Castellani Roberto

Roberto Castellani

Nato il 23/07/1926 a Prato

Intervista del 04/09/2000, a Prato

TDL n. 45 – durata 60’

Arrestato il 07/03/1944 a Prato

Incarcerato a Prato e a Firenze

Deportato nei lager di: Mauthausen (Matr. 57.027); Ebensee

Liberato il 06/05/1945 a Ebensee

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Si segnala la presenza di espressioni verbali riconducibili al dialetto toscano, anche in forme arcaiche. Tra le più ricorrenti ‘andette’ (andò), ‘s’eramo’ (si era/eravamo), ‘vense’ (venne).

Io mi chiamo Castellani Roberto. Sono nato a Prato, e tutt’ora vivo a Prato. Sono nato il 23 del 7 del 1926, da una famiglia d’operai, e qui a Prato sono stato arrestato dai fascisti per lo sciopero del 1944, che fu dichiarato qui in Toscana il 4 di marzo del 1944. Invece nel resto dell’Italia era stato dichiarato nel 1944 lo stesso, e di marzo, però il primo di marzo, qui in Toscana per ragioni di organizzazione fu fatto il 4. Riuscì in pieno. E qui in Toscana si è fatto il 4 di marzo per ragioni organizzative. Lo sciopero è riuscito in pieno. C’è una cosa da dire però, che mi preme farlo sapere a tutti perché è ben che sia, perché è la verità: anche gli stessi industriali hanno collaborato allo sciopero. Perché? Perché c’era un interesse anche suo. Perché lo sciopero, come era stato dichiarato in Toscana, credo in tutta l’Italia occupata dai nazisti, diceva: questo sciopero è per la fine della guerra, per avere più pane, e perché i fascisti e i nazisti non portassero via i nostri macchinari all’estero. Allora anche gli stessi industriali avevano un interesse che questo sciopero riuscisse in pieno. Effettivamente riuscì in pieno. In tutte le industrie pratesi riuscì completamente. Però è successo la fine dello sciopero, il 7… il 6 maggio finisce lo sciopero. Finisce lo sciopero…

D: Scusa Roberto non il 6 maggio.

R: Sì scusa, dio bono, il 6 marzo. Il 6 marzo finisce lo sciopero e si deve ritornare a lavorare. E praticamente noi si torna a lavorare. Però a Prato succede una cosa straordinaria: un grande bombardamento, la mattina del 7 marzo. Ci fu un grande bombardamento delle industrie pratesi. In via Bologna fu distrutto tutto, in via Bologna tutte le fabbriche, e io con altri ragazzi, finito il bombardamento – sapevo che il lanificio dove lavoravo io era stato bombardato – gli chiesi: “Posso andare a vedere la fabbrica indove lavoro io? M’hanno detto che l’è stata bombardata, è distrutta si vede”. Dice: “Sì”. E in quattro ragazzi da via del Purgatorio si partì e si andette al lanificio di San Martino. Il lanificio di San Martino, il proprietario era un ebreo, Bemporad, una fabbrica [dove] si stava di molto bene, perché si stava meglio delle altre fabbriche, però il proprietario non c’era, perché si sa, con le leggi razziali non aveva diritto a nulla. Il direttore faceva da direttore più da proprietario.

Io arrivo alla fabbrica, trovo il direttore, si chiamava Bruno, mi fa “Roberto, l’ha vista la nostra fabbrica come è ridotta?”, “davvero! – dissi – quando si ritorna a lavorare?”. Dice “vai a casa ora perché tra un po’ c’è il coprifuoco, ti si avvisa noi quando sarà il momento di tornare a lavorare”. “Va bene”, e io parto con quegli altri quattro ragazzi e si passa dal centro. Arrivai in centro, gli erano le 5, alle 6 c’è il coprifuoco. Arrivo in piazza delle Carceri, e ci sono dei repubblichini e dei carabinieri. Avevano un gruppetto di persone lì, e io… non fo il nome di quello che m’ha arrestato perché non mi piace, perché c’è ancora dei viventi in Prato, e mi fa “hei, vieni qua!”, e io di corsa corro da questa persona. Perché di corsa? Perché io lo conoscevo. Sapevo chi era. Era colui che mi faceva gli esami, marciare, insomma gli era il nostro capo manipolo, si diceva allora. Io mi metto sull’attenti, gli dico che vuole, e mi fa “dammi la carta d’identità”, e io subito prendo la carta d’identità e gliela do, perché non avevo nessuna paura, avevo 17 anni. Prende la carta d’identità, mia e di un altro, un certo Cherubini Bruno, che è stato arrestato anche lui, poi c’è morto a Ebensee. E fa… Gli altri due invece avevano 12 anni, gli fa “voi andate a casa”, e difatti quei ragazzi andettero a casa e noi si restò lì. E le carte d’identità le dette al carabiniere, il carabiniere le guarda e fa “guarda – dice – questi sono ragazzi, mandiamoli a casa, non hanno neanche 18 anni”, e lui gli disse “zitto”, questo lo sentii io, ai carabinieri disse “zitto, se no tu ci vai a finire anche te indo’ vanno loro”. Ma noi non si capiva che volevano dire queste parole. E il carabiniere si strinse le spalle come per dire “non posso far nulla”. Ci prese e ci mise… c’era un bar di fronte a ‘ndo c’è ora una fontana, la chiamavan il Bar La Rosa, e c’erano già una cinquantina di persone, tutti arrestati da queste persone. Siamo lì e si discute del più e del meno, siamo tutti ragazzi giovani, meno giovani, di tutte fesserie: indove ci porteranno? ci porteranno a smassare, è stato bombardato lì, ci porteranno a fare questi lavori. Gli arrivano due ragazzi, due repubblichini dalla fortezza, ci mettono in fila. Ben premesso: noi si poteva benissimo scappare, però nessuno tentò di scappare, perché non si sapeva mica che ci facevano. Ci portano in fortezza. Si arriva in fortezza: ce n’è tanti pratesi, tanti già arrestati. E arrivano i pullman da Firenze, e ci mettono in pullman, 50, 60 in massimo ogni pullman. Anche lì, come dico, si poteva benissimo scappare. C’erano i ragazzetti più giovani di me che erano sui pullman, gli bastava avergli fatto “bo” e gli scappavano, ma nessuno s’azzardò a fa’ questo, e si arrivò a Piazza Santa Maria Novella, alle scuole Leopoldine. Ci scaricarono e ci mandarono su. Arrivati su nelle aule, si cominciò a trovare altri pratesi. Ecco quelli erano veramente gli antifascisti, che conoscevano e li avevano arrestati prima, tra cui c’era il Pitigliani, c’era il Franchi, ce n’era tanti, altri che conoscevo- Pitigliani specialmente conoscevo bene, perché lavorava dalla Gronda con il mio babbo. E gli fo “signor Alessandro, c’è anche lei?”, dice “davvero” – tra l’altro è un ebreo lui – dice “davvero Roberto, ma sta tranquillo non ci fanno nulla, non c’è problema, ora ci porteranno a fare qualche lavoro e poi ci rimandano a casa”. Va bene. E così io presi e andai a raccontarlo a altri, che c’erano lì tutti pensierosi, gli feci “ragazzi stiamo tranquilli, perché mi ha detto il Pitigliani che non c’è nulla di pericolo. Sapete, gli è un uomo intelligente, perché sa leggere e scrivere, e in più sa scrivere a macchina, è impiegato dalla Gronda, pensateci bene, è veramente un uomo da credere”. E tutti ci si mise… il morale si rialzò. Arriva, ci fanno una specie di interrogatorio con un ufficiale delle SS, dei repubblichini, e l’interprete, e ci domandano “te hai fatto sciopero?” e io francamente “sì ho fatto sciopero”. Dice “che lavori tu fai?”, “sono alle filandre”, disse “va bene” e segnano, e mi mandano via. E così.

E la mattina cominciò ad arrivare tante altre persone, tanti tanti tanti. Di pratesi si suppone che ne abbiano arrestati su 7-800. Però hanno fatto poi una selezione, una selezione fatta proprio alla nazista, non era una selezione mirata, era una selezione fasulla, te qui te là ci mandavano. E fecero due squadre, ma nessuno sapeva l’una ‘ndove l’andeva l’altra. Il fatto sta che tanti che erano dall’altra parte vensero con la nostra, e tanti dalla nostra andettero di là, senza sapere il che poteva succedere. E lì, poi presero una squadra, la portarono da un’altra parte, e un’altra squadra a un’altra. A noi ci presero, ci portarono subito alla stazione. Alla stazione di Santa Maria Novella c’era una tradotta lunghissima, indove c’era scritto sui vagoni, sulle porte “operai volontari per la Germania”, con un gesso bianco.

Noi si guardava questa scritta, ma non ci si rendeva conto. Io quanti si eramo nel vagone lo posso dire chiaro e tondo in verità, perché cominciarono a contare “uno, due, tre…”: arrivarono a ottanta. Allora, finito di contare, l’SS con gli interpreti chiese “chi è il più vecchio?”. Se ne presentò tre, pensando questi, dice “ci rimandano a casa”. Invece no, gli disse poi “io, io, son io, son io”. La carta d’identità non ce l’aveva più nessuno, bisogna credere la fisionomia. Lui fa “si va beh tu sei te – dice – allora te tu sei responsabile di questo vagone, se quando si arriva a destinazione manca uno tu sarai fucilato”, allora questo avviò a dire “ma io non sono il più vecchio”. “No no – disse – tu sei te”.

Allora però noi s’eramo stati arrestati la sera del 7 marzo. Era l’8 marzo, la sera delle cinque, le sei, che s’eramo nel vagone, e nel vagone c’era tanto pane, tanto tanto, e tanta pasta d’acciughe. La fame era tanta, si cominciò tutti a mangiare, però c’era per tutti il pane, anzi ce n’era anche troppo. Io presi un pane, l’aprii, messi tanta pasta d’acciughe – ero un po’ golone anche di certe leccornie per noi, perché non sapeva mai, la pasta d’acciughe non sapevamo neanche che voleva dire – ce ne messi di più che non si doveva mettere. Però fu un danno, perché mancava l’acqua. Quando ci si accorse che veniva la sete, dice “ma l’acqua?”, “eh, l’hanno messa”, e invece non ce l’avevano messa. Noi da quel momento si incominciò a entrare nei KZ, nei campi di concentramento di sterminio, senza saperlo, senza le SS fare nulla. Le SS da Firenze a Mauthausen, con quattordici SS ha scortato 1.600 persone, lassù, senza avere una minima sorpresa, perché noi si pensava solamente alla sete. Guardate, KZ, i triangoli rossi, i triangoli neri, come uno vuole, triangoli gialli, si è sofferta tanta fame, io penso non ci sia persona nel mondo che ha sofferto la fame quanto queste persone, quanto noi. Però la sete l’è più brutta. Noi si è fatto tre giorni di viaggio e quattro notti, si è patito la sete, che è una cosa da nemmeno paragonarla a nulla! Né alla fame, né a nulla! È una tortura tremenda. Noi non si pensava a scappare, si pensava solamente all’acqua. Quando si passava sui binari, sui ponti, e sotto si sentiva scorrere l’acqua, li sentivano il profumo, bensì che l’acqua non ha profumo, ma noi si sentiva addirittura il profumo, e si gridava “mamma, mamma, portami acqua, dammi l’acqua mamma”, così, tutti. E come si poteva fare a pensare a scappare, perché c’era la possibilità di scappare. Non si poteva scappare perché il nostro desiderio era solo uno: quello dell’acqua.

Passato, finito questo viaggio tremendo – guardate, io non voglio stare a dire il dormire, i nostri bisogni, la popò, la pipì di fronte a tutti, no – si arriva a Mauthausen, la mattina. Si arriva la mattina, ci aprono i vagoni, e ebbi una grossa sorpresa, sembrò la manna dal cielo: era nevicato da allora, c’era la neve fresca. Allora quando ci davano l’ordine solamente di scendere per pigliare la neve e calmarci la sete, si scende, si prende la neve e ci si calma la sete. Calmandoci la sete si comincia a discutere tra di noi. Si fa: “o’ ndo’ siamo?” “boh, Mauthausen, ma ‘ndo gli è?” E c’è un signore di Prato, un certo Bertazzi Ruggero, prigioniero con noi, e fa “io lo so”, “eh – fanno lui lo sa! lui è gigolò, gira il mondo lui”. Per allora, sa, il mondo si gira… Dice “guardate io l’ho girato ma per tutte disgrazie – dice – perché io sono stato prigioniero alla guerra ‘15-’18 qui, a Mauthausen. E guardate, sono stato tanto male, e ho patito tanta fame”. Allora io gli fo “si starà anche male, non ci sarà neanche da mangiare, però gli è la mattina presto e si sente che fanno la carne arrosto, o di pollo o di maiale o di vitello”, dice “t’hai ragione, sì”, invece gli era il forno crematorio, che non si sapeva neanche che esistesse queste cose. E ci fa… mi fa “t’hai ragione Castellani, davvero, e speriamo che sbagli io”. Ci mettono tutti in fila e si parte per su. E c’è… dalla stazione arrivare a Mauthausen c’è 8 chilometri. Si cammina, cammina, cammina, si arriva. Perché c’erano quelli presi nelle fabbriche, c’erano due fabbri presi dai Campolmi e dai Lucchesi a Prato, che aveva ripreso il lavoro perché non raggiungevano il numero la mattina dell’8 che fresano in fabbrica, che erano vestiti come si stava a lavorare, scalzi, con le camicie tutte rotte, non è come ora, eh. E mi ricordo c’era babbo e figliolo che lavorano dai Lucchesi, si chiamano Ciabatti, e mi fa Maggiorano il figliolo – aveva un anno meno di me – mi fa “vedi Roberto, te tu sei vestito benino, t’hai le scarpe, tu hai pantaloni alla zuava, t’hai tutto la tua camicina, il tuo blusettino, invece io va: tutta la camicia di lavoro, pantaloni non si sa che colore gli erano dalle toppe che c’ha, una rossa, una verde, una gialla, non si sapeva che erano, la camicia lo stesso, fa un freddo boia, sono scalzo, ho gli zoccoli, sulla neve così..”. E si cammina e si trova, e si vede apparirci una grande fortezza, ed era Mauthausen. La faceva paura, e la fa paura ancora, uno deve pensare allora.

Si arriva lì, e ti vedo ‘sta fortezza brutta. Si cammina ancora un altro po’, ci sono due case – quelle case lì innanzi arrivare al campo di Mauthausen, c’erano anche allora – e c’è il filo spinato che traversa […] C’è tutto il filo spinato percorso a corrente elettrica, e c’è un grosso cancello, lo aprono, e si entra all’interno. Si entra all’interno noi, e si comincia a trovare gli abitatori del campo di concentramento, questi vestiti a strisce, celesti e bianche, col numero. E noi si guarda, “ma guarda come sono brutti” si faceva, “guarda come sono secchi. Che v’han fatto? Oh ‘ndove sei stato? Oh che siete, scheletri beduini?” E questi non ci rispondevano perché non capivano la nostra lingua. Si va un altro po’ avanti, si trova un altro gruppo. E gli si fa il solito discorso, questi ci rispondono, e mi fa “tu te ne accorgerai tra tre giorni” ma non in italiano, in ispagnolo. “Beh, ma che vuol dire questa parola?” E “sotto c’è un altro e mi fa “io posso ringraziare le camicie nere italiane, e l’è andata poco bene”. “Questi che vol dire? Che vol dire?”, poi l’ho capito dopo che vol dire: gli erano spagnoli arrestati dalle nostre camicie nere. E si arriva a Mauthausen, apre un portone, il portone nero lì. Entro dentro. Sono tra i primi io, son lì davanti…

D: Scusa un attimo Roberto, c’erano delle donne con voi?

R: No.

D: E ti ricordi se c’erano dei religiosi, dei sacerdoti?

R: No, con noi no. Lo posso dire ora? No, con noi non c’era né donne e né religiosi, in quel trasporto.

E arrivo qui di fronte al portone e l’aprono. Io sono proprio in prima fila e sulla sinistra… sulla destra. E c’era stato l’appello da allora, si sa che all’appello si deve portare i morti, io lo seppi dopo, prima non lo sapevo. Arrivo lì, [si vede] una sfilata di morti. Quando mi vense la visione… io quando dettero l’ordine di partire non mi mossi, dalla paura. Dissi “ma qui ‘ndo siamo? o sono morto, dormo, sogno?” perché mi vense una visione, e a me mi vense subito la visione di un disegno che avevo visto sulla Divina Commedia di quando Dante è all’inferno. Dissi “no sono morto, perché una visione così…”, tutta una sfilata di morti, ma non morti normali, morti tutti… lo scheletro ricoperto di pelle. Ecco, questo gli era il discorso.

E mi riebbi subito, perché sarà stato questo discorso che mi feci io nel mio cervello di 3-4 se… macché secondi, una frazione di secondo. C’era una SS, mi lasciò andare una pedata e dissi “ma allora son vivo, e vivo bene, sveglio anche!”, e mi portarono di fronte al muro del pianto. Ci portarono tutti. Vense il comandante Zeus… Zeric  [forse Franz Ziereis, ndr], vense lì, cominciò a parlare. La prima parola fu questa: “Signori deportati, qui siete in un campo di concentramento di rieducazione dei nemici del terzo Reich. Se darete retta ci sarà anche la possibilità di tornare a casa. La fuga non è ammessa. Chi tenta di scappare se è ripreso viene o fucilato o impiccato. Perciò pensateci bene. Questo gli è il muro di 3 metri, c’è un metro e mezzo di filo spinato percorso a corrente elettrica che rientra all’interno, ogni 20 metri c’è una SS, di guardia, perciò la fuga non è ammessa. Ma se uno tentasse di scappare, se riesce o viene – ve l’ho detto prima – o impiccato o [fucilato]. Ora andate tutti a fare il bagno.” Ci portarono giù nel sottosuolo. Ci dettano un sacchetto di carta con un lapis e un fogliolino. E dissero “mettete tutta la vostra biancheria dentro, ci scrivete il nome e cognome, poi ognuno riprende la sua biancheria.” Allora tutti contenti si fece “guarda come sono organizzati questi tedeschi”, si diceva. Ora, finito il bagno, si ripiglia ognuno la nostra roba, pensando. Fatto questo ci sono dei parrucchieri, che danno dei rasoi, ci tagliano il pelo – io non ce ne avevo, per fortuna, qui allo stomaco – ci levano tutto il pelo ‘ndo s’ha, ci fanno la rapa e più la strada del paradiso. Poi fatto tutto questo ci mandano in un’altra stanzina, e ci sono due inservienti spagnoli, ed hanno dei pennelli da imbianchino, lo infilavano in un liquido e ce lo davano addosso, e bruciava talmente, e gli dissi “ohi, che voi ci fare?”, e fece uno “ora vi si incaffina – così disse lui, mi ricordo come fosse ora – e poi vi si dà fuoco.” E io avviai a piangere. […] Allora disse l’altro spagnolo “no no, lui gli è un burlone, questo gli è un disinfettante”. E basta. Fatto questo ci mandarono a far la doccia. Si va a far la doccia, e s’eramo tanti, tutti non si poteva entrare, però sintanto si potette entrare s’eramo pressati. S’eramo completamente pressati, c’è sempre il più forte e il più prepotente che si mette proprio sotto ‘ndo casca l’acqua, e noi che s’eramo più deboli stavamo ai margini. Mandano l’acqua, regolare, 27-30 così, che ci stavano lì tranquilli sotto, e invece a noi ci venivano tutti gli spruzzi marginali. Tutto a un tratto smette e viene sottozero. Allora volevamo scappare, ma non c’era più verso. A noi ci venivano degli spruzzi, ma erano marginali. Poi smette anche quella, dopo due minuti, e viene a 80 gradi sopra zero, vedi la […] faceva delle bolle così: gli urli, i cazzotti tiravano ma non c’era verso di scappare. Ecco, questa, non dolce ma… l’era la presentazione dei KZ. Finito qui, ci dicono di prendere degli zoccoli olandesi in un mucchio. Sicché ognuno cerca di prendere lo… suo, i numeri. Ma noi non si sapeva che voleva dire capò allora, c’erano i capò non volevano, botte ti davano, legnate, si diceva “oh dio boia, e che s’è fatto? ora ci dite di prendere gli zoccoli dopo ci tirate le legnate?”, e loro botte tiravano, ma tiravano! Allora si capì, bisognava piglià du zoccoli e scappare. Io ne presi due, me li misi sotto bracci, e tutti nudi in quella maniera si andò nel blocco della quarantena. Nel blocco della quarantena ci siamo stati quindici giorni noi.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco di quarantena?

R: Il blocco della quarantena no, non me lo ricordo, ma gli erano i blocchi indove c’erano i capò russi, era lì, quello sì, ma il blocco, il numero non me lo ricordo. E non c’è nella baracca nessun mobilio. E ci misero 800 per Stube. A dormire ci mettevano a giacere un capo un capo un piede, per fianco, stretti, talmente stretti che quando uno si rizzava per andare al gabinetto non poteva più rientrare. E durante la notte – si rientrava la sera alle sette e sino alle sette della mattina a fare una doccia… a fare, a dormire in quella maniera – era un patire, succede di bocciare, “oh sta attento tu mi metti il piede in bocca”, “oh sta attento tu mi fa lì”, “con questo gomito tu mi dai noia”, e via. Allora che succede? Succede che i capò capivano questo, gli era [quello] che cercavano loro, per arrivare lì per divertirsi: invece che passare in mezzo, c’era un viottolino, montavano sopra, indove mettevano piede gli spezzavano l’ossa, e ci aprivano le finestre, perché noi siamo arrivati era freddo, e pigliavano gli idranti e ci bagnavano. Ecco la nostra… E dopo ci dettano una camicia e un paio di mutande. Poi dopo un altro colpo… fu mortale fu, quando mi dettano il numero. Ci chiamavano uno per uno, mi chiamano e fanno “Castellani Roberto?”, “sì”, “te non sei più Castellani Roberto ma sei cinquantasette mila zero ventisette [57.027], il tuo numero”. Perciò, quando si chiama, sarà chiamato solamente in una lingua, se il capò gli è russo lo chiama in russo, se gli è tedesco tedesco, se è francese francese, se gli è polacco polacco. Sicché uno lo deve capire. Se ti richiama la seconda volta sette legnate, la terza quattordici, se ti chiamano ancora ventuno, se son sette [volte], se poi sono dieci aumentano sempre uguale. Questo gli era un po’ il regolamento che ci dissero allora. Finito la quarantena ci…

D: Ecco, scusa, quando è avvenuta l’immatricolazione, vi hanno anche fotografati?

R: Aspetta… No, lì no. Ci hanno fotografato dopo.

E lì ci hanno fatto tutto questo. Finito i giorni [di quarantena] ci danno il vestito, a strisce, gli zoccoli, la camicia, le mutande, il cappello, e tutto.  A noi ci dicono sempre, tutte le volte che noi si vede transitare di fronte a noi una SS o un capò bisogna levarsi il cappello, mettere sull’attenti. Questo gli era il regolamento. Noi ci inquadrarono tutti, ci portarono a Ebensee, a costruire le fabbriche sotterranee dove dovevano costruire i famosi missili. I missili – si è saputo successivamente che noi si faceva le fabbriche per i missili, appena si arrivò, no – sono missili, i V2, i V4, e i V9, il missile intercontinentale. Arrivati a Ebensee, era un campo nuovo…

D: Da Mauthausen a Ebensee come vi hanno portati?

R: Da Mauthausen a Ebensee ci hanno portato coi vagoni civili – noi, io ragiono di noi – con gli scompartimenti, ci misero una ventina ogni scompartimento, s’eramo stretti ma si vedeva però, c’erano i vetri. Ecco, noi da Mauthausen a Ebensee siamo arrivati con gli scompartimenti. Tanto vero che quando si passava dalle città, da quei piccoli paesi, quando si arrivò vicino a Ebensee non si sapeva che si andava a Ebensee. Si vide questo bel lago, questo bel paesino, tutti a dire “ma se ci fermano qui – il treno rallentava – se ci si ferman qui, guarda che bello! guarda che paradiso! Oh la domenica quando si fa festa si va a pescare”, tutti discorsi così si faceva. Difatti quando si arriva a Ebensee ci portano, non alla stazione prima lì di Ebensee, alla seconda stazione, sul piano caricatore, ci fanno scendere, i civili li mandano tutti via, ci resta solamente dei giovani, dei ragazzi. Questi ragazzi – c’era la neve – avevano fatto tante palle di neve, ce le tiravano dietro, ma forte, ci facevano anche male. E tutti ce la si pigliava con questi ragazzi. Io, essendo 17 anni, avendo fatto la scuola sotto il fascismo, capivo il perché quei ragazzi ci tiravano le palle. Perché gli dissi “ma sapete, io ho fatto la scuola sotto il fascismo, io [quando] m’hanno arrestato non ero mica antifascista, non ero mica contro nazisti né contro fascisti, perché io ero avanguardista, perché la dittatura la m’aveva insegnato che non c’era altra libertà che quella fascista, perché noi s’eramo superuomini, sapevamo che si doveva dominare il mondo, e questi ragazzi io li capisco.” Dice “ma tirano”, “eh tirano… tirano perché loro credono che noi si sia suoi nemici”, ecco.

E ci inquadrarono e ci portarono a Ebensee. A Ebensee ci dettano ognuno il nostro letto. Dapprima, in un primo tempo, si dormiva uno per letto; dopo neanche quindici giorni due, poi tre, quattro, cinque: siamo arrivati a sei, in un letto da 80 centimetri per un metro e ottanta. Il mangiare, gli ultimi cinque mesi, un chilo di pane ogni 15 giorni, un cucchiaio di marmellata in mese, un cucchiaio di formaggio in mese, 4 grammi di margarina in mese, un cucchiaio di carne in scatola in mese, e mezzo di litro di zuppa tutti i giorni. Quando l’era bona c’erano delle bucce di patate, qualche altra robuccia, se no c’era tutta erbaccia, tutta robaccia. Ecco, rapportato in caloria, giornalmente, il nostro gli era dalle 700 alle 750 calorie al giorno.  Lavorare 12 ore il giorno nelle fabbriche, sottoterra, come uno poteva fare a vivere? S’aveva un giorno di riposo il mese, l’ultima domenica del mese la si aveva di riposo. Io, il vestito che mi dettano a Mauthausen, me lo sono tolto il 6 maggio del 1945, il giorno della liberazione degli americani. Ecco, questo gli era Ebensee. Ebensee non è tanto piccolo, era piccolo in partenza, però è venuto grande nel passare il tempo. Siamo arrivati ad essere alla liberazione 18 mila prigionieri in un campo di concentramento che ne poteva contenere 7-8 mila. Ecco, uno si può immaginare già la tragedia che c’era all’interno di questi campi.

Poi, un’altra tragedia, grossa, era per noi italiani, era che noi non s’eramo visti bene. Perché noi s’era fatto, dire o non dire, la guerra a tutti. C’erano jugoslavi, “a me m’hanno preso gli italiani, mi hanno le camicie nere, i carabinieri, quelli con tante penne”; poi c’era i greci, “a me m’hanno preso gli italiani”; gli albanesi “a me mi ha arrestato la polizia italiana, eh sai – dice – te tu sei italiano e qualche schiaffo bisogna te lo lasci andare”. Non era giusto, però lo facevano. C’erano gli spagnoli, e gli spagnoli ce l’avevano, forse qualcheduno più che di altri, perché dicevano “noi, se si può ringraziare l’avvento di Franco si può ringraziare gli italiani, se non c’erano loro si vinceva”. E allora ce l’avevano di molto con noi. Non avevano ancora capito che noi s’aveva la solita disgrazia. Io non glielo potevo spiegare, non ci si capiva. Ma c’era alcuni che dei russi parlavano l’italiano, qualcheduno parlavano il tedesco, c’erano francesi, c’erano jugoslavi, chi parlava un po’ la nostra lingua, gli si spiegava, e lo capivano, dice “ma come si fa a spiegarlo a tutti? – dice – io lo so che ora voi siete il mirino di tutti, delle SS, dei capò, e nostra”. C’era Bartan, il cecoslovacco, gli era uno scrivano di blocco, gli era lì con me, me lo spiegò tante volte, dice “oh, pazienza, bisogna fargli dare un punto che loro tocchino con mano la vostra presenza, che è qui come la nostra, che voi fate parte integrante del comitato di resistenza. Bisogna trovare il sistema.”

Per la fotografia, ecco, me… non credo a tutti, ma a me mi fu fatta la fotografia proprio lì a Ebensee. Fui chiamato ad andare a fare la fotografia. Io me lo ricordo, non mi ricordo il giorno ma mi ricordo perché, disgraziatamente, feci tardi, tornai dal lavoro, mi disse lo scrivano “vai a farti la fotografia” e andai. C’era una fila enorme. Mi fecero la fotografia con il numero, di fianco, profilo e di presente… e di faccia. E poi tornai al blocco, tornai tardi, non lo so che ora gli era perché non c’avevo orologi ma io penso vicino a mezzanotte. C’è lo scrivano, mi fa “oh indove tu sei stato?”, “non m’avete mandato a fare la fotografia?”, e mi dette il pezzetto di pane, e mi dettano… mi ricordo c’era la margarina, e mi dette un pezzettino di margarina e la mangiai. “Sai – dice – guarda ti chiamavo per andare a monda’ patate, perché tu sei giovane, non t’ho trovato, ho mandato un altro” e io avviai a piangere, “come come?”, “no ma t’ho trovato un posto buono, ti mando a fare il giardino alle SS”. Perché a andare a mondare le patate bisogna andare la mattina alle quattro, presto, bisogna partire, invece al giardino delle SS tu parti quando tutti gli altri […] “Ti mando te e un certo Nanni, di Prato, Mario”, “oh, bene, dorme insieme a me” gli ho detto. Il che mi disse il Nanni “O Roberto, domani mattina si va a fare il giardino alle SS”, “sì”. E difatti la mattina si parte, si va a fare il giardino alle SS. Vo a fare il giardino alle SS e c’è… e siamo un comando di trenta, quasi tutti polacchi e qualche russo, perché il capo, non il capò, il capo gli era un polacco. E siamo lì, e dissi “lascia fare Mario, un po’ d’erba la si mangia qui”. Ma gli era pochino però che s’eramo prigionieri eh, sarà stato neanche dieci giorni, ma neanche. E lì si lavora. Alle 11 spariscono a tutti. “O ndo’ gli è andati Mario? O ndo’ gli è andati? Non saranno mica andati via e ci hanno lasciato?”, ho detto “ma, vedi che succede ora”. E noi si guardava ma non si vedeva nessuno. Dopo un quarto d’ora, non lo so preciso, ma venti minuti, e arrivano tutti e ricominciano a lavorare, e ci fanno a noi [espressione gestuale che indica l’azione di mangiare, ndr], e noi “ora si va, a mezzogiorno si va a piglià ‘na zuppa”, no, mi facevano [gesto come prima]: mi volevano dire loro, che loro gli eran stati a pigliare da mangiare ai cani. E ci dicevano a noi di andare anche noi perché ce n’è tanto, e non capivo. Allora viene questo… specie di capo, parlava un po’ di spagnolo, un po’ di… e ci dice che “domani, quando si va noi, venite anche voi; e lì c’è i cani gli portano da mangiare, e non lo mangiano: c’hanno riso cotto nel latte, carne, pane, c’hanno di ogni ben di Dio, non la mangiano, si mangia noi!”; “oh, hai sentito che han detto, Mario? domani si va”, “sì”. Difatti il giorno dopo, io stia attento, appena li vedo sparire lascio la carretta e corro con loro. E lì c’è tutti cani, gli erano lì a dormire tranquilli. E lì gli pigliavano la sua ciotolona e se lo mangiavano, e io lo stesso, me e Mario lo stesso, si mangia tutta ‘sta roba, e poi dopo si piglia la nostra gavetta, la si riempie con questa scodella, la si riempie di roba soda, e ci si mette sotto la giacchetta per portarla nel campo. A mezzogiorno ci portano nel campo, i nostri amici, italiani o altri, gli si dà da mangiare, si piglia la nostra zuppa e gli si dà ad un altro: s’era mangiato troppo noi.

E ci si stette lì un po’ di tempo, ma pochino perché, per l’appunto, Mario, si ritorna da lavorare, una sera mi fa “Roberto ho la febbre”, “va a passar visita – dissi – però sta attento Danilo… Mario, perché ci vuole che tu abbia superiore a 39, se no tu non sei riconosciuto”, dice “ma ne ho tanta, bisogna che andìa”. E va. Torna alla sera, gli fo “allora Mario?”, dice “sì, m’hanno dato un bigliettino e tre giorni di permesso”, “il bigliettino? fammi vedere”, dice “c’ho una sigla ma io non la so, c’è scritto ‘tbc’, ma io non so che vuol dire”, “sarà una sigla che hanno dato loro – non lo sapevo nemmeno io – va bene va’, si dorme ora.” La mattina si fa l’appello e poi ci dan tutti, a te e a tutti ognuno ha il suo lavoro no, e ognuno si doveva andare al nostro comando. Mi fa “Roberto non mi lasciar solo, se tu mi lascio solo oggi quando torni non mi ritrovi, che io solo non posso stare”. “Mario – ho detto – ma io non ho il permesso, tu lo sai se mi trovano come va a finire. E bisogna che andia al lavoro, poi dopo il lavoro ti porto da mangiare anche a te, a perdere un comando in quella maniera non è possibile”. Allora appena ci danno l’ordine proprio di andare al comando mi piglia per la mano, mi tira. Io non ebbi il coraggio di lasciarlo. E dissi “sarà quel che Dio vorrà”, e stetti con lui. Stetti con lui, si girava per il campo, perché per il campo s’eramo liberi, c’era tutte strade, però ci sta la polizia nel campo [Castellani indica l’avambraccio, ndr], lì c’è scritto ‘Polizei lager’. Ci trovano e ci fermano. S’eramo a braccetto, e s’aveva un bastone. Arriva Mario e gli dà il bigliettino, loro appena pigliano questo bigliettino s’allontanano da lui, e lo buttano in terra e lo lasciano stare. E mi chiamano a me, mi fanno a me, io non avevo nulla, mi frugava, c’erano due tasche sole in quelle giacchette, mi frugavo mille volte ma non l’avevo. Non ti dicono mica nulla, mi pigliano il numero qui e il blocco, era il blocco 18. Intanto a desinare ci vengano. A mezzogiorno vo a prendere la zuppa, chiamano il mio numero, lo capii subito perché tanto lo sapevo, “oh dice – mi fa l’interprete – perché tu non sei andato a lavorare”, “mi sento male”, “se ti senti male dobbiamo andare a passare la visita, ora tu lo sai che succede. T’hai risposto subito però le sono sette bastonate.” Mi metto a diacere, senza buttarmi giù i pantaloni e cominciano a dare, e c’ho quella specie di catenella sul culo, la ta sona… Madonna non l’avessi fatto, “giù pantaloni” […] Mi butto giù i pantaloni, invece che sette me ne dà quindici. Io stetti una settimana senza mettermi a sede, e la sera stessa mi mandarono a lavorare in galleria. E io sono entrato in galleria allora e sono riuscito fuori nel ’45, il 5 di maggio. Insomma, ho sempre lavorato nel sottoterra. E Mario ritornò a passare la visita, gli dettero altri giorni, poi ritornò a passare la visita e non tornò più. Io ho saputo, quando sono tornato, che è morto a Mauthausen il 5 di maggio del 1945.

E ero a dormire con un altro italiano, un ragazzo straordinario. Un ragazzo che non c’è n’è punti nel mondo: Danilo Veronesi. Ha una storia bellissima, perché lui non voleva pensare solamente per sé, voleva pensare anche per gli altri. Disse a me: “Roberto bisogna fare qualche cosa”. “Ma che bisogna fare Danilo? Tu lo vedi, qui ci fanno ammazzare per nulla, la gente non capisce più nulla, per una cicchina di tabacco s’ammazzano!” Dissi “vedi Danilo, per fa’ codesto ci vorrebbe tanto pane e tanta carne”, “no, bisogna fare qualche cos’altro.” Lui inventò questo. Dice “quando si torna da lavorare…”, ma già era un pezzo di giovane, aveva anni avanti a me, ma alto, forte, grosso, e aveva forza. Dice “quando si torna dal campo, dal lavoro, tu lo sai, gli ultimi che restano dietro sono i più malati, le SS e i capò non gli aspettano altro che caschino in terra per finirli”, “allora che tu faresti?”, “appena cascano me lo carico sulle spalle e lo porto nel campo, almeno uno si salva.” Dissi “io Danilo, non me lo chiedere, io non ce la fo”, “ma io sì, tu mi dai una mano a caricarmelo”, “sì – dissi – questo sì, ma io sai, a mettermi ultimo mi garba poco, dato che noi si ha la possibilità di sta’ da primi, ma per codesto ci sto.” E difatti noi si stava sempre gli ultimi quando si tornava da lavorare, appena cascava uno non guardava lui se l’era un polacco, un russo, un ebreo, no no, se lo caricava sulle spalle e lo portava nel campo. Io mi ricordo sempre d’uno, d’un polacco, un polacco ebreo, lo messe in terra, e lo guardò questo ragazzo. Non parlava la nostra lingua e né noi si parlava la sua, però io capii tutto che gli volse dire, con gli occhi lui lo guardava e gli diceva “non è vero che tutti gli uomini sono diventate delle bestie, questo ragazzo ha dimostrato di essere un vero cristiano, lui non ha guardato nulla quando sono cascato in terra, m’ha caricato sulle spalle a rischio della sua vita e m’ha portato qui. Sintanto ci sarà di questa gente c’è speranza che il mondo ritorni veramente in pace.” Queste sono le parole che ha detto questo ragazzo.

E poi Danilo… l’è una cosa lunga da parlarne di Danilo, ci vorrebbe tanto tempo, però in poco tempo cerco di fare alla svelta. Io mi ricordo c’era da scappare due, e volevano far scappare un russo e un polacco. Il cecoslovacco Bartan decise di far scappare due italiani, perché noi s’eramo nel suo blocco. Disse: “io c’ho due italiani in gamba, per fa’ dimostrare che gli italiani fanno parte integrante del comitato di resistenza di Ebensee, e che non sian più discriminati dalle altre razze.” Dice: “va bene, allora va bene.” E chi è? E vense da noi e disse “siete disposti a scappare?”, “io no – dissi – Danilo sì”, “però – dice – bisogna essere in due”, “via – mi disse – Roberto, tanto qui si muore, o morire per morire si tenta e non se ne parla più. Io se sto qui piglio un SS per il collo e lo strozzo, sicché è meglio scappare”. “Va bene”, allora accettai. Ci dettano un foglio, bianco, indove era scritto dove noi si doveva firmare, Salisburgo, tutti i posti, e indove si doveva andare nelle case. Poi ci dettano marchi civili, e poi ci dovevano dare il vestito, ci doveva essere, i vestiti da civili. Succede così: che nel campo gli era da costruire ancora, e dovevano costruire una baracca, allora per andare a portare questa baracca indove volevano costruire non c’era strada, allora bisognava tagliare i fili spinati, levare la corrente elettrica, prendere gli alberi e portarli fori, prendere le baracche e montarla lì. Questi sono comandi fittizi, si dice, non ci si conosce l’un con l’altro, c’è un capò quaggiù che ti para, un capò qua, una SS qui e una SS qui, e basta. C’è la possibilità di scappare e ci dicono dove hanno messo – se si va a Ebensee lo fo vedere, i cespugli non c’erano più eh, ci sono le case ora – il cespuglio indove hanno messo gli abiti. Io non so se sono stati civili di Ebensee o altre persone, so solamente che ci dovevano essere i vestiti, e c’erano. Ci doveva essere per due. Noi si doveva scappare il 9 di maggio, invece il 9 di maggio, invece che tutti e due scappò uno solo, perché c’era vestiti per uno solo. Danilo si raccomandò di scappar lui, dissi “va bene scappa te”. E difatti…

D: Scusa il 9 di maggio?

R: Sì, di maggio del ‘44.

D: Ah, ecco, del ’44.

R: Ora scusami, non ho detto… del ’44. Il 9 di maggio del ’44. E difatti la mattina io dissi “io vo a lavorare…”, no ero di notte, s’eramo di notte, io ero di notte, s’eramo di notte. E lui disse “io mi fo assumere a questo comando” perché questi comandi li facevano fittizi, pigliavano gente e s’eramo a dormire, e lui si fa proprio prendere. Dice “se a mezzogiorno non ci sono a prendere la zuppa io sono scappato”. Difatti a mezzogiorno vo a prendere la zuppa, guardo e non c’è. “Ah, Danilo è scappato. Stasera all’appello il minimo gli ha 7-8 ore di vantaggio, non lo ritrovan più, non lo beccan più!”, dissi io. Eh, s’arrivò all’appello, e come venne l’SS, si portano morti come sa, come di regola, e fa, e conta, e conta, conta… e “manca uno!” C’era il capò che non capiva più nulla, lo scrivano lo stesso, se c’erano cento morti non era nulla di male, purché torni il numero, ma se ne manca uno gli era un guaio. E non capivano più nulla loro. Io dicevo “speriamo che non mi faccia piglià dall’emozione e faccia capire che è un italiano”. Allora prendono a tutti i cartellini e cominciano a leggere. E arrivano a “Veronesi Danilo”, non risponde. “Veronesi Danilo italiano”, non risponde. E allora l’allarme subito. Dice “gli è scappato un italiano”, e io c’avevo lì d’intorno a me russi, polacchi, jugoslavi. Il polacco mi fa “[…] italiasco”, il russo lo stesso m’abbracciò “bravi”, i francesi, “bien bien”, gli spagnoli “dobra, dobra”; un po’ di dobra, un po’ di quello un po’ dell’altro, insomma ci si intendeva, e tutti dicevano “bravi, bravi”. Ecco da quel momento, la nostra situazione all’interno del campo la cambiò da… da tutta. Tutti ci consideravano come loro, perché gli era scappato. Dettero l’allarme, portarono i cani, io la mia paura dissi “allora tu m’ha dire”, s’eramo io e un polacco, si dormiva in tre, dissi “tu m’ha dire”, il numero 31, l’hai visto [Castellani si rivolge all’intervistatore, ndr], “tu m’ha dire ‘ndo gli arriva…” e i cani sentono l’odore vengono subito da me. Io sai, al polacco non gli dicevo nulla, io tremavo dalla paura. Gli vanno a lasciare andare i cani, corrono, e infatti dopo du secondi gli eran lì da me, gli avevano una bocca grande così. Ecco io devo dire la verità, mi si fermò a due metri, non mi fece nulla, nemmeno toccato! Pareva ci fosse un vetro di fronte a me! Vense l’SS, perché c’ha il numero del letto, io c’ho il numero del letto, sapevano chi ci dormiva, mi venne lì e mi fa, con l’interprete, “che sai qualcosa te?”, “io no nulla, nulla nulla” e mi dette du schiaffi. Disse “domani”, lui disse “morgen” ma l’interprete dice “allora domani ti fanno un interrogatorio”. “Oh tu m’ha dire, speriamo non parli, io non credo di non resistere, e parlerò e dirò anche quel che non dovrei dire”, la mia paura l’era quella, e che anche il polacco lo stesso, che s’eramo sette a lavorare, io avevo il pensiero solamente della mattina.

Arrivo la mattina all’appello, dice [dico, ndr] “ora mi chiamano, tu m’ha dire che mi fanno”. Dico la verità: nessuno m’ha trovato, nessuno m’ha chiamato e nessuno m’ha detto nulla, per fortuna. Passa tre giorni e non sapevo nulla, passa tre giorni e viene ripreso Danilo. Viene ripreso in una baracca perché lo trova un guardiacaccia. Lui gli era entrato dentro di questa di baracca perché c’erano delle mele, per mangiare. Lui lo vede, non disse nulla, dietro c’era una pala, gli tirò una palata nel capo e lo fece svenire. Chiamò le SS, vensero a prenderlo, lo riportarono nel campo, la sera, portato nel campo la sera il comandante gli era al cine con la ragazza, a Ebensee, andettano giù a chiamarlo con la motocicletta, “si è ripreso l’uccello che ha tentato la fuga”, dice “davvero?”, “sì”, “e allora vengo subito su” e lasciò. Gli arrivo lì, io… parole dette da uno che è stato presente all’interrogatorio, questo Bartan, e gli disse il comandante “te tu volevi correre? Ora ti fo correre io. Io ero al cinema con la mia ragazza, stevo bene, per colpa tua mi toccò lasciarla e non vedere un bel film, e venir qui per interroga’ te, e te non vuoi di’ nulla. Non importa. Ma ora te tu volevi correre? ti fo correre io”, e gli aizzò il cane e lo fece sbranare dal cane […], e lo fece morire. Ecco, Danilo morì così.

D: Roberto, scusa, tu sei andato a lavorare nelle gallerie di Ebensee. In cosa consisteva il tuo lavoro?

R: Il mio lavoro gli era… C’ho dei plastici… Quello della galleria noi si parte, la prima è una squadra e si fa 4 metri per 4, siamo una squadra di quindici; poi un’altra squadra di quindici dopo 10 metri nostra, partono e fanno 8 per 8; poi dopo ancora 10 metri parte un’altra squadra e fa 15 per 12. Ecco, era un lavoro a catena, e s’andava avanti così.

D: E come perforavate la montagna? Che strumenti usavate?

R: Noi, gli strumenti che si aveva noi e avevano loro erano tutti strumenti modernissimi, non si faceva con le mani, e né con il picco, ma tutti mezzi moderni, tutta aria compressa. Però bisognava sapere adoperarli, io non le ho mai viste queste macchine. Insomma, me la imparai, s’aveva le […], si metteva lo scalpello che fora il centro e si faceva fori, fori di un metro e mezzo, poi mettevano la dinamite e facevano saltare per l’aria. Fatto saltare per l’aria, poi prendevano sempre una specie di gru piccolina e caricava i vagoncini. Noi s’eramo dietro, si spingeva via questi carrelli e si mandavano via, e li portavan fuori, il materiale fuori. Ecco, il lavoro si svolgeva così, 12 ore il giorno.

D: Dentro nelle gallerie, umidità…

R: Umidità… Per esempio, si va avanti, si trova una vena d’acqua: bisogna star lì. Si smette e si trova invece asciutto, tutta polvere. Poi si ritrova l’acqua, e bisogna stare lì sotto. Il peggio era quando si trovava l’acqua no a scrocio, l’acqua a gocciola, ci cascava sulla testa ed era un disagio e non ci si poteva muovere eh. E tutti molli in quella maniera, con tutta la polvere, s’eramo […], non ci si conosceva l’un l’altri.

D: E tu quanto hai fatto in galleria?

R: Io in galleria ho fatto dal maggio, dai primi di maggio, alla fine. Un anno. Io sono stato 15 mesi nel campo di concentramento di Ebensee: non ho mai avuto una linea di febbre, non ho mai avuto un colpo di tosse. Solamente, quando mi hanno liberato, ero 28 chili, ecco, questo sì. Però camminavo.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: Eh, la liberazione me la ricordo bene io, ero fuori, non ero in infermeria come tanti. Perché a mezzogiorno – io penso sia stato mezzogiorno – a mezzogiorno c’era… vense una camionetta americana, sembrava. Dice “ci sono gli americani! ci sono gli americani!”, poi sparirono. Invece alle 14 e 45 t’arrivarono tre autoblindo americani, entrarono nel campo. Ecco, noi siamo stati liberati alle 14 e 45. E lì gli entravano gli americani, con queste autoblinde, e s’eramo, io dico, un diecimila fuori ancora dai campi, e gli altri erano a giacere, a dormire, e aspettavano la morte. Stesso eravamo applauditi tutti, gli americani quando sortirono… gli aprirono la… il carro-armato, che l’era l’autoblinda, sortirono fuori: restarono imbambolati, non impauriti, ma non si aspettavano… A noi non ci faceva nulla, perché ci eravamo abituati a vede’ tutti secchi, ma loro restarono lì impietriti, però capirono subito che bisognava che ci dessero da mangiare. Loro gli avevano gli zainetti, c’avevano da mangiare per tre giorni a quanto sembra. Cominciarono a distribuire a tutti, ma s’eramo tanti, non c’era verso, non toccò a nessuno si può dire. Allora io poi dopo andei – non c’avevano più nulla – io vo da uno di ‘sti americani, coi pantaloni, lo prendo dal carro e lo tiro, e mi fa quello “eh”, gli fo “oh tu nun c’hai nulla per me?”, “italiano!” dice, “sì”, “io paesano, siciliano, io americano ma siciliano! Mi dispiace” ed avviò a piangere, “io non c’ho nulla, non c’ho nulla. ‘petta però…”. C’aveva un pacchettino – io non sapevo neanche che l’erano – di gomme no, ora lo so, ma allora non lo sapevo: sentivo il profumo buono, me l’aprì, me la messe in bocca, e io la mangiai, non la ciucciai mica, e mi faceva lui, sai “no no no no”, “ma che no, bischettò!”, e la mangiai. Ecco, lui m’abbracciò, questo dice “non ce n’ho più, aspetta, ora vo a vede’ se trovo…”, e ma non trovò nulla. Insomma, ma poi dopo da mangiare, anzi…

D: Che giorno era la liberazione?

R: Gli era la domenica, il 6 maggio. Il 6 maggio. E gli americani… ce n’era anche troppo da mangiare, e purtroppo fu quello il guaio, perché di molti morirono perché troppo da mangiare.

D: Quando sei rientrato in Italia tu, Roberto?

R: Io sono rientrato il 19 di giugno del 1945, perché vensi via a piedi. Si scappò, si scappò… si vense via dopo 3 o 4 giorni, si disse “che si fa? si va a casa, si va a casa”. E i tre pratesi, io Gino e Vincenzo. Si traversò l’Alpe, a rischio anche di morire, scemi, però si tornò a casa.

D: A piedi.

R: A piedi. A piedi sino a… a piedi, stiamo bene attenti…

D: Nessuno è venuto a prendervi?

R: No, per dire la verità noi si è avuto di molta fortuna perché… un colonnello americano ci dette un permesso in tre lingue, russo, tedesco e inglese. Questo lasciapassare ci permetteva di fermarsi a tutti gli accampamenti militari e ci dovevano dare tutti da… l’assistenza, e accompagnarci.

D: Ma dico, dall’Italia, non è venuto su nessuno a prendervi?

R: No, io dall’Italia, quando sono arrivato in Italia, io sono passato da Bolzano. Per esempio, Bolzano, per dire la verità io ho attraversato le Alpi e da, mi pare si chiami San Martino, dall’Austria, gli è un passo, e poi si è trovato la divisione Folgore, italiana. E questa divisione Folgore ci prese lei, ci portarono sempre con le jeep, e ci portarono a Cortina d’Ampezzo. Poi da Cortina d’Ampezzo a Bolzano. A Bolzano ci misero in un ospedale, e i dottori ci dicevano “non andate via, non andate via! su, siete sani, ma non andate via! ora vi si rimette un po’, tanto si dà alla radio tutto il nome, i vostri familiari lo sanno poi”, “no no noi si vuole andare”, “allora se volete andare a casa domattina c’è un trasporto che parte da Bolzano e va a Verona, poi da Verona a Modena”. A Modena ci si stette 7-8 giorni, all’Accademia di Modena, poi da Modena ci portarono coi camion a Bologna. A Bologna con una tradotta ci portarono a Firenze.

D: Roberto scusa, delle 700-800 che sono state arrestate a Prato e provincia, quante sono state deportate?

R: Ecco. Noi si suppone che siano stati dai 700 a 800 persone arrestate, in provincia di Prato. Dopo la selezione… perché i nazisti volevano 500 persone, 500 persone da porta’ via, e tanto è vero che ne fu portati via 480. Di 480 siamo tornati solamente 17. Perché poi si fu divisi: più di 300 si andette a Ebensee, alcuni andettano a Melk, alcuni andettano a Gusen, e altri gli andettano anche a coso… a… Steyr, e così. E ora siamo solamente vivi in tre.