Canestrari Alessandro

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Alessandro Canestrari, sono nato a Marano Lagunare, provincia di Udine, il 10 agosto 1915.

D:  Quando sei stato arrestato e perché?

R:  Mi hanno arrestato il 20 dicembre del 1944 perché ero il comandante del battaglione “Tregnago”, che io stesso fondai. Avevano il sospetto che io fossi l’artefice dell’atto di sabotaggio nei confronti del municipio di Tregnago, in quanto con un gruppo di altri partigiani lo avevamo bruciato per evitare il bombardamento aereo sullo stabilimento Italcementi. Il motivo di questo atto di sabotaggio, che mi fu richiesto dalla RYE, di cui facevo parte, consisteva nel fatto che nei pressi c’era un gruppo di una grossa divisione tedesca: sopra Finetti stavano facendo delle fortificazioni per arrestare l’avanzata degli alleati. Allora gli inglesi chiesero, tramite la RYE, di bombardare lo stabilimento dell’Italcementi di Tregnago.

Io convocai i pochi partigiani – erano pochissimi durante la lotta, diventarono tanti al 25 aprile del 1945 …

Pur essendo giovani di età, ci opponemmo al bombardamento dello stabilimento perché gli operai sarebbero rimasti senza lavoro, ed erano 225. Inoltre il bombardamento avrebbe provocato delle vittime civili. Siccome la RYE esigeva un atto di sabotaggio a motivo della presenza dei tedeschi nel paese, approfittai della situazione e dissi: “Bruciamo l’anagrafe con i documenti ed accontentiamo il comando della RYE!” Una notte, di cui non ricordo più la data, con le corde siamo saliti nella sala consiliare; io avevo in mano una latta di benzina, la buttai nell’ufficio anagrafe, naturalmente il fuoco si propagò, per fortuna arrivarono i pompieri e l’incendio fu domato: però tutti i documenti vennero bruciati.

Allora le Brigate Nere, ma soprattutto l’UPI, l’Ufficio Politico Investigativo, la cui sede era presso l’ex caserma del Teatro Romano dove pure fui prigioniero, ebbero sentore che il comandante dei partigiani fossi io. Naturalmente fui avvisato; approfittai di un fratello missionario comboniano che per un paio di giorni mi nascose nella casa madre di Verona dei Padri Comboniani. Sennonché quando vennero a casa, le Brigate Nere, non trovandomi, misero in prigione mia sorella Costanza, che era staffetta partigiana. Mia sorella aveva una gamba rigida a causa di un’operazione subita a 4 anni; quando seppi che mia sorella era stata arrestata al mio posto non vi dico il mio stato d’animo! Avevo rimorso; mio padre, pur essendo antifascista, mi accusava, della faccenda della sorella. Vagai un po’, nascosto a Verona, poi una certa sera, preso dalla nostalgia di mia moglie e del nostro bambino, tornai a casa.

La seconda notte, alle due del mattino, buttarono giù la porta e mi arrestarono. Mia madre uscì, aveva le trecce, i capelli lunghi, uscì in camicia da notte, gridando: “Siete voi la rovina dell’Italia!”; la risposta di un certo Pollastri fu: “Queste parole le pagherà suo figlio”; infatti mi diedero una bella dose di bastonature.

Mi portarono alla sede delle Brigate Nere nella scuola Sanmicheli di Verona, ed il giorno dopo nell’altra sede del Giardino Giusti, dove c’era quel famoso criminale, il capitano Gradenigo delle Brigate Nere.  Ero al Giardino Giusti il giorno 23 dicembre del 1944; Gradenigo mi disse: “Questo è il più bel regalo di Natale” e mi diede una dose di bastonate. Non sentii alcun dolore, pur avendo la schiena striata di nero e di rosso e sanguinante. Ne chiesi il motivo ad un medico dopo la liberazione: mi disse che era la tensione nervosa. Volevano sapere i nomi dei miei partigiani; sapevo che bastava un nome perché tutti venissero arrestati. Allora accusai i partigiani morti della “Pasubio” dell’incendio del municipio. Ringraziando Dio, avevo una lingua discreta, e mi aiutò la divina provvidenza, tanto è vero che sono decorato di medaglia di bronzo al valor militare per non aver rivelato niente di importante alle Brigate Nere.

Da lì mi portarono alla sede dell’UPI, dove subii un altro interrogatorio. Lì seppi che avevano ucciso il colonnello Giovanni Fincato, poi medaglia d’oro al valor militare. Dall’UPI finii al Forte San Leonardo, dove rimasi per 15 giorni circa. Dal Forte San Leonardo mi richiesero le SS e finii al palazzo dell’INA. L’interrogatorio delle SS fu pesante; avvenne mi pare al quarto piano. L’interprete tedesca, trovandomi con la lingua sciolta, mi chiese un sacco di cose; dissi di essere stato ufficiale di collegamento col maresciallo Rommel in Africa. In parte era vero ed in parte non era vero, perché allora ero solo sergente maggiore; la mia divisione, la “Trento”, era in contatto con la divisione tedesca; vedevamo spesso il maresciallo Rommel che portava sempre i guanti grigi anche in Africa, rispettato da noi perché era un grosso generale. Dissi che mentre il Re tradiva e scappava, dimenticando che centinaia di migliaia di soldati erano morti al grido di “Avanti Savoia!”, io facevo il partigiano soprattutto perché quando fui promosso ufficiale in Grecia davanti alla bandiera giurai fedeltà alla Casa Savoia. Questo fu il motivo per cui io, ancora il 9 settembre del 1943, andai alla ricerca di armi e cominciai ad organizzare Tregnago, Illasi, Selva di Progno, Badia Calavena, Calmiere, cioè la mia zona. Poi diventai il presidente del CLN mandamentale.

L’interrogatorio durò sette ore; inavvertitamente, parlando misi le mani sulla scrivania, e il tenente tedesco mi diede un colpo con la stecca e mi disse: “Educationen, educationen!”

Morale della favola, mi condannarono a morte. Immaginarsi, avevo le mascelle che battevano da sole! Ero giovane, avevo una moglie di 20 anni con un bambino di otto mesi. Andai in cella, eravamo 16 / 17 persone; c’era un frate, padre Corrado Toffano, morto  nel 1996 in odore di santità, sorrideva sempre. Ricordo un episodio che lo riguarda: un mattino, quando ero in campo di concentramento, le SS furono con noi particolarmente dure. Dissi a padre Corrado: “Padre Corrado, c’è un salmo nel breviario di cui non ricordo il numero in cui si maledice il padre ed il padre del padre”.  “Date le maledizion alle SS! – rispose padre Corrado, che parlava sempre dialetto – un prete benedice sempre, non maledice mai”;  mi colpì, lo ricordo con immenso affetto.

D: Che cos’era la RYE?

R: Informazione militare, comandata da militari, formata quasi tutta da militari; il comandante a Verona era il dottor Carlo Perucci, allora capitano. Si fece paracadutare sulle linee dei partigiani. Alla Liberazione lo accusarono di aver abbandonato i suoi aderenti, di aver fatto il professore. Alcuni anche lo accusavano, ma questo io non lo so, del fatto che non arrivavano mai i lanci ai partigiani. La RYE però, più che atti di sabotaggio, era incaricata di fare spionaggio. Quindi io parecchie volte ho dato al dottor Bonamini, che faceva parte della RYE, elenchi di armi che i tedeschi avevano in Tregnago, in particolare quel tipo di mitragliatore che chiamavano “la lingua di Hitler”.

Poi nel CLN fui istruito dal dottor Gianfranco De Bosio, che rappresentava il partito della Democrazia Cristiana. Andato nel campo di concentramento, ebbi la ventura e la gioia di conoscere il professor Perotti  che sapeva parlare di politica; noi non sapevamo niente. Ci parlò per la prima volta di marxismo, alla sera quando ci chiudevano nei blocchi. Girava il libro “Il Capitale” di Carlo Marx, che io lessi proprio in campo di concentramento. Ricordo che quando mi fermai sulle parole secondo cui la religione era l’oppio dei popoli, siccome io provenivo dall’Azione Cattolica, dissi a Perotti, che il comunismo non faceva per me.

Proprio alla fine, verso i primi di aprile (1945), si formò il CLN del campo. Siccome il partito della DC era già ricoperto dal professor Baroncilli, ma era libero il posto del Partito d’Azione, io immediatamente volli rappresentarlo.

D: Ritornando ancora alla RYE, chi la sosteneva? chi dava gli ordini?

R:  Il capitano Perucci era il capo, poi c’erano dei colonnelli, tra i quali il colonnello Andreani, che finì in campo di concentramento con me, medaglia d’oro al valor militare.

D: Prima hai parlato del giardino Giusti: cosa c’era al giardino Giusti?

R: Lì fui interrogato dal capitano delle Brigate Nere Gradenigo; lì si picchiavano i partigiani. L’interrogatorio non avveniva alle scuole Sanmicheli; alle scuole Sanmicheli c’era il carcere al piano sotto, e al piano sopra c’erano le Brigate Nere, tra cui bambini di 11 / 12 anni che dallo spioncino della porta puntavano la pistola contro i prigionieri e dicevano: “Partigiano, domani sarai morto!”. Lì c’erano anche le ausiliarie e il cappellano delle Brigate Nere don Calcagno, o padre Eusebio.

Siccome era Natale, mi pare padre Eusebio chiese chi volesse confessarsi. Nessuno di noi andò a confessarsi perché sapevamo che era il cappellano delle Brigate Nere, anche se il prete ha il segreto confessionale e non c’era motivo di avere dubbi, ma nessuno di noi si confessò.

Direi che sono stato trattato con maggior dignità dai tedeschi che non dai fascisti.

Le SS in campo a Bolzano picchiavano. Seppi da amici comunisti del campo che vi entravano armi. Io ero caposquadra cavi telefonici e un giorno ci fecero la perquisizione al nostro rientro dal lavoro. Il maresciallo Haage prese il mio portafoglio, che era un regalo molto bello di mia moglie da fidanzata, ne tolse la fotografia di noi due a Venezia coi colombi in mano, sulle spalle; dietro la foto avevo scritto “due colombi fra i colombi” e la data. Eravamo andati in viaggio di nozze a Venezia nel 1942, in piena guerra; ero venuto su dalla Grecia per sposarmi. Il maresciallo mi disse “Venise, ja Venise”, ed inspiegabilmente mi arrivò un gran sacco di pane, pane biscotto, con speck, uova sode, tanto è vero che entrai nel blocco G e dissi: “Putei, se magna!”, e distribuii. Probabilmente avrà avuto un ricordo di avventure veneziane, insomma mi trattò col massimo rispetto, al punto che alla fine di aprile arrivò a Bolzano mia suocera, che era di Trento, e quando alla guardia disse che cercava il prigioniero Alessandro Canestrari, la guardia lesse gli elenchi e disse: “Grande capo”: mi ritenevano un grande capo, invece ero un capetto, cosa da poco, avevo fatto il mio dovere e basta.

D: Con cosa ti hanno portato da Verona a Bolzano per raggiungere il campo?

R: Col camion.

D: Uno solo?

R:  Un solo camion, pieno, stipatissimo. C’era anche il professor Perotti, tre SS sedute dietro e due avanti col mitra puntato verso di noi. Lì c’è stato un episodio che racconto perché sono cattolico: quando passai sotto la Madonna della Corona, guardai su e mi raccomandai alla Madonna: “Se ritorno vivo, una volta l’anno verrò a trovarti”. Difatti adesso vado alla Madonna della Corona ad adempiere al mio giuramento, perché sono ritornato e perché mi ritengo miracolato.

D: E quando siete arrivati nel campo di Bolzano cosa accadde?

R: Quando arrivammo al campo di Bolzano ci fecero denudare. Eravamo pieni di parassiti, scherzando dicevo che c’erano pidocchi di varie qualità, alcuni avevano i baffi bianchi, altri i baffi rossi, altri i baffi neri … Ci portarono via tutti i vestiti e ci diedero una tuta bianca. Non avevamo la tuta a strisce dei campi di concentramento nazisti, bensì una tuta bianca col triangolo rosso e il numero di matricola.

Il mio numero era 9586. Penso che prima di morire ringrazierò il padreterno e poi dirò “matricola 9586”.

Perché? Perché non ti chiamavano più con il cognome ma col numero di matricola, e quando non rispondevi ti colpivano col calcio del moschetto alle reni.

Ricordo un episodio che capitò ancora a Verona al palazzo delle assicurazioni INA, presente anche l’amico Perotti, che potete leggere nel suo libro “Inferriate”. Una SS con una bottiglia vuota colpiva sulla testa un partigiano, giù nelle celle. Io gridai “Vigliacco!” alla SS: era roba dell’altro mondo! Ecco perché sono un miracolato. La guardia si fermò, era una SS italiana, disse: “Chi è stato?”; io avrei dovuto tacere ma ero un vecchio soldato e dissi: “Io”. Andai fuori, mi diede una botta in testa col calcio del fucile, andai a sbattere contro il muro. Non ero svenuto del tutto, e vidi il calcio alzato a darmi la seconda botta che mi avrebbe ucciso. Alla fine avevo sulla testa un bernoccolo talmente alto che un colpo di vento mi portò via il berretto.

Un altro episodio è narrato dal professor Perotti nel libro citato. Andando a lavorare a Gries presso Bolzano, sentii un bolzanino dire: “Centoventi divisioni sovietiche sulla Vistola”. Allora entrai nel campo e dissi: “Putei, hanno perso la guerra! 120 divisioni sulla Vistola!”

D: Sei entrato subito al blocco G?

R: Sì.

D: Nel periodo in cui siete rimasti  nel Lager di Bolzano, c’erano con voi anche dei religiosi deportati?

R: C’era frate Corrado del convento di via Baranna che è da ricordare, perché il suo arresto è avvenuto in conseguenza dell’asilo dato ad ebrei e partigiani; i frati assistevano gli antifascisti, e ne deportarono 5 / 6 con lui; ora ricordo padre Corrado perché era con me alle carceri di Verona.

D: Ricordi altri religiosi?

R: C’erano dei preti nel Lager; di uno, di cui non ricordo il nome, so che era stato arrestato perché non rivelava il segreto confessionale. Mi pare che fosse di Rovereto.

D:  Donne ne avete viste nel Lager?

R: Tantissime, ce n’erano di bellissime. Credo che fossero 2/300 dietro i fili spinati.

D:  Nel periodo in cui sei rimasto a Bolzano, hai avuto la possibilità di scrivere a casa o di ricevere posta da casa?

R: No, mai ricevuto niente e mai scritto niente. Solo al Forte San Leonardo abbiamo dato un biglietto al cappellano del carcere; era il parroco della chiesa dei 12 Apostoli di Verona. A lui abbiamo dato un biglietto, che però non arrivò a destinazione.

D:  Nel campo, a Bolzano, hai visto se c’erano anche dei ragazzi?

R: C’erano alcuni ragazzetti ebrei, presi a calci dalle SS, gettati a due metri di distanza, li ho visti con i miei occhi. Poi c’erano quelli che venivano da Fossoli.

Ad un certo momento arrivò la casa di tolleranza di Bologna, arrestarono tutti gli ultimi giorni, e c’era la curiosità di veder entrare le donne della casa di tolleranza, invece poi non le abbiamo viste.

D: In fondo al campo …

R: … c’erano le celle della morte, e da lì uscivano le grida dei torturati. Direi che ogni giorno abbiamo sentito gridare di dolore e di disperazione qualche amico; tra di essi c’era l’onorevole Arnaldo Coleselli, che fu deputato con me e senatore e parlamentare europeo, purtroppo ora deceduto. L’ho visto là un paio di volte quando usciva mezz’ora per cambiare aria. Nel 1958 quando andai a Roma come deputato lo incontrai nel transatlantico e gli dissi: “Tu sei stato in galera con me!”. Non sapevo come si chiamasse, me ne sono ricordato dopo anni e anni. Era l’onorevole professor Arnaldo Coleselli, deputato con me per 4 legislature, che poi passò una legislatura al Senato e divenne parlamentare europeo.

D: A proposito di nomi, il cognome  “Signorato” ti ricorda qualcosa?

R: Era proprio monsignor Signorato il parroco della chiesa dei 12 Apostoli, di cui parlavo poc’anzi.

D: Cosa avvenne durante la Pasqua del 1945 nel Lager di Bolzano?

R: Venne monsignor Piola, che celebrò la messa, e lì fummo assolti in articulo mortis e facemmo la comunione; ho portato il santino come ricordo.

D: Chi era monsignor Piola?

R: Monsignor Piola è quello che ha intimato la resa ai tedeschi il primo maggio (1945); ci disse che c’era l’ordine di Hitler di uccidere i prigionieri politici. Ma lui, almeno così disse, intimò la resa e volle gli elenchi di tutti i prigionieri. Alla Liberazione partimmo talmente in fretta – eravamo circa 4.000 persone – da sfondare la sbarra di legno del campo.

Il primo che incontrammo fu un maresciallo dei carabinieri, allora in dialetto dissi: “Putei, gh’è un carabiniere, semo liberi, semo in Italia!”

D: Sei rimasto tutto il periodo della tua deportazione nel lager di Bolzano?

R: No, sono stato a Gries per 15 giorni. Vicino a Castelnovale dove presi la febbre tifoide perché l’acqua, dove si defecava dentro, era inquinata. Gli ultimi 3-4 giorni con l’avanzata degli alleati ci riportarono al campo di concentramento di Bolzano, dove entrai cantando Va’ Pensiero.

D: Ti ricordi, quando eri fuori dal lager di Bolzano se vedevi un castello?

R: Si, era il castello di Castelnovale e lì vicino c’erano gallerie dove andavano per fare dei proiettili.

D: Quindi nella galleria era installata una officina?

R: Sì, nella galleria c’erano le officine per fare i proiettili.

D: Hai anche lavorato agli scavi per la posa di cavi con la tua squadra?

R: Direi che tutto il periodo l’ho passato zappando per le vie di Bolzano vecchia e Bolzano nuova.

A Bolzano nuova c’erano gli italiani. Andavamo anche a collocare le rotaie dei treni, dopo i bombardamenti, con quel tenaglione famoso con cui ognuno di noi doveva alzare 50 / 60 chili.

D:  Nel campo che hai descritto c’erano delle baracche?

R: Sì

D: E quanti eravate voi più o meno?

R: Lì ricordo un maresciallo molto umano; credo che fossimo circa 150 / 200 persone.

D: C’erano anche dei civili?

R: Sì, fuori dalle baracche c’erano le case dei civili.

D:  Lavoravate assieme a dei civili?

R: No, andavamo a lavorare nella galleria.

D: Cosa ricordi della Liberazione?

R: La Liberazione ci trovò nel campo di concentramento di Bolzano, dove fui liberato il primo maggio (1945). Ricordo che nessuno voleva prendere il documento di rilascio per la fretta, ma io, che ero un vecchio funzionario dello Stato, sapevo che ci volevano i documenti, e così mi fecero il documento di uscita dal campo di concentramento.

D: Venne distribuito a tutti?

R: A chi lo voleva; quel documento ci servì perché sulla strada trovammo delle SS in fuga e così esibendolo, non subii nessuna reazione da parte loro.

D: Hai accennato a Haage.

R: Ricordo che il maresciallo Haage era sempre elegante, anzi elegantissimo.

D: E i due ucraini li ricordi?

R: Ricordo che gli ucraini avevano sempre in mano il nerbo di bue ma non ho mai avuto nessun contatto. Mentre il tenente Titho, che era il comandante del campo, direi che l’ho visto un paio di volte.

D: E la donna che chiamavano “la Tigre”?

R: La ricordo: era una SS alta, con stivaloni e con pistola al fianco; aveva il cane che aizzava contro i prigionieri, era il terrore nostro.

D: Durante la tua deportazione nel Lager di Bolzano sei stato testimone di atti di violenza?

R: No. Però calci e parolacce erano all’ordine del giorno, intendiamoci: ci avevamo fatto il callo.

Invece devo dire che quando sono tornato a casa mia moglie non mi riconobbe perché ero calato a 48 / 50 chili. Mangiavamo i famosi “cingoli”, cioè verdura secca buttata in acqua bollente senza sale. Era una cosa nauseabonda, ci si chiudevano le narici per trangugiarla. Qualcuno nel mio blocco inspiegabilmente era riuscito ad avere alcuni dadi, e quindi nell’acqua buttavamo un pezzetto di dado salato, ma era una cosa rara.

D: Dal campo uscivano delle squadre per andare a lavorare?

R: Sì, le squadre di lavoratori. Io ero capo della squadra cavi, avevo un segno rosso al braccio sinistro.

D: E la tuta bianca?

R: La tuta bianca, il numero di matricola e, il comandante, un grado come soldato scelto italiano. Perché mi avevano scelto? Perché ero un ex ufficiale, quindi meritavo, ma dovevo dare l’esempio. C’erano le guardie altoatesine, più cattive direi dei tedeschi, tutte tranne un vecchio maresciallo. Mi ricordo un episodio: questo maresciallo mangiava un bel pezzo di speck, io ero lì che picconavo e guardavo questo speck; lui si girò per vedere se lo guardavo, mi tagliò un pezzetto di speck, lo buttò per terra, io lo presi e lo misi in bocca, in due secondi lo trangugiai. Era un maresciallo altoatesino piccoletto, vecchio.

D: A proposito di cibo: è vero che nel campo avevate dei soldi?

R: Sì ma non li ho mai presi, non si potevano neanche spendere, non c’era niente da comprare.

D: Quale fu l’attività del CLN all’interno del campo?

R: Non abbiamo fatto nessuna attività perché il CLN si costituì gli ultimi giorni in caso di sollevazione del campo. Ci conoscevamo noi cinque, nessuno sapeva niente, tenevamo il segreto.

Varini Franco

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Franco Varini, sono nato a Bologna il 5 agosto del 1926. Per la verità sono sempre vissuto a Bologna. Sono entrato nella resistenza direi quasi casualmente, ritengo di essere stato di uno tra coloro che per primi sono entrati quasi per gioco nelle file della resistenza. Prima eravamo un gruppo di ragazzi e abbiamo iniziato così, in sordina, poi dopo un certo periodo di tempo siamo stati inquadrati in una formazione partigiana, che è la quinta brigata Otello Bonvicini divisione Bologna, per il quale ho militato, militato fino a quando su delazione sono stato arrestato. Questo è avvenuto esattamente l’8 di luglio del 1944. Io ero stato preavvisato che stavano puntando i riflettori su di noi, su un gruppo di ragazzi del mio rione e pertanto questo avvertimento mi è stato fatto il 7 di luglio del 44, per cui un giorno prima del mio arresto. Ho avvertito i miei compagni i quali hanno provveduto a fuggire, io non potevo perché avevo una ragione particolare, avevo una grossa storia che mi ha quasi di fatto impedito di andar via con gli altri. Ho cercato un lavoro, concessione che mi è stata fatta da degli amici che gestivano un bar. Io sono andato in questo bar l’8 luglio del 44, fingendomi un loro lavoratore.

In effetti aiutavo, ma questo l’ho fatto solo per la mattina dell’8 di luglio, perché l’8 di luglio, un sabato del 44, mentre ero giù lì al lavoro in questa cantina, la sorella di uno dei proprietari di questo bar, amico mio, che mi aveva preso appunto in forze, tra virgolette, mi chiama e mi dice “scusa Franco puoi salire”, era una cantina interna al bar, allora erano cose un po’ diverse da quelle attuali. Io sono salito e come sono spuntato con la testa da questa sorta di scaletta che portava alla cantina, ho visto che tutti gli avventori del bar erano con le braccia alzate, all’interno c’erano dei militi della brigata nera, i quali mi hanno chiesto semplicemente come mi chiamavo, ho detto “Franco” “e poi?” quelli hanno detto Franco e basta? Sono uscito, per mia fortuna hanno dato al tutto un taglio spettacolare, dirò perché per mia fortuna, cioè mi hanno portato al centro della strada che era Viale Aldini di Bologna, un viale che ancora esiste e dove ancora esiste il bar nel quale sono stato arrestato, a braccia alzate questi quattro della brigata nera mi si sono messi di lato offrendo uno spettacolo di fatto a tutti coloro che assistevano. E dicevo perché è stata la mia fortuna? Perché mi hanno portato al loro comando, che era molto vicino, in via [san Mauro] parliamo sempre di Bologna, a circa 150 metri dal posto dove sono stato arrestato, mi hanno messo in una cella, sono rimasto circa un’ora, dopo di che mi hanno fatto salire su una macchina e mi hanno portato in via Santa Chiara, sempre una strada di Bologna nei pressi di Giardini Margherita, i grandi giardini di Bologna. Qui è vicino una palazzina, che poi in seguito ho saputo era stata requisita dalle SS, sono stato portato dentro. Mi hanno portato in questa palazzina, mi hanno portato nelle cantine che erano state trasformate di fatto in celle, mi hanno messo lì, dopo un certo periodo di tempo, parlo sempre dell’8, sabato 8 luglio 1944, mi hanno fatto salire e mi hanno portato in un ufficio. In questo ufficio c’era una sorta di gigante, un maresciallo delle SS, al tavolo sedeva un uomo dai capelli bianchi, che poi era l’interprete. Mi hanno fatto consegnare tutto quello che avevo, non avevo per la verità grandi cose: una chiave che era quella di casa, e le altre cose, documenti non so se poi l’avevo, adesso non ricordo esattamente, insomma tutto quello che avevo in tasca. E lì è cominciato l’interrogatorio. Interrogatorio fatto in uno strano modo, come probabilmente ne sono stati fatti un’infinità. Io non finivo nemmeno di dare la risposta alle domande che mi rivolgeva l’interprete che questo gigante, questo maresciallo delle SS ha cominciato a percuotermi. Era effettivamente un gigante, mi picchiava talmente forte che ogni tanto vacillavo. Mi appoggiavo al tavolo della scrivania per sorreggermi e l’interprete diceva di non farlo perché lui aveva un righello in mano, di quelli che si usavano in …, e mi colpiva ripetutamente sulle mani.

Io nella confusione per la verità debbo dire che anche a certe risposte alle quali avrei potuto benissimo dare immediata risposta direi, che non avrebbe danneggiato nessuno, rispondevo direi malamente, cioè anche alle domande se conoscevo, e mi facevano dei nomi ad esempio, personaggi che appartenevano al mio gruppo, Giorgi, Ferrucci, Magri, Tiziani ecc., io dicevo di no, era gente che abitava vicino a me, per cui dico veramente davo delle risposte molto sconclusionate. E per conseguenza percosse a non finire.

Prima ho detto che è stata la mia fortuna che il momento del mio arresto è avvenuto nel modo spettacolare che ho ricordato. Perché? Perché intanto io abitavo di fatto in un rione molto vicino al luogo dove ero andato a lavorare, il vecchio rione dei Mirasoli, qualcuno ha provveduto ad avvertire mio fratello che era renitente alla leva, nascosto in una casa, che non era la casa dove abitavo ormai da solo perché mia madre era morta e mio padre non c’era, vivevo praticamente da solo, questa casa era stata trasformata di fatto in un arsenale, era piena di armi, di queste cose.

Cosa han fatto? Finito questo interrogatorio che è stato, come tutti gli interrogati che hanno subito coloro che sono stati arrestati dalle SS, sono stato portato letteralmente da dei militari della PAI, Polizia Africa italiani che erano così, che erano in servizio, prese il comando delle SS, sono stato riportato in cantina. La mattina dopo, e questa è una cosa che io ho saputo in seguito naturalmente, perché ero giù, ero già agli arresti, verso le 4, quattro e mezza, le SS han circondato il rione nel quale abitavo e tutti gli uomini che abitavano in vicolo del Falcone, una strada che esiste ancora adesso a Bologna, sono stati arrestati. Naturalmente sono andati in casa mia, e per mia fortuna, cosa che ho sempre ripetuto e che ripeterò all’infinito, durante la notte mio fratello, assieme a due partigiani, che sono Magri, Tiziano, Giorgi e Ferruccio, hanno provveduto a vuotare completamente la casa, portando parte delle munizioni al comando della Gap di Bortolan, e le altre, perché ormai non ce la facevano, addirittura le hanno scaricate nei tombini, nelle chiaviche che c’erano nello stesso vicolo del Falcone. Di fatto quando sono andati in casa mia non c’era assolutamente niente, tutto quello che hanno portato via è stato una radio, che l’interprete poi, così direi con una di quelle che non si raccontano nemmeno, dice “questa radio” io lo guardavo “è la sua, ma le è stata sequestrata perché è stata trovata sintonizzata su Radio Londra”, immaginate un po’ se io ero talmente deficiente da sintonizzarmi. Questa è stata la prima esperienza. Io per 8, 9, 10, fino al giorno 10, tre giorni sono stato ripetutamente percosso, tant’è che mio fratello, quando il giorno dopo trovando addirittura, attraverso la resistenza, la possibilità di avere una divisa militare e dei documenti, è venuto alle SS, quando io l’ho chiamato mio fratello mi ha guardato e ha stentato a riconoscermi, talmente avevo il volto rovinato dalle percosse.

Morale della favola: il giorno 9 luglio tra gli arrestati c’era Giorgio Spada, un altro membro della resistenza, naturalmente io avevo sempre negato di conoscerlo, di appartenere ecc. ecc., perché tra l’altro le imputazioni che mi erano state rivolte erano gravissime, pluriomicidio e tutte le cose che solitamente vengono addebitate, che però non mi appartenevano i reati che mi venivano contestati, per cui mi sentivo abbastanza tranquillo. Quando il giorno dopo, il 9, durante un altro interrogatorio, io sono stato obbligato a mettermi in un angolo, su una sedia girato di spalle, mentre dicevano a questo mio compagno, che poi è venuto, mi ha seguito fino a Fossoli, Giorgio Spada, dicendogli “Franco Varini già praticamente ha confessato tutto”, e quando io ho cercato, lui mi implorava, diceva “ma che cosa hai confessato che effettivamente non abbiamo fatto niente?!” io ho cercato di voltarmi, mi ero stato ordinato di non farlo, e allora uno dei colpi che mi è stato sferrato e sono andato a finire addirittura in un angolo.

Voglio ricordare comunque che era presente all’interrogatorio molto direi coinvolto, sorridente, direi quasi felice, un ufficiale delle SS che era senza un braccio. Io non sapevo che si trattava, e questo l’ho scoperto in seguito, del maggiore Walter Reder, che è l’autore della famosa strage di Marzabotto. Comunque non gli interessava molto del mio caso.

La mia fortuna è stata comunque questa: 8, 9 e 10 percosse a non finire, fino a quando è arrivato, è stato portato davanti a me un sergente delle brigate nere che frequentava il nostro locale, il quale era colui che mi aveva fatto arrestare. Quando questo tipo si è trovato davanti a me, l’SS ha detto qualcosa all’interprete, il quale in italiano mi ha detto “riconosci in quest’uomo la persona che lo ha disarmato, che avrebbe?” lui ha avuto un attimo di incertezza, dice “era sera, non mi pare di riconoscerlo molto bene”, in quel caso probabilmente la Madonna di San Luca, protettrice dei bolognesi, ha messo una parola buona perché mentre l’interprete riferiva alle SS quello che era stato detto, l’SS alzando il tono di voce, probabilmente ha detto ancora all’interprete di ripetere la domanda, e questo forse intimorito delle conseguenze che poteva, ha tornato a ripetere, ho il mio volto devastato o che so io, ha tornato a ripetere “ma io veramente era di sera e non sono in grado con certezza”, e quello in quel momento è stata la mia fortuna, lui è stato quasi brutalmente portato fuori dalla camera, dall’ufficio dove si svolgevano questi interrogatori, io sono stato riaccompagnato nella cella, naturalmente ancora una volta privo di sensi, perché io non ero un eroe, ero un ragazzo che aveva 17 anni e mezzo e che voleva continuare a vivere. Riconosco che non era un Enrico Toti, non ero certamente uno dei grandi eroi della resistenza ma un ragazzo che aveva solo paura di morire e voglia di vivere.

Quando il giorno 11 sono stato riportato nell’ufficio degli interrogatori tremavo, ho avuto invece un attimo di, direi di sensazione particolare, perché ho visto, ho intravisto perché avevo anche un occhio semichiuso ecc., che il maresciallo dell’SS che mi aveva percosso sedeva sulla poltrona e l’interprete si rivolgeva nei miei confronti direi in un modo tutto particolare. Dicendomi al termine di tante parole che non ricordo: adesso lei firmerà questi documenti e le debbo comunicare che la sua condanna a morte, della quale io non sapevo certamente niente, è stata trasformata in lavori. Io pensavo, sul momento forse ho pensato alle donne tedesche, le patate ecc., poi probabilmente senza nemmeno ringraziare sono nuovamente crollato. E poi sono stato portato nuovamente in cella.

Il giorno 11 è stato l’ultimo giorno che io ho trascorso nelle celle delle SS di Via Santa Chiara. Dopo di che il 12 di mattina ero solo nella cella, perché il giorno prima due fratelli bolognesi, due eroi della resistenza bolognese e un giovane che era stato trovato con un’arma, un’arma scarica, erano stati giustiziati, cioè uccisi, mi spiego? questo l’ho saputo in seguito naturalmente. Ero solo in questa cella quando è stata aperta la cella verso le quattro e mezza, adesso non ricordo perché l’orario non sono in grado di darvelo, non c’era il campanile che abbiamo in questa nostra bella città che mi può dare l’ora. Sono stato portato fuori, c’era un camion vuoto con 4-5 delle SS. Non ho pensato nemmeno lontanamente che mi portassero alla fucilazione. Ho guardato in alto, c’era un cielo stellato, ho invocato mia madre perché non avevo tanti protettori in alto, allora dico se mi dava una mano.

Siamo andati con questo camion, siamo arrivati, cioè mi hanno portato davanti al carcere di San Giovanni in Monte, qui hanno caricato un’altra trentina di prigionieri, e via, siamo partiti. Quando siamo passati sulla Via Emilia, questo è un fatto che voglio ricordare perché particolare, ad un certo momento il camion era scoperto, le SS sedevano sui lati del camion, uno ha detto “l’abbiamo passato”, io sul momento non l’ho nemmeno capito, stavamo facendo la Via Emilia, voleva dire “abbiamo passato via Gucchi” che era la strada dove c’era il poligono di tiro, per cui dice qui non …

Siamo arrivati nel campo di concentramento di Fossoli, a Carpi di Modena, il 12 luglio del 44. Una data che va ricordata, perché il 12 luglio del 44, quella stessa mattina alcune ore prima erano stati portati fuori dal campo 70, anzi 69 perché uno di loro, Teresio Olivelli riuscì a nascondersi, e altri due riuscirono a fuggire, gli altri sono stati fucilati a… Questo è un po’, e arriviamo, qui siamo a Fossoli.

Nel campo di Fossoli mi sono direi, debbo dire la verità qualcuno ha raccontato cose forse diverse da quelle che io posso oggi ridere, non è che mi sia trovato malissimo, però alcuni giorni dopo, dopo esser stato rapato ecc. ecc., dormivo comunque su un letto da solo, e direi mi pareva che tutto il mondo ormai si fosse, le acque del mondo si fossero acquietate, ho chiesto un attimo ai miei compagni come andavano, perché avevo incontrato, oltre quello che avevano arrestato, altri miei amici, Felletti, insomma altri membri della resistenza, come andavano le cose “mi pare che qui vada tutto bene” dice “senti il giorno che siete entrati voi hanno fucilato quella gente”, e in giugno Leopoldo Gasparotto è stato giustiziato con un colpo alla testa. A me dissero che l’aveva ucciso il maresciallo Hans Haage che era il vice capo-campo, comandato da Tito ecc., dico e invece poi pare che sia arrivata una macchina, ma queste sono cose che non sono in grado di raccontare perché racconto solo quello che ho vissuto e che ho visto personalmente. A Fossoli sono rimasto fino al 5 agosto, una data che non posso certamente dimenticare, perché ricorreva il mio diciottesimo compleanno. Perché sono rimasto a Fossoli? E questo è un fatto che anche questo mi debbo assolutamente ricordare, perché debbo a Odoardo Focherini, che era nel campo, il quale poi tutte le sere, un uomo eccezionale, che mi incoraggiava continuamente, “coraggio topolino”, direi il nomignolo topolino me l’ha affibbiato lui, “stai tranquillo che ce la facciamo”. Quando verso il 20 di luglio, forse lo stesso giorno dell’attentato, hanno fatto un’adunata generale nel campo di Fossoli dicendo che chi voleva andare libero lavoratore in Germania si fosse reso disponibile. Però, l’adunata era stata fatta giorni prima, scusate, di quella data, chi era malata, chi era portatore di determinate malattie non doveva assolutamente dare la propria disponibilità. E qui Odoardo Focherini mi ha detto “tu non hai avuto nessuna malattia”, parlando del più e del meno io gli ho detto “ma, sai malattie, una serie di cicatrici dovute a dei disturbi di natura direi tubercolare” “tu dì questo”, e io ho raccontato che ero di fatto ammalato di tubercolosi ossea, per cui sono stato immediatamente scartato. Il buon Odoardo pensava in questo modo che chi rimaneva nel campo poi sarebbe stato liberato. Siamo rimasti in una trentina circa, questo dicevo fino a quando, dopo che erano partiti il 22, mi pare, di luglio, questi, il 22 di agosto scusate, questi che avevano dato la propria disponibilità, noi siamo rimasti in quel campo fino al …

No scusate ho fatto confusione, il 5 agosto ci hanno fatto il trasferimento nel campo di Bolzano, Gries, un campo di concentramento. Io voglio ricordare un fatto che non è purtroppo stato ricordato da nessuno ma che io sempre voglio ripetere: nel campo di Fossoli, faccio un passo indietro, Odoardo Focherini ci aveva consigliato che in caso di allarmi aerei ecc. ecc., noi ci dovevamo portare vicino ai reticolati perché probabilmente gli alleati avrebbero spezzonato, buttato, e noi abbiamo creduto a questa che è stata poi una leggenda, dovevano arrivare i partigiani che non sono arrivati, doveva intervenire la chiesa che non è intervenuta. Io comunque una sera corro in fondo a una baracca, quando giro l’angolo della baracca, perché c’era stato, era in corso un allarme aereo vedo un uomo, capelli neri, vestito di grigio, ricordo come fosse adesso, scarpe da tennis ai piedi, io mi fermo un attimo e dico “buonasera”, non l’avevo mai visto, quello doveva essere, o era un SS vestito con abiti civili o era uno che era dentro al campo, non sapevo che si trattava di Teresio Olivelli, colui che era stato nascosto nel campo. Lui disse “buonasera”, finisce tutto, lui sparisce, io rientro in baracca e corro subito da Odoardo Focherini, ormai eravamo rimasti in pochi, Odoardo Focherini era ormai il capo carismatico di questi, e gli dico “Odoardo sa che ho visto”, io davo del lei e lui, e Odoardo per la prima volta mi disse “che cosa hai visto? ci siamo solo noi, ma tu stai sognando!”. E io insisto, e per la prima volta, ripeto, Focherini è stata abbastanza duro, mi ha detto “tu non hai visto niente, nessuno, adesso la pianti”. Se poco mangiare ti fa addirittura, adesso la finisci e basta, non hai visto nessuno. Io a questo punto ho detto “va be’ non ho visto nessuno”, sono tornato tranquillo, e qui arriviamo al momento del 5 agosto.

D: Scusa, ti hanno immatricolato a Fossoli?

R: No io, mi hanno immatricolato ma non ricordo il numero di matricola. Arriviamo il 5 agosto, veniamo trasferiti con corriere, e questa è una delle poche volte che è stato detto, i Focherini ne hanno avuto conferma dalle lettere, dai biglietti che Odoardo mandava fuori. Ci hanno trasferito a Bolzano. A Bolzano il trattamento era abbastanza, era molto diverso, ormai eravamo già non dico in un lager ma eravamo già in un campo abbastanza pesante, delle docce che venivano fatte addirittura alla mattina con dei tubi di gomma.

Alcuni giorni dopo la mia permanenza a Bolzano, siamo tutti lì nel campo, fuori dalle baracche, quando improvvisamente i cancelli si aprono, uno stridore di freni ecc., entra una mercedes nera, io sono contro le Mercedes ma non perché sia un ferrarista, perché proprio la Mercedes mi è rimasto sul gozzo, escono da questa Mercedes 3 o 4 SS e tra questi vedo l’uomo, l’uomo, aveva 36-37 anni, a me sembrava, che ero un ragazzino, l’uomo che avevo visto era Teresio Olivelli, completamente col volto tumefatto, sanguinava ecc. ecc. Quando io sono corso a cercare Focherini, gli ho detto “guarda che l’uomo che è arrivato era quello che ho visto là”, Focherini ha cominciato a piangere, mi ha preso così e mi ha detto “sì era l’uomo che noi avevamo tenuto nascosto in una baracca”, e probabilmente Focherini era uno di coloro che eroicamente, nonostante che a casa avesse 7 figli, o 6 figli, adesso non ricordo bene, aveva provveduto a mantenere. Naturalmente nel momento in cui noi ce ne siamo venuti via secondo il mio punto di vista, io non ho certezza, non ho documentazione in proposito, Focherini ha affidato all’unica persona che rimaneva nel campo, che era uno stalliere claudicante, avrà affidato l’incarico dandogli un compenso, di proteggere Teresio Olivelli, senza dubbio di dar da mangiare a Tereso, probabilmente, io non ho mai visto arrivare lo stalliere su a Bolzano, e lo stalliere probabilmente in cambio della propria libertà ha consegnato Teresio Olivelli alle SS, perché questa è la cosa che io ho sempre pensato perché non ho certezze in proposito.

A Bolzano ci rimaniamo fino al 5 di settembre del 1944. Poi la mattina del 5 settembre veniamo portati in una stazione ferrovia, quella di Bolzano naturalmente, stipati dentro a dei vagoni che vengono piombati, ormai questa è una storia che tutti conoscono e che hanno visto, e via verso destinazione ignota. Naturalmente sul fatto del comportamento della popolazione tedesca io cito un piccolo episodio, che non vuole essere naturalmente, perché non tutti i tedeschi erano nazisti, questo va ricordato, pare che circa 700 mila tedeschi siano tra coloro che sono morti nei campi; e non va dimenticato che i primi 12 mila che sono andati a Dachau e che hanno iniziato, erano tedeschi, naturalmente oppositori del regime nazista.

Volevo dire siamo arrivati in una stazione, durante questo viaggio, ci alternavamo, c’era una finestrella nei vagoni ferroviari che c’è ancora, ma allora c’aveva un particolare: c’era del filo spinato. E allora ci alternavamo a questa finestrella, ci davano un po’ il cambio per respirare un po’ e vedere qualcosa fuori. E in questa stazione, che io ho detto era Monaco di Baviera, qualcuno può dire anche un’altra stazione, ma non è importante, era affacciato uno dei fratelli De Cassani, non so era … Arduino, erano due fratelli che erano con me. Ad un certo momento vedo che si ritrae, era assieme ad altri. Io dico “cosa succede?” perché vedo che c’è un gesto direi di un certo tipo, dice “ma fuori ci sono dei civili, che probabilmente stanno chiedendo chi sono coloro che sono nei carri” alla risposta che ricevono dalle SS sputavano contro le finestrelle. Ma dico probabilmente sarà qualcuno che era fanatico, ne abbiamo avuti tanti noi.

Il 7 settembre, e qui non facciamo confusione perché le date sono effettivamente quello che io ho fissato in modo indelebile nella mia mente, andiamo a Flossenbürg. Ci fermiamo, facciamo un tratto di strada, una salitella che ci porta all’ingresso del campo, e io ricordo il mio ingresso in questo campo: al centro avevamo Bortolotti, da una parte di Bortolotti c’era Franco Varini, il sottoscritto, dall’altra Giuseppe Marrani. Bortolotti veniva sorretto da Franco Varini e da Giuseppe Marrani perché ormai era cieco. Bortolotti che era stato arrestato, al quale avevo promesso che sarei andato poi a trovare la sua famiglia perché lui aveva certezza che io ce l’avrei fatta, cosa che io invece effettivamente, purtroppo, perché bisognerebbe tornare, cioè andare avanti nel tempo, sono tornato in condizioni disastrose, va be’, non voglio giustificarmi. Siamo entrati in questo campo, io sono rimasto subito sconvolto dall’immensità del campo, ci hanno fatto denudare completamente, io non avevo molto da perdere, non avevo neanche, ve lo debbo dire, un senso di pudore particolare, un ragazzo di 18 anni, nato e vissuto in un rione a quelle cose, ma vicino a me c’erano uomini che avevano 65-70, forse lo stesso generale Armellini ne aveva forse più di 90, perché so che è morto che aveva circa 100 anni, tutti siamo stati, e poi ci hanno messo dentro a delle grandi docce. Queste docce avevano delle finestrelle attorno, avevano un gradino per scendere direi nella zona chiamiamola così della doccia vera e propria. Tutti stipati sotto, le finestrelle erano chiuse, han cominciato ad aprire l’acqua, che era caldissima, non potevi uscire perché attorno c’avevi i kapò, i famosi capò che comandavano di fatto all’interno dei campi, con i loro Gummi, con i loro bastoni ecc. ecc. gomma fuori, gomma grossa fuori e fili di acciaio, di ferro, non so bene, all’interno, ti ributtavano dentro. Finito questo primo momento di tormento incredibile, ferma l’acqua calda, diciamo “è finita”, fanno aprire le finestrelle e comincia invece il getto d’aria fredda. Niente, finito questo calvario, siamo usciti semi-nudi, siamo andati vestiti così poi alla rinfusa, e da quel momento, e questo l’ho appreso dopo, l’ho appreso addirittura quasi 50 anni dopo che mi era stato assegnato il numero, che avevo dimenticato il nome e il cognome, era il 21.778, io ero a Flossenbürg ero il numero 21.778. So solo che è stata una cosa terribile, io credo che uno dei campi peggiori, si è detto al processo di Norimberga, nel famoso processo contro i gerarchi nazisti che Flossenbürg era considerata la fabbrica della morte, in effetti io credo che fosse la fabbrica della morte. La sera riusciamo finalmente a prendere possesso, sempre tra virgolette, passatemi il termine, della baracca, dove in castelli a tre piani venivamo collocati in tre in ogni piano. Io chiedo ad un certo momento a Teresio Olivelli, che poi è diventato il nostro interprete, ed è stato l’uomo che ha salvato un’infinità di persone, un eroe veramente, gli dico “scusa Tereso”, forse gli davo del lei, non ricordo, adesso posso dire così “io dovrei andare in latrina”. Disse “tu adesso esci, vai avanti verso la torretta, quando ad un certo momento finisce il fascio di luce, ti fermi, vieni inquadrato dalle SS e tu, in tedesco, me l’aveva già detto il nome, ripeti il tuo 21.778 dopo esserti tolto il …, il cappello. Quello borbotterà qualcosa, tu sulla destra hai le latrine“. Lo spettacolo al quale ho assistito, che non mi ha provocato l’infarto, io dico probabilmente avevo un cuore d’acciaio, quando ho aperto questa cosiddetta latrina, che è immensa, una baracca immensa, al centro di questa latrina c’era un’enorme apertura, dove probabilmente davano dei solventi, una panchina correva tutto attorno, e una specie di corrimano, se avevi un certo tipo di bisogni ti sedevi sulla panchina e facevi il tutto. Solo che la cosa che mi ha colpito è che attorno tutto attorno c’erano uomini morti, scheletri tutti attorno. Quella – in seguito l’ho saputo – era la latrina obitorio, quando durante il giorno non riuscivano a portare via tutti i detenuti, li fermavano lì, dopo avergli fatto, li lavavano, le bagnavano, gli scrivevano il numero di matricola e sotto … secondo la nazionalità, dopo di che li mettevano. Io ho aperto, ho guardato un attimo, ho chiuso la baracca, i miei bisogni fisiologici sono scomparsi, sono rientrato nella baracca mia, dopo aver ripetuto la famosa sceneggiata, ho avvicinato Olivelli gli ho spiegato la cosa, ho detto “io non andrò mai”, e lui ha detto “è questione di tempo Franco, topolino ce la farai”, ormai era il mio nome. E infatti il giorno dopo o due giorni dopo io ero lì così, guardando i poveri morti, i poveri compagni morti tutti attorno ecc., a soddisfare le mie esigenze. La vita in questo campo iniziava per noi deportati alle 4 e mezza di mattina, fuori di corsa “…”, fuori di corsa dalle baracche, sveglia, fuori, adesso lo dico in italiano perché non tutti sanno il tedesco, è una lingua abbastanza dolce, soprattutto pronunciata da questi capò, tu uscivi di corsa dalle baracche, mi spiego? tanto che loro molto direi sorridenti muovevano i loro Gummi per bastonarti, io debbo dire che ne ho prese poche, ma non perché fossi più abile degli altri, perché avevo 18 anni, perché ero un giovane, un giovane che … Fuori, stavamo tutto il giorno fuori, la mattina ti davano una sorta di gamella, di contenitore di ferro che non era neanche smaltata, era tutta arrugginita ecc. ecc., con qualcosa dentro che non ho mai saputo per l’esattezza che cosa fosse, tu bevevi sta roba. Mi ricordo che i primi tempi in questa baracca il nostro convoglio ho scritto un libro nel quale dico “eravamo in 450”, ho sbagliato, perché dagli archivi storici di Washington, cioè quelli requisiti dalla terza armata di Patton, che ci ha liberati, è risultato che eravamo invece solo 448, ho sbagliato di due unità, purtroppo non ho contato bene in quanti eravamo.

Che cosa è successo? E’ successo che i primi tempi per i 450 non c’erano a sufficienza i contenitori per mangiare, allora mangiavamo, passavamo agli altri. I primi tempi io non è che facessi direi il sofisticato, ma cercavo, poi dopo mi ricordo che il terzo, quarto giorno ho cominciato anch’io, scusate, a leccare la mia gamella, questo avveniva la mattina, a mezzogiorno ci davano delle cose che non so bene di che cosa si trattasse, e così alla sera. Stavi fuori tutto il giorno, e continuamente venivano ripetuti gli appelli, cioè 21.778, sempre in tedesco, veniva ripetuto un’infinità di volte, l’interprete, il grande Teresio Olivelli, ripeteva lui quando non eravamo pronti, dopo in seguito ce la facevamo, ma i primi giorni ti toglievi il cappello e dovevi dire “jawohl” e questo veniva ripetuto tutto il giorno. Questo era, la cosa più tragica è che purtroppo tanti che sono stati a Flossenbürg o hanno dimenticato o non vogliono ricordare, io li capisco, avviene la domenica, la prima domenica che passiamo nel campo, dopo una settimana, 3, 4, 5 giorni trascorsi nel modo che vi ho detto, la domenica non usciamo. Siamo in baracca. Cosa avviene? Nessuno di noi sa con certezza che cosa avverrà, ci fanno uscire, sempre urlando incolonnati, ci portano sotto un immenso tendone, in piedi, tutti in piedi, in fondo c’era una sorta di palco, escono dal fondo degli zebrati, degli internati zebrati, i quali ci propinano una musica che ricordo, perché in seguito ho lavorato nel teatro per tanti anni, wagneriana, infatti ho sempre odiato Wagner, mi perdoni, proprio perché dico vi immaginate, io ho pensato, pur non essendo una cima e non essendo molto addentro alle cose, all’essere umano, alla sua anima ecc., ho pianto.

Io ho cominciato a piangere, a freddo. Mi sono reso conto forse in quel momento non tante delle percosse ricevute, ma del sadismo, della bestialità di questa gente, la quale ti trattava in quel modo, sotto l’acqua, … e poi per un paio d’ore ti dovevi sorbire in piedi la musica wagneriana. Questa è stata l’esperienza che …

Fortunatamente dopo un certo periodo di tempo, noi eravamo utilizzati nella cava che c’era vicino, che era praticamente dentro lo stesso lager di Flossenbürg, fino a quando un bel giorno ci chiamano tutti e dicono: coloro che sono degli specialisti, coloro che sono in grado di svolgere un lavoro di meccanica e di alta precisione possono alzare la mano, i quali verranno sottoposti.

Attenzione – disse Olivelli – questi stanno dicendo che se voi dite di essere degli specialisti e non lo siete, è finita, è bene che diciate la verità. Io mi ricordo in quel momento di aver frequentato l’istituto tecnico a Bologna, per cui dico “io tento”, e alzo anch’io la mano e mi metto tra gli specialisti.

Ci portano tutti in fila coloro che avevano dato la propria disponibilità come specialisti. In fila passiamo davanti a un signore che ho appreso dopo che si trattava di un ingegnere italiano di Milano, un volto che io ricordo sempre, perché è stato un volto umano, veramente io non conoscevo quest’uomo, mi han detto dopo che era un ingegnere, forse era solo un geometra, ma non ha molta importanza. Sono arrivato davanti a lui aspettando che questi mi rivolgesse domande di un certo tipo, ha alzato un calibro e mi ha detto “sai che cos’è questo?” gli ho detto “sì è un calibro”, “benissimo”, e sono diventato specialista, adatto cioè ad andare nelle fabbriche che costruivano gli apparecchi, i famosi Messerschmitt dell’Ufflans. Allora va be’ sono diventato specialista. Dopo alcuni giorni le solite cose che sapevano fare molto bene le SS, “specialisti con me” poi ci portavano in cava fino a quando viene veramente il momento in cui dicono “specialisti con me”, ed è veramente il giorno in cui ci mettono, ci caricano su dei camion e ci portano ad Augsburg, dove esisteva una delle più grandi fabbriche di aerei delle Messerschmitt. A questo punto ci portano là, veniamo trasportati, addirittura mi ricordo, perché i ricordi poi riaffiorano nel tempo, che eravamo addirittura alloggiati presso una caserma militare dell’aviazione tedesca, ci portavano la mattina via con un trenino fino in questa fabbrica, lavoravamo tutto il giorno, dentro, ecc. ecc., tutti i giorni eravamo bombardati, pre-allarme fuori i civili, allarme quando già bombardavano fuori noi con le SS di fianco, e ci portavano dentro dei bunker.

Noi andavamo lì, più stavamo nei bunker e più eravamo felici, perché tanto dicevamo lì, qui siamo tranquilli, eravamo seduti là dentro, le SS sulle porte. Che cosa succede? Che verso l’8, il 9, adesso non ricordo bene, forse il 7, ma sono date che non sono molto importanti, noi in questo bunker ci stiamo addirittura una cinquantina d’ore, perché gli aerei alleati, e questa è storia, avanti e indietro dalle loro basi, hanno distrutto completamente tutto quello che era nei campi d’aviazione, gli hangar, le officine, tutto. Tant’è che quando usciti da lì ci hanno poi portato in un altro sottocampo, io ho appreso dopo che non ero più in forza al lager di Flossenbürg ma che Augsburg era sotto il campo di Dachau, e pertanto anche nell’altro campo nel quale mi hanno portato Kottern, che era vicino a Kempten, sono i due campi ecc., ero già in forza a Dachau con il numero 117.065, ero diventato già titolato, mentre prima avevo solo 5 cifre, lì mi avevano cresciuto di grado probabilmente, da 21.778 ero diventato il 117.065. A Kottern ha continuato a lavorare, io recentemente pensate, dopo tanti anni, grazie ad un’amica francese ho cercato di rintracciare due francesi, Andree Pittau, che adesso c’ha tutta una documentazione che mi è arrivata, e Jan Legauf, che grazie a loro io sono riuscito, parlo di Kottern, a sopravvivere, perché? Perché erano coloro ai quali avevo confessato, Andree Pittau era un italo-francese, che io non ero troppo bravo a fare certe cose. Allora cosa succedeva? Che stando molto attenti alle SS Pittau faceva il pezzo che era quasi simile al mio, poi Pittau mi passava il suo e io gli davo il mio che era una schifezza, voglio dire in modo buono, e ci pensava Andree. Io recentemente ho cercato, e la moglie di … Pittau mi ha scritto dal posto dove abita dicendo che purtroppo il marito, che è stato anche insignito della legion d’onore ecc. ecc. ecc. è morto, e pertanto non sono riuscito a riprendere contatto. Mentre sto ricercando ancora Jean Legauf, che mi han detto addirittura che è stato un esponente del governo di De Gaulle, ma a parte questo che non è molto importante io cercavo questi due amici perché assieme a loro io ho vissuto tutta l’esperienza di Kottern, dall’ottobre, così dicono i documenti che ci hanno mandati gli alleati, requisiti e richiesti e ottenuti da due giovani di Flossenbürg, che significa che i tedeschi sono molto bravi, i giovani tedeschi sono molto bravi, e bisogna dirlo con forza questo, loro hanno richiesto a Washington, i quali 50 anni dopo solo gli hanno mandato la documentazione. Per cui è risultato che a Kottern io sono stato fino al 27 di aprile.

D: Lì lavoravi dove?

R: Lavoravo in una fabbrica che anche lì si produceva sempre aerei, pezzi per aerei, io credo se han montato qualcosa di mio quell’aereo non si è alzato, oppure è precipitato, io me lo auguro, credo che grazie ad Andree abbiano potuto proseguire. E sono rimasto con questi due amici, ci tengo veramente a ricordare anche questi due cari personaggi, che sono Andree Pittau e Jean Legauf, perché? Perché con loro ho vissuto tutte le fasi della liberazione, fasi che sono state veramente da sole materia per non una storia, io direi proprio per un film. Pensate che ad un certo momento il 25 di aprile, io ricordo questa data, del 45, ormai sentivamo già i cannoni, gli alleati che erano vicini ecc., non ci portano in fabbrica ma ci fermano nelle baracche. A proposito di fabbriche io forse non ho detto che in questa fabbrica ho vissuto anche l’esperienza di mangiare dell’erba, consiglio a coloro che si trovano in difficoltà finanziarie o con scarsità di viveri. Perché lo ricordo? Perché quando ci portavano dalla fabbrica, anche lì allarmi aerei ecc., noi avevamo fatto, c’era un sentiero che io ho ribattezzato “il sentiero dell’erba” perché ci tenevamo, stando molto attenti alle SS, e non seguendo i consigli dei medici che erano con noi nei campi, raccoglievamo l’erba da terra che poi nascondevamo, la mettevamo sotto agli armadietti, in fatti una volta me l’hanno rubata e ho pianto, perché alla sera con l’erba, il brodo ecc., veniva una minestra di verdura che credo di non averne mai mangiate di uguali. Allora dicevo tornando a quella, il 25 di aprile del 45, quelli non ci mandano in fabbrica, ma rimaniamo dentro alle baracche. Di sera ci incolonnano, siamo circa duemila, anche questo è storia, non lo dico io ma lo dicono gli alleati che ci hanno liberati, ci portano fuori di notte, perdiamo tutto quello, una coperta ciascuno e la gamella, la famosa gamella nella quale si mangiava, da noi il cucchiaio l’avevamo, il cucchiaio insomma, non pensate che fosse argenteria o che fosse d’oro massiccio come ho mangiato in una ambasciata, una delle nostre ambasciate, ma erano cucchiai di fortuna e ci hanno portato fuori. Noi viaggiamo tutta la notte a piedi, quando viene alle prime luci del giorno fuori, ci portano fuori della strada in mezzo a dei boschi, in quella zona era pieno, … era pieno di boschi ecc., nascosti lì. Rimaniamo lì ancora tutto un giorno, il giorno dopo, il giorno dopo, dico noi pensiamo qui adesso cosa succede? cioè noi rimaniamo lì tutto il giorno, la sera fuori ancora, fino a quando il giorno dopo non aspettano niente, ci portano fuori dal bosco ormai probabilmente gli alleati erano a pochi chilometri, ci incolonnano in mezzo alla strada. Noi abbiamo ancora attorno coloro che ci badano, che non sono più i baldi giovani delle SS, ma sono dei vecchi soldati della Wehrmacht, gente che aveva all’incirca la mia età, con dei fucili che toccavano in terra, dei nanetti, insomma così. Ad un certo momento si ferma un camion fanno fermare la colonna, poi qualcuno del camion, un ufficiale, urla “postertrep” sentinelle … Questi, è giorno, è tardo pomeriggio ma è ancora giorno pieno, salgono su questo camion, io mi ricordo che alcuni di loro avevano la bicicletta, io sono molto preciso in queste cose, sono uno storico …, dico caricarono addirittura la bicicletta. Noi rimaniamo senza girare per un minuto e mezzo, due minuti al centro di questa strada, in duemila, non si muoveva nessuno. Poi improvvisamente questa colonna si rompe, qualcuno corre avanti verso un piccolo paese, noi seguendo Andree, che anche lui era esamine, sentivamo l’incitamento invece di coloro che capivano cioè i nostri ufficiali, ufficiali nell’esercito, non più ufficiali ma deportati con noi, quelli dicevano “andate nel bosco non andate verso la città”, infatti molti dei nostri, alcuni han detto molti, non so quanti, sono stati uccisi dai franchi tiratori che li aspettavano perché la nostra divisa da zebrati faceva paura. Noi siamo entrati in questo bosco, è incominciato a imbrunire, ci siamo avviati, abbiamo incontrato alcuni francesi che lavoravano già lì, i quali avevano il classico berrettino, così Jean, Andree, baci e abbracci, i quali dicono “attenzione un po’ più avanti ci sono quelle baracche di legno che servono a coloro che lavorano, forse non so a coloro che badano agli armenti o che so io, voi state lì, domani mattina vedete che ci pensiamo noi”.

Noi andiamo dentro questa baracca, siamo io, Andree Pittau e Jean Legauf, fino a quando ad un certo momento, mi ricordo dopo 10-15 minuti sentiamo qualcuno da fuori che bussa. Quelle baracche erano fatte praticamente con degli assiti che si guardava, era un altro deportato come noi, apriamo, era un giovane. Un giovane russo, per cui immaginate un po’. Il quale viene dentro, ci fermiamo lì, stiamo lì. Intanto viene mattina, perché è interminabile quella notte. E noi sentiamo lo sferragliare, allora bisogna decidersi di andare a vedere che cosa accade. Vai tu? – dice Jean – dico “no io non me la sento sinceramente, sono arrivato fin qua, aspetto” Jan dice “io ti faccio compagnia” Andree anche. E allora cosa succede? il giovane russo dice “io io” si offre lui, vai pure, ti aspettiamo qua. E infatti lui corre fuori. Dopo circa 10 minuti lo sentiamo urlare “…” ci sono i compagni, probabilmente aveva sbagliato, la stella che c’era sui carri armati non era quella dell’armata rossa ma era di Patton. Allora corriamo giù nella strada. Ricorderò sempre, ci fermiamo contro un muretto, io questo l’ho scritto anche, ho fornito materiale anche a dei giornali italiani a livello nazionale, io Andree e Jan seduti contro un muretto, non piangevo solo io, tutti e tre piangevamo, passava intanto questi giovani dell’armata di Patton, questo lo abbiamo appreso dopo. A me faceva impressione vedere i soldati con dei foulards di seta al collo, dopo poi ho visto che c’avevano anche la pistola, perché Patton era un po’ un fanatico della rivoltella, i quali ci rivolgevano gli onori militari, dalla torretta i soldati ci salutavano. E contemporaneamente ci buttavano giù tutto quello che avevano nei carri, io mi ricordo che se non stavi attento qualche scatoletta ti poteva colpire e finivi lì. Allora io mi ricordo che dicevo “tutta questa roba la porto a casa”.

Ho saputo dopo che erano gli uomini della terza armata corazzata del generale Patton. Allora lì passati loro, io la prima cosa che chiedo a loro quando si fermano, siccome gli italiani e i russi, allora erano sovietici, avevamo un segno particolare nella testa, oltre ad essere rapati a zero aveva la Strasse. Allora io quella Strasse mi dava un po’ fastidio, allora chiedo a qualcuno di questi, lo faccio dire da Andree che quasi tutti parlavano francese, io parlavo solo in bolognese e non ci intendevamo, allora dico: senti cerca di … Infatti vanno a trovare un barbiere, poveretto lo portano giù, chissà quello credeva che lo fucilassero. E quello mi ha rapato a zero, intanto mi sono messo subito a posto con la testa, anche se ero distrutto, comunque è stato il primo passo avanti, l’ho fatto.

Poi cosa succede? Ci dicono che dobbiamo rientrare, tornare indietro, stare attenti ai franchi tiratori, si fermavano continuamente delle pattuglie dell’armata di …, quei gruppi ecc. ecc., perché volevano essere fotografati con noi, pertanto fotografie, baci, abbracci. Io ricordo un particolare, tra l’altro ad un certo momento quando ho saputo da Andree una pattuglia, una delle tante pattuglie, io avevo chissà quante fotografie mie ci saranno di Andree, ci saranno di Jan saranno in America. Dice “è italiano”, c’è uno con noi, c’è un italiano. Si presenta un tipo, per noi un giocatore di pallacanestro, sarà stato 2, 2.5, mi guarda, io gli arrivavo circa all’altezza della cintura dei pantaloni, il quale mi dice “paesà”, aveva gli occhiali ricordo, magro, alto, mi abbraccia e comincia a piangere lui, io facevo “dai”, piange lui che dovrei piangere io. Non capisco bene, allora fa dire a Andree attraverso questi amici, dicono: questa sera non mangi niente perché io subito gli do. E lui mi porta il suo rancio, che era un rancio che i nostri generali mangiavano forse. Tra l’altro mi porta anche un’arancia californiana, io invito tutti i ragazzi a non mangiare le arance californiane che sono una schifezza. Allora niente, comunque è stata una cosa bellissima, questo ragazzo, che sapeva dire solo paesà, e loro han detto questo è figlio di, forse era nipote di italiani che erano stati in America, il quale era felicissimo di aver trovato. Sono rientrato a Kottern, sono rientrato a Kottern dove tre giorni dopo la liberazione ho corso il rischio di morire per una congestione perché mangiavo continuamente, anche perché mio padre, mio nonno già mi avevano lasciato in eredità una fame che appunto era atavica, e io mangiavo continuamente nonostante che i medici e anche gli stessi americani dicessero “stai calmo” io continuavo a mangiare fino a quando una sera sono svenuto e grazie agli americani, devo dirlo, perché è giusto dirlo, sono stato salvato.

Poi cosa avviene? Io tengo la mia divisa da zebrato, la tengo, ci portano in un campo di raccolta che si chiama Fissen, o Fussen, per me è Füssen che si dice, eravamo un’infinità. C’era un capitano italo-americano che non voleva più assolutamente vedermi così. Allora scendiamo ad un compromesso, lui mi dà un pastrano, io siccome non sono tanto alto, anzi direi che sono abbastanza basso, scendiamo ad un compromesso, io su quella divisa devo tenere un pastrano, il qualche aveva le maniche che mi arrivavano qua, praticamente era come un saio, arrivava ai piedi. Comunque sono rientrato in Italia in questo modo, il 25 o il 26 maggio, adesso non ricordo esattamente, forse il 27 di maggio, ci hanno caricato su dei camion, ci hanno portato in Italia, ci hanno fermato a Verona, lì ho fatto la mia rivoluzione personale, coinvolgendo tutti perché ci avevano messo dentro una caserma che era piena di cimici, allora nonostante che i carabinieri che erano alla porta ti invitassero a non uscire, noi siamo usciti, abbiamo dormito in terra comodamente. Il giorno dopo con dei mezzi di fortuna, c’erano anche dei militari italiani che ormai erano con gli alleati. Ci hanno portati fino a Modena, lì ero con un gruppo di modenesi, baci e abbracci, ci vediamo. Mai più visti. E finalmente rimango solo, finalmente no, comunque sono solo. Devo arrivare a Bologna, e io non so bene, ricordavo forse un film con Gable, la corda che si faceva così per fermare, e io mi metto in mezzo alla strada sulla via Emilia, comincio a far così senza alzare naturalmente il pastrano, fino a quando si ferma questo grosso camion. Lo guidava un negro gigantesco, il quale ad un certo momento si ferma, mi fa salire, io gli dico Bologna, lui mi fa capire che mi porta a Bologna però devo stare nascosto perché la polizia militare non voleva che caricasse nessuno. Io stavo lì con questo ragazzone, non avevo mai visto un negro così grande, veramente non ne avevo visto neanche di più piccoli, comunque arriviamo a Borgo Panigale, lui forse ha detto, gli è sfuggito Bologna o qualcosa del genere, io ho alzato la testa e immediatamente una paletta si vede che si è alzata, era la polizia militare, m’ha fatto scendere, ci siamo salutati, ho attraversato il Reno, il fiume Reno che chi è a Bologna sanno che è il fiume che passa vicino a Bologna, allora era in secca. Io l’ho attraversato a piedi, e lì c’era un sacco di persone che aspettavano i ragazzi che erano prigionieri, mostrando foto, ma come facevi? non riuscivi. Fino a quando un signore si è attardato più degli altri con me,e mi ha accompagnato fino all’unico, uno dei pochi tram che c’era ancora rimasto. Saliamo su questo tram, addirittura incontrai un bigliettai che voleva addirittura che io pagassi il biglietto, forse era l’unico bigliettaio che era rimasto, comunque il signore mi ha pagato e mi ha portato fino nei pressi del mio rione, che era il rione dei Mirasoli. Quando sono arrivato lì ho detto “senta io la ringrazio”, queste sono parole che dico in questo momento, non so cosa gli ho detto. A questo punto se lei mi permette qui ormai sono arrivato, vorrei giungere a casa solo. Ci siamo abbracciati. Io ho fatto via Solferino, una delle strade del mio rione, sono arrivato davanti al bar dove un anno prima avevo tutti i miei amici. Davanti al bar c’era Libero …, un amico d’infanzia, dico “ciao Libero”, questo mi guarda e disse “ciao” ma probabilmente non ha capito. Allora mi ricordo che c’era la formula magica, dico “Libero sono Franco, Franco Della Mina”, braci, abbracci, c’è Franco, tutti fuori dal bar, tutti attorno. Intanto qualcuno corre nel rione a urlare “è tornare Franco”, … avevano detto che ero stato fucilato. Quando dopo alcuni minuti, forse 6-7 minuti perché non ti salvavi più, volto l’angolo di via Miramonte, questa strada che io ricordo perché qui avviene il grande fatto che conclude la mia storia, c’era tutto il rione, si era in questa strada. Al centro di questa gente c’era mio fratello Renzo, aveva 22 anni, io ne avevo 18. A Renzo avevano già comunicato che ero stato fucilato, ci abbracciamo, per la prima volta, questo lo ripeto sempre, nella mia vita ho visto mio fratello piangere, e sono stato io che gli ho detto “dai Renzo basta, non piangere, è finita”. E ho capito che quel pianto liberatore, l’ho anche scritto, segnava di fatto la rinascita dell’uomo, avevamo vinto ancora una volta, perché quell’atto umanitario era il segno della nostra riconquistata dignità. Questa è un po’ la mia storia. Una storia che si conclude in questo modo.

De Walderstein Nerina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono la Nerina De Walderstein, un’ex deportata dal campo di concentramento di Auschwitz.

Sono stata arrestata a Trieste il 23 marzo 1944 dalla “polizia Collotti” alle 11,35 di sera, lo stesso giorno in cui ero ritornata da Venezia con una valigia piena di materiale bellico e chirurgico. Sono entrati un casa mia sette poliziotti della questura di Trieste di via Bellosguardo, la Villa Triste di Trieste, con i mitra puntati verso la mia famiglia; eravamo in casa il papà la mamma ed io. Fortunatamente hanno preso soltanto me ma cercavano mio fratello; i genitori sono rimasti a casa. Così inizia la mia triste storia.

R: Diciotto anni e mezzo.

D: Perché cercavano tuo fratello?

R: Perché mio fratello, a Venezia alla scuola Foscari, con un gruppo di studenti del gruppo GAP di Venezia, cercava il materiale bellico e altro da mandare al gruppo dei partigiani della zona di Trieste. Io ero stata là per prendere questo materiale ed ero ritornata a casa con la valigia piena. Loro cercavano mio fratello e non me ma il mio arresto ha salvato tutto il gruppo degli studenti di Venezia che sono fuggiti, saputo del mio arresto, e sono andati col gruppo dei partigiani del Friuli Venezia Giulia.

D: Ti hanno portato in Via Bellosguardo, a Villa Triste?

R: Sì, direttamente a Villa Triste. All’arrivo ho preso due ceffoni fenomenali. Durante l’interrogatorio sono stata picchiata, mi hanno rotto tre costole, mi hanno appesa per le mani a un palo e là non so quanto sono rimasta perché sono svenuta. Mi sono svegliata dentro una cella, tutta bagnata. Là mi hanno lasciata tutta la notte; di sera venivo interrogata e sempre bastonata, sempre col dolore alle mani dalla prima sera, quando mi hanno appesa al palo con le mani dietro la schiena. Da allora le mie mani funzionano pochissimo, sono rovinate, non ho più forza nelle mani; è la conseguenza delle torture subite.

D: A Villa Triste fino a quando sei rimasta?

R: Otto giorni.

D: E poi cosa è successo?

R: Da Villa Triste mi hanno portato alle prigioni dei Gesuiti, che ora non esistono più. Là sono stata nuovamente interrogata, a suon di scappellotti. Io non ho parlato mai, mi sono assunta tutte le responsabilità.

Là sono rimasta due mesi poi mi hanno portato alle carceri del Coroneo di Trieste. Là, dopo un paio di giorni, sono stata nuovamente interrogata dai tedeschi. L’interrogatorio fu nel Bunker del Coroneo, una cosa tremenda; anche là altre botte, altro tormento. Intanto il mio papà e la mia mamma sono rimasti in casa chiusi per 42 giorni con la polizia che li controllava. Io non sapevo niente di loro perché non potevano uscire né parlare con me, perciò sono stata 42 giorni senza sapere niente di loro. Li ho visti soltanto il giorno in cui siamo partite dal Coroneo per il trasporto. La mia mamma non la riconoscevo più: l’ho cercata, era dietro a me, ma aveva fatto un cambiamento totale, invecchiata di vent’anni: per il mio arresto e perché di mio fratello non sapeva più niente.

Al Coroneo sono stata da sola nella cella 68 fino al giorno del trasporto. Fino al periodo in cui sono stata nelle carceri non sapevo che esistesse la Risiera a Trieste, sapevo che c’era una risiera ma… del tutto differente. Quando sono ritornata ho saputo che quelle che erano nella cella 68 sono morte tutte alla Risiera. Nell’ultimo interrogatorio fatto dai tedeschi due giorni prima che partissi mi hanno detto che non mi avrebbero finito là ma che la mia morte sarebbe stata altrove, in un posto in cui sarei morta lentamente.

D: Poi  ti hanno portato al Transport ?

R: Si, due giorni dopo sono partita per Auschwitz; ci avevano detto che ci avrebbero portato a lavorare. Noi convinte di andare a lavorare. La mamma mi ha portato quel giorno tutto quello che poteva per andare a lavorare, ma… non era così. Comunque, ti dico che la mamma che mi ha portato la roba alla stazione non era più la mia mamma.

D: Parlaci del Transport, eravate tante donne?

R: Sì, non potrei dire il numero preciso, credo oltre 50.

D: C’erano anche uomini?

R: C’erano gli uomini. Ci hanno chiamato la notte, credo verso le due, e mi sono trovata in un grande giardino nelle carceri del Coroneo e là ho visto tantissima gente e ho detto: non mi succederà qualcosa di tremendo, perché tutta questa gente è impossibile che la possano sterminare. Quando ho chiesto dove si andasse mi hanno detto: “Nessuno sa dove andiamo, non si sa”. Verso, credo, le 4 e mezza del mattino ci hanno messo in colonna davanti alle carceri e in colonna siamo partite verso la stazione di Trieste. Quando siamo arrivate alla stazione abbiamo trovato diversi familiari che erano stati avvisati in qualche maniera. Ci siamo salutati perché dovevamo andare a lavorare, tutti felici. Devo premettere che alla stazione dovevamo partire immediatamente ma gli operai delle ferrovie hanno sabotato il treno e hanno fatto sì che rimanessimo ancora due ore con i nostri familiari, poi siamo partite. Non ho pianto lasciando i miei genitori, ero dura impietrita. Però, quando sono arrivata all’altezza del quartiere di Bàrcola, quando ho visto la mia casa, mi sono sentita tanto male e sono svenuta. Non ho potuto piangere, mi ha colpito in maniera forte, non ho resistito al dolore e sono caduta, caduta! Da allora non ho più pianto, non so perché.

Poi siamo partite; siamo state accompagnate dai carabinieri di Trieste sino ad Auschwitz, nel frattempo nel trasporto io stavo veramente male. Uno dei carabinieri mi ha portato nel vagone con sé e là sono rimasta per due giorni fintanto che mi sono sentita meglio. Quattro, cinque volte nel giro di otto giorni sono svenuta, forse perché non avevo mangiato più dal giorno della partenza. Non sentivo più la voglia né di mangiare né di bere.

Quando ci si avvicinava ad Auschwitz  ci hanno raccontato un pochino che cosa era, ma non bene, non avevamo capito niente. Ci hanno detto: “Dentro ad Auschwitz arrivate con il treno, ci sarà una bellissima orchestrina che vi riceve”; noi tutte felici aspettavamo l’orchestrina. Veramente quando siamo arrivate ad Auschwitz l’orchestrina c’era, ma prima di entrare logicamente c’era il campo. Abbiamo visto certe persone, chine a terra e abbiamo chiesto: “Chi sono quelle persone? Sono come dei mussulmani …” “Sì, sono mussulmani” Ho detto: “Tutti mussulmani venuti qui a lavorare?” “Capirai, capirai, vedrai che tra un po’ di tempo sarai mussulmana pure tu”.  Io gli ho detto: “No, sono cattolica” “Va bene, va bene, capirai più in là”.

D: Nerina , quando dici Auschwitz intendi Auschwitz 1 o Birkenau?

R: Per Auschwitz intendo tutti e due, sia l’uno che l’altro.

D: Sei stata portata ad Auschwitz 1, prima?

R: Prima siamo state portate tutte ad Auschwitz 1 e poi nell’altro. Il primo impatto è stato tremendo, spaventoso perché ci hanno scacciate giù dalle tradotte, proprio gettate giù. Le cosa più brutte che ho subito nell’entrata ad Auschwitz erano di aver visto i mussulmani e poi il fatto che ci hanno denudate. Ci hanno fatto spogliare nude davanti a un blocco e siamo rimaste là per un giorno intero e la notte, una notte fredda, rigida, tremenda, sempre nude.

D: Ti ricordi che giorno era, più o meno?

R: No.

D: Il mese?

R: Sì, il 21 giugno siamo arrivate là. Era una cosa tremenda. Durante il giorno un caldo tremendo e la notte una tremenda umidità, eravamo tutte fredde e spogliate, ci si stringeva l’una con l’altra per poterci scaldare. Quello che mi ha fatto più male è che io ero giovane e con me c’erano tantissime giovani ma c’erano anche tante persone anziane. Vedere quelle povere nonne, per me erano nonne, lì nude, disperate; si nascondevano, cercavano di proteggere le parti che non dovevano essere viste. Dopo l’attesa fuori ci hanno portato nei blocchi, nelle baracche. Tutte nude ci hanno portate nella baracca detta “Sauna” dove ti tagliavano i capelli, ti rasavano e poi ti spedivano avanti. Avevo i capelli lunghi, biondi, i miei capelli erano belli, un po’ ondulati, ero giovane e il polacco che tagliava i capelli mi ha preso una ciocca di capelli, me l’ha tagliata poi mi ha dato una spinta e mi ha mandato avanti: là coi capelli ero l’unica. Avevo i capelli lunghi senza una ciocca e tutti mi chiamavano Ciocchina.

Di là ci hanno mandato in un’altra stanza dove ci hanno nuovamente messo in fila. Iniziano i tatuaggi. Sentivo che parlavano, ma non capivo cosa dicessero: il tedesco lo capivo poco, solo quello della scuola. Quando era quasi il mio turno di entrare sento che dice all’altra compagna: “Da ora in avanti tu non sei più la tal dei tali ma sei la prigioniera numero tale”. Ci tatuarono sul braccio la matricola. Io ho il numero 82.132 e con questo numero ho passato tutto il periodo sapendo di essere soltanto il numero 82.132; il nome l’ho dimenticato.

Poi nuovamente in fila per gli indumenti. Davanti a me c’era una compagna partita da Trieste che aveva avuto la sventura come me di essere stata presa per una spiata; aveva il numero 82.131. Lei era una bella figura ma aveva già i suoi anni, aveva 30 anni, io ero una bambina di fronte a lei: a me hanno dato un vestito lungo fino ai piedi e a lei uno corto corto che non le copriva neanche le ginocchia. Volevo scambiarlo con lei ma quando abbiamo fatto il gesto abbiamo ricevuto botte tutte e due, perciò ci siamo messe nuovamente in fila per poi essere portate nei blocchi. Quando siamo entrate nel blocco abbiamo detto: “Ma cos’è questo? Non è una camera, non è un campo di lavoro. Come mai queste baracche, che cosa ci succede?” Entrando abbiamo visto altre prigioniere fra le quali delle ragazze che avevamo conosciuto alle carceri del Coroneo. Quando ci siamo ritrovate abbiamo capito che qualche cosa non andava e, loro piangendo ci hanno raccontato cosa ci sarebbe successo. Più che essere tatuate non credevo ci potesse succedere altro. Invece è iniziata la via crucis dei deportati nei campi di concentramento.

D: L’abbigliamento che ti hanno dato in cosa consisteva?

R: Una veste e le scarpe, meravigliose! Io indossavo a sinistra una ghetta e a destra uno zoccolo olandese grande che perdevo man mano.

D: Biancheria intima niente?

R: Come no! Mutande, reggiseno tutto era in quella veste meravigliosa. Oltre ad essere immatricolate, si portava il numero di matricola anche sulla manica del vestito. Col triangolo rosso perché eravamo politiche. C’erano moltissimi triangoli. Avevamo dietro la schiena una bellissima croce doppia. Ci siamo messe a ridere quando ci siamo viste l’una con l’altra … si piangeva e si rideva perché eravamo talmente ridicole, poi tutte quelle zucche pelate! Non ci si riconosceva più, quando ci siamo viste ci si guardava: “Ma chi sei tu?” Ci chiedevamo e tutte mi dicevano: “Come mai a te non li hanno tagliati?” “Non lo so!” Quello era il minimo di fronte a tutto quello che ci aspettava. Nel blocco abbiamo visto i castelletti dove si dormiva sei per sei, come le sardine; noi giovani dormivamo a terra. Io ho dormito per quasi un mese sulla terra nuda. Eravamo tante dentro il blocco e non ci si poteva stare, non ci si poteva girare, quando ci si girava, stanche di essere su un fianco, si svegliava una di noi: “Ti prego, ci si gira dalla parte opposta”. Le ossa facevano male. Appena arrivata eri grassa, eri in carne, e dove ti mettevi? Era impossibile dormire là, non ti potevi sedere perché era talmente basso; per poterti sedere dovevi scendere e sedere in terra. E poi la notte, le cimici. Quando spegnevano la luce, in pochi secondi le sentivi camminare su di te, facevi una retata di cimici, spaventoso; era una puzza tremenda, impossibile potere addormentarsi. Poi ci si è abituati ma non del tutto. Ogni notte era la corsa alle cimici perché altrimenti ti mangiavano, avevamo tutte le braccia, tutto il corpo beccato dalle cimici. Erano grandi, non ho mai visto una cosa simile, la prima volta non sapevo cosa fossero le cimici, ma là ho imparato bene.

D: Nerina, ad Auschwitz 1 fino a quando sei rimasta?

R: Non potrei dirti il tempo perché il tempo noi non lo conoscevamo più. Sapevamo che ti alzavi la mattina verso le tre e mezza, logicamente attendevi la miska che ti davano, sempre in fila per cinque. Quella era la prima cosa che dovevi fare uscendo dal blocco: metterti in fila per cinque, guai se non eri diritta in fila per cinque, allora partivano le botte. Se un momentino ti distraevi quando eri in fila… altre botte; quando arrivava la kapo e ti contava, sempre sull’attenti; quante poverine sono rimaste là perché cadevano, non resistevano più, perdevano i sensi e poi finivano come non si sa. La tortura più grande era quella di tenerci all’aperto anche se pioveva, nevicava, faceva freddo. Loro erano incappucciate e vestite e noi sempre con lo stesso indumento; se era tutto zuppo di acqua dovevi tenertelo e rimanere là perché non c’era da cambiarsi. Chi aveva una buona costituzione e un fisico forte ha resistito, le altre poverine no. Quante volte in fila ci si voltava e una cadeva, era morta… in piedi.

D: Poi da Auschwitz 1 ti hanno mandato ad Auschwitz2 – Birkenau

R: A Birkenau. Ti prendevano all’appello per andare a lavorare; lavori nei campi a piantare le patate e pulire, e il lavoro all’interno del campo di concentramento: pulire i blocchi, pulire il gabinetto notturno. Non potevi uscire, dovevi venire davanti al blocco e uno ti controllava mentre facevi i tuoi bisogni, davanti a tutte, era tremendo. Noi per un periodo avevamo una carriola. E’ molto difficile poter andare … e poter farlo; una persona anziana si sbilanciava e cadeva: quante sono cadute dentro la carriola, tutte sporche e sudice dovevano alzarsi e pulirsi alla meglio, non si sa neanche come visto che non avevamo niente. Ci si doveva accontentare; quando si poteva andare al mattino due minuti a lavarsi nel Waschraum dove c’era uno zampillino d’acqua – non riuscivi neanche a lavarti gli occhi – cercavi al meglio possibile di lavarti con l’acqua ruggine. C’era la corsa per arrivare a pulirti, a lavarti un pochino, non riuscivi tante volte, eravamo tante e ci richiamavano. Eravamo tutte sporche, senza la possibilità di potersi un po’ lavare;  senza vergogna a quel riguardo andavi in quel gabinetto tremendo e se non ti abituavi erano botte, dovevi farlo. Io ho avuto la fortuna e la sfortuna di essere addetta alla pulizia dei gabinetti. C’era un carro dove vuotavi tutte le cose e poi quel carro lo portavi lungo il campo fino a che non arrivavi nei gabinetti, dove lo lasciavi. Penso che quello fosse uno dei peggio lavori nel campo, era veramente umiliante, ti chiamavano la Merdastrasse, scusate l’espressione, noi la chiamavamo così; purtroppo ognuna aveva il suo turno. Poi quando non facevi quello dovevi stare seduta davanti al tuo blocco, e poi ti chiamavano all’appello, ti mettevano sull’attenti fino all’ora del mangiare. O ti portavano in un altro blocco dove ti facevano portare delle pietre.

Quando non ne potevi più cadevi per terra esausta: o ti rialzavi o bastonate. Poi è successo il fatto delle due sorelle francesi. La tedesca ha ordinato alla nostra kapo di fare alzare quella che era caduta, ha preso una pala e l’ha colpita sulla testa. Lei è caduta a terra, logicamente ferita, e l’altra sorella le è corsa in aiuto. Noi sempre a camminare intorno, sempre portando pietre, non dovevamo guardare quello che succedeva. E’ stata uccisa la prima sorella, la seconda è corsa per aiutarla ma è stata colpita pure lei e là sono rimaste tutte e due.

Non ho mai saputo l’ora perché l’orologio non esisteva; che ora è, che giorno è, tutti i giorni erano uguali, si perdeva il tempo. Non eri più tu: eri veramente un numero, la tua testa non funzionava più, era un po’ come vuota. Ma forse era meglio perché non soffrivi più tanto, mi sembra che ci siamo abituate a quella vita, non saprei neanche dirti se era un’abitudine o veramente eravamo un morto che camminava. Tante volte ci si chiedeva: ma si cammina, siamo ferme? Qualche volta qualcuna mi pizzicava, mi diceva: “Ah, sei ancora viva”, io mi mettevo in un mutismo, eravamo tutte così. Oppure ti alzavi, cercavi di fare quattro passi sempre con la testa rivolta al cielo: non so se si cercava una via d’uscita o se si cercava di finire. Tante volte dicevi: “Quella è morta, ha finito di soffrire”, questa era la risposta.

Malgrado tutto si aveva sempre una speranza; io sempre dicevo di dover tornare  a casa. C’era come un ritornello nella mia testa, e mi seguiva. Quando ero nei momenti più pesanti cominciavo: “Devo ritornare a casa perché mio padre e mia madre mi aspettano, devo rivedere mio fratello”, poi lo dicevo alle altre allora si iniziava a portarci nei ricordi verso casa, ci aiutavano a vivere, quella era una via – come potrei dire – un aiuto per poter continuare a lottare per ritornare. E poi sai, le risate quando avevamo fame. Quando col gruppo davanti al blocco non ci permettevano di andare da nessuna parte si iniziava a parlare dei buoni pranzetti, del mangiare: “Cosa mangeresti tu? adesso che faresti?” Allora si facevano ricette a modo nostro oppure ci accontentavamo di pensare al famoso pane col quadratino di margarina, alla fine ci accontentavamo di quello. E quando era l’ora di mettersi in fila sempre sull’appello per prendere quel pezzetto di pane, che bello! Quello era l’ora più bella.

Così le giornate passavano, ci si raccontavano tante cose. C’erano tantissimi blocchi, io ne ho passato soltanto tre, però sapevo che ce n’erano tanti. Si sapeva ben poco di quello che succedeva nel campo. L’unica cosa che si sapeva era quando arrivavano i treni. Quella è una cosa che non poteva uscire dalla nostra memoria perché i treni fischiavano, fischiavano le sirene, poi c’era il rientro nei blocchi tutti chiusi perché non si doveva vedere quello che succedeva con chi usciva dai vagoni: il famoso Blocksperre cioè la chiusura di tutti i blocchi. Il fatto è che quando eri là da un po’ di tempo capivi tutto, da ogni fischiata sapevi cosa sarebbe successo. Le sirene squillavano, c’era sempre qualcuno che voleva scappare ma scappato non è nessuno.

Mentre ero là c’è stata l’impiccagione di una polacca che aveva tentato un’evasione dal campo. L’hanno torturata davanti a tutto il gruppo delle donne in campo, e quando le hanno rotto tutte le ossa l’hanno impiccata moribonda.

D: Parlavi prima dell’alimentazione: cosa vi davano ogni giorno?

R: Un pranzo meraviglioso. C’erano grandi zucche e dei bidoni con l’acqua bollente: le spaccavano sull’orlo del bidone, le buttavano dentro, le spezzettavano un pochino e galleggiavano i semi e l’interno della buccia, limoso. Poi quando era l’ora del pranzo chiamavano – si sapeva che era l’ora del pranzo perché c’era un fischio particolare – e andavi a prendertelo. Se eri forte di stomaco lo mangiavi se no rimandavi, poi cercavi di mandare giù qualche cosa per poter sopravvivere. Io ho molto sofferto perché il mio stomaco era debolissimo, veramente non so dirti come sono rimasta viva, comunque era il mio destino. Mangiavo pochissimo. Sai, c’erano le rape grattugiate secche, le gettavano dentro in questa Kübel di acqua bollente, se riuscivi a procurarti  un recipiente le mettevi dentro e se avevi fortuna ti procuravi anche un cucchiaio; col tempo ci siamo procurate tutto, ci siamo organizzate un pochino nel campo, e si aveva anche il cucchiaio per mangiarle. Si mangiava quello che si trovava, però i nostri maiali mangiavano meglio. La festa grande era la domenica: ti mettevi in fila e ti davano una patata con un pochino di margarina, un triangolino di margarina. Loro non guardavano se la patata era grande o piccolina, te ne davano una e basta, spesso succedeva che ricevessi la piccolina ma non la grande. Quando una riceveva la grande tutte le eravamo attorno: “Un pezzetto anche a me sai? Guarda che me lo avevi promesso”. Era un po’ d’allegria nella grande tristezza nella disperazione.

D: Nerina, ti è mai capitato di sognare?

R: Un’unica volta ho fatto un sogno lungo però ho pianto tutta la notte… Ho fatto un sogno e l’ho raccontato a una signora di Maribor, slovena. Sono andata fuori per fare i miei bisogni, l’ho trovata e le ho raccontato. Avevo visto mia nonna nel sogno, mi aveva toccata ed era fuggita.  La donna slovena mi guardò e mi disse: “Guarda le stelle, ti racconto cos’è la tua vita. La tua mamma e il tuo papà sono osti, vero?” Sì, avevamo una trattoria prima che ce la distruggessero”. “Passerai un periodo molto pesante, sarai anche malata ma tu resisterai perché la tua nonna ti accompagna”. Le avevo detto il giorno del mio compleanno e mi disse: “Mi hai detto che sei nata il 9 luglio, oggi è il tuo compleanno”.

D: Scusa Nerina, il problema delle mestruazioni?

R: Non ho mai capito, anche adesso che ho rivisto le mie compagne ci siamo chieste: ma cosa è successo? Appena siamo arrivate …. bloccato in pieno, nessuna sa cosa fosse. Forse era l’acqua nera che ci davano da bere la mattina, calda. Pagherei per sapere cosa ci davano.

D: A Birkenau fino a quando sei rimasta?

R: Poco, forse un mese.

D: E poi cos’è successo?

R: Mi hanno portato nel Lager B. Il Lager B era il Lager dove lavoravi proprio. Quando arrivavi là se vedevi dell’erbetta cercavi di mangiarla, e questo ho fatto anch’io nel ritorno, mi sono abbassata per prendere un ciuffetto però… sai le botte. Per strada mi hanno schiaffeggiato e la testa mi è girata da tutte le parti, ancora adesso sento schiaffi, poi quando siamo ritornate mi hanno messo in punizione davanti al blocco inginocchiata sulla ghiaia, con una mano sollevata e una pera cotta appoggiata sulla mano. Tante volte mi sembrava di cadere, cercavo di raddrizzarmi per farmi forza. Quando mi sono alzata le ginocchia erano tutte sanguinanti, perché prima di tutto carne non c’era, c’era la pelle; è passato del tempo prima che mi si rimarginassero le ginocchia, quante volte mi si aprivano perché dovevo inginocchiarmi per altre cose, ma finalmente sono guarita. C’erano polacche che erano peggio delle SS; se una cosa non sopporto sono le polacche, perdonami Polonia. Parla con chiunque sia stata là; tutte hanno subito angherie dalle blockowe e dalle stubowe. La notte loro mangiavano, si divertivano, bevevano: noi si sentiva il mangiare, il bere e noi piene di fame a languire. Loro erano pasciute, nessuna era magrolina, erano tutte tonde. Non puoi immaginare che nel blocco di un campo di concentramento ci fossero tipi così perversi, così cattivi. Se loro rubavano incolpavano le politiche.

D: Poi da lì sei stata ancora trasferita

R: Sì, mi hanno portata via da Auschwitz perché per loro ero ancora abile al lavoro. Mi hanno messo in fila per il trasporto, hanno detto che ci portavano nelle fabbriche, si sapeva soltanto quello.

Quando si era in fila pronte per partire ci consegnarono pane per il viaggio, una pagnotta di quel famoso pane acido, cattivo, duro: era come mangiare segatura.

C’erano vicino a me due bambine, io per loro ero una mamma, una di 12 e una di 13 anni, del Goriziano. Venne rubata una pagnotta – erano contate – le ebree e le polacche facevano le parti: una di loro accusò le due piccole, ma non era vero perché erano con me. Lo dissero al militare tedesco che ci accompagnava nel trasporto, allora lui infuriato inveì contro di loro e si misero a piangere perché erano bambine. Piangere non dovevi: se là ti vedevano piangere ti picchiavano. Era pronto a picchiarle duro col calcio del moschetto. Ho preso le loro difese e il colpo che dovevano subire loro l’ho preso io: sono caduta in svenimento, ho saputo più tardi che non ero in me. Sono partita in trasporto con le mie compagne che mi hanno sollevato e portata di peso, non mi hanno voluto lasciare là a terra; sul vagone mi sono ripresa, ma sulla testa avevo un segno che anche ora si vede. Il colpo col tempo ha fatto suppurazione perché dentro si è formata un’infezione;  i medici mi hanno detto che il mio osso stava andando in cancrena.

Ci hanno portato a Flossenbürg, io non lo ricordo; mi sono ripresa in treno ma per me è un vuoto colmo. Io ricordo di essere stata in fila, di essere saltata in mezzo alle due bambine e di avere preso le loro difese ma poi è una parentesi chiusa: sono passata per il campo di Flossenbürg ma non so di esserci stata.

Mi sono ritrovata il 14 dicembre nella fabbrica di lampadine Osram a Plauen. Non so come sono arrivata, mi sono guardata intorno e ho detto: dove siamo? Non ho visto più il campo di Auschwitz, mi sembrava una cosa strana, ho chiesto alle ragazze.

Nessuna si era accorta che io non sapevo niente. 

D: Ti hanno portato in fabbrica?

R: Sì, mi sono trovata in fabbrica. Ho avuto la fortuna di avere un direttore di fabbrica meraviglioso con tutto il nostro gruppo, eravamo circa un’ottantina. Ci ha trattato come fossimo lavoratrici; era sempre gentile con noi, se si aveva bisogno di qualche cosa si chiedeva, se qualcuna era malata la curò.

Noi si abitava nel soffitto della fabbrica, là avevamo anche l’acqua per lavarci ogni giorno, non per fare la doccia, ma il rubinetto. Ognuna aveva il suo letto, ognuna dormiva sul suo castelletto, io ero il terzo piano perché ero una fra le più giovani, ero su in alto. La mattina ci davano il solito tè e si andava al lavoro alle 6; ognuna aveva un lavoro; gli operai ci insegnavano i lavori della fabbrica delle lampadine. Si iniziava dal vetro e poi facevamo le lampadine grandi enormi, molto complicate. Io ho fatto soltanto un mese quel lavoro poi sono andata nel magazzino. Quando ero là mi sentivo sempre tanto male; la prima volta sarà stato verso il 20  dicembre. Così tre volte di seguito; la terza volta c’era dentro il direttore e mi ha visto, mi ha preso in braccio ed ha chiamato il soccorso che era nella fabbrica. Mi ha portato nella clinica a cui avevano diritto gli operai della fabbrica, però c’era con me anche la tedesca con il cane. Quando il medico mi ha visitata ho mostrato l’orecchio che spurgava. Mi hanno medicato e mi hanno rimandato nuovamente in fabbrica. Un paio di giorni dopo accadde nuovamente. Al 14 gennaio (1945) mi hanno portata ancora là, ogni tanto mi mettevano sotto il naso la melissa per tenermi sveglia. Un altro medico mi ha visitata e ha premuto la parte che faceva male, ho dato un urlo spaventoso. Immediatamente mi hanno portato in sala operatoria e mi hanno fatto tantissime fotografie e radiografie; io ridendo ho detto: “Per andare al cinema?”

Nella fabbrica avevamo un medico interno che era un colonnello dell’aviazione russa, una prigioniera; nella fabbrica c’era una stanza chiamata Revier e là lei curava le ammalate. Il direttore della fabbrica volle che la dottoressa mi seguisse, aveva molta fiducia in lei; venne anche la tedesca. E’ stata un’operazione di quattro ore alla testa: mi hanno salvata. Non potevano darmi nessun medicinale, era proibito dalla tedesca. Avevo la testa fasciata, avevo soltanto un pezzettino aperto all’occhio, ero come una mummia. Il medico allora mi nascose nella garza tanti tubetti di vitamine; diede ordine alla dottoressa di darmene un po’ al giorno. La dottoressa mi seguì con l’ordine del direttore della fabbrica che nessuno mi toccasse: sarei rimasta nella fabbrica sin tanto che le cure non fossero finite, lui avrebbe pagato per me la quota giornaliera di lavoratore.

Non mi reggevano le gambe: ho fatto due mesi un po’ distesa un po’ seduta, quando ho potuto camminare sono andata giù in fabbrica per fare soltanto cose leggere. La notte non la facevo, facevo sempre i turni di giorno. Ho lavorato fino all’ultimo quello che ho potuto, lavori leggeri, e questo fino alla Liberazione.

D:Nerina, è in quella fabbrica che tu hai cercato di tenere un diario?

R: Sì. La notte di Natale una polacca ha avuto la fortuna di incontrare un polacco che lavorava nella fabbrica, lui l’ha aiutata a scappare. Lei quindi non ha risposto all’appello, è stata cercata per tutta la fabbrica, non c’era: ci hanno messo in castigo una giornata intera perché volevano sapere da noi ma nessuna sapeva niente. Senza mangiare abbiamo fatto il Natale. Alle 6 di sera ci hanno dato il permesso e hanno portato quel tè nero e sino al giorno dopo a mezzogiorno, niente. Il giorno dopo all’appello – era il giorno di Santo Stefano – le tedesche ubriache dentro hanno fatto festa e noi sempre fuori all’appello. Il giorno dopo abbiamo ripreso il lavoro in fabbrica. La dottoressa aveva prigioniera una sorella, Tania. Non ho saputo il motivo, ma le avevano gettato i cani contro al suo rientro, noi abbiamo dovuto assistere alla scena. L’hanno quasi resa a brandelli, l’hanno lasciata a terra e sono andati via. La dottoressa pian piano l’ha curata poi è rimasta a sua volta in fabbrica. E’ stato uno dei tanti tremendi giorni in cui dovevamo assistere all’annientamento. Fortunatamente è rimasta viva e la sorella l’ha curata. Nel mio diario scrivevo lettere alla mia mamma; le cose che mi venivano in mente e che scrivevo mi rilassavano un pochino, parlavo con la mamma. Ne avevo due ma purtroppo il più grande me lo hanno rubato al mio ritorno a Bolzano.

D: La Liberazione come te la ricordi?

R:Triste perché le tedesche ci hanno chiuse nella fabbrica che era diroccata da una parte; noi eravamo proprio nella parte diroccata, rimasta ancora in piedi. Ci hanno rinchiuse e loro sono fuggite. C’erano i russi, gli americani e gli inglesi che andavano verso Berlino, hanno quasi distrutto Plauen. Forse per due giorni siamo state al buio tale era il fumo delle bombe.  Alla finestra avevamo un’inferriata con la rete; quelle che avevano ancora un po’ di forza hanno disfatto il letto delle tedesche, era in ferro, e con quell’asta hanno picchiato sui vetri fino a fare un buco. Hanno messo sull’asta un lenzuolo con una croce rossa, fatta col nostro sangue: c’erano bottiglie e bicchieri, li abbiamo rotti e con il sangue abbiamo fatto la croce. Si gridava alla disperata, e un paio sono impazzite, specialmente le russe: poverine, avevano il numero 42.000, erano là fra le prime, erano quasi impazzite. Eravamo senza mangiare da tanti giorni, prima si mangiava poco e poi niente, era tremendo.

Finalmente si resero conto che c’eravamo, vennero su gli americani e ci liberarono. Io ero a letto: ero talmente sfinita che non mi alzavo più, gli americani che sono venuti su hanno portato in braccio diversa gente. Quando uno mi ha sollevato mi ha detto: “Ma sei una bambina, quanti anni hai, 11  o 12?” Il militare parlava in inglese e io in sloveno; lui mi ha chiesto, in uno sloveno un po’ stentato, se ero slovena: Disse: “Anche la mia mamma è slovena. Come mai sei qua?” Lui non sapeva niente, gliel’ho raccontato, mi ha preso in braccio, mi ha stretta al petto e ha detto: “Dio mio, Dio mio ma come si può ridurre una creatura così?” Di lì i russi mi hanno portato all’ospedale da campo. Mi hanno rifocillata, credo per quindici giorni, mi hanno tirata su prima con il tè  poco zuccherato, dopo pian piano col brodo sgrassato. Quando ci siamo riprese ci hanno portato in un campo di smistamento. Là sono rimasta fino a che non mi hanno portato a casa.

D:Fino a quando sei rimasta lì?

R:Pochissimo perché ci siamo trovati in diversi triestini. Ero ancora un po’ giù di corda, sempre con la testa fasciata: la testa l’ho portata a casa fasciata e mi ha curato il professor Danilo, pure lui ex deportato di Auschwitz. Nel campo di smistamento ho trovato una di Gorizia più anziana di me; io andavo verso i 20 e lei aveva 35 anni, per me era una mamma; si è presa cura di me. Arrivarono altri tre triestini, erano militari prigionieri nei campi militari, non deportati. Quando ero là uno dei triestini mi ha portato una gonna grande; la mia compagna di Gorizia me l’ha adattata; hanno trovato una blusettina di organdis e me l’hanno messa, lei me l’ha ristretta; mi hanno vestito a festa. Un compagno milanese, poiché portavo ancora gli zoccoli, mi ha fatto un magnifico paio di sandali estivi … bellissimi, tutti mi chiedevano dove avessi trovato il mio numero.

I ragazzi triestini hanno ideato la fuga dal campo di smistamento perché non si poteva uscire. Hanno girato tutto il campo e hanno cercato il posto migliore per poter scappare, hanno fatto un buco. Da quel buco partivano durante il giorno e cercavano di combinare un carretto per me perché io non potevo camminare. Si sono prodigati tanto; hanno trovato una carrozzina con le due ruote grandi, poi si sono procurati un po’ di legno, mi hanno fatto un bellissimo carretto con il sedile. A un dato momento mi dissero: “Preparati, questa sera la fuga”. Eravamo in dieci, c’era uno della Calabria, uno del Trentino, uno milanese, due goriziani, quattro di Trieste e noi due donne. L’accordo è fatto, il carretto è pronto: non rimaneva che aspettare che la ronda cambiasse giro. Quando tutti dormivano ci siamo messi in carica! Io, pacifica come una patrona seduta, e loro poverini che mi spingevano. Mi hanno riportato a casa, abbiamo fatto una bella gita, liberi.

Durante il giorno si camminava e si chiedeva dove andare; puntavamo su Vienna, lungo i paesi ci si fermava e ci si organizzava per mangiare. Si andava a rubare qualche gallina, qualche uovo, si andava dai contadini a chiedere qualche cosa, poi c’era qualche negozio aperto: si chiedeva, mostravo i miei numeri di campo, capivano subito che eravamo prigionieri, ci davano da mangiare quello che potevano, anche i contadini ci hanno aiutato veramente.

Una notte ci ha preso la pioggia ma eravamo talmente stanchi e giovani che abbiamo dormito; la pioggia ci ha bagnato molto bene, ci correva lungo la schiena perché eravamo distesi per terra sul prato, era giugno, caldo. Quando ci siamo svegliati alla mattina eravamo quasi già asciutti perché il sole ci aveva asciugato, ma io avevo dei brividi. Il giorno dopo la mia temperatura è salita, farneticavo, un signore ci ha prestato una bicicletta e uno di noi è andato dal medico: broncopolmonite. Dopo otto giorni il medico è ritornato, ci ha permesso di ripartire. In un paese mi hanno vestito con una tuta olimpionica e con scarponi da montagna perché era freddo e non potevo andare coi sandali; così vestita e imbacuccata, tutta piena di stracci, abbiamo proseguito. Ci hanno detto che un treno portava a Vienna, lo prendemmo – era un treno che portava carbone – ma alla mattina sentimmo parlare polacco. Eravamo entrati nuovamente in Polonia!

Cosa fare? Disse uno in stazione che nel pomeriggio un treno sarebbe andato verso la Germania. Tornammo in Germania, non ricordo la stazione. Alla fine con dei camion che portavano viveri in Germania ci siamo arrivati.

Un treno portava prigionieri francesi a casa; abbiamo aspettato, a noi si sono avvicinati altri prigionieri che sono rimpatriati; abbiamo detto che noi italiani non avevamo nessun collegamento con nessuno e cercavamo di  rimpatriare meglio possibile. Loro andavano verso la Svizzera, era pur sempre vicino all’Italia. Ci portarono. Sul treno non c’era più posto perché eravamo tanti, allora misero delle travi di traverso sul vagone bestiame: lì sopra siamo saliti noi e così siamo arrivati nelle vicinanze della Svizzera.

Sul treno si sono accorti che tanti avevano il tifo: la Svizzera non ci fece entrare, dovevamo passare per il Brennero. Dal Brennero siamo arrivati in treno a Bolzano; ci hanno scaricati, gli altri hanno proseguito: noi siamo rimasti là perché a Bolzano c’era lo smistamento di tutti i deportati e rimpatriati dai campi. In Svizzera ci avevano dato, prima di mandarci indietro, qualche cosa per coprirci e cibo in uno zainetto, ognuno aveva il suo zainetto. Purtroppo allo smistamento ci derubarono degli zaini. Ho perso le fotografie che mi avevano fatto i militari americani appena liberata, è la cosa che mi dispiaceva più di tutto, mi hanno portato via il vestito del campo che era per me la continuazione della mia vita. Avevo dentro dei libri, un bel diario. Tutto mi hanno portato via, una desolazione. Sono ritornata a casa con le mie tute, gonfia grassa, avevo due tute l’una sopra l’altra, una sciarpetta che mi copriva la testa: mi vergognavo con tutto quel bianco.

Quando siamo fuggiti dal campo di smistamento di Udine era un problema arrivare a casa perché era tutto bombardato, il treno da Udine non camminava.

D: Scusa, Nerina il percorso da Bolzano a Udine?

R:Da Bolzano partì un pullman su cui hanno preso tutti quelli che erano dei dintorni di Udine di Trieste.

A Udine c’era lo smistamento per le altre località, però bisognava attendere di fare la quarantena, ma chi faceva la quarantena! Sognavamo di trovare un mezzo di trasporto per poter scappare da Udine; è da lì che abbiamo progettato la fuga del gabinetto. Un’altra fuga. Mi sembra che fosse un edificio militare o comunale, forse una scuola o un ricreatorio; in basso, nei gabinetti, ti prendevano i dati e tutto. I ragazzi hanno ispezionato e hanno visto un gabinetto. Siamo entrati, abbiamo fatto quello che dovevamo fare e ci siamo messi in una stanzetta al pianoterra. Il gabinetto aveva un finestrino da spingere; per primo è andato Luciano di Trieste che era il più giovane. Poi è andato il più grasso, poi mi hanno sollevato e mi hanno fatta passare.

Ci  trovammo la notte a Udine, andammo alla stazione sperando in qualche treno in partenza. Si partì ma solo per un pezzetto, fino a Santa Maria la Longa. Ci incamminammo. Da una stradina di paese stava venendo un uomo coi cavalli e col carro. Ci siamo messe in mezzo alla strada e lo abbiamo pregato di fermarsi. Ci ha presi sul carro e portati a Monfalcone. Da Monfalcone i treni c’erano ma dovevamo avere i biglietti. I biglietti!!! Ma che ti sogni! A Monfalcone ci hanno ristorato con quello che potevano, un panino e una mela. Hanno voluto sapere se sapevamo di qualche morto di lì, poi ci hanno rifocillati nuovamente perché non si sapeva a che ora tornasse il treno. Il treno partì, era un treno lumaca. Su quel treno c’era gente che andava a fare la borsa nera.

Cerano due persone che abitavano nella mia stessa casa, al piano di sotto; io avevo sempre la testa fasciata. La signora mi fissò, io la vidi e la fissai anch’io: non sarà mica Silvia? Lei mi guardò e fece un urlo: “Dio, è la Cisa che ritorna, la Cisa non è morta!”. Qualcuno aveva portato la notizia che io e un signore di Trieste eravamo morti, perciò a casa mia sapevano che ero morta.

Ci ha preso una tale smania di tornare a casa, una voglia di correre. Sai cosa ho chiesto per prima cosa? Mio fratello è tornato vivo? Si, ti aspettano tutti anche la mamma e il papà.

Quando siamo entrati nella zona nostra e ho visto Miramare mi sentivo fare bububum bububum, dicevo: “Oddio, mi si ferma il cuore!” Sentivo il fuoco alla testa.

Finalmente entrammo in stazione, io camminavo su e giù per il treno e non appena hanno aperto le porte sono caduta indietro e sono svenuta. Nessuno era alla stazione ad attendere i rimpatriati in Trieste! C’erano gli americani e nessuno si è interessato di niente.

Arriviamo a casa, ero tutta infagottata, a metà strada c’è la casa di mia zia, mia cugina era alla finestra. Io ero là tutta imbacuccata, e lei disse: “Ma guarda quella, perfino in testa si è messa qualcosa da nascondere”. Mi guardò, la guardai, tutto a un tratto la vidi impallidire, urlò e disse: “E’ ritornata mia cugina!” Quella fu la prima volta che piansi. Quando ci siamo viste non potevo né parlare né niente. La mamma non era a casa, era uscita con un’altra signora. Quando tornò e mi vide disse: “No, questa non è mia figlia, avete sbagliato, non è lei, questa non la conosco”. Si capisce: ero tutta fasciata. Ero talmente piccola quando sono partita e piccolissima quando sono rientrata. E poi sai cosa mi ha chiesto la mamma appena mi ha visto? “Amore, ti fo’ il caffè?”. Dico: “No mamma, il caffè l’ho bevuto; ti prego i fagioli, fammi dei fagioli”. E la mamma ha fatto presto, non so come ha fatto. Ho chiesto al papà del vino e ne ho bevuta mezza bottiglia. Poi sono arrivati tutti i miei zii. E abbiamo fatto la notte tutti in piedi.

Rossetti Sergio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io  mi chiamo Rossetti Sergio, sono nato a La Spezia il 23.12.1927.

D:  Sergio, quando ti hanno arrestato?

R: Io abitavo in un paese vicino a La Spezia, a Buonviaggio, un paese bello, anche il nome lo dice, e tutte le mattine partivo per andavo a lavorare in Arsenale, nello stabilimento militare. Si andava a piedi da Buonviaggio a Migliarina dove si pigliava il tramvai.

In un posto distante da casa mia due chilometri ad un bivio c’era un posto di blocco della Guardia Nazionale Repubblicana. Vidi alcuni miei conoscenti fermi sul ponte della Dorgia, ma non ci feci caso.

Al tempo avevo appena 17 anni, ero ancora ingenuo, non avevo l’esperienza dei ragazzi di oggi.

Difatti mi fermarono e mi misero insieme agli altri amici che conoscevo – Boni Alfredo, Chella Rino, Morelli Vittorio, Baroncelli Antonio e Monteverdi Giuseppe, di un paese vicino. Restammo fermi una mezz’oretta; quando videro che il gruppo si era formato, ci incolonnarono tutti lungo la statale cosiddetta della Cima, e dal ponte andammo in uno stabilimento militare distante 500 metri.

Era un deposito di mine e siluri della Marina, ci portarono là, era chiamato la Flage.

Cominciarono i primi interrogatori, ci chiamavano uno alla volta; venne il mio turno, andai dentro, c’era una scrivania, due borghesi e due militari ai lati. Vollero sapere come mi chiamavo, dove abitavo, quanti eravamo in famiglia, di che religione, la politica. Dissi che lavoravo in Arsenale, avevo anche il documento per poter entrare; quando mi chiesero gli anni dissi: “Faccio 17 anni a dicembre”.  Mi arrivò uno scappellotto sul collo e un calcio nel sedere e mi disse: “Tu sei troppo giovane, mettiti faccia al muro”. Quando anche gli altri finirono l’interrogatorio, ci caricarono su dei mezzi coperti con teloni, e ci portarono alla caserma del 21° Reggimento Fanteria.

D:  Quando ti fecero l’interrogatorio e chi lo ha conduceva?

R:  Il 21 novembre 1944, il giorno del grande rastrellamento di Migliarina.

Lo stesso giorno in cui mi fermarono subii questo primo interrogatorio alla Flage.

D: Da parte di chi?

R: Non lo so. Erano due borghesi e due militari della Guardia Nazionale Repubblicana, non so chi fossero. Di politica non mi sono mai interessato. Andavo a lavorare, però avevo ancora il carrettino con le ruote per divertirmi, lungo la strada. E pensare che in tempo di guerra mio padre era stato richiamato, si era fatto la guerra di Grecia e d’Albania, dopo aveva fatto domanda di rimpatrio per famiglia numerosa – eravamo quattro sorelle e due fratelli in casa, un fratello nacque nel 1944. Voglio dire che non si era fascisti ma si viveva la nostra vita normale. Ci portarono sugli automezzi, non so se cinque o sei, al 21° Fanteria. Ci misero nelle celle, ricordo che ero solo in cella; dopo mi misero insieme a Baroncelli, che era con me la mattina del posto di blocco.

La sera ci chiamarono ad un altro interrogatorio, che era normale. Botte non ne presi, anzi, mi levarono sciarpa, stringhe e fazzoletto: dicevano di aver paura che ci si potesse strozzare. Stetti due giorni in caserma, si aspettava che facessero il loro lavoro, però nella notte si sentivano urla, schiamazzi, passi di scarponi: si vede che qualcuno voleva sapere i nomi di partigiani, si sentiva urlare, sbattere le porte e tutto. Finito al 21° Fanteria, il giorno 22 o 23 novembre, ci caricarono su automezzi coperti e ci portarono al ponte Pirelli, un ponte militare; lì caricavano e scaricavano munizioni, vicino c’era il binario che andava alla polveriera Vallegrande. Tutti in fila; una motozattera ci aspettava. Insieme a noi c’erano un certo Vigilante Giuseppe, commissario di pubblica sicurezza, e un certo Carrè, che era un becchino dell’ospedale; l’avevano accusato di nascondere armi sotto le tombe, invece non era vero. A loro non interessava niente, volevano che dicesse dei nomi per andarli a prendere e far loro confessare certe cose. Ricordo il povero Vigilante, che era un uomo sulla sessantina, entrare nella motozattera su una scaletta; io avevo 17 anni e cercavo di evitare le botte che davano mentre si passava sulla scaletta, ma il poveretto rimase con la gamba tra la scaletta e la parete. Si rovinò la gamba, alla bell’e meglio lo sdraiammo nella motozattera. Partimmo di sera, verso le cinque, ed arrivammo via mare al porto di Genova. A Genova ci caricarono sugli automezzi e ci portarono alle carceri di Marassi. Ci portarono subito nelle celle, ricordo che ero sempre con Baroncelli, un vicino di casa, eravamo cresciuti insieme. A Marassi stemmo dal 23 / 24 novembre fino al 12 / 13 gennaio (1945). Una mia sorella mi portò il corredo, un baule di roba con cappotto, giacche, scarpe, magliette, tutto l’occorrente, perché si diceva di andare a lavorare in Germania. Nelle carceri di Marassi davano una sbroda e il pane, si tirava avanti. Dopo arrivò il momento dell’interrogatorio; siccome andavano in ordine alfabetico, vidi portare su due o tre che per le botte prese tornavano gonfi. Tanti non volevano confessare, ma loro imponevano: “Tu hai fatto questo, hai fatto quest’altro”. Come potevo confessare cose che non avevo fatto? Ti picchiavano per poter cavar qualcosa. Dopo capitò il mio turno: andai dentro, c’erano Battisti e Morelli, due della polizia giudiziaria che picchiavano davvero; poi c’era un tedesco che scriveva a macchina e un altro militare, non so di che rango né se fosse italiano o tedesco. Ero in piedi e ai lati c’erano questi due con due nervi in mano, mi ricordo.

Vollero sapere nome e cognome, dove lavoravo, la famiglia, la religione, il solito interrogatorio che avevo fatto la prima volta, era già tutto predisposto e programmato. Dietro me c’erano gli accusatori: poveracci, anche loro erano stati picchiati, facevano il doppiogioco. Quando ti fanno delle torture dire di no costa ancora di più, è così che ti accusavano. Mi accusarono di questo: il prete di Migliarina mi avrebbe dato un fucile, avrei lanciato dei manifestini,  sabotato i magazzini di Ceparana ed ucciso uno della Guardia Nazionale dietro una batteria dove vivevo. Insomma mi diedero sette condanne. Quando dissi: “Ma io sono un ragazzo, vado a lavorare in Arsenale, cerco di fare il mio dovere”, mi arrivò un calcio negli stinchi. Dico la verità, non dico che mi hanno bastonato, mi è arrivato un calcio negli stinchi e basta. Dovetti firmare il foglio, la mia condanna a morte, come fecero tutti. 99 su 100 firmarono: sotto tortura, chi non firma? Così finì l’interrogatorio e ci riportarono in cella. Certi giorni si stava in due in cella, dopo ci cambiarono cella e si stava in quattro, dopo in otto. Arrivarono il giorno di Natale, il primo dell’anno, l’Epifania e il momento della partenza. Tornando indietro, devo dire che Marassi era una riserva: quando ammazzavano qualcuno lo pigliavano da lì, come dalla Casa dello Studente; a noi andò bene.

Arrivò l’ora della partenza; una mattina ci misero in colonna tutti quanti, riempirono due corriere, ammanettati sinistro con destro come tanti briganti, legati con la catena. Tutti avevano le valigie, chi ne aveva due chi una, ma più o meno avevano tutti due valigie. Povere donne: le mogli, le sorelle, le fidanzate, che avevano fatto a piedi La Spezia – Genova sotto la galleria, col treno, perché sulla strada non potevano passare, cercando di portare la roba ai familiari.

Sulla corriera noi si era accompagnati da tedeschi in licenza, sempre con il fucile puntato alla schiena; lungo il percorso, al Passo dei Giovi, il camion si fermò perché ce n’era un altro che impicciava; allora due dei nostri scapparono: un certo Moscatelli di Migliarina e un certo Taddei e non li ripresero.

Ripartimmo ed arrivammo a Trento. A Trento ci fermammo per fare i nostri bisogni, legati insieme. E’ vero che si era tutti uomini, però un po’ di pudore ci vuole anche tra uomini.

Un certo Tosetti del Filettino e un altro tentarono la fuga ma li presero e diedero loro tante di quelle botte!

Quando arrivammo a Bolzano li misero nelle celle di rigore; li picchiarono forte davvero! Dopo li portarono con noi a Bolzano.

Arrivati a Bolzano, fummo scaricati. Avevo il numero, mi sembra 8.800 e tanti, non mi ricordo di preciso, e il triangolo rosso. Per prima cosa ci fecero i capelli da zucca pelata. A Bolzano si viveva, non c’era pericolo, ci passavano poco mangiare e stavamo lì, aspettando la manna dal cielo. Anche lì arrivò il giorno della partenza. Ricordo che era il 31 gennaio 1945, tutti in fila eravamo mi pare 640 o 650, con le valigie in mano, guardati sempre dai tedeschi e dai cani al guinzaglio; il cane per loro era familiare, era la base principale. A Bolzano sembrava di costeggiare la ferrovia, distante abbiamo visto un treno merci; ricordo che sopra il tetto di una grande fabbrica ho visto la scritta Lama Bolzano. Mi ricordo che era il 31 gennaio 1945, era tutto bianco di neve.

D:  Quando eri nel campo di Bolzano ricordi di aver visto delle donne?

R:  Sì, c’era un muro divisorio di mattoni e di là c’erano le donne.

D:  Hai visto se c’erano dei religiosi, nel campo?

R: Tornando indietro a Genova, c’erano 8 preti, tra cui padre Pio di Mazzetta, don Mori de La Scorza, don Scarpato di Fossa Mastra, don Casabianca di Ceparana e don Bertoni, non so di che parrocchia. Al povero padre Pio, che era un frate di quelli bianchi, un omone così, mettevano i morsetti ai polsi per farlo confessare, e cercavano di stringergli le braccia per farlo parlare. Non so se parlò perché i religiosi erano divisi da noi.

D: A Bolzano invece non ricordi di averne visti?

R: A Bolzano quelli che ho nominato non sono venuti, forse sono venuti dopo nell’ultimo trasporto, però con noi non c’erano. A Bolzano per dire la verità li avrò visti, però non mi ricordo.

D:  Quindi ti hanno portato dove c’erano i vagoni?

R: Per farci salire sul vagone fecero uno scalone di legno, però ai lati c’erano sempre gli aguzzini che cercavano di picchiare coi calci, con il moschetto, con le mani, con tutto. Io avevo 17 anni e cercavo di … però c’era gente anziana, malata, zoppa, che purtroppo subì quello che subì. Dentro il vagone trovammo tanta paglia; penso che fossimo una settantina, e nel nostro vagone c’era Vigilante, poverino, con la gamba menomata e l’altro, Carrè il becchino, che è morto durante il percorso ed era già moribondo alla partenza. Ci caricarono e via. Vedevi neve, neve, tutto neve. Facemmo quattro giorni e quattro notti senza mangiare e senza bere; si mangiava la neve attaccata al treno; in quei quattro giorni e quattro notti io non mangiai niente. Dentro il vagone, in un angolo, c’era un mastello per i nostri bisogni. La nostra destinazione era ignota, andavamo a lavorare ma dove precisamente non si sapeva. A forza di camminare il treno arrivò alla stazione. Ricordo che prima che il treno si fermasse, si iniziavano già a sentire urla di cattiveria, fare presto, sbrigarsi, insomma si vedeva dai movimenti, si vedevano tedeschi e cani al guinzaglio. Arrivammo in questa stazione, uscimmo tutti. Alla stazione si vide la scritta Mauthausen, pensavo di andare in riviera come qua a Manarola, a Rio Maggiore, a Vernazza. Non si sapeva mica che Mauthausen era rinomata per quel campo. Ci misero tutti insieme, cinque con le nostre care valigie in mano; invece di fare la strada principale di Mauthausen ci fecero fare una secondaria, piena di neve, sterrata. Ai lati della strada c’erano donne, uomini, bambini, vecchi. Quello che non ci arrivò addosso … palle di neve, pezzi di sassi, sputi, Badogliani, traditori, insomma tutto quello che potevano vomitare vomitarono. Andammo su piano piano, dalla stazione al campo ci saranno 5 / 6 chilometri, tutto era coperto di neve, non si vedeva niente, alberi e basta. Lungo il percorso si vedevano uomini vestiti zebrati, però non pensavo che fossero prigionieri; man mano che si andava avanti si vedeva anche di più: spalavano, pulivano la strada, li vedevo magri, con gli occhi infossati, la zucca pelata, guardati dai tedeschi. Man mano che si avvicinavano vedevamo grandi camini fumare, un grande muraglione.

Dopo si arrivò alla porta d’ingresso del campo. Prima entrammo dai depositi dell’attrezzatura tedesca.

Una parte di noi era rimasta in quel perimetro grande, e una parte su una scaletta a destra entrò proprio nel campo di concentramento. Si entrò dalla porta, girando a destra; dopo andammo verso il muro del pianto.

Entrando nel campo girai la testa e vidi attaccato alla catena dell’ingresso un uomo ma non vidi se era legato; pensai che fosse fermo lì, invece poi vidi che era legato con una catena. Lo avevano messo come esempio: se uno non fosse stato agli ordini del campo sarebbe andato a finire lì per punizione! Arrivati nel piazzale c’erano 30 / 40 centimetri di neve, un manto bianco; penso che saremmo stati in 300, una parte rimase sotto ad aspettare il turno.  Venne il tedesco a parlare con l’interprete e ci fece depositare tutte le valigie.

Pensa quanta roba rubarono! Ognuno aveva una valigia o due, il vestiario, la biancheria, può darsi anche soldi, roba da mangiare, tanti la tenevano. Vedevano che c’era gente che non mangiava però – fa parte dell’egoismo – se la tenevano, ma quando arrivammo al campo ci portarono via tutto.

Depositammo le valigie, seguì un altro ordine: spogliarsi tutti nudi, levarsi gli indumenti, tutti. Uomini, grandi, piccoli, vidi scene un po’ commoventi. Recentemente, quando il Papa è andato in Israele ha visitato il Muro del Pianto: ma era quello di Mauthausen il vero muro del pianto!

Ho visto uomini anziani depositare catenine, anelli, portafogli, volevano tenersi una fotografia della moglie o del figlio, niente, lasciare lì. Guai se trovavano qualcosa addosso, erano punizioni tremende, infatti lasciarono tutto. Fatto questo andammo tutti in fila giù per una scaletta senza sapere dove, sempre destinazione ignota; ai lati della scaletta c’erano non militari ma borghesi, prigionieri come noi, e cominciammo ad assaggiare le botte del campo. Infatti entrammo, c’erano i barbieri con le macchinette, testa pelata, a me fecero la Strasse in mezzo, tutti i peli sulle braccia rasati; dopo le docce, acqua calda e acqua fredda. Si divertivano anche; finché era calda, bene ma quando era fredda, era pur sempre il 4 febbraio.

Finito questo programma pensai: “Ora ci daranno un asciugamano”, ma niente. A 50 metri c’erano due con dei pennelli, facevano un segno e dicevano che fosse disinfettante. Poi tornammo fuori dove ci avevano spogliati. Mi ricordo che presi un paio di pantaloni e una camicia, mutande niente, un paio di zoccoli con la striscia. Dopo mi capitarono un paio di zoccoli un po’ più robusti e li presi. Finimmo di vestirci alla bell’e meglio e ci portarono al blocco di quarantena. Io ero nella prima baracca, forse la 22; dopo c’era il muro perimetrale che divideva la quarantena. In baracca ci misero a dormire; i pagliericci avevano 3 centimetri di spessore. Alla mattina presto cominciai a sentire urlare, con i nervi in mano; prima di uscire e andare fuori all’aperto passammo sotto i lavandini tondi tipo militare con tanti rubinetti: a  petto nudo a bagnarsi testa, torace, schiena. Non c’erano gli asciugamani che si usano in casa, solo con la camicia e fuori all’aperto.

Dopo un po’ ci diedero il primo caffè, chiamiamolo caffè ma era acqua calda; lo bevemmo perché l’acqua calda faceva bene. Dopo fecero cominciare l’appello, tutti in fila, la mia prima volta che subii l’appello nel campo di Mauthausen, prima l’avevo subito a Bolzano. Tutti in fila, prima fecero le prove con il cappello, Mütze ab, Mütze auf dovevano sentire un colpo; un paio di volte lo ripetemmo, e dopo alla bell’e meglio lo facemmo.

D: Quando ti hanno immatricolato?

R: Finito l’appello, verso mezzogiorno, diedero la zuppa, tutti in fila; si cercava sul fondo dove era più densa, però a volte di capitava e a volte no. C’erano tanti prigionieri ma una gamella a testa non c’era; erano gamelle smaltate, tutte rugginose, brutte, io in tre mesi a Mauthausen il cucchiaio non l’ho mai visto, si mangiava con le mani: bisognava far presto a mangiare perché gli altri aspettavano che finissi per passargli la gamella, si doveva pulire bene perché c’era solamente quella.

Finito il mangiare di mezzogiorno arrivava la sera. Alla sera davano il pane, si mettevano fuori vicino al tavolo, tagliavano questo pane a fette, non so se era di 1 o 2 centimetri, davano un pezzetto di margarina, un po’ di marmellata o qualche pezzetto di salame, il pranzo era questo. Quando avevano finito di tagliare il pane sulla coperta la sbattevano e tutti le saltavano addosso per mangiare le briciole.

Quando racconto questi episodi nelle scuole mi guardano un po’ strano e dicono: “Ma questo cosa racconta?” A tante cose è difficile credere, magari a scuola non le hanno insegnate, però sono cose che ho visto e vissuto.

Finito di mangiare il pane si andava in branda in baracca, ma prima di entrare ci dovevamo spogliare, fare il nostro cuscino, andare dentro tutti in fila, e non mettersi con la pancia per aria, comodi sui pagliericci, ma a lisca di pesce, testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi… Non eravamo solamente tutti italiani, c’erano anche francesi, tedeschi, polacchi, russi, non ci capivamo, non si poteva dire: “Spostati un attimo”. Se urlavi era un parapiglia; lasciavamo un corridoio per chi di notte andasse a fare i bisogni. C’erano i gabinetti, con i lavandini ed anche i water, però non ci sono mai andato. Dietro c’erano i bidoni o una fossa con una tavola di traverso; i nostri bisogni li facevamo lì.

Nel blocco rimasi dal 4 febbraio fino al 5 maggio, sempre così. Fu la mia fortuna, io avrò lavorato in tutto quindici giorni, mi chiamarono a fare delle fosse con picco e pala, non so se erano delle fosse comuni o fosse che interessavano a loro.

D: La tua immatricolazione?

R: L’immatricolazione non ricordo come sia andata; era una striscia bianca col numero, io avevo il 126.404 con il triangolo rosso e la sigla IT; davano una piastrina di ferro legata col filo che mi rimase per ricordo, ce l’ho nella borsa se dopo la volete vedere. Nel periodo della quarantena una volta ci portarono sotto un grande tendone in fondo al campo; c’era una porticina di legno, sulla destra ora c’è il museo.

Una volta vennero i tedeschi coi cani dietro a questa porticina del tendone grande come i tendoni da circo. Non so per quale motivo, ma stemmo due giorni lì dentro, e dopo ci riportarono nel blocco.

A volte mi dicono: “Ma tu sei ritornato a casa!” Ragazzi, che ci posso fare? Ci sono diverse cose da raccontare. Nel blocco di quarantena un giorno mancavano due deportati all’appello. Erano due come noi e stemmo quasi tre o quattro ore fermi all’appello; girarono dappertutto e li trovarono. Li portarono dentro: la porta dove adesso c’è un cancello una volta era chiusa e di legno, vedevi solamente baracche e cielo, baracche e cielo.  Li presero per il petto, li buttarono contro il muro perimetrale del campo, rimasero un giorno e mezzo lì, morti così.

Quando vado là porto i ragazzi e racconto loro questo particolare che mi è rimasto impresso, e tutte le volte metto un paio di fiori nel campo, perché erano deportati come noi.

D: Dicevi di essere uscito alcune volte per andare a fare dei lavori; uscivi dal campo?

R: Sì, però non sapevo dove andassi, andavamo a circa 100 / 200 metri, sempre guardati dai tedeschi in divisa, non sapevamo dove ma eravamo proprio fuori dal campo.

D: Il momento della Liberazione dove ti trovavi?

R: Voglio raccontare un altro particolare. Quando ero nel blocco di quarantena, ogni tanto venivano i tedeschi a cavallo coi cani, ci facevano girare intorno al perimetro della baracca, lo facevano apposta per eliminare noi deportati. Nella mia baracca c’erano diversi italiani tra cui diversi spezzini che man mano andavano a lavorare fuori o cambiavano baracca o morivano. Rimasi l’unico spezzino con un certo Bonati Fabio di vicino Migliarina, che aveva 24 anni ed era ben messo. Ciononostante cominciò ad ammalarsi, lo vedevo tutti giorni deperire; quando facevamo l’appello cercavo di stargli vicino e di aiutarlo per quello che potevo fare. Vedevo però che non ce la faceva, vedevo che ormai era sfinito; ad un certo punto cascò vicino a me e mi disse: “Vai via che io non ce la faccio più”:  lo lasciai e non lo rividi più.

Sono due cose che mi sono rimaste impresse.

D: La Liberazione te la ricordi?

R: La ricordo perché un paio di giorni prima qualcosa era migliorato, non si vedevano più le solite angherie. Vedevo che i morti aumentavano, e ogni tanto alla mattina cinque o sei erano morti, si portavano su e poi arrivava il carretto che li portava via. Non si sapeva dove li portassero, perché noi il crematoio l’abbiamo visto quando ci hanno liberato: si vedeva il camino fumare ma non si pensava ai cadaveri, era tutto misterioso. Prima della Liberazione erano cambiate anche le sentinelle, non si vedevano più le SS bensì le cosiddette guardie territoriali; non c’era più la cattiveria di prima.

La Liberazione fu il 5 maggio (1945), lo sapemmo dopo che era il 5 maggio; lì si perdeva anche il nome dei mesi e non si sapevano i giorni della settimana. Sentivamo le grandi urla della folla, tutti i deportati andavano nella piazza principale del campo. Vedemmo una camionetta militare con sei soldati a bordo con l’elmetto, non con le divise marziali dei tedeschi. Avevano lanciato roba da mangiare, sigarette, scatolette, caramelle.

Io qualcosa arraffai ma c’erano migliaia di persone, come facevi?

Al giorno della Liberazione tutti i deportati si radunarono: incontrai Vasoli, Tartarini e Carassale, questi tre. Uscimmo dal campo ed andammo nelle cascine dei contadini: c’era una cascina che si vede ora dal museo, mi feci anche una foto, la vedi se ti arrampichi sul muretto. Parlavano tedesco ma i gesti … 

Iniziai a mangiare, portarono pane, uova, una zuppiera di carne di maiale. La notte dormimmo nel fienile ed alla mattina andammo in un’altra cascina. Mentre facevamo questo percorso si sentivano gli altoparlanti in diverse lingue: “Tutti i prigionieri sono pregati di ritornare nel campo perché presto ci sarà il rimpatrio”.

Tornammo. Avevo un fagottino con della roba, non ricordo se pane o uova: all’entrata del campo c’era un Militar Police con casco e fucile: mi portò da due o tre militari che mi buttarono in cella di rigore. Ci stetti  un quarto d’ora e poi mi lasciarono andare. Tornammo al nostro blocco, sempre con questi tre amici di Migliarina. Ci diedero pacchi americani con tanta roba, minestra in scatola, noccioline, cioccolate, sigarette, latte in scatola ma l’istinto della fame! Tutti i deportati che erano usciti, dopo che il campo era stato liberato, entravano con le mucche alla corda, con pecore, conigli, galline, tutto. Però non potevano entrare nel campo, i militari li fermavano, dopo chiamavano i contadini che venissero a prendersi la roba. Diedero due o tre giorni di carta bianca, vidi scene terribili.

D: Sergio, quando e come sei rientrato in Italia?

R: Siamo partiti il 2 giugno 1945, quanti ne abbiamo oggi? 55 anni fa ero per strada che stavo ritornando. Un po’ sui camions militari americani con la pedana a destra e a sinistra, un po’ in treno, un po’ a piedi. Ricordo che arrivammo in un posto di ristoro, era un campo francese, dissi a Vasoli: “Ma guarda un po’, dopo sei mesi si dorme in un lenzuolo bianco”. Ci trattarono bene, si mangiava, ci stemmo un giorno e dopo ripartimmo. Ci fermavamo nei posti di ristoro; a Innsbruck ci misero in un campo pieno di pulci e pidocchi, ma non c’era altro posto.  Venivano gli americani con le pompe a disinfettare. Dopo ripartimmo per l’Italia, su questi camion militari. Si vedevano la bandiera italiana e la bandiera austriaca e l’autista disse: “Siamo arrivati in Italia”. Allora scendemmo tutti a baciare la bandiera italiana.

A raccontarle sono cose molto tristi. Arrivammo a Bolzano, ricordo che dove ci eravamo fermati col camion c’era un ciliegio, strappammo i frutti e li mangiammo. Prima di ripartire ci portarono in ospedale, ci visitarono. Mi avrebbero dovuto trattenere perché ero molto deperito ma dissi di voler andare a casa a trovare i miei. A camminare facevo fatica perché ero debole, però volevo andare a casa mia.

Da Bolzano partimmo in treno, che ad un certo punto si fermò perché non poteva più andare avanti. Allora siamo andati con le corriere fino alla stazione centrale di  Milano. A Milano andammo in un punto di ristoro, ci fecero mangiare e bere; poi arrivammo a Genova alla Curia vescovile: io, Vasoli, Tartarini e Carassale, girammo per la città e arrivammo a Prè. Vedendo il nostro aspetto tutti dicevano: “Ma da dove venite così mal ridotti?” “Veniamo dalla prigionia, veniamo dal campo di Mauthausen”. Fecero una colletta che ci siamo divisa un po’ per uno. Da Genova a La Spezia abbiamo preso un camion che andava verso Livorno. Siamo arrivati a La Spezia nella Piazza del mercato, davanti al bar chiamato “Bar Spezia”. Siamo scesi lì verso mezzanotte, abbiamo diviso il nostro gruzzoletto di soldi e ci siamo salutati dirigendoci verso le nostre case.

Salmoni Gilberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Gilberto Salmoni, sono nato a Genova il 15 giugno 1928 e abito a Genova.

Sono stato arrestato dalla milizia della Repubblica di Salò alla frontiera svizzera, il 17 aprile 1944, in alta montagna. Eravamo partiti da Bormio, tutta la famiglia: papà, mamma, mio fratello, mia sorella e mio cognato, cioè suo marito.

Con due guide di Bormio, Pedrazzini e Fumagalli, abbiamo camminato tutta la notte; è piovuto in bassa quota ed ha nevicato in alta quota. Eravamo arrivati al passo, che mi hanno detto dopo chiamarsi Passo della Forcola, sui 2.770 metri di altitudine. A quel punto le guide ci hanno detto che potevamo riposarci qualche  minuto, c’era una capanna; invece siamo stati sorpresi dalla milizia. Eravamo ormai alla fine della salita, non avevamo che da scendere.

Siamo stati portati alla caserma della milizia confinaria di Cancano poi al carcere di Bormio. Alla caserma di Cancano siamo stati interrogati, ci hanno sequestrato gli orologi e i soldi, che poi abbiamo trovato, ci hanno fatto firmare, una cosa del tutto regolare. Siamo stati anche interrogati nel senso che uno aveva una specie di pugnale, ma insomma non è stata una cosa tremenda, si vedeva che voleva darsi delle arie. Poi ci hanno portato al carcere di Bormio. Il carcere di Bormio è un carcere di paese; c’era un ladro con le catene ai piedi e la palla, quella delle vignette. Dopo due giorni ci hanno portato a Tirano e lì siamo stati consegnati alla gendarmeria tedesca. Il giorno dopo, accompagnati dai carabinieri, sul treno e ammanettati siamo andati a Como, e lì consegnati alle SS.

A Como siamo stati 5 giorni, grossomodo; poi siamo stati portati a Milano al carcere di San Vittore.

Non so come si chiamassero le carceri di Como, so che ci siamo arrivati il 21 aprile, Natale di Roma. Dicevano che era l’unica giornata in cui davano la pastasciutta invece della minestra, ma noi l’abbiamo saltata, abbiamo avuto la sbobba.

D: Poi a Milano, San Vittore.

R:Poi San Vittore. A San Vittore c’era un’organizzazione clandestina molto forte, che portava del cibo in più rispetto a quello che veniva distribuito dai carcerieri.

Io non ho detto fino a questo momento che eravamo stati arrestati come ebrei, anche se a rigore la mia famiglia era mista. In realtà c’era soltanto una nonna cattolica, però poi con dei documenti saltavano fuori due non cattolici. Noi eravamo battezzati, però al momento non abbiamo tirato fuori questa cosa. A San Vittore abbiam passato un bel po’ di tempo, una decina di giorni almeno.

Tra l’altro ci han portato a scavare bombe inesplose a Lambrate, alla Innocenti: eravamo stati caricati su un camion, tutti incatenati, una ventina di persone, e portati là con questa consegna: “Il buchetto che vedete bisogna allargarlo fino a trovare la bomba, mi raccomando non picchiateci sopra.” Ci abbiamo picchiato sopra ma non è esplosa, perché ci davano un piccone.

Di lì siamo andati a Fossoli. A Fossoli ha giocato la documentazione che avevamo, difatti gli altri ebrei son partiti per Auschwitz, noi invece siamo rimasti a Fossoli per un periodo abbastanza lungo, cioè fino allo sgombero del campo. In realtà quelli giudicati misti erano trattenuti.

D: Con voi c’erano delle donne della tua famiglia?

R: Certo.

D: Vi hanno separati?

R:Separati, però ci si vedeva, mentre a San Vittore si era insieme, non facevano separazione. Noi eravamo all’ultimo piano del raggio, adesso non ricordo se il raggio era il 5 o il 6. Le celle erano aperte, quindi si poteva circolare nel corridoio.

A Fossoli in realtà si lavorava poco, era un campo di transito, non era organizzato per seviziare. Era organizzato per trasferire quelli che poi venivano trasferiti. Comunque nel periodo in cui siamo stati lì c’è stata la chiamata per un trasporto mi pare di 70 persone, che poi in realtà sono state fucilate al poligono di Carpi. Prima di loro sono stati chiamati quelli che hanno scavato la fossa. La cosa è risultata subito evidente perché i bagagli dei 70 erano partiti e son tornati indietro. Si capiva anche perché quelli che avevano scavato la fossa ci han detto: “Non chiedeteci niente, non possiamo parlare.”

Ho dimenticato di dire che a San Vittore abbiamo avuto un interrogatorio abbastanza duro ma non tremendo, duro per mio fratello e mio cognato: mio fratello aveva 15 anni più di me, mio cognato, che è cattolico e avrebbe dovuto presentarsi militare alla Repubblica di Salò, ebbe due denti rotti perché gli tirarono una pistola in bocca. Mio fratello si è preso degli schiaffoni; io ero lì fuori a vedere, a me non hanno fatto un granché. Il nostro timore era che ci chiedessero chi ci aveva ospitato fino a quel giorno, però non abbiamo avuto torture particolari, minacce ed urla sì, ma insomma …

Fossoli è un campo in cui c’era anche uno spaccio che completava l’alimentazione che passava l’SS; era un campo relativamente tranquillo, relativamente perché vi dico c’è stata la fucilazione. Un prigioniero politico che era riuscito a scappare è stato poi ritrovato e massacrato dalle botte, in faccia a tutti sulla piazza dell’appello, apposta, chiaramente. E poi ci è stato detto che eravamo stati abbastanza in villeggiatura e che avremmo dovuto andare in un campo ben organizzato.

D: A Fossoli sei stato immatricolato?

R: No. 

D: Ricordi se a Fossoli c’erano dei religiosi?

R:No, non lo ricordo, so che forse don Gaggero c’era. La parte ebraica era separata dalla parte politica, anche se per esempio mio fratello era medico ma andava nell’infermeria dove c’era Ottorino Balduzzi. E’ risultato dopo che Balduzzi era il comandante dell’organizzazione Otto che teneva i contatti radio con gli alleati. Con mio fratello si conoscevano già, Balduzzi era più anziano, era una persona già professionalmente affermata. Ad ogni modo noi circolavamo nella parte ebraica del campo. C’erano invece dei prigionieri olandesi ed inglesi che avevano un trattamento migliore sicuramente e non erano chiamati a lavorare. Io invece lavoravo.

D: A Fossoli lavoravi?

R: A Fossoli lavoravo, non sistematicamente, però; facevo la cernita della spazzatura, quella che adesso chiamiamo la spazzatura differenziata: noi andavamo sul mucchio della spazzatura a separare la parte metallica dalla parte non metallica. Cioè le scatolette dal resto.

D: All’interno del campo?

R:All’interno del campo. Nei primi giorni mi avevano mandato a lucidare le scarpe delle SS, non ero molto bravo; poi una volta c’è stata una visita di Buffarini Guidi, che era il ministro degli interni italiano, e ci hanno organizzato un trasporto pietre, cioè c’era un mucchio di sassi e ci facevano fare la catena, tanto per far vedere che facevamo qualcosa: una buffonata, insomma.

D: Poi hanno organizzato il vostro trasporto per l’altro campo.

R:Siamo stati portati a Verona. Allora si passava il Po sulle barche, perché i ponti erano interrotti, quindi una corriera arrivava fino ad una riva e un’altra corriera sull’altra riva ci portava a Verona.

D: Durante il tuo periodo di Fossoli hai potuto comunicare con l’esterno del campo, scrivere o ricevere?

R:Io avevo un amico di Modena, o lì vicino, non so come gli ho scritto che ero lì, se poteva mandarci qualche genere alimentare e ci ha mandato un pacco con pane e uova, adesso non ricordo esattamente. Erano i conti Pignatti Morano, di Custoza mi sembra, bravissime persone che abitavano a Genova, e poi erano arrivati a Bogliasco dove eravamo sfollati per i bombardamenti, quindi li conoscevo bene. Eravamo molto amici con uno che aveva un anno o due più di me. Ho scritto e molto gentilmente loro l’hanno mandato. A differenza della Germania dove noi potevamo scrivere al massimo tra un campo e l’altro, ma nessuno sapeva dove fossimo.

D: Quindi vi hanno trasportato a Verona …

R:A Verona ci hanno fatto salire su un treno a Porta Vescovo, su dei vagoni, separandoci.

La separazione era già stata stabilita a Fossoli, con determinati criteri loro che poi ho cercato di ricostruire. Quindi mia madre, mio padre e mia sorella erano in un vagone, io e mio fratello in un altro. Le due guide invece erano già state mandate a Mauthausen, però una scappò durante il viaggio e andò coi partigiani della zona di Bormio. Io e mio fratello siamo stati fatti scendere a Innsbruck con l’incarico di portare il caffè ai prigionieri e in quel momento abbiamo visto che sul vagone dove c’erano i miei c’era scritto “Auschwitz”.

Già si sapeva che non c’era da aspettarsi niente di buono. Invece sul nostro abbiamo visto scritto “Buchenwald”, che per noi era un nome sconosciuto.

D:Dici di aver visto le scritte all’esterno o nel vagone?

R:Dove mettevano le spedizioni, credo che fosse quello. Era scritto molto chiaramente “Auschwitz”, e già sapevamo bene. E’ un’informazione che non so come e quando ci sia arrivata, però io so che quando siamo arrivati a Buchenwald e ci hanno portato alle docce, dicevamo: “Vediamo se esce il gas”, quindi … erano già informazioni acquisite.

D: Da Innsbruck poi il convoglio procede.

R:Da Innsbruck i vagoni sono stati separati; noi abbiamo continuato per circa 4 / 500 chilometri più a nord, non li ho misurati. Si passa da Monaco, da Norimberga, da Weimar, e sei subito vicino a Buchenwald. Siamo arrivati in piena notte a Buchenwald, ci han fatto scendere dal vagone con il nostro vicecapocampo Haage, che risulta ancora  vivo ed ha circa 90 anni – su di lui c’è una pratica pendente, mi hanno chiamato in agosto i carabinieri a fare una deposizione 3 anni fa poi non se ne è più saputo niente. Ci han svegliato, probabilmente era primo mattino, ci hanno rinchiuso in una baracca buia, già pieno di gente e non si respirava, non avevamo il coraggio di aprire porte, era una situazione già di dramma. Alla mattina invece siamo stati immessi nel ciclo di inserimento nel campo. Quindi: spoliazione, doccia, depilazione, venivano buttati a caso i generi di abbigliamento che consistevano – allora era agosto – in una camicia, una giacca, un paio di calzoni, si infilava un paio di zoccoli, poi veniva dato il numero, che in qualche modo abbiamo cucito, e si veniva mandati al blocco di quarantena.

D: Ricordi il tuo numero?

R:44.573. Quello di mio fratello era 44.529. Erano numeri sparsi, e quindi per noi era un mistero fino a quando dopo la liberazione siamo andati a vedere i nostri documenti e abbiamo visto che quel numero era la quarta volta che veniva riciclato. Quindi si tappavano dei buchi, in un certo senso, contabili.

Erano accurati, ci chiedevano quante lingue sapevamo, qual era la nostra professione, qualcuno diceva che faceva il cuoco sperando di essere mandato in cucina, ma sono assolutamente certo che l’unica ripartizione che potevano fare era per operaio specializzato.

Pochi giorni dopo che eravamo nel blocco di quarantena c’è stato un bombardamento molto forte di 5 squadriglie da 12 fortezze volanti. Avevamo una paura da matti perché sembrava che le bombe arrivassero sempre più vicine, si vedeva legname e cose varie che volavano per aria.

In quel momento mio fratello, che appunto era medico, dice: “Usciamo a vedere cosa è successo, tanto c’è  confusione, io dico che sono medico e che tu sei infermiere e vediamo se ci assegnano qualche compito per soccorrere i feriti, che certamente ci saranno.” Infatti i feriti c’erano perché le baracche in cui si dormiva erano rimaste intatte, ma i deportati durante il giorno, abbiam visto dopo quando siamo entrati, erano tutti  a lavorare fuori del campo, all’interno di un secondo recinto dove c’erano fabbriche, caserme, garages di camion, macchine, motociclette, un territorio molto vasto. C’erano feriti dappertutto, feriti che si lamentavano, però non abbiamo trovato nessun responsabile identificato cui dire questa qualifica ipotetica, per mio fratello no per me sì. Allora non si poteva stare troppo fuori, rischiavamo troppo ad essere usciti dalla baracca, a rigore avremmo dovuto stare all’interno della baracca, quindi siamo rientrati.

Finita la quarantena prima del tempo, ci hanno assegnato a una baracca dove poi ci hanno chiamato a lavorare. Come primo lavoro c’era lo sgombero delle macerie, e come secondo lavoro la ricostruzione.

D: Quando siete arrivati, il treno dove vi ha portato rispetto al campo di  Buchenwald?

R: Ci ha portato ad un binario morto, e avremo fatto circa 200 metri a piedi per entrare dalla porta principale, che era il comando. C’era una specie di vignetta, un quadretto con un prigioniero col vestito a righe, altri con altri vestiti, io allora ho letto “Caracoveg”, che poi era Karachoweg, perché in russo Karacho vuol dire “”grazie” e quindi era una sfottitura per i deportati che arrivavano.

D: Quando ti hanno completato la vestizione?

R:La vestizione è stata completata, si fa per dire, d’inverno. Con l’avvicinarsi dell’inverno ci hanno dato un cappotto e degli zoccoli che si chiudevano. Poi non so come siamo riusciti a recuperare qualche cosa del nostro bagaglio. Mio fratello ad un certo momento ha iniziato a far parte dell’organizzazione clandestina del campo di Buchenwald, che evidentemente aveva del potere; le SS se ne fregavano, purché avessero gli uomini in numero giusto per ogni tipo di lavoro. Quindi qualcuno poteva essere spostato, poteva avere accesso a certi posti e qualcun altro no; può essere che mio fratello, entrando a far parte del comitato, abbia avuto qualche privilegio.

D:Il tuo numero del blocco dopo la quarantena te lo ricordi?

R:Mi pare che siamo stati al blocco 43 o 48 o forse in tutti e due; erano dei blocchi a 2 piani, di mattoni o di cemento armato non lo so. Lì abbiamo passato la maggior parte del tempo e siam passati poi al blocco 14, con un certo vantaggio: nell’altro blocco c’erano in polacchi, cecoslovacchi e jugoslavi, i polacchi non so come mai risultavano antipatici a molte persone. La generalizzazione è sempre una cosa sbagliata però capita di farla, ed effettivamente con alcuni che abbiamo incontrato non ci si stava bene.

Non c’era una lingua, si parlava in tedesco, credo che una volta uno abbia provato a parlarmi in latino. Invece il blocco 14 era il blocco di francesi e belgi. Allora io il francese lo sapevo bene e mio fratello anche, perché eravamo stati tutti e due alla scuola svizzera di Genova; quando non ho potuto andare nelle scuole statali sono andato alla scuola svizzera e lì la lingua ufficiale era il francese, ho dovuto impararlo per forza. Coi francesi ci si trovava molto bene: c’era una solidarietà fortissima, loro ricevevano pacchi dalla Croce Rossa, e molto di rado, il proprietario del pacco prendeva il sapone e le sigarette e divideva in 6 parti ogni genere di alimentazione. Questa era una cosa che mi aveva veramente molto sorpreso. A me è capitato per pochi giorni di far parte di una squadra che doveva pulire le lenticchie per le SS e di solito lavoravo all’aperto. Quella volta mi hanno chiamato a levare le pietruzze dalle lenticchie, e ho diviso, mi è sembrato giusto dividere: le ho rubate a rischio. Immaginatevi che quando siamo arrivati c’erano credo 4 impiccati sulla piazza dell’appello per furto di patate, però siccome eravamo convinti di essere morti, cioè di non sopravvivere, non ci si faceva proprio caso, era una cosa a cui non si pensava nemmeno.

D: Quale è statoil tuo primo lavoro?

R:Il mio primo lavoro  è stato sgombrare le macerie, trasferire le travi di legno che ci dicevano di ammucchiare da una parte, i mattoni da un’altra parte, poi recuperarli, cioè levare la calce che era dei mattoni, batterli. Quello è stato il periodo invernale. Salvo che una volta un deportato ha preso il numero a uno dei due, a me o a mio fratello, e l’altro ha detto: “Prendi anche il mio”. Il giorno dopo siamo stati chiamati a lavorare alla stazione di Weimar a levare i binari e a sostituirli; era un lavoro tremendo.

La regola per noi, e l’avevamo capito, era cercare di lavorare il meno possibile. Siccome le SS erano abbastanza poche, limitatamente al territorio che dovevano coprire, noi si cercava di fermarci e poi si veniva avvertiti in qualche modo quando  arrivavano e ci si metteva subito a trafficare; non andava mai bene lo stesso ma insomma facevamo qualcosa. Invece lavorare nella stazione di Weimar significava essere guardati a vista da un cordone di SS sempre lì con i cani lupi, non ci mollavano un attimo. Se non smetteva questo lavoro, non so se abbiamo finito di sostituire i binari che erano usurati, o ci hanno spostato di lavoro, sarebbe stata una fine rapida, per quel poco mangiare che ci davano.

D: Con cosa andavate dal campo?

R: In treno, sul vagone, ma son pochi minuti.

D:Ricordi se a Buchenwald hai visto baracche per donne?

R:A Buchenwald c’era il postribolo, questo si sapeva, era una cosa che mi poneva tanti interrogativi; chi era in condizioni di andare al postribolo? Posso immaginare che gli anziani del campo che avevano oramai preso posti di comando potessero usufruirne, comunque donne non ne ho mai visto circolare, ho visto forse qualche moglie di SS.

D: Bambini o ragazzi?

R:Bambini no, il più bambino ero io, grossomodo il meno adulto. C’è stato quel caso che ho letto, non so se avete visto il film di Benigni: un ebreo americano è uscito dal silenzio, ha detto che era riuscito a portare in campo suo figlio. Insomma alle volte proprio ci si sorprende perché non è che si possa capire tutta la realtà del campo, ma la nostra era la prassi: doccia, lasci tutti gli indumenti ecc. ecc.;. Evidentemente è arrivato da una marcia della morte, di quelle degli ultimi tempi, quando cominciava ad esserci un po’ di calo nell’organizzazione.

D:E il lavoro alla stazione?

R:Adesso non ricordo bene se sono rientrato come aiuto muratore; abbiamo fatto un periodo in cui mio fratello e io ci passavamo i mattoni, io poi andavo a prendere con la carriola la calce, facevamo la malta per i muratori veri e propri, che erano persone che sapevano mettere i mattoni; costruivano le fabbriche che erano state bombardate. 

D: Che tipo di fabbriche erano, te le ricordi?

R:Erano fabbriche di armi, questo si è saputo, non è che si vedessero le armi. Io poi ci sono stato perché un capannone era ancora in piedi e c’erano delle macchine che lavoravano; non so come ma sono andato a vederle. Si è saputo che erano fabbriche di armi perché i deportati durante il bombardamento sono riusciti a portare armi all’interno del campo. Quindi c’è stata una storia che è venuta fuori soltanto all’ultimo e che io ignoravo. Ci sono stati appunto degli interrogativi, anch’io con mio fratello non è che si parlasse volentieri di queste cose, in famiglia ci dicevano di stare zitti e di lasciar perdere.

Io non ho mai chiesto per esempio a mio fratello come mai lui dal lavoro esterno fosse rientrato prima di me; mio fratello è andato in sartoria. Sartoria cosa voleva dire? mettere le pezze. Infatti una minoranza di noi aveva il vestito a righe, standard; per lo più si trattava di vestiti nostri che venivano tagliati, fatta una finestrella sui calzoni e sulla giacca e sulla finestrella cucita dell’altra stoffa; poi venivano  fatte due righe di vernice rossa pesante.

Lo stesso tipo di precauzione c’era per la capigliatura, inesistente, cioè con delle rotaie oppure con la cresta: soltanto la prima volta eri pelato, poi, come ti crescevano, ti lasciavano la crestina o ti facevano la rotaia la volta dopo. Questo immagino per evitare fughe che tra l’altro credo non si pensavano possibili: era possibile fuggire ma non era possibile resistere, ti facevano la spiata subito.

Successivamente sono andato al lavoro interno, ma questa è un’altra storia perché tutte le sere succedeva che chiamassero dei numeri per il trasporto nei campi satellite. Io sono stato chiamato a un trasporto, mio fratello era già in sartoria. Sartoria cosa voleva dire? essere all’interno del campo, non dover uscire con la squadra e quindi un po’ più di libertà di azione. Io dovevo presentarmi alla visita prima di partire per il trasporto, mio fratello è venuto con me e con le poche parole in tedesco che sapeva si è rivolto al medico dicendo: “Sono un medico di Genova, vorrei partire assieme a mio fratello, vogliamo restare assieme”. Invece di dargli una scarica di botte, questo ha  preso nota del mio numero e del suo, e io sono stato trasferito in cucina. Quindi la cosa ha funzionato, era una di quelle cose per cui o ti ammazzano o funzionano, è stata una botta di fortuna.

Tra l’altro questo medico conosceva un professore di Genova con cui mio fratello aveva operato. Sai quelle combinazioni, uno dice: “Conosci mica il professor Caterina?” “Sì, ho operato a Villa Albertani – che era una clinica privata – ho aiutato, davo i ferri”.

In cucina effettivamente sei al coperto, però era un lavoro massacrante, avrei dovuto pelare 20 cassette di patate in un giorno. Al secondo giorno avevo un polso così, e quindi mi hanno trasferito nel reparto scarico merce. Era un’altra cosa: uno poteva anche prendere qualche patata e mettersela in bocca, con la buccia e tutto. Ho dimenticato di dire che io ho avuto lo scorbuto, incominciavano a sanguinare le gengive, mio fratello mi ha detto: “Questo qui è scorbuto, non c’è dubbio, bisogna che tu trovi della vitamina C”.  Lui conosceva un medico cecoslovacco, e nonostante gradualmente le cose andassero peggio dal punto di vista della posta, i cecoslovacchi ricevevano dei pacchi; questo medico aveva della vitamina C, me l’ha data, per fortuna; io sono stato due settimane grossomodo in una situazione quasi impossibile, mangiare qualche cosa voleva dire soffrire le pene dell’inferno. Cercavo di fare dei mucchi, ma con la roba brodosa era difficile fare dei mucchi, metterla sulla lingua e buttarla in fondo per riuscire ad ingurgitare qualche cosa. Con la vitamina C è andato tutto a posto, non ho più sofferto; ecco quanto giocò mio fratello che aveva 15 anni più di me, aveva fatto l’alpino, e continuava a dire che il motto degli alpini è “arrangiarsi”, quindi si è arrangiato.

Questa è stata un po’ la nostra storia, che ha avuto i momenti più acuti negli ultimi giorni, quando vedevamo arrivare colonne di persone dai campi satelliti o da Auschwitz. Qualcuno era arrivato da Auschwitz, e ci dicevano che erano marce tremende, che chi cadeva per terra veniva finito; noi pigliavamo atto di questa cosa. La convinzione circolante era che il campo fosse minato, che ci avrebbero fatto saltare per aria, però c’era anche l’ipotesi che ci avrebbero chiamato per portarci in qualche altro campo, perché noi eravamo al centro della Germania, non avevamo idea di dove fosse il fronte. Ad un certo momento abbiamo sentito  le cannonate, abbiamo visto gli aerei che volavano più basso, quindi si è capito che dovevano essere abbastanza vicini. Pochi giorni prima era stata bombardata Weimar, e per quello che abbiamo capito il comandante del campo ha fatto un appello ai prigionieri perché aiutassimo la popolazione colpita dai bombardamenti offrendo non so bene che cosa: nella pazzia non c’è limite!

Poco dopo il comitato  di liberazione internazionale che si era formato uscì allo scoperto, pur non dicendolo chiaramente; c’erano però degli incaricati che davano indirizzi del tipo: “Andate al magazzino delle scarpe e cercate di prendere le scarpe”, perché negli ultimi giorni il controllo era molto sballato. Credo che 4 o 5 giorni prima della liberazione non si uscisse più a lavorare, non funzionava più il crematorio, per cui ammazzavano i deportati e facevano le cataste di cadaveri. Le scarpe servivano in caso di marce, bisognava essere in condizione di camminare non con gli zoccoli ma con una calzatura. E poi il comitato chiamava una baracca a fare resistenza passiva, e quindi a non presentarsi in piazza d’appello.

Questa è stato la parola d’ordine, e in questo modo circa la metà del campo è stata sgombrata; hanno portato via circa 20 mila persone e circa 20 mila persone sono rimaste dentro il campo, ritardando la partenza, opponendosi non violentemente ma non presentandosi.

Allora sì si sentivano delle scariche; lo dico nel senso che noi eravamo abituati all’idea che ci facessero fuori, per prima cosa; per seconda cosa, effettivamente c’erano stati dei punti di cedimento delle SS: io avevo visto una SS che ad un prigioniero russo ha offerto sigarette, e il prigioniero russo con molta dignità gli ha risposto di non capire. Era una cosa che ti faceva svenire, dicevi: “Ma cosa sta succedendo? incomincia ad avere paura questa gente?”  E allora che cosa è successo? E’ successo che ad un certo momento abbiamo visto dei deportati, i Lagerschützer, cioè la polizia del campo costituita da deportati, con i fucili. Allora abbiam pensato di essere liberi, veramente. In effetti SS non se ne vedevano più, e questo è capitato non potrei dire quante ore prima che vedessi la prima jeep e il primo soldato americano che mi ha colpito perché aveva la piega nei calzoni. E quindi questa è stata la liberazione del campo, in 2 fasi, ogni zona del campo era una zona a sé.

Torno indietro, perché mi avevi chiesto se avevo visto donne nel campo. Qualche deportato aveva visto Mafalda di Savoia prima del bombardamento, era in una specie di villetta esterna al recinto dove vivevamo noi dopo il lavoro, interna invece al secondo recinto dove si andava a lavorare. D’altra parte quasi interne al secondo recinto c’erano anche le villette degli ufficiali SS e le caserme.

La liberazione è stata in due fasi, in due momenti, certo è stato un momento di gioia, quasi a toccarci se eravamo vivi.

Tra l’altro 2 o 3 giorni dopo che erano arrivati gli americani, c’è stata una, non la posso chiamare incursione aerea perché non c’è stato niente, però le mitragliere americane hanno sparato per un bel po’ di tempo. Quindi non c’era neanche da stare proprio tranquilli.

D: Le date di queste liberazioni?

R: Io ho la data dell’11 aprile mentalmente, poi può essere l’11 o il 12. Gli americani erano molto ben organizzati, ci hanno dato molto rapidamente un documento di identità con l’impronta digitale, però non volevano che si uscisse dal campo, perché c’erano molte malattie. Pochi giorni dopo hanno obbligato la popolazione di Weimar a venire a visitare il campo. Poi si sono scoperte cose che neppure noi sapevamo, e cioè che sotto il crematorio c’era la cantina della tortura, un lungo corridoio con un mucchio, ricordo, un mucchio di ganci, con le pareti scrostate dai calci di chi veniva impiccato in quel modo. Poi le cose per picchiare, per torturare.

Io mi ero chiesto, come mai in un Lager ci fosse anche la prigione, di fianco c’era la prigione.  Una volta sono stato chiamato da una SS che non so che cosa volesse farmi trasportare, mi sono presentato, non mi sono levato il berretto – ecco l’indumento che mi son dimenticato di nominare – allora mi ha tirato uno schiaffone e mi ha segnato il numero. Io sono stato per un paio di giorni a vedere. E invece non ha fatto niente, o l’ha perso. Quindi questi episodi c’erano, si sapeva che qualcuno ad un certo momento spariva.

Tra l’altro abbiamo avuto nella baracca la simpatica compagnia di due fratelli inglesi, che erano dei servizi segreti, e che sono stati dei mesi prima di rivelarsi e di apostrofarci in perfetto italiano: il marchese di Roccapelosa e l’altro non lo ricordo. Ci hanno raccontato che avevano perso le mogli in un bombardamento aereo in Inghilterra, avevano deciso di arruolarsi, erano stati paracadutati in Francia, e ci raccontavano qualcosa dell’addestramento: sapevano le parole francesi in dialetto, i giochi a carte che si facevano nei posti in cui li avrebbero paracadutati, e quando hanno saputo che eravamo di Genova ci han detto “belin”. Un paio di notti prima della liberazione sono spariti, e a ragion veduta, perché anche un aviatore americano che era stato paracadutato fu impiccato un paio di giorni prima della Liberazione; anch’egli era dei servizi segreti.

Poi abbiam saputo che era stato ucciso anche il capo del partito comunista tedesco: era stato ammazzato pochi giorni prima della Liberazione. E penso altri come lui.

Dopo la Liberazione abbiamo visto una realtà del campo di cui avevamo sospetto perché il piccolo campo era un posto temuto, però non pensavamo che fosse un ammasso tale di cadaveri con gente praticamente viva, non erano ammucchiati ma stavano nello stesso letto, non si alzavano più e cercavano di prendere ancora la razione del morto. Non si muovevano più, non capivano più niente, noi eravamo ancora relativamente in forze, li abbiamo aiutati a portarli fuori, il comando americano li aveva destinati a un ospedale, ma non credo che ne siano sopravvissuti tanti.

D: Gilberto, quando tu e tuo fratello eravate a Buchenwald avete potuto scrivere qualche biglietto, qualche lettera?

R:No, noi abbiamo scritto a un altro campo, sperando che mia madre e  mia sorella fossero andate a Ravensbrück. Correvano delle voci: magari da Auschwitz le hanno trasportate a Ravensbrück. Allora abbiamo  provato a  scrivere in tedesco, non si poteva scrivere in un’altra lingua.

D:Buchenwald è stato uno dei pochissimi esempi in cui l’esercito liberatore ha portato la popolazione nel campo; tu eri presente?

R: Sì, abbiamo visto venire la colonna della popolazione.

D:  Allo stesso tempo dicevi che hai scoperto molte realtà del campo.

R:Certo. Ho scoperto in particolare il piccolo campo. Poi era venuta fuori una cosa che io lì per lì ho detto: “E’ una storia esagerata, ne han combinate abbastanza, inutile aggiungerne”, mi riferisco alle lampade con la pelle tatuata. Poi invece si è rivelata vera, come poi è venuta fuori la documentazione dell’esecuzione dei prigionieri russi.

D:Il ritorno quando è avvenuto?

R: Purtroppo la nostra nazione ha dimostrato di essere la leader della disorganizzazione; gli inglesi non se ne parla neanche, 2 giorni dopo la Liberazione son venuti a prendersi i loro connazionali. Anche i francesi, i cecoslovacchi. Da noi è arrivata ad un certo momento una macchina del Vaticano che ha preso il dottor Pecorari, che poi è stato vicepresidente della Costituente, democristiano, e arrivederci e grazie, noi neanche ci han guardati in faccia!

La cosa è andata così: mio fratello aveva un amico deportato tedesco, socialdemocratico. Era di Monaco di Baviera, e in qualche modo era riuscito a mettere insieme una Mercedes e a farsi dare dagli americani dei buoni benzina. Aveva 4 posti, quindi ci ha chiesto se volevamo andare  a Monaco. Noi, figurati! contenti e felici di andarcene, e con l’elenco di tutti i prigionieri italiani di Buchenwald sopravvissuti battuto a macchina, un foglio che ho ancora, e che poi abbiamo consegnato agli americani. E’ stato un viaggio tormentato perché chi guidava era molto giovane ed era evidente che non sapeva guidare. Mio fratello che sapeva guidare era veramente terrorizzato, ogni tanto provava a chiedere di sostituirlo, ma questo diceva: “No, il documento è intestato a me, devo guidare io”. Comunque bene o male a Monaco ci siamo arrivati, anche se siamo scesi per l’attraversamento del Danubio, che abbiamo preferito fare a piedi sul ponte di barche. Arrivati a Monaco abbiamo cercato di consegnare questo elenco al comando americano, ma c’era un tedesco che non voleva farci entrare. Noi abbiamo fatto il giro del palazzo e siamo entrati da un finestra nel retro, siamo andati al comando, abbiam dato il nostro elenco, e pochi giorni dopo mi è arrivata la lettera della Croce Rossa che annunciava che stavo rientrando in Italia.

A Monaco purtroppo abbiamo saputo subito dalla interprete che c’era a Fossoli che i miei erano stati mandati alla camera a gas con la prima selezione, subito appena arrivati. Poi ci siamo arrangiati a cercare di rientrare in Italia, siamo andati alla stazione, abbiamo preso un treno fino a Rosenheim; era il primo treno che partiva e faceva quei pochi chilometri verso l’Austria; abbiamo avuto delle difficoltà con un americano, che ha sgridato un contadino tedesco perché non voleva caricarci sul carro e farci fare un po’ di strada verso il confine.

Finalmente siamo arrivati a Bolzano dove c’era un campo di accoglienza abbastanza organizzato.

A Genova sono arrivato pochi giorni prima del mio compleanno; io compio gli anni il 15 giugno, siamo arrivati forse il 10, 12 giugno (1945). Quindi 2 mesi dopo la Liberazione.

A quelli che sono rimasti là gli americani han detto di trovarsi un camion, perché quella sarebbe diventata zona russa e gli americani l’avrebbero abbandonata. Allora qualcuno è andato a Erfurt, è riuscito a fare una trattativa per avere un prestito di più camion per rientrare.

D: Una volta rientrati a Genova avete ritrovato la vostra casa?

R: Sì, la casa l’abbiamo ritrovata perché non era stata bombardata. La casa era abitata da due donne che sembra ricevessero dei militari tedeschi, e sono sparite abbastanza rapidamente. Avevano comunque lasciato subito una stanza, era una casa piuttosto grande perché eravamo una famiglia numerosa, e abbiamo dormito in camera nostra.

De Maria Vanes

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Io mi chiamo De Maria Vanes, abito a Casalecchio di Reno in Via Garibaldi 9.

D: Quando sei nato?

R: Sono nato il 7.9.1921.

D: Dove sei nato?

R: A Casalecchio di Reno. Ho vissuto sempre a Casalecchio di Reno. Dopo sono stato chiamato alle armi e sono andato al sesto genio di Banne, marconisti. Sono diventato un marconista.
Poi un bel giorno ci hanno mandato in Jugoslavia a combattere contro i partigiani. Dopo, verso la liberazione, fummo disarmati dai partigiani a Carlopago, perché non ce l’aspettavamo, stava già per finire la guerra.
Io avevo già ricevuto dal comando, siccome ero collegato con la stazione radio del comando a Fiume, mi dissero in forma amichevole che loro stavano chiudendo, cioè noi non eravamo più collegati con nessuno.
Mi sono premurato di andare dal comandante del campo, un certo capitano di Roma, non mi ricordo più il nome.
Gli ho detto che non eravamo più collegati con nessuno, perciò se doveva prendere dei provvedimenti era meglio che li prendesse perché non potevo più trasmettere, non potevo più ricevere. Non fece niente, sa cosa vuol dire niente?
Così di notte non mise neanche le guardie sufficienti, le solite cose, il solito tran tran. La notte vennero i partigiani, neanche uno sparo, niente. Ci disarmarono, ci spogliarono e ci misero in una scuola in attesa.

D: Questo quando accade più o meno?

R: Questo accadde prima che finisse la guerra in Jugoslavia, nel 43.

D: Cos’era, nel settembre del 43?

R: Un po’ prima, perché io nel settembre del 43 sono stato portato a Dachau, un po’ prima. In giugno mi sembra che fosse. Poi ci dissero: “Se volete andare, potete andare”.
Cominciarono a chiedere, ci avevano dato delle scarpine di pecora, ci avevano preso i nostri scarponi e ci avevano dato le scarpine di pecora. Dissero: “Voi non è che siete liberi, se volete andare in Italia andate a piedi per Fiume, quella è la strada”.
Cominciammo a marciare, dico con quelle strade che erano tutte di sassi arrivare vicino a Bolzano alla frontiera è stata una tragedia.

D: Scusa, Vanes. Tu eri in Jugoslavia?

R: Ero in Jugoslavia.

D: Vi hanno fatto marciare?

R: Verso Fiume.

D: Verso Fiume?

R: Perché era possibile andare…

D: Sì, ma arrivare vicino a Fiume?

R: Sì, vicino a Fiume, non a Fiume.

D: Hai detto a Bolzano prima.

R: Ho detto Bolzano? Chiedo scusa.

D: No, niente.

R: A Fiume siamo arrivati nel punto dove si poteva attraversare la ferrovia e si era già in Italia praticamente. Ma lì c’era il guaio, c’erano mitraglie da una parte e dall’altra di tedeschi che aspettavano il nostro passaggio.
Allora c’erano tentativi, di notte qualcheduno ci riusciva. Io ho provato una volta, ma sono arrivato a metà, poi dico: “No”, si cominciarono a sentire i colpi di mitraglia, sono tornato indietro.
Allora dico: “Cosa faccio?”, di là non si può andare. Chiesi di andare per mare a Punta Silo, all’isola di Veglia con i partigiani. “Guardate”, dico, “io vengo con voi, mi allego al vostro gruppo, però io voglio andare a combattere in Italia. Se dall’isola di Veglia è possibile dopo con un piroscafo andare ad Ancona…”.
Detto fatto, mi portarono lì a Cerquiriz, che era dove eravamo proprio prima noi, e da lì c’era il passaggio per andare, un battello, una barca dei partigiani. Nel mare c’erano già i sottomarini tedeschi.
Riuscii ad andare all’isola di Veglia, ero con la stazione radio, sono stato là parecchi mesi. Avevo anche la fidanzata là, detto fra noi, una fidanzata per modo di dire, perché se ve la racconto… Non so se lo posso dire, è una cosa un po’…

D: Personale?

R: Sì, è personale, ma le dico. Non è successo niente, quello che posso dire. Ero fidanzato, ma niente, in casa nella sua camera per dei mesi con permesso dei genitori niente, non è successo niente. Basta.
Avevo una grande amica in quel punto, difatti quando arrivai di là mi accolse, mi diede tante cose da mangiare, però non potei stare lì perché i partigiani mi portarono al Carlopago, dove c’era il comando. Lì facevamo un po’ di tran tran, un po’ di guardia, perché era un porto, un porticciolo.
Poi un bel giorno dissero: “Stanno per arrivare i tedeschi”, i tedeschi hanno già i sottomarini, stanno arrivando i tedeschi. “Bisogna che noi ce ne andiamo”. Dove andiamo? Ci portarono all’isola di Lussino, che era un’isola dove c’era una montagna e da quella montagna mare, mare, mare, mare.
Arrivammo lassù e fortunatamente niente, non ci capitò niente, perché c’erano già parecchi tedeschi che giravano e hanno cominciato a mitragliare. Allora noi in quelle stradine con tutti i sassi giravamo e ci siamo difesi. Non ci è successo niente.
Siamo arrivati in cima. In cima c’era un negozio nel quale ci hanno dato un po’ di formaggio, perché eravamo sprovvisti. Poi il comandante dice: “Dobbiamo andare nel bosco e poi resistere”. Siamo andati nel bosco, poi abbiamo cominciato a ragionare.
Che resistenza facciamo? Guardiamo di qua, c’erano già le barche coi tedeschi che stavano sbarcando. Guardiamo di là, stessa cosa, in tutti i punti era così. Cosa stiamo a fare? Stiamo facendo la morte del topo qui.
Dice: “Comunque noi stiamo qui, ognuno faccia il suo dovere”. Va bene. Allora mi misero di guardia in un punto, io e uno jugoslavo e in tanti altri punti. Durante la notte il mio compagno si addormentò secco, proprio secco. Io lì: “Cosa faccio qui?”. Dico: “L’unica cosa è andare giù e vedere come stanno le cose, andare giù dove c’è la strada, perché qui è proprio la morte del topo”.
Difatti io andai giù, trovai la strada, passai lungo la strada e c’era una casina, bussai a questa casina. Venne una signora, dico: “Signora, non ha mica niente da darmi?”, perché qui non si mangiava. Dice: “Guardi, stanno passando i tedeschi. Cerco di prepararle qualcosa, ma mi raccomando, vada via subito”.
Arrivò poco dopo con un pezzo di polenta e un bicchiere di latte. Non so dirle quanto erano buoni quella polenta e quel latte, me lo ricordo ancora. Poi da lì ci portarono a Pola.
Arrivò un camion dove c’erano un tedesco e un ufficiale italiano, uno di quei camion con la tenda. Io ero lì che giravo, mi ero messo a sedere su un pilastrino. Feci il cenno di fermarsi, non credevo. Da lontano poi non si vedeva il carro con anche un tedesco, pensavo fosse italiano.
Invece era un tedesco. Il tedesco disse: “Tu partigiano?”, “Non partigiano, no. Io sono un militare italiano, i partigiani mi hanno disarmato e vorrei andare in Italia. Mi hanno preso tutto, ho i documenti”. E’ arrivato l’ufficiale italiano, cominciò ad aiutarmi.
Però l’ufficiale tedesco non ne volle sapere, “Tu sei partigiano”, mi voleva mandare nel bosco per spararmi. L’ufficiale ha insistito tanto, non è riuscito, ce l’ho fatta. Mi hanno fatto caricare sul camion. Sul camion c’erano almeno il cinquanta per cento di quelli che erano lassù.
Da lì ci hanno portato a Pola. A Pola ci hanno messo in una camera dove hanno incominciato a prendere tutti i dati. A un certo momento vengono dentro quelli della SS, tutti in riga per dieci. Arrivarono fino a dieci, “Weg, andiamo, andate fuori”. Io ero nella tredicesima fila.
Abbiamo saputo il giorno dopo che sono stati tutti fucilati perché i partigiani avevano ammazzato due tedeschi. A me è andata bene. Passano due giorni e poi ci caricano nel carro bestiame e ci portano a Dachau, in Germania.

D: Scusa, Vanes. Vi caricano, lì a Pola questo?

R: A Pola, sì.

D: Alla stazione. Oltre a te chi altri hanno caricato?

R: Tutti quelli che c’erano dentro a questo. Non eravamo soltanto noi di lassù, ce n’erano altri.

D: C’erano anche gli jugoslavi con te?

R: Sì, c’era qualche partigiano jugoslavo. Qualcheduno c’era.

D: Eravate solo uomini o c’erano anche delle donne?

R: Solo uomini, nessuna donna. Non c’erano donne. Da lì col carro bestiame siamo arrivati a Dachau.

D: Durante il viaggio avete fatto delle soste?

R: Soste per modo di dire, alla stazione c’era il segnale di fermarsi. Non soste per darci un attimino da bere, niente, non abbiamo visto niente. Anche i bisogni si doveva farli…
Siamo arrivati finalmente a Dachau e smontati dalla stazione a piedi ci hanno portato dentro al Lager, al Lager di Dachau. L’impressione che è stata fatta era una cosa che ci ha lasciato un po’ perplessi. “Dove siamo venuti?”, perché non sapevamo ancora com’era la faccenda.
Ci hanno portato in un salone dove c’erano tante docce, poi abbiamo saputo che era il mattatoio degli ebrei. Li avevano chiusi lì dentro e invece di aprire il coso per fare la doccia hanno aperto il gas.

D: Tu sei arrivato a Dachau quando più o meno?

R: Io sono arrivato a Dachau a novembre 1943.

D: 43?

R: 43, 1943. A novembre. Il mese di novembre, la data non ricordo.

D: Lì ti hanno spogliato?

R: Lì hanno spogliato. Non solo spogliato, ma disinfettato con il pennello nei punti più delicati. Ci hanno spogliato da fare dei salti alti così. Poi dovevamo vestirci con i vestiti di quella carta pressata.
Arrivammo all’ultimo gruppo, io ero in mezzo a questo gruppo, e non c’erano più vestiti. Dovevamo andarli a prendere in un magazzino, il quale era di là di una gran piazza. C’era un freddo cane, eravamo nudi.
Da lì di corsa dovevamo andare in quel magazzino. Non so che velocità avessi, non ho preso neanche il raffreddore. Poi abbiamo preso i vestiti, ci hanno vestiti. Poi ci hanno messi in un Lager, in una baracca, la venticinquesima baracca.
Lì ci siamo stati trenta giorni. Poi arrivò il giorno…

D: Scusa, Vanes. Ti hanno immatricolato anche?

R: Certo, non era segnato ma ci hanno dato un numero di matricola. Nel vestito c’era il numero di matricola.

D: Il tuo numero?

R: Il mio numero era 25…58343.

D: Assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: No. Lo davano solo agli ebrei quel triangolo. Io, siccome ero stato preso come partigiano jugoslavo, pur essendo italiano io ero jugoslavo. Gli italiani li hanno tosati qui con una macchinetta, gli avevano fatto una riga che quando crescevano i capelli, questo se scappava crescevano i capelli, ma chiunque tedesco per strada lo poteva riconoscere perché vedeva questo.
A me questo non l’hanno fatto perché ero jugoslavo. Difatti nel coso qui avevo J, non I di italiano.

D: Quindi qui tu avevi il numero..

R: Il numero.

D: E la J e basta?

R: Basta.

D: Non avevi nessun triangolo?

R: Nessun triangolo. Il triangolo era ebreo, da quello che ricordo. Io non avevo il triangolo.

D: Dopo il periodo di quarantena nel blocco…

R: E’ chiamata quarantena, non sono quaranta giorni. Ci riunirono in questo famoso bagno per il lavoro. C’erano tutti i mestieri, tutti gli internati. C’erano le commissioni, i vari banchetti dove c’erano industriali tedeschi…

D: Scusa un secondo.

R: In questa sala c’erano imprenditori tedeschi, guardie da tutte le parti e a ogni banchetto che c’era interrogavano. Dicevano: chi è un falegname alzi la mano. Chi era muratore, poi ci era meccanico. Quando arrivò il mio turno mi chiamarono, alzai la mano. Mi interrogarono.
Mi chiesero cosa facevo. Dico: “Io facevo il disegnatore meccanico, ero disegnatore meccanico progettista. Lavoravo alla Fiat”. Ho detto la Fiat ma era una fabbrica qui di Bologna, facevamo le macchine utensili.
Sentendo Fiat faceva un certo effetto. Allora mi diedero un alberino, non so a cosa servisse. Oltre al disegnatore io ho fatto il tornitore, ho fatto altre cose. Però prima di fare il disegnatore ho fatto il tornitore.
Allora mi diedero questo alberino e mi chiesero: “Quanto tempo ci metti per fare questo lavoro al tornio?”. Io avevo lavorato al tornio a scuola, quando ho preso la laurea di disegnatore, meccanico, all’Aldini qui di Bologna.
Chiesi un pezzo di carta e una matita, poi cominciai a schizzare quali potevano essere le operazioni che facevo in questo alberino. Stavo disegnando, ero un disegnatore, facevo vedere anche qualcosa. Allora sentivo sempre un industriale che diceva: Gut, gut, gut.
Poi alla fine disse: Ja, gut. Mi misero in un angolo, solo. Poi vennero tutti gli altri, ne vennero altri due nell’angolo con me. Dico: come mai gli altri andavano tutti da un’altra parte? Si vede che a noi tre ci avevano scelto perché le risposte che avevamo dato secondo l’industriale andavano bene.
Ci caricò nella sua macchina con le guardie, con due guardie e ci portarono a Kempten. Durante il viaggio disse: “Andiamo a lavorare alla fabbrica”. Quando arrivammo a Kempten la fabbrica non c’era. Ci scaricarono e ci misero non in una baracca, ma sopra in un ambiente c’era una gran sala dove c’erano tutti i lettini.
Era il nostro domicilio dove ci davano da mangiare, pochissimo, qualche cucchiaiata di minestra, e una fetta di pane nero. Quello è stato il nostro coso. Però non durò molto, perché dopo pochi giorni sapendo che la fabbrica non era ancora pronta dovemmo andare fuori e fare i muratori per tirare su i muri.
Tre mesi ho fatto il muratore, pioveva. Però lavoravamo. Se volevamo scaldarci un pochettino bisognava lavorare. Finì questa tragedia, finalmente arrivarono le macchine per la fabbrica. Un bel giorno cominciarono a entrare prima i civili, perché c’erano anche dei civili, poi entrammo anche noi a lavorare.
“Adesso voglio vedere se mi mettono a fare quell’alberino che ho disegnato”. Mi trovai già in difficoltà, invece no. Fui fortunato perché mi misero a una retifica. Questa retifica era una cosa facilissima, basta che lasci avanti e indietro.
Però da lontano vidi una vetrata dove c’erano dei disegni e dove c’erano dei tracciatori, perché i pezzi che arrivavano a noi delle macchine erano soltanto segnati, noi dovevamo fare su quelle righe.
Allora io vedendo quell’affare, lì si stava male, invece là dentro era più intimo. Poi ho visto che c’era anche un italiano là dentro, in borghese. Allora io dissi col mio comandante, i nostri comandanti erano i criminali tedeschi presi fuori dalla prigione per comandare noi, guardare noi.
Gli dissi: “Guarda che io so lavorare bene come tracciatore”, veramente era il mio mestiere che facevo qui a Bologna. Parlò, si vede, con qualcuno e un bel giorno mi trasferirono là. Io il disegno lo conoscevo molto bene, il lavoro era quello che facevo io a casa.
Cominciarono ad arrivare disegni, vidi cosa dovevamo fare in realtà e cominciai a lavorare.

D: Cos’è che producevate lì?

R: Progettavamo degli stampi per tranciare i supporti delle ali degli Stukes, gli Stukes avevano la robustezza dell’ala, ogni tanto c’era qualche cosa. Noi facevamo gli stampi per tranciare quelle cose.
Venivano giù dei disegni disegnati da tedeschi e io conoscevo molto bene, mi trovavo bene. Ho imparato anche un mestiere, gli stampi che facevamo là dove lavoravo io in Italia, dove ho lavorato dopo, quando sono venuto a casa finita la Germania, sono andato a lavorare alla Ducati e quegli stampi che facevamo là qui certi pezzi li facevano in tre stampi.
Là era uno solo, perciò io ho avuto un’esperienza enorme in quel senso. Mi ha aiutato dopo, quando sono venuto a casa. Però Le dico, finiti gli orari andare su era una cosa… Poi specialmente al sabato e alla domenica, si volevano divertire e se la prendevano con noi.
Ci facevano fare delle cose che… Se non le facevamo bene erano frustate, culo scoperto, sopra a un cavalletto fatto così, frustate. E chi dava le frustate era il tuo collega, era un italiano.
Poi finalmente passa il tempo e cominciano ad arrivare i bombardamenti. Speravamo che arrivasse qualche bomba. Noi eravamo vicino alla Svizzera, c’erano dieci chilometri circa per arrivare alla frontiera svizzera.
Speravamo sempre che qualche bomba capitasse lì. Lì hanno bombardato la cittadina, Kempten, e noi niente. Poi finalmente un bel giorno la bomba venne, cacciarono giù la fabbrica. I tedeschi ci portarono…
Cambiarono anche il Lager, il campo dove eravamo prima era sopra, le bombe l’avevano cacciato giù. Loro poco distante avevano fatto già un campo, già tutto recintato, con le baracche come era Dachau. Lì invece prima era già un’altra cosa.
Ci portarono in questo nuovo campo, dopo pochi giorni c’era già la voce che gli americani stavano arrivando. Difatti tutte le mattine ci prendevano in fila, ci davano pala e piccone e ci portavano alla stazione per portarci in trincea per fare le trincee.
Non siamo mai partiti da quel treno, su quel treno non siamo mai partiti perché i bombardieri erano continuamente sopra di noi. Ci riportavano al campo. In quei giorni non c’era niente da mangiare, niente.
Per la strada raccoglievamo l’erba per mangiarla. Finito questo finalmente decisero, perché gli americani erano già a pochi chilometri, decisero di farci partire per Innsbruck.
Io, che cominciavo già a sentire qualche parola di tedesco, ho capito che restavano lì solo gli ammalati. Come faccio? Incominciai a correre per il campo come un matto, proprio correre, ero diventato rosso.
Le dico, la temperatura era salita parecchio. Poi mi presentai in questa infermeria, “Io sono malato”. Loro erano talmente indaffarati per la partenza che mi dissero: “Vai in quel letto là”. Mi misi nel letto, poi stetti in attesa.
C’era già un’altra decina. Mentre stavano facendo questo lavoro, dopo arrivò uno con gli stivaloni e parlò con gli ufficiali che erano lì dentro. Voleva fare la visita di quelli che dovevano ritornare, cominciò dal primo, ecc.
Siamo rimasti?

D: Dicevi che eravate stati portati alla stazione per fare le trincee.

R: La trincea, niente.

D: Non siete mai partiti.

R: Non siamo mai partiti, poi ci hanno portato nuovamente nel coso, ci hanno portato nel nuovo Lager che avevano costruito loro con tutti i recinti. Lì andai in infermeria perché sapevo che rimanevano lì solo i malati.
A un certo momento mi capitò come a Pola, cominciò a contare: uno, due, tre, quattro, cinque. Anzi, visitò, non contare, visitò il primo, il secondo, poi il terzo. Era là già vicino al mio. Dico: “Porca miseria”.
Aveva dato un termometro e levato il termometro mette su il termometro, l’aveva messo quasi a trent’otto e mezzo, trentanove. Dico: “Troppo”. Lavorava in quel senso lì, dico: “Se arriva, cosa succede?”
Non fui visitato, perché erano talmente presi dalla fuga che io rimasi lì con tutti gli altri, loro scapparono, vuotarono il campo e andarono verso Innsbruck.
Lì rimase una guardia, anche lui si spogliò come noi, ci diede da mangiare, ce n’era lì un pochettino. Poi stemmo lì ad aspettare, sapevamo già che gli americani erano molto vicini.
Siccome gli americani sparavano, i tedeschi sparavano, noi eravamo nel punto giusto per prenderle tutte. Allora anche lì dico: “Qui bisogna che prendiamo una decisione, bisogna che cerchiamo di andare verso Kempten, verso il paese. Se troviamo qualcheduno, qualche civile, qualche militare dentro una casa che ci spara, cosa facciamo?”
Andammo via una mattina, erano le quattro e mezza, le cinque, anche un po’ prima, a gattoni nei fossi arrivammo nei pressi del paese. Qui non possiamo più andare avanti, il fosso non c’era più. Qui bisogna andare in strada.
Siamo andati in strada con una paura da matti, pensavamo che nelle case dove passavamo da una finestra, da una porta, da qualche cosa ci fosse qualcheduno che sparava. Nessuno, nessuno sparava.
Finalmente in lontananza vedemmo un carro armato che avanzava, americano. La nostra felicità era… Arrivato vicino al camion, si apre e viene fuori un negraccio che me lo ricordo ancora, era più nero che il carbone.
Buttò cioccolatini e caramelle, neanche una sigaretta. Caramelle e cioccolatini. Andavano verso Kempten, verso Kempten c’erano già gli altri, la truppa. Noi praticamente eravamo liberi, liberi di fare tutto quello che volevamo.
Poi sono arrivati anche tanti altri, non solo noi tre ma tanti altri che non so da che buco siano entrati. C’erano russi, specialmente russi. Hanno svaligiato tutte le botteghe che potevano esserci, oreficerie. Hanno fatto manbassa di tutte le cose.
Dopo gli americani ci hanno tutti chiesto le cose, fatto i documenti, tutto quanto, ci hanno consegnato i posti dove potevamo andare a dormire. Noi avevamo una villettina dove c’era il comando tedesco, eravamo in dieci o dodici.
Eravamo liberi, proprio liberi. Il problema era quello di andare a cercare, lo sapevamo, però con tutti i bombardamenti i magazzini tedeschi erano pieni di viveri ed erano stati bombardati.
Quando andavamo in cerca di mangiare si vedevano proprio le gran pozze, perché aveva piovuto, come dei laghi dove affluivano le scatolette, c’era di tutto, Le dico, di tutto. C’erano delle scatolette con della carne di primissima qualità, in una quantità enorme proprio.

D: Allora, c’era questo ben di Dio che veniva fuori.

R: Noi ci siamo riforniti, non solo in quei magazzini che c’erano lì fuori, anche dentro. Dentro potevamo andare da tutte le parti. Anche alla stazione c’erano dei carri pieni di roba, dei treni fermi pieni di roba. Roba che veniva dalla Svizzera.
Abbiamo trovato di tutto, trovato delle forme di emmenthal intere. C’erano degli strumenti meccanici, dei calibri, degli strumenti meccanici. Difatti io trovai un calibro che ho ancora.
Portammo via quei formaggi, dovevamo soltanto trovare un mezzo per poter caricare la roba e portarla in questa villetta. Con tutto quello che avevamo potevamo star là altri due anni che avevamo da mangiare.

D: Scusa, Vanes. Quando tu dici la stazione…

R: La stazione, la stazione di Kempten. Gli americani erano lì, noi eravamo lì, il nostro ambiente era Kempten.

D: Due anni non siete rimasti lì?

R: No. Pochi mesi. Tutti c’eravamo riforniti di sci, di tutte le cose. Però noi non siamo mai andati a rubare nei negozi come hanno fatto russi, ecc. Si sono vendicati con la moglie del capo ingegnere della fabbrica.
Ci sono state parecchie cose, io non ho fatto niente. L’unica cosa che mi sono un po’ divertito era che un giorno ero dentro a un magazzino per prendere qualcosa di quelle scatolette, abbiamo visto che c’era un tedesco là, un civile che stava insaccando della farina in un sacchetto.
Andammo là vicino, abbiamo visto proprio che era un tedesco, era un tedesco civile di lì. L’abbiamo preso, l’abbiamo messo con la testa dentro la farina, tanto per… Poi siamo venuti via, non abbiamo fatto niente. L’unica cosa.

D: Scusa, Vanes. A proposito dei civili, nella fabbrica…

R: Sì, c’erano anche dei civili.

D: Voi eravate a contatto con quei civili?

R: In quell’ambiente dove io lavoravo c’erano due civili, uno francese e uno italiano che era proprio mio amico. E’ diventato un mio amico, l’ho conosciuto lì.
Veniva dall’Italia a lavorare ed era pagato, andava fuori ed era libero. Era venuto lì per lavorare. Chi ci comandava era un civile di Kempten. Eravamo mescolati, noi abbiamo integrato il lavoro della fabbrica con quello che facevano i civili.
Noi eravamo in certe zone, in certe macchine solo e in certi ambienti non eravamo proprio… C’era un mio amico che faceva l’elettricista, lui andava dappertutto e andava anche dalla parte civile perché riparava i motori, per esempio, delle macchine.
Io sono stato lì e me la sono cavata un pochettino meglio. Il capo che ci comandava lì dentro… Alle dieci c’era il bruzai, era chiamato, davano una birra e una fetta di pane a loro, a noi niente. Noi non ci fermavamo neanche un momentino da loro.
Però un giorno ad un certo momento vedevi questo civile che lasciava un po’ di birra e un pezzettino di pane, poi faceva segno, facendo anche presente di non fare vedere perché c’erano le guardie che giravano.
Arrivavano fino lì e guardavano dentro. Tra quello, un pochettino lì, un po’ qualche vitamina che mi portava quell’italiano da fuori e così me la sono passata.
Poi un bel giorno mi sono ammalato, ma di brutto, con un male da tutto il corpo, i reumatismi totali, la febbre che era più di quaranta. Urlavo come un ossesso perché non sopportavo il male. Mi portarono su in branda e ci sono stato dieci giorni buoni.
Non ho visto né un dottore né un medicinale, niente. Urlare, urlare, urlare, urlare. C’era un italiano lì vicino, era con me, che mi incoraggiava, mi massaggiava, mi faceva qualcosa, ma non c’era niente da fare.
Il dolore era talmente forte, poi la febbre sempre che straparlavo anche. Poi visto così un bel giorno si vede che il comando decise e mi mandarono all’ospedale non di Kempten, di Dachau. Mi portarono all’ospedale di Dachau.
Lì come sono arrivato mi diedero un letto, poi venne uno con degli stivaloni alti fin qui a passare la visita. Viste le mie condizioni disse: “Liberare il letto”, in tedesco, dopo me l’hanno detto. “Liberare il letto e portare al crematorio”, perché avevo la febbre che era a più di quaranta, urlavo come un ossesso, disturbavo tutto quanto.
“Liberare il letto, qui ci deve essere un letto per uno che può lavorare dopo”. Fui fortunato che alla sera in quel giro lì di medici c’era un olandese coatto, che lavorava coatto. Lo vidi arrivare dopo al mio capezzale una notte, era verso le nove e mezza, le dieci.
Mi disse: “Tu italiano?”, sentiva che io parlavo qualche cosa, dicevo in italiano. Siccome aveva lavorato a Bologna, conosceva bene l’Italia, conosceva bene i nostri, mi prese a ben volere. Sparì un momento, tornò dopo con delle medicine.
Mi cominciò a fare delle punture endovenose, è stato lì fino alle due di notte circa, dico degli orari per dire perché non avevo l’orologio per poterli vedere.
Alla mattina quando passarono con la visita io ero sempre in quel letto, c’era lo stesso comandante. Appena arrivò lì disse: “Perché è ancora qui questo?”. Allora il dottorino saltò fuori da dietro, gli fece vedere che attaccata al letto c’era la cartella con tutto il grafico.
Era stato modificato il grafico, perché la mia febbre era andata a trent’otto, un pochino meno di trent’otto. Allora lui rimase lì un po’ buio, “Ja, gut” e rimasi. Invece di andare al crematorio rimasi lì settantacinque giorni.
Non so che cure mi abbiano fatto, mi passò piano piano il dolore, non lo so, non mi ricordo niente.

D: Vanes, magari non te lo ricordi, ma il Revier di Dachau era in una baracca?

R: Il?

D: Il Revier, l’ospedale di Dachau.

R: Sì.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo.

D: Ma era una baracca?

R: Era una baracca.

D: Non ti ricordi se era una baracca delle prime, visto che tu sei stato alla venticinque, o era una delle baracche…

R: No, era una cosa apposta. Al di fuori della mia baracca, la mia baracca l’avevo lasciata.

D: Ma era una delle prime baracche lungo la Lagerstrasse?

R: No, era in mezzo forse. Mi ricordo che quando cominciai a stare meglio, convalescente, avevo la possibilità di andare a fare una passeggiatina lungo la passeggiata del campo.
So che da una parte e dall’altra c’erano le baracche, perciò non era in principio o alla fine, credo fosse in mezzo. Anzi, fui fortunato, fortunato per modo di dire, perché una volta siccome c’era l’ordine che quando incontravamo un ufficiale tedesco dovevamo toglierci il cappellino un metro prima, io ero in compagnia con un altro e non me ne sono accorto.
Passammo, il mio amico, siccome io parlavo con lui, lui l’ha fatto, io parlando ero voltato, non me n’accorsi. Andò avanti qualche metro, poi disse: “Tu”, mi chiamò, “Komm”, mi chiamò. Mi portò con lui, mi portò alla mensa ufficiali.
Dico: “Finalmente si mangia”. No. C’era un piccolo giardinetto con un piccolo sentierino dove c’era ghiaia, ma ghiaia come? C’erano dei mattoni, dei sassi col martellino e c’era rimasto un mucchiettino lì da finire.
Mi diedero il martellino, io ho dovuto rompere i sassi, finire tutta la faccenda. Poi finite le cose era il momento che avevano finito di mangiare, venivano fuori gli ufficiali a fumare una sigarettina e guardandomi lì che stavo finendo il lavoro venne uno.
Dovevo fare tutto il giro dei sassi, sai, quando si rompe un sasso ha delle punte. Ho dovuto farlo coi gomiti e in ginocchio, ho dovuto fare tutta la strada in quella maniera.
Quando arrivai ero tutto insanguinato. Finita la cosa mi portarono finalmente a mangiare. Se io avessi mangiato quello che mi avevano dato sarei crepato. Per fortuna che durante la prigionia in quel Lager 25 c’era anche un dottore di Amsterdam che c’insegnava.
“Guardate che quando saremo liberati troveremo questo e quell’altro. Non dobbiamo mangiare molto perché il nostro fisico…”. Ci aveva dato già una linea, ci ha fatto molto bene perché già cominciavo da quel momento ad applicarmi.
Finito quel lavoro mi diedero un po’ da mangiare, poi mi portarono nuovamente al Lager. Io mangiai poco, presi qualche cosa in tasca con me, però mi andò bene. Mi venne un po’ di mal di pancia, qualche cosa mi venne.

D: Scusa, Vanes. Dopo i 75 giorni che tu sei stato lì al Revier a Dachau sei ritornato ancora a Kempten?

R: Ci sono ritornato perché durante la passeggiata un bel giorno incontrai un militare che era venuto da Kempten per prendere materiale e portarlo a Kempten. Ci siamo incontrati, mi riconobbe e disse: “Tu De Mario!”, perché mi chiamavano De Mario, non De Maria, De Mario.
“Sì, sono De Mario”. Io lo conoscevo, di vista mi sembrava di averlo visto prima. “Ma tu nicht kaput?”, “No”, dico, “nicht kaput”, là pensavano che io ero già morto. “No, io nicht kaput”. “Ja, Ja, gut…”.
Si vede che quando è tornato al campo l’ha detto al capofabbrica, all’ingegnere che mi conosceva, quest’ingegnere fece domanda al campo di Dachau di farmi tornare là. Questa è stata la mia fortuna, perché tornando là io sono tornato in quell’ambiente dove stavo molto meglio degli altri.
Era il mio toccasana quello. A parte qualche frustata che prendevo quando andavo su, ma avevamo già fatto l’abitudine. Si poteva tirare avanti, l’importante è che un po’ di mangiare in più di quella brodaglia che ti davano io potevo averlo.
Inoltre ho avuto anche l’intelligenza di chiedere a questo mio amico che riparava i motori che mi portasse due carboncini e un po’ di plexiglas e vetri, qualche materiale, delle viti, perché io potessi fare una cosa.
Là c’erano molti che avevano le patate, andavano a rubare le patate, prigionieri, e non sapevano come fare a cuocerle. Allora dico: “Aspetta, aiuto loro, se riesco a fare questa cosa”.
Difatti riuscì questo a portarmi tutto questo materiale, due carboncini, due pezzettini di coso già forati con due viti, i suoi dadi con del filo elettrico. Io ho messo i carboncini a una certa distanza, li ho messi nell’acqua, c’era un pentolone lì con un coperchio, riuscivo a bollire in dieci minuti.
Io ho cotto tante di quelle patate, un po’ a noi, un po’ a loro, era già un qualche cosa. Non tanto, ma un qualche cosa che riusciva ad avere il modo per poter respirare un po’ meglio.

D: Riprendiamo dalla liberazione.

R: Venne la liberazione.

D: Le scatolette che tu hai trovato, ecc.

R: Venne il giorno che dissero, credo che fossero due mesi che erano stati là, un po’ meno, venne il giorno che dissero: “Ragazzi, qui si va in Italia, però o voi o la roba che avete con voi”, perché tutti eravamo carichi.
Io avevo tanta altra roba che avevo immagazzinato, tutti avevamo un mucchietto. Lasciammo là, perché erano tutti alimentari. Prendemmo le uniche cose, il nostro zainetto, chiuso.

D: Il calibro.

R: Il calibro, sì. E non solo, là trovai due scatole di medicinali che non sapevo cos’erano. Erano due scatole di medicinali, c’erano dei medicinali e da questi medicinali io presi due scatole di quelle punture e le portai con me. Quelle le ho portate in Italia.
Quando arrivai in Italia mi vennero dei bugni da tutte le parti, il mio dottore mi fece le punture con quelle e guarii in un momento. Non lo so, non lo so dire, non so neanche che medicina mi hanno dato per passare settantacinque giorni e riuscire a non crepare. Non lo so.
Non so se hanno fatto degli esperimenti, non posso dirlo perché ero…

D: Vanes, ti ricordi più o meno quando sei rientrato in Italia?

R: Dal camion sono salito su con quello che avevo, scoperto, un viaggio un po’ difficoltoso. Però si veniva a casa, tutto andava bene. Arrivammo a Bolzano e lì ci mandarono al Car di Bolzano. Al Car di Bolzano cominciarono a interrogarci, nome e cognome, dove stavi, da dove vieni.
C’era anche la visita. La visita consisteva in questo: cosa hai avuto te? Hai avuto qualche malattia? “Io sono stato male, ho avuto malattie”. Scriva, qui c’è la carta che loro mi hanno dato a Bolzano.
Io ce l’ho da morto, perché se mi visitavano sentivano cosa avevo avuto, non solo i reumatismi. Qui, calibro ottavo, reumatismi. E’ l’unica carta di rimpatrio che avevo. Se mi visitavano sentivano che avevo avuto la pleurite da tutte e due le parti.
Quando l’ho scoperto, l’ho scoperto non so quanti anni dopo, avevo sempre bronchite continuamente, forse il male era passato. Un bel giorno ho deciso di farmi, avevo male, non mi andava via la febbre, farmi una lastra.
Da quella lastra scoprii dove l’ho avuto, non potevo averlo che da quel punto. Da lì cos’è venuto? E’ venuto che ho cercato di avere il certificato per avere… Perché un bel giorno un carabiniere mi disse: “Ma tu che sei stato lì, sei stato malato, perché non fai domanda della pensione di guerra?”.
Allora cominciai a fare tutti i documenti dopo anni.

D: Ma quando sei arrivato in Italia? Che mese era te lo ricordi?

R: Maggio.

D: A maggio?

R: Sì. Era maggio. Era già la buona stagione.

D: Ho capito. L’importante era avere una indicazione di data. Era maggio?

R: Sì, era maggio.

Palman Itala Tea

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Palman Tea, sono nata il 16 Aprile del 22 a Trichiana.

D: Che è in Provincia di?

R: Belluno. Perché è una Provincia Belluno.
Sono stata arrestata a casa mia l’11 Novembre del 44. 11 novembre del 44 sono stata arrestata. Chi mi ha arrestato è stata la Banda Carità di Padova, il famoso Tenente Castaldelli, mi sembra che si chiamasse.
Il mio era un recapito, allora sono entrati, io ero nel bar con tutti i clienti e c’era mio fratello Aldo, che era anche lui un organizzatore della resistenza, perché si può dire che la resistenza di Trichiana è nata a casa mia. È nata.
Vedo lui che salta, ha il cannocchiale e sta spiando in piazza perché aspettava una macchina dei partigiani di Belluno. Il Comandante aspettavano perché avevano una riunione. Salta dalla finestra ed io non so cosa succede e vedo due persone che entrano. Si avvicinano a me, ordinano qualcosa. Non so, io non so chi sono, non mi sbilancio, cerco di non parlare. Sento un colpo di pistola fuori. Sento un colpo fuori.
Mio fratello era saltato dalla finestra, era andato a vedere dal buco del portone se c’era ancora qualcuno in macchina, di fatti c’era un altro signore fuori, che sarebbe stato il terzo. Era senza… non aveva armi in mano, era là appoggiato alla macchina. Mio fratello ha fatto finta di avere la pistola, ha messo la mano sotto la giacca ed è andato a mani in alto. Questo qua si è messo con le mani in alto.
In quel preciso istante torna, arriva la macchina di Belluno che erano i Comandanti di Belluno. Ma mio fratello non li conosceva e questo neanche, allora si sono mossi tutti e due per andare a questa macchina per vedere chi fosse.
Quando mio fratello ha chiesto: chi siete, o l’altro ha chiesto: chi siete, non so quale dei due, questo si è voltato, è andato alla macchina, ha tirato fuori la pistola e si è messo a sparare. Mio fratello è riuscito a scappare, è ritornato dentro dal portone, poi è saltato dalla griglia ed è andato per i campi. È scappato.
I due che erano all’interno che hanno sentito il colpo fuori si sono lentamente avvicinati alla porta per vedere chi sparava fuori. Se era il loro amico, o se era qualcun altro. Quando si sono accorti che era il loro amico hanno sparato un colpo per aria, contro il muro dentro in sala, dentro nel bar, ed hanno detto: mani in alto tutti, non si muova nessuno, portate via la ragazza.
C’erano due ragazzi, due ragazzi che volevano entrare nelle file partigiane ed hanno portato via anche questi. Purtroppo uno era armato e li hanno uccisi subito. Li hanno uccisi. Mi hanno detto che sono stati uccisi poco dopo insomma.
Mi hanno portato subito al Distretto a Belluno. Mi hanno consegnato ai tedeschi, al maresciallo Palua, che è di Colle Santa Lucia, che parlava molto bene l’italiano perché era un italiano, di Colle Santa Lucia. Mi hanno messo nelle loro mani.
Lui ha incominciato subito l’interrogatorio, immediatamente. Ha incominciato l’interrogatorio: lei conosce Gianni. Gianni sarebbe stato l’intendente di zona, quello al quale io dovevo consegnare le lettere e dovevo riferire tutto. Lei conosce Gianni. Io faccio la tonta. Non so, perché nei momenti peggiori io riesco, riuscivo ad avere una calma tremenda, proprio, non mi scomponevo per niente. Io ho fatto la tonta ed ho detto: Gianni? Io non ho mai sentito parlare di questo Gianni, non so chi sia. Insistono: sì che lei lo conosce.
Avevo visto io che avevano aperto la porta e poi l’avevano richiusa, la porta era sulla mia destra, così. Cosa avevano fatto? Avevano aperto la porta, avevano messo la staffetta che avevano preso a Padova, e le hanno chiesto se ero io e lei ha detto di sì. Allora loro erano sicuri che ero io la responsabile.
Sì la conosce, non la conosce, ad un certo punto mi fa: vuole che le faccio vedere io chi conosce Gianni e chi conosce, e quante volte è stata a Trichiana e quante lettere le ha portato, e quante lettere sono state portate?
Me lo faccia vedere.
Mi mandano dentro questa ragazza, che è una staffetta che hanno preso a Padova. Io la guardo, non la conosco, non l’ho mai vista, può darsi che sia venuta nel bar, non dico niente perché nel bar viene tanta gente. Ma come faccio io a ricordare tutti? Non è possibile che io ricordi tutti. Sarà anche venuta, ma avrà portato delle lettere, ma chi è venuto a prendere le lettere proprio non lo so.
Così ho insistito su questa storia e mi hanno, hanno creduto per il momento, hanno creduto, poi mi hanno mandato su nelle carceri di Tabasso, e vicino c’era anche lei.
Io ho detto: ma che stupida che sei stata! Cosa ti sei sognata di andare a dire che venivi a casa mia? Non potevi trovare un posto qualsiasi? O in chiesa o dietro al cimitero? O un posto dove non succedeva niente? Ma proprio il mio nome?
Allora mi hanno…, io tutta la notte ho continuato a ripetere quello che avevo detto, per ricordarmelo bene il giorno dopo. Di fatti il giorno dopo quando mi hanno interrogata di nuovo ho ripetuto esattamente quello che avevo detto il primo giorno.
Così dopo mi hanno portato al Quinto Artiglieria. Al Quinto Artiglieria c’era una prigione dei pericolosi.

D: Ma sempre a Belluno?

R: Sempre a Belluno. Sempre a Belluno.
Era la prigione dei pericolosi. Prima di essere portata là c’era un questurino, un certo Sacchet, che pian pianino mi ha detto: attenta al n. 2. Solo così, due parole, ed io ho capito subito che era una spia. Di fatti mi mandavano al Quinto Artiglieria perché lei faceva la spia. Le carceri erano fatte con la porta di ferro, in maniera che lei poteva…, lei era quasi sempre libera, e passava per le celle.
Quando sono arrivata io ho capito subito come andava. Allora cercavo…, di giorno lasciavano aperta anche me e di notte mi chiudevano.
Ma io di giorno non potevo far controspionaggio, lo potevo fare di notte. Allora ho lavorato sulla serratura, non mi ricordo se con una forcina o con qualcosa, in maniera che non scattasse immediatamente, perché il tedesco tante volte quando passava alla sera dava il colpo alla porta e la serratura scattava. Io invece avvicinavo forte – forte, come se fosse scattata, ma non era scattata.
Quando la Paola, non potrei dire il nome della spia comunque ormai l’ho detto, quando la spia usciva, uscivo anche io e se lei andava giù da una parte io andavo dall’altra, e cercavo sempre di non vederla. Avvertivo i prigionieri, quelli che hanno portato dentro dopo di me e dicevo loro: state attente, cercate di non parlare con nessuno, solo questo io dicevo, non parlate con nessuno.
Una sera hanno portato dentro una gran retata di persone che veniva dal Mas, da quelle parti là, e c’erano tre ragazze. Erano quattro fratelli, no, due sorelle ed un fratello. Il fratello l’hanno messo nell’ultima cella in fondo nella parte, nell’altra parte di là, e sento che la Paola parla, parla… Questo qua parla, sento chiacchierare. Io ero uscita ed ero andata fino in fondo all’angolo delle celle, lei era sull’angolo per di qua e sentivo tutto quello che diceva. Sentivo parlare però non riuscivo a capire bene quello che dicevano.
Le due sorelle, io avevo avvertito tutti quelli che erano dentro, attenti, non parlate con nessuno, acqua in bocca, state zitti perché non ci si può fidare di nessuno.
Ad una delle sorelle, la più vecchia, le ho detto: non parlare con nessuno, hai capito? Stai zitta, tieni per te quello che sai e non parlare.
Non è andata a dirlo alla Paola? Quando l’ha detto alla Paola naturalmente lei il giorno dopo ha fatto la scena madre, io sono stufa di stare qua, si è messa a piangere, grida, due tedeschi l’hanno presa e l’hanno portata via. L’hanno portata giù al Comando a riferire tutto quanto, a riferire. Poi laggiù lei era di casa perché queste scene succedevano spesso insomma. Le hanno raccontato tutto quello che…
Poi c’era anche una cosa che devo dire, hanno portato dentro in cella Montagna, che era… un medico, che a forza di torturarlo aveva una cancrena alla gamba. L’hanno messo proprio alle spalle della mia cella. Avevamo la testa che si toccava, avevamo un muro ma avevamo la testa… Io sentivo tutto.
Sentivo tutto però un giorno sono passata di là, mi sono… visto che non c’era nessuno mi sono fermata e lui era steso con un fazzoletto sugli occhi, però vedeva sotto. Io gli ho fatto: che non parlavo, lui ha appena fatto la mossa con la testa.

D: Scusa, te ne sei andata?

R: Me ne sono andata.

D: Ecco, quando tu dici Montagna era il nome di battaglia?

R: Nome di battaglia Montagna, perché si chiama Mario…

D: Mario Pasi era?

R: Mario Pasi. Mario Pasi, si chiamava Mario Pasi proprio. Io l’ho conosciuto, l’ho assistito anche dentro. Per il momento io non sono andata tra i piedi, ho lasciato che la Paola si sfogasse, lei andava dentro e le faceva questo, le faceva quello, cercando sempre di… Perché lui non ha mai parlato, si è lasciato torturare ma non ha mai parlato.
Allora un giorno viene da me: guarda che io sono stanca di andare sempre da quello là, sono stanca di andare da Montagna, cerca di andare tu un pochino, perché io non ce la faccio più.
Va bene ho detto io, non è che ne abbia tanta voglia, ma va bene. Però l’ho lasciato stare ancora un giorno, ho fatto finta di niente, ed il giorno dopo sono andata da lui.
Lei non si è più interessata, visto che non è riuscita a cavare fuori niente ha lasciato che andassi tranquillamente io. Di fatti l’ho sempre curato, l’ho sempre assistito, gli davo da mangiare.
Quel biglietto che ha mandato fuori scritto con il sangue sono stata io a mandarlo fuori. Sono stata io a mandarlo fuori. Perché c’era un tedesco, uno della Wermacht, che entrava tutte le sere al Quinto Artiglieria, tutte le sere entrava in prigione. Faceva il giro di tutti i prigionieri, dava una sigaretta ad uno, una sigaretta all’altro, chiedeva se avevano fame, portava dentro del pane. Con me si è fermato tante volte a parlare questo ragazzo, non era tanto un ragazzo, sarà stato un uomo sui quarant’anni.
Mi ha detto appunto che io avevo il foglietto di scarcerazione pronto per Natale. Che sarei andata a casa a Natale.
Io gli ho detto… Poi dopo mi ha chiesto, perché ormai sentivano che la guerra andava male, e lui aveva paura. Allora mi ha chiesto, dice negli ultimi momenti, quando le cose andranno proprio male dice: lei può nascondermi? Lei può nascondermi?
Io sì la posso nascondere, però lei in cambio mi deve fare un piacere. Basta che non sia qualcosa contro la mia patria, contro i miei. No, io chiedo solo che mi porti dentro da mangiare, vestire ecc…
Allora io le davo le lettere che lui portava alla cassiera, ogni tanto la vedo ancora, la cassiera comunale del cinema, al comunale, le portava là, là c’era un’altra staffetta che andava a prenderle e le consegnava. Queste arrivavano a Trichiana, ed a Trichiana c’era mio fratello piccolo che aveva 13 anni che prendeva le lettere e le portava all’altro mio fratello che era in montagna.
È andata avanti così con questo qua. Attraverso questo qua io ho mandato fuori questo biglietto, perché non c’era modo di comunicare con l’esterno nella maniera più assoluta. Ero io che avevo il modo perché avevo… Perché questo qua sperava che io andassi a casa a Natale e che riuscissi a salvarlo. Che riuscissi a salvarlo.
Tornando a Montagna, poveretto, sono riuscita a mandare fuori questo biglietto attraverso…
Ricordo un altro particolare, c’era un certo Gazzetta di Cortina D’Ampezzo dentro, Gazzetta, ed una sera si è messo a dire il rosario, e tutti quanti hanno incominciato a voce alta, tutti quanti dicevano il rosario, era diventato un bum bum, proprio una voce. È arrivato Palua, non so era Palua che è arrivato in quel momento, è andato a far smettere subito. Hanno preso paura, c’è una rivolta, non avevano capito che era il rosario. …

D: Scusa Tea, il Distretto, quello che dicevi te, qui a Belluno, dove si trovava?

R: Qui in piazza, una facciata…, Piazza… adesso non mi ricordo il nome della piazza, mi sfuggono ogni tanto i nomi. È proprio qua, è vicino a qua, è proprio sulla piazza.

D: Lì c’era il Quinto Artiglieria?

R: No, il Quinto Artiglieria era su dove ci sono le caserme, dove sono le caserme lassù verso Mir, da quelle parti là, ci sono le caserme, il Settimo… Io ero nel Quinto Artiglieria, avevano costruito delle celle. Io penso che fosse la zona dove avevano i cavalli, dove avevano le stalle. Non so. So che là hanno costruito queste celle, e per entrare in quelle celle, prima di entrare in queste celle c’è un lungo corridoio fuori nel cortile tutto di filo spinato. Tutto un gran corridoio di filo spinato.

D: Ecco, Tea, però a Natale non ti hanno liberata?

R: No. Quando quella ragazza ha detto alla Paola che io… No, quando ho detto che stesse zitta allora lei ha capito che io dovevo sapere molte cose. Quel giorno che si è fatta portare giù al Distretto ha detto, perché ho avuto la conferma da Palua quando è stato arrestato, lei ha semplicemente detto che io dovevo sapere molte cose. Con queste tre parole sono finita in campo di concentramento.
Quando lei è tornata, dopo tre giorni, alle quattro del mattino hanno svegliato tutti, hanno chiamato tutti i nomi ed hanno fatto l’ultima partenza, sì, hanno fatto la partenza per il campo di concentramento.
Allora lei si è chiusa la porta, quella volta, l’unica volta che ha chiuso proprio la porta.

D: Quando era questo, te lo ricordi?

R: Questo non me lo ricordo quando doveva essere stato. So che Natale e Capodanno l’ho passato là al Quinto Artiglieria, l’ho passato in prigione là. Che poi quella notte, la notte dell’ultimo dell’anno erano in tre o quattro soldati tedeschi che passavano con le bottiglie, davano da bere e cantavano, ed io ho chiuso la cella, mi sono messa sotto, ho coperto la testa e non volevo neanche vederli. Non volevo. Come quando una volta ho sentito passare, ho sentito il passo di Palua, io ero seduta sul letto con i piedi contro perché lo spazio dalla schiena al muro ed i piedi contro il muro dall’altra parte, ero là e sentivo, ero dritta, ferma, e lui passa e si ferma davanti alla mia porta. Si ferma e mi fa: si vede negli occhi quanto odia i tedeschi, mi fa. Io lentamente giro la testa, guardo i suoi stivali, poi ritorno alla testa al mio posto. Ero tremenda, perché proprio… Si vede negli occhi quanto odia i tedeschi.

D: Ascolta Tea, allora l’ultimo carico quindi a gennaio probabilmente del 45?

R: Io penso a gennaio del 45, mi hanno portato al campo di concentramento.

D: Da sola o…

R: No, era un camion pieno. Da sola, la donna ero sola, unica donna, ma poi c’erano tanti uomini. Non è stato l’ultimo carico perché dopo ce ne sono stati altri.

D: Ascolta, ti ricordi qualche nome di qualche tuo compagno che è stato portato con te nel campo di Bolzano?

R: No. Che è stato portato con me nel campo di Bolzano non mi viene in mente il nome. Non mi vengono in mente i nomi, e neanche i volti, che strano. Perché dirò che io avevo la colite, avevo una forte colite, non stavo bene, di fatti quel giorno che mi hanno arrestata stavo parlando con il dottore. Con il freddo, perché mi hanno buttata sul camion, dietro, di notte era un sereno che si poteva infilare un ago, e di giorno nevicava tutto il giorno, tutto il giorno, con un camion a carbonella che ogni cento metri i tedeschi dovevano scendere a fare strada. Si può immaginare io che avevo mandato a casa già tutta la roba perché mi aveva detto che a Natale andavo a casa, ero con un cappottino nero, ero in lutto perché era appena morta la mamma, un cappottino nero senza guanti, senza niente, un freddo da morire.
Naturalmente mi torcevo dai dolori che avevo al ventre.
Allora un soldato ha fatto fermare il camion, ha chiesto ai Comandanti che erano in cabina se potevo andare in cabina. Gli hanno detto di no, e sono rimasta là.
Mi ricordo una cosa, abbiamo fatto Primolano, le curve di Primolano, una curva che è proprio ad esse, non si incaglia il camion proprio su quella curva là? Era di notte. Noi altri guardavamo le montagne limpide, belle, tutta questa neve in giro, e pensavamo se venissero a liberarci. Ma purtroppo il camion è ripartito.
Siamo arrivati a Bolzano. Non so se ci abbiamo messo due giorni, non mi ricordo quanto abbiamo messo, ma tanto, perché abbiamo fatto due notti in camion così.
Siamo arrivati a Bolzano che io ero proprio gelata. Poi una sete, una sete. Ci hanno fatto scendere, ci hanno allineati tutti sotto, sul muro del Comando, e dal tetto scendevano i candeloni lunghi così di ghiaccio. Io avevo una sete e guardavo questi candeloni di ghiaccio… pensi il freddo che c’era.
Poi dopo ci hanno aperto le porte, si vede che hanno preso i nomi, hanno aperto le porte di blocchi e sono entrata nel blocco.
Sono entrata nel blocco, mamma mia che impressione che ho avuto, vedere tutti questi castelli, tutte queste teste che uscivano dal castello, era tutta una testa che usciva dal castello. Questo corridoio con due file di castelli a tre piani. Insomma, io ero proprio…
Mi è venuta incontro la Maria Da Gios, la sorella di Checo Da Gios, quello che è stato impiccato con l’uncino, quello che è stato impiccato con l’uncino a Sedico, da quelle parti là.
Mi è venuta incontro lei poverina, poi là c’erano le quattro sorelle Rocco, tre sono morte, ce n’è ancora una. Mi hanno fatto posto in cima sul loro castello. Allora in cima sul castello con loro e la Maria Da Gios che faceva la spola dalla stufa, che non era nel nostro corridoio ma era nella parte di là dove c’era la Cicci, la capo blocco, la stufa.
Allora lei mi scaldava i mattoni e me li portava, e sono riuscite a scongelarmi un po’ le mani ed i piedi perché ero in condizioni… Mi hanno buttato su coperte, fatto bere un caffè.
Sì, poi sono arrivati quelli del caffè, perché io sono arrivata prima che passasse il caffè, allora ho bevuto questo caffè che era un po’ di acqua nera, sporca, così.
Dopo un po’ di tempo mi sono adattata, adattata ai gabinetti, adattata alle toilette, che era una cosa proprio esasperante.
Dopo andavo a lavorare alla galleria il Virgolo.

D: Quando ti hanno immatricolata, Tea? Hanno dato un numero a te?

R: Sì, subito. Subito, appena arrivati.

D: Che numero ti hanno dato?

R: Oddio…

D: Non te lo ricordi adesso?

R: No. Ce l’ho.

D: Dopo ce lo dici. I tuoi vestiti te li hanno lasciati o te li hanno tolti?

R: No, mi hanno dato la camicia piena di pidocchi e la tuta bianca. No, mi hanno dato tutti i vestiti del campo di concentramento, mi hanno dato. Sì, per un po’ di tempo sono stata là in campo senza… Poi mi hanno detto: se vuoi vieni a lavorare, andiamo a lavorare fuori che ci danno un pezzo di pane in più.
Una mattina sento: chiusi i blocchi, chiusi i blocchi, una mattina presto, chiusi i blocchi. Ho detto: chiusi i blocchi, perché chiusi i blocchi? Ci sono gli arrivi, c’è un arrivo si vede, ho detto.
Allora io scendo, non ero andata in galleria, non ero andata a lavorare quella mattina. Quella mattina non avevo voglia di andare a lavorare e sono rimasta a dormire. Chiusi i blocchi. Io scendo, il blocco l’avevano chiuso con le catene, però la porta non chiudeva bene ed in fondo io riuscivo a guardare fuori.
Guardo fuori e vedo il primo, uno di Trichiana. Guardo il secondo, è un altro di Trichiana. Guardo il terzo ed è anche quello di Trichiana. Insomma sono quattro, tutti e quattro di Trichiana.
Faccio in modo che mi vedano, allora si sono accorti di me e con le labbra ho fatto: Aldo… mio fratello? E loro hanno fatto no.
Li stavano rapando completamente a zero. Li stavano… Era Ugo Somacal, uno si chiamava Brancher, Bertino ed Arturo Bonetta. Poi Arturo Bonetto è morto, si è preso la tisi ed è morto poverino, sì.
Pensi che questi qua sono stati chiusi, sono stati messi sui vagoni che dovevano andare in Germania, e Pippo invece aveva rovinato strade, aveva rovinato ferrovie, aveva rovinato tutto, e dopo quattro giorni li hanno riportati.
Questi ragazzi che sono tornati in campo prima di partire avevano lasciato l’acqua là, avevano lavato dei panni. Quando sono tornati hanno vuotato bevendo tutta l’acqua sporca che hanno lasciato là dalla sete che avevano. Leccavano i muri dove c’erano delle goccioline d’acqua, dell’umidità, dalla sete che avevano.

D: Tea, quando ti hanno selezionata per mandarti al Virgolo a lavorare?

R: L’ho deciso, mi sembra di averlo deciso io. Ho deciso io, sono uscita ed andata al Virgolo con tutta… Sono entrata nella fila con tutti quelli che andavano a lavorare. Non so se l’ho detto alla Cicci che andavo a lavorare, può darsi che l’avessi detto alla Cicci, che era la capo blocco.

D: E dal campo al Virgolo andavate a piedi o vi portavano?

R: In principio siamo sempre andati a piedi, in principio. Poi dopo ci portavano con i camion, ma in principio attraversavamo tutta la città di Bolzano a piedi, attraversavamo. Tutta la città di Bolzano a piedi.

D: E lì nel Virgolo cosa facevate? Cosa facevi tu?

R: Io facevo, lavoravo ai cuscinetti a sfera. Allora facevo il sabotaggio, perché quando dovevo lucidarli esternamente li lucidavo poco, in maniera che tornavano indietro, e quando dovevo lucidarli dentro li tenevo sotto la macchina tanto in maniera che poi le palline dentro le dovevano scartare per forza.
Il capo, che era uno di Ferrara, perché era una fabbrica di Ferrara, era stata portata là al Virgolo, una fabbrica di Ferrara, mi diceva il capo là: attenta Tea, stai attenta perché se ti prendono ti fucilano.
Poi al Virgolo è successo un bombardamento. Non so come mai due ebree sono riuscite, non so da chi, hanno avuto due triangolini rossi ed hanno tirato via il loro giallo, perché loro non potevano andare a lavorare, gli ebrei non potevano uscire, però non so come hanno fatto, questo, hanno messo su i triangolini rossi e sono venute fuori.
Quel giorno c’è stato un gran bombardamento su tutte e due le porte, su tutte e due. Non so se prima hanno bombardato davanti e poi hanno bombardato dietro. I tedeschi hanno una paura delle bombe tremenda.
In quel bombardamento davanti uno dei capi ha perso un braccio, che è quello del frustino, che frustava sempre tutti, e dietro sono sparite le due ebree. Erano d’accordo, si vede che il bombardamento era stato organizzato, era stato organizzato tutto, perché dopo due giorni abbiamo avuto notizie che erano già in Svizzera. Sicché loro si vede che sono andate verso la porta dietro, dietro c’era qualcuno che le aspettava, mentre bombardavano davanti, perché prima hanno bombardato dietro e poi hanno bombardato davanti, allora loro sono andate verso il dietro e sono scappate.
Quando ci hanno messe in fila si sono accorti che sono sparite due ebree, mamma mia, mamma mia non so se ci hanno tenuti senza mangiare, non mi ricordo, però una punizione ce l’hanno data.

D: Ecco, Tea, vi portavano al mattino e tornavate alla sera?

R: Sì.

D: Non stavate là a dormire al Virgolo?

R: No, il Virgolo era una galleria con dentro questa fabbrica, con tutti i macchinari, con tutti i reparti, reparti per ogni lavoro ecco. I tedeschi, c’erano i tedeschi dentro. Ci portavano alla mattina e ci portavano indietro alla sera.

D: Quanto tempo sei rimasta lì al Virgolo a lavorare tu?

R: Dunque, al Virgolo a lavorare sono rimasta fino a marzo. Dirò, per spiegare il perché mi hanno portato a…
Devo fare un passo indietro e parlare di mio fratello Aldo.
Io avevo scritto una lettera a mio fratello Aldo dal campo di concentramento, dove dicevo tante cose del campo di concentramento, della spia della Paola, tantissime cose. Dopo parlavo anche, ma scritta in maniera non esplicita, doveva esserci una spiegazione mia a tutti gli argomenti, ma mio fratello teneva conto dei principali argomenti, e poi dovevo io…
Tra l’altro io ho chiesto se il nascondiglio funzionava ancora a casa mia, so che erano dentro i tedeschi, che avevano portato quelli della Wehrmacht, cioè avevano portato quelli della Todt a dormire là, perciò il nascondiglio credo che non servisse più. Però ho parlato di questo nascondiglio su sta lettera.
Mio fratello, c’è stato un grande rastrellamento, lui alla sera, al 5 sera lui, il suo Maggiore, il Maggiore Ceppel, con il Maggiore Benucci, inglese, si sono trovati a Sant’Antonio Tortal. Benucci era accompagnato da un ragazzo di loro, e mio fratello era con il suo Maggiore. A mezzanotte mio fratello era andato a dormire, si sono ritirati, i due Maggiori sono andati insieme alla casera in cima, Cima di Mel, ed Aldo con Brancher sono andati giù alla Casera Bolenghin più giù, molto più giù.
Alle cinque del mattino sentono una voce: ragazzi, siete circondati, siete circondati, siete circondati. Allora svelti – svelti saltano giù perché questa casera era fatta in modo che qui c’è una scala, qua guarda la montagna. Il Maggiore Benucci… Quelli che li hanno svegliati alla mattina alle cinque non sanno chi siano, erano una voce che ha detto: siete circondati dai tedeschi. Loro sono scesi immediatamente e sono andati alla porta della cucina, che era di qua. Entravano dalla cucina e qui salivano per una scala ed andavano sopra a dormire.
Allora svelti sono scesi, hanno spalancato la porta e lasciato tutto aperto così giù per questa scala e sono entrati nella cucina. Mio fratello ha detto: io devo andare ad avvertire la mia missione. No, fermati qua, non muoverti, non volevano lasciarlo andare. Lui si è messo la sua tuta bianca, perché era tutto vestito di bianco perché c’era una neve spaventosa.
C’è una valle là, una valle che non saprei come definirla, dicono che bisognerebbe andarla a vedere perché è straordinaria. Ha dei massi enormi, dei cunicoli. Una cosa non saprei come dirla, perché è piena di anfratti, è strana, una cosa molto strana. In mezzo c’è questo piccolo torrente che viene giù da questa montagna.
Allora mio fratello va su, arriva esattamente nel momento in cui lassù si stanno sganciando, perché una staffetta che è arrivata da Sant’Antonio li aveva già avvertiti che erano circondati dai tedeschi. Allora viene giù e cerca di… Prende l’arma del Maggiore Ceppel, un bazooka, e corre insieme ad un altro Maresciallo, e corrono giù per questa valle. Vanno a nascondersi, cercano di scappare ai tedeschi.
Quando sono arrivati giù in una valle si sono fermati, trafelati tutti e due perché a correre per portare questa mitraglia… Allora il tedesco che si era guardato in giro, non il tedesco, il Maresciallo americano che si era guardato in giro aveva visto un posto che era come.. non so dire, un pianoro, dove c’erano degli alberi che lo coprivano. Là potevano nascondersi.
Sta dicendo a mio fratello: guarda, guarda quel posto là è il posto bellissimo dove possiamo nasconderci tutti e due. Si volta per chiamarlo e non lo vede più. Lo vede che sta risalendo la salita. Sta risalendo la salita. Lo chiama: Aldo, Brauni lo chiama, perché il nome in inglese di battaglia, il nome che aveva prima mio fratello di battaglia era Nuvolari, Nuvolari perché era…
Pensi che ha portato via un camion che con le due ruote dentro stava in cima sulla strada, e quelle fuori erano fuori dalla strada, lui riusciva a portare il camion in montagna. Riusciva a portare. Lo chiamavano Brauni.
Adesso ho perso il fio…

D: Che lui stava scappando…

R: Lui non stava scappando, stava rimontando la collina, dove in cima poco prima aveva visto passare due tedeschi. Lui stava rimontando la collina e non ha dato retta al suo Maresciallo, non ha dato retta.
Questo Maresciallo ha cercato di salire l’altra collina dall’altra parte per vedere se lo vedeva, ma non ha più visto niente, allora è andato a nascondersi sul suo nascondiglio ed è rimasto là quieto.
Dopo un po’ lui sente il colpo di bazooka. Mio fratello si era portato si vede in direzione che in linea d’aria poteva arrivare alla Casera Bolenghi dove c’erano i cinque, c’erano tre italiani e due inglesi dentro. Di fatti ha sparato un colpo di bazooka.
Dentro in questa casera uno degli italiani stava guardando fuori dal finestrino da questa parte qua, dalla parte verso Trichiana diremo. Vede i tedeschi che stanno venendo su dalla collina, stanno venendo su con il mitra, e stanno per puntare, si avvicinano alla porta, stanno per sfondare la porta, mentre arriva il colpo di bazooka.
Cosa fanno i tedeschi? Si buttano a terra ed a carponi girano la casera, si portano sul davanti per vedere da dove veniva questo colpo di bazooka. Non hanno più toccato la cucina. Non sono più andati dentro.
Questo che spiava fuori da questa parte qua pian pianino contro il muro si è portato dalla parte di qua, dove c’era un’altra feritoia, un’altra di quelle finestre da montagna, ha guardato fuori anche lui perché lui ha detto subito: questo è Elio, questo è Aldo. Questo è Aldo, sono sicuro che è Aldo. Di fatti lo vede che scende giù su una stradina scoperta, per niente nascosta, e che zoppica. Perché lassù lui aveva sentito il colpo di bazooka, l’americano, poi dopo ha sentito un altro colpo. Si vede che i due tedeschi che erano lassù gli hanno sparato sulle gambe. Di fatti aveva una gamba ferita.
Hanno visto Aldo venire giù e si è appoggiato ad un albero ed è caduto, scivolato perché si vede che non ne poteva più, poi si è rialzato ed è corso in un’altra casera che era di fronte a quella dove c’erano i cinque. Proprio quasi una di fronte all’altra, qui c’è il torrentello che passa e sono una di fronte all’altra.
Lui aveva due bombe a mano, ha tirato anche le due bombe a mano dalla parte all’altra casera per attirare l’attenzione su di sé. Poi è tornato di qua. Purtroppo sopra la sua testa c’era un nucleo di tedeschi, c’era un comando tedesco ed hanno cominciato a sparare, a sparare, ed anche lui a sparare perché aveva la sua rivoltella. Il bazooka non l’aveva più, però aveva la sua rivoltella, le rivoltelle americane.
Ha ferito un tedesco che poi è morto, abbiamo saputo che è morto. Dopo questo combattimento lui lo volevano vivo, non lo volevano morto, lo volevano vivo, e volevano che finisse le munizioni. Però io sono sicuro che l’ultimo colpo se l’è sparato. L’ultimo colpo perché l’ultimo colpo se l’è sparato lui, sono sicura perché me l’aveva già detto: a me la corda non la metteranno mai. L’ultimo colpo che ho qua sarà mio.
Di fatti così ha fatto.

D: Tea, quando tu hai scritto quella lettera dal campo di Bolzano a tuo fratello, la lettera non è mai arrivata?

R: La lettera l’aveva sulla pancia mio fratello, assieme a tutti i soldi della missione, della missione americana. Aveva un gran pacco di denaro, perché hanno portato via anche tutto il denaro, un po’ uno, un po’ l’altro si sono portati via tutto il denaro, e la lettera ce l’aveva in mezzo a…
Questi che hanno trovato la mia lettera poi dopo niente… Sulla lettera dico a mio fratello: non mandarmi tutti i pacchi via clandestina, mandamene qualcuno con il mio numero di matricola, che il numero di matricola è 8934.
Ecco, mi hanno preso come prendere una mosca nel latte. Mi hanno preso. La tedesca, la lettera l’hanno mandata, quando hanno preso la lettera l’hanno mandata si vede al Comando a Belluno, il Comando a Belluno ha telefonato a Bolzano immediatamente, ed il giorno… non so, questo è successo il giorno 6, io penso che il giorno 7 erano già là. Il giorno 7 a mezzanotte è passato il Comando tedesco con la Tigre, che era una donna, con la Tigre, noi la chiamavamo Tigre, che passava ed a tutti guardava il cartellino.
Quando è arrivata a me che ha visto il cartellino ha dato uno strappone, l’ha tirato via e mi hanno portato via. Mi hanno portato al Corpo d’Armata.

D: Il 7 di che mese però, Tea?

R: Marzo, marzo.

D: Ti hanno portato al Corpo d’Armata a Bolzano?

R: A Bolzano. Prima mi hanno portata al Comando del campo di concentramento, e là naturalmente io non capivo una parola. Dopo mi hanno portato al Corpo d’Armata. Al Corpo d’Armata giù, sotto quel sotterraneo là, il giorno dopo al mattino alle 9 sento diversi passi sul corridoio e mi portano nella sala di tortura, che è più in fondo.
Là hanno incominciato a torturarmi. Hanno incominciato a torturarmi, allora mi hanno messo allo spiedo, allo spiedo. Mi hanno legato le mani così con del filo di ferro, le mani diritte con il filo di ferro, poi me le hanno infilate sulle ginocchia, infilate sulle ginocchia, e tra le mani e le ginocchia mi hanno passato un ferro. Poi mi hanno alzata, mi hanno messo su una scala a pioli, una scala doppia così, ed io rimanevo là con le gambe e la testa in giù.
Là hanno incominciato ad interrogarmi. Mi hanno interrogato.. scosse elettriche. Erano in due con una corda di bue, l’impugnatura grossa e poi fine – fine che mi bastonavano. Si mettevano in posa con le gambe larghe e giù botte, e giù botte.
Allora mi facevano in qua con le scosse elettriche, oppure mi facevano perdere i sensi con le scosse elettriche e mi facevano in qua con le bastonate. Finché… Volevano sapere se mio fratello era un Comandante, perché loro erano fissati che Aldo era un Comandante. Perché con tutta questa roba che aveva addosso, era tutto vestito d’americano, perché era tutto vestito d’americano, credevano che fosse un Comandante. Invece mio fratello non era un Comandante, era il fac-totum del Maggiore Ceppel sì, perché lui essendo perito edile, perito meccanico era, conosceva un po’ l’inglese, conosceva un po’ il tedesco perché allora studiavano il tedesco, non si studiava…
Tra tedesco, inglese ed italiano si capivano, ecco. Così.

D: Lì al Corpo d’Armata sei rimasta fino a quando?

R: Là mi hanno torturato finché basta, poi mi hanno tirato giù, quando mi hanno messo per terra… Perché quando non ne potevo proprio più, perché continuavano ad insistere: suo fratello è un Comandante, ad un certo punto ho detto sì. Allora mi hanno tirato giù e mi hanno messo giù, mi hanno messo per terra.
Suo fratello allora era un Comandante? No, ho fatto io. Non mi hanno rimessa su? Mi hanno rimessa su, mi hanno riappesa e botte ancora. Fino a che…
Durante l’interrogatorio volevano sapere il nome dei partigiani, allora ho dato i quattro nomi dei partigiani che erano in campo, perciò sono in campo e quelli non possono fargli più niente. Volevano sapere altre cose, allora del nascondiglio?
Io gli ho detto per filo e per segno dove è il nascondiglio, perché ero sicura che nel nascondiglio non c’era più niente. Per filo e per segno ho… Loro credevano che io avessi incominciato a parlare, erano tranquilli perché io ormai avevo cominciato a parlare. Queste due verità sì, insomma, per loro sono state sufficienti. Dopo hanno continuato sempre con Aldo, Aldo, il Comandate Aldo, era un Comandante.

D: Ma quando ti hanno liberata?

R: Niente, poi mi hanno portato in cella perché io non ricordo niente, mi hanno buttato in cella e là io non vedevo nessuno, non sentivo nessuno, sentivo solo quando chiudevano ed aprivano la porta, e basta. Là sono rimasta diversi giorni, fino a che si è interessato il Vescovo Bordignon che ha chiesto al Comando di Belluno dove fosse la tal prigioniera, tal dei tali.
Allora svelti – svelti dalle celle del Corpo d’Armata mi hanno riportato alle celle del campo di concentramento. Ho fatto cella chiusa, il campo di concentramento, fino al 3 Maggio. Al 3 Maggio. Sono stata liberata il 3 Maggio. Ho una fotografia della Nella che scrive che… nel meraviglioso giorno della nostra liberazione, 3 Maggio 1945.

D: Poi cosa hai fatto? Quando ti hanno liberata cosa è successo?

R: Quando mi hanno liberata… No, ero là che aspettavo che mi liberassero, la Croce Rossa, ma non chiamavano mai il mio nome. Non sono venuti due soldati armati a prendermi e portarmi via dal campo di concentramento? Io ero sulla porta delle celle che aspettavo, di qua tutti andavano fuori 50 alla volta. Io ero là sulla porta che aspettavo, mi capitano due soldati armati e mi portano via. Mi portano al Corpo d’Armata un’altra volta.
Allora la Nella, che aveva saputo, non so come perché non era ancora finita la guerra e là c’era i partigiani, però un po’ nascosti. Quando hanno saputo che ero stata portata al Corpo d’Armata erano già pronti per intervenire se io non fossi uscita.
Sa cosa voleva il Comandante? Mi ha chiesto se in cella avevo parlato con qualcuno di quello che mi avevano fatto. Io non ho parlato con nessuno, sono sempre stata in cella segregata, come facevo a parlare?
Guardi dice, che se lei parla e racconta a qualcuno quello che noi le abbiamo fatto noi saremo sempre sulle sue tracce e la uccideremo in qualsiasi momento.
Io sono venuta fuori e non sapevo dove girarmi. Io so che mi sono trovata senza conoscere le strade, senza conoscere niente, senza… Mi sono trovata davanti al campo di concentramento, davanti alla porta del campo di concentramento. Dentro c’erano ancora due dei miei compagni. Ce n’erano ancora due.
Mi sono seduta là sul prato ad aspettare. Mi si avvicina un uomo che viene su da… Io non ho osservato, là c’erano i campi, alberi di tutte le sorti. Mi si avvicina uno e mi dice: era in campo di concentramento? Sì, ero in campo di concentramento. Di dove è? Di Belluno. Credevo fosse italiana.
Sono saltata in piedi e questo ha preso la via dei campi… Mi sono guardata intorno, vedevo che tutte le macchine arrivavano ed andavano giù per i campi, erano tutti fascisti che scappavano. Erano tutti fascisti che scappavano.

D: Tea, ma quando sei arrivata a Belluno tu?

R: Noi siamo partiti a piedi, siamo andati con la Nella ad Ora, poi abbiamo preso il trenino e siamo andati a Predazzo, a Predazzo ci ha ospitati lei e là abbiamo combinato che c’era una galleria che portava fuori su Fiera di Primiero. Siamo arrivati a Feltre il giorno dopo perché abbiamo dormito a Fiera di Primiero da qualche parte, e poi siamo arrivati a Feltre.
Io a Feltre dicevo ai ragazzi: sbrigatevi, andiamo a casa, andiamo a casa, perché io ho i miei fratelli e voglio vedere Aldo, voglio vedere Aldo, partiamo.
Ci incamminiamo, fuori dalle porte di Feltre incontriamo due di Trichiana, io mi fermo, loro si fermano, e ci chiedono… La prima cosa, Aldo? Dov’è Aldo? L’ha visto? Vedo che questo alza gli occhi e guarda sopra la mia testa. È diventato pallido.
Io mi giro e c’è Bertino dietro di me che gli fa segno che io non so niente. Allora mi dice, l’unica cosa che ho chiesto: è stato impiccato? No, mi hanno detto no, è morto in combattimento.
Poi io non ho più parlato fino a Trichiana, ero di ghiaccio. Finché mio fratello piccolo ha sentito che era in arrivo la sorella dal campo di concentramento, è venuto di corsa con la sua biciclettina piccola, è saltato dalla biciclettina, è saltato sul carro, ci avevano mandato il carro, e così sono tornata a Trichiana.

Pianegonda Noemi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Noemi Pianegonda, sono nata a Valli del Pasubio, 30/11/30.

D: Noemi, la tua famiglia era, la famiglia in cui si appoggiava il regime fascista, oppure?

R: No, era appunto, io sono cresciuta in una famiglia dove, vorrei dire, l’ho sempre respirata quest’aria antifascista, anche il papà è stato perseguitato dal fascismo, non ha mai preso la tessera né il distintivo, che allora era quasi obbligatorio per poter avere un lavoro. Lui si è adattato a fare tutti i lavori, però non ha mai accettato quest’imposizione, quindi io l’ho respirata da bambina quest’aria, non è come si suol dire, dalla sera alla mattina io ho fatto da staffetta partigiana, che me lo sia sognata.
C’è un qualcosa dietro, che me la sono portata come una ricchezza, un patrimonio di cultura, di storia. Papà era così, col tempo abbiamo capito di più le cose, e quindi, la mia famiglia è stata così. Un papà meraviglioso.

D: Tu sei nata nel 30, quindi nel 44 avevi?

R: Ho compiuto 14 anni in carcere.

D: Che cosa succede nel novembre del 44?

R: Il 18 novembre, di sera hanno arrestato mia sorella, io sono stata arrestata il 19 mattina, 18 novembre del 44, era di sabato.
Io mi trovavo in Collegio, perché facevo la terza media, dalle Canossiane a Schio.

D: No scusami, il microfono.

R: Va bene?

D: Sì, sì.

R: Io mi trovavo in Collegio dalle Canossiane a Schio.

D: Scusa.

R: Una domenica mattina, il 19 novembre, che era di domenica, come tutti, si andava a messa, alle sei e mezza si sente suonare una scampanellata, la chiesa dell’Istituto era anche vicino alla portineria.

D: Che Istituto era?

R: Istituto Canossiane, le Suore Canossiane, io ero lì per fare la terza media, il terzo anno.

D: A Schio?

R: A Schio.

D: Mentre la famiglia?

R: La famiglia viveva a Sant’Antonio, allora non c’erano le scuole medie nei paesi come adesso, era l’unico mezzo per poter continuare.
Sentiamo questa grande scampanellata alle sei e mezza di mattino, e va bene così, poi viene una suora e mi dice: ” Noemi” e mi batte sulla spalla: “ci sono due signori che ti vogliono in portineria”, e gli dico: “Ma chi sono questi due signori”, e dice: “Non lo so” le dico: “Chiami la Direttrice” dico “perché la suora portinaia, non è responsabile di noi educande”. Noi eravamo le educande lì dentro. Viene la Direttrice e dice: “Assisto anche io, cosa vogliono” loro dicono, che sono amici di mio fratello. Due signori vestiti molto bene, che poi avrò modo di conoscerli in carcere per gli interrogatori, mi dicono che sono amici di mio fratello, però sono andati a Sant’Antonio dalla famiglia e non l’hanno trovato, loro hanno estremo bisogno di parlare con lui, per mettersi in contatto.
Io, già preparata un po’ dal papà, anche dalla mamma, dalle sorelle, gli dico: “Guardi che io dal 1 ottobre” allora, s’incominciava la scuola il 1 ottobre ” è da Ottobre” dico “che io manco da casa, non so mio fratello…”. ” Ma non è possibile” dico: ” Non lo so” dico, “studiava a Vicenza” ” Si ho cercato”, ” Non lo so veramente”.
Allora questi due dicono alla Madre, sì, la Direttrice, si chiamavano Madri le Canossiane, e dice: “Allora Madre ce la dà, la bambina, che la portiamo su dalla mamma, così confrontiamo se dice il vero”. E lei, era la sorella dell’Onorevole Cappelletti di Vicenza, che poi è stata anche Onorevole, era una suora sveglia. Dice: “No, mi spiace, se io non ho un permesso scritto, un’autorizzazione scritta dalla mamma, dice, io la bambina non ve la do, a me è stata consegnata, e qui rimane”.

D: Ci puoi descrivere questi due signori, che erano venuti?

R: Erano, uno grande, magro, con dei baffi, pallido di viso, me lo ricordo, con dei baffetti neri. L’altro, invece, era più robusto, più piccolo, con un accento spiccatamente fiorentino, proprio, tutte e due, mi ricordo, col cappotto blu, sia perché noi l’avevamo come educande, che era la nostra divisa il cappotto blu, mi ha fatto specie vedere, già eravamo in tempo di guerra, si vedeva ben poca gente vestita bene, con la camicia bianca, cravatta, tirati a lucido, diciamo. Questi erano i due, che poi erano i due famosi, che hanno arrestato l’Adriana, Vallì, la mamma e che poi ci siamo ritrovate in carcere.
È passata così la domenica, in apprensione dico: “Chissà che la mamma possa telefonare”. Non sapevo, le suore disperate, dice: ” ma cosa è successo?” ” Non lo so, io non volevo dire Walter di qua, anche se dico che è in montagna, come faccio a sapere dov’è” lo dicevo fra me questo.
Non so niente di Sant’Antonio, da lassù nessuno.

D: Noemi forse bisogna dire qualcosa prima? Tu hai detto, ho fatto la staffetta partigiana.

R: Sì.

D: Che cosa significa?

R: Significa, portare degli ordini a mio fratello che era un Comandante partigiano, all’altro Comando portare degli ordini, di spostamenti, notizie, piccoli messaggi ma che erano importanti, perché c’era un collegamento fra loro, almeno quello che capivo io. Dicevano, guardate che c’è un rastrellamento in corso a Posina, diciamo, allora dovevano spostarsi, oppure, guardate che viene su qualcuno a trovare, lo so, erano volte che poi io, non aprivo quasi mai neanche i biglietti che mi davano.

D: Quindi, tu portavi dei biglietti di carta?

R: Dei biglietti di carta.

D: Quanti anni avevi?

R: Tredici.

D: Quando facevi questo…?

R: Sì, perché i quattordici li ho fatti dentro.

D: Dicevi, che tuo fratello era Comandante partigiano di che Brigata?

R: No, della Garemi e della pattuglia quella di Sant’Antonio, che in pratica l’aveva quasi fatta lui, formata lui, tutti i ragazzi del paese quindi avevano una fiducia in questo, allora, a quel tempo, studiavano in ben pochi. Lui era già Perito, si era anche iscritto all’Università ai Ca’ Foscari, perché allora non era permesso andare all’Università, l’Istituto Tecnico Industriale non permetteva di accedere ad altre Università, era aperta solo Economia e Commercio che potevano andare.
Intanto è venuto l’8 Settembre, e quindi, non ha potuto più frequentare, i ragazzi della sua pattuglia avevano una fiducia, perché quello che diceva lui, erano convinti: ma se lo dici tu Walter, va bene, con l’entusiasmo che avevano diciotto vent’anni, ecco questo è stato.
Io continuavo, mi ricordo che da Sant’Antonio a Malunga è un bel tragitto, sono quasi due chilometri in mezzo ai boschi, l’ho fatta anche quattro volte una volta, quando c’era in vista il famoso rastrellamento, che poi è stato grosso veramente.

D: Quand’è stato, quello…?

R: È stato quello, il 17 giugno del ’44.

D: Dov’è avvenuto?

R: È avvenuto a Posina, ma, le truppe che avevano visto, le notizie che arrivavano, non dicevano, sono diretti là, erano dislocate da Schio un po’ a rastrello, diciamo, quindi le notizie non potevano dire vanno a Posina.
Allora, no, hanno visto più movimento di là, allora corri su a dirlo, poi torna, poi hanno cambiato.
Lo facevo qualche sera quando era buio, allora qualche partigiano mi accompagnava fino ad un pezzo di bosco, dove in cima al bosco vedevo giù Sant’Antonio, il mio paese, avevo anche paura, insomma.

D: Noemi, chi li faceva questi rastrellamenti?

R: C’era…

D: Tu lo sai?

R: Sì, c’era la Wehrmacht, poi c’era un commando, che adesso io non lo so, perché a quel tempo, sia perché non avevo ancora capacità come adesso di capire, c’era un commando di russi a Marano Vicentino, insieme a questi rastrellamenti mettevano dentro anche questo, sarà stato, trenta o cinquanta persone di russi, che si erano dati, e che quelli menavano.
Questi sono stati feroci, hanno detto nelle contrade, dove c’è stato il rastrellamento, perché hanno incendiato, in pratica quasi una vallata e di là.
Quel rastrellamento del 17 giugno, hanno bruciato case, morti, e così.
Dicevano che c’erano questi russi che erano dislocati a Marano Vicentino, dopo di più, io non so.

D: Questo rastrellamento, tu sai se per caso era in relazione a qualcosa, perché è avvenuto questo rastrellamento?

R: Perché…

D: Perché è noto?

R: Perché loro sapevano, loro dicevano che sapevano che quella zona del Pasubio e di Posina, praticamente fa corona così, Pasubio e Posina, dicevano che era infestata dai ribelli anche perché, dicevano i ribelli loro giustamente, perché i partigiani nostri quando passava qualche macchina la sabotavano come sempre, quindi c’era sempre qualche atto di sabotaggio, e questo dimostrava che c’erano dei controlli, solo che loro non sapevo quanti erano i partigiani, erano pochi. Una volta succedeva qua, diciamo, una sparatoria, un’altra succedeva là, quindi dava l’impressione che fossero in tanti, poi si chiamavano, avevano questa furbizia, io ridevo allora. Ehi pattuglia, pattuglia C, pattuglia A, ecco che allora… questo sarà successo poche volte, però ha dato l’impressione ai tedeschi, che fossero tanti, invece…

D: Mi spieghi cosa vuol dire ribelli? Hai detto ribelli, chi sono?

R: Sono ragazzi, che non avevano accettato di andare sotto, dopo l’8 Settembre di arruolarsi nella Repubblica, parecchi sono stati anche i militari che avevano disertato dopo l’8 Settembre, che non si sono più presentati, anzi, il primo Comandante Partigiano della Garemi, è stato un certo Sergio, nome di battaglia, era Attilio Andretto di Bevilaqua, Verona. Era un tenente degli alpini che era scappato via, non mi ricordo da dove se da Verona, dov’era di servizio o verso la Valdosta, ed era arrivato dalle nostre parti, dietro lui si era portato un altro militare. I primi vorrei dire sono stati proprio i militari che si sono nascosti in montagna.

D: Quindi i ribelli sono i partigiani?

R: Sono i partigiani.

D: Torniamo al 19 novembre del ’44.

R: La domenica è passata così. Dopo lunedì, martedì, mercoledì, adesso non ricordo, se sia stato il 21 o il 22, ricordo che era di giovedì mattina si ripresentano un’altra volta questi due signori con un foglietto della mamma, con scritto di consegnare la bambina, Noemi Pianegonda, a questi due signori, firmato la mamma.
La suora piangendo è andata a prendermi il cappotto, i miei compagni sono venuti fuori e mi hanno abbracciato “Noemi vedrai che torni” io non capivo neanche cos’era. Monto in macchina con loro, ed era una vecchia Balilla, vecchia diciamo adesso era una Balilla nera, monto in macchina e mi portano a Sant’Antonio.
Credo che mi portino a casa mia, e invece prima di casa mia una volta c’era una trattoria, c’è ancora adesso, ma l’avevano requisita per fare il Comando Tedesco, c’era una compagnia tedesca a Sant’Antonio, i tedeschi, e mi fanno andare lì. Naturalmente che proprio fra casa mia e questa casa ci saranno tre metri di distanza, mi affaccio alla finestra e vedo la mamma che attraversa la casa e va nel cortile, l’ho vista andare in magazzino, dalla finestra l’ho vista, non potevo chiamarla perché era pieno di tedeschi, sotto nel magazzino, avevano adibito la mensa, la cucina per questa compagnia tedesca, che c’era a Sant’Antonio. Al giovedì, questo.

D: In macchina, questi due ti hanno detto qualcosa?

R: No, mi hanno detto:” Vedrai che adesso troverai la mamma” dicevano “e troverai anche tuo fratello”, io dico, ripeto ” Io non so niente” dico, proprio non lo so, ripeto. Ma gentilissimi loro, proprio, uno mi accarezzava le ginocchia, uno le mani, erano proprio, uno davanti e uno seduto con me.
Il giovedì mi vengono a prendere, ho dormito lì in questa stanza, con una brandina e lì vogliono sapere ancora ” Guarda che abbiamo arrestato, noi siamo della SD” dice ” noi abbiamo arrestato le tue sorelle, che sono già in prigione, domani” dice “partirà anche la tua mamma, e se tu non ci dici dov’è tuo fratello e il papà” dice “farai la stessa fine anche tu”. Io ripeto che non lo so, piangevo, mi portavano una ciotola di qualcosa da mangiare e guardavo fuori se vedevo la mamma.
Venerdì mattina, invece sento un rumore, guardo in strada e vedo un camion carico, noi avevamo un negozio di generi alimentari, carico d’ogni cosa che cera dentro nel negozio, ed era inverno, l’inverno del 44 è stato molto nevoso, tanta neve e freddo, in cima al camion seduta c’era la mamma, che me la ricordo ancora, questo paltò marrone quel collo di volpe che ce l’aveva lei, così la vedo e la saluto, e lei mi guarda, il camion è partito verso il Passo, ed è andato a Rovereto, e lì è andato al carcere.

D: Lei è andata in carcere con tutta la roba requisita?

R: Sì. Quella non si sa dove l’abbiano portata, la mamma l’hanno portata.
Io invece, sono partita il pomeriggio. Sono partita il pomeriggio, sempre con la stessa macchina e con una ragazza che avevano arrestato di Valli del Pasubio, suo papà era un partigiano, ma io la conoscevo di vista era già tre anni che ero in Collegio non è che conoscessi tutti del paese, di vista, dico: ” Anche tu” dico ” E sì”.
Io sapevo che aveva il papà partigiano, ma proprio un partigiano autentico, e non ci stavamo in macchina allora ho dovuto sedermi sulle ginocchia di questa ragazza, di questa Antonietta, di là un tedesco e andiamo verso il Passo.

D: Quale Passo?

R: Passo del Pian delle Fugazze, e vedo che tutti e due tirano fuori la pistola.

D: Antonietta a Pianalto?

R: No, i due della SD

D: No, l’Antonietta era a Pianalto?

R: Sì, tirano fuori tutti e due la pistola, io non capivo il perché, poi invece, continuavano con la testa a girare a destra e sinistra, avevano paura che i partigiani che facessero qualche, l’ho capito più tardi, quando nel punto più freddo, andavano via velocissimo, più freddo, più stretto, più buio come strada, andavano via velocissimi, ma erano così, così proprio, dalla paura che avevano. Hanno tolto la pistola, quando siamo stati agli ultimi paesi della Vallarsa, prima di arrivare a Rovereto.
Andiamo in carcere, il direttore del carcere, prima fa entrare l’Antonietta, io sono lì, prende le impronte, io mi ricordavo dal papà che aveva fatto il Carabiniere, che diceva prendevano l’impronta, e quelle rimangono per tutta la vita nel casellario, una cosa brutta, diceva allora. Oddio, dico, anche quello fanno, io pensavo chissà cosa, e il direttore dice: “Ma la bambina” mi chiamavano bambina, perché portavo due trecce che arrivavano alle ginocchia, col nastro in testa, questo cappotto da Collegio, con i bottoni tipo alla marinara, diciamo, cappotto blu con i bottoni dorati, ed ero piccola proprio, dice: “ma quanti anni hai?” “Tredici” “quando li fai” dice “i quattordici anni?” “al trenta di novembre” allora si rivolge a loro e gli dice: “Io non posso accettarla” dice “perché c’è il regolamento, che dice che, prima di quattordici anni non possono entrare in carcere”. “Ma no, qui non ci sono leggi” dice: “Mi spiace ma io non l’accetto”, loro hanno confabulato fra loro, allora il direttore gli fa, “Mancano pochi giorni, che compie i quattordici anni, qui vicino c’è l’Istituto di Suore, se volete.”
Mi hanno portato, loro sono andati a bussare, insieme con me, all’Istituto della Sacra Famiglia che è l’Istituto Tacchi di Rovereto, un pensionato per gli anziani, con le suore. Lì sono stata fino al giorno del quattordicesimo compleanno.

D: Le suore non ti hanno chiesto niente?

R: Sì, mi hanno chiesto, sono state carine, man mano, un giorno, anzi, sono venute fuori perché hanno suonato e sono venuti loro due a prendermi e dice: ” La dobbiamo portare a Villa Maffei, a Rovereto” dice ” per un interrogatorio” dice “Possiamo venire anche noi” dice “perché la bambina” no, no, no, invece loro in due, non si muovevano mai una da sola. Io sono partita con loro due, e loro due dietro.

D: Questo prima del compimento del quattordicesimo compleanno?

R: Prima, prima, due giorni dopo, proprio, che ero lì dalle suore.

D: Villa Maffei, che cos’era?

R: Era una famosa villa, l’ho saputo dopo questa, che è dopo Piazza Rosmini in collina a Rovereto, la villa dove c’era il Comando Tedesco e della SS, che hanno detto che era famosa per gli interrogatori, per le torture, soprattutto per gli interrogatori snervanti. Mi hanno portato su a Villa Maffei, mi ricordo che c’era un caldo dentro, una giornata fredda e dentro era caldo, io col cappotto, dicevo: “Mi posso togliere il cappotto?”, sempre in piedi, vicina al tavolo.
“No, questa è una doccia che devi farla, di sudore, perché poi verranno delle altre docce” sono stata lì, l’interrogatorio era sempre quello, se sapevo, se sapevo “Non lo so”, poi dico “se fosse”, allora io mi sono lasciata dire “ma se fosse in montagna, come faccio a sapere dov’è? Come faccio”, dico “a saperlo”, “Ma lui l’avrà saputo che i suoi sono stati arrestati” ma dice ” ma, tu sai la zona dov’era” ” Non lo so” allora lì mi hanno dato quattro ceffoni, potenti.

D: Questi due che, sempre i soliti due?

R: Questi due, insieme con uno della SS, lì.

D: Erano sempre in borghese?

R: In borghese, e c’era un Comandante anche della S.S. in divisa, quello vicino, tanto che mi si è riempita la bocca di sangue, ho preso il fazzoletto e ho visto che era il dente, non spezzato, era sotto otturazione, probabilmente con due ceffoni così, che poi mi sono portata questo dente nero, una paletta davanti per vent’anni, era morto, non mi faceva male, io l’ho lasciato stare, per dire, era andata dentro una goccia di sangue, è diventato nero.
Dopo due o tre ore, due ore abbondanti d’interrogatorio, mi hanno detto: “Andiamo”, sono andata all’Istituto Tacchi, il 30 novembre, le suore che mi facevano le coccole, che mi trattavano, il 30 novembre la mattina sono venuti a prendermi e sono entrata in carcere, una cella da sola e la paura che ho avuto, no, neanche del… Adesso la faccio ridere, c’era freddo alle finestre mancavano i vetri, la neve entrava e i lettini delle celle erano fissi per terra, quindi non li potevi spostare, la neve ti entrava e ti copriva la mattina le gambe, e questo cappotto, lo tiravo su, chissà perché avevo paura dei topi, mi dice lei, quanto bambina ero insomma, questo lettino e pregavo, pregavo tanto, non sapevo fare altro. Questa pagnotta di pane, che era dura e pesante, come un chilo, questa mollica che era uno schifo, mi divertivo a fare…, mangiavo la crosta, e la mollica facevo la borsetta, l’attaccavo su per il muro, facevo un po’ di scarpe, quelle piccole cosette che può fare una bambina, io dico.

D: Eri in isolamento?

R: in isolamento.

D: A quattordici anni?

R: Sì, la fame era tanta, che dopo un mese, ho cominciato a mangiare la borsetta, la stella, il tacco della scarpa che si era sfilato, poi è anche vero, non la sentivi neanche più, si fa per dire, non si sente, l’ho sentita, ma ci si abitua anche a quello.

D: Eri in una sezione…?

R: Era la sezione donne, ma il reparto, cioè, le due celle in fondo erano isolamento.

D: Tu sapevi che le sorelle tue erano vicine?

R: L’ho capito, me l’ha detto la carceriera, me l’ha detto ma aveva una paura di parlare, povera, perché erano ossessionate anche loro da com’era il regolamento, diceva: ” C’è la tua mamma e anche le tue sorelle” oggi. Domani ” guarda che loro stanno bene” ” Glielo ha detto che ci sono anche io?” “no”.
Allora, cosa è successo, dopo quattro cinque giorni d’isolamento, mi hanno messo in un’altra cella, con un’altra signora, mi pare che fosse di Genova, la sera quando erano le cinque, dopo aver portato la minestra le carceriere aprivano le porte e nel corridoio dicevano il rosario e noi tutte rispondevamo. Io ho detto, come faccio a farmi capire dalla mamma e dalle sorelle, che sono qua anche io? Allora si diceva il rosario in latino, e io spiccavo marcatamente il latino, per farmi sentire, e l’Adriana ha detto: “Questa è mia sorella” l’ha capito, non la prima sera, magari l’avrà capito dopo, allora hanno capito che c’ero anche io dentro.

D: Perché non avevate nessuna possibilità di comunicare?

R: No, nessuna, nessuna, né aria fuori, né niente.
Il terrore era quando, sentivi il tintinnio delle chiavi, che arrivava la carceriera insieme alla SS.
Questo Comandante che ho visto su a villa Maffei, erano sempre loro della SD che interrogavano, e questa cella, andare giù nella stanza degli interrogatori, era qualcosa che stringeva, macchiata di sangue, metà muro, tutta schizzata.

D: Quindi ti portavano all’interrogatorio?

R: L’interrogatori in quella stanza, proprio, era… qualcosa, lì, sempre, e dov’era…

D: Puoi descriverci un tipo d’interrogatorio, tipo come avveniva, che cos’era?

R: Ma niente, io mi sedevo così, e loro là, poi uno magari, si sedeva sulla tavola, gambe così, come andava, ” Raccontami di tuo fratello”, “Ma mio fratello ha sempre studiato a Vicenza” e dai con questo Walter, e dai “ma il papà?” “ma il papà” il papà invece poi ho saputo da loro che è scappato quella sera che hanno arrestato loro, ma io non lo sapevo, il papà dico “io non lo so, sarà andato da parenti, non lo so dove sia andato”, “tu devi dirlo”, ma ci avevano il pallino fisso.
Anche lì mi ricordo, dice, facevano così, giocherellando il nervo di bue che avevano lì, dice “la vedi questa?”, “sì”, “lo sai che cos’è?” ” sì” dice “se tu non parli, la useremo con te”, io ” va bene” dico, “io non lo so” e allora lì, mi hanno riempito di botte, veramente, sono andata sopra che sono stata, non avevamo specchi, non avevamo niente, ma sentivo che indolenzivo dappertutto, il viso.

D: In quanti uomini contro di te?

R: Sì, due. Si alternavano, Oddio, sarà durato, cinque minuti, dieci, per me è stato un inferno. Abituata al rispetto di casa, abituata ad un Collegio dove credevo il mondo, dire la Madonna, per dire, ecco, la famiglia, dicevo, ma dove sono caduta, ma cosa è successo.
Io non pensavo neanche a me, continuavo a dire: ” Oddio ma la mamma, e la mamma?” e stato struggente, veramente, il carcere, il campo un po’ meno.

D: Nel carcere avete passato anche il Natale?

R: Sì, il Natale.

D: Si è distinto in qualche cosa questo giorno o era come gli altri?

R: Il Natale si è distinto, in quanto abbiamo avuto un mangiare un pochino più abbondante, una zuppa con dentro un po’ di carne. Da notare che la mamma era riuscita per la carceriera a mandarmi un quarto di mela, ed io assieme con l’altra, perché si divideva tutto, non la mangiavamo la succhiavamo perché durasse di più, e mi ricordo, credo, che sia durata due giorni, a Natale, appunto…
Invece a Natale io sono stata da sola, la mamma e le sorelle le hanno messe assieme. Loro hanno potuto vedere la mamma in che stato era ridotta, a loro ha detto la mamma, mi ricordo che me l’ha detto dopo, perché dice non mi date la bambina, non è giusto, dice, che la bambina viva con la mamma di un delinquente, di un ribelle, dice.

D: Dice, che vivevi con chi?

R: Vivevo con una prostituta, non è giusto, non è educativo che una bambina viva con una madre di un delinquente, un ribelle.

D: Vuoi raccontarci che cosa e successo un giorno con questa tua compagna di cella?

R: Sì, come dicevo io, con un ingenuità perché allora c’era tanto tabù
non è come adesso, una sera vengono dentro due in divisa, dice: “Tu, tutti girati dall’altra parte” mi fa, io mi giro dall’altra parte, mi ricordo che era la cella dell’infermeria, c’erano due lettini staccati, ma distanti uno dall’altro, e io mi giro dall’altra parte, naturalmente sei lì, non capivo neanche cosa fosse successo, e poi dice: “Beh, tu vai fuori, che adesso faccio io”. Lei la sentivo piangere, sentivo questo muoversi, questo… ad un certo momento mi sono girata, posso dirlo proprio, li ho visti uno sopra l’altro, mi ha sconvolto, veramente, ho detto: “Oddio, ma quello la sta picchiando” si figuri ancora, a cosa pensavo io, ma quella.
Poi è arrivato il terzo, il quarto faceva la guardia invece sulla porta, io non ho più detto niente, la mattina dico: “Cosa ti hanno fatto?” “Meglio che tu non lo sappia” dice, piangeva, piangeva e da lì è partita un’emorragia, non avevamo niente.
In Collegio, sotto ci vestivano ancora alla moda un po’ antica, portavo la camicia, lunga come il vestito, senza maniche. Ho detto: “Senti le mutande, no, la maglietta è di lana, ti do la camicia che almeno” e quella è riuscita ad infilarselo sotto, perché era imbrattata di sangue, l’acqua era gelata dentro, bene o male si è pulita, lei non ne ha mai parlato, ed io non ho più voluto parlare, lei si è chiusa e non ha più parlato, quindi è stata quello che hanno detto, che non ero degna di stare con mia madre.

D: Con questa signora di Genova c’è stata fino a quando?

R: Fino al giorno del bombardamento del carcere, poi non è venuta al campo con noi.

D: Ma ascolta, spiegaci, la bambina di quattordici anni, si può dire bambina?

R: Sì.

D: Di quattordici anni, dire in questo modo, a che cosa si aggrappa per…

R: Guardi…

D: Per non impazzire, non so, vogliamo capire.

R: Non so, io mi sono aggrappata, guarda, mi è entrata addirittura, in un certo momento, di dire: ma Dio, ma dove sei, che cosa è successo? Io non capivo, pareva proprio sconvolto completamente, l’insegnamento che avevo ricevuto in Collegio, dico: ma allora è tutto falso quello.
Il papà che mi diceva, che già mi raccontava, la sua vita militare, il suo servizio, che succedevano casi così, ma allora ha ragione il papà, ma ci sono questi casi, ma è possibile? Non so a cosa mi sia aggrappata, alla preghiera, forse sì, ho pregato tanto, che se Dio probabilmente ha ascoltato, diciamo noi che non ascolta, ma, ascolta, non va perduto niente, ecco. Dopo il bombardamento…

D: Quando è avvenuto questo bombardamento?

R: Il 31 gennaio, il giorno di San Giovanni Bosco, me lo ricordo.

D: Il 31 gennaio del?

R: Del ’45, era il giorno di San Giovanni Bosco, perché io mi ricordavo le date, così, dicevo, guarda, oggi è San Giovanni Bosco che è il protettore degli studenti, anche dicevano allora, chissà che faccia cambiare le cose.
Le carceri sono crollate, io ho avuto la fortuna di salvarmi, perché a mezzogiorno, alle undici viene la carceriera e mi dice: “Noemi, metti su il cappotto che andiamo in un’altra cella” perché la cella dell’infermeria era grande come questa, e dice “è arrivato un altro convoglio” dice “è l’unico, ma alloggiano poco, poi verrai ancora qua” e dice, “se vuoi fare, anche a meno del paltò” dice “guarda, lascialo lì, che dopo torni, e solo una questione di poco” “va bene” io dico.
Allora io parto con lei, e questa signora, e andiamo giù alla cella proprio al piano terra, al numero 2. A mezzogiorno e mezzo viene il bombardamento, non ha colpito in pieno la cella dove ero io prima, dal terzo piano ci sono stati 35 morti.
Allora lì ci hanno portato alla caserma che, la chiamano la caserma Rommel, a Rovereto, ma non era, era lo stabile solo, non c’erano dentro i militari, e ci hanno fatto alloggiare là quella notte in mezzo alla paglia, nel tavolaccio, e lì per la prima volta ho visto la mamma e le sorelle e Walter. La scena che c’è stata, credo che abbiano pianto tutti, la mamma era irriconoscibile, Walter poi, l’espressione di Walter che aveva, una mandibola di qua, un orecchio mezzo staccato, la barba lunga, ecco lì, ed il giorno dopo invece siamo partiti per Bolzano.

D: Anche due zii erano lì?

R: Anche il fratello e la sorella della mamma, perché loro pensavano che il papà, quella sera che stava per rientrare a casa, quando hanno arrestato, Vallì e Adriana, papà stava per rientrare, ma qualcuno, uno della Polizia Trentina poi deve essere stato, dice: “Valentino, non entri che c’è la Polizia” lui non è entrato, è andato per il paese, è scappato. Loro pensavano che i parenti, giustamente, avessero dato ospitalità al papà o anche a Walter, che c’era anche Walter in casa quella sera.
Quindi loro per rappresaglia hanno arrestato anche il fratello, ed è stata una sofferenza per lui ma anche per la mamma, e non diciamo di Walter, la sua serietà dopo, dice, ” Ma cosa ho fatto io”, dice “per la mia famiglia?” viene … anche questo, di dire.

D: Noemi, complessivamente, ti hanno interrogata quante volte?

R: Guarda…

D: A Rovereto?

R: A Rovereto, saranno state tre o quattro volte, non di più, dopo hanno messo, unite la mamma e le sorelle, e sono cessati gli interrogatori, anche per Vallì, anche per me, per tutti, perché? Ci siamo detti: “Ma, chissà?” avevano arrestato mio fratello, quindi il capitolo era chiuso con noi.

D: Quando è successo questo arresto?

R: Sa che lì, guarda, a casa…

D: Circa?

R: Circa, è stato qualche giorno prima di Natale, vorrei dire che fosse stato il 16, a casa ce l’ho, un 16 o un 17, prima di Natale, perché l’interrogatori erano cessati in quel periodo lì, la Vallì ne ha avuti molti di più interrogatori, io ne ho avuti meno, ma adesso non so, però hanno cessato quasi contemporaneamente, diciamo, quando hanno arrestato lui, hanno finito con noi.

D: Praticamente era dai primi di febbraio…

R: Al 2 febbraio, siamo entrati ai Lager.

D: Ma come siete arrivati da Rovereto?

R: Da Rovereto, ci hanno caricati la mattina, due per due.

D: Due per due, cosa vuol dire?

R: Due vicine, dovevamo fare le scale, ma prima di passare le scale, perché era questa caserma, questo casermone era rialzato, dovevamo scendere le scale, prima di scendere le scale una per una dovevamo mettere le mani dietro e proprio con dello spago stringevano i polsi, in una maniera, e giù. Quando siamo scesi vediamo che Walter e altri tre, anche l’ingegnere Busnelli e un altro, tre mi pare che fossero non sono con noi, non li avevano chiamati. A noi ci hanno caricato su un camion e già eravamo così stipati col telo giù.
Mi ricordo che siamo arrivati verso sera a Bolzano, non finiva più questa strada, la strada tutta buche dai bombardamenti, ed è stato una sofferenza anche il viaggio, perché io mi ricordo che avevo vicino a me Padre Maurizio che era il Cappellano del carcere, era tutto fasciato in testa dalle botte e anche dal bombardamento. Ad un certo momento è crollato, era proprio davanti a me, così in piedi, è andato giù ed è venuto la SS, quattro ne avevamo, ai lati del camion, e l’ha preso, così per la testa, con le fasce e l’ha alzato, e io l’ho sentito che ha detto: “Oddio ma questo è troppo”.
Con queste mani legate è impossibile fare movimenti, ti devi spostare con le spalle, io mi ricordo che cercavo di tenerlo su questo uomo. Ad un certo momento, perché avevano anche le pile che ci guardavano, ogni tanto, questi quattro. Un momento che non ci hanno guardati, dico: “Padre Maurizio, tiri più su le mani” essendo piccolina io magari, con i denti, dopo tanto sono riuscita a tagliarli lo spago “li tenga davanti” dico, e lui mi ricordo, che mi ha stretto la mano. Poi era venuto anche ospite a casa nostra, dopo finita…
E dico quel Padre, sentirlo dire “Ma Dio questo è troppo” mi ha fatto impressione, insomma, quando sono arrivati al campo, a me pareva di essere arrivati in manicomio, perché le torrette accese, quei fanali quando arrivava qualche convoglio, e quindi tutte le ombre parevano gigantesche, non so, vedevo deformato. Poi una porta di una baracca, che non sapevo che erano baracche, ma che si aprivano e mettevano fuori le teste “Oddio” dico, ” ma qui è un manicomio” e lì siamo state tante ore in piedi per l’immatricolazione, e dopo l’immatricolazione…

D: Come é avvenuta l’immatricolazione, cosa facevano?

R: Lì, a destra c’era, non era come l’abbiamo vista ieri, il campo, io sono stata sconvolta ieri. C’era il cancello qui, ma prima del cancello c’era un piccolo fabbricato, una casetta in muratura, e lì c’era dove venivano scritti tutti i deportati che entravano.

D: Prima di entrare dentro il campo?

R: Prima di entrare nel campo, era subito a destra, lì c’era questo ufficio immatricolazione e lì ti prendevano il nome e cognome e ti davano un triangolo col numero, e qui il tuo nome andava perso, diventavi un numero.

D: Triangolo di che colore?

R: Rosso che era politico. Perché io avevo fatto…

D: Numero?

R: 9155, io sono abituata a dire 9155. Diciamo che ha fatto un po’ ridere anche il discorso del mio triangolo rosso… ridere, parliamo di alcune persone che hanno voluto sentire “Ma cosa ci fai dentro tu deportata politica” e dico “sono, sono la sorella di un delinquente partigiano, dico” “allora portalo come onore”. Tipo Professor Meneghetti questo, ecco allora portalo con onore, no, difatti parla, io parlavo con Mario, che è il nostro presidente, e diceva di preciso non lo sappiamo, ma credo che tu sia l’unica, la più giovane deportata politica, parliamo, perché d’ebrei ce n’erano in Italia, dice almeno nell’aria di Bolzano.

D: In che blocco siete andati?

R: In blocco A e F, F lì, blocco donne, che poi di là, subito c’era il blocco E, di quelli pericolosi, che non li lasciavano uscire.

D: Quindi eri con le tue, la tua mamma e sorelle?

R: Ero con la mamma e le sorelle, sì.
Un altro particolare che vorrei dire dopo essere immatricolata, ci hanno mandato alle docce, io ritorno mi scusi se io mi riprendo, dopo taglia caso mai, la doccia, io non avevo mai visto la mamma nuda. Adesso ritorniamo indietro coi tempi, c’era quel pudore, quel modo, e mi ricordo la mamma che io l’ho guardata così, e dico: “Oddio che bella questa doccia, questo caldo” io dicevo, e la mamma mi guardava e si faceva così con le mani, quel gesto come di pudore, di nascondere, lì ci hanno dato la tuta, a me non ne hanno trovato una che andasse bene, allora mi hanno dato una camicia nera.

D: I vostri vestiti?

R: Li abbiamo lasciati la, che sono andati alla disinfezione, quindi non l’abbiamo più trovati, solo le scarpe ho trovato, e lì siamo andati ai blocchi.

D: Ci descrivi il tuo vestito?

R: Il mio vestito, il primo, io ho portato per venti giorni, questa camicia nera, proprio una camicia nera, come usavano i fascisti, col polsino, il colletto, i bottoni e fatta un po’ rotonda proprio gli spacchi, invece che gli spacchi era fatta come si fanno nelle camice che si fanno al giorno d’oggi, a me arrivava a metà gamba.

D: Poi cosa avevi?

R: Non avevo niente sotto.

D: Era febbraio!

R: Era febbraio, ma non avevo niente, avevo solo le scarpe mie, che mi ricordo, erano un paio di mocassini, fatte a mano, belle pesanti.
Poi hanno recuperato una tuta, piccola dicevano loro, ma io la giravo in su parecchie volte, lo stesso qua, consisteva di iuta grossolana diciamo, ecco, non so, fatta di canapa, color giallino, con una croce sulla schiena con un altro segno sulle ginocchia, ed il triangolo che bisognava portarlo qua.
Anche la storia del triangolo, sembra facile dirlo, ma bisognava attaccarlo, con che cosa? Non c’era né filo né ago, bisognava farlo, e con che?
Gli uomini dei blocchi di là, che stando dentro tutto il giorno, avevano imparato anche qualche cosa, avevano costruito un ago di legno, fine, fine, e così con dei capelli, mi ricordo, coi capelli delle mie trecce mi hanno cucito il mio triangolo.
Altrimenti erano botte, se non avevi il triangolo.

D: Ci parli delle condizioni sanitarie all’interno del campo?

R: Non sarebbero neanche da dire, non esistevano.

D: Il gabinetto, la latrina, la doccia?

R: La latrina c’era, doccia no, c’era un lavello lungo tipo abbeveratoio per i cavalli, usciva, non è che mancasse l’acqua però, l’acqua c’era, pochina ma c’era questo filetto d’acqua che veniva fuori, scorreva via e andava giù nella latrina, che di là c’era la latrina quindi portava anche via.
Non avevi un asciugamano, non avevi niente, né un sapone, né un pezzo di straccio da asciugarti.

D: La latrina com’era?

R: Era un fossato, e ti appoggiavi sopra, stare attenta di non cadere, e l’acqua dal lavello passava, qui c’era l’acqua che veniva fuori e di qui c’era la latrina, quindi l’acqua passava dalla latrina e portava via, diciamo.

D: Quindi era a cielo aperto?

R: A cielo aperto.

D: Non avevate una tettoia?

R: No, era nella tettoia, ma era, diciamo verso il muro, qui c’era il blocco e di là c’era questa porticina e c’era questo, diciamo, questo lavatoio, e ti lavavi così.

D: E pulirsi.

R: È stato il disagio più grosso che io abbia avvertito oltre la fame, che poi la fame, guardi, non è vero che… non la sentivi più, era diventata talmente, sentivo gli odori, ma proprio, l’acqua in bocca, dicevo, Dio che fame, che sfinimento. Se però, il discorso fra lavarsi e pulirsi io ne ho sofferto molto per la pulizia, qualcosa di atroce. Ma ci pensi Carla, non avere un pezzo di carta da pulirti.
Che poi sono stata fortunata ad avere la tuta, che almeno non avevo più tutto quel freddo, perché la camicia, ho trovato un pezzo di… qualcuna mi ha dato uno spago, qualcosa da legarla, perché era larga la camicia, e mi passava su l’aria, un freddo, ma non ho mai avuto niente, però, sono sempre stata bene.

D: Ascolta, parlavi del Professor Meneghetti?

R: Sì.

D: Chi era?

R: Era il Rettore dell’Università di Padova, io l’ho conosciuto, intanto è entrato molto tardi al campo, è entrato verso la fine di marzo.

D: Deportato anche lui?

R: Deportato, era alle celle, quelli delle celle, uscivano un’ora al giorno a prendere l’aria, e dovevano camminare in circolo di fronte alle celle, dove ci siamo fermate proprio ieri, che ho detto almeno qui…
Noi entrando da lavoro si faceva il giro del campo così, si passava davanti a loro per venire su, ed andare nel blocco di qua.
Lì ho visto un giorno questo signore, era mastodontico, una persona che guardarlo ti metteva rispetto, capelli bianchi, questo pizzo, e lui mi fa: “Cosa fai, tu col triangolo rosso” e dico, avevo anche paura a parlare, perché di là c’erano i due ucraini sugli scalini delle celle, nell’entrata delle celle, e dico: ” Sono qua, perché sono la sorella di un Comandante partigiano” dico, ” ma allora lo porti come onore”. Il giorno dopo tornando verso le sette di sera, lo stesso ” Ma studiavi?”, ” Sì” “ho studiato tanto anche io sai” mi fa lui, “cosa facevi?” “la terza media” “e adesso?”, “adesso piango” dico, perché, ho la mamma…”
Una parola oggi, due domani e tre domani, una sera mi vede che torno piangendo “Cos’è successo?”, ma sempre adagio, dico: “E’ scappato uno che era con noi”, dico, “e l’hanno ucciso” era che lavorava nel magazzino d’armi, ha tentato, diciamo, di fare il guado di andare di là, ma i cani l’hanno preso, e gli hanno sparato, e l’hanno ucciso, e dico, “è sempre un compagno, nostro”, e dice, ” non lasciarti abbattere, sai, non dargliela vinta, conosci la chimica?” “non so neanche cosa sia” dico, “le formule chimiche?” ” no” allora lui mi fa: “sai che cos’è il rame?” “il rame? Sì” “ecco come quelle leghe là, allora domani io tè né do tre da studiare, quattro da studiare a memoria, così tieni la mente” “mica ho voglia” dico, “ho altro da pensare, adesso, il mio compagno che è morto, la mamma” dico, “no, ce la devi fare” e con quella, devi fare, mi ha portato tutte le formule di chimica, e ogni giorno mi interrogava, come si chiama, lo zinco, la formula, la formula, dopo visto, “Va bene, ti porteranno via tutto”, questo era già passato quindici giorni lì, “ma la tua mente, no, il tuo sapere non lo devi, non devi dargliela vinta” e quello mi ha rincuorato, altroché, ma insomma c’è gente che ancora.
Poi gli ultimi giorni, tanto la sorveglianza, e andata scemando un po’, non c’erano più, prima cosa, che non abbiamo più visto le guardie nelle torrette.

D: Quante torrette c’erano?

R: Quattro, quattro, che poi fossero illuminate tutte e quattro, no, e sempre, qualche volta c’era questa, quella, che incrociavano le luci così, ma c’erano quattro.
Mi ricordo, che verso la fine, mancavano otto giorni, ormai, che mi ha preso in braccio, e dice: ” Ma, sei la mascotte del campo, sei stata meravigliosa” ” Ah, meravigliosa” dico ” è passato” e adesso dice ” adesso ricostruiremo” mi fa.

D: Noemi, facevi un accenno al lavoro, che lavoro, dove lavoravi?

R: Dunque, il primo periodo, il primo mese, sono andata insieme a mia sorella Vallì, alle caserme di Gries, e là…

D: A fare cosa?

R: Là facevamo, le stanze degli ufficiali, e poi, naturalmente se avanzava tempo, perché eravamo in quattro, andavamo in cucina a sbucciare le patate, o quello, a dare una mano alle cuoche, e poi c’erano le scarpe da pulire di questi ufficiali, si lavorava. Poi nel pomeriggio, si lavorava lo stesso allora in cucina per preparare per la sera, quello l’abbiamo fatto per un mese.
Dopo invece, hanno detto basta, anche perché è successo che noi abbiamo visto un movimento molto particolare alle caserme, continuavano ad arrivare militari, militari, militari, era diventato veramente, non più quattro caserme, non potevano starci dentro anche dieci, per dire, nel movimento, non lo so, non ci avevano fatto più andare. Allora ci hanno portato, noi quattro con altri sei uomini, o sette, vedendo il campo così sulla sinistra, c’erano due capannoni e lì c’era un capannone dove c’erano delle armi che ritornavano dal fronte dove bisognava oliarle, oppure non so, sistemarle, quello che si poteva toglierli la ruggine, e lì abbiamo fatto questo lavoro, fino alla fine, praticamente, cioè fino agli ultimi giorni, della liberazione.
Lì, ci siamo anche divertite, se si può dire divertiti perché gli uomini ci dicevano: “Portiamo dentro qualcosa, tu piccola, guarda che non ti fanno la…” la palpa, la chiamavano, in dialetto, proprio così, una volta sotto le ascelle, una volta, ero riuscita anche a trovare un paio di mutande, allora dentro su le mutande, i pantaloni, una lima, un pezzo di ferro, dice: “Ma perché dobbiamo portare dentro” dice “se fanno l’altro trasporto, tutto serve, per quelli che vanno” e lì abbiamo portato dentro parecchio, parecchio, quello che si poteva ma insomma. Poi hanno fatto la spedizione al 25 febbraio, ma che dopo sono ritornati al campo perché era impossibile nei collegamenti, cioè, dalle strade, dalle ferrovie che era impossibile.

D: Noemi, in quanti eravate ad andare a lavorare in questo capannone?

R: In questo, eravamo, quattro donne e sei o sette ragazzi.

D: Tutti i giorni uscivate?

R: Uscivamo ogni mattina, tornavamo la sera, però, come ti dicevo, era proprio vicino al campo, lì noi. Però quel giorno che è scappato questo ragazzo, che poi l’hanno ripescato e l’hanno rilasciato due giorni in mezzo ai campi perché ognuno lo potesse vedere, perché non potevi girare la testa dall’altra parte, eri obbligata a guardarlo.

D: Era lì?

R: Era lì in mezzo al campo.

D: Ucciso?

R: Ucciso, tutto bagnato, con quel freddo, cosa hanno fatto: noi della squadra ci hanno puniti due giorni senza pasto, e la mamma era abituata alla sera, perché noi che andavamo a lavorare ci davano una pagnotta in più, e la sera era abituata che gliela portavo. Guarda, viene da piangere, tre mesi di campo, tre mesi di pagnotta, non né ho mai mangiata una sai, te lo giuro, io non l’ho mai mangiata, la portavo alla mamma e la divideva con la zia, e dico, cosa dico alla mamma questa sera che non ho la pagnotta da darle, e qualche volta invece di portarla intera alla mamma, gli e ne davo metà e qualcuna ne davo a qualcun altro. La mamma fa: “hai il pane Noemi?” “No mamma, oggi non c’e l’hanno dato, sai a nessuna”, “non importa”.
Due giorni, freddo che fosse, guarda, perché era una brodaglia però era qualcosa di caldo a me dava sostegno, tant’è vero che dopo il terzo giorno che ci hanno dato il pane, la minestra, sai che ho vomitato, scusa il termine, io ho vomitato il primo boccone di pane, non mi andava giù, per dire la fame, per dire tutto il resto.

D: Noemi, invece le caserme a cui accennavi prima erano verso la montagna?

R: Sì, sì, proprio, tanto che noi si lavorava, terzo o quarto piano, adesso non so quanto alte fossero, avevano fatto una passerella in legno, un ponticello in legno, che andava dentro la montagna e c’era una galleria che era tipo un rifugio, avevano portato dentro anche l’infermeria, loro.

D: Sai, se avevano un nome queste caserme? Ti ricordi un nome?

R: No, io mi ricordo le caserme di Gries, era un quadrato di caserme, ricordo il cancello, che si entrava, attraversavo tutto, poi andavo su questa così di sinistra, e sopra avevano fatto questo ponte di legno, che guardare in giù dava anche un po’ una vertigine, e dentro allora, dentro abbiamo visto che c’erano i militari, ma c’erano i letti con le lenzuola bianche dei militari che erano feriti, noi invece guardati a vista sempre dalla Wehrmacht, deve essere stato lì, sempre all’inizio della galleria proprio l’imbocco, dove vedevamo gli aerei che sganciavano e viceversa.
Invece, che fosse quanto lunga non lo so, perché noi siamo andati fino lì, c’e ne erano due, dicevano che dopo faceva anche una curva, che andava di là.

D: Come ci andavate dal campo a lì?

R: A piedi, ogni mattina.

D: È ben lontano?

R: Sì.

D: Ricevevate da mangiare lì?

R: Sì, noi sì, e là ti dirò che mangiavo anche benino quella zuppa, perché non facevano… erano le cuoche, erano tedesche, non so, ma non facevano differenza per noi, prigionieri o loro.

D: Chi vi accompagnava tutte le mattine?

R: Veniva a prenderci uno della Wehrmacht, un soldato, non era sempre quello, più o meno sì, è stato anche quello. Qualche volta è venuto, una volta, lo chiamavamo Billy, uno piccolo, portava il fucile 91, che era grande, lungo il 91. “Oh”, dico “sotto il 91 c’è Billy”, ormai lo prendevamo anche così, e lui uscendo dal campo fa: ” Questa strada” e c’indica lì, e noi avevamo una voglia di vedere il centro, cos’era, “Sì, sì” abbiamo detto, allora abbiamo fatto Via Torino, e la gente, mi ricordo, era l’ora delle sette, sette e mezza, andavano a fare la spesa, non so, ci sono state parecchie persone che ci hanno dato delle mele, qualcuna anche il pane, in Piazza Vittoria c’era una che ci ha detto: “Puttane”, ecco.
Poi non lo so per strade, che strade abbiamo fatto, siamo arrivati al Gries e ne abbiamo sentite di tutti i colori, basta dirti l’incoscienza, di fare una roba, scusa, una cosa di quel genere, arrivare là alle nove le dieci che fosse, potevano pensare che fosse successo qualcosa, ma non ci si pensava sai, non è che, dicevo anche ieri con Vallì, non è che io avessi avuto, neanche paura di morire sai, cioè, forse era anche l’età, l’incoscienza, io avevo più paura per la mamma.

D: Noemi, la liberazione?

R: La liberazione, l’avevamo già sentita tre o quattro giorni prima nell’aria, qui guarda, c’era Radio Campo, il Professor Ferrari che era il capo campo dell’infermeria, il Professor Meneghetti, che ci avevano già detto, sono qua, sono alle porte, ormai ci sono, va tutto bene?
Tutti erano contenti, e mi fa il Professor Meneghetti: “Cos’hai?” “Non provo niente” ho visto gente felice che si abbracciavano, anche le mie sorelle, guarda, mi viene ancora la pelle d’oca, ti direi una bugia se ti dico che ho provato qualcosa. Io ero svuotata, guarda, nonostante l’aiuto che mi ha dato psicologico, il Professor Meneghetti, sentivo che andavo proprio calando non mi interessava più di niente, per dirti che non ho provato niente, ci avessero detto, ma guarda arrivano domani, sono arrivati oggi, oppure arrivano, va bene.

D: Quanto ti è durato, diciamo questo disinteresse, questo allontanamento?

R: Fino a quando non sono tornata a casa, che non è tornato mio fratello.

D: Da dove?

R: Da Dachau

Signorelli Angelo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Angelo iniziamo?

R: Va bene iniziamo.

D: Ascolta una cosa, tu quando avevi sedici o diciassette anni lavoravi alla Falck a Sesto, in quale Falck?

R: Falck Unione.

D: E lì che cosa è successo?

R: Lì è successo che dopo i fatti del ’43, dell’8 settembre, e poi ancora l’avvento della Repubblica Sociale diciamo così e allora è successo che le condizioni degli operai peggioravano continuamente, i ritmi di lavoro sempre più … e poco cibo, perché c’erano le tessere così, malcontento e poi una grande voglia di far finire la guerra.
L’importante era questo. Specialmente per noi giovani, e così quando si è incominciato a sentire che organizzavano questi scioperi noi giovani eravamo un po’ entusiasti di partecipare a questi scioperi.
Infatti nel mese di marzo ci sono stati questi grandi scioperi che noi, almeno io, ho partecipato e anche tutti i giovani lo devo dire hanno partecipato con entusiasmo.

D: Scioperi del marzo di che anno?

R: ’44. Marzo del ’44. Scioperi che sono durati tutta una settimana. Perché gli scioperi erano partiti così come si sentiva, dicevano che erano scioperi più che altro per dare un colpo per fare finire la guerra. Poi dovevano durare un giorno o due, poi invece sono durati tutta settimana perché anche i fascisti…
Io parlo dell’Unione lì a Sesto davanti alle portineria avevano piazzato tutti questi fascisti con fucili, mitragliatrici e mitra, e così hanno impaurito di più la gente e la gente si è allontanata dalle fabbriche e nessuno entrava. Comunque lo sciopero è stato si può dire totale, però subito questi scioperi pochi giorni dopo è scattata questa rappresaglia. Io ero giovane, avevo diciassette anni.
La notte dell’11 marzo, pochi giorni dopo lo sciopero, perché lo sciopero è finito verso il 6 o 7 marzo o che, era un sabato sera. Quella notte lì alle due di notte sentiamo mia madre che dice “Ma chi siete, cosa volete?”. Avevano piegato la porta, erano i fascisti e avevano il nome mio e quello di mio fratello, Signorelli Angelo e Signorelli Giuseppe e volevano portarci in caserma per interrogarci e tutte quelle cose lì.
Mia madre, anche i miei genitori si sono opposti ma non c’era niente da fare. Loro sono entrati in casa a malo modo. Come siamo scesi dal letto ci hanno puntato contro i mitra, hanno guardato se avevamo delle armi. Poi abbiamo dovuto seguirli, non sono valse né le resistenze né le lacrime dei miei genitori. Non è valso nulla.
Questo è stato un rastrellamento che nelle zone industriali di Monza, di Sesto e Milano in quella notte lì avevano arrestati tantissimi operai che avevano partecipato a questi scioperi.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Era l’11 marzo. La notte dell’11 marzo del ’44.

D: Ecco, quindi tu abitavi a Monza?

R: Abitavo a Monza in via S. Rocco, allora era via S. Alessandro. Poi ci hanno portato in caserma a Monza in via Volturno in caserma dei carabinieri.
Poi ecco, in casa mia sono venuti sette fascisti in borghese e ce n’era uno vestito da carabiniere. Loro hanno detto “Non è niente, dovete seguirci, domani mattina ritornerete a casa”, invece sono tutte le storie che dicono poi a casa non si ritornava più.

D: E ti hanno portato nella caserma dei carabinieri di Monza?

R: Sì.

D: Lì hai trovato altri operai?

R: Sì, altri operai perché in tutti i quartieri o rioni di Monza c’erano in giro queste squadre. Poi si è saputo che erano tutte della polizia segreta che aveva sede a Verona.
C’erano tutte queste squadre, ogni tanto arrivava una squadra di queste con cinque sei o sette persone arrestate quella notte. Difatti noi del gruppo lì di Monza quella notte lì saremmo stati circa una ventina o forse anche di più.
Poi ci hanno messo tutti in una prigione sotto, resta proprio sotto il manto stradale diciamo, sotto che guardando dalla via Volturno si vedono dei finestrini così piccoli. E lì siamo stati fino alla mattina.

D: Interrogatori non te ne hanno fatti?

R: No, lì niente. Lì alla mattina poi è venuto un pullman, ci hanno messo su e ci hanno portato a Milano.

D: A Milano dove?

R: In questura a Milano in via Fatebenefratelli, alla Prefettura di Milano. E lì ci hanno messo su tutti. Loro si sono seduti in mezzo tra di noi in borghese, avevano le pistole in mano hanno detto di non tentare, di non tentare la fuga perché loro avevano l’ordine di sparare. Poi, eravamo chiusi dentro in questo pullman, non si poteva fare niente.
Ci hanno portato lì a Milano. Lì c’erano altri……. Abbiamo trovato altri operai o tecnici che avevano arrestato quella notte lì di Sesto, di Milano, di Cologno dei paesi dintorni.

D: Di quelli di Monza ti ricordi qualche nome?

R: Sì, mi ricordo quasi tutti diciamo quelli di Monza. Ero io, mio fratello poi dei sopravvissuti c’era Muretti che poi è morto qualche anno dopo perché era molto conciato anche lui. C’era Galimberti Ettore, c’era Sperandio Giovanni, Terzi Alvaro, quelli di Monza perché erano pochi.
Siamo stati portati via in tanti ma siamo ritornati in pochi.

D: Sperandio Giovanni lavorava con te alla Falck?

R: All’Unione, sì.

D: All’Unione?

R: All’Unione. Invece mio fratello e Muretti lavoravano al Concordia. E invece Galimberti Ettore lavorava al Vittoria e insomma ne avevano presi un po’ da tutti gli stabilimenti diciamo.

D: E lì a Milano allora in Prefettura?

R: Sì la Prefettura lì.

D: Ne hanno trovati degli altri?

R: Sì altri di Sesto, tutti operai. Sesto, Milano e dei dintorni lì insomma. Gente che aveva fatto questi scioperi.

D: Lì vi hanno interrogato?

R: Ma lì, più che interrogatorio è stato… ci hanno letto il nostro, il nostro, l’accusa che avevano contro di noi.
L’accusa era: organizzatori e istigatori degli scioperi, atti di sabotaggio contro l’esercito tedesco e la Repubblica Fascista.
Questa era l’accusa. Ce l’hanno letta però noi non abbiamo detto né si né no. Non ci hanno fatto firmare niente. Questo era l’atto d’accusa. Poi il pomeriggio ci hanno portato a San Vittore.

D: Ecco, gli interrogatori chi è che te li ha fatti? I fascisti o i carabinieri?

R: Ma, erano forse dei magistrati, non so, perché erano in borghese. Lì in Prefettura non so chi erano quelle persone.

D: Non erano tedeschi?

R: No, no sempre italiani. Sempre italiani.

D: Poi ti hanno portato a San Vittore.

R: Sì.

D: Ti ricordi il raggio?

R: Beh il raggio, era un raggio dove c’erano tutti i politici. Adesso, il nome, il numero del raggio poi… Sono stato lì pochi giorni, sono stato lì 2 giorni io a San Vittore. Non ho avuto modo neanche di inquadrarmi bene. Io mi ricordo benissimo San Vittore quando ci hanno messo in questo raggio.
Quando ci hanno chiuso in queste prigioni. Quando, perché ci hanno messi una ventina o 17 o 18 per prigione eravamo. Ci hanno chiusi dentro lì e lì abbiamo trovato nella cella che ero io, trovato 2 o 3 operai della Caproni che erano già lì da qualche giorno. E questi qui della Caproni avevano subito un interrogatorio dai tedeschi ed erano stati anche picchiati. Anzi, c’era uno della Caproni che diceva che l’hanno picchiato così forte e quando lo raccontava piangeva. Ecco.
Niente noi in quelle condizioni lì siamo stati due giorni a San Vittore. La cosa che mi ha impressionato è stato quando mi hanno chiuso in questa cella con quei catenacci con tante mandate e mi sentivo molto molto demoralizzato diciamo perché ero giovane un po’ inesperto di queste cose e niente.
Ecco io dopo il secondo giorno che ero dentro a San Vittore è successo quel fatto che sono venuti quei due ispettori. Eravamo lì nella cella, una sera del secondo giorno sono entrati questi due ispettori. Io ero lì seduto proprio vicino alla porta, perché di letti a castello non ce n’erano, lì c’era un po’ di paglia, si dormiva lì. In un angolo c’era una specie di secchio per i nostri servizi. Ero lì seduto, sono venuti questi due ispettori; uno dei due mi guarda in faccia e mi dice: “Ma te che hai la faccia così da giovane, quanti anni hai?” E io gli ho detto: “17 anni”. Allora rivolto all’altro gli dice: “Guarda che qui c’è un minorenne, bisogna provvedere”. L’altro ha risposto così con arroganza dicendo: “Ma che minorenne e non minorenne; sono tutti lo stesso. Faranno tutti la stessa fine”. Ecco, io l’ho guardato negli occhi.
Quegli occhi non li ho mai perdonati nella mia vita, nei miei periodi di maggior sofferenza. Così quando mi ricordavo di questa persona lo ritenevo responsabile di tutte le mie sofferenze. Io l’ho sempre maledetto. Non lo perdonerò mai perché ha dimostrato di essere un uomo bestiale, non di essere una persona umana.

D: Questi ispettori erano italiani?

R: Sì, erano italiani, italiani.

D: Italiani. Ecco, dopo i 2 o 3 giorni che sei rimasto a San Vittore cos’è successo?

R: Ecco, dopo la sera del secondo giorno ecco, dopo, più tardi da quando erano venuti gli ispettori ci hanno cambiato raggio quella sera lì e ci hanno mandato in un altro raggio. E lì, non si sa poi perché ci hanno mandato in quel posto lì perché poi alla sera più tardi ancora verso le 10 è venuto l’ordine di partenza.
Ecco, io dico una cosa sola, che i nostri fascisti che sono venuti in casa ad arrestarci, poi, ci hanno portato a San Vittore e poi ci hanno mandato in quell’altro raggio, ecco, lì senza nessuna contropartita ci hanno venduto ai tedeschi.
Io dico queste persone che avevano la pretesa di comandare la propria nazione come potevano dare ai cittadini, anche se sono colpevoli di qualche cosa così, di dargliene in mano a degli stranieri. Oggi pretendono ancora di governare diciamo. Sono cose assurde.

D: E lì, il viaggio, siete partiti per dove?

R: Sì per Bergamo. Poi quando siamo andati lì c’era un camion e dovevamo, in quei camion lì dovevamo andar su. Erano quei camion militari con dei tendoni sopra, noi siamo entrati lì e non ci stavamo tutti ma forse con i calci dei moschetti ci hanno fatto stare tutti.
Poi, ci hanno tirato giù i tendoni e dentro si faceva perfino fatica a respirare, perché si fa presto a dirlo, ma essere chiusi.
Almeno noi eravamo in un camion solo ed eravamo forse un centinaio tra quelli di Sesto, di Monza, di Milano e paesi dintorni. E lì ci siamo stati tutti.
Io mi ricordo che si faceva fatica a respirare. Io piano piano con l’unghia sono riuscito a tagliare un po’ questo tendone ed entrava un filo d’aria. Altrimenti era una cosa incredibile.

D: Nessuno di voi però sapeva dove andavate?

R: No. Non si sapeva niente, non ci hanno detto niente. Anzi tra di noi ogni tanto qualcuno diceva: “Ci porteranno in qualche posto o ci fucileranno tutti”. Quando poi siamo in tanti c’è sempre qualcuno che pensa sempre. Ognuno dice la sua diciamo.
Dopo un paio d’ore di questo viaggio, perché non è che il camion…… e poi scortati da camionette di fascisti che erano davanti e dietro il camion. Poi siamo arrivati li all’uscita di Bergamo, nella città di Bergamo perché abbiamo fatto questo tragitto sull’autostrada.
Poi siamo entrati in Bergamo. Poi ci hanno fatto scendere. Ecco, quando ci hanno fatto scendere è stato un ritornare ancora a vivere perché su c’erano già tante persone che stavano male. Si sentiva l’aria pura della notte così si respirava a pieni polmoni. Ecco, questa è stata una bella cosa diciamo.

D: Ecco Angelo, eravate solamente uomini o c’erano anche donne?

R: No, lì erano tutti uomini. Tutti uomini, sì. Poi ci hanno incolonnato tutti in cinque, tutta una lunga colonna e siamo partiti. L’ora sarà stata verso le undici, undici e mezza di notte. Non c’era in giro nessuno perché c’era il coprifuoco.
Qualcuno che guardava fuori, perché la gente magari, quelli che sentivano qua i rumori perché loro urlavano per tenerci inquadrati. Poi se uno non stava bene inquadrato lo picchiavano così, insomma.
Ci hanno portato ad una caserma dei carabinieri, non so se è una caserma dei carabinieri. Lì non ci hanno accettato, forse hanno sbagliato il posto di portarci, poi alla fine ci hanno portato in quella famosa caserma. Era la caserma Umberto I mi pare. Che era una caserma di cavalleria dell’esercito. Lì siamo entrati, ecco.
Fino a lì ci hanno portato i fascisti, quando siamo entrati in questa caserma ci hanno dato in mano ai tedeschi. Però il primo ordine che hanno dato i tedeschi è stato: giù le mani. Perché loro ci hanno fatto fare tutto questo tragitto sempre con le mani in alto. Sempre camminando con le mani in alto. Una fatica anche a tenerle su e come uno abbassava le mani ci arrivava il calcio del moschetto sulle gambe o sulla schiena.
Quando siamo arrivati dentro lì, l’ufficiale tedesco ha dato l’ordine di abbassare le mani. E questo è stato perché si faceva fatica anche a tenerle su le mani, perché noi avevamo su anche i vestiti, io avevo il paltò perché era il mese di marzo e camminare con le mani in alto quasi tre quarti d’ora è dura eh.

D: Ascolta, e poi lì dove vi hanno messo?

R: Lì c’erano delle camerate, c’erano tantissimi altri prigionieri, persone che avevano arrestato, altri operai. Venivano da Torino, venivano dalla Liguria, venivano anche dalla Toscana, dalla zona di Lecco. Io ho trovato anche tanti di Lecco, che operai erano stati anche loro.
Tutta gente che avevano arrestato in quel periodo li degli scioperi. Li avevano portati lì. Lì hanno fatto il concentramento. Ma la prima cosa che mi ha impressionato quando sono entrato in quel posto lì era che tutte queste persone che era già da qualche giorno che erano lì tutti ci cercavano se avevamo qualcosa da mangiare.
Noi che venivamo da San Vittore, anzi, io a dir la verità, quella sera lì ci avevano dato da mangiare abbastanza bene, lì a San Vittore. Ci avevano dato gli spezzatini con le patate e un po’ di pagnotta e io avevo avanzato una pagnotta e l’avevo lì, e questa pagnotta quando questi prigionieri me la cercavano io gliel’ho data. Io ormai quella sera lì avevo mangiato, non sapevo cosa poi mi aspettava gli altri giorni.
Gliel’ho data e per mia meraviglia ho visto che questa pagnotta se la sono divisa forse una decina di persone e anche più. Un pezzettino per uno. Questa cosa mi ha molto impressionato perché è una cosa che non avevo mai visto. Poi ci hanno dato un posto anche a noi. Lì c’era giù un po’ di paglia un po’ dappertutto e hanno trovato un posto perché questa caserma ormai era tutta piena, hanno trovato un posto vuoto e ci hanno messo là. Anche noi là, il nostro gruppo là.

D: E lì sei rimasto quanto tempo?

R: Quattro giorni.

D: Lì hai subito degli interrogatori?

R: No, niente. Niente interrogatori. Ormai la nostra sorte era decisa. A noi non ci ha interrogato più nessuno.

D: Voi però non sapevate nulla?

R: No, non sapevamo nulla. Poi ho visto il giorno dopo com’era il trattamento in quei posti lì.
Il cibo lo davano una volta a mezzogiorno, una fettina di pane, ma una fettina di pane, con un po’ di brodo e basta. Era il cibo di tutta la giornata. Va beh che se si era lì non si lavorava e tutto. Però la fame era molto forte. Dopo, quando avevo così tanta fame, perché sono stato quattro giorni, avevo una fame, sono stato pentito di aver dato via questa pagnotta. Però quella sera lì non avevo fame, diciamo.

D: L’hai distribuito agli altri?

R: Sì.

D: Ecco, e quindi in quella caserma lì chi comandava erano i tedeschi?

R: Tedeschi. Sì.

D: Ascolta, i tuoi genitori?

R: Sì, i miei genitori da quando ci avevano portato via loro si sono dati da fare per sapere dove ci avevano portato. Non solamente i miei ma anche i genitori di tutti gli altri.
E poi lì a San Rocco dove abitavo io c’era un cappellano militare e si era dato da fare anche lui. Livio Mandelli si chiamava. Si era dato da fare anche lui per sapere dove ci avevano portati. E finalmente quel giorno lì avevano saputo che eravamo a Bergamo.
Noi siamo partiti quel 17 marzo, siamo partiti da Bergamo. Quella mattina lì verso le undici, le dieci e mezza, le undici sono arrivati i miei genitori e tanti genitori, familiari di quelli di Monza.

D: Che tu però hai potuto solamente vederli da lontano?

R: No, no, no. Li hanno fatti entrare in caserma. Li hanno fatti entrare in caserma. Sono venuti su lì, abbiamo parlato assieme. Li c’erano gli ufficiali. Tanto è vero che io avevo in tasca i buoni della mensa e li ho dati a mio padre e l’ufficiale tedesco ha voluto sapere cos’erano. Ha chiamato lì un interprete per vedere cos’erano. Poi quando ha saputo che erano i buoni della mensa allora… Chissà che segreti pensava che fossero.
Poi è venuto l’ordine, ci hanno portato giù nel piazzale di questa caserma. Ci hanno inquadrati e allora i nostri genitori li hanno messi un po’ da parte. Li hanno fatti uscire dalla caserma e poi a noi ci hanno dato un po’ di pagnotte a testa e un po’ di Bologna. Hanno dato sette pagnotte a testa e una fetta di Bologna diciamo. Questo era il cibo che ci hanno dato per il nostro viaggio.
Noi non si sapeva. Hanno detto che si partiva ma non ci hanno detto dove si andava.
Ci hanno inquadrato tutti. Poi ci hanno incolonnati verso la stazione. Ecco, io mi ricorderò sempre bene questo tragitto perché sono successe delle cose molto anche…

D: A piedi l’hai fatto?

R: Sì, l’abbiamo fatto a piedi. C’era questo lungo tragitto. Il nostro convoglio sarà stato come minimo di settecento, ottocento persone. Di prigionieri arrestati.
Poi ci seguivano i nostri genitori. I miei genitori e anche gli altri ci hanno seguito fino alla stazione.
Poi c’erano questi fascisti che ci accompagnavano a piedi. E poi di altre camionette che facevano la spola avanti e indietro con le mitragliatrici puntate. Perché loro prima di partire hanno detto di non tentare la fuga perché loro avevano l’ordine di sparare.
Poi la cosa bella è stata la gente di Bergamo. Perché era un pomeriggio. Siam partiti un pomeriggio. Saranno state le tre, le tre e mezza, quell’orario lì. E la gente di Bergamo ha visto questa lunga fila di prigionieri.
Questa gente ha incominciato a guardare e poi si è avvicinata. Vedevano tutti tutto questo lungo corteo di gente che piangeva. Perché i nostri familiari che piangevano. “Chi siete? Cosa avete fatto?” “E noi siamo operai che abbiamo scioperato e adesso ci portano in Germania. Così… non si sa”.
Ecco, questa gente di Bergamo, tantissimi, hanno dimostrato una grande solidarietà verso di noi. Andavano in negozio a prendere qualche cosa, fiaschi di vino, qualche cosa così e ce li portavano.
Ecco, io vorrei raccontare un piccolo fatto così. Uno davanti, che si trovava davanti a me, è uscito un po’ dalla fila per prendere un fiasco di vino che ci ha dato quella gente lì. Poi stava ritornando in fila e un fascista l’ha buttato via. “Vai via”. Perché pensava che era uno di quelli che.. Perché c’era un po’ di confusione lì. Lui è stato lì, poi è filato e se n’è andato.
E ci è andata bene. Mio fratello ha tentato anche lui vedendo questo qui. Ha tentato di svignarsela e invece ha preso il calcio del fucile sulla schiena e l’hanno messo in coda. Anche lì bisogna avere un po’ di fortuna.
Ecco, c’era della grande confusione. Voi pensate. Noi, la lunga fila, questi fascisti che ci seguivano armati, queste camionette che facevano la spola avanti e indietro, tutti urlavano, bestemmiavano, tutti. E poi la gente di Bergamo. C’era una gran confusione. E qualcuno penso che oltre a quello forse qualcun altro sarà riuscito ad aver la fortuna di svignarsela.
Poi siamo arrivati alla stazione, ecco.. Alla stazione abbiamo salutato i nostri genitori perché loro in stazione non hanno potuto entrare. Abbiamo salutato i nostri genitori.
Io mentalmente ho ringraziato e salutato la gente di Bergamo perché questa solidarietà che ha dimostrato nei nostri confronti è stata molto importante. E io devo dire che nei momenti anche di sconforto quando mi ricordavo queste cose mi aiutava sempre di più a resistere. Perché la solidarietà in quei momenti lì è una cosa molto importante.

D: Ascolta. In questo trasporto qui, questa lunga colonna che tu dicevi di prigionieri che andava verso la stazione di Bergamo, c’erano anche delle donne con voi?

R: C’erano sette donne. Ecco, le hanno inquadrate per ultimo. Erano sette donne che venivano da Lecco. Lavoravano alla Bonaita mi pare o alla Badoni mi pare. Ma adesso non mi ricordo bene. Lavoravano in quella fabbrica lì. Hanno scioperato.
Erano sette donne che sono state prese anche loro. Poi dopo ho saputo che erano queste sette donne perché ho conosciuto anche i deportati uomini di Lecco. Però queste donne le hanno messe su un vagone da sole, mi pare. Perché, io le ho viste solamente quando le hanno accodate alla nostra lunga fila. Erano in ultimo.
A dir la verità in questa nostra fila cerano anche due vestiti da fascisti. Due giovani vestiti da fascisti. Non so chi erano. Non so cos’hanno fatto. E li hanno messi anche loro nel nostro convoglio e sono partiti anche loro due con noi. Vestiti da fascisti.

D: Arrivati alla stazione cosa c’era ad aspettarvi? Alla stazione di Bergamo.

R: Dentro nella stazione c’era questo lungo treno di vagoni bestiame. Fino all’esterno della stazione ci hanno accompagnato i nostri genitori e tantissime persone che ci hanno seguito. Poi queste non hanno potuto entrare. Noi siamo entrati in questa fila e una quarantina in ogni vagone. Ci mettevano in media quaranta ogni vagone e poi ci chiudevano questi vagoni e li piombavano. Erano carri bestiame chiusi.

D: Chiusi dall’esterno?

R: Chiusi dall’esterno.

D: Tu sei stato su assieme a tuo fratello?

R: Sì. Noi eravamo lì tutti assieme. Io, mio fratello e il gruppo di Monza. Poi avevo su qualcuno di Torino, qualcuno anche della Toscana avevo su, perché sono tutti dialetti che non avevo mai sentito parlare: il piemontese, il toscano.
Io ero giovane e non avevo mai girato in giro. Allora sentivo questi dialetti e mi piaceva un po’ sentirli, ecco, questi dialetti così.
Ecco io devo dire una cosa, che quando sono entrato sul vagone poi ci hanno chiusi dentro. Poi quando questo vagone è partito, come è partito il vagone io ho avuto una grande crisi di pianto. Ho incominciato a piangere. Forse è stato un bene. Mi sono sfogato di tutta la tensione che avevo accumulato in quei giorni diciamo così. Poi finalmente quando sono riuscito a calmarmi c’era mio fratello che è mi stato molto di conforto.
C’era Galimberti di Monza che era una persona un po’ legata alla Resistenza. Era sulla trentina. Era più esperto di noi. Aveva già fatto delle azioni di partigiano insomma. Ecco, anche Galimberti mi è stato di molto aiuto moralmente.
Tanto è vero che poi quando si andava sul treno Galimberti è stato quello che ha tentato di schiodare qualche tavola dal pavimento per tentare la fuga, ma noi non avevamo niente.
Se avevamo qualche cucchiaio, qualche coltellino, qualcosa, invece non avevamo niente. Avevamo solamente le nostre unghie. E’ stato impossibile.

D: Angelo, i vagoni piombati, quelli che dici tu e quelli per caricare il bestiame sono quelli senza finestre?

R: No, ci sono dei finestrini piccoli così. C’è un finestrino in alto. Aveva questo finestrino in alto.

D: E basta?

R: E basta.

D: E lì eravate in quaranta?

R: In quaranta. C’era un po’ di paglia. Poi noi ci siamo organizzati in questo modo: in un angolo in fondo abbiamo fatto come l’angolo per il gabinetto.
Ognuno di noi nei nostri pacchi che avevano portato i nostri genitori avevamo un po’ di carta per cercare poi di pulirci; quando c’era un po’ si buttava fuori dal finestrino. Ci siamo organizzati in questo modo.
Ecco, la cosa più brutta di questo viaggio è stata la sete, perché loro sì ci avevano dato da mangiare però su questi vagoni non c’era neanche una goccia d’acqua. Voi pensate: mettete quaranta persone in un vagone dove non c’è niente altro che paglia. Solamente i movimenti. C’è sempre quella polvere. Quella polvere lì ci viene sempre una grande sete.
Noi il primo giorno sul nostro vagone avevamo sette o otto fiaschi di vino che ci aveva donato la gente di Bergamo. Eravamo in quaranta persone ed è stato abbastanza per bere quel bicchiere o due di vino. Perché sette fiaschi, otto fiaschi di vino sono dodici litri di vino; perché un litro e mezzo erano questi fiaschi.
Il primo giorno è andato abbastanza bene. Ma il secondo giorno, io dico sinceramente che il secondo giorno non c’era più nessuno che mangiava per la gran sete che avevamo. Avevamo lì ancora delle pagnotte, avevamo il cibo che ci avevano portato i nostri genitori, però non si poteva più neanche mangiare dalla gran sete.

D: Il treno non si è mai fermato?

R: La prima fermata l’abbiamo fatta a Verona. Si è messo poi su un binario morto e lì siamo stati fermi diverse ore. Ed è lì dove Galimberti ha tentato di schiodare. Perché quando il treno si fermava quelli delle SS venivano giù dal treno perché sull’ultimo vagone c’erano su tutti i soldati delle SS.
Quando il treno si fermava loro venivano giù e facevano, camminavano avanti e indietro di guardia. Però se si riusciva a tirar su qualche cosa, qualche asse e calarsi giù si poteva riuscire perché in qualche vagone è riuscito qualcuno a fuggire.
Poi c’era anche la paura, perché loro prima di partire hanno detto che i vagoni che arriveranno dove qualcuno è fuggito gli altri saranno fucilati. E allora…
Ma noi, il nostro gruppo di Monza con Galimberti, quando qualcuno ha tentato di fare delle azioni, quando tentava di schiodare queste assi lui ha detto: “Voi non ci pensate che quando arriverete, che quelli che arrivano non gli fanno niente”.
E aveva ragione, perché in quei vagoni dove sono fuggiti non è successo niente. Perché in un paio di vagoni qualcuno è riuscito a filare.

D: Ascolta. Ecco. Dopo Verona? Via.

R: Via. Poi ci siamo fermati ancora in un altro posto. In un paesetto del friulano. Poi abbiamo fatto la linea Tarvisio non quella del Brennero.
Abbiamo fatto la linea Tarvisio perché mi ricordo che in stazione lì a Tarvisio ci siamo fermati proprio nella stazione. Era anche lì un pomeriggio e c’erano fermi dei treni.
E noi dal finestrino che si guardava fuori si cercava l’acqua, l’acqua, l’acqua. E c’è stato qualcuno che è riuscito ad andare a prendere qualche fiasco d’acqua. Però sul nostro vagone saranno arrivato forse un paio di fiaschi d’acqua. E’ stato abbastanza per bere quel bicchiere a testa. Ecco.

D: Quando vi fermavate non veniva aperto il vagone? Voi, tu non sei mai sceso dal treno?

R: Siamo scesi una volta in Austria.

D: Quindi dopo Tarvisio Austria.

R: Austria. Mi ricordo che era una notte, ci hanno fatto scendere, hanno aperto il vagone, ci hanno fatto scendere per fare i nostri bisogni. Ecco, in quell’occasione lì ci hanno dato anche un brodino caldo. Un brodino caldo ci hanno dato perché anche il freddo si è sofferto tanto in questo viaggio. Perché esser lì fermi, così, insomma.
Il freddo e la sete che abbiamo sofferto. Anche lì c’era tanta neve. Abbiamo mangiato un po’ di neve per dissetarci. Però ci hanno fatto scendere e più di quei tre o quattro passi lì in giro al vagone non si poteva andare perché c’erano tutti questi soldati con i mitra puntati. Lì penso che nessuno ce l’ha fatta a fuggire da quel posto lì. Poi ci hanno chiuso, è’ stata l’unica volta che ci hanno fatto scendere di notte.

D: Dopo quanti giorni?

R: Abbiamo fatto, senza contare il primo giorno, tre giorni e tre notti. Tre giorni e tre notti diciamo.

D: Alla fine del viaggio dov’è che sei arrivato?

R: Siamo arrivati a Mauthausen.

D: Ma voi non sapevate dove andavate?

R: No, ma no. Niente. Non si sapeva cos’era. Però c’è stato uno che quando siamo arrivati nella stazione di Mauthausen, quando siamo scesi lì, si è messo a piangere. Una persona anziana si è messa a piangere e ha detto che andiamo su a Mauthausen perché lui era già stato prigioniero nella guerra del 1915-1918 e diceva che stava male. Era un prigioniero militare della guerra 1915-1918. “E’ un brutto posto. Andiamo a stare male”. Questo non era vicino a me e l’ho sentito così, e non so neanche chi sia, ecco.

D: Quindi siete arrivati a Mauthausen.

R: Sì, siamo arrivati a Mauthausen il 20 marzo.

D: Sempre del ’44?

R: Del ’44.

D: E lì cos’è successo alla stazione?

R: Alla stazione, siamo usciti dalla stazione. La prima cosa che abbiamo fatto, abbiamo cercato di mangiare un po’ di neve per dissetarci un po’. Perché la sete ci ha accompagnato per questo viaggio sempre terribilmente.

D: Era giorno o notte quando sei arrivato?

R: Era pomeriggio. Sarà stato prima di sera perché là poi, in quella stagione lì alle quattro incomincia a venire buio. Sarà stato sulle tre. Perché là le giornate all’est alle quattro, quattro e mezza è già buio d’inverno. Poi lì era marzo, insomma le giornate sono ancora un po’ corte.

D: E poi cos’è successo?

R: Ci hanno incolonnato tutti all’esterno della stazione. Hanno cominciato. Lì urlavano, ci incolonnavano a cinque. Tutti in fila per cinque.
Quella lì era una brutta giornata perché cadeva neve mista ad acqua. Faceva anche molto freddo. Noi, io e mio fratello, avevamo una piccola valigia in due e non avevamo dei problemi.
Però c’erano tante persone che avevano magari due valige perché tutti portavano queste cose con grande speranza. Perché quando si portano delle cose, vestiti, qualcosa da mangiare, quelle cose lì, si pensa che aiutano a sopravvivere.
Non si sa dove si va a finire e non si sa quale sarà il nostro destino. E tutte queste persone portavano ognuno le proprie cose con grande speranza.
Io e mio fratello abbiamo aiutato qualcuno. C’era un professore che aveva due valige e io l’ho aiutato a portare questa valigia. Anche mio fratello. Poi anche degli altri. Cercavamo di aiutarli perché era molto faticoso camminare, perché c’era neve. Queste stradine che andavano su al campo non erano stradine asfaltate. Erano stradine con neve e ghiaccio, si faceva molta fatica a camminare.
Però in questi scambi quando ci si fermava a prendere la valigia, a riposare un momentino si prendevano anche delle botte perché questi soldati delle SS urlavano e picchiavano sempre.
Ecco, io devo dire che quando andavo su, si andava su per questa stradina, si vedevano queste belle valli.
Avevo dentro di me una grande voglia di mettermi a correre, di scappare. Se ero in Italia l’avrei tentato, perché se non mi prendevano subito non mi prendevano più, perché io allora ero molto veloce a correre. Non so se se mi prendevano.
Ti potevano sparare. Perché lì di cani non ne avevano. Non potevano mandarmi dietro i cani. Di cani quando ci hanno portato su non ne ho visti. Invece ero all’estero. Non sapevo, poi non si sapeva dove si andava a finire. Anzi mio fratello: “No, non tentare, non tentare”. Mi ha dissuaso un po’ e siamo andati su. Perché dalla cittadina di Mauthausen ad andare sul al campo ci saranno circa quattro chilometri. E’ stata una marcia molto faticosa date le condizioni anche del tempo.
Poi quando siamo arrivati nelle vicinanze del campo la cosa impressionante è che abbiamo visto questi scheletri umani vestiti con quei vestiti a righe che spalavano la neve, e c’erano altri che li picchiavano.
Ecco, queste cose ci hanno un po’ impressionato. “Ma qui dove ci porteranno? Chi sono quelli? Chi sono gli altri?”. Perché non avevano delle divise. Quelli che lavoravano le divise, i vestiti a righe e gli altri avevano dei vestiti civili che picchiavano e urlavano.
Poi abbiamo saputo cos’erano. Erano i famosi Kapò che poi abbiamo incontrato e abbiamo capito chi erano.

D: La prima immagine del campo?

R: Sì. La cosa è stata molto impressionante. Io devo dirlo. Perché Mauthausen si presenta questa costruzione come una fortezza. Tutta fatta di pietre. E’ una cosa che mi ha impressionato.
Ma la cosa che a me personalmente ha impressionato di più erano quegli sguardi, quando siamo arrivati lì, di quei soldati lì delle SS. Con quegli sguardi freddi, cupi, che ti guardavano con quello sguardo che ti incutevano proprio paura. Per non dire terrore.
Io dico. Io la paura l’ho provata perché non posso dire di non averla provata. Quando sono passato sotto il portone di Mauthausen sentivo dei brividi di freddo che mi attraversavano la schiena. Avevo paura e non ho vergogna a dirlo. Ho preso la mano di mio fratello e la stringevo.
Poi la cosa impressionante è quando sono entrato dentro nel campo. Al lato destro e al lato sinistro c’erano questi due prigionieri che erano lì per punizione. Perché poi, come di solito era sempre così. Qualcuno non so per che cosa. Per punizione.
Prima li picchiavano selvaggiamente, poi li legavano alla catena, uno a destra e uno a sinistra e li lasciavano lì tutto il giorno a dorso nudo. Faceva freddo, faceva caldo. In quelle condizioni tutti insanguinati. Se alla sera erano vivi ancora li mandavano alla camera a gas, se non erano vivi li mandavano direttamente al crematorio. Questo era un po’ il destino.
Però quando ho visto queste due persone così conciate, così magre, insanguinate, così legate alla catena mi ha impressionato molto.
Poi noi ci hanno allineato lì sulla destra. Poi a gruppi di una ventina per volta ci facevano scendere giù sotto. Lì sulla destra. Dove adesso c’è quella chiesa lì.
Sotto lì, nel sotterraneo a gruppi di venti ci facevano scendere, ci facevano consegnare tutte le nostre cose. Se avevamo orologi o anelli d’oro, soldi. Lì ci hanno ritirato tutto.
E loro tutto quello che gli consegnavamo lo marcavano giù. Era tutta una cosa, guardate, assurda perché poi delle nostre cose noi non abbiamo visto più niente.
Poi ci hanno tolto i nostri vestiti. Nudi completamente. Tutte le nostre cose che avevamo portato con grande speranza, le nostre valige, quelle ce le hanno fatte abbandonare di sopra. Quelle non ce le hanno fatte portare giù. Le abbiamo lasciate di sopra. Poi tutti i nostri vestiti che avevamo. Ci hanno levato tutto. Ci hanno depilato in tutte le parti del corpo, ci hanno tagliato i capelli a zero e poi abbiamo fatto la doccia. Poi siamo usciti dall’altra parte perché c’era un’altra porta dall’altra parte e là ci hanno dato un paio di mutande e una camicia. E poi ci hanno portato in una baracca.

D: Angelo, cosa vuol dire lasciare tutto?

R: Vuol dire tante cose. Si fa presto a dire “lasciare tutto” ma noi in quegli attimi lì lasciavamo una parte di noi stessi. Tutto vuol dire tutto. Quello che noi avevamo di nostro più caro.
Io avevo un portafoglio. Avevo la fotografia di mio padre, di mia madre, dei miei fratelli. Avevo le fotografie di quando correvo a piedi, perché avevo vinto tante corse.
Tutto vuol dire tutte le nostre cose. Tanto per dire anche una stupidaggine, il pettine, quelle cose lì. Ognuno si era affezionato alle proprie cose. Tutte cose che poi noi non abbiamo più avuto. Non abbiamo più avuto il cucchiaio diciamo… cose che non abbiamo mai avuto. Sono cose insignificanti ma molto importanti quando non ci sono.
Lasciare tutto vuol dire lasciare una parte anche del nostro cuore.

D: E non potevate nasconderlo da nessuna parte?

R: Da nessuna parte. Dove lo nascondevi? Perché te uscivi dall’altra parte nudo completamente. E quando uscivi di là c’erano sulla porta questi guardiani che ti guardavano con le mani in alto.
Ti facevano allargare le gambe. Non so se si poteva. Io non ha mai visto qualcuno che avrebbe potuto portare via qualche cosa.

D: Quindi tu hai lasciato tutto?

R: Ho lasciato tutto. Poi ci hanno allineati e ci hanno portati in una baracca di quarantena lì a Mauthausen. In questa baracca di quarantena, era una delle solite baracche come le altre, divisa in due parti: parte A e parte B. Io ero dalla parte B, insieme a mio fratello, al gruppo di Monza e tanti di Milano.
Noi siamo stati quattro giorni a Mauthausen sempre vestiti con questa divisa: un paio di mutande e una camicia e basta. Lì in quei giorni lì eravamo dentro in baracca.
Il problema grosso è stato alla sera quando davano l’ordine di coricarsi per dormire. Letti a castello non ce n’erano. Bisognava dormire sul pavimento di questa baracca.
Eravamo circa in quattrocento, forse anche di più in ogni parte. E non ci stavamo tutti anche perché le baracche sono lunghe, però una parte in mezzo era per i servizi. Poi c’erano le camerette dei Kapò, e quelle cose lì.
Comunque noi non ci stavamo tutti. Dovevamo metterci di fianco perché se no non ci stavamo tutti. Poi il problema era sempre questo. Quando di notte uno doveva andare ai servizi o qualche cosa, muoversi così per camminare bisognava calpestare sempre qualcuno. Ci sono quelli che si lamentano, quelli che dicono qualche cosa e poi c’erano i Kapò che sentivano un rumorino e allora entravano e picchiavano.
Lì abbiamo capito un po’ le cose: come sarebbe stato il nostro destino. Perché per picchiare delle persone per niente. Anche lì, ti fanno dormire per terra, ti hanno depilato dappertutto, ti hanno portato via tutte le tue cose.
Però io dico sinceramente che quando siamo in tanti, siamo lì in tanti, in qualsiasi momento ci sono sempre i pessimisti e gli ottimisti. Però il più pessimista di noi era poi, molto, molto lontano dalla realtà che abbiamo trovato perché non si pensava mai che esistessero quelle cose che abbiamo trovato.
Ecco, noi siamo stati quattro giorni in quelle condizioni. Il primo giorno è venuto il capo. Un comandante tedesco che ha parlato. Mandato dalle SS. Che ha parlato in tedesco, poi l’ha fatto ripetere da uno che l’ha tradotto in italiano.
Il secondo giorno la mattina ci avevano dato quel pochettino di caffè. Era acqua sporca. Alla mattina amaro. Poi a mezzogiorno ci hanno dato quella gamella di crauti. Difatti nessuno di noi è riuscito a mangiare quella cosa lì. Perché erano proprio porcherie.
Poi è venuto il Kapò, il comandante delle SS e ha detto: “Italiani oggi nessuno di voi ha mangiato la zuppa. Avete rifiutato la vostra zuppa. Fra qualche giorno la cercherete e vedrete come sarà buona, ma più della vostra razione non vi sarà mai data”. E aveva ragione. Era diventata buonissima poi.
“Oggi siete in mille”. Lui ha detto mille perché di preciso non si è mai saputo quanti erano questi trasporti. “Oggi siete in mille, fra tre mesi sarete in trecento”. Guardate che augurio. “Qui dovete imparare a stare agli ordini e a non fare mai quello che volete voi ma dovete sempre fare quello che vi sarà ordinato di fare”. Tutti auguri che ti mettevano addosso quella cosa che chissà poi come sarà.

D: Angelo quelle donne che sono partite con te da Bergamo sono arrivate anche loro?

R: Sono arrivate a Mauthausen; lì a Mauthausen ci sono delle celle. E queste donne le tenevano lì. Poi partivano per gli altri campi destinati alle donne. Difatti a Mauthausen non si è mai vista una donna.
C’erano quelle che arrivavano a Mauthausen, però erano giù in queste celle. E lì poi stavano magari anche dai dieci ai quindici giorni fino a che facevano il trasporto e poi per le donne c’erano altri campi che forse erano peggio anche di quelli degli uomini.

D: Nella baracca dov’eri tu in quarantena, eravate solamente italiani?

R: Sì, italiani. Eravamo tutti noi italiani che siamo arrivati lì, in quel 20 marzo. Perché è stato un grosso convoglio il nostro.
Però anche lì, io prima vi ho detto che ho sofferto la sete sul viaggio, ma la sete l’avevamo sofferta anche i primi giorni e anche dopo perché non è che là si poteva bere e via.
Noi si andava al gabinetto. Tante volte c’era qualche rubinetto, ma si cercava di bere un po’ d’acqua lì ma loro hanno detto di non berla perché era inquinata dall’infiltrazione del Danubio. Però la gran sete che avevamo ci faceva bere anche quest’acqua.
Ce n’è voluta un po’ per smaltire la grande sete che avevamo dentro di noi, che avevamo sofferto durante il viaggio. Ce ne sono voluti di giorni.

D: E nella baracca, letti hai detto che non c’erano?

R: No.

D: C’erano degli armadietti?

R: No, no. Niente.

D: C’erano dei tavoli?

R: Niente, niente.

D: C’erano delle sedie?

R: Niente, niente. Noi si camminava sempre lì in piedi. Si poteva sedersi per terra. Niente. In questa baracca c’eravamo noi. Degli armadietti non ce n’era bisogno perché avevamo solamente la camicia e le mutande che avevamo addosso. Di nostro non avevamo niente.

D: Quindi neanche scarpe avevate?

R: Niente, niente. Avevamo solamente camicia e mutande e basta. E quando ci hanno dato la zuppa da mangiare neanche il cucchiaio. Questa zuppa si mangiava così. Così come un maiale diciamo. Succhiandola così diciamo.

D: Ascolta. E per lavarvi avevate sapone, avevate..

R: No, no il sapone è sparito dalla circolazione. Io in quindici o sedici mesi, sapone, riso e pasta sono spariti. Non li ho visti più.

D: Dopo quattro giorni cos’è successo?

R: Dopo quattro giorni ci hanno dato il resto del nostro vestiario. Ci hanno dato degli zoccolotti, tanti zoccolotti olandesi, tanti zoccolotti incerati ma con sotto il legno. Erano meglio di quelli olandesi perché quelli olandesi erano terribili. Ti spaccavano anche i piedi. Ci hanno dato un paio di calze. Ci hanno dato i vestiti a righe con su ognuno il nostro numero di matricola, perché loro avevano stabilito il nostro numero di matricola. Ci hanno dato il nostro numero lì.
Quando ci hanno dato i vestiti ci chiamavano ognuno e ad ognuno c’era su il suo numero di matricola.

D: Cosa vuol dire numero di matricola?

R: Numero di matricola vuol dire che noi non avevamo più il nostro nome dopo. Il nostro nome era diventato il numero.

D: Quindi quando ti dovevano chiamare non ti chiamavano più Angelo Signorelli?

R: No. Mi chiamavano per numero.
Io ero il 59141 e mio fratello era il 59142, perché loro penso che li hanno fatti numerati in ordine alfabetico. Perché i numeri sono partiti dal 58000 e tanti e sono finiti al 59000 verso 300 o che diciamo.
Tutto il nostro convoglio è stato lì. Ci hanno dato questo numero e questo numero è sempre stato il nostro nome poi.

D: Allora. Il numero l’avevi.

R: Avevamo qui sulla sinistra sulla giacca. Qui sulla destra sui calzoni e ci hanno dato un braccialetto con un po’ di corda. Un braccialetto in lamiera con su anche lì il numero.

D: Cosa vuol dire Angelo chiamarsi con un numero?

R: Chiamarsi con un numero vuol dire tante cose, ma per me che l’ho vissuta vuol dire una cosa molto semplice. Perché noi dobbiamo pensare che tutto quello che hanno fatto le SS non è che lo abbiano fatto così a caso. L’hanno fatto perché è stato tutto studiato a tavolino.
La spersonalizzazione delle persone. Loro ci hanno dato un numero. La spersonalizzazione delle persone. Quando te ti hanno levato tutto dopo averti levato tutto ti levano anche il nome.
Poi per conto mio io l’ho vista in questo modo. Per facilitare anche il lavoro degli aguzzini. Perché se noi lasciamo alle persone un nome, pensate che dietro il nome c’è sempre qualcosa di umano. Tante volte questo nome può ricordare qualcosa anche all’aguzzino. Magari il nome di un figlio o di un parente o qualche cosa e può avere degli attimi di debolezza. Tante volte può avere sul nome della simpatia o qualche cosa. Invece dietro un numero di umano non c’è niente. Un numero è un numero e basta. Il numero si dice senza nessuna emozione, invece un nome… c’è sempre una storia dietro un nome.
Loro quello che hanno fatto l’hanno fatto così. Poi l’abbiamo sperimentato in seguito cosa volevano dire queste cose, perché quando le abbiamo provate a Gusen cosa voleva dire essere chiamati sempre per numero.

D: Ecco Angelo, a proposito di numero. Tu prima l’hai detto in tedesco e in italiano, e chi non capiva?

R: Botte. Venivano massacrati anche.. Voi dovete capire che tutti questi Kapò che abbiamo trovato in questi campi avevano il diritto di vita e di morte su di noi. Si divertivano alle nostre spalle ognuno di questi Kapò.
Quelli che avevamo sul lavoro ci massacravano così, quelli che avevamo in baracca non erano i kapò che avevamo sul lavoro e allora anche loro dovevano divertirsi alle nostre spalle.
Il nostro lavoro finiva alle sei, si entrava in campo, poi c’era il primo appello, poi il secondo appello lì all’esterno delle baracche. Prima l’appello generale sul piazzale del campo dove ci contava la SS e lì dovevano esserci tutti. Poi ognuno andava alle proprie baracche e lì c’erano altri appelli. Noi venivamo tutti allineati all’esterno di ognuna delle proprie baracche, e lì questi Kapò che avevamo nelle baracche si divertivano anche loro alle nostre spalle. Allora incominciavano tutte queste storie.
Abbiamo parlato del numero. Loro si mettevano là tutti bene allineati all’esterno delle baracche e noi eravamo lì tutti allineati tra una strada che divideva una baracca e l’altra. Loro si mettevano sui gradini delle baracche così ci vedevano meglio e ci chiamavano per nome. Ci chiamavano per nome detto in tedesco.

D: Per numero vi chiamavano?

R: Sì per numero, adesso ho sbagliato. Ci chiamavano per numero detto in tedesco. Io però i numeri in tedesco bene o male li conoscevo prima perché da ragazzo lì dove abitavo io c’era una contraerea dove c’erano i soldati tedeschi e qualche cosa avevamo imparato.
Io l’avevo quasi capito il mio numero, però non mi sono mosso. Allora sono venuti a prendermi e mi hanno dato un sacco di botte. Però la seconda volta che hanno chiamato il mio numero ero pronto. Perché quando chiamavano il numero dovevi fare un passo avanti, levarti il berrettino, metterti sull’attenti e stare lì sull’attenti. E se non ti muovevi venivano loro a prenderti e ti davano delle grandi botte. Loro picchiavano.
C’erano quelli che picchiavano coi bastoni, quelli che picchiavano coi pugni a seconda. Ecco, in quelle occasioni lì era brutto se uno cadeva per terra perché allora si prendeva di quei calci sullo stomaco e sulla schiena che tanti ci lasciavano anche la pelle. Lì era molto brutto quando cadevi per terra. Ma tante volte ti davano di quei pugni che ti facevano tramortire.

D: Angelo, oltre al numero ti hanno dato un’altra cosa? Avevi un’altra cosa sulla zebrata?

R: “IT” è la sigla. Il triangolo rosso. “IT” che voleva dire italiano. I francesi invece avevano la “F” lunga, i russi la “R”, gli jugoslavi la “J”, gli ebrei avevano la stella di Davide. Agli ebrei lì a Gusen mettevano anche delle strisce di vernice sulla schiena. Oltre al numero li distinguevano così.

D: Ecco, perché il triangolo? C’erano triangoli di altri colori oltre al vostro?

R: Sì. Il triangolo rosso era quello dei politici. Poi c’erano il triangolo verde di quelli che venivano messi in prigione per reati comuni. Poi c’erano gli omosessuali che avevano il triangolo rosa, mi pare. Poi c’erano altri triangoli. Comunque, ogni categoria li dividevano. Loro li dividevano per queste categorie.

D: E tu avevi il triangolo rosso?

R: Triangolo rosso.

D: Quindi quello dei politici?

R: Sì.

D: Ascolta. Allora, i Kapò erano tutti tedeschi?

R: No. Ce n’erano tanti polacchi.

D: E quando vi chiamavano vi potevano chiamare anche in polacco?

R: Di solito erano o in tedesco o in polacco.

D: Ma chi capiva di voi il polacco?

R: Eh…, ce n’erano pochi. Anch’io quando mi chiamavano in polacco ne ho prese un po’ di più di botte. Ma poi l’ho capito anche in polacco.
Però per me che ero giovane, queste cose si imparano meglio quando si è giovani. Invece le persone che avevano una certa età queste cose non le imparavano mai e prendevano sempre delle grandi botte.
E loro quando ti picchiavano ti insultavano anche: “Italiano di merda, sei un cretino, scemo, figlio di puttana”, diciamo. Tutte parolacce che quando ti picchiavano te le dicevano.

D: C’erano anche molti anziani con voi?

R: Sì. Io ero giovane. Quando vedevo anche uno di trent’anni era anziano. Però anche sui quarant’anni, cinquant’anni ce n’erano. Forse anche di più. Però quelli resistevano poco.

D: Ti ricordi se c’erano anche dei sacerdoti?

R: Sì. Ce n’erano di sacerdoti. Io ne ho conosciuti. Ho conosciuto Don Narciso Sordi. Ho conosciuto anche altri sacerdoti. Poi sono andati a Dachau. Poi c’era Don Gaggero. Ce n’erano tanti.

D: Questi li hai conosciuti perché erano nella tua baracca?

R: No, nel campo, la sera. Magari si andava da una baracca all’altra. Io nella baracca non ho mai avuto sacerdoti assieme.
Poi, dopo i sacerdoti un bel momento li hanno mandati tutti a Dachau. Là li hanno messi tutti nella baracca dei sacerdoti.

D: E avevano anche loro, comunque vada, il numero?

R: Sì, sì.

D: Il triangolo?

R: Sì.

D: Come voi?

R: Come noi. Senz’altro.

D: Di Don Narciso Sordo cosa ti ricordi?

R: Sì, mi ricordo quella volta quando ho visto quei ragazzi. E’ arrivato un convoglio di ebrei ungheresi.
Li hanno fatti scendere dal treno. E poi, c’erano anche delle donne, c’erano bambini, c’erano questi uomini. Li facevano camminare con le mani in alto. Quando ho visto quei bambini così piccoli che camminavano con le mani in alto io ho detto a Galbani, quello di Lecco. Gli ho detto: “Ah, Pino, Pino “. Perché noi tante volte la sera si diceva qualche preghiera. “Ah, Pino, Pino se succede… per permettere queste cose ho paura che Dio non esiste”. E questo dietro di me che era un prigioniero anche lui vestito a righe come me mi dice: “Perché dice così? Non è colpa di Dio. E’ colpa degli uomini”.

D: Dopo, quando hanno completato la vestizione eccetera, ti hanno portato in un altro campo?

R: A Gusen.

D: Ecco, questo viaggio come l’hai fatto?

R: A piedi, ma non sulla strada provinciale. Tutte stradette in mezzo a quelle colline lì perché sono circa quattro chilometri.

D: In quanti eravate?

R: Io che ero giovane, molto attento alle cose, ho visto che quando siamo partiti da lì eravamo in meno di quanti siamo arrivati. Perché loro, se guardiamo il numero di matricola, hanno immatricolato circa seicentocinquanta o settecento prigionieri che portano il numero che sono arrivati. Però per me erano molti di più perché ho visto anche delle persone piuttosto anziane. Ce n’era uno anche senza gamba che non l’ho visto partire.
Io penso che quando siamo arrivati a Gusen una parte di noi sia stata selezionata e mandata alla camera a gas, penso. O forse al Castello di Hartheim. Perché ho visto che eravamo molto, molto meno.

D: Ecco, nella tua permanenza quando tu sei rimasto a Mauthausen, camere a gas, forno crematorio, eccetera, non sapevi nulla?

R: No. Non sapevo niente. Non ho visto niente.

D: Dopo, una bella mattina, vi hanno presi e portati al sottocampo di Gusen?

R: A Gusen.

D: Che era Gusen I o II?

R: Gusen I.

D: Gusen I. Lì cosa vi hanno detto che dovevate fare? Dovevate andare lì per lavorare?

R: Sì. Loro hanno detto che ci portano nel nostro campo di lavoro.

D: Ah.

R: E siamo partiti. Ci avevano dato il resto della divisa. Ormai tutti vestiti con quelle vestite là. E poi siamo arrivati lì a Gusen I. Ecco, oggi non c’è niente.
Anche lui si presentava un po’ come una piccola fortezza, con quel muro di cinta, con quelle torrette dove c’erano le sentinelle e così.
E anche Gusen mi ha molto impressionato. Non l’effetto come Mauthausen, però anche a Gusen quando abbiamo attraversato e siamo entrati in questa porta, in questa porta dove siamo entrati dentro, c’era questo muro, poi c’erano questi reticolati che abbiamo capito che c’era la corrente perché c’erano le cose lì di…

D: Porcellana.

R: Di porcellana.

D: Gli isolatori.

R: Ecco, gli isolatori. E lì c’era la corrente. C’era questo filo spinato molto alto. Poi c’era una parte di circa tre metri. Poi c’era il muro. E in quella parte di tre metri sotto era dove giravano sempre le sentinelle coi cani lupi.
Ecco, entrato lì mio fratello mi ha detto: “Ah, siamo finiti in un brutto posto” fa, “di qui sarà difficile scappare”. Perché noi avevamo sempre questa intenzione di poter tentare la fuga. E difatti da lì non è mai fuggito nessuno.
Poi la cosa che mi ha impressionato di più era che c’era sul lato sinistro nell’entrata, in fondo, c’era come questo camino da dove veniva fuori un fumo.
In una giornata di vento questo fumo faceva come un arco e veniva giù proprio lì sul piazzale del campo dove eravamo incolonnati noi. Era un fumo molto acre. “Chissà cosa stanno bruciando?”. Poi l’abbiamo saputo che era il crematorio. Comunque era un camino che andava sempre, giorno e notte.

D: E anche lì le baracche erano di legno?

R: Sì. Le baracche di legno. C’era una baracca un po’ in muratura che c’è ancora, c’era ancora, adesso non so se c’è. Perché adesso non entriamo più di lì. E poi erano tutte baracche in legno.

D: Ecco. Ascolta. E lì vi hanno messo in una baracca?

R: Lì ci hanno messo nella baracca 16. Una baracca di quarantena. Baracca di quarantena vuol dire che i nuovi arrivati sono in questa baracca isolati dagli altri prigionieri del campo. Anche lì ci hanno messo in questa baracca divisa in due parti Stube A e Stube B.
In mezzo c’erano le camerette dei Kapò. Però non era come a Mauthausen che c’erano anche i servizi. Per i servizi, per i gabinetti, c’era una specie di baracca all’esterno, in fondo. I servizi erano lì.
E poi il giorno dopo abbiamo incominciato a lavorare. Alla mattina, suonava la sveglia del campo alle cinque la mattina, bisognava uscire alla svelta come suonava questa sveglia. Abbiamo visto che questi Kapò scendevano, erano già lì pronti, e picchiavano, urlavano.
Tutto quello che noi facevamo doveva essere fatto di corsa. Perché noi dovevamo uscire a dorso nudo. Loro lo gridavano. Perché uno doveva uscire dalla baracca a dorso nudo se no lo picchiavano, lo mandavano indietro.
Poi abbiamo capito cosa volevano sapere e poi dopo si faceva così automaticamente. Si doveva uscire dalla baracca a dorso nudo, andare a lavarsi. Anche lì sempre lavarsi con l’acqua fredda. Sempre senza sapone. Però dovevamo lavarci, poi entrare in baracca, andare ai servizi, entrare in baracca.
Sulla porta della baracca non è che si entrava facilmente perché c’erano questi Kapò che ti prendevano per le orecchie, ti strattonavano, ti guardavano nelle pieghe del collo.
Se eri sporco o pulito, a loro piacimento ti bastonavano, ti mandavano indietro. “Italiano di merda” dicevano, “Vai indietro a lavarti ancora”. Ti mandavano indietro a lavare e poi finalmente entravi. Ti vestivi. Dovevi fare il tuo castello fatto bene, una coperta bella, fatta bene perché alla sera se non era fatta bene avevi la punizione. Poi tutte cose che abbiamo imparato.

D: Ecco, lì nelle baracche c’erano i letti a castello?

R: Letti a castello. C’erano di tre piani e si dormiva in tre in ogni piano. Due di testa, uno di piedi. Si entrava in queste baracche. C’era il posto centrale che era per le camerette dei Kapò.
Poi c’era la baracca vera e propria dove c’era una grande stufa che serviva ai Kapò della baracca per farsi cuocere le loro cose. Per farsi da mangiare. E poi era tutta occupata da letti a castello. Ce n’erano sul lato sinistro, sul lato destro e una fila in mezzo. Così c’erano solamente due corridoi di qua e di là e lo spazio vuoto.

D: Tavoli, sedie?

R: No, no. Anche lì niente. Noi per sedersi ci sedevamo sui bordi del letto a castello. No, non c’erano quelle cose lì. Li vediamo tante volte quando andiamo a Dachau. Ma lì non ce n’erano. C’erano un tavolo dove c’era la stufa, dove si sedevano i Kapò e le sedie lì. Ma dove eravamo noi non si poteva e uno non si poteva azzardare di andare a sedersi al posto dei Kapò perché dai Kapò si cercava sempre di stare lontano perché ti picchiavano sempre.

D: Ascolta. E ad andare a letto i vestiti, eccetera, dove li mettevate?

R: Beh, i vestiti li mettevamo li un po’ sulla spalliera lì da parte, perché non potevano rubarci i nostri vestiti perché avevamo il nostro numero di matricola. La camicia la tenevamo su. Le mutande le tenevamo su. Era solamente la camicia.
Le calze le nascondevamo sotto al letto, perché quelle sì che sparivano. Le calze le rubavano, e anche le scarpe. Si mettevano lì perché se no te le portavano via e non le avevi più.

D: Le scarpe che erano zoccoli però?

R: Sì, zoccoli. Zoccoloni o quello che erano. Tante volte capitavano anche delle scarpe un po’ mezze andate. Magari di prigionieri, di militari. A seconda dei periodi. Perché le scarpe non ti duravano sempre. Quando erano spaccati gli zoccolotti olandesi lì, anche loro partivano.

D: Non è che te li cambiavano?

R: No, no. Quando erano rotti, quando erano a pezzi te li cambiavano. Altrimenti li cambiavi con qualcuno di quelli che erano morti. Mettevi i tuoi rotte e prendevi quelli di chi li aveva un po’ più belli.

D: Ecco, prima parlavi…

R: Perché sulle scarpe non c’era il numero di matricola.

D: Prima Angelo parlavamo dei sacerdoti, no? Che tu nel Lager hai incontrato dei sacerdoti deportati. Sacerdoti italiani deportati.

R: Sì.

D: Ti ricordi chi erano questi sacerdoti?

R: Erano: Don Narciso Sordo, Don Gaggero, Don Liggeri. Quelli che ho conosciuto. Poi ce n’erano altri. Perché poi dal mese di luglio, agosto, settembre, non mi ricordo bene, questi sacerdoti li mandavano a Dachau. Ma prima erano lì. Li mandavano a lavorare.
Dovevano fare anche loro quello che facevamo noi. Erano dei numeri e basta. Poi questo penso che sia avvenuto per un accordo che ha fatto il Vaticano con le SS. Non so…

D: Ecco, c’è un episodio che ti ricordi di Don Narciso Sordo?

R: Sì. L’episodio di quando ho visto quegli ebrei che erano arrivati. Questa lunga colonna di prigionieri ebrei dove c’erano quei ragazzini lì. Ecco, io quando ho visto quei ragazzini lì di sei, sette, otto anni così piccoli, camminare con le mani in alto mi ha molto impressionato. E proprio ho detto a Galbani, quello di Lecco: “Ah Pino, Pino, penso che noi tante volte alla sera, specialmente loro di là e specialmente alla sera, cerchiamo di dire qualche preghiera, però per permettere questa cose ho paura che Dio non esiste”.
Ecco, in questa occasione ho conosciuto Don Narciso Sordo che ha detto: “Perché dici queste cose? Io sono un prete. Sono qui a soffrire come te”. “Sì, sì, lo so anch’io queste cose” gli ho detto, “Però le nostre condizioni fanno pensare qualunque cosa. Perché queste cose non dovrebbero succedere”. “Eh sì hai ragione. Però Dio dà la libertà agli uomini e sono gli uomini responsabili e questo lo sappiamo”.

D: Ecco ascolta.

R: Ecco lì ho conosciuto Don Narciso Sordo, in questa occasione. Perché lui forse in quel periodo lì lavorava nel comando però non si sapeva che era un prete.

D: A Gusen questo?

R: Sì a Gusen.

D: Don Narciso Sordi non è morto a Gusen dopo?

R: E’ morto a Gusen dopo.

D: Mentre invece gli altri sacerdoti sono stati portati…

R: Sì, anche Don Nigeri è sopravvissuto ma è stato mandato a Dachau.

D: Ecco ascolta, una giornata tipo diciamo. Nel campo di Gusen..

R: Sì.

D: Che tu hai fatto. Una giornata, un giorno qualunque.

R: Sì.

D: La sveglia la mattina?

R: Alle cinque. Ecco la sveglia alle cinque..

D: Anche d’inverno?

R: Sì, sì alle cinque sempre. Come suonava la campana noi di corsa dovevamo scendere ai nostri posti dove si dormiva e uscire a dorso nudo e andare a lavarsi. Sempre di corsa perché il tempo era poco. Sempre di corsa.
Si andava a lavarsi e poi si entrava in baracca. Tante volte ti mandavano indietro ancora.
Ti davano qualche bastonata sulla testa perché ti insultavano dicendoti che eri sporco ancora. Poi quando avevi la fortuna di entrare ti vestivi. Magari mettevi ancora la camicia un po’ umida o bagnata del giorno prima perché io ho sempre lavorato all’esterno. Non ho mai avuto la fortuna di andare nelle officine.
Poi ti mettevi lì e ti davano il caffè della mattina. Loro lo chiamavano caffè. Chiamiamolo pure noi caffè. Era un’acqua scura, sporca Sei volte alla settimana era amaro, un giorno era dolce. Bevevi questa acqua, che non aveva niente di buono, però era calda. E questo era molto bello. Specialmente d’inverno quando bevevi questa cosa. Questo era il cibo della mattina.
Poi per le sei e mezza dovevamo essere.. no per le sei e mezza. Per le cinque e mezza dovevamo essere già bene inquadrati all’esterno della baracca. Dovevi fare il tuo castello fatto bene perché se non lo facevi bene alla sera venivi chiamato fuori per le cinque solite bastonate.
Poi alle cinque e mezza eravamo tutti bene allineati lì all’esterno perché i kapò volevano sempre fare bella figura. Ti allineavano lì di fuori. Ti inquadravano di cinque in cinque. E poi verso le sei meno un quarto ti davano l’ordine della partenza e si partiva per il piazzale del campo. E lì ogni comando.. perché non tutti quelli che erano in quella baracca lavoravano in quel posto. A gruppi ci mandavano ognuno al proprio comando dove ognuno lavorava. Io i primi tempi no. Eravamo una quarantina e lavoravamo tutti.
Ecco, io devo dire che i primi periodi noi italiani eravamo in quarantena e uscivamo sempre per ultimi, perché il nostro lavoro in quarantena è stato quello che abbiamo costruito il campo di concentramento che è stato chiamato Gusen 2. Lì abbiamo fatto dei lavori tremendi. Lì abbiamo lavorato con tutti questi kapò che erano polacchi, che ci picchiavano continuamente. Comunque la quarantena per noi italiani è stata terribile.
Poi è successo anche quel tentativo di fuga di quell’italiano che poi l’hanno ucciso così in malo modo. Perché i tentativi di fuga finivano sempre con la morte. Atti di ribellione finivano sempre con la morte. Poi parlando generalmente. Poi alle sei si usciva dal campo. Si usciva per il lavoro e si lavorava fino a mezzogiorno. Ognuno, quelli che lavorava nelle officine.. ognuno al proprio posto di lavoro si lavorava fino a mezzogiorno.
Io prima, come ho detto prima, ho lavorato in quarantina. Poi quando è finita la quarantina sono andato in cava. Poi dalla cava mi hanno levato. Altri comandi. Però la giornata di lavoro era sempre quella. Si lavorava fino a mezzogiorno.
Poi sul posto di lavoro portavano questa famosa zuppa tedesca che come vi ho detto prima non era buona. Poi era diventata buonissima. Io dalla fame che avevo se me ne davano dieci gamelle le avrei mangiate tutte. Ecco, questa gamella così buona. Poi era diventata buona. Poi era bella calda. Guarda, loro la portavano sul posto di lavoro in quei bidoni grandi e poi la distribuivano con un mestolo. Era anche caldissima.
Ecco, noi che si prendeva in mano questa gamella così calda. Noi che si lavorava all’esterno sempre al freddo. Quando prendevi in mano questa gamella così calda ti sentivi ancora prendere a circolare il sangue nelle vene perché così calda per noi che avevamo le mani così fredde perché sempre a lavorare al freddo. Era diventato una cosa molto bella questa gamella così calda. Aveva ragione quello delle SS che ha detto: “Così buona”. Era diventata così buona che..
Poi, il nostro lavoro, la fermata per la zuppa era quel venti minuti, mezzora. Poi si incominciava a lavorare fino alla sera. Alla sera si entrava in campo alle sei. Le adunate all’esterno. Prima sul piazzale. Poi all’esterno delle baracche. Ecco, all’esterno delle baracche succedevano queste cose; che i kapò si divertivano anche loro.
Come vi ho raccontato prima la storia del numero, poi la storia del cappello. Davano quegli ordini lì: “cappello su e cappello giù”. Lì loro tutti attenti a vedere che quando davano l’ordine “cappello giù” dovevamo tutti assieme levare il cappello perché a quello fuori tempo andavano là e lo picchiavano. “Cappello su”, anche lì, quello fuori tempo prendeva sempre botte. E questi lo facevano per divertirsi loro perché loro sghignazzavano, ridevano, ti picchiavano, ti insultavano.
Poi finalmente quando davano l’ordine di entrare in baracca. Non è che andare in baracca si andava subito. Bisognava andare a lavarsi bene gli zoccoletti perché magari erano infangati. Perché se entravi in baracca così sporco ti picchiavano e ti mandavano indietro. Forse i primi giorni le abbiamo prese, ma dopo poi l’abbiamo imparata la lezione. Si andava a lavarsi. Noi già intirizziti dal freddo, lavarsi ancora con l’acqua fredda così.. pensate alle sofferenze.
Ecco, poi quando si aveva la fortuna di entrare in campo ti davano la tua razione di cibo della sera. Alla sera davano il pane. Davano la nostra fetta di pane. Ecco, il pane tedesco era un chilo.
I primi tempi ne distribuivano in tre parti e allora poteva anche non bastare, per l’amor di Dio, ma era già una buona parte. Poi ti davano una fetta di salame. Al lunedì e al martedì una fetta di salame. Sarà stata trenta grammi di salame. Al mercoledì una fettina di margarina. Al giovedì ancora il salame. Al venerdì un cucchiaio di margarina, un cucchiaio di ricotta. Al sabato ancora margarina e alla domenica una fettina di salame e una fettina di margarina o un cucchiaio di ricotta o di marmellata. Erano quelle cose lì.. Dovete sapere che questo era il cibo per tutta la giornata, diciamo..
Poi a lungo andare queste fette di pane. Perché alla fine del ’44, poi è incominciato il ’45, forse per i bombardamenti, forse per le ritirate che anche i tedeschi facevano, il cibo diminuiva sempre. Dovete sapere che negli ultimi mesi questa pagnotta veniva divisa anche in dieci, anche in dodici e anche in sedici. Era diventata proprio una fettina così.. Ecco perché anche negli ultimi tempi la mortalità è aumentata così tanto.

D: Ascolta, tu dicevi che la tua baracca era la sedici.

R: Sedici. In quarantena.

D: In quarantena. Poi è diventata?

R: La dodici.

D: La dodici. La baracca ventisette che baracca era?

R: L’infermeria.

D: E lì cosa facevano Angelo?

R: Io sono stato ricoverato in infermeria tre volte. Nella baracca d’infermeria io sono stato anche operato. Perché quando ero pieno di scabbia che poi mi ha fatto infezione.. Allora ho dovuto marcare visita perché poi non riuscivo più neanche a camminare perché avevo dei foruncoli grossi proprio qui sotto le gambe e oltre la febbre facevo fatica anche a camminare.
Noi avevamo paura ad andare in infermeria perché si vedeva che tanti che andavano in infermeria non ritornavano più. Invece quando sono andato in infermeria mi è andata bene perché.. Io devo dire che quando alla mattina mi hanno portato là.. perché ci portavano in un posto dove c’erano gli ufficiali medici. C’era uno anche delle SS oltre agli ufficiali medici dell’infermeria. C’erano anche dei prigionieri che erano dottori. Lavoravano in infermeria.
Lì, c’era quell’ufficiale delle SS. Mi ricorderò sempre. Mi dice.. Perché noi si andava in infermeria e quando si fa questa visita di controllo, eravamo là vestiti, e lui ha visto che ero italiano e mi dice: “Di che città sei?”.

D: Parlava italiano?

R: Sì, ha parlato in italiano: “Di che città sei?”. Io gli ho detto di Milano. Poi sono venuto a sapere che era un medico italiano che aveva sposato un’austriaca e si era arruolato nelle SS. Questo lo sono venuto a sapere poi. Però da quello che ho saputo anche da quelli che come il dottor Carpi, che lui anche sono stati tanto tempo in infermeria che faceva questi disegni, Cercava di aiutare un po’ gli italiani.
E lui mi dice: “Cos’hai fatto?” e io ci ho detto: “Avevo la scabbia. Poi mi ha fatto infezione”. “Allora fammi vedere”. Allora ho abbassato i calzoni e gli ho fatto vedere. E lui mi ha detto: “Non aver paura. Ti manderemo fuori guarito”. E così e stato.
Io lì sono entrato in infermeria e sono stato operato. Mi hanno messo la maschera. Poi sono stato operato. Poi sono stato medicato. E lì in infermeria mi è andata anche bene perché mi davano anche da mangiare. Perché tante volte quelli che erano in infermeria gli davano più razioni da mangiare. Forse l’avrà ordinato lui, quello lì delle SS.
Praticamente io sono stato ricoverato forse un dieci o quindici giorni, non mi ricordo bene adesso, sono uscito che mi ero ripreso abbastanza bene. Per me l’esperienza della baracca ventisette mi è andata bene.
Però nella baracca ventisette c’erano quelli che poi ho saputo che ci davano da mangiare. Poi li tiravano su un po’. Poi li mettevano nell’acqua per vedere quanto potevano resistere, cioè, era un po’ per fare degli esperimenti. Per vedere quando venivano battuti gli apparecchi tedeschi nella manica. Per vedere quanto un pilota poteva sopravvivere. Perché loro fino a che avevano la speranza che uno poteva sopravvivere allora vedevano un prigioniero, lo mettevano lì per poter vedere quanto poteva resistere. Per poterli recuperare nella manica. Ecco, erano tutte queste cose.
Invece il blocco trentuno. Dove è stato regolato il blocco trentuno era brutto. Quelli là li eliminavano. Punture di benzina, così. Là era per la diarrea, per quelle cose lì. Malattie più brutte diciamo.

D: Ti ricordi di aver visto il forno crematorio?

R: Si beh, si senz’altro. Poi non c’erano problemi per avvicinarsi al forno crematorio. Potevi avvicinarti perché non cerano delle cose che lo vietavano. Potevi passare vicino al forno crematorio.
Quando lavoravo al kartoffelkommando avevamo un carro dove mettevamo su quelli che massacravano nella giornata e portavamo questo carro fino all’esterno del crematorio. Poi li lasciavamo li e poi li scaricavano quelli addetti al crematorio, questi prigionieri, per il crematorio.
C’erano morti e moribondi sul carro, perché li massacravano di botte così tanto che insomma..

D: Angelo tu hai lavorato anche in cava?

R: Si, in cava.

D: A Gusen?

R: Si, 10 giorni.

D: Cosa vuol dire lavorare in cava?

R: Guarda io ho lavorato in cava 10 giorni. Dopo la quarantina, quando mio fratello è partito per le officine è stato a Schwechat, Mödling e poi mio fratello non l’ho visto più fino a quando sono ritornato a casa.
Ecco, lavorare in cava! Lavorare in cava vuol dire una cosa terribile. Guardate, io in cava ho lavorato una decina di giorni; ho capito che ormai ero alla fine. Perché in cava uno poteva resistere un mese, un mese e qualche giorno, due mesi ma poi non ce la faceva più. Il lavoro era massacrante, c’erano i capi più cattivi; i kapò più cattivi. E non trovavi neanche un filo d’erba da mangiare perché io che ho lavorato in giro per i campi, tanta erba, quei tipi di insalata selvatica ne ho mangiata tantissima, ma in cava non puoi mica mangiare le pietre. In cava non c’erano i fili d’erba. In cava c’erano botte, lavori e basta.
Il lavoro era svolto così in cava: c’erano dei minatori specializzati che piazzavano le mine, queste mine scoppiavano alle 10,00, a mezzogiorno, alle 15,00, alle 18,00 alla sera. Ecco voi dovete sapere alle 18,00 alla sera, i prigionieri rientravano e scoppiavano le mine. Però il materiale che veniva giù preparavano il lavoro per quelli che andavano alle 06,00 alla mattina. A mezzogiorno intanto che mangiavi quel quarto d’ora di fermata, scoppiavano le mine. Alle 10,00 ti facevano ritirate.
Ecco alle 10,00, quando fischiava questo fischio, ritiravano i prigionieri e facevano scoppiare le mine. Però dovete sapere che tutto il materiale che cadeva tra uno scoppio e l’altro doveva essere portato via tutto. C’erano le pietre grosse e quelle venivano portate vicino allo scalo merci e lì poi venivano caricate sul treno. Allora quelle servivano per fare fortificazioni o altre cose. Invece quelle medie venivano messe sui vagonetti e poi questi vagonetti venivano spinti nel frantoio; perché lì a Gusen c’era un frantoio. Queste pietre venivano frantumate, erano le famose ghiaie che servono per le massicciate ferroviarie. Tutti questi lavori dovevano esser svolti.
Dovete sapere che per portarle in questi posti, o alla massicciata per essere portate via col treno, o sui vagonetti, c’erano dei ponti obbligati e per passare di lì c’erano questi kapò che picchiavano sempre.
Ecco perché in cava era difficile, impossibile resistere; perché erano delle grandi botte massacranti. Perché quelli picchiavano, allora le bastonate non era come la sera che ti mettevi lì con il sedere per aria e te le davano sul fondoschiena. Ma quando picchiavano sul lavoro dove andavano? Andavano sulla testa, sulla schiena, sul collo, dappertutto; dove cadevano questi colpi che erano picchiati con violenza micidiale.
Ecco perché tanti alla sera, quando rientravano in campo, erano così massacrati che poi li portavano direttamente al crematorio.

D: Perché poi tu non hai più lavorato in cava?

R: Non ho più lavorato in cava perché una mattina che ero lì in fila, ero lì in fila per uscire, e io capivo che non ce la facevo più, non potevo più resistere perché era una cosa impossibile resistere, ero lì in fila quando lo schreiber che ci contava lì sul piazzale del campo, ci conta sempre a cinque a cinque, arriva davanti a me si ferma e dice: “wieviel jahre?” che significa quanti anni hai, e io mettendomi sull’attenti perché questa era la prassi, rispondo 17 anni. Allora lui mi prende fuori e mi dice “in cava bisogna avere 18 anni per andare”. Allora in cava non mi hanno più mandato a lavorare, per me è andata bene; mi hanno salvato diciamo. Perché anche quello lì era uno schreiber polacco, perché questi schreiber polacchi tante volte mi davano l’impressione che cercavano di aiutare a salvare qualcuno. Erano prigionieri anche loro, erano prigionieri politici.
Io poi soltanto li in baracca ho fatto il garten kommando, altri comandi e via. E’ andata bene perché io…
Però io ero sempre nella baracca 12 dove c’erano quelli che lavoravano in queste cave. Ecco perché vedevo che in cava in poco tempo, poi lì nelle baracche e anche nelle cave c’erano quei kapò lì che erano cattivi, tremendi. C’era Otto che picchiava sempre, lui non picchiava mai con il bastone. Lui picchiava sempre con i pugni e sempre nel basso ventre. Sghignazzava come un matto e finché uno non vomitava non smetteva di picchiare. Era terribile quell’Otto lì. Poi un bel giorno è sparito e non si è più saputo quello che abbia fatto, però ho saputo che è sparito perché era un omosessuale ed è andato insieme a qualcuno, erano cose vietate e l’hanno fatto sparire e l’hanno ucciso.

D: Angelo, il giorno di Pasqua del ’44, che cosa è successo?

R: E’ successo quel tentativo di fuga di Nada Luigi, quel piemontese. Eravamo ancora in quarantina e lui aveva pensato di nascondersi in una baracca, era una baracca sul posto di lavoro non dentro nel campo, sul posto di lavoro lui ha pensato che lì dove mettevano tutti gli attrezzi, i badili, tutte quelle cose, lui si è nascosto lì, aveva fatto dei sacchi, aveva fatto come delle cose di tela, dei vestiti e lui ha detto: “qui di notte quando ritirano le sentinelle”, lui aveva pensato di fuggire.
I suoi amici dicono che era uno che aveva sempre nella testa la sua famiglia, ed aveva sempre nella testa questa cosa qui di fuggire.
Io non lo conoscevo ancora e non l’ho neanche mai conosciuto.
Praticamente quella sera lì, alla fine del lavoro, quando ci allineano tutti lì ancora sul posto di lavoro, perché allora ci allineavano tutti lì per il primo appello. Perché loro ci allineavano qualche dieci minuti prima del sei, perché alle sei dovevamo entrare in campo e poi ci contano. Perché loro dalle SS se hanno avuto tutti questi prigionieri, loro i prigionieri dovevano portarli in campo. O vivi o morti dovevano portarli in campo, perché quelli che uccidevano li dovevano portare in campo. In campo dovevano entrare anche i morti, ecco perché c’erano quei carichi dove mettevano questi morti, perché là li contavano. Se questo commando usciva con cento prigionieri, cento ne dovevano rientrare; o morti o vivi.
Lì ne manca uno, e loro ci contano due o tre volte e poi partono alla caccia con i cani lupo, questi kapò. Sono arrivati due o tre comandanti della SS, fino a che l’hanno trovato. Non ci hanno messo molto a trovarlo perché i posti da cercare, saranno entrati in questa baracca e lo hanno trovato. Praticamente l’hanno trovato e lo hanno portato in mezzo a noi che perdeva sangue dappertutto. Chissà le botte che gli hanno dato. E poi lo hanno incolonnato ancora; è entrato in campo con noi. Ormai gli altri comandi erano rientrati in campo e noi siamo rientrati per ultimi. Quando siamo rientrati, perché quando rientrano tutti in campo rientrano le sentinelle che ci sono esterne.
Questo era il giorno di Pasqua. Quel giorno di Pasqua non abbiamo lavorato fino a sera. No non fino a sera ma qualche ora prima ci hanno fatto rientrare. Poi l’hanno messo lì, è venuto quello delle SS e ha dato l’ordine di farlo fuori, perché l’ordine doveva darlo quello delle SS.
L’hanno fatto prendere da quattro di Torino, l’hanno fatto portare al wascheraum e l’hanno fatto annegare nell’acqua. Tanti dicono la botte, tanti dicono…, ma io la botte non l’ho mai vista però lo hanno fatto annegare nell’acqua. Praticamente l’anno fatto annegare nell’acqua, quelli gli hanno tenuto giù la testa un po’ poi non ce l’hanno fatta più e poi gliel’hanno tenuta giù i kapò. Lui ha avuto ancora quell’attimo che ha avuto la forza di tirare su la testa e le ultime parole sono state: “mio Dio, mia moglie e i mie figli”. Poi i kapò gli hanno tenuto giù la testa ed è morto così.
Poi questo morto lo hanno messo all’esterno della baracca e ci hanno fatto girare in giro tutti noi. C’era quello tedesco che parlava e l’interprete che lo diceva in italiano, che è questa: “E’ la sorte riservata a tutti coloro che tenteranno la fuga o che si ribelleranno.” E infatti io, nel periodo che sono rimasto lì, ho visto dei casi di tentativi di fuga o di ribellione e hanno fatto la stessa fine. Anzi, ho visto un italiano che si era ribellato ad un kapò, l’hanno massacrato di botte e poi è venuto quello delle SS e gli ha sparato un colpo di pistola, uno per ginocchio. Poi lo hanno lasciato morire lì così ed alla fine lo hanno messo nell’acqua. Ma penso che quando lo hanno messo nell’acqua era già morto.
La prassi di mettere nell’acqua c’era sempre in tutti i tentativi. Vedi che anche quel generale russo lo hanno congelato vivo? Era una cosa che a loro forse faceva parte del loro modo di pensare.

D: Angelo e atti di solidarietà?

R: Si anche quelli ne ho visti tanti e molto importanti. Guarda se non c’erano atti di solidarietà io…….
Il primo atto di solidarietà è stato in quella famosa baracca, quando io e Galbani stavamo mettendo il verde in giro ad una baracca della Wehrmacht, dei soldati tedeschi.
Eravamo all’ingresso di Gusen II e lì c’era una baracca dove mettevano questo, perché lì mettevano, quando ritiravano questi soldati dal fronte, allora cercavano questi battaglioni di ricostruirli e allora li tenevano lì quei 15-20 giorni. Noi stavamo mettendo il verde in giro a questa baracca. Io e Galbani eravamo solamente noi di prigionieri, poco distante da noi c’era un gruppo di SS, e quando all’interno della baracca sentiamo questa voce che dice: “It”. Forse lui era da diversi giorni che ci curava, E per trovare l’occasione prima di tutto in baracca non ci doveva essere nessuno perché per quello penso che anche loro avevano paura perché c’è sempre la spia. E io faccio per guardare e mi dice: “no stai giù, stai giù, di dove siete?”.

D: In italiano?

R: Si, parlava in italiano. “Di Milano”, “andate dove portate lo sporco che ho messo là un pacco per voi”.
Io questo soldato tedesco non l’ho mai visto. Ho sentito la sua voce, parlava in italiano. Dove c’era il posto della pattumiere abbiamo trovato un pacco per noi. C’era del pane, della margarina, qualche fettina di salame. Noi per diversi giorni, almeno 5 o 6 giorni abbiamo trovato questo pacco per noi. Non abbiamo mai saputo chi era questo soldato. Ecco perché io non accetto mai di parlare male dei tedeschi, perché anche se in quel periodo hanno avuto una dittatura, che era anche forse una maggioranza del popolo tedesco, però c’era anche una parte del popolo tedesco che……
Altra solidarietà di tedeschi l’ho avuta dai prigionieri medesimi, però questo era un soldato.

D: Che tu non hai mai visto.

R: Non ho mai visto. Sarebbe stato molto bello se io dopo la liberazione……. Perché lui era lì, poi da lì è stato mandato al fronte. Può darsi che sia morto in guerra, può darsi che sia un sopravvissuto. Se è un sopravvissuto anche lui si ricorderà di queste cose. Però queste cose di solidarietà che sono successe sono molto importanti.
Poi ne ho dentro anche da prigionieri, anche da prigionieri politici austriaci, anche polacchi, anche di solidarietà spagnoli. Tra di noi ce n’è stata tantissima. Anche di noi italiani insomma. La solidarietà in quei posti aiuta molto.

D: Lì stavi accennando a spagnoli ed austriaci, dentro a Gusen c’erano italiani, quindi spagnoli.

R: Si ce n’erano tanti. Si può dire che c’erano oltre gli spagnoli, i francesi, polacchi, russi. Allora erano ancora lituani, ce n’erano anche di quelli. C’erano olandesi, belgi; ce n’erano un po’ di tutti.

D: Come facevate a capirvi?

R: Tra di noi c’era come una lingua internazionale. Potevo incontrare qualunque prigioniero poi io giovane imparavo bene le cose. Poi c’era un russo che lavorava con me che lui parlava quasi l’italiano. Ma sai com’era bravo Fiodorov? Poi lui aveva una mania per la lingua italiana. I miei amici principali sono stati anche quei russi, perché quando ero al garten kommando lavoravo anche al kartoffelmittel con Fiodorov, con Pavan, con Signorenko, con questi russi, con Paullo. Ma quel Fiodorov studiava da ingegnere e lui aveva proprio la mania di imparare la lingua italiana. Quando io e Galbani si parlava e lui sentiva qualche parola nuova mi diceva: “Cosa vuol dire questo? Cosa vuol dire quello?”. Ma sai com’era bravo? Anche lui chissà se sarà sopravvissuto, perché negli ultimi giorni è stato in reparto infermeria. Non so che fine abbia fatto. Poi un bel giorno è arrivata la Croce Rossa russa, dopo la liberazione, e i suoi prigionieri se li è portati via. Io non ho più avuto l’occasione se Pavan, Fiodorov siano sopravvissuti. Erano proprio… ma che bravi.

D: Anche questo è uno dei deportati politici?

R: Si lui faceva il partigiano. Lui è stato preso a 70 Km prima di Leningrado. Ma con noi italiani lui aveva il debole. Ci volevamo molto bene tra di noi, ci siamo aiutati molto.

D: Ascolta, poi arriva il maggio del ’45. Cosa succede nel maggio del ’45?

R: Nel maggio del ’45 la prima cosa che succede è stata quella che le SS una mattina noi non la vediamo più. Al posto della SS ci sono la Wehrmacht, cioè l’esercito tedesco. Tutti piuttosto anziani e loro hanno detto di non tentare niente che loro hanno l’ordine di tenere la disciplina e basta. Di stare lì e di non fare niente.
Infatti le SS, questi soldati così coraggiosi, così tremendi che per comandarci a noi …… allora non sono stati lì a difendere anche le loro idee. Coraggiosamente se la sono filata anche loro. Questa qui è una cosa da dire, perché loro hanno messo i vestiti in borghese e sono fuggiti. Avevano già i posti dove andare.

D: Voi sapevate che era imminente la liberazione?

R: Si perché a noi è andata bene, perché noi con più si sentiva avvicinare il cannone, perché era ormai da diversi giorni che si sentivano i colpi di cannone che si sentivano sempre più bene e significava che si stavano avvicinando. Perché noi avevamo anche la grande paura perché circolavano anche le voci che ci facevano fuori tutti. Per noi è stata una grande soddisfazione quando non c’è più stata la SS e c’è stata la Wehrmacht. E allora abbiamo avuto la speranza che la SS non ci facesse fuori e infatti. Perché la SS ci aveva dato l’ordine, da quello che si è sentito dire, di farci fuori. Ci dovevano far andare sotto le gallerie di Gusen, erano già minate e farle scoppiare. Ci ha dato l’ordine l’esercito alla Wehrmacht, però questo generale non ha eseguito questo ordine e a quanto pare abbia avuto anche un encomio dagli alleati.

D: E quando sono arrivati?

R: Il 5 maggio. Cioè la notte del 4 maggio c’è stato un cannoneggiamento. Lì dove c’è Gusen, noi guardiamo dietro dove ci sono le cave di Gusen, lì sopra era piazzata una batteria di cannoni tedesca. E quella notte c’è stato un forte cannoneggiamento, si sentivano i cannoni che sparavano e gli americani che rispondevano. Poi verso le 02,00 – le 03,00 c’è stato silenzio e allora noi la mattina, guardando verso la batteria tedesca, era completamente distrutta.
Gli americani avevano attraversato il Danubio e alla sera verso le 17,00 sono arrivati lì.

D: Dove ti trovavi?

R: All’esterno delle baracche. Si vedevano questi kapò, questi delinquenti diciamo, che erano sempre così spavaldi anche loro e gli ultimi giorni, quando si è ritirata la SS, si vedeva che parlavano tra di loro, che avevano paura. E allora cercavano di organizzarsi perché avevano paura che li facessero fuori anche loro.
Infatti, noi verso le cinque, come ho detti prima, si sente dire che sono arrivati gli americani. Pensate che cinque minuti prima noi in tutte le baracche, non eravamo radunati sul piazzale, in ogni baracca i kapò tenevano radunati i loro prigionieri e loro cercavano di tenerli lì e di fuggire subito. Loro avevano pensato a questo sistema.
Pensate che alle cinque meno cinque un russo che era là in piedi e non ce la faceva più a stare in piedi, è caduto per terra e l’hanno massacrato di botte. Questo alle cinque meno cinque. Alle cinque senti dire che sono arrivati gli americani e allora come si sente dire questo è cominciato il linciaggio dei kapò. I russi che avevano lì i kapò li hanno fatti fuori subito. E quella sera lì è successo un po’ il finimondo.
Gli americani che cosa hanno fatto? Hanno preso prigionieri questi soldati anziani, le armi le hanno buttate e poi hanno buttato su un po’ di benzina ed hanno dato fuoco. Poi gli americani sono partiti ed hanno portato via i prigionieri, quelli della Wehrmacht e poi non si sono più visti per qualche giorno. E allora i prigionieri russi, spagnoli, quelli fisicamente più in gamba hanno preso un po’ di armi hanno circondato il campo e poi c’è stata la caccia ai kapò. I kapò hanno cercato di fuggire ma hanno trovato dei prigionieri armati che li avrebbero fatti fuori perché li conoscevano; quella sera lì è successo il massacro perché tanti kapò sono stati uccisi.
Poi oltre ai prigionieri c’è stata la caccia anche al cibo; c’è stato l’assalto alla cucina. Io così giovane mi sono lanciato in cucina per cercare, dalla grande fame che avevo, e poi quasi ci lascio anche la pelle perché ci sono stati tanti morti quando c’è stato l’assalto alla cucina perché tutti ti schiacciavano lì…

D: Ripeti, l’assalto alla cucina….

R: C’è stato l’assalto alla cucina e io inconsciamente mi sono lanciato anch’io all’assalto. Guardate, tanti sono morti e io quasi non ce la facevo più ad uscire perché tutti ti spingevano. Sono arrivato dove c’era il bidone della ricotta e della marmellata, prendevo le mani di ricotta e di marmellata per mettermele nella bocca ma non sono mai riuscito di mettermele in bocca perché quelli dietro di me mi portavano via tutto. Una cosa assurda. Alla fine mi è andata bene che sono riuscito ad uscire fuori vivo da quel casino lì. E’ stato un errore che ho fatto anche io di lanciarmi all’assalto alla cucina; per la fame. E’ stata la grande fame.
Poi alla fine io e Galbani siamo andati dove c’erano i conigli per cercare di mangiarne qualcuno. Siamo andati verso le gabbie dei conigli e sul percorso ho trovato Richard, che era un kapò della baracca 16, era tutto insanguinato anche lui mentre stava fuggendo. Aveva in mano un coltello. Allora io e Galbani siamo fuggiti dentro ad una baracca perché noi eravamo disarmati. Poi abbiamo trovato un gruppo di russi che lo cercavano e che ci dicevano che era scappato, poi lo hanno inseguito e non so se lo hanno preso.
Praticamente noi siamo arrivati alle gabbie dei conigli e i conigli erano spariti tutti. Alla sera della liberazione io e Galbani, ho trovato un russo un mio amico, non Fiodorov, perché Fiodorov era in infermeria, perché se era Fiodorov, un altro di quei russi con cui ho lavorato insieme mi ha dato la testa del coniglio, mi ha dato anche troppo.
Allora noi abbiamo preso due o tre patate, siamo andati al deposito delle patate, abbiamo fatto cuocere questa testa del coniglio con le patate nell’acqua sporca, perché erano saltate tutti i rubinetti e l’acqua non c’era più. Allora c’era un po’ di pozzanghere d’acqua e abbiamo fatto cuocere un po’ tutto; questo stato quello che abbiamo mangiato noi il giorno della liberazione.
Per gli altri giorni dovevamo arrangiarci perché gli americani sono tornati dopo quattro o cinque giorni. Dopo ci hanno rastrellato, ecco perché tanti sono morti ancora dopo la liberazione, perché ognuno quello che trovava tanto da mangiare mangiava tanto e poi moriva, quello che trovava poco mangiava poco però………
Però non era colpa degli americani, perché di campi di concentramento lì ce n’erano tantissimi e in tutti posti dove andavano ne trovavano e trovavano gente affamata da curare e via. E loro dovevano andare avanti anche a fare la guerra e per quello ne sono morti tantissimi anche dopo.

D: E che cosa pensavi in quel momento lì?

R: Dalla liberazione? Si era contenti e tutto, si cercava di sopravvivere. Però il nostro pensiero era si per i genitori, per tutti e per tutto, ma il pensiero più forte era quello di trovare da mangiare. E’ una cosa assurda dirla oggi, ma in quei momenti là…
Sai in quante baracche siamo andati a svaligiare ma c’erano sempre vestiti. Ho buttato via anche la divisa e mi sono vestito di quei vestiti lì che trovavo nelle baracche. Perché lì c’erano tantissime baracche piene di vestiario, perché erano tutte cose che portavano via dall’Italia o da altre nazioni.
Ma noi cercavamo da mangiare e da mangiare non ne trovavi più. Alla fine per mangiare dovevi andare ancora al deposito delle patate e far cuocere qualche patata sempre con l’acqua sporca.

D: E la gente che abitava lì attorno?

R: Case ce n’erano poche. Poi siamo andati anche nelle famiglie e c’è stata una famiglia, ecco questa me la ricorderò sempre. C’è stata una donna piuttosto anziana che ci fatto entrare, a me e a Galbani, ci ha fatto da mangiare una pastasciutta dolce. C’era anche Terzi insieme e abbiamo mangiato questa pastasciutta dolce. Poverina, questi ci hanno raccontato un po’… però lei ci ha accolto bene, magari se l’è levato di bocca lei per darcela a noi.
Ma a noi era un fame che anche se mangiavi qualche cosa ce l’avevi sempre. Poi sono andato verso il Danubio, perché ci siamo allontanati un po’ dal campo, e abbiamo trovato le lumache. Là ce n’erano tantissime, ma sai che estensione di lumache che c’era? Poi abbiamo acceso il fuoco e le abbiamo fatte cuocere in mezzo al fuoco.
Ecco perché ne sono morti ancora tanti. E anch’io dopo mi sono ammalato e quando sono venuti gli americani alla fine mi hanno ricoverato in infermeria.

D: E poi il ritorno a casa.

R: Il ritorno a casa anche questo. Perché io quando sono ritornati gli americani, no il giorno prima del ritorno degli americani…
Quando sono venuti gli americani ci hanno portati in baracca, poi ci hanno curato, ci hanno visitato e disinfettato con nuvole di ddt. Poi hanno cominciato a darci da mangiare qualche cosa e ci hanno visitato e mi hanno detto che io dovevo essere ricoverato in infermeria perché stavo male, avevo la diarrea. Erano state le lumache e tutte quelle porcherie che avevo mangiato in giro; la carne del cavallo cruda. Più che altro è stata la carne di cavallo, quando ci siamo radunati all’esterno delle officine della Steyr, noi italiani abbiamo requisito un cavallo e lo abbiamo macellato e mangiato. E quella carne lì mi ha rovinato, per me è stata la carne di cavallo che i ha rovinato.
Il giorno prima che mi ricoverassero in infermeria è venuto il Giuliano Paietta, che era a Mauthausen, è venuto a prendere il nome dei deportati sopravvissuti di Gusen.
Lui aveva la lista dei sopravvissuti e gli ho detto se c’era Signorelli Giuseppe e lui mi ha detto: “Sì, tuo fratello è a Mauthausen”. “Allora digli che domani devo essere ricoverato in infermeria e se può venire a trovarmi, perché io non posso andare a trovarlo”. E allora io il giorno dopo sono stato ricoverato in infermerie e come sono stato ricoverato sono andato quasi in coma. Sono stato più di 20 giorni in quelle condizioni. Io non conoscevo più nessuno. E’ stato lì anche mio fratello a trovarmi, perché il Paietta è andato là e poi dopo tre o quattro giorni ha preso un soldato americano e ha portato mio fratello in camionetta ed è venuto a trovarmi. Mi ha visto in che condizioni ero e voleva stare lì però l’americano gli ha detto che aveva l’ordine di riportarlo indietro e l’ha riportato indietro. Lui è rimpatriato 15 giorni prima di me tramite la Croce Rossa svizzera e non ha detto a mia mamma in che condizioni ero perché non sapeva se ce la facevo.
Poi il fatto è successo così: dopo diversi giorni, una mattina, gli americani hanno cominciato a fare la penicillina. Loro ce l’avevano già e l’avevano data in infermeria, però i dottori polacchi la facevano ai suoi più che ai nostri. Però un mio amico italiano l’ha saputo ed è andato in infermeria a fare un po’ di baccano e gli ha detto di farla anche agli italiani perché se no avrebbe avvisato il comandante americano.
Così me l’hanno fatta. Mi ricordo che una sera mi hanno fatto quella puntura lì e succede che la mattina verso le 04,00 mi sveglio, ero uscito forse dalla mia fase di coma. Poi mi hanno detto che in quelle condizioni sono stato 27 giorni, ma io come se fosse stato un giorno. Io apro gli occhi, guardo in giro e la prima cosa che mi colpisce è stato il lenzuolo bianco. E mi sono chiesto: “Dove sono qua?” Poi la seconda cosa: una grande fame che ho addosso, una fame, una fame, una fame.
In fondo alla baracca c’è un lumino acceso e come vedo questo lumino con la grande fame che ho, ho pensato di andare là per cercare da mangiare. Io ero sul castello ma a pian terreno, esco, mi metto in piedi ma debole com’ero sono caduto per terra. Allora quando l’infermiere di turno ha sentito è venuto lì e mi ha sgridato dicendo: “italiano stai a letto, ma che cosa fai?” “Ho fame, ho fame” “Hai fame ma stai a letto, non mangi niente”. Poi mi ha messo a letto ed è andato a chiamare il dottore. Il dottore mi guarda, hanno parlato tra di loro e ho capito che erano contenti e che stavo un po’ bene. Però loro non mi davano da mangiare; io avevo fame, continuavo a cercare da mangiare. Poi succede che la mattina mi danno un po’ di caffè da bere, ma da mangiare non mi danno niente. Al pomeriggio, quando Galbani viene dentro, perché veniva tutti i giorni a trovarmi. Mi portava un po’ di miele, un po’ di zucchero per mettermelo sulle labbra. Mi faceva mangiare un po’ di biscotti. Ecco io quando c’era Galbani, anche se ero incosciente, io me lo sentivo che era lì vicino. Quando c’è stato mio fratello io non ho percepito niente, però veniva Galbani, forse avendo lavorato tutto quel periodo insieme, io capivo che era lì vicino. E allora gli dico: “Pino hai lì qualche cosa da darmi da mangiare? Ho fame.” E lui mi ha dato un po’ di biscotti, quello che aveva mi ha dato e io ho mangiato anche se i medici non avevano dato l’ordine. E poi mi dice: “Guarda che domani noi rimpatriamo. Dobbiamo andare a Mauthausen e poi ci portano. E tu non puoi partire con noi”. “Io vengo con te, io vengo con te”, “ma non puoi, non puoi”. “Tu mi lasci qui?”
Quando gli ho detto così è andato a parlare dicendo che io volevo tornare. E’ venuto lì il dottore a parlare e dice:” No vediamo” “Ma io ho fame, datemi da mangiare”.
Insomma praticamente poi ha fatto portare un po’ di tè con due o tre biscotti; si va bene era qualche cosa.
Viene il giorno dopo, io ero convinto mi hanno fatto firmare la carta e sono partito.
Pino e un altro di Lecco mi aiutavano a tenermi su, mi hanno messo su un camion.
Pensate, 4 km di strada partendo da Gusen per arrivare a Mauthausen, sono sceso da solo dal camion, solamente per la grande voglia che avevo per rimpatriare. Galbani e altri mi hanno dato un po’ di miele, tutto quello che mi davano io mangiavo. Ormai forse ero sulla strada buona insomma.

D: Poi sei rientrato in Italia.

R: Si sono rientrato in Italia. Quando siamo partiti da Bolzano ho detto all’autista del camion, perché da Bolzano a Milano l’abbiamo fatta in camion, gli ho detto: “Mi raccomando tutti i posti di ristoro che ci sono di fermarsi a mangiare perché io ho fame”.
A Trento poi, il primo posto dove mi sono fermato, mi davano risotto, pane, un panino o due. Ma io avevo sempre fame. Poi a Trento ho trovato quel prete che mi ha detto: “Così giovane così magro, da dove vieni?” “Da Mauthausen”. “Vieni dietro là” e mi ha dato un vino di quello buono che bevevano quelli che dicevano la messa. E’ il primo bicchiere di vino che ho bevuto. Ma io avevo sempre tanta di quella fame…..

D: Da Mauthausen e il rientro in Italia, chi è che l’aveva organizzato?

R: Gli americani lo hanno organizzato.

D: In treno?

R: In treno. Ci hanno portato a Linz, da Linz ci hanno dato un pacco viveri.
La storia del pacco viveri. Gli americani ci hanno dato un pacco viveri, ogni prigioniero un pacco viveri. In questo pacco c’erano scatolette di carne, biscotti; c’era di tutto. Anche delle sigarette.
Io, con quella fame che avevo, perché anche quando ero a Mauthausen avevo sempre fame, mi davano la mia razione ma però avevo sempre fame. Tanto è vero che una volta sono andato fuori a lavorare per darmi una razione doppia. Va beh. Come parte questo treno, in ogni vagone c’era un soldato americano che ci accompagnava. Io mi sono seduto in un angolino, non eravamo quaranta come quando siamo partiti, saremo stati una ventina. La prima cosa che mi hanno detto è stato: “Questo pacco viveri deve durare per un paio di giorni per arrivare fino a Innsbruck”, ma io con la gran fame che avevo mi sono messo in un angolino e senza accorgermi alla fine mi sono accorto che sono rimaste appena le sigarette. Le scatolette di carne e tutto il resto, mi sono mangiato tutto. E poi avevo fame ancora. Avevo le sigarette, ma io non fumo.
Poi il treno ha avuto anche la sfortuna che si è rotto, è stato fermo 24 ore perché hanno dovuto cambiare il pezzo della locomotiva. Lì c’erano dei vagoni con dei civili che rientravano, non solamente i prigionieri deportati; i prigionieri militari, i prigionieri che erano andati anche volontari a lavorare e che avevano le famiglie intiere.
E quando il treno si è fermato in quel posto lì, io ho cerato di andare avanti e indietro per vedere se qualcuno mi dava qualche cosa da mangiare, non ho trovato nessuno che mi ha dato niente. Poi ho trovato uno che io gli ho dato le sigarette e lui mi ha dato qualche patata; l’unico scambio che ho fatto.
Poi siamo arrivati a Innsbruck, finalmente siamo arrivati a Innsbruck, con una gran fame. A Innsbruck usciamo dalla stazione e ci portano in un campo di raccolta gestito dagli alpini italiani. Tutti gli italiani che rientravano dalla Germania lì li fermavano per organizzare e poi la cosa passava in mano agli italiani. Lì c’era questo campo che era gestito dagli italiani.
Io devo raccontare questo fatto perché…. Era fuori dalla stazione un paio di chilometri, ci hanno portato là, alla sera ci danno una pagnotta, una gamella con il risotto e un po’ di carne ad ognuno. Però è successa la solita cosa e cioè che io quando ho finito di mangiare, era una bella gamella di risotto, io avevo ancora fame, perché era una cosa guardate, forse io ero malato così, quella fame era come una malattia, ce l’avevo sempre. Allora dico a Galbani: “Io ho fame” e lui mi dice: “Non parlare” e io gli ho detto: “Andiamo a cercare da mangiare”. “E dove vuoi andare?”. “Andiamo dove c’è la cucina, forse qualche cosa troviamo. Se stiamo qui non mangiamo più”. E infatti partiamo, il campo era molto grande, poi la troviamo la cucina. Arriviamo in cucina, guardiamo lì di fuori, facciamo per entrare in cucina e c’è una sentinella italiana, un alpino italiano che non ci lascia entrare. “Perché volete venire in cucina?” ci chiede. “Perché ho fame” ci dico. “Ma te non hai mangiato la tua razione?”. “E si, ma ho fame ancora”. “Aspetta allora che vado a chiamare l’ufficiale di servizio della cucina”. Viene lì con questo ufficiale e mi dice “Ma te così magro” mi guardava poi ero magrissimo perché ero stato anche in infermeria tutto quel tempo lì “Ma da dove vieni?”. “Vengo da Mauthausen”. “Da Mauthausen venite?”. “Ho una gran fame”. “Ma la vostra razione?”. “E ce l’anno data, ma io ho sempre fame”. Allora parlano tra di loro e ci dicono di aspettare lì. Circa dopo 10 minuti arriva questo ufficiale alpino insieme ad altri due o tre ufficiali alpini e ci portano per ognuno una gamella così piena di risotto, due o tre pezzettoni di carne e un paio di pagnotte, a tutti e due. Io in 10 minuti, mezzora mi sono mangiato tutto. Adesso gli dico: “Adesso posso dire che sto proprio bene, adesso non ho più fame”. Quelli ridevano tra di loro, ridevano anche a vederci mangiare.

D: Lì avevi 18 anni?

R: Si. Ormai 18 anni.

D: Quanto pesavi?

R: Sarò stato sui 35 kg. 35-36. Ma forse con quella penicillina che ci hanno dato gli americani io ero guarito, però avevo fame.

D: Poi sei arrivato a Bolzano.

R: Si sono arrivato a Bolzano.

D: E a Bolzano dove ti hanno messo?

R: A Bolzano c’era tutto organizzato. C’era un posto che era gestito dalla Croce Rossa italiana o internazionale, non so. Poi ci hanno dato da mangiare, la nostra razione da mangiare. Anche lì avevo fame, però lì era quella. Poi si doveva partire.
Da Bolzano in avanti le linee ferroviarie erano tutte distrutte, però c’erano degli autocarri, camion e mezzi di fortuna che arrivavano a Bolzano e ogni regione prendevano i suoi. E lì ho avuto la fortuna di trovare il camion della Falck di Sesto San Giovanni. L’autista lo conoscevo, era Seveso, era uno operaio della Falck Unione. La prima cosa che gli ho domandato è stato: “Mio padre?”. “Si, ci sono tutti. Tuo padre, tua madre. Tuo fratello è tornato, ti aspettano a casa” mi risponde. Allora siamo partiti con quel camion e ho detto a Seveso: “Mi raccomando Seveso tutti i posti di ristoro che trovi sulla strada….”. Perché lui mi aveva detto che c’erano dei posti di ristori quando gli avevo chiesto se aveva qualche cosa da mangiare. “Allora tutti i posti di ristoro che trovi fermati perché io ho sempre fame” gli dico. E infatti così è stato. Ero amico dell’autista, il primo posto dove si è fermato è stato a Trento. Poi i posti gestiti dalle suore, perfino di notte in un posto sulla riva del lago di Garda gestito dalla suore. Perché lì erano preparati, arrivavano a qualsiasi ora. Erano forse le due o le tre di notte e anche lì ci siamo fermati e abbiamo mangiato pastasciutta o risotto, era sempre quello, un pezzettino di carne e una pagnotta e via.
Poi l’ultima cosa visto che siamo sul ragionamento del cibo. Finalmente arriviamo a Monza, quelli di Monza scendono a Manza. Io faccio la strada di Monza che va a Sesto che è la Via Borgazzi, e io dovrei scendere alla Bettola per andare a casa. Era mezzogiorno e Seveso mi dice: “adesso andiamo giù alla Falck che hanno preparato polenta e coniglio” e io ero lì nel dubbio. Volevo scendere perché ormai ero vicino a casa mia, ho fatto fermare il camion e ho detto: “io vado perché c’è mia madre”. Volevo vedere mia madre anche se avevo fame. Però ho avuto la fortuna di vedere fermo un ragazzo, l’ho chiamato e gli ho detto di andare a casa ad avvisare mia madre che io ero arrivato ma che adesso andavo a Sesto a mangiare. Lì si è deciso tutto.
Infatti sono andato a Sesto e ho fatto anche bene, perché c’era coniglio e ho mangiato abbastanza bene e tanto, l’importante era quello.
Poi l’ultimo pezzo l’ho fatto in bicicletta perché era un sabato e hanno trovato mio padre che lavorava, l’hanno avvisato è uscito ed è venuto lì. Invece c’era uno che lavorava vicino a me fino a mezzogiorno mi ha portato a casa; dalla Falck fino a Sant’Alessandro in bicicletta.
Là c’era tutta la gente che mi aspettava, è stato molto bello. Ho trovato mia madre, mio fratello, mia sorella, l’altro mio fratello e tutti gli altri. C’era tantissima gente e questo è stato il ritorno.

D: Ascolta Angelo, e poi il rientro, il rientro dai tuoi amici, nel posto di lavoro; il rientro alla vita, com’è stato?

R: Piano piano. Ho cominciato a lavorare forse nel mese di dicembre del ’45, perché prima ho dovuto curarmi e poi il ministero post bellico mi ha mandato su a Selvino e poi la Falck mi ha mandato a Baveno sul lago Maggiore. Comunque in quel periodo devo ringraziare tutti quelli lì perché hanno fatto tanto per noi.

D: Quando tu raccontavi, c’era gente che ti chiedeva del campo di concentramento?

R: Sì beh, quando siamo rientrati i primi giorni, i primi tempi, i famigliari di quelli che sono morti là, perché là ne sono morti tantissimi, venivano a casa e mi domandavano per avere notizie dei loro famigliari e io raccontavo. Tanto è vero che al primo che è venuto gli ho raccontato per filo e per segno, perché non avevo ancora imparato un po’ la malizia a raccontare queste cose, io ero giovane e ho raccontato tutto come lo hanno massacrato. E loro sono andati via sconvolti. Allora mio padre mia ha detto di non dire più quelle cose. Allora ho imparato un po’ a raccontare : “sì è morto perché il lavoro era tanto e da mangiare era poco. Qualche volta ti picchiavano”. Però il primo è stata una lezione e poi non ho più raccontato anche se ho visto delle morti spaventose, terribili, massacrati proprio… Però quei fatti lì non li ho più raccontati.

D: Angelo, Giovanni Sperandio però non è stato deportato?

R: Lui è stato ricoverato là ed è ritornato dopo quattro o cinque mesi.

D: Come mai?

R: Perché è stato ricoverato all’ospedale dagli americani. Lui era conciato…

D: E’ stato deportato?

R: Sì è stato deportato. Lui è finito a Ebensee. Lui era con me, è stato portato via con me, ha fatto Mauthausen, Gusen e poi lo hanno mandato al trasporto a Ebensee. Poi a Ebensee quando è c’è stata la liberazione degli americani lui era in infermeria.

D: Quindi ha fatto tutto il periodo di deportazione?

R: Sì. Quando è stato liberato dagli americani era in infermeria e poi era conciato così male perché lui…. Poi è ritornato in Italia, tanto è vero che io ai suoi genitori gli ho detto che era partito da Gusen e poi non ho saputo più niente di Giovanni. Non sapevo più niente, di sicuro non si sapeva più niente. Poi un bel giorno è ritornato. Poi è stato ricoverato in sanatorio, è stato diversi anni là.

D: Ascolta Angelo, tutto questo è partito perché tu con i tuoi fratelli ed altri operai eccetera avete fatto lo sciopero, nel ’44. Rifareste ancora lo sciopero?

R: Eh rifarei lo sciopero! In quel periodo bisognava fare qualche cosa, perché noi abbiamo riscattato anche l’onore della nostra patria con il nostro sacrificio, con le nostre sofferenze. Senz’altro soffrire ancora! Però in quegli attimi lì se non si faceva niente…
Invece noi con le nostre sofferenze, con i nostri sacrifici, con le nostre morti spaventose, con la lotta dei partigiani abbiamo riscattato il nome della nostra patria di fronte agli occhi del mondo.
Perché noi quando siamo arrivati a Mauthausen. Io sono stato uno dei primi italiani che è arrivato a Mauthausen. Noi italiani eravamo malvisti da tutti. Poi abbiamo detto che se eravamo lì non eravamo fascisti e che avevamo fatto anche noi la nostra parte.
Allora era giusto, in quell’attimo lì bisognava farlo quello sciopero. In quell’attimo lì bisognava fare la lotta partigiana. In quell’attimo lì bisognava soffrire insomma.

D: Angelo che cos’è la libertà?

R: La libertà è una cosa grande, bisogna tenerla da conto. Però la libertà non vuol dire schiacciare gli altri. La libertà e che sia libertà per tutti.

D: Angelo, che cos’è un lager?

R: Un lager è una cosa spaventosa. Poi quei lager lì erano cose brutte perché la persona in questi posti non esisteva più; la persona come persona umana. Lì esisteva un numero e questo numero era un numero da torturare, da farlo lavorare e da uccidere. I diritti non ne hai più. Eri un numero e finché rendevi qualche cosa ti lasciavano vivere. Perché ogni tanto quelli che non erano più in grado di rendere qualche cosa, di fare qualche lavoro li mandavano alla camera a gas. Il lager è la cosa più brutta che l’uomo ha creato.

D: Perché tu ogni anno ritorni a Gusen e a Mauthausen, al castello di Hartheim?

R: Perché noi a Mauthausen, a Gusen, in questi posti io quando sono ritornato in questi posti non avrei mai pensato che avrei avuto la forza di ritornare. I primi anni non ci sono ritornato, poi dentro di me ho cercato di ritornare per vedere. Perché noi in quei posti abbiamo lasciato una parte di noi. Io penso che in quei posti noi abbiamo lasciato una parte del nostro cuore, della nostra anima. Noi lì abbiamo lasciato i nostri migliori compagni. Noi ritorniamo anche per accompagnare le persone che vogliono andare in quei posti, perché tutti devono sapere che cosa è successo in quei posti per far sì che non risuccedano più queste cose. Abbiamo capito anche questo, perché ritornare, anche andare nelle scuole è stato un ritornare a vivere, ritornare a soffrire.
Io il primo anno che sono ritornato a Gusen dove ho sofferto così tanto ho sofferto ancora come quando ero là, però ho capito che era giusto ritornare. Anche andare nelle scuole ho sofferto, però era giusto andare. Quando ho scritto anche le mie memorie, le ho fatte con sofferenza. Però era giusto farle, perché le nuove generazioni devono sapere. Perché quando si perde la libertà si perde tutto.

D: Quindi secondo te è importante che i giovani sappiano?

R: Sappiano, conoscano e sappiano. Perché anche oggi che sono passati più di cinquanta anni, quando io vado nelle scuole tante volte mi lascio commuovere, mi lascio ancora prendere da grande commozione.

Dalmasso don Angelo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi presento, sono Don Angelo Dalmasso nato a Robilante in provincia di Cuneo, nella Valle Vermenagna, il 28 settembre del 1918. Sono stato in seminario a Cuneo, allievo poi dei collegi salesiani di Avigliana, Pinerolo, Torino, Foglizzo, poi sono ritornato in seminario e sono stato ordinato sacerdote il 19 di giugno del 1943, proprio i giorni in cui scoppiava l’inizio dell’epopea della Resistenza.
Il 19 di settembre di quell’anno io ero stato assegnato come vice parroco alla parrocchia di Sant’Ambrogio in Cuneo; il 19 settembre di quell’anno avveniva l’eccidio di Boves, ed uno dei miei compagni di ordinazione, Don Mario Ghibaudo, veniva ucciso dai tedeschi con il parroco Don Bernardi Giuseppe.
Gli eventi andavano avanti, si formavano le prime formazioni partigiane, soprattutto dei giovani delle nostre parrocchie, che non volevano andare alla leva fascista, alla leva, soprattutto i ragazzi del 1925-26 non volevano aderire alla leva fascista. E allora si formavano sulle montagne alcuni dei primi nuclei partigiani.
Uno dei primi fondato, diretto dal capitano Prato, si riunì a Monfranco, una località sopra Bandito di Rovaschia, nella Val Gesso. A natale del 1943 sempre, i giovani che erano quasi tutti appartenenti alle associazioni giovani di azione cattolica delle parrocchie cittadine di Cuneo, non volevano stare senza la messa di natale, e volevano scendere giù a Rovaschia per la funzione di mezzanotte. Circolavano già notizie che i Muti e soprattutto quelli di Salvi, il famoso comandante della Littorio mi pare, avrebbero fatto una rappresaglia nel paese.
Allora pregarono il vescovo di Cuneo di mandare un sacerdote a dire la messa di natale. Io ero vice parroco a Sant’Ambrogio che è attiguo al vescovado, il vescovo Monsignor Rosso mi mandò a chiamare, non mi comandò né mi propose di andare, mi disse se volevo andare, quindi sono andato di mia iniziativa si può dire, non perché il vescovo me lo abbia fatto fare. E sono andato a dire la messa su alle Baite di Monfranco, abbiamo detto la messa, i partigiani con quel capitano Franco che erano lì mi hanno dato un piccolo ristoro, ricordo della pastasciutta senza condimento. Poi siamo scesi giù e il giorno dopo nella chiesa di Sant’Ambrogio sono arrivati, non so se erano fascisti o chi erano, han chiesto di parlare con me, mi hanno prelevato e mi hanno portato dove c’era la sede del Littorio, adesso mi pare via XX Settembre, adesso è sede dell’Ufficio del Registro, mi pare.
A Cuneo allora nella chiesa di Sant’Ambrogio era il 3 gennaio, o il 2 gennaio, non ricordo ben preciso, ma mi pare il 3 gennaio (1944), era il primo venerdì del mese, i ragazzi dopo aver fatto una partita a pallone ci si radunava alle tre per un’ora di adorazione. In quel momento ho visto arrivare dei tipi strani in chiesa. Hanno aspettato che io finissi la funzione e mi hanno detto che volevano parlare con me. Io ho capito l’antifona, “qui vengono a prendermi”, c’erano già stati diversi arresti in città, soprattutto di esponenti antifascisti e soprattutto di sinistra. Allora ho chiesto di andarmi a prendere il cappello e avevo proprio l’idea di scappare attraverso il tetto della canonica, che era congiunto col Teatro Toselli, con l’Istituto San Michele, sapevo già la strada, sarei scappato, ma poi ho incontrato sulle scale il parroco che mi ha detto: “Se è solo per parlare non c’è motivi, vai pure”. Allora io ho preso il cappello e sono andato, mi hanno portato al Palazzo Littorio, che è in via XX Settembre mi pare, angolo, l’altra via non la ricordo bene. Lì un certo Commedi, che era della giustizia fascista o che so io, mi ha interrogato, ha chiamato anche un altro prete che era di Sant’Ambrogio, che loro conoscevano, Don Falco Carlo, e poi hanno telefonato all’Luesco, al Prefetto e ci hanno portati alla Caserma Piglione, che poi è stata destinata a distretto militare, ora però chiuso. Nella caserma Piglione ci hanno messo in una camera, una specie di cella, noi due preti, e siamo stati lì 4 o 5 giorni. Comedi con un altro è venuto sovente a interrogarci, e in quell’occasione hanno portato anche dei ragazzi della milizia della Littorio che noi avevamo preso in parrocchia per aiutarli. Forse proprio loro hanno fatto la delazione, sono stati la causa del nostro arresto. Lì per farmi paura volevano chiedere nomi, località. Io ero solo andato a dir messa, sapevo ben poco. Allora han fatto chiamare il plotone di esecuzione, era la sera del 4 gennaio, mi pare, verso le 16.00, mi ricordo lì nella caserma Piglione, mi hanno messo il plotone davanti e io cosa potevo fare? Ho detto che io, quello che volevano sapere, non lo sapevo, non ero a conoscenza di altri dislocamenti partigiani né di nomi né di famiglie di parenti di questi partigiani. Allora hanno parlottato tra di loro, poi mi hanno riportato in cella, “vedremo domani”. Il giorno dopo la stessa commedia; ricordo che Don Falco, bravo, dalla finestra della cella mi dava la assoluzione mentre io ero là davanti al plotone di esecuzione e poi anche la seconda, la terza e la quarta volta è finito tutto così in commedia. Poi dalla caserma Piglione ci hanno portati alle carceri di Via Leutrum, le vecchie carceri giudiziarie di Cuneo, che erano proprio nel territorio della parrocchia di Sant’Ambrogio, e io come viceparroco andavo a fare il cappellano lì, il vero cappellano era il parroco ma la domenica io andavo sul posto a dire messa.
Mentre andavamo giù, e io lì ero praticissimo, passando in piazza Virgilio c’era un funerale di un bambino, ricordo, quei funerali degli innocenti, sapevo già che c’era un’entrata in un vecchio palazzo dove si entrava in una cucina che dava in una bettola e si usciva poi nei portici di via Roma. Ho cercato di scappare ma ho visto che chi mi accompagnava aveva già la pistola in mano, e allora ho detto “rinuncio”. E ci hanno portati alle carceri giudiziarie, lì hanno fatto tutta la trafila abbastanza umiliante dell’ingresso in prigione, con la presa delle impronte, poi la spoliazione, poi tutto quel che c’era, e ci hanno confinati alla cella zero, Don Falco, io, e un tipografo di Cuneo, anche lui reo di aver stampato le preghiere dei partigiani e altre cose di propaganda antifascista, antitedeschi insomma.
Lì nella cella siamo stati febbraio, tutto marzo, aprile, maggio, fino a febbraio, perché verso la fine di febbraio ci hanno trasferiti a Torino. So che il parroco che era cappellano del carcere è venuto di sera, ci ha detto che le ragazze dell’Istituto San Michele passavano la notte in preghiera, ci aveva fatto capire che c’era qualcosa in aria, e avevano organizzato con i partigiani, mi pare che era Blengino, a lui poi hanno dedicato un’aula scolastica a San Lorenzo di Caraglio dove poi sono stato parroco. E lì io volevo sapere qualche cosa di più, lui mi ha solo detto di stare molto attenti, di avere molta fiducia e di avere molta speranza. Siamo partiti, era ancora buio, caricati su un vagone, eravamo 12, 13, da Cuneo, chiusi in uno scompartimento di quei vagoni antichi, di terza classe, tutto chiuso, sia gli sportelli per aprire sia anche i vetri per aprire, e arrivato lì ad un certo punto alla stazione di Maddalene entrano un signore col mitra, c’erano due tedeschi lì sul vagone con noi, poi hanno cominciato a sparare, io mi son visto proprio il fuoco che si incrociava sopra di noi, mi sono messo sotto la panca, un ragazzo di Sant’Ambrogio che era con me si è accucciato lì con me, Don Falco diceva l’atto di dolore. E poi hanno colpito un tedesco che mi è cascato proprio addosso. Solo che la cosa si è svolta in pochi secondi. Sulla porta dei due corridoi del vagone sono comparsi subito due carabinieri in tenuta, col mitra spianato lì. Poi il treno è subito partito tra gli spari. Se avessero staccato la locomotiva forse qualcosa si poteva concludere. Uno scrittore, uno storico cuneese, Fresia, ha scritto un libro, “L’immane sconquasso”, e fa memoria di questo fatto della stazione di Maddalene, solo che dice che quei prigionieri hanno preferito seguire il loro destino invece di approfittare. Io ho provato a toccare lo sportello ma era bloccato, anzi non c’era neanche più la maniglia, quindi come.
Poi quando sono ritornato, dopo, le cose si sono un po’ chiarite, ho cercato di parlare a questo: “ma a me avevano detto così”, forse anche i partigiani stessi per scusarsi della non riuscita, come era finita male l’azione, avevano inventato questa storia. E noi pensate con che animo siamo andati da Maddalene a Torino. A Savigliano hanno scaricato il tedesco morto, pensavamo che a Torino ci passano tutti per le armi, invece a Torino ci hanno portati all’Albergo Nazionale, sono ancora andato qualche volta a prendere un aperitivo. Portati su al primo piano, e lì subito ci han fatto stare, era il mattino ancora relativamente presto, siamo arrivati alle nove.

D: Scusa Angelo all’Albergo Nazionale cosa c’era?

R: C’era il comando delle SS tedesche, in via Roma proprio dietro quella piazzetta che c’è dietro le chiese di San Carlo e Santa Cristina.
Ci hanno portati su nel corridoio, siamo stati fin verso le sei del pomeriggio con la faccia al muro, senza niente. Io ho visto un maresciallo tedesco, un po’ bonaccione, un po’ grasso, e gli ho chiesto, sembrava un brav’uomo, gli ho chiesto da mangiare, mi ha portato un pezzo di pane. Poi aspettavamo lì, dico “o ci ammazzano o cosa fanno?”. Verso sera, verso le sei ci hanno portate alle (Carceri) Nuove e io sono andato a finire nella cella 71 del primo braccio, riservato ai tedeschi, braccio 1 e braccio 3, perché erano due i bracci. E lì sono stato, prima c’era già con me un sacerdote di Alessandria, di Solero, Don Robotti, anche lui faceva un po’, lui era un ex missionario, veniva dagli Stati Uniti, missionario degli emigranti, una persona un po’ irrequieta e si vede che l’avevano beccato per quello. Poi dopo un po’ di tempo mi hanno fatto star solo per diversi mesi, e sopra c’era scritto “sorveglianza speciale”. Poi sono arrivati altri compagni di cella, adesso lì per lì non posso ricordarli subito, se volete posso ricordare un papà, un vecchietto di Martignana Po che aveva il figlio in una cella vicino. Poi Cotta che aveva sposato la contessa di Robilant. Poi c’è passato un dottore di Milano, dottor D’Alessi, abitava in via … adesso non mi viene. Poi l’avevo incontrato, era però ammalato già ed è morto un po’ dopo la liberazione, l’avevo ancora incontrato a Milano. E siamo stati lì sempre chiusi, non ci portavano mai all’aria, eccetto una volta ci han portati sulla collina di Torino, a Villa Genero, che era presa agli ebrei, le SS ne avevano fatto un po’ il loro ritrovo, ci han portati lassù per pulire i viali, per fare dei lavori.

D: Scusa Angelo, tu avevi sempre il tuo abito talare?

R: No, in cella lo lasciavo appeso a un chiodo, lo mettevo quando mi portavano agli interrogatori. E mi ricordo una volta passavo per via Roma con le manette e due tedeschi per andare al Nazionale, e tutti mi guardavano. Lì al Nazionale di interrogatori ne han fatti diverse volte. C’era un certo tenente Peiper, che interrogava. Prima sembrava buono, c’era un’interprete, una signora. Poi ad un certo punto diventava anche furioso, aveva una riga di quelle lì da disegno, me l’ha rotta sulla testa. Chiedeva nomi, tutte cose che io sentivo da lui, che non avevo mai saputo, e quindi lui si infuriava. E poi dopo di nuovo riportato lì alle Nuove, fin verso settembre. A settembre ci chiamano tutti e dicono che ci mandavano a lavorare come tagliaboschi nel Tirolo. Per me uscire dalla cella era una liberazione, perché sempre quasi solo lì, non sapevo come passare il tempo. Scendo giù, sempre ho preso la mia talare, me l’avevano lasciata lì in cella, era già rossa di cimici, l’ho scossa un pochino, e poi lì ho avuto la fortuna di incontrare padre Girotti, che era già lì con tanti altri che aspettavano di partire. Ci hanno incolonnati lì, eravamo circa un migliaio o anche più, io ho approfittato per confessarmi, era otto mesi che non mi confessavo più, perché era venuto il cardinal Fossati a portare la comunione, ma aveva dato l’assoluzione in genere ma non aveva potuto avvicinare nessun sacerdote. Così abbiamo fatto amicizia e ci hanno portati a dei pullman che sostavano su corso Regina Margherita, lì di fronte alle Nuove. Ricordo che appena entrato io mi sono fermato un momento, sono stato un istante solo per dare uno sguardo a vedere se c’erano due posti da sedere per stare vicino a padre Girotti. Padre Girotti era dietro di me, un tedesco gli ha dato uno spintone che ha spinto me e lui proprio nel piccolo corridoio tra i sedili. Gli occhiali di padre Girotti sono andati dispersi, io mi sono arrabattato, li ho trovati, li ho rimessi un po’ in sesto perché si erano stortati, e così abbiamo cominciato il nostro viaggio per andare in Germania a lavorare, in Tirolo loro dicevano. Poi di sera, arrivati a Milano, ci hanno fermati nei sotterranei di San Vittore. Lì sono venute delle suore, c’erano sempre i tedeschi, a darci della roba da mangiare, anche a Torino ci avevano dato qualcosa, ma senza niente non sapevamo dove mettere. Lì è venuta una suora, poi ad un certo punto un tedesco, visto che queste suore si avvicinano troppo, ne ha presa una per il velo, gliel’ha strappato e l’ha strattonata via. Mi pare che questo episodio è ricordato nel triangolo rosso di don Liggeri. Ad un certo punto proprio lì nei sotterranei di San Vittore chiamano me e padre Girotti. Io pensavo “Qui il cardinal Schuster ha saputo qualcosa, magari ci vuol liberare”. Il cardinale Schuster aveva saputo di questo, solo aveva cercato di telefonare in serata, ma dice, non so se “Il Triangolo Rosso” o chi, dice che le SS erano tutti completamente ubriachi, non ha potuto avvicinare, parlare con nessuno. Solo che nella nostra chiamata in disparte ci avevano i nostri documenti, era perché i preti dovevano essere tre, e invece eravamo solo due, per questo han fatto tutta questa… E poi ci hanno ricaricati sui pullman, ricordo siamo passati a Verona, mi ricordo sempre di una chiesa con le luci accese alle finestre, ho detto “Ma guarda un po’, chissà quando potrò ancora arrivare” e ci hanno portati a Bolzano. Per me Bolzano è stata un po’ una boccata d’aria dopo nove mesi di cella, e lì ho incontrato già altri sacerdoti, altri amici. C’era il parroco di Soave, don Alessandro Aldrighetti. Poi c’era don Berselli di Mantova, c’era don Mauro Bonzi di Desio, c’era anche padre Gaggero che poi ha saltato un po’ il fosso ed è andato dall’altra parte, ma allora faceva tutto bene. C’erano solo questi. E siamo stati lì una quindicina di giorni, da metà settembre ai primi di ottobre. Era bello perché ci portavano a raccogliere mele nei frutteti lì intorno, c’era Ravinale, un comandante partigiano, i primi comandanti partigiani della Risalta, quindi Cuneo che aveva fatto provocare i fatti di Boves, questo Francesco Ravinale detto comandante Franco, padre Girotti ed io nella squadra, e andavamo a raccogliere mele. Il padrone ci lasciava portare, prendere a noi le mele che cascavano per terra. Solo che noi facevamo finta di essere poco pratici, usano quelle scale con un palo solo non con due pali gli scalini in mezzo, lì c’era un palo in mezzo con gli scalini a parte. E quando c’era il cesto un po’ pieno davamo il giro e così potevamo portare mele nel campo agli altri che era anche scarsi.

D: Scusa Angelo, quando sei entrato nel campo di Bolzano sei stato immatricolato?

R: Sì ci hanno dato, tolto tutto quel che avevamo, ci han dato una tuta blu con una croce sulla schiena, e poi un triangolo con un numero da applicare sui pantaloni, sulla gamba. E io ce l’ho ancora.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: Se volete ve lo faccio vedere, è lì, 4 mila e rotti. Poi a Bolzano, come dico, si stava relativamente bene, ho fatto amicizia con due ragazzi toscani, che sono riusciti a scappare, che andavano a lavorare fuori. Io ho detto “quasi quasi mi ci metterei anch’io”, ma io non ero in quel comando di lavoro. Loro poi complottavano con me, non sapevamo che tra i prigionieri, finti prigionieri, c’erano di quelli che facevano la spia, e soprattutto uno scugnizzo là. Difatti dopo la fuga di questi due ragazzi mi mandano a chiamare durante l’appello, chiamano me all’ufficio lì e il maresciallo tedesco quando rientro, era appesa lì al muro una striscia di cuoio, la prende in mano, e comincia a dirmi “tu eri amico di quei due?” “sì sì, mica da negare niente, erano miei amici perché dormivamo quasi vicino, assieme”. “Loro dovevano scappare, tu hai saputo che loro volevano scappare?” “Tutti vorremmo scappare” gli ho detto “perché qui è sempre prigione, noi la libertà è sempre una cosa che tutti cercano” perché proprio don Pedrotti aveva portato nel campo qualche cosa di viveri, e io avevo dato a loro qualche cosa “ma tu hai dato da mangiare a loro?” “sì sì, ci han dato della roba, noi come sacerdoti dobbiamo far parte agli altri, spezzare il pane con gli altri”. Aveva sempre questa cosa in mano, me la accarezzava sulla testa, e poi non mi ha picchiato, niente, è stato soddisfatto della mia falsa ingenuità e mi ha rimandato indietro. Gli altri tutti fuori, i preti dice che pregavano, gli altri tremavano, poi non hanno sentito né gridare né urlare, mi sono di nuovo messo al mio posto. Qualche tempo dopo, giorni dopo, mi pare 4 o 5 giorni dopo, ci hanno chiamati che ci portavano in Germania.

D: Ti ricordi il blocco in cui eri lì a Bolzano?

R: I blocchi erano dei capannoni, avevano un numero ma io proprio ricordare il numero, era il quarto o il quinto mi pare. In principio c’erano delle donne, era il quarto o il quinto, adesso ricordarlo bene sa, sono 50 e più anni passati. E so che in fondo al campo c’erano le latrine, lì si andava ordinatamente, gli ebrei facevano la guardia, gli ebrei avevano il triangolo giallo, noi rosso, c’era chi aveva il triangolo verde, chi aveva il triangolo nero, chi rosa, ecc. Noi rossi eravamo i politici. Poi ci hanno portati … un bel giorno ci hanno chiamati che andavamo in Germania, ci han ridato le nostre cose, io ho preso la veste talare, l’ho messa, e siamo andati, non era una stazione, era una strada dove c’erano le rotaie, il treno si è fermato lì, ci hanno caricati. Saliti lì sopra, 70 per vagone, di quei vagoni bestiame. Ho detto “durerà poco perché come si fa a star qui”, voi capite che la gente ha delle necessità, fisiologiche, succedeva quel che succedeva. So che era domenica. E lì chi bestemmiava, chi urlava, nei primi chilometri dopo Bolzano per andar su verso il Brennero, ad un certo punto gli ho detto: sentite io sono un prete. E lì han cominciato ad urlare anche di più. “Ma guardate che oggi è anche domenica, se non ci rivolgiamo a Dio qui gli uomini nessuno ci può aiutare”. Allora si son calmati, abbiamo detto tutti insieme il Padre Nostro e poi mi hanno ringraziato di quel momento di pausa, di tranquillità.
Alla stazione mi pare di Fortezza o di Brennero, ci han fermati lì molto tempo, perché avevano notato che qualcuno aveva tagliato il vagone e proprio nel nostro vagone uno aveva fatto un buco. Allora arriva un tedesco “Messer, Messer, Messer”. Per me “Messer” voleva dire tanto pane come acqua, ho poi capito dopo che voleva dire i coltelli, chi aveva dei coltelli.
Allora han trovato questo qui, c’aveva il coltello, l’hanno portato fuori, e poi gli han preso il coltello, gli han due o tre spintoni, poi l’han rimesso dentro. Mentre aspettavamo lì, c’era, voi sapete che i vagoni bestiame hanno quei piccoli finestrini triangolari in angolo, il finestrino è bordato di ferro, una cornice, una specie di bordo di ferro. Un ragazzo aveva messo la mano lì per appoggiarsi con le unghie fuori, le falange delle dita fuori. Un tedesco di fuori col calcio del fucile gli ha schiacciato tutte le unghie sopra questo, immaginatevi quel povero ragazzo. Io avevo un pezzo di fazzoletto, l’ho stretto lì, l’abbiamo adagiato in terra, io lo tenevo per la testa, finché poi il treno è partito, lui si è calmato un po’, i dolori gli son passati e siamo arrivati a Dachau.
A Dachau, ce n’è voluto, quasi due giorni ci abbiamo messo, tutti i momenti ci fermavano. Arrivati a Dachau non era anche lì una stazione, in piena campagna ci han fatti scendere, padre Girotti ed io ci siamo messi i primi, saremmo stati circa un migliaio e più, e ci han portati lì al campo di Dachau. Io ho visto quelle parole là “Arbeit macht frei” adesso non le ricordo neanche, ho poi saputo dopo che vuol dire che il lavoro rende liberi, anche gli schiavi fanno il lavoro.
Arrivati lì tutta la pietosa funzione dell’arrivo. Prima cosa arriva uno a urlare, urlava in tedesco, io capivo niente, finché viene un prigioniero vestito con i vestiti, i più fortunati avevano i pantaloni e il giubbotto a strisce bianche e blu, e si avvicina a me e dice di spogliarmi, era un sacerdote, padre Soste, del Lussemburgo. Dice “spogliati”, lì davanti a 2.000 vestito da prete, mi sembrava poco, padre Girotti mi fa “siamo arrivati alla decima stazione della Via Crucis, Gesù spogliato delle sue vesti.” Abbiam cominciato, ma il disagio è passato subito perché eravamo tutti, migliaia, eravamo tutti in stato adamitico. Siamo andati verso il capannone della disinfezione. Poi ci hanno dato una specie di straccio che copriva appena il necessario, e ci hanno portati alla baracca di quarantena, blocco 25, blocchi chiusi. Vuol dire che di lì non si usciva la sera, gli altri potevano dopo il lavoro, dopo la cena, chiamiamola cena perché è un insulto dir cena a quella brodaglia che ti davano. Quelli lì potevano uscire sulla piazza d’appello o sul viale, invece gli altri che erano nei blocchi dispari, fatti da quarantena, da ebrei, non potevano mai uscire.
Lì sono stato altri 15 giorni, eravamo quasi nudi, e nella baracca si poteva entrare solo per mangiare e per dormire, sempre fuori, al freddo, alla pioggia. E allora ci ammucchiavamo tutti lì e i più giovani da far da copertura esterna per riscaldarci un pochino. Ricordo sempre che un padre domenicano, padre Rot, che poi l’han trovato morto proprio lì a Dachau, era venuto, lui era di Colonia, ma era venuto a fare il cappellano di quella specie di cappella che sembra un tucul africano che han fatto in fondo là, quella rotonda con quella croce, quella corona di spine. Avendo saputo che c’era padre Girotti gli aveva portato un pezzo di formaggio a padre Girotti. Ma pensate se non è un santo padre Girotti, lui aveva solo 39 anni, moriva di fame come me, dice “no tu sei più giovane, hai più bisogno” e me l’ha dato, “mangialo tu”. Io poi avevo ancora salvato non so come, una scatoletta di piselli, e c’era un giovane francese, ha visto che io avevo quello straccio un po’ più decente, se mi dai quella scatoletta io ti do la mia canottiera, e l’ho cambiata, e poi ho detto “ma guarda un po’ come sono cattivo io che vendo la prigenitura per un piatto di lenticchie.” E quel ragazzo che ha fatto lo scambio era un seminarista francese. Poi è andato bene che noi sacerdoti, dopo qualche giorno, non 15 giorni di quarantena, un episodio lì mi ricordo sempre che, io ero dei più giovani perché avevo 23, 24 anni, mi han chiamato dicendo che ero incaricato di pulire il Wäscheraum, cioè i gabinetti. Io ho pensato bene di dire ad un altro che era lì “ma digli un po’ che io sono un prete”. L’avessi mai detto! Non l’ho più detto un’altra volta. Poi fortunatamente ci hanno portati al Block dei preti, che era proprio di fronte. Noi in quarantena eravamo il 25, di fronte il 26, Block liberi, liberi così, cioè aperti. C’erano tutti i sacerdoti, e lì c’erano già tanti altri: padre Manziana che è diventato poi vescovo di Crema, c’era don Fortin di Padova, c’era don Vismara di Bergamo, diversi altri, perché poi da Bolzano eravamo arrivati anche noi, altri 4 o 5. Poi sono arrivati da Mauthausen ancora altri in seguito. E lì tra sacerdoti, oddio era sempre Dachau, era sempre campo di eliminazione, ma eravamo tutti preti e nessuno rubava ad un altro, nessuno maltrattava l’altro. Però qualche volta i nervi scattavano anche lì, il Blockältester aveva tutto il suo da fare, era un bravo prete del Vorarlberg, una parte del Tirolo verso la Svizzera, a rimettere la pace, a mettere le cose a posto. Alla domenica il vescovo di Clermont Ferrand diceva messa, e al mattino poi, ad un certo punto lasciavano dire una messa, ma eravamo tremila e più preti lì, non si poteva dire, allora noi si concelebrava, diceva messa uno, e poi si andava al lavoro. Alla domenica invece il vescovo diceva messa più tardi per tutti. E qualcheduno riusciva a venire. Mi ricordo che veniva lì un francese che poi è stato ministro di De Gaulle (L’Abbè Pierre pseudonimo di Henri Antoine Grovès).
Nei giorni feriali andavamo a lavorare. Io ho cercato subito di trovare un posto di lavoro, perché a quelli che lavoravano alle dieci c’era il Brotzeit, tempo del pane, davano un piccolo supplemento di pane con un po’ di margarina, e quello aiutava a sopravvivere, perché con la razione del campo se sono venuto a 32 chili, io che adesso sono 80, è segno che le razioni erano molto molto misurate. Ho cercato un lavoro. Prima sono andato a scavare delle fosse, picco e pala, delle fosse profonde dove forse volevano fare o delle fossi comuni per i cadaveri, perché era proprio nella zona del crematorio, o nascondere, mi dicono, dei carburanti, questo non lo so. Però siccome era un po’ gravoso, appena ho potuto mi han chiesto di andare a fare un altro lavoro, un altro lavoro che consisteva nell’andare in una baracca vicino al campo, ci davano degli indumenti recuperati ai prigionieri, noi facevamo delle strisce, attaccate lì ad una sbarra facevamo delle trecce che poi arrotolavamo, dice che servivano – almeno questa è una spiegazione – facevano delle ballottole impastate con pece, servivano da cuscinetto alle navi che si avvicinavano al molo. E lì quando suonava l’allarme precipitosamente ci portavano di nuovo in baracca. Tutti si andava al nostro posto, eravamo rigorosamente al nostro posto. Un giorno vado al mio posto, ne trovo già uno, dico “no, è il mio posto”, e l’altro parlava in tedesco, io sapevo solo l’italiano, finché arriva la SS l’altro si è spiegato in tedesco, e il tedesco ha sentito nessuna spiegazione, aveva in mano quegli anelli di ferro, mi ha sferrato un pugno sulla mandibola e ho sputato 4 molari lì.
Poi, visto che quello era pericoloso, ho visto che dove stavamo facevano un altro lavoro, quello di far le asole alle tele mimetizzate, attaccar bottoni e fare asole. Io ho ancora adesso di quei bottoni, se volete ve li posso dare, se no poi li perdo. Ero diventato già un artista a fare asole, proprio bene le facevo, quantunque bisognava un po’ boicottare, non farle bene. Lì è andato fin verso aprile, quando ad un certo punto né più si lavorava, né più si usciva. Ad un certo punto neanche han detto di star tutti chiusi, e poi facevano dei Transport, portavano via della gente e volevano che anche alcuni di noi partisse con loro. E i preti nessuno voleva andare. Don Foglia, che era il parroco del Moncenisio che è andato poi, era di Susa lui, della diocesi di Susa, era poi andato in Brasile, e poi è morto cappellano di un ricovero di vecchi vicino a Passau, in Germania, ha detto “andiamo, qualcuno bisogna che vada, se no li obbligano”. Allora noi due ci siamo offerti, ci hanno dato una scatoletta con le ostie consacrate, e siamo andati lì, aspettando. Ho saputo che poi portavano fuori del campo e li falciavano tutti con le mitragliatrici, perché vedevano che gli alleati avanzavano e volevano sbrogliare il campo. Solo che in quel momento è venuto un acquazzone di quelli che Dio manda, e ci hanno mandati tutti nelle baracche. Ricordo ancora gli altri preti quando ci han visti arrivare dire: “Non sono partiti, sono ritornati”.
E così poi stavamo chiusi nelle baracche, non si sapeva niente; sapevamo perché i sacerdoti polacchi erano molto organizzati, avevano una radiolina nascosta e sapevano un po’ tutte le cose. Poi ci avevano ad un certo punto portati nella baracca dei polacchi, perché lì arrivavano sempre prigionieri, sia l’angolo di cappella sia le nostre camerate, già strapiene, sono state date a loro e noi trasferiti di là.
Finché ad un certo punto non si sapeva più niente. La storia l’ho poi saputa tutta dopo, l’ordine era di Himmler, di bruciare con i lanciafiamme tutto il campo e non lasciare nessun vivo in mano agli alleati. La cosa si è risaputa perché uno dei prigionieri, un cecoslovacco faceva da cameriere alla mensa delle SS, e ha visto che leggevano questa lettera, discutevano, disapprovavano. E poi l’han strappata e l’hanno lasciata lì. Lui facendo pulizia l’ha presa, l’ha portata all’abate di Olomuz che era lì con noi, lui l’ha ricomposta, e così noi sapevamo, aspettavamo che venissero a bruciarci vivi.
E lì la tensione era alta, stavamo, finché ad un certo punto un padre gesuita belga, padre Koening, che faceva tutte le sere un pensiero di meditazione quando era già tutto spento, in mezzo ai castelli, diceva due minuti in latino, un pensiero di meditazione spirituale. E poi dice: state bravi, facciamoci coraggio, la chiesa guarda noi, lo sapranno tutti, ricordate l’esempio di San Lorenzo. Poi quando sono andato parroco a San Lorenzo mi sono ricordato, ma lui è stato meno fortunato di me, che l’han bruciato vivo. Finché ad un certo punto era proibitissimo affacciarsi alle finestre ecc. Un prete belga, Koening si chiamava, no era bretone, i cognomi dopo tanti anni sfuggono, Romueil, o un altro. Si butta contro la finestra, esce fuori e va lungo il cortile per andare verso il cancello che separava il viale dal cortiletto della baracca.
Aspettavamo che le mitragliatrici cominciassero a sparare perché tutti i momenti si sentiva una sventagliata, lì era solo cose di cartone o di eternit, le pallottole passavano. Invece niente. Ad un certo punto questo qui, là dal cancello, si mette a gridare “sunt americani sunt” lì noi si parlava sempre in latino, allora la baracca si è sfasciata, tutti fuori, più nessuno ha ascoltato. Mi ricordo che monsignor Trochta, avevo fatto amicizia anche, era lì con me, cecoslovacco, che poi è diventato arcivescovo, cardinale ed è venuto a San Lorenzo a trovarmi. Mi ha preso per mano: non fare imprudenze. Siamo usciti anche noi, abbiamo girovagato un pochino per il campo, siamo andati, c’era anche un padre oblato italiano, padre Pinamonti con noi. Siamo andati fuori, lì erano tutti i magazzini delle SS, abbiamo visto cose meravigliose, magazzini dei fischietti, magazzini di stoffe. Io cercavo anche della stoffa bianca e nera per fare, bianca rossa e verde per fare una bandiera italiana. E poi fortunati abbiamo trovato una gallina sperduta che girava là. Io l’ho presa, l’abbiamo portata in là, e con una resistenza che ci eravamo organizzati l’abbiamo fatta bollire, e monsignor Trochta, che era allora un semplice prete, io e Pinamonti e Manziana abbiamo festeggiato la liberazione con brodo di gallina e carne di gallina.
Poi siamo stati lì.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Era verso la fine di aprile, 29, 28, non so, verso la fine di aprile (1945), erano le cinque del pomeriggio. Allora ci hanno portati sulla piazza d’appello, c’erano tutti lì, sulla torretta lassù del palazzo. E’ uscito il cappellano militare che in inglese ha detto di ringraziare il Signore che eravamo liberi e ha fatto recitare a tutti il Padre Nostro. Poi siamo andati nelle nostre baracche, e lì a noi sacerdoti, o anche a tutti gli americani, han portato scatole di carne, roba di formaggio, scatole proprio di roba un po’ pesante, roba da campo insomma. E questi ragazzi si sono messi a mangiare, allora han detto no, raccogliamola, dosiamola, perché gli intestini non sono preparati, tanti sono morti per aver mangiato troppo. E allora … ma come fai a togliere un pezzo di pane a uno che muore di fame. Difatti lì dopo sono morti i più, padre Girotti è poi morto poco prima, don Seghezzi è morto in quei giorni dopo la liberazione. Poi ad un certo punto dicono, c’era un campo lì vicino, un sottocampo di Dachau dove c’erano tanti italiani, francesi e polacchi. Io parlavo l’italiano e il francese, con me è venuto don Neviani perché parlava italiano ma era un sacerdote polacco. Siamo andati là a fare i cappellani di quel campo.

D: E si chiamava questo?

R: Allach. A piedi siamo poi andati e venuti, non è molto distante dal campo di Dachau, io non so quantificare la distanza. Lì solo che i primi giorni sono andati bene, abbiamo fatto funzioni, messe, ecc., ma poi gli italiani, approfittando, sempre i più intraprendenti sono partiti quasi tutti, e io cosa faccio lì. C’erano i francesi, c’era il polacco che parlava francese, ma quanti sono morti in quei giorni, ho raccolto. Avevo un libretto, ragazzi di Parigi ecc., poi questi partigiani cristiani di Torino mi han portato via tutto l’elenco, io poi sono andato a finire in Africa, non ho più tenuto contatto di queste cose. Poi ho finito, dico ma cosa faccio? gli altri sono scappati, scappo anch’io, vado a Monaco, là qualcosa trovo. Solo che Monaco sono più di 20 chilometri. Non passavo per le strade perché c’erano sempre militari, conciato com’ero, per i boschi, lì c’erano soldati che scappavano, c’erano dispersi ecc. di tutte le maniere, finché ho rischiato, mangiando erbe sono arrivato a Monaco. A Monaco cerco una chiesa, vado avanti, giro finché a Dom Pedro Platz ho visto che c’è la chiesa della Santissima Trinità. Attorno erano tutte rovine, mucchi di calcinacci, insomma detriti di case sfondate. Viene un sacerdote, un sacerdotino giovane, forse non giovane come me ma vestito bene, in clergyman, e io parlando in latino cerco di fargli capire che ero un prete sfuggito a Dachau e che cercavo aiuto. Lui ha sentito due o tre cose, ma penso che il latino non lo capiva neanche, mi ha preso per gli stracci, mi ha scaraventato su quel mucchio di rovine che c’erano lì, avevo in mano il calice un pacchettino dove avevo le cose che dicevo messa, che aveva portato questo cappellano militare a Allach, e tutto è andato in terra, ma lui ha lasciato il calice, ha lasciato tutto, ed ero lì: cosa fai adesso? Non so da quanto non mangiavo, dico “qui c’è solo più da chiudere gli occhi e raccomandarsi a Dio, non sono morto prima muoio oggi, qualcuno mi troverà”. Mentre ero io e raccomandavo l’anima a Dio arriva uno in bicicletta, si ferma, era padre Zanatta degli Scalabriniani, missionari degli emigranti. Mi vede lì, parla in italiano, gli ho raccontato tutta la mia storia. Lui ha raccolto il calice, le cose che avevo tenuto lì vicino, mi ha messo sulla sbarra della bicicletta perché non camminavo più, e mi ha portato a una scuola, un ex convento, una scuola, dove era anche tutto mezzo distrutto, dove lui raccoglieva tutti questi sbandati.
Arrivati lì, naturalmente c’è stata un po’ più di vita già, han cercato di rifocillarmi, so che era pentecoste, ho detto messa il giorno di pentecoste, lui era andato in giro per fare altre visioni. Intanto abbiamo preso contatto con una missione che arrivava da Milano, dall’Italia. E allora lì con questi qui in macchina siamo ritornati a Allach, a Dachau, mi avevano dato delle stecche di sigarette, io le ho lasciate sulla macchina, pensavo .. Invece vado per parlare, c’era già tutto lì quel che si arrivava a far repulisti avevano portato via tutto.
Poi arrivati a Monaco abbiamo cercato di scappare perché quel colonnello ha detto “Le cose in Italia tutto a scatafascio, allo sfacelo, cercate di arrangiarvi, vedete, scrivete, eccetera.”
Allora c’era con me uno che era, lui si è qualificato ufficiale dell’Intelligence Service, non so, parlava bene l’inglese ecc. Poi c’era don Neviani, c’ero io, e uno di Lucera che tra l’altro è venuto poi a Cuneo a rubarmi la bicicletta ancora. Siamo partiti, questo qui che era ufficiale dell’Intelligence Service aveva una macchina che poteva fare cinque chilometri dal punto dove eravamo. Noi abbiamo messo 15 e siamo partiti alla volta di Innsbruck, a sud. Abbiamo fatto una sosta a Benediktbeuren dai salesiani, era il 24, il giorno di Maria Ausiliatrice, dico “oggi lì fan festa da mangiare ce ne danno”, difatti ci hanno accolti bene. Poi mentre raccontavamo queste cose c’era una suora, si è messa a piangere, parlava bene italiano. Ho detto “ma perché suora lei piange?” “Voi andate adesso nei vostri paesi, racconterete tutte queste cose, e direte che i tedeschi sono cattivi. Noi tedeschi invece non siamo cattivi.” Cioè capiva il male che il nazismo aveva fatto come fama della popolazione tedesca. Come Dio volle con la macchina rotta siamo arrivati a Innsbruck, e lì siamo andati dal vescovo, veramente non c’è vescovo, l’amministratore apostolico, che loro vogliono sempre ricongiungersi a Bressanone, la loro vecchia diocesi era Bressanone, ci han messi là in una casa recuperata dell’azione cattolica che i nazisti avevano preso e gli americani avevano restituito. E poi sono arrivati quelli della Pontificia, come abbiamo potuto siamo arrivati a Monza, era il giorno del Corpus Domini, mi pare il 31 maggio, io ho detto messa nel duomo di Monza, poi ci han portati a Milano dal cardinal Schuster, ci ha dato cinquecento lire, una sgridatina, di essere un po’ più prudenti. E poi quando ho potuto sono arrivato a Cuneo.

D: Quando sei arrivato a Cuneo?

R: Il giorno del Corpus Domini. Poi sono stato un giorno e mezzo con don Liggeri in via Mercalli a Milano, poi col treno sono partito e arrivato a Torino sono andato dai salesiani di Benediktbeuren mi han dato dei libri, delle lettere da portare alla casa madre. So che sono andato a piedi a Valdocco la casa madre dei salesiani, e so che avevo una sete, era mezzogiorno passato, una fontanella, mi sono messo lì a bere. Poi: Oddio devo dir messa.
A Dachau dicevano messa nel pomeriggio, così a Maria Ausiliatrice ho detto messa, ho dato al prefetto generale dei salesiani le commissioni che mi avevano dato, e poi c’era una figlia di Maria Ausiliatrice lì alla casa delle suore che era di Borgo San Dalmazzo, e ho chiesto, io da due anni non sapevo più niente, i miei sapevano che ero a Dachau, ve l’ho già spiegato col colonnello Rampini, ho detto: sì su di là a Borgo, quelle vallate è tutto uno sfacelo, i partigiani, so che c’è stata molta guerra, molta battaglia ma non sappiamo niente.
E come sono arrivato a Cuneo il ponte era rotto, il treno si fermava dall’altra parte della Stura, c’era già mio fratello che era comandante partigiano con la macchina, e c’era tutta la parrocchia di Sant’Ambrogio, mi hanno portato in parrocchia poi a casa, a Robilante. E a Robilante mi han detto subito che la mia madrina era morta, questo ci tengo a dirvelo perché si era fatta suora di Santa Marta a Ventimiglia, quelle suore fondate da Tommaso Reggio che sarà chiamato beato domenica con Pio IX, Giovanni XXIII e padre Guillaume Joseph Chaminade. Mia zia aveva scritto il testamento che offriva la sua vita purché io ritornassi vivo. La sera del 29 settembre da Ventimiglia è andata a una frazione vicina a Latte, sempre sulla costa, per prendere dei viveri che avevano nascosto là, ha messo il piede su una mina è saltata in aria alle cinque, più o meno l’ora che gli americani sono arrivati a Dachau.
Caso raro ma per me è un miracolo.

D: Angelo hai detto il 29 settembre.

R: 29 aprile non settembre.

D: Quando eri a Dachau e andavate a lavorare alle dieci vi davano quel pezzettino…

R: Brotzeit.

D: Dopo ve l’hanno tolto?

R: Ecco qui quando si vuol far del bene bisogna farlo bene, non sbagliare. Il nunzio apostolico aveva ottenuto che tutti i preti non andassero più a lavorare, perché sembrava … E allora li hanno chiusi in baracca, ma togliendoci il lavoro ci han tolto quel pezzo di pane. Però dire non lavorare, non far niente, ci obbligavano ad andar a portare le marmitte, c’era quasi mezzo chilometro da fare con delle marmitte di 40-50 kg, e io con un chierico di Versailles, ma era olandese di origine, Hoffman, ci siamo ancora scritti, non veniva voglia di mangiare quella, avevamo poi la nostra razione che non finivamo mai perché era così disgustosa, erano crauti con bietole da bestie, senza nessun condimento, messo lì.

D: A Dachau fra i molti sacerdoti è mancato anche …

R: … padre Girotti.

D: E tu sei andato a cercarlo.

R: Sì sono andato a cercarlo perché lui l’avevano portato nel Revier, Revier vuol dire infermeria, ma là non si andava per curarsi ma per morire. Difatti l’hanno ucciso con una iniezione di benzina. Quando ho saputo che era morto, c’erano quelli che lavoravano, portavano le notizie, sono andato a cercare. Entrare lì: era tutto chiuso, tutto provvisorio, mi sono procurato delle sigarette, che era l’unica moneta per aprire le porte ma non ho trovato niente. Ho sfasciato un po’ di roba dell’ingresso, perché so che i cadaveri erano accatastati, una trentina erano nelle casse e gli altri messi sopra. Cerca cerca ma non lo trovavo. Finché ho cercato di scoperchiare uno, tutta la catasta è venuta giù, mi sono rovesciati quasi addosso, e il rumore ha fatto venir gente, io sono scappato, e così non l’ho più trovato. Solo che in quei giorni non li bruciavano più, perché forse non avevo più carburante o cosa, e lui certamente l’hanno poi sepolto in quelle fosse che ci sono vicino.
Missionario a Monaco per accudire gli emigrati italiani, come ci sono le missioni degli emigranti in tutte le città, in Francia, in Germania, anche in Inghilterra, ci sono questi missionari italiani che, anche in Svizzera, tengono, radunano gli emigranti italiani perché molti non conoscono la lingua.
Lui era dei domenicani di Torino, aveva studiato molto, aveva approfondito molto, era specializzato nello studio della Sacra Scrittura, per questo era stato diversi anni a Gerusalemme, allievo di un famoso biblista, al momento i nomi scappano sempre. Poi venuto a Torino naturalmente faceva l’insegnante di Sacra Scrittura ai teologi di Torino, sia dell’ordine sia delle altre congregazioni religiose. Poi c’era stato qualche malinteso lì, gli avevano tolto questo lavoro, ma subito prima della guerra. Poi lui si occupava molto anche di carità e degli altri. Ha stretto amicizia, appunto perché era molto studioso di sacra scrittura, con un professore ebreo, Iona, di Torino, e l’ha aiutato a …