Fumolo Dario

Dario Fumolo

nato il 4 maggio 1920 a Udine

Intervista del 26/06/2000 a Udine

realizzata da Carla Giacomozzi e Giuseppe Paleari

TDL: n. 22 – durata: 60’

Arresto: 13 agosto 1944 a Udine

Carcerazione: Udine

Deportazione: Buchenwald (Matr. 22.542); Dora-Mittelbau (Matr. 22.542)

Liberazione: 8 aprile 1945 a Dora

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Sono Fumolo Dario. Anzi, anagraficamente Dorio. Comunque, vengo chiamato Dario. Sono nato a Udine il 4 maggio 1920.
La mia storia ha bisogno di una premessa. La premessa della mia condizione di militare nell’aeronautica, nella 36ª squadriglia di osservazione aerea, dove, fin dall’inizio della guerra ho fatto servizio. Devo dire appunto che presso questa squadriglia ho conosciuto una persona che già avevo incontrato da ragazzo, Vignando Mario. Dico il nome perché è un personaggio importante che occupa parecchio spazio nella mia storia.
Quando è accaduto che c’è stato l’armistizio l’8 settembre 1943, io l’ho perso di vista il Vignando. Abbandonato il campo… l’aeroporto di Lucca, dove mi trovavo in quel periodo, con la mia fida bicicletta, con la quale veramente posso dire di aver fatto la guerra, sono partito e mi sono diretto verso casa, verso Udine, con le difficoltà che si possono comprendere. In due giorni, attraverso il passo della Porretta, sono arrivato a casa e naturalmente ho fatto in modo che la mia presenza fosse stata notata il meno possibile, data la situazione e dato il momento particolare nel quale mi trovavo. È successo poi che la costituzione della Repubblica Sociale Italiana ha fatto sì che anche a me, come ad altri ex aviatori, fosse giunt[a] una lettera dove mi si imponeva di presentarmi al comando della ZAT di Padova – Zona Aerea Territoriale di Padova – per riprendere servizio con l’aeronautica repubblichina. Questo fatto mi mise in crisi, perché in me era maturata la convinzione che la guerra che avevamo fatto non era una guerra giusta, era una guerra di aggressione, e successivamente, piano piano mi sono convinto che anche la politica che aveva portato avanti l’Italia e soprattutto il Fascismo, non era giust[a], non poteva essere una politica da approvare, specie dopo le prove che avevo sopportato e subìto in una guerra difficile e logorante.
Quindi ho deciso di non presentarmi e di darmi un pochino anche alla latitanza. Per questo molto spesso, anziché dormire a casa, trovavo ospitalità presso un contadino che abitava nei paraggi miei. E così cercavo di dare nell’occhio il meno possibile. Però ho mantenuto – visto che il Vignando era tornato pure lui a casa – ho mantenuto dei rapporti con questa persona, con questo amico. E questo fatto è stato per me di un’importanza estremamente grave. Perché lui aveva conosciuto un ex militare sbandato [che] è rimasto intrappolato in Friuli, a Udine, [che] non riusciva più a tornare al suo paese di nascita e di residenza, e quindi non so come vivesse. Certamente era qui, era a Udine, nella nostra città. È successo anche che per restituirmi un libro che il Vignando mi aveva prestato, un giorno sono capitati a casa mia ambedue, e quindi questo signore ha potuto vedere anche dove abitavo, oltre che ad aver conosciuto il mio nome in precedenza. Succede che questa persona in un bar viene arrestat[a], perché ad un confidente della SS – o comunque della polizia tedesca – che lui non credeva tale, aveva fatto vedere che lui girava armato di una pistola e che lui conosceva parecchi personaggi vicini al movimento di Resistenza. È successo con questo [fatto] che lui è stato arrestato. E con gli interrogatori che aveva subito, probabilmente anche abbastanza violenti, aveva fatto il nome di tutte le persone che aveva conosciuto, compreso il mio, facendo delle accuse anche particolarmente pesanti. Per esempio, io ero accusato di avere fatto dello spionaggio a favore dei partigiani sulla consistenza delle forze armate tedesche a Udine, in particolare di una caserma delle SS, con i loro movimenti e la loro presenza. Quindi una cosa molto, molto grave per la mia situazione. A un certo punto la SD – la polizia di sicurezza tedesca – prepara una retata e una mattina, molto presto, tutte le persone che erano state implicate da questo personaggio, implicate nella nostra vicenda, sono state arrestate.
Quella mattina io dormivo a casa mia per sfortuna, e ho sentito una macchina fermare davanti sulla strada. Affacciatomi alla finestra – eravamo in agosto, era il 3 agosto del 1944 – ho visto che in assetto di guerra, in assetto di combattimento, scendevano da due-tre macchine dei tedeschi [che] circondavano la mia casa. Al che io, che avevo preparato una specie di rifugio, sono uscito di casa velocemente, avvertendo mio padre che stavano arrivando i tedeschi, e mi sono messo in questo rifugio, che avevo creato al di là di un cortiletto, nel retro della casa. Queste persone [delle SS] erano accompagnate da due repubblichini, armati di mitra, in borghese e molto violenti. Diciamo che mentre i tedeschi entrati in casa erano passivi, questi [repubblichini] si davano da fare per chiedere dov’ero io, e chiederlo con violenza, con insistenza, insistendo con mio padre che dicesse dov’ero. Mio padre, da me istruito, aveva detto che io ero stato arruolato, che mi ero portato nella zona di Verona, che facevo servizio in un aeroporto, che peraltro lui non conosceva per ragioni di segreto di guerra.
Non potendo provare quanto diceva, questi repubblichini si fecero ancor più violenti e minacciarono di bruciare la casa se io non mi fossi fatto vivo. Al che [ad] una mia sorella – ne avevo due oltre che il padre presenti in casa – sono saltati i nervi, come si suol dire, e si è affacciata a una finestra chiamandomi e dicendo: “Qui bruciano la casa, devi uscir fuori!”. E quindi io ho dovuto abbandonare il mio rifugio, il mio nascondiglio, e naturalmente facendo del rumore, perché al di dietro della casa sapevo che… avevo anche visto passando velocemente un militare tedesco che impugnava il mitra. E naturalmente se avessi fatto le cose meno rumorosamente probabilmente avrebbe anche sparato. Ora questo, sentendo i rumori, si fa avanti e rompendo con la violenza un lucchetto a un piccolo cancello mi viene a prendere; io in pantaloni, scalzo, mani alzate, mi presento e dimostro di essere sicuramente non in condizioni di reagire. Quindi entriamo in casa. Questi due repubblichini hanno fatto man bassa di documenti, di cose, eccetera. Poi hanno portato fuori biciclette, hanno portato fuori le cose che più avevano secondo loro un valore immediato, e mi hanno fatto accomodare su una macchina della polizia tedesca assieme a mio padre e a una sorella. Quindi in tre persone abbiamo preso la via Spalato, dove tuttora ci sono le carceri a Udine.
Venni messo in una cella di isolamento, e quindi persi ogni contatto con la realtà, con la presenza dei miei, e anche senza conoscere il motivo per cui ero stato arrestato. E questo lo venni a sapere soltanto quando durante un interrogatorio da parte di un ufficiale tedesco e di un interprete italiano mi venne presentato questo personaggio che avevo conosciuto a Udine a fianco dell’amico Vignando, e capii. Venne chiesto a lui se io ero la persona di cui lui aveva parlato, e dopo il suo assenso venne subito portato via. Sicché con questo io capii che la questione del mio arresto era tutta dovuta a questo personaggio del quale conoscevo proprio niente. E così, dopo alcuni giorni, anche attraverso la regalia di una camicia fatta a un secondino, potei essere messo fuori dalla cella di sicurezza… di isolamento. Mio padre e mia sorella furono rimandati a casa e io mi trovai in una cella comune con altre quattro o cinque persone che erano lì in attesa del futuro nebuloso che a noi si sarebbe sicuramente presentato. Ed effettivamente una mattina siamo stati inquadrati e portati in stazione, dove sui soliti carri bestiame siamo stati rinchiusi e portati in Germania.

D: Ti ricordi che periodo era questo? Quando ti hanno portato alla stazione? In che mese?

R: Questo nostro trasferimento è stato eseguito il 24 agosto sempre del 1944. Dico questo perché a Buchenwald, dove eravamo diretti, sono arrivato il 28 agosto, dello stesso anno naturalmente. È stato un viaggio anche abbastanza tranquillo. Addirittura dopo la partenza hanno aperto gli sportelloni, perché i tedeschi avevano una loro tecnica per far sì che le persone che venivano deportate non perdessero mai la speranza che le cose andassero per il meglio; infatti eravamo tutti convinti di finire in qualche fabbrica, in qualche campo di lavoro, e attendere così in una situazione discretamente buona la fine della guerra che prevedevamo fosse discretamente vicina.
Invece ebbimo [avemmo, ndr] la delusione di ritrovarci in una bolgia infernale che non avremmo mai pensato potesse esistere, ed era il campo di Buchenwald. La visione di queste persone che attraversavano, passavano, intente ai loro lavori, fu orribile. Fu un’impressione orribile perché questa gente si presentava rasata di capelli, magra all’infinito, con questa casacca, con questi pantaloni zebrati, ed era una umanità che non pensavamo ci potesse essere. Lì cominciò la distruzione della nostra personalità, perché ben presto ci accorgemmo che anche noi avremmo dovuto fare la stessa fine e indossare gli stessi panni. Tant’è vero che, portati alle docce, fummo rasati la testa, i capelli rasati [e] depilati completamente, disinfettati con un ridicolo scopino immerso nella creolina, ed infine ci venne fatta la doccia e mandati nudi così come eravamo rimasti – ci avevano tolto naturalmente tutto – e quindi ci ritrovammo senza possedere alcunché alla vestizione con questo che avevamo visto: questi giacconi rigati e questi pantaloni. Ed è così che poi fummo mandati in una baracca dove ci fecero fare una breve quarantena, iniettandoci anche dei medicinali o dei sieri che potevano contrastare le malattie che nel campo erano le più diffuse: tifo petecchiale, colera ed altre malattie. Dopo questi brevi giorni… anzi, devo dire che durante questa permanenza, a un certo punto fummo chiamati: ormai avevamo soltanto un numero, il nostro nome non veniva più pronunciato.


D: Ti ricordi il tuo numero, Dario?


R: Il mio numero era il ventidue cinque quarantadue, 22542. Dovetti impararlo anche velocemente in lingua tedesca, perché vedevo che se non c’era la comprensione alla chiamata cominciavano a piovere le botte. Quindi fu giocoforza imparare questo numero velocemente. Devo dire che chiamarono il nostro numero, il mio e quello di Vignando, e poi chiedendo quale dei due conoscesse meglio il francese. Siccome lui lo conosceva meglio gli dissero di prepararsi e di andare assieme alla persona che lo aveva preso in consegna. Questo mi ha fatto sospettare, visto poi anche l’esperienza che ho avuto: dove mai una persona singola era stata chiamata? Mi fece sospettare che la lunga mano della polizia di Udine fosse intervenuta per eliminare immediatamente appena arrivato nel campo il mio amico Vignando, tanto è vero che non l’ho più visto e non è più rimpatriato, anche alla fine della guerra.
Quindi rimasi solo con alcuni, pochissimi degli amici che avevo conosciuto nella cella… dopo [essere] uscito dalla cella d’isolamento. Iniziammo i faticosi lavori, iniziammo a capire com’era che funzionava questo campo, quali lavori venivano assegnati. A me toccò purtroppo di fare dei lavori pesanti. Era recentemente stato bombardato il complesso industriale che stava accanto al campo e quindi c’erano lavori di ricostruzione in corso, e allora mi toccava fare il manovale, portare i sacchi di cemento, trasportare pesi, trasportare mattoni, trasportare cemento, eccetera. Quindi una cosa che io fra l’altro non avevo mai fatto perché il mio mestiere era un mestiere da ufficio, prima da militare, naturalmente nel ruolo di marconista, come ho detto in aviazione. Purtroppo questo sarebbe stato anche sopportabile se il cibo fosse stato sufficiente, ma la situazione era veramente tremenda perché il cibo veniva dato una volta al giorno in una quantità minima e con delle calorie alquanto basse, sicché non era possibile immediatamente eseguire i lavori alimentandoci in maniera così sconveniente. Ebbi la possibilità di sentire che un altro dei miei pochi amici aveva trovato modo di entrare in un Transport che secondo lui doveva portarlo in una piccola officina dove la vita doveva essere molto più facile. Io una mattina, rischiando anche la vita, abbandonai il gruppo, il Kommando nel quale ero inserito e andai a chiedere al suo kapo se potevo essere anch’io trasferito in quest’officina e far parte di quel trasporto. Il kapo acconsentì e mi portò all’Arbeitsstatistik, l’ufficio che teneva in conto di tutti i prigionieri lavoratori e mi fece passare al suo comando.
Questo mi fa ricordare anche quanto ho detto in precedenza, cioè che i tedeschi avevano una tecnica particolare, e anche qui la misero in pratica. Perché anziché [in una piccola officina] dopo quattro giorni di viaggio, con lunghe soste naturalmente – più lunghe le soste che i movimenti – ci ritrovammo a Dora-Mittelbau, che non era una piccola officina, ma un grandissimo campo con migliaia di prigionieri che alimentavano le vicine fabbriche delle armi segrete tedesche. [Le fabbriche] si trovavano in gallerie scavate a suo tempo dai prigionieri, con una mortalità spaventosa, e dove c’erano [in] costruzione due ordigni, le V1 e le V2, le armi segrete sulle quali puntavano i tedeschi per raggiungere una vittoria che ormai stava loro sfuggendo di mano. Devo dire che la vita nel campo era dura, era pericolosa quanto lo era a Buchenwald, con un’aggiunta in più: i tedeschi [a Dora] erano assillati dal problema del sabotaggio. Questo si aggiungeva a tutte le sofferenze che dovevamo patire sia per l’impossibilità di un letto, di un riposo accettabile, sia per il poco cibo che ci veniva somministrato. Diciamo che parecchie persone, che anche magari senza una colpa – come toccò a me, in seguito che vi potrò dire – [ma] solo per una sbadataggine o per una dimenticanza venivano sospettati di sabotaggio e quindi spesso e volentieri lungo la galleria, andando al lavoro la mattina, trovavamo… dovevamo anzi passare in mezzo alle loro gambe, di gente che era stata impiccata nelle ore precedenti. Questa è una cosa…

D: Scusa Dario, due cose. Ti ricordi quando ti hanno trasferito da Buchenwald e se, quando sei arrivato a Dora, ti hanno di nuovo immatricolato o no?

R: Facciamo una premessa. Per chiarire meglio la mia posizione devo dire che trasferitomi a Dora, ed era l’11 novembre del ‘44, non mi fu cambiato il numero di matricola, ma io rimasi sempre col ventidue cinque quarantadue [22542], che è il numero che ho sempre avuto fino alla Liberazione.
Devo dire che la vita del campo, come ho accennato prima, era durissima anche a Dora, aveva delle regole particolari. Chi si recava nelle gallerie al lavoro aveva dodici ore di lavoro continuato, salvo mezz’ora di riposo a metà giornata o a metà notte, perché il turno era una settimana di giorno [e] una settimana di notte. E quindi dovevamo portarci in queste gallerie per lavorare. Ora. i primi giorni mi toccò di dover fare un lavoro pesante quanto quello che facevo a Buchenwald, e questo mi mise nella condizione di pensare che se così fosse andata io non avrei avuto una vita molto lunga, sicuramente. Perché lì c’era un lavoro di ampliamento delle volte delle gallerie con dei compressori che pesavano moltissimo, per forare queste rocce, eccetera. Io venni in un primo tempo messo al lavoro di portare questi pezzi di roccia che cadevano, di portarli all’esterno con una specie di barella, in due persone. E naturalmente era un lavoro faticoso, ripetuto per dodici ore in un giorno. Che fra l’altro, finite le ore di lavoro non si andava direttamente al campo ma si passava da una cava di pietre dove si prendeva su… ognuno di noi doveva prendere una pietra e poi entrare al campo con la pietra per gettarla dove il fango dominava per far sì che ci fosse la possibilità di passare su un terreno meno disagevole, meno fangoso. Quindi anche questo [supplizio] si univa a quello di dodici ore di duro lavoro.
Al che, sentito sempre da questo mio amico Noro che era stato messo in un reparto di aggiustaggio – perché lui di mestiere era aggiustatore ai cantieri di Monfalcone – chiesi se era possibile fare la stessa cosa, e mi accinsi a fare un capolavoro che il capo civile che comandava il reparto volle darmi da fare per capire se ero in grado veramente di fare l’aggiustatore o meno. Siccome di famiglia sono stato sempre in mezzo ai meccanici, con banco di lavoro, le lime eccetera, a portata di mano, pur non essendo il mio mestiere avevo una certa dimestichezza, sicché superai brillantemente il capolavoro che dovevo fare e venni assunto… venni dato in consegna come schiavo a un tedesco che doveva essere il mio padrone, in sostanza. E quindi mi misi a fare questo nuovo lavoro che per la verità era meno faticoso di quelli che avevo in precedenza fatto.
Per altro, la situazione dell’alimentazione così scarsa, il fatto di lavorare una settimana di giorno e una di notte, il fatto di portare le pietre dopo dodici ore di lavoro, fecero s che a un certo punto io mi sentii veramente male. Entrai in crisi, e un giorno mi venne in bocca un flutto, una piccola quantità di sangue, e capii che lì le cose andavano male perché poteva essere soltanto sangue proveniente dai polmoni, quindi un segnale gravissimo per le mie condizioni di salute. Inoltre si accompagnava a questa situazione anche la febbre. Quindi lasciato il reparto che andava al riposo nelle baracche, presi la strada del Revier, e andai per una visita, per un controllo. E lì veramente c’erano dei medici francesi deportati come noi: trovarono che avevo bisogno di essere ricoverato perché dai raggi si notava una caverna, che era un segnale gravissimo, di una situazione che sicuramente non poteva andar bene. Sicché in questi Revier… sarebbe lungo raccontare… per altro è bene dire che, fatta la visita, denudati completamente naturalmente anche per la visita, e poi successivamente, consegnando questi vestiti in una specie di magazzino, in pieno inverno dovetti andare lungo un sentiero ghiacciato, con solo una piccolissima coperta che mi copriva la testa, andare al reparto, al Revier, all’ospedale ‘Krankenhause’ dove mi avevano assegnato. E naturalmente lì ebbi un periodo diciamo di riposo sotto il profilo lavorativo. Per altro un periodo alquanto triste e duro, sia per una situazione mia personale che si era creata, sia anche per lo spettacolo che avevo davanti ai miei occhi di altri deportati che come me finivano la loro vita lì in mezzo a questi letti, in condizioni di disagio non solo alimentare ma anche fisico, anche di situazioni… di lenzuola che non esistevano, quando c’erano erano una macchia continua… di una macchia completa di tracce lasciate da precedenti ammalati. Sicché, dopo un periodo lungo di una decina di giorni la febbre se n’era andata. So che mi davano soltanto una cosa, del calcio liquido, pensando che quella era la cosa che poteva risollevare la mia situazione. Dopo dieci giorni, visto che non avevo più febbre, mi diedero cinque giorni di lavoro leggero e mi rimandarono alla mia baracca. Devo dire che i cinque giorni di lavoro leggero si trasformarono in una brutta avventura, perché mentre il lavoro che ci veniva dato era veramente leggero – si trattava di fare dei gomitoli mettendo vicino lunghi pezzi di spago, che forse erano quelli che tenevano legate valigie eccetera di quando i prigionieri arrivavano – […ma] a un certo punto mi vennero a chiamare assieme ad altri quattro o cinque per andare in cucina a prendere dei sacchi di patate e portarle su una collina dove c’era un allevamento di maiali per le SS. E questo lavoro fu veramente una cosa terribile perché nelle nostre condizioni non riuscivamo proprio a andare avanti lungo queste scalinate che ci portavano in cima alle colline.
E quindi decisi che dovevo rinunciare a questa specie di lavoro leggero e tornare in galleria. E così feci, e fui rimandato in galleria. E per altro dopo dieci giorni di nuovo mi si alzò la febbre, ebbi delle situazioni alquanto dolorose, per febbre, per malesseri generali, e dovetti tornare al Revier per una seconda visita. Fatto un secondo ricovero, una mattina un medico francese, armato di una bombola, di un tubo di gomma e di un ago, mi fece uno pneumotorace. Il pneumotorace consisteva nell’infilare l’ago fra la pleure e la parte esterna del corpo, diciamo in zona polmonare, e immettere dell’aria a pressione per immobilizzare il polmone che era ammalato. Quindi mi ritrovai con un fiato cortissimo, una situazione enorme di disagio, non potendo naturalmente che respirare con un solo polmone, una situazione mai provata, nuova. Sono state giornate veramente tristi e dolorose. Se non che altri cinque giorni di riposo con lavoro leggero e mandato fuori di nuovo nella mia baracca. Che poi fra l’altro non era più la baracca dove ero consueto esserci, ma era una un’altra baracca, e quindi mi ritrovai senza alcun italiano vicino a me, in una marea di gente che parlava altre lingue: tedeschi, russi, jugoslavi, eccetera.

D: Scusa Dario, il campo di Dora, rispetto alle gallerie era vicino o era distante? Quando voi uscivate dalle gallerie per andare al campo, il percorso era molto distante?

R: Questa nuova situazione mi impediva anche i movimenti più brevi, le camminate più brevi, gli sforzi meno intensi, perché la situazione respiratoria era quella che era, condannata all’immobilità. E questo fece sì che anche quei giorni a riposo furono per me molto tremendi. Fra l’altro, avendo una certa libertà, ebbi modo di vedere – e correva voce di questo – che per gli ammalati che avevano necessità più gravi venivano trasportati in sanatori, dicevano loro, in luoghi dove potevano risanarsi e guarire per poi tornare nel campo. E ebbi modo di vedere alcune volte dei camion sui quali venivano caricate delle persone in condizioni veramente disastrose, facevano fatica anche a salire, eccetera. E ebbi modo successivamente di vedere dei camion dello stesso tipo, peraltro tutti coperti coi teloni, dai quali venivano scaricati dei prigionieri, dei deportati tutti morti. Un carico di morti. Avevano soltanto il numero segnato sulla coscia della gamba sinistra, con una matita copiativa. E c’erano delle squadre di prigionieri che con delle barelle avevano aperto un cancello che recintava il campo dal bosco all’esterno del campo, su, lungo le colline, e prendevano questi cadaveri sulle barelle e li trasportavano all’esterno. Capii immediatamente che potevano essere soltanto o bruciati su cataste di legna – perché c’era il crematorio [ma era] all’interno, e non aveva grandi capacità per poter nello stesso tempo bruciare parecchie persone – quindi, o erano state scavate delle fosse comuni, oppure si trattava di cataste di legna sulle quali venivano bruciati questi cadaveri. Questo mi fece pensare al pericolo che stavo correndo anch’io essendo in una situazione di questo genere. E per questo, per una seconda volta andai all’Arbeitsstatistik per pregarli di riportarmi al mio lavoro consueto, dove perlomeno conoscevo ormai l’ambiente e facevo un lavoro che non era dei più pesanti.
In questa situazione siamo arrivati ai primi di aprile del 1945, quando, dopo un violento bombardamento della città di Nordhausen, che era a pochi chilometri da noi, venne deciso il trasferimento di tutti i prigionieri del campo. Devo dire – non l’ho detto prima, ma per un chiarimento – che dal campo alle gallerie dove lavoravamo non c’era un lungo percorso, si poteva trattare di quattro-cinquecento metri, mezzo chilometro diciamo. E allora dovevamo uscire inquadrati per cinque, e guai sbagliare il passo – quando eravamo in particolare vicino all’ingresso dove la SS era sempre presente – e quindi portarci fuori, entrare in queste gallerie e percorrerle per centinaia di metri, perché le gallerie erano moltissime, molto distanti, con percorrenze molto lunghe. Questo per dire che andare al lavoro non era una grossa fatica, la fatica era il ritorno, come ho detto, quella di dover andare anche alla cava di pietra e prendere un grosso masso da portare sulle spalle.
Quando ci venne dato l’ordine di sgombero loro dissero: “Chi può andare, chi se la sente può sgomberare e chi non se la sente rimanga al campo”. Naturalmente il buon senso mi disse che io era meglio che me ne andassi perché non sapevo che fine avrebbero fatto quelli che rimanevano. E su dei carri… dei vagoni – non questa volta di bestiame e quindi chiusi, ma su dei vagoni scoperti – venimmo caricati e portati per una destinazione per il momento ignota. Il vagone scoperto era più comodo, nel senso che c’era l’aria che si poteva respirare liberamente. Peraltro pioveva, e quindi eravamo in una condizione veramente penosa. Tra l’altro lo spazio era talmente stretto… perché una larga parte se l’erano presa i kapo e noi dovevamo accontentarci di stare come sardine, in piedi. Quando poi veniva notte e dovevamo piegarci, perlomeno cercavamo di sederci, dovevamo allargare le gambe e far sedere uno in mezzo alle gambe, alla turca diciamo, per poter stare tutti. Naturalmente se c’era una necessità, che uno non sentisse più una gamba, non si sentisse male, eccetera, alzarsi [significava] perdere il posto e entravano in azione i kapo che con delle buone, vigorose bastonate, facevano crollare a terra la persona. E dove crollava doveva rimanere, i prigionieri dovevano fargli spazio per farlo rimanere in ogni caso.
Così andò avanti per quattro giorni, naturalmente facendo pochissima strada, pochissimo percorso, perché anche le ferrovie erano bombardate, [e] la situazione era tremenda in ogni senso. Una mattina ricordo che ci hanno fatto scendere da questo treno e ci hanno diviso in due gruppi, dando ordine che chi voleva e poteva camminare si fosse messo da un lato, dall’altro si fossero messi tutti coloro che per condizioni di salute non erano in grado più di camminare. Io scelsi questa soluzione, perché con la posizione in cui ero stato per ore e ore in tutte quelle notti avevo i ginocchi che si erano gonfiati e sembravano fiaschi, più che dei ginocchi. Quindi realisticamente pensai che era meglio che mi mettessi subito dalla parte di chi non poteva camminare, anche se ciò poteva comportare una fine non certo facile, e non certo positiva.
Comunque, ebbi una grande sorpresa. Prima, di vedere nell’altro gruppo che si era formato di intravedere il mio amico Noro che avevo perso di vista. E la situazione era tale che ci guardammo e non ci dicemmo nemmeno una parola, nemmeno una parola, tanto era la situazione sia psicologica che fisica per tutti noi. Quindi mentre loro, circondati dalle SS e con i cani lupo, presero una certa direzione, noi stranamente ebbimo l’ordine di rimontare su dei carri che non erano più i carri aperti di prima ma erano carri bestiame, addirittura c’era un po’ di paglia all’interno, per terra. E quindi io non feci altro che stendermi sulla paglia e addormentarmi, per il lungo periodo che non dormivo, pesantemente. Svegliandomi mi ritrovai in una stazione, fermi, probabilmente c’erano problemi di transito. E poi per altri due giorni errammo così, senza una meta, almeno senza una meta apparente, lungo queste ferrovie, sentendo a un certo punto anche il tuonare dei cannoni, quindi comprendendo che stavamo inoltrandoci in una zona dove la guerra era veramente guerra. Ebbimo anche la sorpresa di essere abbandonati dalle SS e di vedere al loro posto dei vecchi militari con dei vecchi fucili, che non erano più in grado di mantenere quell’ordine e quella disciplina che ci erano stati imposti fino a quel momento.
Tanto che, dopo una notte insonne, al mattino a qualcuno riuscì [di] aprire un vagone, un carro, e da un vagone aperto ebbero la possibilità di aprirli tutti e ci trovammo in una situazione di libertà. Addirittura, siccome sul nostro convoglio c’era un tedesco, naturalmente un tedesco politico, un triangolo rosso anche lui, che stranamente era del paese dove ci eravamo fermati, ebbimo delle notizie che nei paraggi c’era un baraccamento di militari che l’avevano abbandonato e che poteva essere un buon rifugio per noi. E così come potemmo, aiutandoci l’uno con l’altro, arrivammo a questo baraccamento dove c’erano dei lettini a castello, però con dei materassi veri, dove non ci parve proprio vero di poter adagiarci e rimanere, anche se avevamo moltissime situazioni di disagio, come ho detto, sia perché il cibo non ci era mai stato dato, sia per, in particolare, la mia condizione fisica.

D: Ecco, questo Dario, dove è avvenuto e quando è avvenuto?

R: Diciamo che questa improvvisa semilibertà – perché non potevamo ancora pensare di essere liberi – è accaduto circa… verso l’8 di aprile, l’8 di aprile naturalmente del ‘45. E questo baraccamento era non lontano da un piccolo paese rurale. Quindi noi ci trovammo lì e cominciammo – alcuni [di noi], quelli che potevano muoversi – a rovistare, a trovare che c’erano delle minestre vegetali abbandonate dai tedeschi eccetera, e potemmo almeno così avere qualche cosa, perché poi c’era una cucina funzionante sul posto. Potemmo cominciare a bere qualcosa di liquido che avesse l’apparenza di una zuppa, e questo per noi fu già un motivo di grande soddisfazione. Diciamo che nei giorni successivi la battaglia continuava nei paraggi, al punto che alcune granate – ci fu un duello di artiglieria – caddero anche sulle baracche, per fortuna vuote, di questo piccolo baraccamento. Dopodiché, dopo una pausa di alcune ore, vedemmo comparire con grande gioia un militare americano, armato di tutto punto, carico di tutte le cose di cui avevano bisogno oltre che delle armi. E allora si scatenò una tale gioia, un tale entusiasmo, che a gruppi di cinque-sei tentarono di sollevarlo, di portarlo in trionfo, e per la verità, dato lo stato di debolezza in cui si trovavano, finivano col cadere a terra loro con il soldato americano che doveva essere portato in trionfo. Io naturalmente non potevo fare nemmeno questo perché con le ginocchia che tenevo non ero in grado di sopportare sforzi, appena appena di muovermi.

D: Dario, geograficamente dove eravate? Ti ricordi il posto, la zona o la città più vicina?

R: Diciamo che questo grande piacere di trovarci qui… eravamo veramente liberi, perché gli americani ci dimostravano che eravamo liberati finalmente da questa situazione di schiavitù. Ci trovavamo in una zona, diciamo, non lontana da Dora, perché in sostanza con tutto il nostro girovagare avremmo fatto 60 o 70 km di percorso vero; ed eravamo vicini a una cittadina che si chiamava Seesen – che si chiamerà tuttora Seesen. Dobbiamo dire che per i primi giorni ci siamo arrangiati con questo piccolo magazzino, bevendo queste minestrucole di verdure, e trovando poi anche barattoli di pomodori, roba di questo genere. Poi sono intervenuti gli americani… il giorno successivo, devo dire, è arrivato un americano con una mucca, l’ha portata in mezzo alla piazza e c’ha sparato un colpo, la mucca è crollata e poi col suo gesto liberale ci ha indicato che potevamo approfittarne. E allora lì c’è stato un assalto a sezionare questa mucca, i più esperti naturalmente, e su grossi pentoloni [a] bollire. Abbiamo avuto la soddisfazione di bere del brodo, di mangiare della carne, insomma cose che non avevamo fatto da tanto tempo, che per noi era da un’eternità.

D: Dario, il ritorno a casa, come te lo ricordi?

R: Devo dire che eravamo liberi, ma il ritorno alle nostre case non era ancora pensabile. Per fortuna i polacchi del nostro convoglio avevano predisposto in questa cittadina, Seesen, ottenendo naturalmente tutto quello che serviva in una scuola sgomberata da banchi eccetera, [di] fare un ospedale, perché la maggior parte di noi aveva bisogno urgente di essere ricoverato, di essere curato. E quindi da lì, con dei carri – con dei carri a cavallo… trainati da cavalli – fummo trasportati in questa scuola, in questa piccola città di Seesen. E iniziammo veramente un periodo di ricostruzione di noi stessi, sia fisico che morale. Sicché ebbimo il piacere di avere le zuppe abbondantemente servite. Di essere curati non diciamo perché di medicine non ce n’erano; comunque la cura maggiore, la cura più importante era quella di poter alimentarci in maniera sufficiente.
Siccome in questo posto, a un certo punto, avevamo capito che non poteva essere il modo migliore per rimpatriare, abbiamo avuto sentore che a non molta distanza c’era un campo, un Lager di italiani internati l’8 settembre [1943], di militari italiani. E quindi abbiamo preso contatto con loro – dico ‘abbiamo’ perché avevo fatto amicizia con un deportato di Pesaro – e assieme ci siamo poi portati in questo campo da dove alcuni mesi dopo abbiamo avuto la possibilità di essere trasferiti a Braunschweig, una grande stazione, e partire per l’Italia.

D: Quale percorso hai fatto per rientrare in Italia?

R: Naturalmente la strada è stata lunga, il rientro è stato anche difficile per la condizione in cui si trovavano le ferrovie e tutto il territorio tedesco. Comunque, ricordo che verso i confini austriaci ci siamo fermati in un campo di raccolta dove siamo stati abbondantemente spruzzati di DDT e di tutte le altre cose che potevano far sì che tutti gli insetti che possedevamo fossero stati uccisi. E alimentati con un puzzolentissimo formaggio tedesco, che aveva veramente un odore schifoso, ma che insomma, per noi era già una cosa preziosa. Dopodiché, dopo questa sosta, siamo arrivati al Brennero e siamo arrivati poi giù a Pescantina, che era in Italia il primo posto di soccorso, così, di raccolta e di ripartizione poi per le varie destinazioni. E con dei mezzi americani, assieme ad altri che avevano come direzione Venezia, siamo stati portati fino a Mestre, e da Mestre, preso il treno, ho fatto finalmente ritorno a casa.

D: E questo era il…?

R: Era, diciamo, il mese di agosto [1945]. E come stranamente il mese di agosto ero finito nel campo di Buchenwald, stranamente il mese di agosto dell’anno successivo avevo avuto la fortuna di tornare a casa. Devo aggiungere che questa non fu la mia liberazione definitiva, perché io ero solo in parte liberato. Perché essendo arrivato ammalato, e essendo poi dovuto andare, per altri mali che mi erano sopraggiunti, all’Ospedale al Mare del Lido di Venezia, credendo di fare un breve periodo di riposo in zona marina, ebbi la sventura di fare tre anni e tre mesi di ricovero all’Ospedale al Mare. Tre anni e tre mesi. Dei quali, devo dire – per una questione di malattie ossee che m’aveva colpito la colonna vertebrale – almeno due anni li ho trascorsi immobile sul letto di un padiglione dell’Ospedale al Mare. E quindi la mia vera liberazione si può dire che comincia nel settembre… anzi, per l’esattezza, il 16 settembre del 1949.

D: Dei tuoi compagni, si è salvato nessuno?

R: Devo dire che io, come ho accennato in questo lungo, forse anche un po’ noioso racconto, non ho avuto l’opportunità, come tanti altri, di avere grosse conoscenze, di avere ampie conoscenze di altri prigionieri, conoscerne i nomi, le loro storie. Mi son trovato proprio a causa dei miei malanni in baracche dove addirittura non c’era nessun italiano, e quindi non ho avuto modo di conoscere chissà che amici e che persone… così, qualche persona, per uno scambio di frasi e di parole, spesso rese difficoltose dalla differenza di lingua. Ma, alla fine, io avevo due persone nel cuore: Vignando e Noro, Vignando Mario e Noro Sergio. Vignando Mario, come ho detto, è sparito e non è più tornato. Noro Sergio – che l’ho visto… quando si esce dal treno io mi sono portato nel gruppo di quelli che non potevano camminare, lui invece era nel gruppo di coloro che camminavano ancora – non ha fatto ritorno a casa. Anche lui evidentemente ha avuto qualche cosa, probabilmente in crisi, lungo il percorso è stato abbattuto da queste SS così crudeli. E quindi devo dire, concludendo questa storia, che in solitudine, quasi in solitudine, sono salito, e quasi in solitudine… anzi, sicuramente in solitudine, sono tornato.