sono ritornati gli americani, no il giorno prima del ritorno degli americani…
Quando sono venuti gli americani ci hanno portati in baracca, poi ci hanno curato, ci hanno visitato e disinfettato con nuvole di ddt. Poi hanno cominciato a darci da mangiare qualche cosa e ci hanno visitato e mi hanno detto che io dovevo essere ricoverato in infermeria perché stavo male, avevo la diarrea. Erano state le lumache e tutte quelle porcherie che avevo mangiato in giro; la carne del cavallo cruda. Più che altro è stata la carne di cavallo, quando ci siamo radunati all’esterno delle officine della Steyr, noi italiani abbiamo requisito un cavallo e lo abbiamo macellato e mangiato. E quella carne lì mi ha rovinato, per me è stata la carne di cavallo che i ha rovinato.
Il giorno prima che mi ricoverassero in infermeria è venuto il Giuliano Paietta, che era a Mauthausen, è venuto a prendere il nome dei deportati sopravvissuti di Gusen.
Lui aveva la lista dei sopravvissuti e gli ho detto se c’era Signorelli Giuseppe e lui mi ha detto: “Sì, tuo fratello è a Mauthausen”. “Allora digli che domani devo essere ricoverato in infermeria e se può venire a trovarmi, perché io non posso andare a trovarlo”. E allora io il giorno dopo sono stato ricoverato in infermerie e come sono stato ricoverato sono andato quasi in coma. Sono stato più di 20 giorni in quelle condizioni. Io non conoscevo più nessuno. E’ stato lì anche mio fratello a trovarmi, perché il Paietta è andato là e poi dopo tre o quattro giorni ha preso un soldato americano e ha portato mio fratello in camionetta ed è venuto a trovarmi. Mi ha visto in che condizioni ero e voleva stare lì però l’americano gli ha detto che aveva l’ordine di riportarlo indietro e l’ha riportato indietro. Lui è rimpatriato 15 giorni prima di me tramite la Croce Rossa svizzera e non ha detto a mia mamma in che condizioni ero perché non sapeva se ce la facevo.
Poi il fatto è successo così: dopo diversi giorni, una mattina, gli americani hanno cominciato a fare la penicillina. Loro ce l’avevano già e l’avevano data in infermeria, però i dottori polacchi la facevano ai suoi più che ai nostri. Però un mio amico italiano l’ha saputo ed è andato in infermeria a fare un po’ di baccano e gli ha detto di farla anche agli italiani perché se no avrebbe avvisato il comandante americano.
Così me l’hanno fatta. Mi ricordo che una sera mi hanno fatto quella puntura lì e succede che la mattina verso le 04,00 mi sveglio, ero uscito forse dalla mia fase di coma. Poi mi hanno detto che in quelle condizioni sono stato 27 giorni, ma io come se fosse stato un giorno. Io apro gli occhi, guardo in giro e la prima cosa che mi colpisce è stato il lenzuolo bianco. E mi sono chiesto: “Dove sono qua?” Poi la seconda cosa: una grande fame che ho addosso, una fame, una fame, una fame.
In fondo alla baracca c’è un lumino acceso e come vedo questo lumino con la grande fame che ho, ho pensato di andare là per cercare da mangiare. Io ero sul castello ma a pian terreno, esco, mi metto in piedi ma debole com’ero sono caduto per terra. Allora quando l’infermiere di turno ha sentito è venuto lì e mi ha sgridato dicendo: “italiano stai a letto, ma che cosa fai?” “Ho fame, ho fame” “Hai fame ma stai a letto, non mangi niente”. Poi mi ha messo a letto ed è andato a chiamare il dottore. Il dottore mi guarda, hanno parlato tra di loro e ho capito che erano contenti e che stavo un po’ bene. Però loro non mi davano da mangiare; io avevo fame, continuavo a cercare da mangiare. Poi succede che la mattina mi danno un po’ di caffè da bere, ma da mangiare non mi danno niente. Al pomeriggio, quando Galbani viene dentro, perché veniva tutti i giorni a trovarmi. Mi portava un po’ di miele, un po’ di zucchero per mettermelo sulle labbra. Mi faceva mangiare un po’ di biscotti. Ecco io quando c’era Galbani, anche se ero incosciente, io me lo sentivo che era lì vicino. Quando c’è stato mio fratello io non ho percepito niente, però veniva Galbani, forse avendo lavorato tutto quel periodo insieme, io capivo che era lì vicino. E allora gli dico: “Pino hai lì qualche cosa da darmi da mangiare? Ho fame.” E lui mi ha dato un po’ di biscotti, quello che aveva mi ha dato e io ho mangiato anche se i medici non avevano dato l’ordine. E poi mi dice: “Guarda che domani noi rimpatriamo. Dobbiamo andare a Mauthausen e poi ci portano. E tu non puoi partire con noi”. “Io vengo con te, io vengo con te”, “ma non puoi, non puoi”. “Tu mi lasci qui?”
Quando gli ho detto così è andato a parlare dicendo che io volevo tornare. E’ venuto lì il dottore a parlare e dice:” No vediamo” “Ma io ho fame, datemi da mangiare”.
Insomma praticamente poi ha fatto portare un po’ di tè con due o tre biscotti; si va bene era qualche cosa.
Viene il giorno dopo, io ero convinto mi hanno fatto firmare la carta e sono partito.
Pino e un altro di Lecco mi aiutavano a tenermi su, mi hanno messo su un camion.
Pensate, 4 km di strada partendo da Gusen per arrivare a Mauthausen, sono sceso da solo dal camion, solamente per la grande voglia che avevo per rimpatriare. Galbani e altri mi hanno dato un po’ di miele, tutto quello che mi davano io mangiavo. Ormai forse ero sulla strada buona insomma.

D: Poi sei rientrato in Italia.

R: Si sono rientrato in Italia. Quando siamo partiti da Bolzano ho detto all’autista del camion, perché da Bolzano a Milano l’abbiamo fatta in camion, gli ho detto: “Mi raccomando tutti i posti di ristoro che ci sono di fermarsi a mangiare perché io ho fame”.
A Trento poi, il primo posto dove mi sono fermato, mi davano risotto, pane, un panino o due. Ma io avevo sempre fame. Poi a Trento ho trovato quel prete che mi ha detto: “Così giovane così magro, da dove vieni?” “Da Mauthausen”. “Vieni dietro là” e mi ha dato un vino di quello buono che bevevano quelli che dicevano la messa. E’ il primo bicchiere di vino che ho bevuto. Ma io avevo sempre tanta di quella fame…..

D: Da Mauthausen e il rientro in Italia, chi è che l’aveva organizzato?

R: Gli americani lo hanno organizzato.

D: In treno?

R: In treno. Ci hanno portato a Linz, da Linz ci hanno dato un pacco viveri.
La storia del pacco viveri. Gli americani ci hanno dato un pacco viveri, ogni prigioniero un pacco viveri. In questo pacco c’erano scatolette di carne, biscotti; c’era di tutto. Anche delle sigarette.
Io, con quella fame che avevo, perché anche quando ero a Mauthausen avevo sempre fame, mi davano la mia razione ma però avevo sempre fame. Tanto è vero che una volta sono andato fuori a lavorare per darmi una razione doppia. Va beh. Come parte questo treno, in ogni vagone c’era un soldato americano che ci accompagnava. Io mi sono seduto in un angolino, non eravamo quaranta come quando siamo partiti, saremo stati una ventina. La prima cosa che mi hanno detto è stato: “Questo pacco viveri deve durare per un paio di giorni per arrivare fino a Innsbruck”, ma io con la gran fame che avevo mi sono messo in un angolino e senza accorgermi alla fine mi sono accorto che sono rimaste appena le sigarette. Le scatolette di carne e tutto il resto, mi sono mangiato tutto. E poi avevo fame ancora. Avevo le sigarette, ma io non fumo.
Poi il treno ha avuto anche la sfortuna che si è rotto, è stato fermo 24 ore perché hanno dovuto cambiare il pezzo della locomotiva. Lì c’erano dei vagoni con dei civili che rientravano, non solamente i prigionieri deportati; i prigionieri militari, i prigionieri che erano andati anche volontari a lavorare e che avevano le famiglie intiere.
E quando il treno si è fermato in quel posto lì, io ho cerato di andare avanti e indietro per vedere se qualcuno mi dava qualche cosa da mangiare, non ho trovato nessuno che mi ha dato niente. Poi ho trovato uno che io gli ho dato le sigarette e lui mi ha dato qualche patata; l’unico scambio che ho fatto.
Poi siamo arrivati a Innsbruck, finalmente siamo arrivati a Innsbruck, con una gran fame. A Innsbruck usciamo dalla stazione e ci portano in un campo di raccolta gestito dagli alpini italiani. Tutti gli italiani che rientravano dalla Germania lì li fermavano per organizzare e poi la cosa passava in mano agli italiani. Lì c’era questo campo che era gestito dagli italiani.
Io devo raccontare questo fatto perché…. Era fuori dalla stazione un paio di chilometri, ci hanno portato là, alla sera ci danno una pagnotta, una gamella con il risotto e un po’ di carne ad ognuno. Però è successa la solita cosa e cioè che io quando ho finito di mangiare, era una bella gamella di risotto, io avevo ancora fame, perché era una cosa guardate, forse io ero malato così, quella fame era come una malattia, ce l’avevo sempre. Allora dico a Galbani: “Io ho fame” e lui mi dice: “Non parlare” e io gli ho detto: “Andiamo a cercare da mangiare”. “E dove vuoi andare?”. “Andiamo dove c’è la cucina, forse qualche cosa troviamo. Se stiamo qui non mangiamo più”. E infatti partiamo, il campo era molto grande, poi la troviamo la cucina. Arriviamo in cucina, guardiamo lì di fuori, facciamo per entrare in cucina e c’è una sentinella italiana, un alpino italiano che non ci lascia entrare. “Perché volete venire in cucina?” ci chiede. “Perché ho fame” ci dico. “Ma te non hai mangiato la tua razione?”. “E si, ma ho fame ancora”. “Aspetta allora che vado a chiamare l’ufficiale di servizio della cucina”. Viene lì con questo ufficiale e mi dice “Ma te così magro” mi guardava poi ero magrissimo perché ero stato anche in infermeria tutto quel tempo lì “Ma da dove vieni?”. “Vengo da Mauthausen”. “Da Mauthausen venite?”. “Ho una gran fame”. “Ma la vostra razione?”. “E ce l’anno data, ma io ho sempre fame”. Allora parlano tra di loro e ci dicono di aspettare lì. Circa dopo 10 minuti arriva questo ufficiale alpino insieme ad altri due o tre ufficiali alpini e ci portano per ognuno una gamella così piena di risotto, due o tre pezzettoni di carne e un paio di pagnotte, a tutti e due. Io in 10 minuti, mezzora mi sono mangiato tutto. Adesso gli dico: “Adesso posso dire che sto proprio bene, adesso non ho più fame”. Quelli ridevano tra di loro, ridevano anche a vederci mangiare.

D: Lì avevi 18 anni?

R: Si. Ormai 18 anni.

D: Quanto pesavi?

R: Sarò stato sui 35 kg. 35-36. Ma forse con quella penicillina che ci hanno dato gli americani io ero guarito, però avevo fame.

D: Poi sei arrivato a Bolzano.

R: Si sono arrivato a Bolzano.

D: E a Bolzano dove ti hanno messo?

R: A Bolzano c’era tutto organizzato. C’era un posto che era gestito dalla Croce Rossa italiana o internazionale, non so. Poi ci hanno dato da mangiare, la nostra razione da mangiare. Anche lì avevo fame, però lì era quella. Poi si doveva partire.
Da Bolzano in avanti le linee ferroviarie erano tutte distrutte, però c’erano degli autocarri, camion e mezzi di fortuna che arrivavano a Bolzano e ogni regione prendevano i suoi. E lì ho avuto la fortuna di trovare il camion della Falck di Sesto San Giovanni. L’autista lo conoscevo, era Seveso, era uno operaio della Falck Unione. La prima cosa che gli ho domandato è stato: “Mio padre?”. “Si, ci sono tutti. Tuo padre, tua madre. Tuo fratello è tornato, ti aspettano a casa” mi risponde. Allora siamo partiti con quel camion e ho detto a Seveso: “Mi raccomando Seveso tutti i posti di ristoro che trovi sulla strada….”. Perché lui mi aveva detto che c’erano dei posti di ristori quando gli avevo chiesto se aveva qualche cosa da mangiare. “Allora tutti i posti di ristoro che trovi fermati perché io ho sempre fame” gli dico. E infatti così è stato. Ero amico dell’autista, il primo posto dove si è fermato è stato a Trento. Poi i posti gestiti dalle suore, perfino di notte in un posto sulla riva del lago di Garda gestito dalla suore. Perché lì erano preparati, arrivavano a qualsiasi ora. Erano forse le due o le tre di notte e anche lì ci siamo fermati e abbiamo mangiato pastasciutta o risotto, era sempre quello, un pezzettino di carne e una pagnotta e via.
Poi l’ultima cosa visto che siamo sul ragionamento del cibo. Finalmente arriviamo a Monza, quelli di Monza scendono a Manza. Io faccio la strada di Monza che va a Sesto che è la Via Borgazzi, e io dovrei scendere alla Bettola per andare a casa. Era mezzogiorno e Seveso mi dice: “adesso andiamo giù alla Falck che hanno preparato polenta e coniglio” e io ero lì nel dubbio. Volevo scendere perché ormai ero vicino a casa mia, ho fatto fermare il camion e ho detto: “io vado perché c’è mia madre”. Volevo vedere mia madre anche se avevo fame. Però ho avuto la fortuna di vedere fermo un ragazzo, l’ho chiamato e gli ho detto di andare a casa ad avvisare mia madre che io ero arrivato ma che adesso andavo a Sesto a mangiare. Lì si è deciso tutto.
Infatti sono andato a Sesto e ho fatto anche bene, perché c’era coniglio e ho mangiato abbastanza bene e tanto, l’importante era quello.
Poi l’ultimo pezzo l’ho fatto in bicicletta perché era un sabato e hanno trovato mio padre che lavorava, l’hanno avvisato è uscito ed è venuto lì. Invece c’era uno che lavorava vicino a me fino a mezzogiorno mi ha portato a casa; dalla Falck fino a Sant’Alessandro in bicicletta.
Là c’era tutta la gente che mi aspettava, è stato molto bello. Ho trovato mia madre, mio fratello, mia sorella, l’altro mio fratello e tutti gli altri. C’era tantissima gente e questo è stato il ritorno.

D: Ascolta Angelo, e poi il rientro, il rientro dai tuoi amici, nel posto di lavoro; il rientro alla vita, com’è stato?

R: Piano piano. Ho cominciato a lavorare forse nel mese di dicembre del ’45, perché prima ho dovuto curarmi e poi il ministero post bellico mi ha mandato su a Selvino e poi la Falck mi ha mandato a Baveno sul lago Maggiore. Comunque in quel periodo devo ringraziare tutti quelli lì perché hanno fatto tanto per noi.

D: Quando tu raccontavi, c’era gente che ti chiedeva del campo di concentramento?

R: Sì beh, quando siamo rientrati i primi giorni, i primi tempi, i famigliari di quelli che sono morti là, perché là ne sono morti tantissimi, venivano a casa e mi domandavano per avere notizie dei loro famigliari e io raccontavo. Tanto è vero che al primo che è venuto gli ho raccontato per filo e per segno, perché non avevo ancora imparato un po’ la malizia a raccontare queste cose, io ero giovane e ho raccontato tutto come lo hanno massacrato. E loro sono andati via sconvolti. Allora mio padre mia ha detto di non dire più quelle cose. Allora ho imparato un po’ a raccontare : “sì è morto perché il lavoro era tanto e da mangiare era poco. Qualche volta ti picchiavano”. Però il primo è stata una lezione e poi non ho più raccontato anche se ho visto delle morti spaventose, terribili, massacrati proprio… Però quei fatti lì non li ho più raccontati.

D: Angelo, Giovanni Sperandio però non è stato deportato?

R: Lui è stato ricoverato là ed è ritornato dopo quattro o cinque mesi.

D: Come mai?

R: Perché è stato ricoverato all’ospedale dagli americani. Lui era conciato…

D: E’ stato deportato?

R: Sì è stato deportato. Lui è finito a Ebensee. Lui era con me, è stato portato via con me, ha fatto Mauthausen, Gusen e poi lo hanno mandato al trasporto a Ebensee. Poi a Ebensee quando è c’è stata la liberazione degli americani lui era in infermeria.

D: Quindi ha fatto tutto il periodo di deportazione?

R: Sì. Quando è stato liberato dagli americani era in infermeria e poi era conciato così male perché lui…. Poi è ritornato in Italia, tanto è vero che io ai suoi genitori gli ho detto che era partito da Gusen e poi non ho saputo più niente di Giovanni. Non sapevo più niente, di sicuro non si sapeva più niente. Poi un bel giorno è ritornato. Poi è stato ricoverato in sanatorio, è stato diversi anni là.

D: Ascolta Angelo, tutto questo è partito perché tu con i tuoi fratelli ed altri operai eccetera avete fatto lo sciopero, nel ’44. Rifareste ancora lo sciopero?

R: Eh rifarei lo sciopero! In quel periodo bisognava fare qualche cosa, perché noi abbiamo riscattato anche l’onore della nostra patria con il nostro sacrificio, con le nostre sofferenze. Senz’altro soffrire ancora! Però in quegli attimi lì se non si faceva niente…
Invece noi con le nostre sofferenze, con i nostri sacrifici, con le nostre morti spaventose, con la lotta dei partigiani abbiamo riscattato il nome della nostra patria di fronte agli occhi del mondo.
Perché noi quando siamo arrivati a Mauthausen. Io sono stato uno dei primi italiani che è arrivato a Mauthausen. Noi italiani eravamo malvisti da tutti. Poi abbiamo detto che se eravamo lì non eravamo fascisti e che avevamo fatto anche noi la nostra parte.
Allora era giusto, in quell’attimo lì bisognava farlo quello sciopero. In quell’attimo lì bisognava fare la lotta partigiana. In quell’attimo lì bisognava soffrire insomma.

D: Angelo che cos’è la libertà?

R: La libertà è una cosa grande, bisogna tenerla da conto. Però la libertà non vuol dire schiacciare gli altri. La libertà e che sia libertà per tutti.

D: Angelo, che cos’è un lager?

R: Un lager è una cosa spaventosa. Poi quei lager lì erano cose brutte perché la persona in questi posti non esisteva più; la persona come persona umana. Lì esisteva un numero e questo numero era un numero da torturare, da farlo lavorare e da uccidere. I diritti non ne hai più. Eri un numero e finché rendevi qualche cosa ti lasciavano vivere. Perché ogni tanto quelli che non erano più in grado di rendere qualche cosa, di fare qualche lavoro li mandavano alla camera a gas. Il lager è la cosa più brutta che l’uomo ha creato.

D: Perché tu ogni anno ritorni a Gusen e a Mauthausen, al castello di Hartheim?

R: Perché noi a Mauthausen, a Gusen, in questi posti io quando sono ritornato in questi posti non avrei mai pensato che avrei avuto la forza di ritornare. I primi anni non ci sono ritornato, poi dentro di me ho cercato di ritornare per vedere. Perché noi in quei posti abbiamo lasciato una parte di noi. Io penso che in quei posti noi abbiamo lasciato una parte del nostro cuore, della nostra anima. Noi lì abbiamo lasciato i nostri migliori compagni. Noi ritorniamo anche per accompagnare le persone che vogliono andare in quei posti, perché tutti devono sapere che cosa è successo in quei posti per far sì che non risuccedano più queste cose. Abbiamo capito anche questo, perché ritornare, anche andare nelle scuole è stato un ritornare a vivere, ritornare a soffrire.
Io il primo anno che sono ritornato a Gusen dove ho sofferto così tanto ho sofferto ancora come quando ero là, però ho capito che era giusto ritornare. Anche andare nelle scuole ho sofferto, però era giusto andare. Quando ho scritto anche le mie memorie, le ho fatte con sofferenza. Però era giusto farle, perché le nuove generazioni devono sapere. Perché quando si perde la libertà si perde tutto.

D: Quindi secondo te è importante che i giovani sappiano?

R: Sappiano, conoscano e sappiano. Perché anche oggi che sono passati più di cinquanta anni, quando io vado nelle scuole tante volte mi lascio commuovere, mi lascio ancora prendere da grande commozione.