
Marcello Martini
Nato il 6 febbraio 1930 a Prato
Intervista del 5/7/2000 a Torino, realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL: n. 32 – durata 54’
Arresto: giugno 1944 a Firenze
Carcerazione: Le Murate, carcere di Firenze
Deportazione: Fossoli (Carpi, provincia di Modena); Mauthausen matricola n. 76.430, a Wiener Neustadt e Hinterbrühl, distretto di Mödling (sottocampi di Mauthausen)
Liberazione: maggio 1945 a Mauthausen, dopo la marcia della morte da Mödling
Nota sulla trascrizione della testimonianza:
La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.
Mi chiamo Marcello Martini. Sono nato a Prato, in Toscana, il 6 febbraio 1930. La mia è stata prettamente una vita di un ragazzo nato e cresciuto sotto il regime fascista, che fin dagli inizi, fin dai 6 anni, uno era iscritto al partito fascista automaticamente, appena si presentava a scuola.
Nel giugno del ‘44 mio padre – saltato tutto il periodo ovviamente… – mio padre era comandante militare della zona di Prato alle dipendenze del CLN pratese. E nell’ambito di questa attività era stata organizzata una radio a Firenze, detta Radio CoRa, il nome in codice, dalla quale venivano trasmesse tutte le informazioni militari relative ai passaggi di truppa, ai depositi di munizioni, alle prime postazioni che venivano costruite sulla linea gotica. E tutte queste informazioni di carattere militare venivano trasmesse a sud tramite questa radio, che era una radio messa su un po’ alla bell’è meglio, da due radiotecnici fiorentini, padre e figlio, Morandi si chiamavano, e trasmetteva un giorno da una parte un giorno da quell’altra, per non essere identificata dai radiogoniometri. Questo servizio funzionava talmente bene che fu deciso, appunto, dal sud, cioè dal primo nucleo del ricostituito esercito italiano, di inviare dei radiotelegrafisti con altrettante radio, più efficienti e più forti di quella, ripeto, messa su alla bell’è meglio. E questi cinque paracadutisti si lanciarono durante la notte del – se ben ricordo – del 2 di giugno del ‘44, lì nella zona di Prato, ricevuti da mio padre, da mio fratello. Il giorno dopo andai anch’io a portare da mangiare, all’epoca avevo 14 anni quindi non potevo sicuramente fare il partigiano. D’altra parte, la zona lì, la campagna intorno a Prato era messa in maniera tale che era impossibile praticamente fare una lotta armata, come è possibile invece fare qui nel nord dove le montagne permettono un rifugio più sicuro: lì sono colline, la più alta di Prato era 900 metri di altitudine, quindi poi due passi più in là uno scendeva in Emilia, quindi non era il caso; e poi le rappresaglie che sono state fatte in Toscana, per azioni appunto di guerriglia, sono state veramente tremende, quindi c’era da mettere a rischio la popolazione civile per magari ammazzare un tedesco e ritrovarsi con un paese bruciato, come è successo purtroppo in tanti paesi, della Toscana in modo particolare. Quindi questo servizio di informazioni era tutto quello che potevamo fare.
Pochi giorni dopo, appunto, questo lancio, purtroppo la radio stava trasmettendo, radio CoRa stava trasmettendo… che ci sia stata una spiata, che sia stata localizzata dai radiogoniometri, fatto sta [che] irruppero nell’appartamento di Piazza Massimo d’Azeglio, sempre lì a Firenze, e trovarono caldi caldi sia il radiotelegrafista, che trasmetteva con la pistola accanto al tasto, e uccise i primi due tedeschi e poi fu a sua volta ucciso. Dicevo appunto il radiotelegrafista, Luigino Morandi, riuscì a sparare prima ai due tedeschi e poi fu fatto fuori. Tra parentesi, questa… come si può dire… questa occupazione, invasione, questo intervento era stato fatto dalla SS italiana e tedesca, c’erano tutte e due. Malauguratamente, non solo c’era nello stesso momento una riunione del CLN fiorentino, ma c’era anche tutto l’archivio delle attività svolte. E praticamente tutti i componenti del CLN furono catturati, arrestati e portati in via Trieste dove c’era la sede della SS, con relative carceri, tremende, o meglio, carceri… erano delle cellette nello scantinato di questa villa [Villa Triste, ndr] che esiste tutt’ora, via Trieste numero 10. Ma dall’archivio, dai documenti che erano ancora lì, fu possibile risalire al fatto che era a Prato che [si] dava la maggior parte delle informazioni. E a Prato c’era questo maggiore Niccolai, che venne identificato come il maggiore Martini [Mario, ndr], maggiore dell’allora esercito, Regio esercito italiano. Morale, qualche giorno dopo – nessuno appunto ci aveva avvisato di questa retata, cioè aveva avvisato il mio babbo il CLN, noi eravamo sfollati in una cascina vicino a Prato, tutta la famiglia – ci siamo ritrovati con la casa circondata, sempre da SS italiana e tedesca, e catturati, praticamente… Mi ricordo, io ero proprio di fronte alla porta che stavo studiando, poi nella stessa posizione in cui sono ora, lì dove c’è la macchina da presa, c’era la porta interna, perché era uno stanzone che occupavamo appunto… sfondò la porta e mi ritrovai la pistola, una pistola sotto il naso da un certo Rabanser, che era un sergente delle SS, era un altoatesino, quindi parlava benissimo l’italiano. Morale, portarono giù nell’aia mia mamma, mia sorella e il sottoscritto, mio babbo, e il quinto paracadutista – gli altri quattro erano già stati catturati a Firenze – il quinto paracadutista che aveva cercato rifugio in casa nostra. Mia mamma, mia sorella e il sottoscritto fummo messi in una parte, mio padre in mezzo a due militi della SS italiana, con tanto di mitra. E giocando il tutto per tutto mio padre si mise a correre in un campo di grano, e cercò appunto di chiudere… no, più che di scappare, di chiudere subito l’argomento, perché ovviamente, siccome riuscivano a far parlare, avrebbe potuto compromettere, appunto, l’organizzazione, anche l’organizzazione pratese. Invece, fortunatamente, nonostante il grano fosse stato falciato da quanto gli hanno sparato dietro, riuscì a cavarsela, riuscì miracolosamente a passare in mezzo alle pallottole.
La sera stessa, mia mamma mia sorella ed io, e questo Franco, il quinto paracadutista, fummo portati appunto alla sede delle SS a Firenze, sempre in via Trieste al numero 10. Lì, una specie di interrogatorio, ma neanche tanto… Ecco, lì ebbi la prima botta, la prima sberla dalla SS. Perché eravamo stati tutto il pomeriggio lì nell’aia di questo contadino guardati a vista, e non si poteva parlare ovviamente, né niente, ero piuttosto stanco, m’appoggiai ad un tavolino lì nell’ufficio e venne, c’era un tedescone: mi lasciò andare la prima sberla che ho ricevuto da prigioniero. La sera stessa poi, nella nottata diciamo, fummo internati, io nelle carceri maschili delle Murate, lì di Firenze, mia mamma e mia sorella in quelle femminili di Santa Verdiana, sempre lì a Firenze ovviamente. Diciamo subito che mamma e sorella furono liberate poi dopo circa due mesi da un colpo di mano del Gap fiorentino, che fece uscire tutte le detenute politiche e razziali dalle carceri, con un colpo di mano, al quale partecipò anche un ex ufficiale tedesco che era passato dalla parte dei partigiani. Il sottoscritto invece, dopo tre giorni neanche – tutto avvenne il 9, sì – nella notte tra l’11 e il 12 di giugno, caricato su un pullman e portato a Fossoli. A Fossoli poi fui… Fossoli vicino a Carpi, in provincia di Modena, dove stetti pochi giorni, ecco… io ricordo il periodo di Fossoli un po’ come un periodo felice, tra virgolette.
D: Marcello, nel campo di Fossoli, ti ricordi se ti hanno immatricolato?
R: Sì, sono stato immatricolato. Non ricordo il numero di matricola preciso, ma mi sembra fosse sull’ordine del duemila, che poi fosse 1.900 o 2.100 questo non lo potrei precisare, perché a Fossoli ci sono stato talmente poco…
D: Un’altra cosa Marcello, ti ricordi se lì a Fossoli con te hai visto anche dei religiosi?
R: No, sinceramente a Fossoli non lo ricordo. Come vi ripeto, io a Fossoli sono stato dal 12 fino al 21 di giugno, quindi è stato un tempo talmente breve… Ho visto diverse persone, ricordo di aver visto diverse persone, ma più che altro mi sono state indicate, ecco, compreso anche Todros, di qui di Torino, e altri… poi ci siamo ritrovati su a Mauthausen. Però appunto, come dicevo, il 21 fui imbarcato: le solite tradotte, vagoni piombati… Il viaggio non fu tanto tremendo per quello che posso ricordare, perché i contadini lì della zona misero nei vagoni, mentre eravamo fermi in attesa di partenza, cassette piene di frutta – eravamo appunto a fine giugno, quindi la campagna era al massimo della produzione – e quindi non soffrimmo sete e neanche fame, perché molti lì a Fossoli potevano ricevere pacchi, vestiti, e quindi erano abbastanza agiati da un punto di vista [di] autonomia mangereccia. E quindi durante il viaggio non mancò… non posso dire fosse un viaggio comodo perché in cinquanta in un vagone con un bugliolo per fare i propri bisogni, ma comunque non fu tremendo. L’unico particolare fu che prima di partire dissero: “Se qualcuno tenta di fuggire facciamo fuori dieci di voi.” Dal mio vagone ne scapparono otto, quindi non saremmo stati neanche sufficienti per fare pari con la cosa. A parte il fatto che almeno a quello che ci dissero, quattro erano morti nel tentativo di fuggire, perché buttarsi dal treno in corsa dall’altezza del finestrino del vagone bestiame non è… è un bel salto, e atterrare sulla massicciata non è sicuramente un materasso. Altri due dei quattro furono ripresi e furono poi mandati a Mauthausen. Però questa minaccia ci pesava, era palese, era stata molto chiara, e quando si imboccò il Brennero, la salita lì del Brennero, e il treno cominciò ad andare a passo d’uomo, tutti quanti eravamo convinti, anche se nessuno diceva nulla all’altro, che nel momento in cui veniva trovato uno spiazzo, un posto, uno slargo per mettere in atto la minaccia, sarebbe stata lì… Ecco, questa paura sinceramente, penso abbia fatto da vaccino, abbia procurato gli anticorpi necessari per superare poi tutto l’anno successivo, un anno di paura completo. Dove anche lì, la paura… Ecco, l’uomo è una bestia strana: si abitua anche alla paura, sa benissimo che da un momento all’altro può essere l’ultimo, [di] questo eravamo tutti quanti coscienti, però nello stesso tempo speravamo di respirare per il minuto successivo. Questa era un po’ la psicosi del lager, o almeno era quello che sentivo io, anche se inconsciamente, perché di tante cose mi sono reso conto dopo ritornando nella vita normale.
Dicevo, il 24 di giugno si arrivò su a Mauthausen, eravamo circa 450, il trasporto mio se ben ricordo. So solo che in base ai conti di Tibaldi nel suo libro, appunto ‘Compagni di viaggio’, la sopravvivenza del mio gruppo è stata del 7,8%. Mauthausen, la solita cerimonia di ingresso, cioè rimanere due giorni lì all’addiaccio nel cortile lì a destra, il discorsino di presentazione del campo “questo è il portone dove siete entrati questo è il camino da cui uscirete”, insomma. E poi la doccia, la depilazione, il taglio dei capelli rasati a zero. Io ero fortunato allora perché avendo solo 14 anni non avevo la barba, e questo era un punto di vantaggio enorme, perché essere massacrati da rasoi maneggiati da mani inesperte, rasoi che non tagliavano, maneggiati poi da persone che per avere un mezzo mestolo di zuppa si professavano anche barbieri, quindi era un macello settimanale. Lì fui fortunato. Dopo il bagno internato nella baracca, se ben ricordo la numero 17, e dove sono stato lì poi fino a tutto luglio, fino al 31 luglio, quando rivestito a festa con la bella divisa a righe – ero immatricolato come 76.430 – quindi con il mio vestitino a righe nuovo di zecca, il cappellino, i ‘mützen’, per carità, necessario per fare l’appello, venni inviato a Wiener Neustadt. Wiener Neustadt era un’officina, era del Reichswerke, apparteneva a uno delle fabbriche di Goebbels, dove – questo ovviamente l’ho saputo dopo – doveva avere delle commesse proprio per costruire V1, V2, e razzi del genere, e poi invece erano state date delle commesse per costruire dei vagoncini porta-carbone, dei tender per le ferrovie, e, almeno la linea dove mi misero a lavorare, dei battelli fluviali a fondo piatto, dei pontoni con motore interamente metallici. Fui messo a chiodare le lamiere che congiungevano il fasciame.
D: Scusa Marcello, queste fabbriche qui dov’erano allestite? All’aperto?
R: Questa era una fabbrica vera e propria, un capannone lunghissimo, sull’ordine dei 200 metri, che era stato bombardato. Il tetto praticamente non esisteva, o meglio, era rimasto riparato su nella parte dove c’erano le macchine utensili. Lì dove veniva fatto l’assemblaggio di questi barconi, di questi pontoni, il tetto praticamente non esisteva, quindi era come lavorare all’aperto, almeno per la pioggia. Per il vento invece avevano un certo riparo, insomma.
D: Siete stati in molti che da Mauthausen siete stati mandati in questo sottocampo?
R: No, non eravamo molti, anzi eravamo abbastanza pochi. Wiener Neustadt… Io ho avuto la fortuna, diciamo, di capitare in due sottocampi, prima Wiener Neustadt, poi Hinterbrühl, due sottocampi abbastanza piccoli, di centinaia di persone, non di migliaia di persone, perché appunto il sottocampo di Ebensee era più, ad esempio, era più popoloso rispetto a Mauthausen stesso. Io invece ho avuto la fortuna di capitare in due campi, non attrezzati, con tanto di camera a gas, forno crematorio ecc., ma proprio dei campi, ora si direbbe in senso eufemistico ‘a dimensione d’uomo’, insomma.
Infatti, nel lavorare, siccome si scaldavano alla forgia dei chiodi, questi chiodi che andavano ribattuti a caldo, uno di questi chiodi mi si infilò nello zoccolo bruciandomi ben bene il piede. Dopo qualche peripezia, quando cioè il piede mi andava in cancrena – bello gonfio, verde, giallo, di tutti i colori, gonfio come un pallone – allora mi ricoverarono in infermeria. E questo perché lì c’era appunto un’infermeria per i casi traumatici più che per le malattie. È stata forse una delle cause della mia sopravvivenza. Perché non solo ho avuto una prova di solidarietà non indifferente, perché l’infermeria era gestita, cioè, comandata, sempre parlando di prigionieri, da un certo Otto, austriaco, meccanico dentista, che curava i denti un po’ anche lì ai soldati delle SS, ai kapò, eccetera eccetera, quindi aveva una certa, non dico autonomia ma insomma… Poi c’erano i due medici francesi, uno di Cherbourg, l’altro delle Antille, e l’infermiere russo. Insomma, com’è come non è, sono riuscito a tenermi per due mesi e passa lì in infermeria, con questo piede che veniva curato con delle spennellature di permanganato e rifasciato con la carta igienica, perché queste erano le uniche cure appunto disponibili. Poi appunto Jack che era il medico Cherbourg, riuscì, non so come, a trovare di quelle matite emostatiche a base di nitrato d’argento, e me la passava su questa bruciatura che era di discrete dimensioni, e me la passava per cercare di farmela cicatrizzare, e ci riuscì poi piano piano a riformarsi una pellicina leggera leggera. Però appunto due mesi stare a riposo, mangiare le stesse cose che mangiavano quelli che lavoravano dodici ore – perché il turno era di dodici ore – al caldo, se non altro al coperto, con una coperta propria, in un letto proprio: insomma è stata per me proprio toccare il cielo con un dito, una manna. E per di più, come dicevo, questi francesi facevano di tutto per rendermi la vita più semplice possibile, rischiando loro di proprio, perché un controllo delle SS, un prigioniero che stava lì due mesi diventava una bocca inutile: se fosse stato probabilmente in un campo più attrezzato sarei stato inviato sicuramente alla selezione. Invece riuscirono a tenermi lì, e poi purtroppo dovettero risbattermi fuori, di domenica, si dice “c’hai un giorno di più”, insomma furono proprio dei fratelli. Io in compenso imparai – siccome c’era un professore della Sorbona lì in infermeria, anche lui ricoverato – imparai a parlare il francese correttamente e correntemente, tanto che spesso venivano a guardarmi il triangolo, perché mi prendevano per francese insomma. Riuscivo a pensare in francese, a quell’epoca ovviamente. Tra parentesi dico, questo tizio, questo francese, questo professore, era arrivato da Parigi in centoventi per vagone, vagoni scoperti, nudi, nudi come vermi, in pieno inverno, e quindi ne erano sopravvissuti pochissimi a questo viaggio, e lui era uno di questi.
Comunque, dicevo, ritornato a lavorare, quando ci fu – io non ero sicuramente uno dei più brillanti chiodatori della storia di Wiener Neustadt perché il martello non lo potevo maneggiare, perché stava fermo il martello e vibravo io, insomma, non avevo sicuramente ‘le phisique du rôle’ per fare il ribattitore, allora – ci fu appunto uno spostamento di prigionieri al campo di Hinterbrühl e fui trasferito là. E passai dalle navi agli aerei. Il trasferimento fu abbastanza, più che pericoloso, pauroso, perché ci caricarono a mezzanotte, dopo aver lavorato tutto il giorno, essere rimasti nell’Appelplatz tutta la notte fino a mezzanotte, sotto la tormenta, senza mangiare assolutamente, neanche la zuppa serale, poi caricati in un camion sulla matrice, sul rimorchio, c’erano un gruppo di soldati con tanto di mitragliatrice puntata contro. Anche lì si pensava: ora si arriva da qualche parte, ci fanno scendere. E invece verso le 4 di mattina si vide le luci di un altro lager che era quello di, allora Mödling, poi diventato Hinterbrühl.
D: Scusa Marcello, ma sei stato selezionato tu per andare in quest’altro sottocampo?
R: Io ho sentito chiamare “sechsundsiebzigtausend vierhundertdreißig”,”jawoll”, sono andato lì, mi hanno detto “mettiti da una parte.” Questo succedeva all’appello delle sei, succedeva all’appello delle sei e fino a mezzanotte siamo rimasti lì sotto la tormenta, che nevicava quanto voleva, lì sull’attenti, immobili, e poi caricati sul camion. Che sia stato richiesto… beh, la mia manodopera non era qualificata. Anche lì c’era stato un altro colpo di fortuna, o di qualcuno magari che mi teneva una mano sulla testa, perché in questo trasporto da Mauthausen a Wiener Neustadt erano stati presi tutti i tecnici, ingegneri, meccanici, un mio amico era meccanico dentista, poi lo misero davanti ad un tornio e gli dissero “lavora qui”, dice “ma io veramente…”, “Sei meccanico quindi devi lavorare.” Io ero l’unico studente, infatti ero l’ultimo, proprio l’ultimo della fila, l’ultimo. Vedevo appunto che chiamavano tutti e a me non mi chiamavano, comunque…
D: Quando è avvenuto questo secondo trasferimento? Te lo ricordi più o meno?
R: Sì, è avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 dicembre del ‘44. Questo me lo ricordo benissimo. Arrivammo poi lì all’altro campo di Hinterbrühl, e solita fortuna, senza aver riposato né il giorno prima né la notte, solo quell’oretta dall’arrivo, ci fecero stare poi tutto il santo giorno in piedi dentro la baracca, per fortuna dentro la baracca, e poi la sera fui mandato a lavorare giù nella galleria. Quindi, stanchi morti. Ah, prima ci fecero fare una mezz’oretta di ginnastica, cioè saltare tutto il circolo dell’Appelplatz come ranocchi, così, per darci un po’ di benvenuto, insomma.
D: In queste gallerie qui cosa realizzavate voi, qual era la produzione?
R: La produzione era, i primi… uno dei primi aerei a reazione dell’Heinkel. Ora non ricordo il numero con precisione, il numero, la sigla dell’aereo, comunque era della fabbrica Heinkel. Veniva prodotta tutta la fusoliera, l’assemblaggio, stampaggio e assemblaggio della fusoliera in duro alluminio, tutto l’equipaggiamento elettrico: cioè l’aereo usciva fuori completo, ad eccezione delle ali, del motore e dei piani di coda. C’erano solo dei simulacri in una parte larga della galleria dove venivano provate l’assemblaggio di queste parti, anche perché c’era un cunicolo molto stretto per l’uscita degli aerei, per cui passava a malapena già solo la carlinga. Però la carlinga usciva completa, anche di armamento, c’erano montate due mitragliere da 20.
D: E il campo era distante molto dall’ingresso di queste gallerie?
R: No, assolutamente, c’era solo da attraversare la strada. Il cancello era prospiciente, si può vedere ancora, appunto, quando vado su, basta vedere il cancello che è di fronte al pozzo; c’è ancora il pozzo, ora è chiuso sopra – tra parentesi è in un giardino privato – si vede la copertura del pozzo e di fronte c’è un cancello. Ora è un cancello di ferro, eccetera eccetera, di una villetta, perché tutto il terreno lì del campo è diventato terreno edificabile. E quindi il campo era un po’ a forma di ‘U’, era rivolto, era su verso la collina, e si usciva dal cancello, inquadrati, contati, numerati, eccetera eccetera, si traversava la strada e poi scendevamo giù dal pozzo, in una scaletta, poco più che una scala a pioli. Bisognava scendere giù di corsa e salire di corsa perché eravamo gentilmente, tra virgolette, accompagnati da colpi di bastone, del tubo di gomma, di scudisci, e quello che c’era da alcuni kapò che si disponevano lungo questa scala e menavano, quindi per attutire il colpo bisognava correre il più possibile. E poi c’era da fare il turno, il cambio di turno, perché lì il lavoro era una settimana di giorno e una settimana di notte, sei la mattina alle sei della sera, dalle sei della sera alle sei della mattina successiva. Anche lì, solito colpo di fortuna, dopo un breve periodo all’aggiustaggio – poi, siccome avevo dei reumatismi tali che non potevo muovermi, io limavo i pezzi tenendo la lima ferma e muovendomi sulle gambe, perché le spalle non le potevo muovere – mi misero invece a lavorare all’impianto elettrico, cioè a montare l’impianto elettrico dell’aereo. C’era una specie di simulacro, bisognava preparare prima tutti i vari… condensatori, non so che cosa, tutti i comandi elettrici, poi assemblarli tutti insieme, e questi pezzi venivano man mano provati [ad] ogni passaggio, insomma. Questo lavoro durò fino… Ah, parentesi, il piede, questo piede bruciato, ricominciò a darmi noia, infatti mi si era formato un flemmone, cioè una raccolta di pus sotto questo leggero tessuto cicatriziale. E quindi dovettero riaprirmelo in infermeria: non avendo né bisturi né niente, con mezza forbice un buco da una parte, un buco dall’altra, infilata la forbice sotto e poi trac, han tirato su. Anche lì erano medici francesi, però fui meno fortunato, lì me la cavai con soli quindici giorni, quindici o sedici giorni. Ricordo che ci passai il compleanno, ecco, il mio compleanno lì dentro. Succedeva nel febbraio, o giù di lì.
Questo lavoro andò avanti fino al primo d’aprile del ’45, quindi ero uscito dall’infermeria poche settimane prima. Il primo d’aprile ci inquadrarono, ci dettero – mi ricordo – una pagnotta a testa. Ci dissero di prendere una coperta, e partenza per ritornare a Mauthausen a piedi, tirando anche una grossa diligenza, altri carretti. La diligenza a cui erano state messe tre lunghe funi, con cinquanta prigionieri per ogni fune, questa diligenza [era] carica di masserizie e di tutta roba della SS, dei kapò. Eravamo scortati di qua e di là da soldati e kapò, che erano stati rivestiti in divisa e armati, e avevano la voglia di adoperare quei fucili. Proprio si vedevano, avevano tanta voglia, e purtroppo li hanno adoperati. Quindi si cominciò a zoccolare per le strade, tutte strade secondarie, salire, scendere, perché le strade principali erano ingolfate dal traffico militare. E infatti le prime notti – chiamiamole notti di riposo – si dormiva in un primo campo, il primo campo aperto che trovavano appena imbruniva, venivano messi i camion a ferro di cavallo con i fari accesi e motori accesi in maniera da illuminare questo prato, ci si buttava lì in mezzo al fango perché piovve per tutta la settimana. Abbiamo dormito solo una volta al coperto, in una casa, non lo so che cosa… in costruzione, poi il resto ho sempre dormito in mezzo ai campi. La mattina, appena faceva un po’ di luce, di nuovo alzarsi, mettersi in fila, l’appello. La sera anche c’era l’appello, prima di potersi buttar giù in mezzo a quest’erba bagnata. E la mattina di nuovo l’appello, la conta – per carità, sempre file tirate come spaghi, perfettamente sincrono il movimento del ‘mützen ab’, sennò appunto… – e poi rincolonnati si partiva. Chi barcollava o chi cadeva veniva giustiziato immediatamente. Io ho vari ricordi di questa marcia, tra cui quello di un russo che s’era appoggiato a me e a un altro e gli hanno sparato nella nuca a una distanza di un venti centimetri dalla mia testa. Insomma, non fa tanto piacere vedere fracassare… comunque. Quello [che] fu più caratteristico, purtroppo, fu il fatto che una mattina – era la quarta o quinta mattina, salvo il vero – l’appello si prolungava: ci avevano contato e ricontato una decina di volte, l’appello seguitava, seguitavamo cioè a rimaner lì. L’appello non terminava. Il gruppo di ufficiali delle SS che era lì si misero a discutere fra di loro, poi finalmente hanno preso la decisione, passò davanti a noi, indicando “te, te, te, te”, ne tirò fuori cinque, li fece mettere a sedere, bontà sua, tirò fuori la pistola, cinque revolverate. Perché sì, praticamente non tornava il conto – s’è saputo dopo – tra quelli uccisi il giorno prima e i presenti, figuravano cinque persone in più. Allora, per semplificare i conti, perché i conti dovevano tornare alla perfezione, furono fucilate, cioè, fucilate… uccise, queste cinque persone.
L’ultima notte poi che fu quella più vicina alla bolgia infernale dantesca, fu quando arrivammo… Appunto, io solite fortune sfacciate che ho avuto. Facevo parte proprio dell’ultima parte della colonna, era già buio quasi. Arrivammo lì, ci dividevano in gruppetti da una decina di persone, poi c’era un ufficialetto della SS, con due bellissimi cani, ai quali allungava il guinzaglio, e nonostante i 50 chilometri o giù di lì fatti, bisognava mettersi a correre. Si vedeva tutti, secondo il solito, tutti i camion a ferro di cavallo, a cerchio, con i fari abbaglianti, quindi uno [rimaneva] abbagliato. Correre, poi ad un certo punto mancava il terreno sotto i piedi, e uno rovinava giù nel buio senza capire più nulla – che fra i rumori del camion, eccetera eccetera, uno non sentiva niente – fino a che rotolando sentiva urlare lamenti, e così via. Comunque, la mattina dopo si scoprì appunto quel che era successo, quello cioè che ci avevano fatto fare: praticamente si trattava di un… in questo campo, in questo prato, c’era un enorme buco, tipo tronco di cono rovesciato, il diametro superiore sarà stato un centinaio di metri, quello inferiore forse 50 o giù di lì; quindi c’era questa ripa scoscesa, e noi senza vedere assolutamente niente, perché fra il buio e essere accecati dai fari, precipitavamo lungo questa… uccidendo praticamente i nostri compagni che erano arrivati prima di noi. Infatti, la mattina dopo quando si ripartì, quelli che erano tutti intorno a questa voragine – a dormire erano arrivati prima, si erano messi giù a dormire – erano quasi tutti morti, o quelli che non erano morti poi si sentì dei colpi di pistola, di arma fuoco, furono fatti fuori. Morale, di quel viaggio lì c’è proprio lì a Mauthausen, al museo, c’è un cartellone “sono morti più di duecento per la strada.”
Mi ero dimenticato di dire una cosa, che prima di partire c’erano in infermeria cinquanta prigionieri che non potevano camminare: questi furono uccisi con una puntura di benzina nel cuore, e lasciati lì. Poi furono sepolti non so dove. Il fatto era che io ero uscito poche settimane prima dall’infermeria, e con un piede appunto malridotto come avevo, se i tempi non coincidevano bene ero il cinquantunesimo. Oggi come oggi, lì dove c’era l’infermeria, è stato costruito… nel prato è stata messa una lapide, comperato questo pezzo di terreno, e realizzato una specie di serraglio di memoria, lì all’aperto. Questo terreno è stato comperato proprio dai cittadini di Hinterbrühl, e ora lì c’è tutti gli anni appunto, quando si va si porta una corona a questa specie di memoria.
D: Questa marcia della morte, Marcello, questa marcia di trasferimento fu una marcia della morte in realtà. Quanto è durata?
R: Sette giorni. Sette giorni per un totale di circa 220, 230 chilometri. Particolare pietoso: nulla da mangiare eh! Niente, assolutamente niente da mangiare, salvo qualche manciata di erba strappata lì dai cigli della strada. Arrivati poi a Mauthausen ci fu lo stesso trattamento di ricevimento, solita doccia e l’internamento nella baracca, mi sembra baracca 24. Ma mentre la prima volta ci hanno dato all’uscita delle docce una camicia e un paio di mutande, la seconda volta non ci dettero niente, assolutamente niente. Quindi rimanemmo per diversi giorni nudi come vermi. Però poi ci dettero qualcosa con cui coprirci, non mi ricordo cosa. Anzi, il problema fu quello di procurarsi la gamella, o qualcosa in cui mangiare.
D: Scusa Marcello, quando tu parlavi durante la marcia della morte di questa buca che siete rotolati giù, ti ricordi più o meno in che zona era?
R: No, sinceramente non… Se la vedessi la riconoscerei ovviamente. Non eravamo tanto lontani da Mauthausen, perché appunto arrivammo o il giorno dopo o due giorni dopo, quindi deve essere nel raggio di massimo di una ottantina di chilometri, o giù di lì, da Mauthausen. Però sinceramente ero troppo impegnato a mettere un piede davanti all’altro più che guardare il panorama. Ricordo, così, dei nomi, di ‘San Georgen’, di ‘Polten’, ma proprio son quei ricordi che non potrei identificare o dire in tribunale, insomma.
D: Arrivato lì a Mauthausen, nel blocco, nella baracca, vi hanno sempre tenuto in baracca poi?
R: Sì, io sono sempre stato nelle baracche di quarantena. Sapete che i campi di quarantena erano un sistema completamente diverso dal cosiddetto campo libero. Lì nelle baracche di quarantena si dormiva in terra, su pagliericci messi appositamente in terra, ci si buttava giù come le sardine, testa e piedi testa e piedi. In una notte su quattro pagliericci dormimmo in ventidue, non c’era la pancia come ora a creare tanto ingombro, ma insomma, in ventidue su quattro pagliericci larghi 70 centimetri, uno può capire quanto fosse gradevole il riposo.
D: Quando siete arrivati lì a Mauthausen, poi vi hanno messo, vi hanno impiegato in altri lavori oppure no?
R: No. Praticamente sia nel primo periodo di Mauthausen sia nel secondo, dalle baracche di quarantena ogni tanto venivano a prendere delle persone. So che alcuni venivano fatti lavorare anche alla cava, però chi era in quarantena normalmente non lavorava, normalmente, perché poi tanto lo facevano lavorare dopo. Lì tutti i blocchi di quarantena erano praticamente il magazzino umano da cui venivano prelevati man mano che c’era bisogno per essere mandati da altra parte, però lì a Mauthausen il personale che lavorava al campo, o nelle officine, o alla cava, o per la manutenzione del campo, erano tutti nel campo libero, sempre definizione eufemistica anche questa.
D: Ecco e lì sei rimasto fino a quando?
R: Sono rimasto fino alla liberazione, fino al 5 maggio. Il cibo era diventato scarsissimo, anzi il pane… Mi ricordo appunto la liberazione, fu il 5 maggio, quindi sarà stato forse il 30 di aprile, o giù di lì, che praticamente non si vide più pane. Tra parentesi, le ultime tre pagnotte erano state divise le ultime due in sedici persone, l’ultima in ventiquattro. Dopodiché sparì, ci davano anche la sera una mezza mestolata di zuppa di rape, quindi nutrientissima. Io ho il ricordo appunto… Siccome mi avevano chiamato per fare lo Stubendienst – cioè rimettere a posto i pagliericci, pulire in terra, grattare tutto il pavimento, grattare con dei pezzi di vetro tutto il pavimento per poi ridargli la cera ex novo, quindi la macchina dell’universo concentrazionario ha funzionato regolarmente fino all’ultimo minuto, praticamente – e quindi ogni tanto riuscivo ad avere qualche stecca, qualche mestolata in più di brodaglia, così era l’unica cosa favorevole.
Poi il 5 di maggio, come ripeto, cioè prima si vide sparire dalle garitte le SS, però per me – ero già in uno stato semi confusionale, o giù di lì – che fossero vigili del fuoco, fossero polizia urbana o che, per me era gente in divisa armata che stava nella garitta, non me ne fregava nulla di sapere che cosa fossero. E poi finalmente si vide venire quelli del gruppo internazionale, e arrivare, questo lo ricordo perfettamente, l’arrivo degli americani su una jeep, un’autoblinda, un qualche cosa del genere, si vede scendere – ero sul tetto della baracca – questi due esseri vestiti di quel giallo, o giù di lì, quel verdolino, che per me potevano essere benissimo marziani perché chi aveva mai visto un americano in vita mia. Poi ho un periodo invece di totale azzeramento, cioè non ricordo assolutamente più niente per un certo numero di giorni. So solo che ero nella baracca 24. Quando uscii dal campo di quarantena per vedere l’arrivo degli americani, sentii tutto questo clamore e allora andai anch’io a vedere. E poi mi ritrovai, da quando ho il ricordo cosciente, mi ritrovai invece in una baracca insieme a tutti gli italiani. Quindi in quel periodo, in quei giorni – io non posso dire se sono stati tre, quattro, dieci, non lo so – quei giorni per me è un buco nero nella memoria. Ho solo dei flash. Ricordo di uno spagnolo che sgozzò uno dei kapò, di quelli che avevano accompagnato queste marce della morte appunto, e… aspettava dietro un angolo, questo era inseguito da un’orda di gente: no no, questo qui era tranquillo, lì appoggiato dietro l’angolo di una baracca; correva, girò l’angolo e si ritrovò una seconda bocca da orecchio a orecchio, con un gesto talmente veloce, talmente rapido, che quasi quasi uno, se non fosse stato per il sangue, non se ne sarebbe accorto insomma. Ho questo ricordo, e altri così. Ma il ricordo più gradito fu quando ripresi coscienza, e vedere gli amici, appunto, i compagni miei. Erano usciti, avevano rubato un grosso papero, e quindi ci mettemmo a cucinare questo papero con due latte di pomodoro da bere – quelle le avevo rubate io. E questo è stato il primo ricordo cosciente dopo la liberazione.
D: Marcello, il rientro in Italia.
R: Beh, il rientro, è stato un po’ particolare il mio, perché… Dunque, io non sapevo nulla dei miei naturalmente, e neanche i miei amici toscani che erano con me avevano saputo più niente dei loro. Quindi, al rientro a Bolzano, ci dissero che fino a Bologna c’era la possibilità di essere portati a Bologna. Da Bologna in poi non c’erano più comunicazioni sicure. Allora decidemmo di andare a Milano dove c’erano dei parenti di Focacce, di questo mio amico, “se sono ancora vivi si sa qualcosa, se non ci sono più neanche loro tante vale da Milano o da Bolzano la cosa è la stessa.” Invece avemmo notizie, sia i miei sia i parenti dei miei amici avevano superato il passaggio della guerra bene. Insomma erano tutti vivi, tutto a posto. Io avevo lasciato babbo, non sapevo dove, avevano detto che l’avevano ferito. Mio fratello non sapevo assolutamente dove, mamma e sorella in galera. E di me ovviamente non avevano nessuna notizia.
È stato più triste casomai, in un certo senso, il ritorno a scuola. Perché io sono rientrato il primo di luglio e poi, come se nulla fosse, mi sono presentato in ottobre a declinare ‘Rosa, Rosae’, lì al liceo scientifico di Prato, con una grossa incomprensione assoluta proprio sia degli insegnanti, ma anche della popolazione stessa che non si poteva assolutamente render conto del passaggio di quello che era un campo di concentramento. Ricordo appunto, l’ho raccontato tante volte, che il direttore lì del liceo scientifico, dopo aver sentito un po’ da mia mamma, insegnante anche lei, che avevo avuto queste peripezie, per un paio d’anni quindi non avevo frequentato non solo la scuola, ma non sapevo quasi neanche più scrivere. Stette a sentire molto interessato e poi alla fine concluse dicendo “sì, ma se non avrà seguito un corso regolare di studi, qualcosa avrà sicuramente letto nella biblioteca del carcere!” Questo tanto per far capire qual era il livello di conoscenza da parte dell’intelligenza di questa persona, su cui poi avevo dei dubbi già all’inizio, ma furono confermati ‘sti dubbi. Comunque, era una cosa abbastanza comune: cioè nessuno sapeva niente dei lager, quello che era successo, quello che era accaduto. In classe poi mi ritrovai un professore giovane, che aveva insegnato Mistica fascista fino a poco tempo prima, quindi fu una cosa molto… Io posso dire che tutti i miei studi, la mia avventura non mi ha fatto fare un passo avanti, diciamo, assolutamente. È stato solo quando, recuperando un anno, il commissario – che non mi conosceva per niente, però seppe un po’ della mia storia – cercò di aiutarmi perché io mi ero rifiutato… cioè, rifiutato… non avevo preparato due materie del terzo liceo scientifico: feci il salto in quinta, e lui venne lì a insistere perché dessi anche Storia e Scienze, che non avevo preparato. Questo è stato l’unico aiuto, se così si può dire, che ho avuto durante il mio corso di studi insomma.
D: Marcello, tu complessivamente quanti mesi hai fatto nei lager?
R: Dunque, io sono stato arrestato – si fa subito i conti – il 9 giugno del ‘44. Sono arrivato a Mauthausen il 24 giugno, sono stato liberato il 5 di maggio e sono rientrato il primo di luglio. Totale sono tredici mesi, di cui nove tutto di lager.
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