
Romolo Pavarotti
Nato il 24 ottobre 1925 a Milano
Intervista del 3/8/2000 a San Remo (IM), realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari
TDL: n. 40 – durata: 42’
Arresto: febbraio 1944 dall’Ufficio Politico Investigativo (UPI) a Milano in casa per delazione; aiutava donne e bambini ebrei a passare il confine fra la Lombardia e la Svizzera
Carcerazione: Milano, Carcere di San Vittore
Deportazione: Reichenau-Innsbruck; Mauthausen, matricola n. 57.612; St. Lambrecht e Redl-Zipf (“Schlier”), sottocampi di Mauthausen
Liberazione: 5 maggio 1945, durante la marcia della morte partita da Schlier
Nota sulla trascrizione della testimonianza:
La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.
Mi chiamo Romolo Pavarotti. Sono nato il 24.10.1925 a Milano.
Per gli spagnoli ero Ramon… [per i] deportati, spagnoli deportati, ero Ramon. Sono stato arrestato nel febbraio del ‘44 dall’Upi, l’Ufficio politico investigativo di Milano, che aveva sede in via Schiapparelli. Lì mi hanno trattenuto per otto giorni, interrogato sulle vicende dei fratelli caduti sul San Martino di Varese. Ovviamente sono stato seviziato, dopodiché, dopo otto giorni mi han portato a San Vittore.
D: Scusa Ramon, ti hanno arrestato dove?
R: In casa.
D: A Milano?
R: No, io ero andato di sfuggita in casa. Cioè, io ero latitante, facevo… sempre vicino a Varese ho portato ebrei in Isvizzera [Svizzera, con ‘I’ prostetica, ndr], facevo volantinaggio, portavo le armi, facevo tutto quel lavoro lì. Quando mi hanno arrestato è perché qualcuno mi ha visto, che io – erano case popolari – sono entrato di notte, verso le 2 le 3. Alle 5 erano già lì a prendermi.
D: A Milano questo.
R: Ero clandestinamente in casa, qualcuno si vede che ha…
D: Tu facevi parte di qualche organizzazione?
R: No, perché prima erano gruppi paramilitari, non esisteva ancora il partigiano. […] Ecco, facevo parte di gruppi paramilitari, che in un primo tempo, già nel settembre, dopo l’8 settembre, attraverso segnalazioni dei carabinieri, coi due fratelli e lo zio materno siamo andati sui monti di Tirano. Dopodiché, cacciati dai tedeschi, abbiamo riparato sulla Bergamasca, a Zambla. Anche lì erano i primi tempi di queste formazioni militari. Abbiamo dovuto anche lì fuggire da lì e siamo andati tutti sul San Martino di Varese, dove il colonnello Croce, comandante del Savoia Cavalleria, aveva costituito un gruppo paramilitare della Resistenza. Quando siamo arrivati al San Martino i miei due fratelli e lo zio sono rimasti sul monte, io invece sono stato aggregato a dei gruppi che portavano ebrei in Isvizzera. Dopodiché la fornitura di armi, volantinaggio, fare dell’antifascismo, in latitanza ovviamente.
Sono stato arrestato perché di notte ho voluto andare a trovare i miei genitori, e dopo un paio d’ore l’Upi mi ha arrestato. Mi ha appunto portato dove avevano la sede, in via Schiapparelli a Milano, seviziato per otto giorni. Dopodiché sono finito a San Vittore, e ci sono rimasto una notte, e siamo partiti per Mauthausen.
D: Ti ricordi quando siete partiti per Mauthausen?
R: Lì c’è quel libro di… che lo dice, lui mi pare che dica… perché non siamo partiti [subito] per Mauthausen, però noi ci siamo fermati otto giorni a Innsbruck, a Reichenau, dopodiché siamo andati a Mauthausen. Forse era i primi di marzo, cosa vuoi che dica… i primi di marzo…
D: Ti ricordi, da San Vittore ti hanno portato alla Stazione Centrale a Milano?
R: No, sotto la stazione.
D: E vi hanno portato come?
R: Con camion, con camion. […] Come dicevo sono rimasto una notte, con altri prigionieri politici, un centinaio. Con i camion ci han portati sotto le gallerie della stazione, caricati su due carri merci, carri bestiame lo chiamavamo noi, diretti verso Mauthausen. Però abbiamo avuto una sosta a Reichenau, Innsbruck, in Germania, Austria… in Germania a quell’epoca, e lì siamo rimasti altri otto giorni. Dopodiché, denudati di tutto, ci hanno portato a Mauthausen. Siamo arrivati…
D: Di Reichenau, di questo campo di Reichenau, di Innsbruck, cosa ti ricordi? Ti hanno immatricolato lì?
R: No. No.
D: E stavate tutto il giorno dentro nel campo?
R: Dentro in una baracca.
D: C’erano molte baracche che tu ricordi?
R: Sì, c’erano delle altre baracche, non molte però, altre baracche. Poi è diventato un campo di concentramento di transito.
D: Dopo otto giorni vi hanno ricaricati di nuovo…
R: E portati a Mauthausen.
D: Sempre lì a Reichenau, c’erano molti italiani? Solo italiani o anche altri?
R: Sì, sì, sì, italiani. Era una baracca di soli italiani.
D: L’arrivo a Mauthausen come te lo ricordi?
R: Da Reichenau, dopo otto giorni, ci hanno trasferiti, sempre su carri bestiame, a Mauthausen. Siamo scesi alla stazione e subito abbiamo avuto delle brutte sensazioni, tutti, perché c’erano le SS, coi cani che abbaiavano, loro gridavano, non si capiva nulla. Dopodiché siamo marciati verso Mauthausen, che è sulla collina dell’entroterra di Mauthausen. Dico un particolare, che, diciottenne come me, passando per il centro di notte, ho visto che c’è un cinema, e al mio compagno vicino ho detto: “Probabilmente domani veniamo a vedere un bel film!” Purtroppo, quando siamo arrivati sulla cima a Mauthausen, all’entrata di Mauthausen, la sensazione era proprio di terrore totale, perché tutta la coreografia era proprio di terrore. Gridavano, gridavano, gridavano. Dopodiché siamo finiti all’interno del campo, e tutti siamo andati alla doccia, al Waschraum, lo chiamavano loro. Dopo la doccia ricordo che, seminudi – ci hanno rasato il pelo da tutte le parti – e seminudi, con la neve che era nella piazza, era caduta, a piedi nudi siamo corsi al blocco. E lì al blocco numero 16, che era il primo blocco di quarantena, in quei pochi giorni che io sono rimasto, le sensazioni erano veramente brutte, bruttissime. I kapò cominciavano a pestare, cominciavano a esserci le punizioni, e quant’altro. Io però, dopo tre o quattro giorni è venuto un SS con un kapò, han chiesto di un elettricista, di un muratore, di un idraulico e di un falegname, e io ho alzato la mano dicendo che ero elettricista. Allora sono uscito fuori con gli altri tre, e il giorno seguente siamo partiti per un campo dipendente da Mauthausen, a Sankt Lambrecht, che è nella Carinzia.
D: Scusa Ramon, eri già stato immatricolato?
R: Sì, alla baracca ci hanno immatricolato.
D: E il tuo numero te lo ricordi?
R: Certo. Prima di partire in Mauthausen sono stato immatricolato col numero cinquantasette seicento dodici [57.612], che in tedesco voleva dire Siebenundfünfzigtausend sechshundertzwölf.
D: Oltre al numero, ti hanno dato anche qualcos’altro?
R: Sì, mi hanno dato una fascetta di metallo da mettere attorno al braccio… al polso. E invece la scritta su del panno bianco, col triangolo rosso con l’ ‘i ti’ [‘IT’] me l’hanno messa sulla giacca e poi al fianco del pantalone destro.
D: Quindi in un gruppetto di deportati siete state portati in uno dei sottocampi. Il viaggio come l’avete fatto da Mauthausen a questo sottocampo, a Sankt Lambrecht? Com’è che lo avete fatto?
R: Il viaggio da Mauthausen a Sankt Lambrecht, pare assurdo, ma l’abbiamo fatto su un treno normale, in mezzo alla altra gente, un po’ separati ma c’era altra gente. Ovviamente eravamo tutti ammanettati. Quando siamo scesi in questo paese, anch’esso bellino, ci hanno portato in un castello, il castello principale di questo paese, e lì, al primo piano di un’ala del castello, c’era questo piccolo lager che era un commando di ottanta uomini e dieci donne. Dopodiché mi hanno assegnato un lavoro su in montagna, a tagliare pini, portarli a valle, caricarli sui camion, portarli alla stazione e caricarli sui vagoni. E questo lavoro l’ho fatto per due o tre mesi, dopodiché c’è stato un avvenimento che stava per cambiare letteralmente la mia vita. Cioè, un deportato di nome Meda, che io ho conosciuto solo lì, che era nel mio gruppo di dieci che s’andava con un commando a lavorare su nei boschi. Dopo un po’ di tempo questo Meda… Era abitudine, quando si aveva dei bisogni, di chiedere alle SS “Commando Führer… Abort”, cioè dovevo fare i miei bisogni. Il Commando Führer ti lasciava andare nel bosco, il bosco era grande, e la sicurezza era piuttosto allentata perché, oltre al comandante, c’erano quattro delle SS. Un bel giorno questo Meda non rientra dai suoi bisogni e il Commando führer mi chiama “Italienisch, komm[st] Hier”, vieni da me, “Wohin [Wo ist] der andere Italienisch?”, dov’è l’altro italiano? Io ho risposto “Commando Führer, weiß Ich nicht, weiß Ich nicht”, io non lo so, “[…]”, cioè “cercalo, cercalo, cercalo!”. E io ho incominciato a chiamare “Meda, Meda, Meda”. Purtroppo il Meda oramai se ne era andato. Immediatamente siamo rientrati al campo, subito dopo mi han dato la punizione, che loro chiamavano minima, di 25 nerbate sulla schiena. Ad esempio… degli altri sapevano la punizione che aspettavano. Oltretutto io ero anche indiziato come collaboratore della fuga del Meda, ma che non era vero, era la deduzione che hanno fatto loro, quelli della SS.
Otto giorni solo al campo, al lager, questo piccolo lager, in attesa del mio destino. Nel contempo però avevo gli spagnoli. Ero giovanissimo, mi volevano molto bene, in particolare Agapito, che mi faceva da papà, da fratello, da amico, che mi reggeva. Mi diceva: “Ramon, devi avere fiducia, non perderti d’animo, io farò di tutto perché tu possa non andare alla Straf compagnia, dove la morte era certa rientrando a Mauthausen. E Agapito, che era lì dal 1940, quindi eran già quattro anni circa che era lì, e che già conosceva il tedesco, e che lavorava nella vaccheria del colonnello della SS, che era padrone di quei terreni, mi portava da mangiare di nascosto. Lui aveva accesso alla villa del colonnello, perché oramai sapendo bene il tedesco avevano fiducia in lui, andava anche a fare lavori in casa nella villa del colonnello della SS. In quell’occasione, un giorno, prima che prendessero il Meda, il colonnello disse – lui sentiva perché era in casa – “I due italiani li fucileremo non appena preso il Meda, perché deve essere d’esempio a tutti gli altri deportati che fuggire vuol dire morte.” Sentendo questo, Agapito si rivolge al colonnello della SS, e come diceva lui “ho detto una mentida, una grande”. Ha detto al colonnello della SS: “Ma Ramon no es… non è un italiano, es un Espanyol!” Il colonnello l’ha presa per buona, quindi la fucilazione non c’è stata, c’è stato il rientro al campo. Prima di partire però Agapito mi ha detto: “No te preocupe, non ti preoccupare che come arrivi vedrai che ti viene a prendere uno spagnolo e ti porta al blocco degli spagnoli.” Perché questa era una delle assurdità dei campi di sterminio insomma. E così abbiamo fatto il viaggio.
Il Meda l’hanno preso, l’hanno conciatissimo, perché l’ha preso la Gestapo. Lui commise l’errore dopo otto giorni di andare a chiedere da mangiare a due vecchi in montagna; loro gli han detto “sì però devi lavorare”, e nel contempo uno dei due vecchi è andato al paese ad avvisare la Gestapo che poi l’ha preso. E insomma, quando è arrivato a Sankt Lambrecht, nel campo, era conciato da buttar via. E lì c’è un episodio che segue, perché il comandante della SS ancora ha voluto che io, che non ero… non avevo colpa per la sua fuga, dovessi restituire il ‘Fünfundzwanzig’ che io ho preso. Così è stato. Mi han dato questo nerbo… mi han dato questo nerbo, io l’ho preso in mano, picchiavo, ma dato che non picchiavo forte, loro mi dicevano “zu schwer, zu schwer, più forte, più forte, si fa così, si fa così!” E alla fine, povero Meda insomma, ne ha prese tantissime altre, conciato com’era. In attesa di rientrare al campo, mentre tutto il commando andava a lavorare, io avevo cura di lui, diciamo così, tra parentesi, anche con una rabbia incredibile, però cercavo di curarlo, di dargli da mangiare per quel poco che c’era, e di parlare [del] perché è fuggito. La verità è che lui, d’accordo col […] master, che era il maestro del taglio, facendogli un’offerta… a furia di insistere su un’offerta di un mucchio di dollari che avrebbe lasciato su una banca di Lugano, è arrivato il giorno che questo gli ha preparato il sacco della fuga con dentro vestiti e da mangiare. Dopodiché è successo che lui non è riuscito a arrivare in Italia e si è fermato da quei due vecchi, e poi è rientrato.
D: Ecco, lì da Sankt Lambrecht poi tu sei rientrato a Mauthausen.
R: Sì, da Sankt Lambrecht appunto siamo rientrati a Mauthausen, e la bella… Con tutte le preoccupazioni che avevo io, ma non più di tanto, perché credevo ciecamente al compañero Agapito, quando sono arrivato lì, siamo stati lì la notte. Ovviamente, nella notte, sia SS che kapò, ubriachi dello Snaps. Lo Snaps era… prendevano la benzina e la filtravano e facevano questo Snaps che era 70-80 gradi. Si ubriacavano, e ogni volta che passavano via – noi eravamo legati a degli anelli di ferro, con una catena – si divertivano a… perseguitarci, insomma. Però alla mattina, all’alba, viene un SS con un kapò, prendono il Meda, e va. Non so dove può essere andato, sicuramente alla Straf compagnia. Viene un altro SS, con un Español, che mi prende in consegna, mi porta giù al Waschraum a lavarmi, mi dà dei vestiti, e poi mi porta al blocco 16, che era il blocco degli spagnoli… al blocco 12, che era il blocco degli spagnoli. E lì mi volevano tutti bene perché tutti sapevano la mia storia, tant’è che, avendo la mia qualifica di elettricista, sono riusciti ad inserirmi nel Commando Elettric. Il Commando Elettric era molto vicino al Krematorium. Il mio compito era, con la borsa delle lampadine, girare attorno al campo e cambiare le lampadine bruciate. Ovviamente questo lavoro mi consentiva di vedere tutto ciò che succedeva e sentire tutto ciò che dicevano. E quindi vedere anche gli orrori che succedevano, le fucilazioni che facevano contro il muro del Krematorium. E poi, un’altra scena che era normale tutti i giorni, è che quando ti alzavi e giravi il campo vedevi i reticolati dove passava un’elettricità a 5000 volt, c’erano sempre deportati che si aggrappavano per morire, per finire la loro vita, tremenda vita. Andavo pure a cambiare lampadine al Politische Abteilung, che era la baracca dell’Ufficio politico, e andare lì, sentire le grida degli interrogatori che le SS facevano era una cosa che… Ma oramai per me era diventata, diciamo così, una normalità. Facevo finta di non vedere, di non ascoltare. Però poi, considerato che eravamo al Commando Elettric, quando aggiustavano le radio delle SS, avevo la possibilità di sentire Radio Londra: quando gli altri deportati giravano la manovella delle radio, ad aggiustare, e sentivo anche le notizie com’erano, che poi io riferivo a un gruppo di antifascisti – c’era un gruppo, Pajetta e tanti altri, internazionale, nazionale e internazionale – e riferivo quello che sentivo alla radio, certamente con molta discrezione perché…
D: Ramon, ti ricordi quando sei tornato da Sankt Lambrecht a Mauthausen? Che periodo era più o meno, te lo ricordi?
R: Aspetta, fammi pensare. Era… Dunque, io sono andato a marzo, sono stato lì tre o quattro mesi – aprile, maggio – a giugno inoltrato sono rientrato.
D: Sei sempre rimasto poi a Mauthausen?
R: No! Io sono rimasto a Mauthausen altri dieci mesi, sempre lavorando nel Commando Elettric, dopodiché per un… Debbo dire che la SS che comandava il Commando Elettric era un SS di Merano, parlava un veneto bastardo, e per il primo mese mi perseguitava, “tu fascista, tu Badoglio, tu partisan, tu qui tu là”, e io negavo in assoluto, che non era vero, che ero in un cinema e che mi hanno preso in questo cinema. Dopo un mese di torture psicologiche, un giorno lui mi dice “guarda che se il kapò ti fa qualcosa di male me lo vieni a dire che io lo metto a posto.” Io ho sofferto le attenzioni del kapò per dieci mesi, specialmente quando andavo a lavare la centrale elettrica, mi disgustava quello che faceva, anche se non mi ha mai messo mani addosso. E un bel giorno, così, il Comando Führer mi dice “come va col kapò?”, e allora io dissi “quello fa sempre il cretino di fronte a me…” Non l’avessi mai detto. Il giorno dopo, due giorni dopo, mi hanno trasferito a Schlier, un altro campo dove ne sono uscito 42 chili, con la tbc, la flebite, la laringite, la faringite, la bronchite, insomma, sono uscito distrutto da questo campo. Lì noi operavamo in gallerie e si trapanavano le pareti delle gallerie, dove avrebbero messo la dinamite per far saltare tutto, perché in quelle gallerie veniva prodotto il propellente delle V1 e V2. Erano dei grandissimi serbatoi che venivano collocati su dei binari, tipo tram e treni, con direzione… in quel periodo si diceva ‘Inghilterra’. Quando questi serbatoi qui erano pieni di carburante, diciamo così, alla testa del serbatoio mettevano un’ogiva, che era una specie di bomba atomica, che poi veniva lanciato a Londra, Coventry, eccetera.
Senonché lì i tempi stringevano, da mangiare non ce n’era più. Oramai si sentivano bombardieri, i bombardamenti degli americani, dei russi, delle truppe alleate, diciamo così, e quindi la fine era vicina, tant’è che a fine febbraio… no, a fine aprile, si è incominciato ad evacuare il campo. Dei gruppi che ormai non si sostenevano più in piedi venivano caricati sul camion e portati al crematorio di Ebensee, gli altri invece che ancora potevano camminare come me, abbiamo fatto la marcia della morte. In questa marcia della morte, senza mangiare, camminare tanto, i bombardamenti continuavano, ci abbiamo impiegato sei o sette giorni a fare 80-100 chilometri per arrivare a Ebensee. Adesso non mi ricordo, il quinto o sesto giorno, noi vedavamo che tante SS di notte scappavano, rimanevano i più criminali. E di questo ci si accorgeva, quindi, specialmente gli spagnoli che erano ancora in sesto, erano molto attenti: “se arriva un qualche cosa particolare ci difendiamo.” Siamo arrivati dopo cinque giorni, siamo arrivati a un bivio di una salita – cinque o sei giorni – un bivio di una salita che conduceva poi a Ebensee. E lì, già prima di iniziare questa salita, ci han fatto riposare un attimo. Nel frattempo, noi abbiamo – guardando alto – abbiamo visto un grosso carro armato che si affacciava alla discesa, e a fianco con due jeeps, abbiamo capito che stavano per arrivare gli americani. Quel tempo per gli americani di arrivare dove eravamo è stato sufficiente perché le SS han cominciato a dire “Ich gut, Ich gut, Ich gut, noi non siamo stati cattivi con voi e quindi ditelo agli americani”, ma nel frattempo alcuni deportati hanno ucciso un gruppo di SS. Quando sono arrivati gli americani, che filmavano tutto, ci han lasciato altro tempo libero, dopodiché finito “ora vi portiamo in un campo di quarantena.” In quel frattempo, pur conciato da buttar via, ho avuto – dato che eravamo a ridosso di una via principale – ho avuto la grande gioia di vedere una macchina militare con su una bandiera italiana. E allora, con vicino me un altro italiano – che poveretto aveva 16 anni, aveva due anni meno di me – ho visto questa macchina, ho detto “qui, se andiamo in quarantena…” Allora ho chiamato “italiano, italiano, italiano, italiano”, e questi qui si sono fermati, ci hanno caricato, e poi ho detto “adesso portate via tutto quello che c’è da portar via”, dai carri, dove c’era ogni ben di Dio, si sono riforniti di ogni ben di Dio. Nel frattempo io, avendo ancora il terrore che potesse succedere qualcosa, mi ricordo che ho preso una tuta di una SS, verdastra, sgualcia, sporca, e mi sono levato subito il mio vestito a righe, per dire “se mi fermano ancora sono…” Così ho fatto, però quel vestito lì me lo son tenuto, mi sentivo più libero. Con questo gruppo di italiani…
D: Scusa un attimo Ramon, quando sei stato liberato, ti ricordi la data più o meno?
R: Sì, sì. Ovviamente sono stato liberato alle 6 di sera, alle 18 di sera, del 5 di maggio, che è stata contemporaneamente anche la liberazione di Mauthausen. Quindi c’è stata una coincidenza: si vede che le truppe in quel momento lì non trovavano resistenza, e quindi…
D: Un’altra cosa, in quest’altro sottocampo dipendente da Mauthausen, che si chiama dicevi?
R: Schlier.
D: Ecco, lì ti hanno immatricolato ancora?
R: No.
D: Eravate tanti italiani in questo sottocampo qui?
R: No. In quest’ultimo campo di Schlier la prevalenza erano francesi. Gli italiani erano pochissimi, veramente pochi, e quindi il dialogo era quasi sempre coi francesi, coi kapò, eccetera eccetera. Quindi questi francesi qui io li ho poi trovati, tant’è che mi sono iscritto anche all’Amicale de Mauthausen, perché loro volevano che mi iscrivessi, e sono iscritto tutt’oggi, e quindi partecipo anche ai loro incontri internazionali. Sono cose belle, però…
D: Ramon, ritornando allora alla macchina, quando tu hai fermato la macchina…
R: Con questa macchina, con questi militari italiani, abbiamo girovagato otto giorni, però col pericolo che i posti di blocco americani ci requisivano la macchina. E questo è successo più volte, almeno tre volte o quattro. Però, essendoci dei meccanici dentro, si andava in un campo dove c’era le macchine parcheggiate, mettevano in moto un’altra macchina, abbiamo continuato e siamo arrivati a Bregenz, sul lago dei tre Cantoni, Svizzera, Germania, Austria. E lì c’era un comando americano in un albergo. Questo comando prendeva metà di questo albergo. La proprietaria era una spagnola, e avendo vissuto tanto con gli spagnoli conoscevo abbastanza bene lo spagnolo, son andato a parlare a nome degli altri al titolare di questo albergo, gli dissi “fermi qui una notte, domani andiamo in Svizzera, passiamo il confine e andiamo in Svizzera.” Così è stata. Abbiamo passato una notte lì, ci han rifocillato, e all’indomani siamo partiti per il confine svizzero. Purtroppo lì non facevano passare nessuno, ci hanno ritornati indietro. Abbiamo dovuto ritornare a Innsbruck nel campo di Reichenau dove all’inizio c’ero già stato; e lì c’era un grosso concentramento di italiani che dovevano rientrare […] per Bolzano, dove c’era un campo di raccolta di tutti questi deportati, anche degli ospedali attrezzati per poterli… Anche lì ci siam fermati alcuni giorni, dopodiché è arrivata una colonna della Pontificia Commissione di Assistenza, han formato questo gruppo. Col mio amico ci siam dati da fare per rubare, tra virgolette, un camion, che sarebbe rimasto poi di nostra proprietà. Questo camion si è unito alla colonna della Pontificia Commissione Assistenza, e poi, quando siamo arrivati a Bolzano, lì c’era un altoparlante, con tanta gente, familiari che attendevano di vedere se i loro familiari si erano salvati o meno. E lì, come sono arrivato io, ma tanti altri, subito hanno fatto il mio nome, “Pavarotti Ramon, Romolo”, e la cosa è stata subito recepita dai pompieri della Pirelli, che era la ditta in cui lavorava mio padre, ha lavorato cinquant’anni. Quando han sentito… quando han sentito “Romolo Pavarotti” son venuti a prendermi subito, mi han caricato sulla Croce Rossa e mi han portato a Milano. A Milano c’è un centro di raccolta all’Alfa Romeo, sono arrivato lì – oramai il mio papà lo sapeva, gli amici lo sapevano – sono arrivato come se fossi un eroe. Dopodiché mi han portato a casa perché vedessi i miei genitori, e subito dopo mi han portato all’Ospedale Maggiore di Milano, dove ci sono stato per circa due mesi. Poi sono uscito, sono andato in convalescenziale, sono andato in sanatorio, e dopo dieci anni ho avuto anche una brutta ricaduta, dalla quale mi sono rimesso.
Dopodiché le cose da un certo punto di vista economiche sono andate un po’ meglio, mentre purtroppo ho avuto anche la disgrazia di perdere due figli, e forse quello è stato il dolore più grande, ma non solo quello. Ho saputo – in effetti l’abbiamo saputo dieci anni dopo – perché i fratelli e lo zio sono stati letteralmente fucilati e trucidati sul San Martino di Varese dalle SS, dai fascisti, messi in fosse comuni. E dopo dieci anni c’è stata la riesumazione, con il riconoscimento della morte presunta, e tutti quei ragazzi, trentasette ragazzi, che sono finiti in quelle fosse, sono stati tutti collocati nell’ossario del Monte San Martino, dove è stato eretto un grosso monumento. Debbo dire che quei dieci anni, particolarmente per i miei genitori… ma io già l’avevo dato [per scontato], conoscendo più le cose, addentrandomi nelle cose, che non sarebbero più tornati, e invece i miei genitori speravano sempre che loro fossero riparati in Isvizzera, alla fine della battaglia, come tanti altri paramilitari del San Martino, e che fossero da lì andati in Russia perché avevano dei grandi ideali. La mia famiglia ha sempre avuto dei grandi ideali. E dopo c’è stato questo riconoscimento di morti presunti, i cadaveri non sono stati riconosciuti, e appunto sono finiti tutti nell’ossario.
D: Ramon, chi ti ricordi dei tuoi compagni di deportazione? Oltre al Meda che dicevi che è scappato, chi altri ti ricordi?
R: Ricordo quelli del mio gruppo, che siamo arrivati, e che quindi c’era un rapporto di amicizia, di stima, di condivisione, dei perché siamo stati arrestati, per difendere, diciamo così, la democrazia, dal fascismo.
D: Qualche nome Ramon, qualche nome…
R: Eh di nomi, beh… c’era Ratti, c’era… Marostica, e poi… e tanti altri, in questo momento non mi ricordo proprio il nome. Ma l’amico più grande, il mio ‘Number one’, il mio numero uno, è stato Agapito, perché con quello che ha fatto, con la ‘mentira’ al colonnello della SS, che capiva che aveva detto una grossa bugia ma che ha voluto accettarla per buona, è stato possibile salvarmi la vita. Agapito era un Españolo che a 16 anni ha combattuto la Guerra civile di Spagna. Si è poi rifugiato in Francia, dopodiché è andato nella legione straniera, e dopodiché è andato nell’esercito francese, e purtroppo, raggirando la Maginot i tedeschi… loro erano nei campi vicino alla linea della Maginot, sono stati tutti presi, letteralmente portati a Mauthausen, e i nove decimi sono stati in breve tempo – lavoravano la cava della morte, la ‘Straf compagnia’ si chiamava – sono quasi tutti deceduti perché il lavoro della cava, della ‘Carriera’, come la chiamavano gli spagnoli, era durissimo. Grazie a Dio, appunto, invece il mio amico Agapito si era salvato, e ha salvato anche me, e gli debbo la mia vita. Pensare che lui, non avendo il mio… non avendo io il suo indirizzo, perché rientrando se si fosse salvato non poteva andare in Spagna, lui mi ha… io ho dato a lui il mio indirizzo, “se ti salvi scrivimi!” Il destino ha voluto che invece, purtroppo, per un cambio di indirizzo mio, ci siamo visti dopo 44 anni a Padova. Una cosa stupenda, meravigliosa, eccezionale. Poi io sono andato a trovarlo a Carcassonne, dove abitava, con la moglie, i figli, un paio di volte. Sono andato a un congresso di Perpignan, e l’ho trovato anche lì. Dopodiché lui, venendo via da Padova e trasferendomi a San Remo, è pure venuto a trovarmi a San Remo, e dopodiché non l’ho più visto. Ultimamente gli mandavo sempre lettere, avevamo un rapporto epistolare molto stretto, molto bello. Lui aveva incominciato a scrivere anche un libro, che io tengo, che è scritto in Españolo, ma realizzato in Spagna a Soneja, che era la sua città di nascita, dove era considerato un eroe, ma lui ha voluto tornare ancora in Francia, a Carcassonne. E in quest’ultimo periodo lui è stato poco bene, è stato all’ospedale cinque mesi, io non avevo più sue notizie. Finalmente – sia telefonare… non riuscivo più a comunicare – finalmente mi ha mandato una lettera, con un libro, scritto da lui “Sobrevivir a Mauthausen” [Agapito Martín Romaní, Sobrevivir a Mauthaussen, Segorbe (Castellón), Edición propia, 1997]. È l’ultimo messaggio… l’ultimo messaggio che mi ha lasciato, perché quindici giorni or sono è morto, e non posso più rivederlo. Ma non lo dimenticherò mai. Mai.
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