Pavarotti Romolo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Romolo Pavarotti. Sono nato il 24.10.1925 a Milano.

Per gli spagnoli ero Ramon… [per i] deportati, spagnoli deportati, ero Ramon. Sono stato arrestato nel febbraio del ‘44 dall’Upi, l’Ufficio politico investigativo di Milano, che aveva sede in via Schiapparelli. Lì mi hanno trattenuto per otto giorni, interrogato sulle vicende dei fratelli caduti sul San Martino di Varese. Ovviamente sono stato seviziato, dopodiché, dopo otto giorni mi han portato a San Vittore.

D: Scusa Ramon, ti hanno arrestato dove?

R: In casa.

D: A Milano?

R: No, io ero andato di sfuggita in casa. Cioè, io ero latitante, facevo… sempre vicino a Varese ho portato ebrei in Isvizzera [Svizzera, con ‘I’ prostetica, ndr], facevo volantinaggio, portavo le armi, facevo tutto quel lavoro lì. Quando mi hanno arrestato è perché qualcuno mi ha visto, che io – erano case popolari – sono entrato di notte, verso le 2 le 3. Alle 5 erano già lì a prendermi.

D: A Milano questo.

R: Ero clandestinamente in casa, qualcuno si vede che ha…

D: Tu facevi parte di qualche organizzazione?

R: No, perché prima erano gruppi paramilitari, non esisteva ancora il partigiano. […] Ecco, facevo parte di gruppi paramilitari, che in un primo tempo, già nel settembre, dopo l’8 settembre, attraverso segnalazioni dei carabinieri, coi due fratelli e lo zio materno siamo andati sui monti di Tirano. Dopodiché, cacciati dai tedeschi, abbiamo riparato sulla Bergamasca, a Zambla. Anche lì erano i primi tempi di queste formazioni militari. Abbiamo dovuto anche lì fuggire da lì e siamo andati tutti sul San Martino di Varese, dove il colonnello Croce, comandante del Savoia Cavalleria, aveva costituito un gruppo paramilitare della Resistenza. Quando siamo arrivati al San Martino i miei due fratelli e lo zio sono rimasti sul monte, io invece sono stato aggregato a dei gruppi che portavano ebrei in Isvizzera. Dopodiché la fornitura di armi, volantinaggio, fare dell’antifascismo, in latitanza ovviamente.

Sono stato arrestato perché di notte ho voluto andare a trovare i miei genitori, e dopo un paio d’ore l’Upi mi ha arrestato. Mi ha appunto portato dove avevano la sede, in via Schiapparelli a Milano, seviziato per otto giorni. Dopodiché sono finito a San Vittore, e ci sono rimasto una notte, e siamo partiti per Mauthausen.

D: Ti ricordi quando siete partiti per Mauthausen?

R: Lì c’è quel libro di… che lo dice, lui mi pare che dica… perché non siamo partiti [subito] per Mauthausen, però noi ci siamo fermati otto giorni a Innsbruck, a Reichenau, dopodiché siamo andati a Mauthausen. Forse era i primi di marzo, cosa vuoi che dica… i primi di marzo…

D: Ti ricordi, da San Vittore ti hanno portato alla Stazione Centrale a Milano?

R: No, sotto la stazione.

D: E vi hanno portato come?

R: Con camion, con camion. […] Come dicevo sono rimasto una notte, con altri prigionieri politici, un centinaio. Con i camion ci han portati sotto le gallerie della stazione, caricati su due carri merci, carri bestiame lo chiamavamo noi, diretti verso Mauthausen. Però abbiamo avuto una sosta a Reichenau, Innsbruck, in Germania, Austria… in Germania a quell’epoca, e lì siamo rimasti altri otto giorni. Dopodiché, denudati di tutto, ci hanno portato a Mauthausen. Siamo arrivati…

D: Di Reichenau, di questo campo di Reichenau, di Innsbruck, cosa ti ricordi? Ti hanno immatricolato lì?

R: No. No.

D: E stavate tutto il giorno dentro nel campo?

R: Dentro in una baracca.

D: C’erano molte baracche che tu ricordi?

R: Sì, c’erano delle altre baracche, non molte però, altre baracche. Poi è diventato un campo di concentramento di transito.

D: Dopo otto giorni vi hanno ricaricati di nuovo…

R: E portati a Mauthausen.

D: Sempre lì a Reichenau, c’erano molti italiani? Solo italiani o anche altri?

R: Sì, sì, sì, italiani. Era una baracca di soli italiani.

D: L’arrivo a Mauthausen come te lo ricordi?

R: Da Reichenau, dopo otto giorni, ci hanno trasferiti, sempre su carri bestiame, a Mauthausen. Siamo scesi alla stazione e subito abbiamo avuto delle brutte sensazioni, tutti, perché c’erano le SS, coi cani che abbaiavano, loro gridavano, non si capiva nulla. Dopodiché siamo marciati verso Mauthausen, che è sulla collina dell’entroterra di Mauthausen. Dico un particolare, che, diciottenne come me, passando per il centro di notte, ho visto che c’è un cinema, e al mio compagno vicino ho detto: “Probabilmente domani veniamo a vedere un bel film!” Purtroppo, quando siamo arrivati sulla cima a Mauthausen, all’entrata di Mauthausen, la sensazione era proprio di terrore totale, perché tutta la coreografia era proprio di terrore. Gridavano, gridavano, gridavano. Dopodiché siamo finiti all’interno del campo, e tutti siamo andati alla doccia, al Waschraum, lo chiamavano loro. Dopo la doccia ricordo che, seminudi – ci hanno rasato il pelo da tutte le parti – e seminudi, con la neve che era nella piazza, era caduta, a piedi nudi siamo corsi al blocco. E lì al blocco numero 16, che era il primo blocco di quarantena, in quei pochi giorni che io sono rimasto, le sensazioni erano veramente brutte, bruttissime. I kapò cominciavano a pestare, cominciavano a esserci le punizioni, e quant’altro. Io però, dopo tre o quattro giorni è venuto un SS con un kapò, han chiesto di un elettricista, di un muratore, di un idraulico e di un falegname, e io ho alzato la mano dicendo che ero elettricista. Allora sono uscito fuori con gli altri tre, e il giorno seguente siamo partiti per un campo dipendente da Mauthausen, a Sankt Lambrecht, che è nella Carinzia.

D: Scusa Ramon, eri già stato immatricolato?

R: Sì, alla baracca ci hanno immatricolato.

D: E il tuo numero te lo ricordi?

R: Certo. Prima di partire in Mauthausen sono stato immatricolato col numero cinquantasette seicento dodici [57.612], che in tedesco voleva dire Siebenundfünfzigtausend sechshundertzwölf.

D: Oltre al numero, ti hanno dato anche qualcos’altro?

R: Sì, mi hanno dato una fascetta di metallo da mettere attorno al braccio… al polso. E invece la scritta su del panno bianco, col triangolo rosso con l’ ‘i ti’ [‘IT’] me l’hanno messa sulla giacca e poi al fianco del pantalone destro.

D: Quindi in un gruppetto di deportati siete state portati in uno dei sottocampi. Il viaggio come l’avete fatto da Mauthausen a questo sottocampo, a Sankt Lambrecht? Com’è che lo avete fatto?

R: Il viaggio da Mauthausen a Sankt Lambrecht, pare assurdo, ma l’abbiamo fatto su un treno normale, in mezzo alla altra gente, un po’ separati ma c’era altra gente. Ovviamente eravamo tutti ammanettati. Quando siamo scesi in questo paese, anch’esso bellino, ci hanno portato in un castello, il castello principale di questo paese, e lì, al primo piano di un’ala del castello, c’era questo piccolo lager che era un commando di ottanta uomini e dieci donne. Dopodiché mi hanno assegnato un lavoro su in montagna, a tagliare pini, portarli a valle, caricarli sui camion, portarli alla stazione e caricarli sui vagoni. E questo lavoro l’ho fatto per due o tre mesi, dopodiché c’è stato un avvenimento che stava per cambiare letteralmente la mia vita. Cioè, un deportato di nome Meda, che io ho conosciuto solo lì, che era nel mio gruppo di dieci che s’andava con un commando a lavorare su nei boschi. Dopo un po’ di tempo questo Meda… Era abitudine, quando si aveva dei bisogni, di chiedere alle SS “Commando Führer… Abort”, cioè dovevo fare i miei bisogni. Il Commando Führer ti lasciava andare nel bosco, il bosco era grande, e la sicurezza era piuttosto allentata perché, oltre al comandante, c’erano quattro delle SS. Un bel giorno questo Meda non rientra dai suoi bisogni e il Commando führer mi chiama “Italienisch, komm[st] Hier”, vieni da me, “Wohin [Wo ist] der andere Italienisch?”, dov’è l’altro italiano? Io ho risposto “Commando Führer, weiß Ich nicht, weiß Ich nicht”, io non lo so, “[…]”, cioè “cercalo, cercalo, cercalo!”. E io ho incominciato a chiamare “Meda, Meda, Meda”. Purtroppo il Meda oramai se ne era andato. Immediatamente siamo rientrati al campo, subito dopo mi han dato la punizione, che loro chiamavano minima, di 25 nerbate sulla schiena. Ad esempio… degli altri sapevano la punizione che aspettavano. Oltretutto io ero anche indiziato come collaboratore della fuga del Meda, ma che non era vero, era la deduzione che hanno fatto loro, quelli della SS.

Otto giorni solo al campo, al lager, questo piccolo lager, in attesa del mio destino. Nel contempo però avevo gli spagnoli. Ero giovanissimo, mi volevano molto bene, in particolare Agapito, che mi faceva da papà, da fratello, da amico, che mi reggeva. Mi diceva: “Ramon, devi avere fiducia, non perderti d’animo, io farò di tutto perché tu possa non andare alla Straf compagnia, dove la morte era certa rientrando a Mauthausen. E Agapito, che era lì dal 1940, quindi eran già quattro anni circa che era lì, e che già conosceva il tedesco, e che lavorava nella vaccheria del colonnello della SS, che era padrone di quei terreni, mi portava da mangiare di nascosto. Lui aveva accesso alla villa del colonnello, perché oramai sapendo bene il tedesco avevano fiducia in lui, andava anche a fare lavori in casa nella villa del colonnello della SS. In quell’occasione, un giorno, prima che prendessero il Meda, il colonnello disse – lui sentiva perché era in casa – “I due italiani li fucileremo non appena preso il Meda, perché deve essere d’esempio a tutti gli altri deportati che fuggire vuol dire morte.” Sentendo questo, Agapito si rivolge al colonnello della SS, e come diceva lui “ho detto una mentida, una grande”. Ha detto al colonnello della SS: “Ma Ramon no es… non è un italiano, es un Espanyol!” Il colonnello l’ha presa per buona, quindi la fucilazione non c’è stata, c’è stato il rientro al campo. Prima di partire però Agapito mi ha detto: “No te preocupe, non ti preoccupare che come arrivi vedrai che ti viene a prendere uno spagnolo e ti porta al blocco degli spagnoli.” Perché questa era una delle assurdità dei campi di sterminio insomma. E così abbiamo fatto il viaggio.

Il Meda l’hanno preso, l’hanno conciatissimo, perché l’ha preso la Gestapo. Lui commise l’errore dopo otto giorni di andare a chiedere da mangiare a due vecchi in montagna; loro gli han detto “sì però devi lavorare”, e nel contempo uno dei due vecchi è andato al paese ad avvisare la Gestapo che poi l’ha preso. E insomma, quando è arrivato a Sankt Lambrecht, nel campo, era conciato da buttar via. E lì c’è un episodio che segue, perché il comandante della SS ancora ha voluto che io, che non ero… non avevo colpa per la sua fuga, dovessi restituire il ‘Fünfundzwanzig’ che io ho preso. Così è stato. Mi han dato questo nerbo… mi han dato questo nerbo, io l’ho preso in mano, picchiavo, ma dato che non picchiavo forte, loro mi dicevano “zu schwer, zu schwer, più forte, più forte, si fa così, si fa così!” E alla fine, povero Meda insomma, ne ha prese tantissime altre, conciato com’era. In attesa di rientrare al campo, mentre tutto il commando andava a lavorare, io avevo cura di lui, diciamo così, tra parentesi, anche con una rabbia incredibile, però cercavo di curarlo, di dargli da mangiare per quel poco che c’era, e di parlare [del] perché è fuggito. La verità è che lui, d’accordo col […] master, che era il maestro del taglio, facendogli un’offerta… a furia di insistere su un’offerta di un mucchio di dollari che avrebbe lasciato su una banca di Lugano, è arrivato il giorno che questo gli ha preparato il sacco della fuga con dentro vestiti e da mangiare. Dopodiché è successo che lui non è riuscito a arrivare in Italia e si è fermato da quei due vecchi, e poi è rientrato.

D: Ecco, lì da Sankt Lambrecht poi tu sei rientrato a Mauthausen.

R: Sì, da Sankt Lambrecht appunto siamo rientrati a Mauthausen, e la bella… Con tutte le preoccupazioni che avevo io, ma non più di tanto, perché credevo ciecamente al compañero Agapito, quando sono arrivato lì, siamo stati lì la notte. Ovviamente, nella notte, sia SS che kapò, ubriachi dello Snaps. Lo Snaps era… prendevano la benzina e la filtravano e facevano questo Snaps che era 70-80 gradi. Si ubriacavano, e ogni volta che passavano via – noi eravamo legati a degli anelli di ferro, con una catena – si divertivano a… perseguitarci, insomma. Però alla mattina, all’alba, viene un SS con un kapò, prendono il Meda, e va. Non so dove può essere andato, sicuramente alla Straf compagnia. Viene un altro SS, con un Español, che mi prende in consegna, mi porta giù al Waschraum a lavarmi, mi dà dei vestiti, e poi mi porta al blocco 16, che era il blocco degli spagnoli… al blocco 12, che era il blocco degli spagnoli. E lì mi volevano tutti bene perché tutti sapevano la mia storia, tant’è che, avendo la mia qualifica di elettricista, sono riusciti ad inserirmi nel Commando Elettric. Il Commando Elettric era molto vicino al Krematorium. Il mio compito era, con la borsa delle lampadine, girare attorno al campo e cambiare le lampadine bruciate. Ovviamente questo lavoro mi consentiva di vedere tutto ciò che succedeva e sentire tutto ciò che dicevano. E quindi vedere anche gli orrori che succedevano, le fucilazioni che facevano contro il muro del Krematorium. E poi, un’altra scena che era normale tutti i giorni, è che quando ti alzavi e giravi il campo vedevi i reticolati dove passava un’elettricità a 5000 volt, c’erano sempre deportati che si aggrappavano per morire, per finire la loro vita, tremenda vita. Andavo pure a cambiare lampadine al Politische Abteilung, che era la baracca dell’Ufficio politico, e andare lì, sentire le grida degli interrogatori che le SS facevano era una cosa che… Ma oramai per me era diventata, diciamo così, una normalità. Facevo finta di non vedere, di non ascoltare. Però poi, considerato che eravamo al Commando Elettric, quando aggiustavano le radio delle SS, avevo la possibilità di sentire Radio Londra: quando gli altri deportati giravano la manovella delle radio, ad aggiustare, e sentivo anche le notizie com’erano, che poi io riferivo a un gruppo di antifascisti – c’era un gruppo, Pajetta e tanti altri, internazionale, nazionale e internazionale – e riferivo quello che sentivo alla radio, certamente con molta discrezione perché…

D: Ramon, ti ricordi quando sei tornato da Sankt Lambrecht a Mauthausen? Che periodo era più o meno, te lo ricordi?

R: Aspetta, fammi pensare. Era… Dunque, io sono andato a marzo, sono stato lì tre o quattro mesi – aprile, maggio – a giugno inoltrato sono rientrato.

D: Sei sempre rimasto poi a Mauthausen?

R: No! Io sono rimasto a Mauthausen altri dieci mesi, sempre lavorando nel Commando Elettric, dopodiché per un… Debbo dire che la SS che comandava il Commando Elettric era un SS di Merano, parlava un veneto bastardo, e per il primo mese mi perseguitava, “tu fascista, tu Badoglio, tu partisan, tu qui tu là”, e io negavo in assoluto, che non era vero, che ero in un cinema e che mi hanno preso in questo cinema. Dopo un mese di torture psicologiche, un giorno lui mi dice “guarda che se il kapò ti fa qualcosa di male me lo vieni a dire che io lo metto a posto.” Io ho sofferto le attenzioni del kapò per dieci mesi, specialmente quando andavo a lavare la centrale elettrica, mi disgustava quello che faceva, anche se non mi ha mai messo mani addosso. E un bel giorno, così, il Comando Führer mi dice “come va col kapò?”, e allora io dissi “quello fa sempre il cretino di fronte a me…” Non l’avessi mai detto. Il giorno dopo, due giorni dopo, mi hanno trasferito a Schlier, un altro campo dove ne sono uscito 42 chili, con la tbc, la flebite, la laringite, la faringite, la bronchite, insomma, sono uscito distrutto da questo campo. Lì noi operavamo in gallerie e si trapanavano le pareti delle gallerie, dove avrebbero messo la dinamite per far saltare tutto, perché in quelle gallerie veniva prodotto il propellente delle V1 e V2. Erano dei grandissimi serbatoi che venivano collocati su dei binari, tipo tram e treni, con direzione… in quel periodo si diceva ‘Inghilterra’. Quando questi serbatoi qui erano pieni di carburante, diciamo così, alla testa del serbatoio mettevano un’ogiva, che era una specie di bomba atomica, che poi veniva lanciato a Londra, Coventry, eccetera.

Senonché lì i tempi stringevano, da mangiare non ce n’era più. Oramai si sentivano bombardieri, i bombardamenti degli americani, dei russi, delle truppe alleate, diciamo così, e quindi la fine era vicina, tant’è che a fine febbraio… no, a fine aprile, si è incominciato ad evacuare il campo. Dei gruppi che ormai non si sostenevano più in piedi venivano caricati sul camion e portati al crematorio di Ebensee, gli altri invece che ancora potevano camminare come me, abbiamo fatto la marcia della morte. In questa marcia della morte, senza mangiare, camminare tanto, i bombardamenti continuavano, ci abbiamo impiegato sei o sette giorni a fare 80-100 chilometri per arrivare a Ebensee. Adesso non mi ricordo, il quinto o sesto giorno, noi vedavamo che tante SS di notte scappavano, rimanevano i più criminali. E di questo ci si accorgeva, quindi, specialmente gli spagnoli che erano ancora in sesto, erano molto attenti: “se arriva un qualche cosa particolare ci difendiamo.” Siamo arrivati dopo cinque giorni, siamo arrivati a un bivio di una salita – cinque o sei giorni – un bivio di una salita che conduceva poi a Ebensee. E lì, già prima di iniziare questa salita, ci han fatto riposare un attimo. Nel frattempo, noi abbiamo – guardando alto – abbiamo visto un grosso carro armato che si affacciava alla discesa, e a fianco con due jeeps, abbiamo capito che stavano per arrivare gli americani. Quel tempo per gli americani di arrivare dove eravamo è stato sufficiente perché le SS han cominciato a dire “Ich gut, Ich gut, Ich gut, noi non siamo stati cattivi con voi e quindi ditelo agli americani”, ma nel frattempo alcuni deportati hanno ucciso un gruppo di SS. Quando sono arrivati gli americani, che filmavano tutto, ci han lasciato altro tempo libero, dopodiché finito “ora vi portiamo in un campo di quarantena.” In quel frattempo, pur conciato da buttar via, ho avuto – dato che eravamo a ridosso di una via principale – ho avuto la grande gioia di vedere una macchina militare con su una bandiera italiana. E allora, con vicino me un altro italiano – che poveretto aveva 16 anni, aveva due anni meno di me – ho visto questa macchina, ho detto “qui, se andiamo in quarantena…” Allora ho chiamato “italiano, italiano, italiano, italiano”, e questi qui si sono fermati, ci hanno caricato, e poi ho detto “adesso portate via tutto quello che c’è da portar via”, dai carri, dove c’era ogni ben di Dio, si sono riforniti di ogni ben di Dio. Nel frattempo io, avendo ancora il terrore che potesse succedere qualcosa, mi ricordo che ho preso una tuta di una SS, verdastra, sgualcia, sporca, e mi sono levato subito il mio vestito a righe, per dire “se mi fermano ancora sono…” Così ho fatto, però quel vestito lì me lo son tenuto, mi sentivo più libero. Con questo gruppo di italiani…

D: Scusa un attimo Ramon, quando sei stato liberato, ti ricordi la data più o meno?

R: Sì, sì. Ovviamente sono stato liberato alle 6 di sera, alle 18 di sera, del 5 di maggio, che è stata contemporaneamente anche la liberazione di Mauthausen. Quindi c’è stata una coincidenza: si vede che le truppe in quel momento lì non trovavano resistenza, e quindi…

D: Un’altra cosa, in quest’altro sottocampo dipendente da Mauthausen, che si chiama dicevi?

R: Schlier.

D: Ecco, lì ti hanno immatricolato ancora?

R: No.

D: Eravate tanti italiani in questo sottocampo qui?

R: No. In quest’ultimo campo di Schlier la prevalenza erano francesi. Gli italiani erano pochissimi, veramente pochi, e quindi il dialogo era quasi sempre coi francesi, coi kapò, eccetera eccetera. Quindi questi francesi qui io li ho poi trovati, tant’è che mi sono iscritto anche all’Amicale de Mauthausen, perché loro volevano che mi iscrivessi, e sono iscritto tutt’oggi, e quindi partecipo anche ai loro incontri internazionali. Sono cose belle, però…

D: Ramon, ritornando allora alla macchina, quando tu hai fermato la macchina…

R: Con questa macchina, con questi militari italiani, abbiamo girovagato otto giorni, però col pericolo che i posti di blocco americani ci requisivano la macchina. E questo è successo più volte, almeno tre volte o quattro. Però, essendoci dei meccanici dentro, si andava in un campo dove c’era le macchine parcheggiate, mettevano in moto un’altra macchina, abbiamo continuato e siamo arrivati a Bregenz, sul lago dei tre Cantoni, Svizzera, Germania, Austria. E lì c’era un comando americano in un albergo. Questo comando prendeva metà di questo albergo. La proprietaria era una spagnola, e avendo vissuto tanto con gli spagnoli conoscevo abbastanza bene lo spagnolo, son andato a parlare a nome degli altri al titolare di questo albergo, gli dissi “fermi qui una notte, domani andiamo in Svizzera, passiamo il confine e andiamo in Svizzera.” Così è stata. Abbiamo passato una notte lì, ci han rifocillato, e all’indomani siamo partiti per il confine svizzero. Purtroppo lì non facevano passare nessuno, ci hanno ritornati indietro. Abbiamo dovuto ritornare a Innsbruck nel campo di Reichenau dove all’inizio c’ero già stato; e lì c’era un grosso concentramento di italiani che dovevano rientrare […] per Bolzano, dove c’era un campo di raccolta di tutti questi deportati, anche degli ospedali attrezzati per poterli… Anche lì ci siam fermati alcuni giorni, dopodiché è arrivata una colonna della Pontificia Commissione di Assistenza, han formato questo gruppo. Col mio amico ci siam dati da fare per rubare, tra virgolette, un camion, che sarebbe rimasto poi di nostra proprietà. Questo camion si è unito alla colonna della Pontificia Commissione Assistenza, e poi, quando siamo arrivati a Bolzano, lì c’era un altoparlante, con tanta gente, familiari che attendevano di vedere se i loro familiari si erano salvati o meno. E lì, come sono arrivato io, ma tanti altri, subito hanno fatto il mio nome, “Pavarotti Ramon, Romolo”, e la cosa è stata subito recepita dai pompieri della Pirelli, che era la ditta in cui lavorava mio padre, ha lavorato cinquant’anni. Quando han sentito… quando han sentito “Romolo Pavarotti” son venuti a prendermi subito, mi han caricato sulla Croce Rossa e mi han portato a Milano. A Milano c’è un centro di raccolta all’Alfa Romeo, sono arrivato lì – oramai il mio papà lo sapeva, gli amici lo sapevano – sono arrivato come se fossi un eroe. Dopodiché mi han portato a casa perché vedessi i miei genitori, e subito dopo mi han portato all’Ospedale Maggiore di Milano, dove ci sono stato per circa due mesi. Poi sono uscito, sono andato in convalescenziale, sono andato in sanatorio, e dopo dieci anni ho avuto anche una brutta ricaduta, dalla quale mi sono rimesso.

Dopodiché le cose da un certo punto di vista economiche sono andate un po’ meglio, mentre purtroppo ho avuto anche la disgrazia di perdere due figli, e forse quello è stato il dolore più grande, ma non solo quello. Ho saputo – in effetti l’abbiamo saputo dieci anni dopo – perché i fratelli e lo zio sono stati letteralmente fucilati e trucidati sul San Martino di Varese dalle SS, dai fascisti, messi in fosse comuni. E dopo dieci anni c’è stata la riesumazione, con il riconoscimento della morte presunta, e tutti quei ragazzi, trentasette ragazzi, che sono finiti in quelle fosse, sono stati tutti collocati nell’ossario del Monte San Martino, dove è stato eretto un grosso monumento. Debbo dire che quei dieci anni, particolarmente per i miei genitori… ma io già l’avevo dato [per scontato], conoscendo più le cose, addentrandomi nelle cose, che non sarebbero più tornati, e invece i miei genitori speravano sempre che loro fossero riparati in Isvizzera, alla fine della battaglia, come tanti altri paramilitari del San Martino, e che fossero da lì andati in Russia perché avevano dei grandi ideali. La mia famiglia ha sempre avuto dei grandi ideali. E dopo c’è stato questo riconoscimento di morti presunti, i cadaveri non sono stati riconosciuti, e appunto sono finiti tutti nell’ossario.

D: Ramon, chi ti ricordi dei tuoi compagni di deportazione? Oltre al Meda che dicevi che è scappato, chi altri ti ricordi?

R: Ricordo quelli del mio gruppo, che siamo arrivati, e che quindi c’era un rapporto di amicizia, di stima, di condivisione, dei perché siamo stati arrestati, per difendere, diciamo così, la democrazia, dal fascismo.

D: Qualche nome Ramon, qualche nome…

R: Eh di nomi, beh… c’era Ratti, c’era… Marostica, e poi… e tanti altri, in questo momento non mi ricordo proprio il nome. Ma l’amico più grande, il mio ‘Number one’, il mio numero uno, è stato Agapito, perché con quello che ha fatto, con la ‘mentira’ al colonnello della SS, che capiva che aveva detto una grossa bugia ma che ha voluto accettarla per buona, è stato possibile salvarmi la vita. Agapito era un Españolo che a 16 anni ha combattuto la Guerra civile di Spagna. Si è poi rifugiato in Francia, dopodiché è andato nella legione straniera, e dopodiché è andato nell’esercito francese, e purtroppo, raggirando la Maginot i tedeschi… loro erano nei campi vicino alla linea della Maginot, sono stati tutti presi, letteralmente portati a Mauthausen, e i nove decimi sono stati in breve tempo – lavoravano la cava della morte, la ‘Straf compagnia’ si chiamava – sono quasi tutti deceduti perché il lavoro della cava, della ‘Carriera’, come la chiamavano gli spagnoli, era durissimo. Grazie a Dio, appunto, invece il mio amico Agapito si era salvato, e ha salvato anche me, e gli debbo la mia vita. Pensare che lui, non avendo il mio… non avendo io il suo indirizzo, perché rientrando se si fosse salvato non poteva andare in Spagna, lui mi ha… io ho dato a lui il mio indirizzo, “se ti salvi scrivimi!” Il destino ha voluto che invece, purtroppo, per un cambio di indirizzo mio, ci siamo visti dopo 44 anni a Padova. Una cosa stupenda, meravigliosa, eccezionale. Poi io sono andato a trovarlo a Carcassonne, dove abitava, con la moglie, i figli, un paio di volte. Sono andato a un congresso di Perpignan, e l’ho trovato anche lì. Dopodiché lui, venendo via da Padova e trasferendomi a San Remo, è pure venuto a trovarmi a San Remo, e dopodiché non l’ho più visto. Ultimamente gli mandavo sempre lettere, avevamo un rapporto epistolare molto stretto, molto bello. Lui aveva incominciato a scrivere anche un libro, che io tengo, che è scritto in Españolo, ma realizzato in Spagna a Soneja, che era la sua città di nascita, dove era considerato un eroe, ma lui ha voluto tornare ancora in Francia, a Carcassonne. E in quest’ultimo periodo lui è stato poco bene, è stato all’ospedale cinque mesi, io non avevo più sue notizie. Finalmente – sia telefonare… non riuscivo più a comunicare – finalmente mi ha mandato una lettera, con un libro, scritto da lui “Sobrevivir a Mauthausen” [Agapito Martín Romaní, Sobrevivir a Mauthaussen, Segorbe (Castellón), Edición propia, 1997]. È l’ultimo messaggio… l’ultimo messaggio che mi ha lasciato, perché quindici giorni or sono è morto, e non posso più rivederlo. Ma non lo dimenticherò mai. Mai.

Fiorentino Leone

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

PRIMA PARTE

Io mi chiamo Fiorentino Leone, sono nato il 7 settembre 1923 a Roma.

Voglio dire che le mie vicissitudini sono iniziate con la emanazione delle leggi razziali nel 1938. Migliaia di cittadini italiani di religione ebraica furono messi in condizioni di non poter più lavorare, di non poter più esercitare la propria attività, e anche io, al pari dei miei corregionali della mia stessa età, o giù di lì, fui espulso da tutte le scuole del regno. A mio padre, per esempio, che era un modesto venditore ambulante che operava nel mercato di Piazza Vittorio Emanuele all’Esquilino, fu tolta, fu ritirata d’autorità la licenza di vendita, e dovette arrabattarsi, dovette incominciare a fare degli umilissimi lavori per potere mantenere la famiglia. Io cominciai a fare il ragazzetto di bottega. Più tardi, alcuni anni dopo, fui precettato ai lavori obbligatori lungo le rive del Tevere, lavori di sterro primariamente. Ma istintivamente questo lavoro non lo accettavo, proprio perché era imposto, e anche perché la paga oraria [era] di una lira e ottanta centesimi, in virtù del fatto che ero un minore della maggiore età, mentre gli altri operai in genere lavorando dieci ore al giorno – perché la giornata lavorativa era stabilita in dieci ore – guadagnavano tre lire e sessanta centesimi. Questa disparità mi inaspriva maggiormente, non tanto nei confronti della ditta per la quale ero obbligato a lavorare, ma mal sopportavo la imposizione da parte del regime fascista. Non che sapessi esattamente quello che facevo, ma era un modo mio di agire, come dire, spontaneo. Questo mio atteggiamento nei confronti della ditta appaltatrice e anche del regime mi costava notti da trascorrere in guardina. L’indomani mattina venivo accompagnato da un agente di pubblica sicurezza sul posto di lavoro e poi finivo per essere piantonato per tutto il giorno lavorativo.

In seguito fui arrestato e condannato a sei mesi di carcere, che scontai interamente nel carcere di Frosinone ove ero stato trasferito subito dopo la condanna. Gli articoli del Codice penale che mi erano stati affibbiati erano tre, e ognuno di questi articoli mi comportava una pena da un minimo di sei mesi a tre anni di reclusione l’uno. L’imputazione era questa: vendita abusiva di generi di vestiario, che erano allora tesserati, così come erano tesserati gli articoli che riguardavano i generi alimentari, e per propaganda antifascista. A Frosinone fui costretto a lavorare nel locale fornace, che era situata ai piedi della cittadina, al pari di altri detenuti che con me erano arrivati da Roma a Frosinone, in sostituzione di tutti quegli operai della ditta della fornace che erano stati richiamati alle armi. Qui…

D: Scusa Leone, quando questo? In che anni?

R: Nel 1943. Nel 1943. Quindi la paga, così come era stato stabilito attraverso un accordo tra la direzione del carcere e la direzione della fornace, riconosceva per dieci ore lavorative a ogni detenuto che prestava la sua opera nella fornace una paga di 15 lire il giorno. Però di queste 15 lire la direzione del carcere se ne appropriava letteralmente, sottraendole a quanti effettivamente spettavano. E venivano riconosciute ad ogni detenuto soltanto le 5 lire rimanenti. Era un grosso vantaggio economico, sia per la direzione della fornace che risparmiava un sacco di soldi perché la giornata lavorativa di un operaio era di 36 lire per dieci ore lavorative, e le altre 10 lire venivano sottratte illegalmente dalla Direzione che se le pigliava totalmente. E questo sistema sempre istintivamente non lo accettavo, e quindi lavoravo anche qui molto molto svogliatamente, creando non pochi guai. Raccoglievo i blocchi di fango semisolido che uscivano da una taglierina… da una impastatrice, che dall’alto, attraverso un canale di legno, arrivava davanti a un operaio, che con una taglierina a compasso, con molta maestria bisogna dire la verità, tagliava in tre pezzi. Bisognava raccogliere questi tre pezzi così tagliati e metterli su un carrello che poi si spingeva fino a un capannone dove si doveva mettere ad essiccare prima che fossero messi nella fornace. Bene, da parte mia questi tre pezzi immediatamente ritornavano ad essere unici, un pezzo unico, e questo, anche qui, mi costava decurtazioni di paga e nello stesso tempo camere di punizione. Finalmente la direzione del carcere della fornace si decise a liberarsi di me, e quindi incominciai a trascorrere le mie giornate in camerata insieme ad altri detenuti. Ogni camerata aveva grosso modo dai venti ai ventidue ai ventitré prigionieri.

Cade il fascismo il 25 luglio, le carceri si stanno vuotando. Credo di poter essere liberato, ma non c’è una disposizione nei miei confronti, perché quanto serve alla direzione per poter mandarmi via è qualcosa che deve arrivare dalla centrale di polizia di Roma, che allora era a Piazza del Collegio Romano. Ma questo documento non poteva certo giungere perché attraverso i bombardamenti le linee di comunicazione erano totalmente rovinate.

Il 25 luglio cade appunto il fascismo. Si fanno congetture tra detenuti, si pensa che la guerra ormai sia finita e che si comincerà a vivere in maniera diversa. Ma non è così. I bombardamenti continuano e comunque, per non sottostare al pericolo incombente, poiché i bombardamenti avvenivano quasi tutte le notti in maniera massiccia, alcuni detenuti – intanto erano passate delle settimane, erano passati dei mesi – alcuni detenuti presero contatti con la direzione del carcere perché facesse scendere i detenuti durante le incursioni aeree giù in basso. Ma l’ottusità del direttore non lo permise e si decise di tentare una evasione in massa, quando uno dei continui bombardamenti più forte degli altri in questo caso lo avesse permesso. Capita questo bombardamento, e i detenuti scagliano le brande sulle serrature delle porte, e la nostra porta, quella della nostra camerata, è la prima a saltare. A un malcapitato secondino gli prendono le chiavi, qualcuno si incarica di aprire tutte le porte del piano e si scende durante il bombardamento intenso le scale che portano giù in basso, come bestie feroci terrorizzate. Ma un comando di carabinieri che facevano parte della caserma dirimpettaia – diciamo – del carcere, dopo aver sparato alcuni colpi in aria per intimorirci, ci sospinse ancora sul piano da dove eravamo discesi. E quindi trascorremmo tutta la notte con la faccia rivolta verso il muro e le braccia alzate, i moschetti con la baionetta innestata, puntata alla schiena. L’indomani mattina veniamo trasferiti giù in basso nelle celle di punizione, e siamo in molti ad attendere l’interrogatorio di ognuno perché si potesse valutare la colpevolezza di ognuno di noi. Ma intanto un reparto di soldati tedeschi, al comando di un loro ufficiale e da un tenente dell’esercito italiano che funge da interprete, invade tutto il piano terra. Un breve discorso dell’ufficiale tedesco e si riesce a capire che – perché tradotto appunto dall’ufficiale italiano – che il comando tedesco di stanza a Frosinone non vuole assumersi la responsabilità di tenere esposti ai bombardamenti gli unici civili quali i prigionieri sono, e quindi mette in libertà tutti coloro che hanno una pena da scontare non superiore ai cinque anni. Gli altri saranno trasferiti in altre carceri. Vanno via i tedeschi, e quelli che hanno maggiori anni da scontare rinchiudono gli esterrefatti secondini nelle celle di punizione e si danno alla fuga.

Esco dal carcere insieme ad alcuni altri compagni di sventura e ci dicono… riusciamo a sapere che alla stazione dovrebbe transitare una tradotta militare che dovrebbe andare verso Roma. Dopo molte ore arriva carica di soldati stracciati, affaticati, moralmente soprattutto. Dicono che per loro ormai la guerra è finita, e nella maggior parte dei casi sono stati abbandonati dai loro comandanti e quindi ora sono diretti verso le loro case. Dopo molte ore di viaggio si arriva a Roma. Esco, prendo un mezzo pubblico che va verso il quartiere dove abito, il quartiere Testaccio, ma non so rendermi conto perché piccoli e grossi mezzi militari tedeschi carichi di soldati armati di tutto punto transitano per Roma. Roma che era stata dichiarata mesi addietro Città aperta, quindi mi dicevo che doveva sicuramente essere accaduto qualcosa perché tutto si fosse in una qualche misura rivoltato. Alla stazione, o meglio, alla Piramide, in prossimità appunto di Porta San Paolo, c’erano i segni di violenti combattimenti e quindi una desolazione. Scendo dal mezzo appunto e poiché abitavo poco distante da lì, a piedi raggiungo la mia abitazione. I miei genitori… Quindi, una volta arrivato a casa, i miei genitori mi dicono delle tremende giornate trascorse, la combattività dei granatieri italiani e popolani romani malissimo armati contro il potente contingente corazzato tedesco che riesce a penetrare in città e a presidiarla. In un secondo tempo io seppi che in quei giorni di battaglia i morti furono 146, di cui 27 donne. Devo presentarmi alla centrale di polizia a piazza del Collegio Romano per convalidare la mia uscita dal carcere. Però la polizia non si sapeva bene da che parte stesse; le bande fasciste, sotto il controllo relativo dei tedeschi, si erano formate di nuovo e comunque i tedeschi, benché glielo avessero permesso di ricostituirsi, non si fidavano di loro, e perciò decisi di non presentarmi. Però sapevo di essere ricercato e quindi, malgrado tutti gli accorgimenti, fui catturato dalla polizia fascista il 3 dicembre 1943.

D: Dove? A casa tua?

R: A casa mia. Ma la casa era disabitata, perché le mie sorelle erano presso amici di famiglia e altrettanti amici di famiglia, che abitavano accanto al nostro appartamento rimasto vuoto, erano… ospitavano me e ospitavano mio padre e mia madre. Quindi fu un caso… C’era il coprifuoco, era tardi, e quindi dissi a mia madre: “Bene, se devo andare in quel posto, presso altri amici, per ripararmi dalle insidie, voglio andare a prendere qualche libro per leggere.” Infatti entro dentro casa, ma non appena entro sento lo squillo del telefono e penso che sia mio padre che vuole mettermi fretta. Invece erano tre agenti di pubblica sicurezza in borghese, che dopo avermi domandato dove fossero i miei, dissi che non potevo saperlo poiché da pochissimo ero uscito dal carcere e quindi non potevo dare altre spiegazioni. Ma perché vennero a ritirarmi… ad arrestarmi in quel frangente a casa? Perché avevo girato tutto il giorno, poiché mi sentivo seguito, per allontanare da me i due agenti di pubblica sicurezza in borghese che mi seguivano. Quindi prendo il tram, faccio poche fermate, scendo a Porta Castello perché stavo lì a Viale Giulio Cesare; a Porta Castello mi inoltro in quelle viuzze scure e strette, e lì giro attorno per molte ore, sperando di avere fatto perdere le tracce a questi poliziotti. Quindi molto tardi arrivo a casa, tanto è vero che mi trovo all’altezza di Ponte Vittorio – perché Borgo Pio si trova proprio sul Lungotevere all’altezza di Ponte Vittorio – attraverso il ponte, e qui mi pare che sono un po’… come dire, non più seguo un certo discorso: attraverso il ponte, prendo a Corso Vittorio il primo mezzo, il primo autobus che capita, e che va verso Piazza Venezia. Però mi pento. Mi pento perché dico, a Piazza Venezia? Piazza Venezia è piena di fascisti e di polizia! Ma ancor prima non posso scendere perché all’altezza della Cancelleria c’è il Palazzo Braschi dove c’è la banda Pollastrini, Bardi e Pollastrini. E quindi, una volta a Piazza Venezia, decido di proseguire e scendo a Via Nazionale – a metà di Via Nazionale – percorro poi tutta via dei Serpenti, arrivo a Via Cavour. Là prendo un’altra circolare che mi porta al Colosseo, e di lì la circolare rossa che mi porta a Testaccio. Quindi io ho capovolto la situazione. Vengo arrestato a casa perché quei due che mi avevano seguito mi avevano ben individuato e quindi avevano potuto comunicare ai loro colleghi che mi trovavo in quella situazione.

Dopo moltissime settimane nel carcere di Regina Coeli, e altrettante settimane nel penitenziario di Castelfranco di Modena, [arriva] quindi il trasporto su pullman nel campo di Fossoli, vicino Carpi.

D: Scusa Leone, quando ti hanno arrestato a casa tua, ti hanno portato subito in quale carcere?

R: Non in carcere, in camera di sicurezza.            

D: Dove?

R: Nella camera di sicurezza del commissariato di Testaccio.

D: E ti hanno rivolto qualche imputazione?

R: No.

D: Ti hanno interrogato?

R: No.

D: Solo ti hanno arrestato?

R: Solo.

D: Lì sei rimasto quanto tempo?

R: Tutta la notte. L’indomani mattina fui… con un furgone carcerario fui trasferito nel carcere di Regina Coeli.

D: Sei stato interrogato lì?

R: No.

D: Ti hanno messo in cella isolato o con altri?

R: Con altri delinquenti comuni.

D: Questo è accaduto quando? Te lo ricordi?

R: Eh sì. Dunque… subito dopo il 3 dicembre del ‘43.

D: E poi tu dicevi che ti hanno trasferito ancora?

R: Sì.

D: Da Regina Coeli…

R: Da Regina Coeli nel penitenziario – non direttamente però – dal penitenziario di Castelfranco di Modena. Da lì poi…

D: Non direttamente in che senso?

R: Perché tentarono, i militi della Decima Mas, tentarono di… – me e altri due prigionieri che si trovavano, civili naturalmente, che si trovavano sul pulmino – di farci pernottare, perché anche loro volevano pernottare, nel carcere di Firenze. Però il direttore si impose, disse che non c’erano documenti necessari perché noi potessimo… essere, si fa per dire, ricoverati… fossimo rinchiusi lì. E quindi a malincuore questi militi ripartirono. Cioè, si ripartì tutti quanti verso Bologna, perché si percorse tutta la montagna pistoiese fino a Torretta Terme, e poi ancora giù fino a Bologna. A Bologna invece non ci fermammo, ma il pulmino si fermò a Castelfranco di Modena.

D: Lì sei rimasto anche lì nelle carceri a Castelfranco?

 R: Sì.

D: Una notte o più giorni?

R: Più giorni.

D: Sei stato interrogato?

R: No. No.  Quindi ci fu il caso che di lì a pochi giorni un altro gruppo abbastanza folto di ebrei romani – donne, uomini, bambini – giungesse appunto da Roma. Dopo pochi giorni tutti quanti – fui aggregato a quel gruppo – e tutti quanti fummo portati nel campo di Fossoli, vicino Carpi, in provincia di Modena.

D: Quando sei entrato nel campo di Fossoli ti hanno immatricolato?

R: No. No, assolutamente no.

D: E in che blocco ti hanno messo?

R: In che blocco io sinceramente non te lo posso dire. Comunque noi uomini, di quel gruppo, fummo tutti messi in una baracca, in un blocco, che era semivuota, poiché alcuni giorni prima c’erano state delle partenze, e quindi noi eravamo andati a rimpiazzare, si fa per dire, quelli che erano partiti.

D: Cos’era… dicembre, quando sei arrivato a Fossoli?

R: No, dopo, perché io ho fatto molti mesi di carcere. Tra carcere Regina Coeli, tra Castelfranco di Modena, erano passati dei mesi.

D: Sei arrivato quindi a Fossoli quando più o meno?

R: Verso, grossomodo… verso la prima quindicina di maggio, se non vado errato. Sì.

D: Nel ‘44?

R: Nel ‘44 certo, nel ‘44. Ormai il ‘43 era passato.

D: E lì a Fossoli sei rimasto quanto?

R: A Fossoli pochissimo. Pochissimi giorni, e quindi la partenza su carri bestiame per la Germania, per Auschwitz, Auschwitz Birkenau. Settanta o ottanta persone di ambo i sessi e senza nessuna distinzione di età per ogni carro. Tra i lamenti dei più deboli, tra i pianti atterriti dei bambini, soprattutto i lamenti strazianti delle donne e anche delle persone anziane. Il viaggio durò sette interminabili giorni. Ricordo questo: quando si arrivò ad Auschwitz – dopo lo sapemmo che si trattava di Auschwitz – mentre si scendeva sotto i colpi di bastone sferrati con forza su ogni dove, una donna mi è sempre rimasta impressa, una donna ancora giovane, in preda sicuramente a una crisi isterica, disse più volte: “Ma non sentite che puzzo di bruciato c’è nell’aria?” Però nessuno gli dette retta. Effettivamente il cielo era cupo, sembrava una cappa di piombo, e il puzzo di bruciato c’era.

D: Scusa Leone, quando tu dici Auschwitz, intendi Auschwitz I o Birkenau?

R: Lo stavo dicendo. Quindi ci trovavamo appunto ad Auschwitz, Birkenau. Auschwitz era una vasta zona di oltre 40 chilometri quadrati, fitta di campi e sottocampi, con altre denominazioni, ma tutti facenti capo a Birkenau, che era il vero centro dello sterminio.

D: Scusami ancora Leone, quando il tuo transport è arrivato a Birkenau, il treno è entrato dentro nel campo o fuori si è fermato? Se ti ricordi.

R: Il treno si è fermato sulla rampa, che era – diciamo, si può dire – dentro questo grande complesso di campi. Lì ci fu la prima selezione, le donne con le donne, gli uomini con gli uomini. Ma soprattutto c’erano le suddivisioni ulteriori che riguardavano grossomodo l’età delle persone e, a detta o a parere, diciamo, dei tedeschi, delle SS, e anche dei capi, che poi erano anch’essi prigionieri, quelli che avevano il bastone in mano come segno di riconoscimento, come segno di potere, e a loro volta comandavano un infinito numero di altri prigionieri vestiti con la casacca e i pantaloni a righe, che si muovevano con sveltezza, quasi correndo, per non subire le sollecitazioni a suon di bastonate di questi che erano considerati i capi. Erano i veri e propri capi, perché poi la organizzazione interna del campo era in mano ai triangoli verdi, che erano delinquenti comuni, e ai triangoli neri, quelli che venivano definiti asociali, ma che poi, nella mentalità tutta teutonica, erano quelli che non avevano diritto di vivere, ma comunque erano stati delegati a comandare, erano stati delegati a sancire condanne anche di morte senza dovere poi risponderne ad alcuno.

D: Tu arrivi a Birkenau che è quando?

R: Attorno alla prima metà di maggio. Infatti, il numero che ho corrisponde grossomodo a quella data. Dopo un brevissimo periodo di quarantena

D: Dopo la selezione sulla rampa cosa è successo?

R: È successo che fummo spogliati completamente di tutti i nostri vestiti, fummo rapati, tosati sulla testa, sotto le ascelle, attorno il pene, e quindi, dopo una doccia freddissima – si diceva di disinfestazione [disinfezione, ndr] – il vestito a righe di tela, casacca e pantaloni e un berretto della stessa stoffa a forma di basco. Ai piedi soltanto zoccoli di legno.

Fui assegnato al commando, al Wasserkommando, al commando acqua, uno dei Kommandos più cattivi, così si diceva in campo, poiché la mortalità dei suoi componenti era altissima. Si dovevano percorrere circa 9 chilometri di strada fangosa, per arrivare poi alla zona paludosa, dove dovevamo entrare nell’acqua stagnante per tagliare dell’erba acquatica. Un lavoro inutile, un lavoro che non serviva a niente, ma che serviva, nelle intenzioni delle SS, a far sì che si morisse di fatica, se non direttamente con un colpo di pistola, o magari attraverso una delle selezioni. Le selezioni avvenivano all’improvviso. Si doveva passare tutti nudi davanti un ufficiale tedesco che non sempre era medico, ma indossava un camice bianco, e senza tenere conto delle effettive condizioni del prigioniero che gli passava davanti, ne decretava la morte: o vai a destra o vai a sinistra. Molto spesso capitava di dover andare a morire anche [a] quei prigionieri che ancora potevano essere, diciamo così, valide forze, potevano ancora essere… usati come manovali, come uomini di fatica, come uomini…

D: L’immatricolazione, come ve l’hanno fatta? Come te l’hanno fatta?

R: L’immatricolazione avvenne prima, subito dopo l’arrivo ad Auschwitz, o meglio, a Birkenau. Subito dopo, diciamo, la vestizione. Il tatuaggio fu fatto con un ago bagnato di un certo liquido, da gente, prigionieri naturalmente, che si ingegnavano di scrivere nel migliore dei modi, facendo una serie di punture. Comunque, salvo casi eccezionali, non è che questo desse motivo di febbre o altro. E quindi ci fu l’assegnazione al posto di lavoro, al commando di lavoro, e ripeto, io fui assegnato al Wasserkommando che operava nella zona paludosa.

D: Leone, siccome a Birkenau l’immatricolazione avveniva in modo molto particolare rispetto agli altri campi – perché il numero vi veniva anche tatuato, dicevi – com’è che avveniva? Eravate in piedi, tutti in fila?

R: In piedi tutti in fila, chiamati per ordine alfabetico, chiamati per ordine alfabetico. E quindi con questo ago una serie di punture, tanto da disegnare il numero… da trascrivere il numero che si voleva, ma che era seguente al primo e via dicendo.

D: Il tuo numero?

R: Il mio numero è: A 5399.

D: E poi oltre al numero che vi hanno tatuato sul braccio vi hanno dato anche il numero di stoffa?

R: Sì, unitamente ad un numero di stoffa e davanti il numero corrispondente a quello tatuato sul braccio, un triangolo giallo, e così anche un altro secondo talloncino di stoffa, con le stesse caratteristiche, da appiccicare, da cucire sul pantalone sulla gamba sinistra.

D: Il blocco di Birkenau te lo ricordi?

R: Sì, il blocco numero 8. Il blocco numero 8, uno dei peggiori. Io ero un Häftling, un prigioniero che stava all’ultimo gradino della scala sociale del campo, erano quelli che dovevano morire prima, erano quelli che facevano i lavori più bassi, più pesanti. E quindi in questo lavoro, in questo commando, ci ho trascorso oltre sei mesi.

Voglio dire che il campo… nel campo c’era la pulizia massima, ma fuori delle baracche però. Davanti ad ogni baracca, davanti l’entrata di ogni baracca, c’era una grossa aiola ben fiorita, ben tenuta, la Lagerstrasse, la strada in terra battuta che tagliava il campo in senso verticale, e nel suo insieme dava l’aspetto… il tutto aveva l’aspetto di un piccolo paese di campagna pulito ed accogliente. Dentro le baracche, invece, oltre mille uomini, asserragliati dentro le buche dei castelli di legno, in dieci o dodici persone per ogni buca – i posti erano per due praticamente persone – in un groviglio di ossa, di maledizioni, di bestemmie in tutte le lingue, come in una nuova torre di Babele. Si tiravano calci, con quelle poche forze che si avevano, per cercare di sistemare meglio le proprie ossa. E poi c’erano i Mussulman. I Mussulman erano quelli che orinavano dappertutto, soprattutto la notte, bagnando non solo di urina ma anche di liquido diarrotico [per diarroico] i cuscini e dava un odore insopportabile. I ‘mussulmani’, quelli che venivano chiamati Mussulman, non erano altro che povere persone, poveri esseri umani che di umano effettivamente non avevano più niente. Scalzi, imbrattati di sangue, pieni di croste, girovagavano per il campo in cerca impossibile di qualcosa da mettere in bocca. Però bisogna dire che le loro condizioni facevano pensare che avessero perso il senso del ragionamento. Aspettavano così, incoscientemente, la morte.

Si lavorava non certo per produrre. Si lavorava per morire, perché il lavoro che si faceva – sotto le continue bastonature, sotto le continue angherie, le vessazioni e poi il lavoro per se stesso duro così com’era – ci faceva vivere nel terrore continuo di essere ammazzati, o di morire di stenti.

D: Leone, nel Block con te c’erano altri italiani?

R: Nel mio commando c’erano soltanto tre italiani, e guarda caso tutti e tre romani. Nelle baracche vicino c’erano qualche altro italiano, e non a caso, così come facevano del resto tutti: i francesi con i francesi, i milanesi cercavano il compagno milanese perché potesse scambiare, non dico qualche impressione, ma perché potessero magari ricordare quanto era rimasto in loro come ricordo della vita passata.

Comunque, eravamo dei condannati a morte, perché nel momento in cui si metteva il piede dentro il campo si era destinati a morire. Non a caso le SS, quando arrivavano nuovi prigionieri, venivano accolti grossomodo con una frase di questo tipo: “Voi siete in un campo di sterminio” – o meglio, in un campo di concentramento, non parlavano di sterminio – “un campo di concentramento tedesco da dove non si esce se non per il camino.” E questo era tutto.

C’era l’orchestra, che allietava le ore lunghissime dell’appello, sia all’alba, sia alla sera quando si rientrava dai vari posti di lavoro. Chiunque, chiunque avrebbe potuto pensare appunto che si trattasse di un paesino pulito e accogliente. Mentre l’orchestra suonava dolci melodie, fuori del lager passavano colonne interminabili di uomini, di donne e di bambini, che andavano inconsapevolmente a morire in una delle camere a gas. Molto spesso, prima che suonasse la sveglia, quindi prima dell’alba, si era costretti, cinquanta uomini per volta, di uscire completamente nudi dalla baracca e lì sulla neve o nel fango, o nella terra polverosa, ci si doveva distendere per terra, e poi sotto il fioccare delle bastonate, o comunque di altri corpi contundenti, ci si doveva arrotolare prima da una parte, poi dall’altra, quindi tirarsi immediatamente su e poi subito giù di nuovo, e questo per circa mezz’ora o forse di più. Questo era considerato un saggio ginnico, come mezzo di allenamento vero e proprio che ci portasse a riscaldare i muscoli per il lavoro poi che più tardi, poco più tardi, si sarebbe andati a fare. Molto spesso quattro o cinque persone rimanevano sul posto, morte. E non sempre erano i più malati o i più vecchi.

D: Leone, scusa, sempre quell’immagine del paesino lindo e pulito, il Waschraum com’era?

R: Il Waschraum era il blocco dei lavatoi. Ma ancor prima del Waschraum c’era il Block delle latrine. Dunque, lungo tutta la loro lunghezza, c’erano tre muretti di cemento, in senso verticale naturalmente, costellati di fori su cui bisognava… si doveva necessariamente sederci. Ma per pochi istanti soltanto però, perché davanti a ognuno di quelli che ci erano seduti sopra, lunghissime file di prigionieri con i pantaloni per un po’ calati, pronti per essere tirati definitivamente giù, sostavano in attesa. Ma ripeto, quelli che ci stavano seduti sopra a questi fori [rimanevano] solo per pochi istanti, perché venivano strattonati via, venivano malmenati da quelli che ritenevano di essere più in forza, da quelli che erano capi, quelli che erano i sottocapi, quelli che erano i servi dei capi. E poi si passava al Waschraum. Il Waschraum anche aveva tre – sempre in senso verticale – tre canali di cemento dove sgorgavano dai piccoli tubi dell’acqua puzzolente. Là ci si doveva in qualche maniera tentare di bagnarsi, non dico di lavarsi. Ma anche qui si subivano le angherie più feroci, perché c’erano quelli che erano definiti i capi, oppure i Prominenten, quelli che avevano certi incarichi e quindi erano abbastanza floridi, poi avevano la possibilità di organizzarsi, di cambiare facendo magari piccoli favori in cambio di saponette o di asciugamani, o di spazzolini dei denti: questi con tracotanza non volevano nessuno accanto a loro, e picchiavano maledettamente con quanta forza avevano per punire chi magari soltanto casualmente era passato loro accanto.

D: Scusa Leone, il tuo commando di lavoro dicevi era il commando dell’acqua.

R: Il Wasserkommando.

D: Tagliare queste canne di palude…

R: Sì, più che canne erano erbacce, erbe, molto folte, molto…

D: Quante ore voi dovevate lavorare?

R: Noi, salvo la quasi ora di riposo per mangiare quel po’ di zuppa che ci veniva distribuita – fredda oltretutto, perché veniva dal campo – dieci ore, all’incirca. Quindi, si dovevano percorrere i 9 chilometri per arrivare alla zona paludosa. Si lavorava pressoché nudi, perché altrimenti si sarebbe costretti poi a rimettersi la divisa bagnata. Quindi c’era quell’ora di riposo, si fa per dire, per mangiare quel po’ di brodaglia. Era circa un litro di acqua e cavoli, più acqua che cavoli in verità… Perché anche lì c’era un’angheria, perché quando ci si metteva in fila per passare davanti al Vorarbeiter – che era quello che col mestolo in mano travasava la zuppa in quella specie di scodella di metallo che ci portavamo sempre appresso – bene: non girava, non mescolava quanto c’era dentro, e quindi le foglie di cavolo, i crauti andavano a fondo, andavano a fondo e gli altri pigliavano soltanto un litraccio di acqua puzzolente. Ma quello che rimaneva a fondo serviva al Vorarbeiter e al sottocapo, di organizzarsi ancor meglio facendo… ricevendo poi dei favori più grandi, certo.

D: E non c’era giorno di sosta, diciamo la domenica?

R: La domenica. In genere la domenica non si lavorava, però si era obbligati. D’altra parte era anche necessario rivolgersi al Rasier della baracca. I Rasier erano piccoli capetti che avevano avuto la mansione di possedere un rasoio e un pennello da barba, e quindi radevano tutti coloro che dovevano necessariamente radersi, perché sarebbe stato oltremodo pericoloso non radersi, o comunque non farsi radere. Però per ingraziarseli, questi Rasier, bisognava portare loro una mezza razione di pane, o magari quel pezzettino di margarina che una volta ogni tanto ci passavano, allora uno la teneva da parte per poi darla a questo Rasier. E questi, senza scrupoli, si atteggiavano a capi, e quindi facevano il bello e brutto tempo. Se quanto il prigioniero, una volta davanti a lui, mostrava soltanto la mezza razione di pane, e non era gradita da lui, erano botte, oppure, con cattiveria, il sapone che era rimasto sulla lama del rasoio, te lo pulivano addosso alla casacca. Se reagivi prendevi botte da lui: non solo, ma diventavi il peggior nemico di tutti quei prigionieri che ti venivano appresso, che stavano appresso a te, perché dicevano che tu con quell’atteggiamento avevi creato che il Rasier si innervosisse e se la prendesse quindi con tutti. Quindi i tuoi stessi compagni erano diventati nemici.

D: E tu sei restato in questo commando di lavoro sei mesi?

R: Sei mesi. Poi fui trasferito con tutto il commando di lavoro nel campo di Stutthof, vicino Danzica. Perché il fatto fu piuttosto, come dire… piuttosto importante. Nello stesso tempo però un fatto eccezionale: perché il commando di lavoro che operava nel crematorio, che era nelle immediate vicinanze della zona paludosa, riuscì a far saltare e a distruggere il crematorio stesso. Ma questa fu una operazione andata a male, perché era stata organizzata in un’altra maniera, e quei prigionieri, quei componenti di quel commando non furono… non potettero essere avvisati, perché avrebbero dovuto soprassedere di fare quell’azione. Comunque, oltre cento di quel commando furono trucidati dai tedeschi, e noi del Wasserkommando fummo – nella tarda serata, nel tardo pomeriggio, poi venne la sera – dovemmo raccoglierli tutti e tirarli all’asciutto, tirandoli fuori dal fango dove erano mezzo affossati. Quindi arrivammo in campo, e un ufficiale tedesco ci parlò a lungo. Eravamo l’ultimo commando di lavoro che stava rientrando, perché da ore tutti gli altri comandi, oltre ventimila persone, erano in attesa che il quadro completo dei prigionieri dei comandi di lavoro fosse presente nel piazzale principale. Riuscimmo a capire soltanto che non avremmo dovuto fare parola di quanto avevamo visto e di quanto eravamo stati protagonisti, pena la eliminazione fisica di tutto il commando di lavoro. Quindi ci collocammo nel nostro… nell’assetto generale, quello che era il posto del Wasserkommando, e quando finì l’appello si entrò nella baracca. Ma poi non andammo più al lavoro perché fummo reclusi letteralmente per alcuni giorni, diciamo lontano da tutti, e poi aggregati a un Transport che ci condusse poi a Stutthof.

SECONDA PARTE

R: A Stutthof vi era impiantata una fabbrica per la produzione di sapone. E lì fui impiegato nei vari comandi di lavoro a trasportare pietre, a scaricare sacchi di cemento o a caricarli, a scaricare addirittura ghiaia dai carri ferroviari, in cinque persone, e soltanto con le mani nude perché gli attrezzi necessari non erano numericamente sufficienti. E poi ancora in altri campi, e sottocampi…

D: A Stutthof sei stato nuovamente immatricolato?

R: No.

Quindi, in una lunga serie di campi e sottocampi meno conosciuti, anche dislocati in zone remote e di difficile identificazione, e poi ancora nei campi di Hayingen – più  che campi erano cave di pietra – per oltre 10 ore al giorno; e anche a Natzweiler, per le stesse ragioni e per lo stesso tipo di lavoro, a spingere i carri ferroviari, sì, ma anche carri da miniera carichi inverosimilmente di materiali ferrosi, in cinque persone, perché cinque era per le SS il numero esatto, non si doveva essere più di cinque. E quindi ancora un altro campo, e questo fu Dachau.

A Dachau il numero, oltre il numero tatuato sul braccio sinistro, ne fu dato un altro: il 150.319. Noi siamo arrivati a Dachau in un periodo sotto un certo aspetto fortunato, perché fino a poche settimane prima c’era stata una violenta epidemia di tifo petecchiale, che aveva letteralmente vuotato il campo. Comunque, una volta reso sovraffollato, il campo di Dachau appunto, che era semi circondato in quel periodo preciso – si stava verso la metà dell’aprile del ’45 – il campo superaffollato e semi circondato dalle truppe alleate, venne deciso dalle SS che tutti i prigionieri militari che erano rinchiusi nei campi di concentramento, appunto militari, esistenti nella vasta zona, fossero evacuati da quei campi e portati a Dachau. Però per far posto a loro, gli ebrei via via venivano trasferiti altrove, e non si sa dove. Anch’io fui tra questi.

Dopo alcuni giorni di viaggio in treno – non so se il treno andava soltanto in una direzione o se poi magari lo si faceva tornare indietro – fummo fatti discendere e incominciò una lunghissima marcia così incolonnati. Un tragitto stentato, colpi di arma da fuoco ma soprattutto di mitra colpivano tutti coloro che rimanevano addietrati. E comunque venivano uccisi anche coloro che in un impeto di solidarietà… cosa mai vista prima, la solidarietà, ma in quei frangenti sì, per aiutare il compagno che stentava a seguire il passo. E quindi ci si allontanava il più presto possibile da quel compagno che stava in difficoltà, perché ormai era diventato soltanto un bersaglio da colpire.

Ma intanto attraversiamo una collinetta innevata, e una frase corre tra la lunga colonna: “Ist fertig Krieg”. È finita la guerra. Ma è possibile? Sì, è possibile perché larga parte delle SS di scorta erano fuggite, ma quelli rimasti sparavano colpi di mitra indiscriminatamente su tutti. Alcuni prigionieri li vedo che si gettano a lato di questa collinetta innevata e io, facendo degli sforzi terribili, li seguo: e giù, un ruzzolare continuo sulla neve ghiacciata fino ai piedi di questa modesta altura. Ci ritrovammo, dopo poche centinaia di metri, davanti un cartello che indicava Innsbruck a 30 chilometri distante. I miei compagni erano tutti ungheresi, complessivamente eravamo in sei: cinque ungheresi più il sottoscritto. Con molta difficoltà raggiungemmo Innsbruck e qui qualcuno disse che i russi avevano liberato Vienna. Logicamente questi compagni di sventura andarono in quella direzione. Ed io continuai il viaggio verso il Brennero. Sono tornato a Roma – dopo una ventina di giorni circa nell’ospedale civile di Vipiteno – e sono tornato a Roma, appunto, il 27 maggio 1945. Inutile dire che appresi con gioia che i miei più diretti familiari si erano salvati, sani e salvi. Piuttosto, o meglio, più tardi, appresi dolorosamente che altri sedici nostri parenti, più lontani, erano stati catturati dai fascisti e consegnati ai tedeschi. Purtroppo di loro nessuno è tornato.

Mi ricordo un particolare a Vipiteno, o meglio… sì, a Vipiteno, perché dal Brennero mi fu fatto prendere il treno che non andava oltre Vipiteno. Ero stato indirizzato presso una famiglia che [era] originaria di Trento e che aiutava tutti coloro che rientravano e che avevano bisogno di… in qualche modo, essere aiutati. Mi disse: “Lei” – mi dava del lei – “lei non deve temere più nulla, qui non ci sono più né tedeschi e né fascisti. Vedrà. Lei è ancora giovane, si rimetterà presto. Quanti anni ha? Sessanta?”

D: Leone, allora: Fossoli, Birkenau. Birkenau, ci rimani sei mesi, circa?

R: Sì, oltre sei mesi.

D: Quindi fino al dicembre, gennaio?

R: No, a ottobre, perché a ottobre Birkenau incominciò ad essere in qualche misura evacuata. Poi come si sa fu liberata il 27 gennaio del ‘45 dalle truppe sovietiche. I continui spostamenti nei vari campi, piccoli e grandi, sconosciuti o meno, in una certa maniera, non so se si può valutare più pesante quel periodo di quello trascorso a Birkenau o meno, o viceversa. È stato un continuo temere di morire ammazzati o di morire sfiancati dalla fatica.

D: Ecco, proprio questo. Quindi a ottobre riparti da Birkenau e ti portano?

R: A Stutthof.

D: E lì ci rimani più o meno quanto tempo?

R: Non molto tempo. Non molto tempo perché quando eravamo a Stutthof i sovietici erano, se non vado errato, a una ottantina di chilometri dal campo.

D: Da lì ripartite?

R: Sì, per altri campi, sconosciuti, in zone deserte, di difficile identificazione.

D: Non te ne ricordi?

R: Come? E come è possibile? Uno me ne è rimasto impresso: era un hangar, un vecchio hangar, circondato naturalmente dai reticolati. E in questo hangar, in metà… la metà di questo hangar era occupato dai castelli di legno sovraffollati di prigionieri, l’altra metà invece era adibita a movimenti di camion, di soldati, era la parte dove la mattina, o meglio all’alba, si faceva l’appello e dove poi lo si ripeteva alla sera.

D: Il luogo non te lo ricordi?

R: No.

D: Poi altri campi ancora?

R: Altri campi, sempre in zone desolate e deserte. Desolate… che cosa potevamo, con quali mezzi potevamo dire “ci troviamo in questa zona”? Era assolutamente impossibile.

D: Fino ad arrivare a Dachau.

R: Fino ad arrivare a… Ma prima di Dachau ci fu Natzweiler, e ancor prima Hayingen. Hayingen era poi il campo principale di una zona dove c’erano altri campi di concentramento di cui poi c’era Natzweiler.

D: Tutti questi trasferimenti come li hai fatti?

R: Su carri bestiame.

D: Ed eravate solo uomini?

R: Sì, si era rigorosamente, come dire… si era rigorosamente divisi. Ci si poteva anche incontrare durante il lavoro con altri comandi di lavoro che magari erano composti esclusivamente da donne, ma questo avveniva non molto spesso comunque. Per esempio, questo particolare [lo] voglio dire, che mi sono dimenticato. Nel campo di Auschwitz, o meglio di Birkenau, le categorie da eliminare erano: i politici, gli ebrei, i testimoni di Geova, gli omosessuali, gli zingari, i russi, i triangoli verdi e i triangoli neri. Però non è come si può credere. Ognuna di queste categorie di prigionieri erano contrassegnate da triangoli di colore diverso. Non è come si può credere che si stesse tutti insieme, perché le varie categorie erano suddivise, diciamo, erano rinchiuse in campi diversi: gli omosessuali con gli omosessuali, gli zingari con gli zingari, e via dicendo. Comunque, questi campi, che erano anch’essi circondati da filo spinato con il passaggio della corrente ad alta tensione, erano distanti soltanto poche decine di metri l’uno dall’altro. Era una serie di campi. Solo nel campo principale, che aveva rinchiusi dentro oltre ventimila prigionieri, era costituito da politici, ebrei, triangoli verdi e triangoli neri, e tutti dalla diversa nazionalità. I politici non subivano le selezioni così come avveniva esclusivamente per gli ebrei, però i politici avevano un vantaggio penso su tutti gli altri, perché la loro ideologia politica li teneva, ecco come dici tu, più sostenuti, più sollevati. E comunque avevano una bassissima percentuale di salvezza, perché il duro lavoro lo subivano, le sevizie le subivano, le malattie, il freddo, la diarrea e quanto altro, li colpiva maledettamente. I russi, come contrassegno avevano una ulteriore striscia di rasatura sulla testa che partiva dalla fronte fino alla nuca, e come segno di riconoscimento ulteriore un disco rosso di stoffa appiccicato, o comunque cucito dietro la casacca, che era il simbolo inequivocabile dal significato ‘bersaglio da colpire’. Gli ebrei invece venivano uccisi o per le sevizie o per il lavoro forzato, ma più spesso ancora la selezione e quindi la morte per gasazione.

D: Scusa Leone, Fossoli, Birkenau, Stutthof, e poi tutti gli altri campi che tu hai fatto, durante tutto il tuo periodo di deportazione, non hai mai potuto comunicare con l’esterno del campo? O ricevere…

R: Ma come si poteva? Auschwitz, o comunque Birkenau, poiché era soltanto a 2-3 chilometri, distava dal confine italiano, se non vado errato, qualcosa come 3000 chilometri. Questo poteva succedere con i polacchi, poteva succedere, e sicuramente sarà accaduto con i russi; ma ai francesi, ai turchi – perché c’erano anche turchi – ai greci, agli italiani, ai francesi l’ho detto, e a quante altre nazionalità ci fossero, non era assolutamente possibile avere contatti con altre persone.

D: Durante il tuo periodo di deportazione non sei mai stato ricoverato al Revier?

R: No, mai. La prima cosa che si imparava, poi era difficile metterla in atto, era quella di non presentarsi mai nel cosiddetto ospedale, nel Revier, perché di là non si usciva vivi. E allora se avevi la febbre alta, se avevi il mal di gola, se avevi magari la polmonite, e se ancora avevi un po’ sano il cervello, non ci andavi.

D: Hai mai subito punizioni?

R: Io le punizioni me le sono andate a cercare, ne ho prese quante ne ho volute, ma questo ricevere colpi dappertutto e da tutti, anche dai miei stessi compagni, non italiani, non perché gli altri mi portassero rispetto, ma dava a me la forza di resistere, perché mi dicevo: se io cerco in qualche maniera di non fare questo lavoro o di non farlo comunque come lo si vuole, cercando di non farmi vedere, magari adottando piccolissime astuzie – mi dicevo – è preferibile rischiare di prendere delle bastonate che perdere un etto di ciccia, perché non si rimette più.

D: Quindi hai ricevuto punizioni?

R: Sì, sì. E ne ho fatte anche prendere, incolpevolmente, perché chi lavorava con me era destinato a prenderle anche lui. Erano diventati tutti nemici praticamente.

D: Questo a Birkenau?

R: A Birkenau, sì. A Birkenau.

Io ho avuto un carissimo amico, diventato carissimo amico nella prigionia, e con lui ho trascorso molti mesi di prigionia. Eravamo arrivati a dividerci quanto riuscivamo a racimolare, cambiando la zuppa con altre cose, e poi tornando a cambiare queste cose per il pane e via dicendo. Un lavoro difficoltoso, perché era vietato entrare nelle altre baracche diverse da dove si era alloggiati. E quindi questo rischio lo si correva per cercare di mandare giù nello stomaco qualcosa che ci desse – come potevano essere le bucce di patate – che ci potessero dare una maggiore sensazione di sazietà. Questo caro amico, anche perché lui, anche lui romano, piccolo di statura come me, grossomodo avevamo la stessa età, a volte passavamo… ci scambiavano per fratelli, e noi non avevamo assolutamente niente da dire su questa fratellanza inesistente. Purtroppo lui non ce l’ha fatta. Quanto io ho scritto, quanto ho scritto l’ho dedicato a lui.

D: Che si chiamava?

R: Renato Sonnino.

D: È mancato a Birkenau?

R: No, non l’ho visto. Dopo Birkenau noi abbiamo passato lunghi mesi insieme. Tanto è vero che io, quando mi trasportarono a Natzweiler, credendo che fosse l’ultimo viaggio, sperando che fosse… non sperando, credendo, che si andasse verso il crematorio, poiché avevo avuto l’impressione… Ma poi, fatta ragione che era stata una vera e propria selezione, ci portarono dentro questa grande baracca e prima di essere trasportato comunque, ad un comune amico dissi: “Se… quando torna Renatino, abbi la cortesia di dirgli che se ha la fortuna di tornare a casa dicesse ai miei che sono morto.” Fortunatamente arrivati in quel campo fummo fatti spogliare e una volta denudati fummo fatti entrare dentro questa baracca che era stata una baracca adibita a camera a gas, ma fortunatamente incominciò a uscire dell’acqua, puzzolente, giallastra, ma comunque, comunque acqua.

Martini Marcello

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Marcello Martini. Sono nato a Prato, in Toscana, il 6 febbraio 1930. La mia è stata prettamente una vita di un ragazzo nato e cresciuto sotto il regime fascista, che fin dagli inizi, fin dai 6 anni, uno era iscritto al partito fascista automaticamente, appena si presentava a scuola.

Nel giugno del ‘44 mio padre – saltato tutto il periodo ovviamente… – mio padre era comandante militare della zona di Prato alle dipendenze del CLN pratese. E nell’ambito di questa attività era stata organizzata una radio a Firenze, detta Radio CoRa, il nome in codice, dalla quale venivano trasmesse tutte le informazioni militari relative ai passaggi di truppa, ai depositi di munizioni, alle prime postazioni che venivano costruite sulla linea gotica. E tutte queste informazioni di carattere militare venivano trasmesse a sud tramite questa radio, che era una radio messa su un po’ alla bell’è meglio, da due radiotecnici fiorentini, padre e figlio, Morandi si chiamavano, e trasmetteva un giorno da una parte un giorno da quell’altra, per non essere identificata dai radiogoniometri. Questo servizio funzionava talmente bene che fu deciso, appunto, dal sud, cioè dal primo nucleo del ricostituito esercito italiano, di inviare dei radiotelegrafisti con altrettante radio, più efficienti e più forti di quella, ripeto, messa su alla bell’è meglio. E questi cinque paracadutisti si lanciarono durante la notte del – se ben ricordo – del 2 di giugno del ‘44, lì nella zona di Prato, ricevuti da mio padre, da mio fratello. Il giorno dopo andai anch’io a portare da mangiare, all’epoca avevo 14 anni quindi non potevo sicuramente fare il partigiano. D’altra parte, la zona lì, la campagna intorno a Prato era messa in maniera tale che era impossibile praticamente fare una lotta armata, come è possibile invece fare qui nel nord dove le montagne permettono un rifugio più sicuro: lì sono colline, la più alta di Prato era 900 metri di altitudine, quindi poi due passi più in là uno scendeva in Emilia, quindi non era il caso; e poi le rappresaglie che sono state fatte in Toscana, per azioni appunto di guerriglia, sono state veramente tremende, quindi c’era da mettere a rischio la popolazione civile per magari ammazzare un tedesco e ritrovarsi con un paese bruciato, come è successo purtroppo in tanti paesi, della Toscana in modo particolare. Quindi questo servizio di informazioni era tutto quello che potevamo fare.

Pochi giorni dopo, appunto, questo lancio, purtroppo la radio stava trasmettendo, radio CoRa stava trasmettendo… che ci sia stata una spiata, che sia stata localizzata dai radiogoniometri, fatto sta [che] irruppero nell’appartamento di Piazza Massimo d’Azeglio, sempre lì a Firenze, e trovarono caldi caldi sia il radiotelegrafista, che trasmetteva con la pistola accanto al tasto, e uccise i primi due tedeschi e poi fu a sua volta ucciso. Dicevo appunto il radiotelegrafista, Luigino Morandi, riuscì a sparare prima ai due tedeschi e poi fu fatto fuori. Tra parentesi, questa… come si può dire… questa occupazione, invasione, questo intervento era stato fatto dalla SS italiana e tedesca, c’erano tutte e due. Malauguratamente, non solo c’era nello stesso momento una riunione del CLN fiorentino, ma c’era anche tutto l’archivio delle attività svolte. E praticamente tutti i componenti del CLN furono catturati, arrestati e portati in via Trieste dove c’era la sede della SS, con relative carceri, tremende, o meglio, carceri… erano delle cellette nello scantinato di questa villa [Villa Triste, ndr] che esiste tutt’ora, via Trieste numero 10. Ma dall’archivio, dai documenti che erano ancora lì, fu possibile risalire al fatto che era a Prato che [si] dava la maggior parte delle informazioni. E a Prato c’era questo maggiore Niccolai, che venne identificato come il maggiore Martini [Mario, ndr], maggiore dell’allora esercito, Regio esercito italiano. Morale, qualche giorno dopo – nessuno appunto ci aveva avvisato di questa retata, cioè aveva avvisato il mio babbo il CLN, noi eravamo sfollati in una cascina vicino a Prato, tutta la famiglia – ci siamo ritrovati con la casa circondata, sempre da SS italiana e tedesca, e catturati, praticamente… Mi ricordo, io ero proprio di fronte alla porta che stavo studiando, poi nella stessa posizione in cui sono ora, lì dove c’è la macchina da presa, c’era la porta interna, perché era uno stanzone che occupavamo appunto… sfondò la porta e mi ritrovai la pistola, una pistola sotto il naso da un certo Rabanser, che era un sergente delle SS, era un altoatesino, quindi parlava benissimo l’italiano. Morale, portarono giù nell’aia mia mamma, mia sorella e il sottoscritto, mio babbo, e il quinto paracadutista – gli altri quattro erano già stati catturati a Firenze – il quinto paracadutista che aveva cercato rifugio in casa nostra. Mia mamma, mia sorella e il sottoscritto fummo messi in una parte, mio padre in mezzo a due militi della SS italiana, con tanto di mitra. E giocando il tutto per tutto mio padre si mise a correre in un campo di grano, e cercò appunto di chiudere… no, più che di scappare, di chiudere subito l’argomento, perché ovviamente, siccome riuscivano a far parlare, avrebbe potuto compromettere, appunto, l’organizzazione, anche l’organizzazione pratese. Invece, fortunatamente, nonostante il grano fosse stato falciato da quanto gli hanno sparato dietro, riuscì a cavarsela, riuscì miracolosamente a passare in mezzo alle pallottole.

La sera stessa, mia mamma mia sorella ed io, e questo Franco, il quinto paracadutista, fummo portati appunto alla sede delle SS a Firenze, sempre in via Trieste al numero 10. Lì, una specie di interrogatorio, ma neanche tanto… Ecco, lì ebbi la prima botta, la prima sberla dalla SS. Perché eravamo stati tutto il pomeriggio lì nell’aia di questo contadino guardati a vista, e non si poteva parlare ovviamente, né niente, ero piuttosto stanco, m’appoggiai ad un tavolino lì nell’ufficio e venne, c’era un tedescone: mi lasciò andare la prima sberla che ho ricevuto da prigioniero. La sera stessa poi, nella nottata diciamo, fummo internati, io nelle carceri maschili delle Murate, lì di Firenze, mia mamma e mia sorella in quelle femminili di Santa Verdiana, sempre lì a Firenze ovviamente. Diciamo subito che mamma e sorella furono liberate poi dopo circa due mesi da un colpo di mano del Gap fiorentino, che fece uscire tutte le detenute politiche e razziali dalle carceri, con un colpo di mano, al quale partecipò anche un ex ufficiale tedesco che era passato dalla parte dei partigiani. Il sottoscritto invece, dopo tre giorni neanche – tutto avvenne il 9, sì – nella notte tra l’11 e il 12 di giugno, caricato su un pullman e portato a Fossoli. A Fossoli poi fui… Fossoli vicino a Carpi, in provincia di Modena, dove stetti pochi giorni, ecco… io ricordo il periodo di Fossoli un po’ come un periodo felice, tra virgolette.

D: Marcello, nel campo di Fossoli, ti ricordi se ti hanno immatricolato?

R: Sì, sono stato immatricolato. Non ricordo il numero di matricola preciso, ma mi sembra fosse sull’ordine del duemila, che poi fosse 1.900 o 2.100 questo non lo potrei precisare, perché a Fossoli ci sono stato talmente poco…

D: Un’altra cosa Marcello, ti ricordi se lì a Fossoli con te hai visto anche dei religiosi?

R: No, sinceramente a Fossoli non lo ricordo. Come vi ripeto, io a Fossoli sono stato dal 12 fino al 21 di giugno, quindi è stato un tempo talmente breve… Ho visto diverse persone, ricordo di aver visto diverse persone, ma più che altro mi sono state indicate, ecco, compreso anche Todros, di qui di Torino, e altri… poi ci siamo ritrovati su a Mauthausen. Però appunto, come dicevo, il 21 fui imbarcato: le solite tradotte, vagoni piombati… Il viaggio non fu tanto tremendo per quello che posso ricordare, perché i contadini lì della zona misero nei vagoni, mentre eravamo fermi in attesa di partenza, cassette piene di frutta – eravamo appunto a fine giugno, quindi la campagna era al massimo della produzione – e quindi non soffrimmo sete e neanche fame, perché molti lì a Fossoli potevano ricevere pacchi, vestiti, e quindi erano abbastanza agiati da un punto di vista [di] autonomia mangereccia. E quindi durante il viaggio non mancò… non posso dire fosse un viaggio comodo perché in cinquanta in un vagone con un bugliolo per fare i propri bisogni, ma comunque non fu tremendo. L’unico particolare fu che prima di partire dissero: “Se qualcuno tenta di fuggire facciamo fuori dieci di voi.” Dal mio vagone ne scapparono otto, quindi non saremmo stati neanche sufficienti per fare pari con la cosa. A parte il fatto che almeno a quello che ci dissero, quattro erano morti nel tentativo di fuggire, perché buttarsi dal treno in corsa dall’altezza del finestrino del vagone bestiame non è… è un bel salto, e atterrare sulla massicciata non è sicuramente un materasso. Altri due dei quattro furono ripresi e furono poi mandati a Mauthausen. Però questa minaccia ci pesava, era palese, era stata molto chiara, e quando si imboccò il Brennero, la salita lì del Brennero, e il treno cominciò ad andare a passo d’uomo, tutti quanti eravamo convinti, anche se nessuno diceva nulla all’altro, che nel momento in cui veniva trovato uno spiazzo, un posto, uno slargo per mettere in atto la minaccia, sarebbe stata lì… Ecco, questa paura sinceramente, penso abbia fatto da vaccino, abbia procurato gli anticorpi necessari per superare poi tutto l’anno successivo, un anno di paura completo. Dove anche lì, la paura… Ecco, l’uomo è una bestia strana: si abitua anche alla paura, sa benissimo che da un momento all’altro può essere l’ultimo, [di] questo eravamo tutti quanti coscienti, però nello stesso tempo speravamo di respirare per il minuto successivo. Questa era un po’ la psicosi del lager, o almeno era quello che sentivo io, anche se inconsciamente, perché di tante cose mi sono reso conto dopo ritornando nella vita normale.

Dicevo, il 24 di giugno si arrivò su a Mauthausen, eravamo circa 450, il trasporto mio se ben ricordo. So solo che in base ai conti di Tibaldi nel suo libro, appunto ‘Compagni di viaggio’, la sopravvivenza del mio gruppo è stata del 7,8%. Mauthausen, la solita cerimonia di ingresso, cioè rimanere due giorni lì all’addiaccio nel cortile lì a destra, il discorsino di presentazione del campo “questo è il portone dove siete entrati questo è il camino da cui uscirete”, insomma. E poi la doccia, la depilazione, il taglio dei capelli rasati a zero. Io ero fortunato allora perché avendo solo 14 anni non avevo la barba, e questo era un punto di vantaggio enorme, perché essere massacrati da rasoi maneggiati da mani inesperte, rasoi che non tagliavano, maneggiati poi da persone che per avere un mezzo mestolo di zuppa si professavano anche barbieri, quindi era un macello settimanale. Lì fui fortunato. Dopo il bagno internato nella baracca, se ben ricordo la numero 17, e dove sono stato lì poi fino a tutto luglio, fino al 31 luglio, quando rivestito a festa con la bella divisa a righe – ero immatricolato come 76.430 – quindi con il mio vestitino a righe nuovo di zecca, il cappellino, i ‘mützen’, per carità, necessario per fare l’appello, venni inviato a Wiener Neustadt. Wiener Neustadt era un’officina, era del Reichswerke, apparteneva a uno delle fabbriche di Goebbels, dove – questo ovviamente l’ho saputo dopo – doveva avere delle commesse proprio per costruire V1, V2, e razzi del genere, e poi invece erano state date delle commesse per costruire dei vagoncini porta-carbone, dei tender per le ferrovie, e, almeno la linea dove mi misero a lavorare, dei battelli fluviali a fondo piatto, dei pontoni con motore interamente metallici. Fui messo a chiodare le lamiere che congiungevano il fasciame.

D: Scusa Marcello, queste fabbriche qui dov’erano allestite? All’aperto?

R: Questa era una fabbrica vera e propria, un capannone lunghissimo, sull’ordine dei 200 metri, che era stato bombardato. Il tetto praticamente non esisteva, o meglio, era rimasto riparato su nella parte dove c’erano le macchine utensili. Lì dove veniva fatto l’assemblaggio di questi barconi, di questi pontoni, il tetto praticamente non esisteva, quindi era come lavorare all’aperto, almeno per la pioggia. Per il vento invece avevano un certo riparo, insomma.

D: Siete stati in molti che da Mauthausen siete stati mandati in questo sottocampo?

R: No, non eravamo molti, anzi eravamo abbastanza pochi. Wiener Neustadt… Io ho avuto la fortuna, diciamo, di capitare in due sottocampi, prima Wiener Neustadt, poi Hinterbrühl, due sottocampi abbastanza piccoli, di centinaia di persone, non di migliaia di persone, perché appunto il sottocampo di Ebensee era più, ad esempio, era più popoloso rispetto a Mauthausen stesso. Io invece ho avuto la fortuna di capitare in due campi, non attrezzati, con tanto di camera a gas, forno crematorio ecc., ma proprio dei campi, ora si direbbe in senso eufemistico ‘a dimensione d’uomo’, insomma.

Infatti, nel lavorare, siccome si scaldavano alla forgia dei chiodi, questi chiodi che andavano ribattuti a caldo, uno di questi chiodi mi si infilò nello zoccolo bruciandomi ben bene il piede. Dopo qualche peripezia, quando cioè il piede mi andava in cancrena – bello gonfio, verde, giallo, di tutti i colori, gonfio come un pallone – allora mi ricoverarono in infermeria. E questo perché lì c’era appunto un’infermeria per i casi traumatici più che per le malattie. È stata forse una delle cause della mia sopravvivenza. Perché non solo ho avuto una prova di solidarietà non indifferente, perché l’infermeria era gestita, cioè, comandata, sempre parlando di prigionieri, da un certo Otto, austriaco, meccanico dentista, che curava i denti un po’ anche lì ai soldati delle SS, ai kapò, eccetera eccetera, quindi aveva una certa, non dico autonomia ma insomma… Poi c’erano i due medici francesi, uno di Cherbourg, l’altro delle Antille, e l’infermiere russo. Insomma, com’è come non è, sono riuscito a tenermi per due mesi e passa lì in infermeria, con questo piede che veniva curato con delle spennellature di permanganato e rifasciato con la carta igienica, perché queste erano le uniche cure appunto disponibili. Poi appunto Jack che era il medico Cherbourg, riuscì, non so come, a trovare di quelle matite emostatiche a base di nitrato d’argento, e me la passava su questa bruciatura che era di discrete dimensioni, e me la passava per cercare di farmela cicatrizzare, e ci riuscì poi piano piano a riformarsi una pellicina leggera leggera. Però appunto due mesi stare a riposo, mangiare le stesse cose che mangiavano quelli che lavoravano dodici ore – perché il turno era di dodici ore – al caldo, se non altro al coperto, con una coperta propria, in un letto proprio: insomma è stata per me proprio toccare il cielo con un dito, una manna. E per di più, come dicevo, questi francesi facevano di tutto per rendermi la vita più semplice possibile, rischiando loro di proprio, perché un controllo delle SS, un prigioniero che stava lì due mesi diventava una bocca inutile: se fosse stato probabilmente in un campo più attrezzato sarei stato inviato sicuramente alla selezione. Invece riuscirono a tenermi lì, e poi purtroppo dovettero risbattermi fuori, di domenica, si dice “c’hai un giorno di più”, insomma furono proprio dei fratelli. Io in compenso imparai – siccome c’era un professore della Sorbona lì in infermeria, anche lui ricoverato – imparai a parlare il francese correttamente e correntemente, tanto che spesso venivano a guardarmi il triangolo, perché mi prendevano per francese insomma. Riuscivo a pensare in francese, a quell’epoca ovviamente. Tra parentesi dico, questo tizio, questo francese, questo professore, era arrivato da Parigi in centoventi per vagone, vagoni scoperti, nudi, nudi come vermi, in pieno inverno, e quindi ne erano sopravvissuti pochissimi a questo viaggio, e lui era uno di questi.

Comunque, dicevo, ritornato a lavorare, quando ci fu – io non ero sicuramente uno dei più brillanti chiodatori della storia di Wiener Neustadt perché il martello non lo potevo maneggiare, perché stava fermo il martello e vibravo io, insomma, non avevo sicuramente ‘le phisique du rôle’ per fare il ribattitore, allora – ci fu appunto uno spostamento di prigionieri al campo di Hinterbrühl e fui trasferito là. E passai dalle navi agli aerei. Il trasferimento fu abbastanza, più che pericoloso, pauroso, perché ci caricarono a mezzanotte, dopo aver lavorato tutto il giorno, essere rimasti nell’Appelplatz tutta la notte fino a mezzanotte, sotto la tormenta, senza mangiare assolutamente, neanche la zuppa serale, poi caricati in un camion sulla matrice, sul rimorchio, c’erano un gruppo di soldati con tanto di mitragliatrice puntata contro. Anche lì si pensava: ora si arriva da qualche parte, ci fanno scendere. E invece verso le 4 di mattina si vide le luci di un altro lager che era quello di, allora Mödling, poi diventato Hinterbrühl.

D: Scusa Marcello, ma sei stato selezionato tu per andare in quest’altro sottocampo?

R: Io ho sentito chiamare “sechs­und­siebzig­tausend ­vier­hundert­dreißig”,”jawoll”, sono andato lì, mi hanno detto “mettiti da una parte.” Questo succedeva all’appello delle sei, succedeva all’appello delle sei e fino a mezzanotte siamo rimasti lì sotto la tormenta, che nevicava quanto voleva, lì sull’attenti, immobili, e poi caricati sul camion. Che sia stato richiesto… beh, la mia manodopera non era qualificata. Anche lì c’era stato un altro colpo di fortuna, o di qualcuno magari che mi teneva una mano sulla testa, perché in questo trasporto da Mauthausen a Wiener Neustadt erano stati presi tutti i tecnici, ingegneri, meccanici, un mio amico era meccanico dentista, poi lo misero davanti ad un tornio e gli dissero “lavora qui”, dice “ma io veramente…”, “Sei meccanico quindi devi lavorare.” Io ero l’unico studente, infatti ero l’ultimo, proprio l’ultimo della fila, l’ultimo. Vedevo appunto che chiamavano tutti e a me non mi chiamavano, comunque…

D: Quando è avvenuto questo secondo trasferimento? Te lo ricordi più o meno?

R: Sì, è avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 dicembre del ‘44. Questo me lo ricordo benissimo. Arrivammo poi lì all’altro campo di Hinterbrühl, e solita fortuna, senza aver riposato né il giorno prima né la notte, solo quell’oretta dall’arrivo, ci fecero stare poi tutto il santo giorno in piedi dentro la baracca, per fortuna dentro la baracca, e poi la sera fui mandato a lavorare giù nella galleria. Quindi, stanchi morti. Ah, prima ci fecero fare una mezz’oretta di ginnastica, cioè saltare tutto il circolo dell’Appelplatz come ranocchi, così, per darci un po’ di benvenuto, insomma.

D: In queste gallerie qui cosa realizzavate voi, qual era la produzione?

R: La produzione era, i primi… uno dei primi aerei a reazione dell’Heinkel. Ora non ricordo il numero con precisione, il numero, la sigla dell’aereo, comunque era della fabbrica Heinkel. Veniva prodotta tutta la fusoliera, l’assemblaggio, stampaggio e assemblaggio della fusoliera in duro alluminio, tutto l’equipaggiamento elettrico: cioè l’aereo usciva fuori completo, ad eccezione delle ali, del motore e dei piani di coda. C’erano solo dei simulacri in una parte larga della galleria dove venivano provate l’assemblaggio di queste parti, anche perché c’era un cunicolo molto stretto per l’uscita degli aerei, per cui passava a malapena già solo la carlinga. Però la carlinga usciva completa, anche di armamento, c’erano montate due mitragliere da 20.

D: E il campo era distante molto dall’ingresso di queste gallerie?

R: No, assolutamente, c’era solo da attraversare la strada. Il cancello era prospiciente, si può vedere ancora, appunto, quando vado su, basta vedere il cancello che è di fronte al pozzo; c’è ancora il pozzo, ora è chiuso sopra – tra parentesi è in un giardino privato – si vede la copertura del pozzo e di fronte c’è un cancello. Ora è un cancello di ferro, eccetera eccetera, di una villetta, perché tutto il terreno lì del campo è diventato terreno edificabile. E quindi il campo era un po’ a forma di ‘U’, era rivolto, era su verso la collina, e si usciva dal cancello, inquadrati, contati, numerati, eccetera eccetera, si traversava la strada e poi scendevamo giù dal pozzo, in una scaletta, poco più che una scala a pioli. Bisognava scendere giù di corsa e salire di corsa perché eravamo gentilmente, tra virgolette, accompagnati da colpi di bastone, del tubo di gomma, di scudisci, e quello che c’era da alcuni kapò che si disponevano lungo questa scala e menavano, quindi per attutire il colpo bisognava correre il più possibile. E poi c’era da fare il turno, il cambio di turno, perché lì il lavoro era una settimana di giorno e una settimana di notte, sei la mattina alle sei della sera, dalle sei della sera alle sei della mattina successiva. Anche lì, solito colpo di fortuna, dopo un breve periodo all’aggiustaggio – poi, siccome avevo dei reumatismi tali che non potevo muovermi, io limavo i pezzi tenendo la lima ferma e muovendomi sulle gambe, perché le spalle non le potevo muovere – mi misero invece a lavorare all’impianto elettrico, cioè a montare l’impianto elettrico dell’aereo. C’era una specie di simulacro, bisognava preparare prima tutti i vari… condensatori, non so che cosa, tutti i comandi elettrici, poi assemblarli tutti insieme, e questi pezzi venivano man mano provati [ad] ogni passaggio, insomma. Questo lavoro durò fino… Ah, parentesi, il piede, questo piede bruciato, ricominciò a darmi noia, infatti mi si era formato un flemmone, cioè una raccolta di pus sotto questo leggero tessuto cicatriziale. E quindi dovettero riaprirmelo in infermeria: non avendo né bisturi né niente, con mezza forbice un buco da una parte, un buco dall’altra, infilata la forbice sotto e poi trac, han tirato su. Anche lì erano medici francesi, però fui meno fortunato, lì me la cavai con soli quindici giorni, quindici o sedici giorni. Ricordo che ci passai il compleanno, ecco, il mio compleanno lì dentro. Succedeva nel febbraio, o giù di lì.

Questo lavoro andò avanti fino al primo d’aprile del ’45, quindi ero uscito dall’infermeria poche settimane prima. Il primo d’aprile ci inquadrarono, ci dettero – mi ricordo – una pagnotta a testa. Ci dissero di prendere una coperta, e partenza per ritornare a Mauthausen a piedi, tirando anche una grossa diligenza, altri carretti. La diligenza a cui erano state messe tre lunghe funi, con cinquanta prigionieri per ogni fune, questa diligenza [era] carica di masserizie e di tutta roba della SS, dei kapò. Eravamo scortati di qua e di là da soldati e kapò, che erano stati rivestiti in divisa e armati, e avevano la voglia di adoperare quei fucili. Proprio si vedevano, avevano tanta voglia, e purtroppo li hanno adoperati. Quindi si cominciò a zoccolare per le strade, tutte strade secondarie, salire, scendere, perché le strade principali erano ingolfate dal traffico militare. E infatti le prime notti – chiamiamole notti di riposo – si dormiva in un primo campo, il primo campo aperto che trovavano appena imbruniva, venivano messi i camion a ferro di cavallo con i fari accesi e motori accesi in maniera da illuminare questo prato, ci si buttava lì in mezzo al fango perché piovve per tutta la settimana. Abbiamo dormito solo una volta al coperto, in una casa, non lo so che cosa… in costruzione, poi il resto ho sempre dormito in mezzo ai campi. La mattina, appena faceva un po’ di luce, di nuovo alzarsi, mettersi in fila, l’appello. La sera anche c’era l’appello, prima di potersi buttar giù in mezzo a quest’erba bagnata. E la mattina di nuovo l’appello, la conta – per carità, sempre file tirate come spaghi, perfettamente sincrono il movimento del ‘mützen ab’, sennò appunto… – e poi rincolonnati si partiva. Chi barcollava o chi cadeva veniva giustiziato immediatamente. Io ho vari ricordi di questa marcia, tra cui quello di un russo che s’era appoggiato a me e a un altro e gli hanno sparato nella nuca a una distanza di un venti centimetri dalla mia testa. Insomma, non fa tanto piacere vedere fracassare… comunque. Quello [che] fu più caratteristico, purtroppo, fu il fatto che una mattina – era la quarta o quinta mattina, salvo il vero – l’appello si prolungava: ci avevano contato e ricontato una decina di volte, l’appello seguitava, seguitavamo cioè a rimaner lì. L’appello non terminava. Il gruppo di ufficiali delle SS che era lì si misero a discutere fra di loro, poi finalmente hanno preso la decisione, passò davanti a noi, indicando “te, te, te, te”, ne tirò fuori cinque, li fece mettere a sedere, bontà sua, tirò fuori la pistola, cinque revolverate. Perché sì, praticamente non tornava il conto – s’è saputo dopo – tra quelli uccisi il giorno prima e i presenti, figuravano cinque persone in più. Allora, per semplificare i conti, perché i conti dovevano tornare alla perfezione, furono fucilate, cioè, fucilate… uccise, queste cinque persone.

L’ultima notte poi che fu quella più vicina alla bolgia infernale dantesca, fu quando arrivammo… Appunto, io solite fortune sfacciate che ho avuto. Facevo parte proprio dell’ultima parte della colonna, era già buio quasi. Arrivammo lì, ci dividevano in gruppetti da una decina di persone, poi c’era un ufficialetto della SS, con due bellissimi cani, ai quali allungava il guinzaglio, e nonostante i 50 chilometri o giù di lì fatti, bisognava mettersi a correre. Si vedeva tutti, secondo il solito, tutti i camion a ferro di cavallo, a cerchio, con i fari abbaglianti, quindi uno [rimaneva] abbagliato. Correre, poi ad un certo punto mancava il terreno sotto i piedi, e uno rovinava giù nel buio senza capire più nulla – che fra i rumori del camion, eccetera eccetera, uno non sentiva niente – fino a che rotolando sentiva urlare lamenti, e così via. Comunque, la mattina dopo si scoprì appunto quel che era successo, quello cioè che ci avevano fatto fare: praticamente si trattava di un… in questo campo, in questo prato, c’era un enorme buco, tipo tronco di cono rovesciato, il diametro superiore sarà stato un centinaio di metri, quello inferiore forse 50 o giù di lì; quindi c’era questa ripa scoscesa, e noi senza vedere assolutamente niente, perché fra il buio e essere accecati dai fari, precipitavamo lungo questa… uccidendo praticamente i nostri compagni che erano arrivati prima di noi. Infatti, la mattina dopo quando si ripartì, quelli che erano tutti intorno a questa voragine – a dormire erano arrivati prima, si erano messi giù a dormire – erano quasi tutti morti, o quelli che non erano morti poi si sentì dei colpi di pistola, di arma fuoco, furono fatti fuori. Morale, di quel viaggio lì c’è proprio lì a Mauthausen, al museo, c’è un cartellone “sono morti più di duecento per la strada.”

Mi ero dimenticato di dire una cosa, che prima di partire c’erano in infermeria cinquanta prigionieri che non potevano camminare: questi furono uccisi con una puntura di benzina nel cuore, e lasciati lì. Poi furono sepolti non so dove. Il fatto era che io ero uscito poche settimane prima dall’infermeria, e con un piede appunto malridotto come avevo, se i tempi non coincidevano bene ero il cinquantunesimo. Oggi come oggi, lì dove c’era l’infermeria, è stato costruito… nel prato è stata messa una lapide, comperato questo pezzo di terreno, e realizzato una specie di serraglio di memoria, lì all’aperto. Questo terreno è stato comperato proprio dai cittadini di Hinterbrühl, e ora lì c’è tutti gli anni appunto, quando si va si porta una corona a questa specie di memoria.

D: Questa marcia della morte, Marcello, questa marcia di trasferimento fu una marcia della morte in realtà. Quanto è durata?

R: Sette giorni. Sette giorni per un totale di circa 220, 230 chilometri. Particolare pietoso: nulla da mangiare eh! Niente, assolutamente niente da mangiare, salvo qualche manciata di erba strappata lì dai cigli della strada. Arrivati poi a Mauthausen ci fu lo stesso trattamento di ricevimento, solita doccia e l’internamento nella baracca, mi sembra baracca 24. Ma mentre la prima volta ci hanno dato all’uscita delle docce una camicia e un paio di mutande, la seconda volta non ci dettero niente, assolutamente niente. Quindi rimanemmo per diversi giorni nudi come vermi. Però poi ci dettero qualcosa con cui coprirci, non mi ricordo cosa. Anzi, il problema fu quello di procurarsi la gamella, o qualcosa in cui mangiare.

D: Scusa Marcello, quando tu parlavi durante la marcia della morte di questa buca che siete rotolati giù, ti ricordi più o meno in che zona era?

R: No, sinceramente non… Se la vedessi la riconoscerei ovviamente. Non eravamo tanto lontani da Mauthausen, perché appunto arrivammo o il giorno dopo o due giorni dopo, quindi deve essere nel raggio di massimo di una ottantina di chilometri, o giù di lì, da Mauthausen. Però sinceramente ero troppo impegnato a mettere un piede davanti all’altro più che guardare il panorama. Ricordo, così, dei nomi, di ‘San Georgen’, di ‘Polten’, ma proprio son quei ricordi che non potrei identificare o dire in tribunale, insomma.

D: Arrivato lì a Mauthausen, nel blocco, nella baracca, vi hanno sempre tenuto in baracca poi?

R: Sì, io sono sempre stato nelle baracche di quarantena. Sapete che i campi di quarantena erano un sistema completamente diverso dal cosiddetto campo libero. Lì nelle baracche di quarantena si dormiva in terra, su pagliericci messi appositamente in terra, ci si buttava giù come le sardine, testa e piedi testa e piedi. In una notte su quattro pagliericci dormimmo in ventidue, non c’era la pancia come ora a creare tanto ingombro, ma insomma, in ventidue su quattro pagliericci larghi 70 centimetri, uno può capire quanto fosse gradevole il riposo.

D: Quando siete arrivati lì a Mauthausen, poi vi hanno messo, vi hanno impiegato in altri lavori oppure no?

R: No. Praticamente sia nel primo periodo di Mauthausen sia nel secondo, dalle baracche di quarantena ogni tanto venivano a prendere delle persone. So che alcuni venivano fatti lavorare anche alla cava, però chi era in quarantena normalmente non lavorava, normalmente, perché poi tanto lo facevano lavorare dopo. Lì tutti i blocchi di quarantena erano praticamente il magazzino umano da cui venivano prelevati man mano che c’era bisogno per essere mandati da altra parte, però lì a Mauthausen il personale che lavorava al campo, o nelle officine, o alla cava, o per la manutenzione del campo, erano tutti nel campo libero, sempre definizione eufemistica anche questa.

D: Ecco e lì sei rimasto fino a quando?

R: Sono rimasto fino alla liberazione, fino al 5 maggio. Il cibo era diventato scarsissimo, anzi il pane… Mi ricordo appunto la liberazione, fu il 5 maggio, quindi sarà stato forse il 30 di aprile, o giù di lì, che praticamente non si vide più pane. Tra parentesi, le ultime tre pagnotte erano state divise le ultime due in sedici persone, l’ultima in ventiquattro. Dopodiché sparì, ci davano anche la sera una mezza mestolata di zuppa di rape, quindi nutrientissima. Io ho il ricordo appunto… Siccome mi avevano chiamato per fare lo Stubendienst – cioè rimettere a posto i pagliericci, pulire in terra, grattare tutto il pavimento, grattare con dei pezzi di vetro tutto il pavimento per poi ridargli la cera ex novo, quindi la macchina dell’universo concentrazionario ha funzionato regolarmente fino all’ultimo minuto, praticamente – e quindi ogni tanto riuscivo ad avere qualche stecca, qualche mestolata in più di brodaglia, così era l’unica cosa favorevole.

Poi il 5 di maggio, come ripeto, cioè prima si vide sparire dalle garitte le SS, però per me – ero già in uno stato semi confusionale, o giù di lì – che fossero vigili del fuoco, fossero polizia urbana o che, per me era gente in divisa armata che stava nella garitta, non me ne fregava nulla di sapere che cosa fossero. E poi finalmente si vide venire quelli del gruppo internazionale, e arrivare, questo lo ricordo perfettamente, l’arrivo degli americani su una jeep, un’autoblinda, un qualche cosa del genere, si vede scendere – ero sul tetto della baracca – questi due esseri vestiti di quel giallo, o giù di lì, quel verdolino, che per me potevano essere benissimo marziani perché chi aveva mai visto un americano in vita mia.  Poi ho un periodo invece di totale azzeramento, cioè non ricordo assolutamente più niente per un certo numero di giorni. So solo che ero nella baracca 24. Quando uscii dal campo di quarantena per vedere l’arrivo degli americani, sentii tutto questo clamore e allora andai anch’io a vedere. E poi mi ritrovai, da quando ho il ricordo cosciente, mi ritrovai invece in una baracca insieme a tutti gli italiani. Quindi in quel periodo, in quei giorni – io non posso dire se sono stati tre, quattro, dieci, non lo so – quei giorni per me è un buco nero nella memoria. Ho solo dei flash. Ricordo di uno spagnolo che sgozzò uno dei kapò, di quelli che avevano accompagnato queste marce della morte appunto, e… aspettava dietro un angolo, questo era inseguito da un’orda di gente: no no, questo qui era tranquillo, lì appoggiato dietro l’angolo di una baracca; correva, girò l’angolo e si ritrovò una seconda bocca da orecchio a orecchio, con un gesto talmente veloce, talmente rapido, che quasi quasi uno, se non fosse stato per il sangue, non se ne sarebbe accorto insomma. Ho questo ricordo, e altri così. Ma il ricordo più gradito fu quando ripresi coscienza, e vedere gli amici, appunto, i compagni miei. Erano usciti, avevano rubato un grosso papero, e quindi ci mettemmo a cucinare questo papero con due latte di pomodoro da bere – quelle le avevo rubate io. E questo è stato il primo ricordo cosciente dopo la liberazione.

D: Marcello, il rientro in Italia.

R: Beh, il rientro, è stato un po’ particolare il mio, perché… Dunque, io non sapevo nulla dei miei naturalmente, e neanche i miei amici toscani che erano con me avevano saputo più niente dei loro. Quindi, al rientro a Bolzano, ci dissero che fino a Bologna c’era la possibilità di essere portati a Bologna. Da Bologna in poi non c’erano più comunicazioni sicure. Allora decidemmo di andare a Milano dove c’erano dei parenti di Focacce, di questo mio amico, “se sono ancora vivi si sa qualcosa, se non ci sono più neanche loro tante vale da Milano o da Bolzano la cosa è la stessa.” Invece avemmo notizie, sia i miei sia i parenti dei miei amici avevano superato il passaggio della guerra bene. Insomma erano tutti vivi, tutto a posto. Io avevo lasciato babbo, non sapevo dove, avevano detto che l’avevano ferito. Mio fratello non sapevo assolutamente dove, mamma e sorella in galera. E di me ovviamente non avevano nessuna notizia.

È stato più triste casomai, in un certo senso, il ritorno a scuola. Perché io sono rientrato il primo di luglio e poi, come se nulla fosse, mi sono presentato in ottobre a declinare ‘Rosa, Rosae’, lì al liceo scientifico di Prato, con una grossa incomprensione assoluta proprio sia degli insegnanti, ma anche della popolazione stessa che non si poteva assolutamente render conto del passaggio di quello che era un campo di concentramento. Ricordo appunto, l’ho raccontato tante volte, che il direttore lì del liceo scientifico, dopo aver sentito un po’ da mia mamma, insegnante anche lei, che avevo avuto queste peripezie, per un paio d’anni quindi non avevo frequentato non solo la scuola, ma non sapevo quasi neanche più scrivere. Stette a sentire molto interessato e poi alla fine concluse dicendo “sì, ma se non avrà seguito un corso regolare di studi, qualcosa avrà sicuramente letto nella biblioteca del carcere!” Questo tanto per far capire qual era il livello di conoscenza da parte dell’intelligenza di questa persona, su cui poi avevo dei dubbi già all’inizio, ma furono confermati ‘sti dubbi. Comunque, era una cosa abbastanza comune: cioè nessuno sapeva niente dei lager, quello che era successo, quello che era accaduto. In classe poi mi ritrovai un professore giovane, che aveva insegnato Mistica fascista fino a poco tempo prima, quindi fu una cosa molto… Io posso dire che tutti i miei studi, la mia avventura non mi ha fatto fare un passo avanti, diciamo, assolutamente. È stato solo quando, recuperando un anno, il commissario – che non mi conosceva per niente, però seppe un po’ della mia storia – cercò di aiutarmi perché io mi ero rifiutato… cioè, rifiutato… non avevo preparato due materie del terzo liceo scientifico: feci il salto in quinta, e lui venne lì a insistere perché dessi anche Storia e Scienze, che non avevo preparato. Questo è stato l’unico aiuto, se così si può dire, che ho avuto durante il mio corso di studi insomma.

D: Marcello, tu complessivamente quanti mesi hai fatto nei lager?

R: Dunque, io sono stato arrestato – si fa subito i conti – il 9 giugno del ‘44. Sono arrivato a Mauthausen il 24 giugno, sono stato liberato il 5 di maggio e sono rientrato il primo di luglio. Totale sono tredici mesi, di cui nove tutto di lager.

Zaccherini Vittoriano

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Zaccherini Vittoriano. Sono nato a Dozza, il 28.11.‘26. Son stato arrestato dalle brigate nere il 20 novembre 1944. Arrestato e portato nelle carceri di Imola, che sono dislocate nella Rocca.

D: Ecco, scusa Vittoriano, ma perché tu sei stato arrestato?

R: Sono stato arrestato naturalmente per una spiata perché io era già da cinque mesi che ero su nei partigiani.

D: Dove?

R: Nei partigiani, ero su nel Sap montano, che era un distaccamento della 36ª Brigata Garibaldi che operava nelle colline toscano-romagnole.

D: E sei stato arrestato dove?

R: Sono stato arrestato a Imola. Dopo, naturalmente, essendo stato in brigata, la mia compagnia in un’azione di guerra fu tagliata fuori. Io fui mandato nella Bassa Romagna, dai gappisti. Il 20… il 19 novembre, il Comitato di Liberazione mi ordinò il ritorno a Imola, per potere formare il battaglione di città, cioè, tutti quei partigiani che erano stati in montagna venivano richiamati una parte di loro in città per formare il battaglione per occupare Imola.

Io arrivai a Imola con una staffetta partigiana, con una ragazza che portava, naturalmente le mie armi, in bicicletta. Arrivai a casa la mattina che erano le 6, 6 e mezzo; alle 8 dovevo rientrare a prendere le mie armi da questa ragazza che lavorava in centro a Imola, ma a una spiata le brigate nere sapevano già che io ero arrivato. Come traversavo la piazza mi vidi a 50 metri il gruppo delle brigate nere, che erano in cinque, che mi dissero l’alt, “abbiamo saputo che sei arrivato, ti venivamo a prendere”. La mia fortuna fu che non entrai prima dalla staffetta partigiana che aveva le mie armi, perché in questo caso venivo preso con le armi in mano, e lì c’era praticamente la fucilazione.

D: Con te sono stati arrestati degli altri?

R: Con me sono stati arrestati, non quella mattina ma i giorni susseguenti, altri sette ragazzi imolesi che han fatto il carcere con me a Imola, l’interrogatorio a Bologna e al comando delle SS, e il carcere a San Giovanni in Monte fino alla partenza per la Germania, per Bolzano.

D: A proposito di interrogatori, quando tu eri nelle carceri della Rocca a Imola, sei stato interrogato?

R: Io sono stato interrogato e malmenato parecchie volte, perché, naturalmente, sapevano che io ero nei partigiani; e un mese prima, il comandante delle brigate nere di Imola fu… i gappisti imolesi tentarono di ucciderlo, e lui credeva e pensava che io sapessi chi aveva sparato a lui.

D: Gli interrogatori, chi te li facevano?

R: Gli interrogatori in un primo momento furono fatti dalla brigata nera, che la sera del 28 novembre, il giorno che io compii gli anni, mi misero in una vasca – era un inverno freddissimo – in una vasca ghiacciata, nudo, e col calcio della rivoltella mi picchiavano in testa finché io dovevo stare immerso nell’acqua, che naturalmente non gliela facevo, e botte: fui malmenato parecchie volte in quelle condizioni lì.

D: Oltre le brigate nere ti ha interrogato anche…

R: Dopo mi hanno interrogato le SS. Naturalmente, dopo aver avuto gli interrogatori delle SS, dalle carceri di Imola ci mandarono tutti e otto, io e i miei sette compagni di prigionia, al comando delle SS qui a Bologna, ai Giardini Margherite [Giardini Margherita, ndr]. Di lì, furono anche lì tre o quattro giorni di interrogatori, siamo stati malmenati tutti anche lì e poi dopo portati a San Giovanni in Monte, nelle carceri.

D: Sempre di Bologna.

R: Sempre di Bologna, sì.

D: Vittoriano, il 22 e il 23 dicembre del ’44, cosa è successo a te?

R: La partenza… sì. Dunque, noi partimmo da Bologna in quelle giornate lì. Da Bologna fummo caricati in dei camion, fummo portati naturalmente a Bolzano. Prima della partenza una parte di noi furono chiamati fuori e furono fucilati. Quelli più compromessi, non so… C’erano dei gappisti chiamati Vento, Temporale, gente che erano conosciuti, di Bologna, furono fucilati, mentre noi, il gruppo dei – secondo loro – dei meno coinvolti, oppure anche i più giovani, fummo mandati naturalmente nel campo di smistamento di Bolzano.

D: Quanto sei rimasto a Bolzano?

R: A Bolzano siamo rimasti fino ai primi di gennaio, dove naturalmente partimmo nei carri bestiame per andare verso la Germania, che noi non sapevamo dove andavamo a finire.

D: A Bolzano sei stato immatricolato?

R: Siamo stati tutti immatricolati a Bolzano. Solo che io non mi ricordo il numero di Bolzano, purtroppo… ma non solo io eh, parecchi anche dei miei compagni, non ci siamo mai ricordati il numero di matricola che avevamo a Bolzano.

D: E il blocco te lo ricordi?

R: Nemmeno il blocco. Di Bolzano non ci ricordiamo niente.

D: Ecco, ma cosa facevate tutto il giorno nel campo di Bolzano?

R: Noi, a differenza da altri… perché noi eravamo considerati, naturalmente, non rastrellati. Noi eravamo dei prigionieri politici, noi non andavamo fuori a lavorare come parecchi facevano nel campo di Bolzano: noi eravamo destinati a partire in un tempo breve, per quello che per quei pochi di giorni, una decina di giorni che siamo stati a Bolzano, siamo stati sempre chiusi nelle nostre baracche, senza far niente.

D: Ti ricordi se a Bolzano hai visto anche delle donne deportate?

R: No, no, noi no, non le abbiamo viste.

D: E dei religiosi, te li ricordi?

R: Dei religiosi ce n’era uno nel blocco con noi, nella baracca con noi, che dopo poi venne in Germania, venne a Mauthausen nel nostro convoglio, ecco.

D: Ti ricordi il nome?

R: Era… è stato anche segretario della sezione di Roma… e non me lo ricordo. Non me lo ricordo il nome.

D: Don Gaggero forse?

R: Sì, sì. Don Gaggero. Don Gaggero, sì.

D: E dopo siete stati portati dove?

R: Noi, naturalmente, caricati nei carri bestiame a Bolzano, dopo cinque giorni di viaggio, con una scatoletta e un quarto di pane tedesco, siam partiti verso destinazione. Naturalmente non la sapevamo dove andavano a finire, ci siamo ritrovati dopo cinque giorni alla stazione ferroviaria di Mauthausen, ecco.

D: Dal campo di Bolzano al Transport, con cosa siete andati a Bolzano?

R: A Bolzano ci siamo andati in dei camion tedeschi, sì.

D: E vi hanno inserito nei vagoni dove? Cos’era, alla stazione?

R: Alla stazione di Bolzano, sì. Dal campo, naturalmente ci han mandati in stazione e ci hanno caricati, sempre scortati dalle SS, in questi carri bestiame che ci hanno trasportato verso Mauthausen, ecco.

D: L’arrivo a Mauthausen, come te lo ricordi?

R: L’arrivo a Mauthausen me lo ricordo, naturalmente… Siamo arrivati una mattina all’alba. Me lo ricordo che, come siamo scesi da questa tradotta, c’erano le SS coi cani, come hanno aperto questi vagoni, e ci hanno incolonnato in quattro a quattro, e loro dai fianchi, dai lati. Eravamo circa un settecento, il convoglio che da Bolzano è andato a Mauthausen. E pian piano ci siamo diretti verso la collina, naturalmente ignari di tutto quello che ci poteva aspettare, perché noi non sapevamo dove andavamo, noi pensavamo a un campo di lavoro, ecco. Invece naturalmente strada facendo, sempre con queste SS vicino e coi cani, che non potevamo… cercavamo sempre di stare verso il centro del gruppo perché altrimenti loro, in continuazione alle estremità, ci malmenavo sempre da tutti i lati.

D: E poi l’ingresso a Mauthausen.

R: E poi l’ingresso al campo di Mauthausen. Noi siamo entrati… La prima esperienza è stata positiva, quella di Mauthausen per noi, perché pensate che noi avevamo 17, 18 anni, il più anziano di noi aveva 23 anni. Noi siamo arrivati a Mauthausen non dalla parte… dall’entrata del campo principale, siamo arrivati dal campo dove c’erano i servizi, e lì all’entrata c’era – c’era, che c’è ancora – una piscina che allora era… la usavano. Allora io mi ricordo con i miei compagni, naturalmente alla nostra età particolare, che ci siamo detti “ma guarda in che bel posto veniamo a finire, qui c’è piscina, c’è tutto”. Naturalmente l’esperienza è stata ben diversa, perché come noi siamo entrati dalla parte principale, che ci han messi tutti in fila davanti per andare giù verso le docce, ci siam resi conto tutta questa gente zebrata con i vestiti a righe, del posto che era, naturalmente.

D: Poi la spoliazione.

R: Poi la solita spoliazione. Naturalmente la spoliazione, nudi completamente, tagliati, rasati, dove c’erano peli li levavano da tutte le parti, e in mezzo alla testa ci han fatto una riga larga due dita col rasoio, perché dicevano che in caso di fuga noi ci riconoscevano, naturalmente, che era poi impossibile poter fuggire da quel campo lì. E poi dopo ci han mandato, nudi, con una temperatura – perché pensate che noi siamo arrivati a Mauthausen che erano il 6 o il 7 di gennaio, la temperatura che c’era, dai 10 ai 12 gradi sottozero, nudi completamente – ci hanno mandato nel campo di quarantena, che è il campo là in fondo, in fondo all’Appelplatz insomma. E di lì ci siamo stati una decina di giorni, e poi ci han mandato nelle baracche, una parte di noi. Io ero alla diciottesima baracca. Di lì ci siamo stati una decina di giorni e quasi tutto il nostro convoglio è stato trasferito a Gusen, Gusen I e Gusen II.

D: L’immatricolazione, quando l’hanno fatta?

R: L’immatricolazione l’han fatta su a Mauthausen. Ed io, la prima esperienza che io ho avuto in quei giorni lì a Mauthausen che ero, è stata il mio numero di matricola. Pensate che io avevo il 115.778. È il primo appello che ho avuto, era un russo che faceva l’appello, e naturalmente io non sapevo niente, e non rispondo all’appello, nessuno mi dice niente. La sera, al rientro in blocco, mettono tutto – prima della zuppa, prima della cena – mettono tutto il blocco in fila e mi chiamano, mi chiamano fuori, mi vengono ordinate venti gommate, col Gum[mi]. Ogni baracca lì nel campo, sia a Mauthausen che giù a Gusen, le baracche avevano uno sgabello, lo sgabello delle punizioni, che ti mettevi così a boccone, e c’era uno addetto che ti menava. Naturalmente, dopo tre o quattro uno perdeva i sensi, sveniva, ma però la punizione era di venti, e dovevano continuare a darti le venti, e poi dopo ti buttavano nella tua parte di pagliericcio dove dormivi. Allora, a Mauthausen non c’erano più i castelletti: noi dormivamo in terra, dormivamo in terra in quattro ogni pagliericcio, cioè una metà sull’altro, due di testa e due di piedi. Io dormivo con due slavi e un francese. Naturalmente, quando la mattina di nuovo c’era alle 6 l’appello nell’Appelplatz, chiedo al francese. Perché poi la sera prima mi han spiegato la ragione perché m’han menato: perché non avevo risposto all’appello. E disse: “Sappi che l’appello lo fa un russo, te hai il 115.778, è [numero in lingua russa, ndr]”. Ecco, quella lì è stata la mia prima esperienza avuta nel campo di Mauthausen.

D: Poi ti hanno vestito?

R: Sì. Poi dopo, naturalmente, ci hanno vestito. E poi, dopo una decina di giorni, ci hanno mandato giù a Gusen, a Gusen I. Io lavoravo alla Steyr, che era una fabbrica particolare di mitragliatrici. Io lavoravo in due frese, praticamente si lavorava al coperto, si stava relativamente abbastanza bene. Il problema era che andando al lavoro, anche lì, di qua e di là c’erano le SS coi cani che chi era sempre agli estremi, alla fine, veniva menato in continuazione. C’era sempre quella preoccupazione lì, perché se cadevi in terra naturalmente potevi essere finito con un colpo alla nuca, oppure a menarti finché non gliela facevi più a venire su, ecco.

D: Vittoriano, le officine dove tu lavoravi a Gusen I, erano all’interno o all’esterno?

R: Erano all’interno

D: All’interno del campo?

R: Sì.

D: Quindi tu non uscivi dal campo?

R: No no no, io non uscivo dal campo. Non erano come quelli che erano a Gusen II, che andavano…

[INTERRUZIONE]

D: Le officine erano all’interno o all’esterno?

R: Erano all’interno del campo.

D: Dicevi, non era come a Gusen II…

R: Non era come alla Messerschmitt, che dovevano fare un tragitto per andare sotto le gallerie che avevano scavato, sì.

D: Quante ore lavoravi tu?

R: Dodici ore, dalle 6 alle 6.

D: Giorno e notte?

R: No, io ho sempre fatto la mattina, cioè l’orario continuato dalle 6 alle 6.

D: Il tuo lavoro in cosa consisteva?

R: Consisteva… Io lavoravo lì… Non era un lavoro pesante, lavoravo in due macchine utensili, cioè due frese che facevano i grilletti per le mitragliatrici per le Steyr. La mitragliatrice che era chiamata Steyr, sì.

D: Tu non hai mai avuto contatti con loro, con i civili?

R: No, no. Noi andavamo lì scortati dalle SS. Come entravamo in officina eravamo gestiti da queste persone civili, però noi non avevamo contatti con loro, ecco.

D: Ti ricordi se lì a Gusen I hai visto per caso dei treni?

R: No.

D: Neanche dei Decauville?

R: Io no. Io non è che a Gusen ci sia stato molto eh, ci sono stato poco più di un mese a Gusen io. Poi dopo, non so per quale ragione, io fui rimandato su a Mauthausen, che dopo poi, per mia disgrazia, fui destinato alla cava.

D: E a Mauthausen in che blocco ti hanno messo quando sei ritornato su?

R: Il blocco… io ero al sedicesimo, sì.

D: C’erano altri italiani con te?

R: Con me… Fu una disgrazia anche quella, perché io praticamente mi ritrovai con pochissimi italiani nella mia baracca. Io ero con due torinesi, che morirono quasi subito, poi c’era un genovese e uno giù di Salerno, che anche quelli… Io fui liberato che rimasi con un italiano nella mia baracca, con un genovese.

D: Ma in baracca in quanti eravate più o meno?

R. In baracca… eravamo quasi settecento nella baracca. Perché ultimamente a Mauthausen erano già arrivati i sopravvissuti di Auschwitz, tutti campi già liberati che sono venuti da noi eh.

D: E lì a Mauthausen, lavoravi?

R: Io a Mauthausen ho lavorato quasi un mese giù in cava. E naturalmente lì è stata la mia… come debbo dire, la mia tragedia più grande perché… A parte che giovane com’ero non ero abituato a certi lavori, che io pian piano le forze mi mancavano, che… Per fortuna che io ho conosciuto… Lavoravamo in coppia in cava, io lavoravo con un russo, con un ucraino, un Ivan, che dopo è morto lì, che lui mi disse, come io arrivai giù in cava… Perché praticamente lui era uno che aveva 34 anni: per me era una persona anziana, uno di 17, 18 anni, allora. E mi prese a volermi bene, come debbo dire, cercare di insegnarmi il modo di poter sopravvivere in certi momenti. Mi ricordo che lui mi disse – lì in cava arrivava un convoglio naturalmente, e c’erano delle montagne di antracite, di carbone – e lui mi disse: “Te riesci…”. Mi insegnò che in dei pezzi di antracite c’erano dei pezzi più non lucidi, opachi, e disse: “Te riesci a mangiare tutti i giorni un pezzo di carbone, ti stagni, non ti viene la dissenteria”. Io ho avuto la fortuna… perché non solo io lo sapevo, lo sapevano anche gli altri, ma il 90% c’era il rigetto: quando mangiavi questo pezzo lo rimettevi perciò anche quel po’ che ti davano non riuscivi a tenerlo dentro ed era peggio. Io invece quel periodo, quel mese che ho fatto giù in cava, sono riuscito a sopravvivere mangiando questo pezzo di carbone. Quel po’ che mi davano di cibo io lo tenevo dentro in maniera che io non ho mai avuto dissenteria, non ho mai avuto niente. Perché la mortalità allora del campo, a parte le camere a gas, a parte le impiccagioni, la mortalità enorme era per la dissenteria, che te ne andavi… andavi in infermeria perché non gliela facevi più andando al lavoro. Andando in infermeria, un colpo alla nuca… ti ritrovavi già dalla parte dei forni crematori, già accatastato, ecco.

D: Giù in cava tu cosa facevi?

R: Io in cava aiutavo a caricare i carrelli per trasportarli giù, verso ai posti che dovevano essere caricati, ecco.

D: Ti ricordi come veniva estratta la pietra lì dalla cava?

R: Ma, lì venivano estratti in modo manuale, naturalmente, non… sì, con dei picconi, oppure c’erano degli… come si chiamano quelle… sì, però c’erano quelli addetti, quelli più… che riuscivano a farlo. Io non gliel’avrei fatta.

D: Lavoravate solo durante il giorno in cava?

R: Solo durante il giorno, quel po’ che ci sono stato io lì a Mauthausen.

D: Quindi c’era una squadra addetta all’estrazione dei pezzi.

R: Sì, e una squadra che li portava naturalmente verso i vagoncini, con i carrelli che li portavi verso i vagoni, che venivano poi caricati per mandarli via dalla cava.

D: Cioè, dai Decauville venivano portati su vagoni più grandi?

R: Su vagoni… noi… Lì, naturalmente, i vagoni non entravano lì, nella cava. Noi avevamo quei carrelli che venivano portati ad un certo punto, poi lì venivano caricati per essere portati… Ma noi al di fuori della cava, lì, non andavamo mai, ecco.

D: Dal campo di Mauthausen, per scendere alla cava…

R: Facevi la scala. La famosa scala della morte. Noi la facevamo andando al lavoro, per fortuna. Non la facevamo come naturalmente facevano tanti nostri compagni, oppure principalmente gli ebrei, che gli facevano fare la scala con quel famoso sasso sui 50 chili finché non erano in grado di farla, che poi i primi in cima, quando cadevano, si rotolavano giù tutti gli altri. E le SS lì in cima si divertivano a tirare, a fare il tiro al piccione lo chiamavano.

D: Vittoriano, ti ricordi se giù in cava c’erano delle baracche, dei capannoni, delle officine?

R: C’erano delle baracche giù, ma noi non abbiamo visto cosa c’era dentro, naturalmente, perché noi come arrivavamo lì andavamo… ognuno di noi aveva il suo posto da andare al lavoro, perciò non…

D: Donne non ne hai mai viste tu lì?

R: In cava? No, no, non le abbiamo mai viste donne.

D: E a Mauthausen ne hai mai viste?

R: Io le donne a Mauthausen le ho viste il giorno dopo la liberazione. Nel campo di quarantena c’era una baracca di polacche che venivano… che noi siamo rimasti perché non lo sapevamo naturalmente, che siamo rimasti allibiti a vederle perché erano in condizioni disumane proprio anche loro. Tosate, come noi! Che venivano naturalmente usate, come nei bordelli delle SS. Erano solo in quelle condizioni lì.

D: Come te la ricordi tu la liberazione?

R: La liberazione, vedi, è stata una cosa indescrivibile per me, perché… Pensate che io il 6 maggio, quando gli americani mi svestirono completamente – perché io ero pieno di scabbia, ero nudo completamente – mi misero sulla bilancia: io ero 28 chili. Io a sentire dai medici avevo una settimana da vivere, perciò potete ben immaginare nelle condizioni che ero. Sebbene poi che è stata anche una tragedia, perché quando noi di questi otto amici siamo ritornati in quattro, e praticamente in tre perché uno non è più stato in grado… sì, vegeto, non è che vive, capito. E perciò per me la liberazione è stata realmente una liberazione, però mi è rimasto sempre quel senso di colpa che avevo verso questi miei compagni, capito… che ho lasciato nel campo.

D: Ma tu dov’eri il giorno della liberazione?

R: Io ero proprio lì, nell’Appellplatz di Mauthausen. Quando è arrivata la mattina, la domenica, questa pattuglia americana – che naturalmente poi sulle torrette c’erano ancora le SS, i militari eh – sono entrati, potete bene immaginarvi le condizioni che c’erano, i superstiti… specialmente gli spagnoli, che sono stati quelli poi che sono subito saliti nell’entrata a tirar giù l’aquila imperiale, lo stemma del nazismo. E io, per mia fortuna, non ero in condizioni di potere… Io mi attaccavo già, perché io ero quindici giorni che non andavo più in cava eh, che rimanevo ai servizi generali nel campo, perché in cava non gliel’avrei più fatta. E la mia fortuna è stata che in quel periodo lì, ultimamente le camere a gas e i forni crematori, sì, andavano, ma i morti del campo erano talmente tanti che non riuscivano più a smaltire i cadaveri che c’erano, perciò anche noi, che eravamo alla fine, siamo riusciti a sopravvivere; cosa che, fosse capito un mese, un mese e mezzo prima, saremmo stati eliminati, naturalmente, come tanti altri nostri compagni, ecco.

D: Vittoriano, e dopo la liberazione cosa è successo?

R: Io, come ho detto… siamo stati liberati il 5 maggio. Io ero nelle condizioni che ero, e sono rimasto nel campo fino alla fine di maggio perché non ero in condizioni di affrontare né il viaggio per venire, rientrare in Italia, e né il viaggio per andare in un altro posto. Gli americani mi hanno curato lì, naturalmente, come un neonato, non so… mi hanno riabituato a mangiare, cominciare con delle pappine, con del semolino, hai capito, in modo da poter riprendere la vita. Perché poi parecchi miei compagni son morti, dopo la liberazione del campo, per un errore degli americani che han lasciato andar fuori: hanno mangiato a crepapelle, sono crepati per il troppo mangiare. Se ne sono accorti tanti che dopo poi, nelle sentinelle, invece delle SS c’erano loro, e nessuno poteva uscire dal campo. Io sono stato fino fine maggio dentro il campo di Mauthausen, e poi dopo con un aereo m’han portato a Berlino. Io sono stato a Berlino altri quaranta giorni dopo, in un campo militare, in modo da mettermi nelle condizioni di affrontare il viaggio per il ritorno a casa, ecco.

D: Ma chi ti ha portato a Berlino, gli americani?

R: Gli americani, sì.

D: Solamente te come italiano?

R: No no no, un gruppo di altri deportati lì, di Mauthausen, cioè tutti quelli che non erano in condizioni di poter affrontare il viaggio per rientrare nelle sue patrie. Non so, con me c’erano polacchi, c’erano russi…

D: E a Berlino fino a quando sei rimasto?

R: A Berlino ho fatto tutto il mese di giugno. Tutto il mese di giugno a Berlino, perché io sono rientrato in Italia a luglio.

D: Ecco, il rientro, da Berlino come hai fatto a raggiungere…?

R: Da Berlino avevano fatto delle tradotte militari con delle scritte “i superstiti dei campi di sterminio”, cioè tutte le zone dove c’erano di queste persone venivano portate alle frontiere. Ed io sono… m’han portato a Bolzano, naturalmente. M’avevano vestito a Berlino, m’avevano dato una divisa tedesca coloniale, di quelle che i tedeschi usavano in Africa, color cachi, i calzoni lunghi alla zuava, un paio di scarpe che facevo fatica a tirarmele dietro. Da notare che io quando sono arrivato a casa ero 34 chili eh. Quando sono arrivato a Bolzano, naturalmente siamo scesi, ed ho trovato un parroco di Ravenna, che era alla frontiera per potere recuperare dei suoi parrocchiani, della gente della sua zona. Allora sapendo di Ravenna ho detto “lui passa da San Vitale, è a 15 chilometri da Imola…”, ho chiesto se mi caricava. Lui mi ha portato fino a Sestri Imolese, che è una frazione dell’Imolese. Di lì ho trovato uno con un biroccio che vendeva il carbone, in questo paese, e mi ha caricato che andava a Imola a vendere il carbone, mi ha caricato e mi ha portato a Imola. Come arrivo a Imola, ecco, è cominciata la mia tragedia, perché io… non so, finché ero nel campo, finché ero assieme agli altri non ero conscio delle mie condizioni, com’ero; è stato al ritorno a casa che io ho avuto uno shock, che è stata una tragedia. Pensate che io sono sceso alla periferia di Imola – Imola è una cittadina che ci conosciamo tutti praticamente, specialmente allora – scendo, vado con… Potete bene immaginare come ero ridotto: io non avevo più capelli, non avevo più niente, avevo solo degli occhi là, profondi, e nient’altro. Mi incammino verso il centro, incontro un’amica di mia sorella, una che era sempre in casa mia, Giovanna si chiamava – perché poveretta è morta – la chiamo, “Giovanna!” Lei mi viene [incontro], dice “ma chi sei?”, “sono Vittoriano” […] Si mette a piangere. Da notare che io non erano degli anni che ero via da casa, ero via da maggio, cioè praticamente fra i mesi da partigiano e i mesi della prigionia della Germania non era neanche un anno che ero via da casa. Dico, beh, Giovanna va verso casa mia, va a dire, non so, che hai sentito che ritorno, perché i miei naturalmente non sapevano niente. Non è che io come sono stato liberato potessi scrivere o dire che ero al mondo. Allora non si sapeva niente.

Arrivo in centro a Imola: quello lì forse è stato il momento più brutto della mia vita. Arrivo in centro a Imola: non so se ci siete mai stati, in centro c’è un porticato con un orologio, che è l’orologio del comune. E lì c’era un bar, lì fuori c’era mio padre. Mio padre non mi ha riconosciuto. Voi potete immaginare come sono rimasto io. E naturalmente ho continuato la strada, poi dopo ha detto “ma è Vittoriano”. Sono andato verso casa, nelle condizioni che ero. E come sono arrivato a casa – a parte che mi ci son voluti degli anni per poter rientrare in una certa normalità – è stata la tragedia con le famiglie dei miei compagni morti, quando venivano a casa mia e mi dicevano “Nino” – due ragazzi di 16 anni che erano con me – “Nino, Cleo, com’è che te se qui e loro no?” Che cosa gli potevo dire io, che erano stati gasati, che erano nei forni crematori. Perché poi allora, non è come adesso. Quando noi parlavamo – che io tentavo di parlare di queste cose, anche i miei familiari, i miei compagni – nessuno ti credeva. Ma mi guardavano con degli occhi come per dire “ma questo qui è pazzo”. È per quello che anche noi siamo stati degli anni… siamo stati fermi, siamo stati chiusi nel nostro conscio, perché è stato uno shock per noi anche il ritorno a casa e trovarci in quelle condizioni lì, capito? Di voler dire quello che è successo e nessuno ti credeva, e la gente ti guardava come che uno venisse da un altro pianeta. Non so, per me è stata… Mi ci sono voluti degli anni finché questi genitori sono riusciti a capire le ragioni e il perché io ero ritornato e i loro figli no.

D: Vittoriano, lavorare in cava, a Mauthausen, cosa voleva dire, cosa significava?

R: Voleva dire poter sopravvivere pochissimo. Perché io… è stato un complesso di fortune che io ho avuto, perché ci sono andato verso la fine, ci sono stato in cava solo quindici giorni, e gli altri quindici giorni li ho passati [che erano] gli ultimi, perché naturalmente eravamo già alla fine, che c’era già il sentore che la liberazione era vicina, ecco.

D: Cioè, in cava era un posto della morte…

R: In cava uno… non c’era la possibilità di poter sopravvivere, perché poi eravamo sorvegliati, perché poi, a differenza del campo, non so, di Gusen, che durante il lavoro c’erano dei civili, in cava c’era l’SS eh, che ti sorvegliava coi cani in continuazione. Non è che ti potessi abbandonare, capito… non c’era la possibilità, ecco.

D: Vittoriano, ti ricordi qualche nome di qualcuno che era con te nella deportazione?

R: Ma, io mi ricordo… praticamente io sono stato con dei polacchi, dei russi. Io la mia deportazione, purtroppo, come ho detto, è stata una tragedia perché anche come lingua non potevo… Non so, se ero in una baracca con degli italiani – nella baracca, perché non potevi andare in un’altra – se io sapevo che, non so, alla decima, all’undicesima [baracca] c’erano dei miei compagni, non potevo andare, avere un sollievo, avere qualche cosa, un discorso con loro. Io potevo solo parlare, oppure cercare di capire la sofferenza di un altro. Io avevo due polacchi che ero molto amico con loro, quei pochi momenti di libertà di riposo che avevamo li passavamo insieme. Cosa che non ho potuto dire per dei miei compagni slavi, per i due slavi che dormivano con me, perché quando… A me dispiace dire queste cose, perché io ne ho discusso anche in seno alle nostre associazioni, anche nelle nostre riunioni, quando sentivo parlare da compagni della deportazione della solidarietà fra noi… io non so… io non l’ho trovata. Eh, ma perché io sono arrivato verso la fine. Perché quando un uomo è una bestia, è una larva, fa fatica essere solidale verso un altro, perché è agli stremi della sua vita. Come fai a dare qualche cosa, oppure, fare qualche cosa per uno che non sei in grado di far niente neanche per te? Io mi ricordo – è una esperienza mia – il giorno del compleanno del Führer, che credo sia il 17 o il 18 aprile, verso il 20 aprile, 18… l’unico momento, come debbo dire, di umanità, che hanno avuto verso di noi i nostri aguzzini, c’han dato due sigarette a testa. Io sono uno che non ha mai fumato, però con due sigarette uno riusciva a recuperare da chi stava in cucina una patata o due, che voleva dire molto per noi una patata, con quello che mangiavamo. La sera – io v’ho detto prima che dormivo con due slavi e un francese – la sera, come andiamo nel nostro pagliericcio, ci svegliamo la mattina, questi due – che ci danno le sigarette – questi due slavi cominciano a picchiarmi “[espressione in lingua slava]”, mi dicono, “Tu italiano ci hai rubato la sigarette”. La cosa era ben diversa: loro lo facevano per portarmi via naturalmente le mie due sigarette, e per poter recuperare loro quelle due patate che potevo recuperare io, che per noi voleva dire una giornata stupenda, ecco. Tanto per dirvi…

Zappa Ugo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Ugo Zappa, nato a Milano il 12.5.’21.

Sono andato militare il 5 gennaio del ‘41 in Guardia frontiera, e m’hanno mandato a Vipiteno. Da Vipiteno ci hanno spostati a Malles. Lì hanno creato una compagnia di Arditi, dove io sono entrato come trombettiere, e ci hanno fatto fare diversi corsi: prima di addestramento alla guerriglia, poi il corso sciatori, poi una specie di corso rocciatori. Poi da lì ci han portati sullo Stelvio. Sullo Stelvio, si diceva, avremmo dovuto attaccare la Svizzera come compagnia di arditi, però ci hanno ripensato probabilmente, e allora ci hanno rimandati a Merano. Dopo qualche mese di Merano c’hanno mandati a Dobiaco. Da Dobiaco a Sestri Pusteria a fare il corso sciatori. Da Sestri Pusteria ci abbiamo – penso – passato un po’ di mesi, ma la compagnia d’assalto Stelvio non funzionava più.

Ci han mandati a Napoli, a Villa Literno. A Villa Literno è stata completamente sciolta: una parte sono andati in Africa, una parte sono andati alle isole. Io, dato che ero un volontario nella compagnia di arditi, m’hanno fatto firmare per fare il volontario anche di guerra. E diciamo che qui ho preso un po’ una fregatura, perché assieme al volontario di guerra avevo fatto la firma anche per fare il corso di caporale, caporal maggiore, sergente. L’unico documento trovato è stato il volontario in guerra, l’altro non s’è più trovato, il fatto mi hanno spedito in Russia, nell’ARMIR, alla Compagnia mortai Ravenna. Lì ho fatto quello che han fatto tutti i militari, cioè la trincea, dove, con grande fortuna, sono riuscito a tornare perché rimbambito da un colpo di katiuscia m’hanno mandato in ospedale, o perlomeno nell’ospedaletto da campo. Intanto che mi trovo in questo ospedaletto, i primi battaglioni dei russi hanno cominciato a sfondare il fronte: è iniziato il ripiegamento. A me è andata bene perché nella trincea penso siano morti tutti, io però essendo in questo campo, in questo ospedaletto, ho fatto in tempo a ripiegare. Quanti giorni non me lo ricordo. So che ho fatto moltissimi giorni, circa una ventina, moltissimi chilometri in mezzo alla neve, in mezzo a tanti cadaveri, e sono arrivato dove non me lo ricordo; o perlomeno, molto è scritto sul diario che io ho scritto, e che ho sempre lasciato in un angolo semplicemente per ricordo.

Dalla Russia m’han fatto rientrare: grandi festeggiamenti. A Ravenna… Dalle caserme di Alessandria ci hanno mandato in Toscana. Dopo diversi mesi è successo l’8 settembre. L’8 settembre sono scappato come tutti; mi sono fatto una quindicina di giorni attraversando le montagne e sono arrivato a Bellano, dove c’era mia zia, una persona con cui ho sempre vissuto, perché ero orfano di genitori. Mi sono adattato a fare un po’ il manovale in ferrovia. Dopo un certo periodo hanno richiamato la mia classe. Io non ho voluto andare nella ‘Repubblichetta’ e sono andato nei partigiani, partigiani a Ca’ Maggiore, nella Compagnia Rosselli. Dopo un mese circa sono arrivati i tedeschi, han fatto un grande rastrellamento, siamo scappati tutti naturalmente, e scendendo nella valle sono arrivato al ponte di Taceno. Probabilmente l’avrei anche fatta franca se non ci fosse un tizio di Bellano, della milizia ferroviaria, che mi ha riconosciuto. Mi ha additato ai tedeschi che non ero un boscaiolo come il gruppo che c’era, e lì mi han fatto i primi interrogamenti, qualche schiaffone, e mi hanno portato nel teatrino di Casargo. Lì ho conosciuto Antonio Scolo, che anche lui era nei partigiani da quelle parti. Da lì ci han portato a Delebio. A Delebio conoscevo gente, ho fatto arrivare mia zia. Finalmente l’ho rivista e naturalmente è stato per l’ultima volta.

D: Delebio dov’è? Sempre lì sul lago?

R: Delebio è dopo Bellano, Dervio, Delebio. Comunque [è sempre lì] ad una quindicina di chilometri.

D: A Delebio dove ti hanno messo?

R: Nella scuola, infatti l’avevo detto, in una scuola.

D: E poi cosa è successo Ugo?

R: Niente, ci hanno caricato sui carri bestiame e ci hanno portati a San Vittore.

D: Ti ricordi in quale raggio di San Vittore ti hanno messo?

R: Quinto raggio. La camera mi pare che era, se non sbaglio, la 221; la cameretta singola, perché eravamo dei prigionieri politici, ribelli, e naturalmente ci tenevano separati.

D: Isolati quindi, nelle celle.

R: Isolati nelle celle.

D: Ecco, lì a Milano in carcere a San Vittore, quanto tempo sei rimasto?

R: Penso che siamo rimasti un paio di mesi, penso. So che abbiamo fatto in tempo a sentire… una notte terribile per tutti, terribile per tutti, perché è stata quella notte che hanno preso i quindici [partigiani] da portare in piazzale Loreto. Infatti eravamo tutti col cuore sospeso perché ogni tanto arrivavano, arrivavano a scegliere. Però non so quanti giorni, ci hanno trasferiti tutti, caricati sempre su dei pullman, e ci hanno portati a Bolzano. Però nei dintorni di Brescia sono riuscito a buttare un biglietto per terra, avvertendo mia zia che stavo andando in Germania.

D: Ecco, scusa Ugo, ti ricordi la data di quando ti hanno arrestato, più o meno?

R: Il 24… eh no, l’è scrit lé, è scritto lì. E adesso… me pare che l’era il ventiquatar de giugni. Eh, guarda, bisogna trovarlo lì.

D: Del ‘44?

R: Del ’44. Mi pare che era sul 24 di giugno del ’44, se non mi sbaglio.

D: Poi siete arrivati a Bolzano, nel lager di Bolzano.

R: Nel lager di Bolzano, dove ho fatto lo scopino, andavo in giro a fare pulizia, ci han tenuti – non mi ricordo quanto – un mese circa. Da lì ci han portati sui carri bestiame e ci han portati a Flossenbürg.

D: Ecco, scusa, cosa ti ricordi del lager di Bolzano, e il tuo numero di matricola del lager di Bolzano te lo ricordi, per caso?

R: Ma, lé al me ricordi no, se quel numero… no, a Bolzano credo… Non so se è a Bolzano che m’han dato il… se l’è… – eh, ormai ghe passà cinquant’an – hundert sieben […] vierundzwanzig  [forse approssimazione di 117.064, numero assegnatogli a Augsburg, ndr], undici cento… No, guardi, no, no, no. Non so se me l’han dato lì o se han fermato il treno, me par a Dachau, e ci hanno dati il numero, e poi ci hanno rispediti – sempre sul treno – rispediti a Flossenbürg. Adesso non me lo ricordo. No, no, no, no, no…

D: Del campo invece di Bolzano, cosa ti ricordi? Eravate nelle baracche?

R: Dunque, nel campo di Bolzano c’era un enorme portone di ingresso, un grande cortile, e sulla sinistra quello che mi ricordo è che c’erano dei palazzoni, dei casermoni, e grandi, con una infinità di letti. Quello in particolare che mi ricordo è che alle spalle del mio letto c’era un muro divisorio, che non arrivava al soffitto; da quel muro divisorio si sentivano voci di donne. E alla sera avevamo preso l’abitudine di salire sulla spalliera del letto per guardare oltre il muro, e si vedevano le donne che cantavano, ballavano, e naturalmente ci facevano degli schiamazzi perché noi eravamo degli uomini.

D: Parlavi di un portone all’ingresso, del lager di Bolzano. Ma era un portone – se ti ricordi – in legno, in ferro?

R: Mi pare che era in legno, se mi ricordo. Mi pare che era in legno.

D: C’era qualche scritta sopra?

R: No, quello non me lo ricordo. L’unica scritta che mi ricordo l’era quella di Flossenbürg.

D: Ascolta, sempre del lager di Bolzano, ti ricordi se c’erano anche dei religiosi? Tu hai visto dei religiosi?

R: Sì, anche lì, è scritto lì. Gh’era un fraticello. C’era… c’era… cum’el se ciama? [come si chiama?] C’era un fraticello che l’era, l’era da… era da abbracciare quell’uomo lì, perch’el gh’aveva parole dolci per tutti.

D: Ugo, hai visto se c’erano anche dei bambini, dei ragazzini, dentro nel lager di Bolzano?

R: No, no. Del lager di Bolzano mi ricordo che c’era un fraticello che ci rincuorava tutti, e mi ricordo che c’era anche una donna – o perlomeno fra le tante – c’era una donna che abitava con me a Milano, in piazza Lega lombarda, era la mia vicina di casa. Era stata arrestata perché era in un ufficio straniero, e si chiamava… non me lo ricordo più, il cognome era Pastorini, aveva circa una trentina d’anni. Era in un ufficio straniero dove sembra c’erano forse degli americani, e allora hanno portato via anche gli impiegati, e ho incontrato per caso… L’unica volta che l’ho vista, poi non l’ho vista più.

D: Tu dicevi che lì nel lager di Bolzano come lavoro sei sempre stato addetto alle pulizie del campo.

R: Sì. M’han dato ‘sta cariola, e altro, e andavo in giro a fare pulizie, basta. Io non ho fatto altro che questo, fino al giorno che m’ han fatto smettere, che mi han caricato… Almeno, anca lì, m’han fa tirà su la mia roba e m’hanno caricato sulla… lì alla stazione, mi hanno messo sui carri bestiame per andare a Flossenbürg. Ora, il numero di matricola me l’han dato. Dove? Ma, lì non mi ricordo il numero di matricola. So ch’el sera fermato il treno, e ognuno di noi ci avevan dato… ce l’han dato prima di salire in treno, ce l’han dato… So che han fa ‘na sosta, ho sentito parlare di Dachau quando ci siamo fermati – non siamo scesi – però dopo siamo ripartiti, e siamo arrivati a Flossenbürg. E infatti, allora lì siam scesi, e ci han fatto fare un grande viale, di terra, e siamo arrivati davanti a un enorme cancello di Flossenbürg, dove c’era scritto – in tedesco naturalmente – che “il lavoro rende… felici”, qualcosa del genere. Infatti, dentro come lavoro era tutt’altro che felice.

D: Ecco, come avete superato l’ingresso di Flossenbürg… Allora, tu sei partito da Bolzano e vi hanno portato a Flossenbürg. Come hai superato l’ingresso di Flossenbürg, cosa è successo, cosa ti hanno fatto?

R: L’ingresso a Flossenbürg era normale, era un campo di concentramento. Quello che ci ha colpito erano le docce. Perché, naturalmente, gli anziani di questi campi ci hanno avvicinato e ci hanno spiegato cos’era quel posto lì, e ci hanno detto “attenzione alle docce, perché dentro lì gasano gli ebrei; se voi però non siete ebrei, siete solo partigiani, probabilmente non vi fanno niente.” E poi, altro discorso, “là in fondo c’è un blocco 22, ci sono dei moribondi; fra qualche giorno, quello che vi danno a mangiare non basta, avrete fame, allora andate lì vicino a questi moribondi, prendetegli pure da mangiare perché tanto a loro non serve più.” Poi m’han messo nel blocco 23. Dopo un po’ di giorni ci hanno inquadrati, han guardato quelli più… ci han messo la loro divisa – che mi spiace che non ho portato a casa, perché era un bel ricordo, sono riuscito a portare a casa solo il triangolo rosso – ci han messo questa divisa, han preso i ragazzi più grandi e grossi e ci hanno portato a scavare sassi in una maniera nei pressi.. non so, a qualche chilometro da Flossenbürg. Infatti lì ci ho vissuto per circa una ventina di giorni, a picchiare ‘sti sassi, perché dicono che ne avevano bisogno per marginare le strade, per arginarle. Dopo un certo periodo hanno fatto delle domande, ci han messo tutti in riga, ci han fatto delle domande – chi era meccanico, chi era elettricista – e io gli ho detto che ero un meccanico, e loro mi han messo in fila per andare in un reparto, e mi avrebbero trasferito. Però nel frattempo, in attesa di questo trasferimento, mi è venuta la pleure. Purtroppo pensavo di lasciarci le penne, perché fra noi c’erano anche dei medici, i quali medici mi hanno detto “non dire che hai la pleure, perché se sanno che sei ammalato ti mettono nel reparto” – noi eravamo il 23 – “ti mandano al blocco 22, dove ci sono i moribondi.”

Naturalmente, gentilmente mi tenevano sempre dentro quando facevamo la stufa che eravamo fuori ci si metteva in blocco, vicino alla parete del blocco, per riscaldarci, e a turno ognuno veniva fuori, quelli dentro uscivano e entravano quelli fuori. A me han sempre lasciato dentro per via della pleure. Non so, il padreterno, la fortuna, qualcuno che…

D: Quando tu parli di stufa, non intendi la stufa a legna e carbone…

R: No, sto parlando di quella fuori.

D: Cioè? Prova a spiegarla. Cosa facevate, la stufa umana sarebbe?

R: Diciamo che abbiamo la stufa umana. Infatti, nei momenti di sosta, non ci lasciavano nei blocchi, ma ci tenevano fuori. Fuori faceva freddo, non so chi l’abbia inventata, comunque ci mettevamo a mazzi, a gruppi, contro la parete del blocco. Naturalmente quelli dentro si scaldavano e quelli fuori no, quindi si facevano dei turni: quelli fuori a un bel momento entravano, e uscivano quelli dentro che erano, diciamo, bei caldi. Io con la mia pleure, ‘sta gente di cuore, umani, mi lasciavano sempre dentro per cercare di farmi passare o di guarire. Tanto è vero che quando sono rientrato in Italia, facendomi le radiografie han visto che avevo una macchia di pleure, il che vuol dire che mi era passata ed ero guarito, per opera di chi non lo so.

D: Ugo, tu hai parlato prima che quando sei stato arrestato, c’erano altri partigiani con te, c’era anche Antonio Scollo. Ti ha seguito anche lui a Flossenbürg?

R: Tutti. Abbiamo fatto tutto il giro. Scollo, e tutti gli altri. Naturalmente, ripeto, Scollo ci siamo legati perché eravamo di Milano, e abbiamo fatto… tutto il giro che ho fatto io l’hanno fatto tutto anche loro: Delebio, San Vittore, Bolzano, Flossenbürg. A Flossenbürg, ecco, e arriviamo a quel momento che han scelto i lavoratori, quelli che dovevano fare il meccanico, e i giovani invece li mandavano – mi pare – a Bersen Berger [Bergen-Belsen, ndr] – come si chiama quel posto lì – perché erano dei giovani. Però fino a quel momento siamo rimasti assieme.

D: Quando ti hanno scelto poi tu sei andato a fare il meccanico?

R: Dunque, quando mi hanno scelto… A parte che è passato un po’ di tempo: passata la pleure ho cominciato anche io a soffrire la fame, che oramai era passato qualche mese, e ci andavo appunto a portar via da mangiare a questi poveri. E avevamo però sempre il terrore delle docce. Perché purtroppo a un paio di gruppi – che han detto che erano ebrei – un paio di gruppi abbiamo visto la fine che gli hanno fatto fare. Che, appunto, entravano vivi e poi entravano dentro dei portantini, della gente addetta a questo lavoro, portavano fuori tutti i cadaveri gasati. E quello proprio è una cosa…

Un’altra cosa che mi è rimasto impresso per molto tempo, il fumo del forno crematorio. Era un fumo addirittura schifoso, che faceva venire il vomito i primi tempi, poi ci ho fatto l’abitudine e mangiavo anche se c’era quel fumo. A questo proposito, se si può, c’è stato qualcuno che ha scritto che i forni crematori erano cose finte, erano propagande nulle, e io su un giornale ho risposto, dicendogli che a questi signori li inviterei volentieri nel blocco di Flossenbürg a sentire il profumo che esce dai forni crematori, per capire che cosa veramente voleva dire la vita in un lager.

D: A Flossenbürg tu hai visto se c’erano anche delle donne deportate?

R: Dunque, a Flossenbürg c’erano delle donne, però erano lontane da noi, perché c’era una lunga fila di baracche, e non so se erano a metà o in fondo, però so che c’erano delle donne.

D: Prima parlavi di quel religioso che c’era a Bolzano. Vi ha seguito anche lui a Flossenbürg? È stato deportato anche lui?

R: Non lo so, questo non lo so. So che… No, a Flossenbürg non c’era. Ho conosciuto… no, quel là l’era un professore. Quello di Augsburg l’era un professore. No, niente. No, me ricordi no. Cum’è che’el se ciamava? [come si chiamava?]. Va beh, niente.

D: Ti hanno mandato poi allora a lavorare come meccanico?

R: Dunque, a un bel momento ci hanno spediti. Dopo, non so, un giorno o due di viaggio ci hanno mandati ad Augsburg, alla Messerschmitt, naturalmente, non certo a fare il meccanico. M’hanno invece messo a trasportare bombole di ossigeno. Perché c’erano le lavorazioni per gli aerei, quindi c’era chi facevano le carlinghe, chi facevano le ruote. Per un po’ di tempo mi hanno messo a trasportare bombole. Poi invece m’hanno messo a fare il battitore: avevo una forma – probabilmente doveva essere una piccola portiera – una forma dove io, con un pezzo di lastra, dovevo a mano battere e dargli la forma a questa portiera. Naturalmente, fra il poco mangiare, fra la debolezza, fra il freddo – perché erano capannoni enormi non riscaldati – qualche volta mi addormentavo su questi blocchi, su questi pezzi di lavoro, e naturalmente ho preso una fila di sberle, io e anche altri, perché naturalmente qualcuno di noi ci cascava.

E lì ci siamo rimasti fin quando gli americani non cominciavano ad avanzare. Avanzando cominciarono a bombardare. Però il brutto di questo trasporto fra il campo di Augsburg e il campo di… le officine della Messerschmitt, era un treno, che fin che gli americani non l’avevano bombardato andava bene, perché la facevamo in treno – viaggio da una ventina di minuti – quando  invece gli americani l’hanno bombardato ce l’han fatta fare a piedi. E lì purtroppo era un brutto camminare, perché zoccoli di legno, la neve si appiccicava sotto gli zoccoli, molti di noi cadevano, e quelli delle SS ci legnavano per farci tornare in piedi. In questo periodo a Flossenbürg abbiamo passato dei momenti belli e dei momenti brutti, perché alla domenica ci facevano fare festa.

D: Scusa un attimo Ugo, non a Flossenbürg. Qui eri già nel sottocampo.

R: Ad Augsburg.

D: Ecco. Ascolta, il campo… il lager di Augsburg come era organizzato? Erano tante baracche?

R: No. Dunque, ad Augsburg erano dei capannoni, non proprio baracche, erano dei capannoni. E diciamo, perché era d’inverno naturalmente, si stava anche caldi, si stava anche bene. Qui il mangiare era abbastanza, era discreto, se non proprio buono, era discreto, anche perché dovevamo andare a lavorare. Qui ho conosciuto un ebreo, un professore mi pare ungherese – non mi ricordo il nome – ma so che parlava tre o quattro lingue fra cui l’italiano. Era qualcosa di meraviglioso, ci teneva tutti allegri, anche se lui era conciato più di tutti, tanto è vero che per questo suo discorso che faceva con tutti, c’era il capo blocco che non lo poteva vedere. Un bel giorno abbiamo saputo che l’avevano finito a legnate.

Qui ci facevano fare festa sabato pomeriggio e alla domenica. Augsburg è diventato nominato per le impiccagioni, perché al sabato pomeriggio ci radunavano in un enorme capannone. C’era una forca, ci han fatto imparare il nodo scorsoio, e, seduti, ci spiegavano il perché impiccavano. In via di massima erano russi, qualche ebreo, ma in via di massima russi, era gente che scappava: li prendevano e li tenevano buoni per il sabato pomeriggio. E ogni sabato ce n’erano tre quattro o cinque che li impiccavano, e noi dovevamo assistere, proprio perché era una lezione. Alla domenica non si lavorava. E era buono… perché incominciavano anche a arrivare le bombe degli aerei, e allora più di qualche volta, più di qualche notte, dovevamo uscire dai nostri capannoni, andare nei fossati che avevano scavato e magari passarci la notte, in mezzo alla neve, dentro in questi fossati, perché gli americani oramai erano vicini. È successo che un bel giorno han dovuto piantare lì anche la Messerschmitt.

D: Ecco, scusa parliamo di questo lager e di questo sottocampo di Augsburg. Era vicino al centro abitato il campo di concentramento, non i capannoni delle fabbriche.

R: No.

D: Era vicino a un lago, se ti ricordi?

R: L’unica cosa che mi ricordo era la ferrovia, perché fuori naturalmente non ci siamo mai andati. Noi uscivamo da un portone, c’era il binario. Probabilmente m’han detto che prima quella era una caserma, e aveva un binario che andava diritto alla Messerschmitt. Quindi noi vedevamo solo dei campi, vedevamo solo la Messerschmitt quando si arrivava: era inverno, quindi la visuale era quella che era, non si poteva vedere niente.

D: Lì nella fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Nella fabbrica c’erano dei civili. Qualcuno ci passava anche le croste del pane, mentre invece qualche capoccione civile – e questo me lo ricordo bene, perché mi ha lasciato qualche segno sulla schiena – quando si sbagliava a fare qualche pezzo, indossava il camice bianco, si metteva i guanti, prendeva un randello, di gomma naturalmente, e controllava tutti i pezzi, e se qualcuno aveva sbagliato erano bastonate che ci arrivavano. Come in tutti i lager usavano il bastone di gomma, perché non faceva ferite, ma naturalmente faceva rompere le reni interne.

Naturalmente è arrivato anche il punto degli americani, ci han messo in colonna: a piedi dovevamo rientrare a Dachau.

D: Ecco, scusa ancora se ritorno, sempre in quel campo lì di Augsburg, eravate in molti, se ti ricordi? E c’erano anche delle donne?

R: No, donne no. No, donne no.

D: Ed eravate in molti come deportati?

R: Mah, penso più di un centinaio. Penso più di un centinaio, perché c’erano diverse camere – appunto, m’han detto che era una caserma – diversi saloni enormi, con tutti castelli, quindi l’era abbastanza pien cum’è… fra l’altro quando andavamo all’impiccagione, oh ma ghe n’era, c’era una valanga di sedie, e dietro quelli in piedi, quindi penso che eravamo sul centinaio, penso.

D: Mentre invece la fabbrica erano capannoni… piano terreno…

R: Sì, capannoni piano terra. Capannoni piano terra.

D: Ecco le evacuazioni, stavi dicendo, quando avete lasciato Augsburg, ti ricordi più o meno quando è avvenuto questo, in che periodo?

R: Forse è scritto, adesso non me lo ricordo. So che ci han messo tutti in colonna, ci han dato il solito pezzo… fetta di pane margarina, pezzo di salame, e ci han messo in colonna, e ci han fatti camminare, credo per un giorno e una notte. Siamo arrivati in un posto che credo si chiami Kauflin, credo [Kaufering, ndr]. Lì c’hanno fermato, perché erano in attesa di altri gruppi, perché dovevamo rientrare tutti a Dachau. E lì ci hanno spiegato che il famoso signor Himmler aveva dato ordine che tutti quelli che rientravano dai vari campi dovevano essere messi sui vagoni bestiame, attorno a Dachau, e lasciarli morire dentro. Lì purtroppo ho perso due amici, uno di Trieste e uno di Milano. Quello di Trieste aveva sui 45 anni, tanto è vero che la moglie m’aveva scritto; quello di Milano aveva solo vent’anni. Eh, ma almeno… erano mezzi moribondi, han detto che li avrebbero caricati sui camion, per portarli, però abbiamo sentito la solita sparatoria quando noi eravamo a circa duecento metri.

Ora, abbiam camminato per qualche giorno. Una bella notte ci hanno fermati in un bosco, e qui ho fatto il pensiero. Ho detto “andare a Dachau e crepare in un vagone bestiame non è una bella cosa. Qui tento. Scappo. Al massimo mi sparano.” Ce l’ho fatta. Sono riuscito – naturalmente ho aspettato che avevo l’impressione che le guardie dormivano, anche se qualche guardia ogni tanto cominciava a tagliare la corda, perché oramai gli americani li avevamo alle spalle – mi sono guardato in giro, tutto era tranquillo; ho cominciato strisciando per terra a camminare in mezzo alle piante, sono arrivato a un muro e ho detto “è una casa”: sono saltato dall’altra parte: era un cimitero; ho aperto una… almeno, sono riuscito a spostare una lastra di tomba, ho visto che era vuota, sono andato dentro, ho detto “io mi nascondo qua”. Ci ho passato la notte.

D: Da solo Ugo l’hai fatto?

R: Sono scappato lì, era… Ci sono stato fino al mattino. Al mattino mi sono alzato, sono andato giù, ho camminato, c’era una discesa, sono andato giù, c’era un fosso, e c’erano delle lumache. Non ho mai mangiato una cosa meravigliosa come quelle lumache. Fra l’altro avevo un po’ di paprika – non so da dove sia saltata fuori, dentro nel pastrano che avevo, c’erano dentro delle bustine di paprika – ho spolverato di paprika le lumache e sono stato…

Dopo aver vagato per qualche giorno sono riuscito ad arrivare vicino ad una cascina. Vicino a questa cascina c’era un giovanotto, che ho saputo dopo che era polacco, oh! Conoscevo qualche parola di russo, conoscevo qualche parola di francese, mi arrabattavo col tedesco, ha capito da dove venivo, e lui m’ha detto “vieni con me che ti porto in salvo.” M’ha fatto entrare in una stalla, e m’ha detto “resta qui, stai tranquillo che qui non ti tocca nessuno.” M’ha portato da mangiare, m’ha portato da bere, m’ha portato latte a non finire, da mangiare che c’era da star male per… Gli ho detto “ma quella gente là?”, e lui mi ha detto “stai tranquillo, perché stanno arrivando gli americani, quindi è chiaro che vogliono fare bella figura ad aver aiutato uno che è scappato da Dachau.”

Un bel giorno mi sveglio, almeno… dopo qualche giorno mi sveglio, mi trovo davanti quattro spilungoni con la divisa di americano. Fra l’altro il solito… il sergente che parlava mezzo italiano, gli ho spiegato chi ero, chi non ero. M’ han portato in casa, m’han dato da mangiare, poi m’han caricato su una jeep. Si son fermati in una casa, e qui mi spiace che ho dovuto… col mitra alla mano hanno obbligato quella gente a darmi degli abiti, delle scarpe, degli indumenti intimi, e ho dovuto lasciarci la mia divisa da galeotto. M’han portato nel campo – mi pare 205, comunque è scritto lì, 205 – dove han detto al capitano che comandava, un capitano di marina, che comandava il campo, “questo è un reduce di Dachau, me lo tratti bene.”

Lì ci son vissuto per diversi giorni. Era dopo aprile, mi pare sul maggio, m’han dato un foglio di carta per scrivere a mia zia. E finalmente io sono riuscito a mettermi… almeno, tramite questo pezzo di carta della Croce Rossa, [a] scrivere a mia zia. Oh, qui devo dire che sono stati abbastanza gentili, perché non mi han dato da mangiare, ma m’han dato piano piano prima il brodo: cioè da dove arrivavo han capito che avrei dovuto fare una certa dieta, perché? – e questo me l’aveva fatto notare anche l’americano quando mi portò sulla jeep – c’era gente che si… gli americani a tutti ‘sti prigionieri buttavano da mangiare, tutti mangiavano, ma molti crepavano di indigestione. Purtroppo gli scoppiava lo stomaco. Lì nel campo invece piano piano – naturalmente un po’ di rabbia per vedere gli altri che mangiavano sberle di carne e io che dovevo prendermi… mangiarmi il brodino o la zuppa – però m’hanno rimesso in forma bene.

D: Ti ricordi se questo campo era vicino a qualche città grossa?

R: No, l’era appena fuori da Dachau… sì, appena fuori di Monaco, periferia di Monaco. Infatti lì, Monaco di Baviera, mi pare che era il campo 205.

D: E lì sei rimasto fino a quando dicevi?

R: Dunque, sono rimasto fino… mi pare alla fine di giugno. Però nel rientro – naturalmente eravamo in molti che rientravano – m’hanno fatto fare fino a Brescia con un treno… sì, con un treno, poi a Brescia non c’era… beh, loro mi han portato a Brescia, poi mi hanno detto “arrangiati tu”. Infatti a Brescia abbiamo trovato un camionista, gli ho spiegato chi ero, da dove venivo, perché portavo ancora il triangolo – anche se oramai avevo solo degli abiti borghesi – m’ha preso ‘sto camionista e m’ha portato in piazzale Loreto. In piazzale Loreto, quando m’han visto arrivare con ‘sto triangolo è stata la fine del mondo. Perché non ho pagato il tram per arrivare a casa, tutti volevano accompagnarmi, anche perché ero diventato abbastanza rotondo. Perché dalla magrezza di Dachau al piano piano riprendendomi – di Dachau, pardon, di Flossenbürg – riprendendomi mi ero anche gonfiato, fra l’altro. Però anche se ero gonfio, sapevano – probabilmente lo sapevano già perché altri erano arrivati prima di me – sapevano che era una malattia la mia, e allora m’hanno accompagnato fino in piazza Lega lombarda, dove la portinaia quando m’ha visto ha fatto un urlo… e ha detto “è tornato l’Ugo.” Lì ho abbracciato mia zia, finalmente.

D: Scusa un attimo Ugo, questa storia del ritorno, cioè da Monaco ti hanno messo su un treno…

R: Su un treno fino a Brescia.

D: E non si è fermato a Innsbruck, da altre parti?

R: No, no. Almeno, che mi ricordo da Monaco so che mi hanno scaricato a Brescia. Perché il treno si fermava a Brescia.

D: Ma era un treno civile? Era un treno di passeggeri?

R: No, no, no. L’era un mezzo civile, un mezzo… perché molti erano su carri bestiami, molti erano su carrozze, ma vecchie stravecchie, perché se vedevi che erano… e io ero su una carrozza, ma che gli mancava un veder [vetro]. Ma, intendiamoci, non me ne fregava niente.

D: Ascolta, ma questo treno qui di chi era?

R: Non lo so.

D: C’era su del personale?

R: No. So che a me han detto un bel momentino “tutti questi di questo campo vadano là, trovino posto, o sul treno… o sui carri, o sui vagoni, perché arriva a Brescia.”

D: A Brescia c’era un comitato di accoglienza?

R: No, no, no. Non ho trovato nessuno. Brescia sono sceso e ho detto “qui cosa faccio?” Treni non ce n’erano, probabilmente non poteva continuare il treno perché c’era rotto qualcosa. Ho detto “qui vado sulla statale per Milano, vedo se c’è qualche camion”, combinazione ho trovato questo camionista che mi ha caricato e mi ha portato fino in piazzale Loreto.

D: Ugo, son passati 55 anni, e tu facevi sempre accenno prima al diario che hai scritto dopo.

R: Sì, perché io avevo diversi appunti… cioè, non appunti presi là, ma appena tornato ho voluto scrivermi subito quello che riuscivo a ricordare. Quelli della Russia l’avevo fatto prima, quelli di Flossenbürg l’ho fatto dopo, e li ho messi lì, non li ho mai toccati. Poi ogni tanto mi veniva in mente qualcosa e la mettevo giù. Nel ’75 finalmente mi son deciso a dire “cià, adesso con calma mi scrivo…” L’ho scritto, ma l’è sempre rimasto nel cassetto.

D: Ecco, ma io ti volevo chiedere: sei mai stato intervistato te in questi 55 anni?

R: No, no, no.

D: Nessuno ti ha mai chiesto niente della tua deportazione?

R: Ma guarda credo che neanche in Pelikan, eccetto i dirigenti, nessuno sapesse… io non ho mai raccontato niente a nessuno. A scuola insegnavo, qualcuno sapeva, qualcuno, ma altrimenti non… C’è gente che ancora al giorno d’oggi, intendiamoci non sono… ma non sa che io sono stato a Dachau, sono stato in Russia. Mument… [un momento] lo sanno i combattenti, perché quando c’è la riunione vado con loro e sanno che son stato in Russia.

D: Ugo, dei tuoi compagni di deportazione, che siete partiti da Bolzano per arrivare a Flossenbürg, quanti se ne sono salvati? Lo sai più o meno?

R: Se ne sono salvati molto pochi. Perché infatti quando ci sono le riunioni della associazione, che ci troviamo noi, che ci siamo conosciuti dalla Val Sassina, da San Vittore, da Bolzano, eravamo in una decina: oggi siamo quattro o cinque, cinque forse, perché diversi sono… a parte quelli che purtroppo sono morti subito. Perché infatti appena tornato siamo andati a trovare altra gente, ma era ammalata, gente che aveva contratto delle malattie, che purtroppo non ce l’han fatta a arrivare fino ai giorni nostri, per essere lì in associazione.

D: Ecco Ugo, l’ultima cosa, i numeri proprio non te le ricordi? I numeri di Flossenbürg…

R: Lassum legerli [fammeli leggere]. Campo di concentrazione Dachau comando d’Augsburg […] 7-19 ottobre ’44, numero detenuto 11… beh 117.064.

INTERVENTO: Sopra c’è anche quello di Flossenbürg.

R: Ah eccolo qua, ciula… eccolo…

INTERVENTO: Allora se li puoi dire tutti e due…

D: Allora i due numeri…

R: Dunque, quello di Flossenbürg è quello in alto che l’è 21752. Quello di Dachau è 117064.

D: Visto che questi ce li siamo ricordati?

R: Eh, per forza, l’ho legiù [l’ho letto].

D: Ugo.

R: Ecco, arrestato il 25 giugno del ’44.

D: Ecco, Ugo, ascolta un attimo. Quindi a Flossenbürg ti hanno immatricolato una prima volta, e poi quando ti hanno trasferito da Flossenbürg ad Augsburg ti hanno ancora immatricolato.

R: No, no, ho sempre avuto quel numero lì.

D: Eh ma 117 mila è quello di Dachau.

R: Ma perché Flossenbürg era sotto una dépendance.

D: Augsburg era un sottocampo di Dachau.

R: So che a me han dato questo numero e l’ho sempre tenuto, si vede che a Flossenbürg gh’el ‘ndava ben chel numer lì [gli andava bene quel numero lì].

D: No, ascolta, a Flossenbürg ti hanno dato il 21 mila, giusto? Quando sei arrivato con Antonio a Flossenbürg ti hanno dato il 21 mila. Poi quando sei andato ad Augsburg, che è un sottocampo di Dachau …

R: Allora l’è forse questo 117 mila ad Augsburg. Eh beh…

D: Esatto. Ecco, non ti ricordi quando te l’hanno dato questo 117 mila? Non te lo ricordi? Neanche dove…

R: So che io ad Augsburg avevo questo numero qui. Ma un mument, l’è quel che capisi no [è questo che non capisco], ma anche a Flossenbürg, mi sun cunvint che.. [sono convinto che] questo 21 mila qui…

D: E’ di Flossenbürg. Perché la prima immatricolazione te l’hanno fatta a Flossenbürg, dopo ti hanno trasferito…

R: No, un mument… Però a Flossenbürg loro m’han cambià il numer…

D: Ad Augsburg t’hanno cambiato numero, perché era un’altra dipendenza, dipendeva da Dachau.

R: Ah ecco perché dipendeva da Dachau. No, allora no. Quan’ m’ha fermàa [quando mi hanno fermato] a Bolzano… a Flossenbürg, mi pare che… m’avevano detto che lì vicino c’era Dachau, mi avevano detto.

D: Ma non è forse Ugo che il treno si sia fermato da Flossenbürg ad Augsburg, e lì ti hanno detto che vicino c’era Dachau?

R: No, allora probabilmente… ma me ricordi no [non mi ricordo] a Flossenbürg… so che avevo imparato questo numero qui, perché me lo continuavano a chiedermelo, almeno, quando c’erano le adunate dovevo rispondere così. Ma me pareva che anca a Flossenbürg… [mi sembrava che anche a Flossenbürg]

D: Flossenbürg era il 21 mila.

R: Perché strano… ah, no, un mument… questo mi è rimasto impresso perché probabilmente è l’ultimo numero che ho dovuto imparare, quell’altro al me ricurdavi più [non me lo ricordavo più].

Bigo Pio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Pio Bigo. Sono nato il 28 marzo del 1924 in Piemonte, precisamente alla Cascina Falchetta, nella tenuta della Mandria, allora proprietà dei marchesi dei Medici del Vascello. Mio padre era un contadino. Visto e considerato che poi ci siamo trasferiti a Torino, alle Vallette, in Piemonte, io ho continuato le scuole e sotto la dittatura fascista, c’era il sabato fascista, dovevamo andare vestiti da balilla, poi da avanguardista, eccetera. Giunti all’8 di settembre del 1943, io ero di leva, avrei dovuto presentarmi alle armi al novembre del 1943. Rinunciai a presentarmi alle armi della Repubblica di Salò e cercai di arruolarmi, con dignità e scelta morale, nella lotta della Resistenza partigiana. Precisamente coi miei amici, compagni, ci siamo informati, abbiamo avuto delle informazioni come dovevamo fare. Ci siamo recati in treno con la Ciriè-Lanza da Torino e siamo arrivati a Pessinetto in Valle di Lanzo. Il comando ci ha presi in forza, sembrava a noi di respirare un’altra aria più pulita, più sana. Tutta la zona era controllata dai partigiani: da Lanzo, da Germaniano, tutta la vallata in su, in montagna. E lì abbiamo tribolato [sono cominciate le difficoltà, ndr] … ci han dato un posto su a Lanzeroldo, dove ci siamo riuniti una cinquantina di partigiani nelle baite, al freddo.
E poi, una volta registrati tutti i nostri nomi, al comando, ci hanno mandati su una frazione, a Lanzeroldo, un gruppo di cinquanta ragazzi. C’era anche qualche militare assieme, noi li chiamavamo i nostri padri perché erano più anziani di noi, ed erano già istruiti a usare le armi, mentre noi dovevamo ancora imparare. Però eravamo senza armi, aspettavamo sempre che ci mandassero… buttassero giù le armi gli inglesi, che si parlava, mandavano i messaggi con la radio allora inglese, mandavano dei messaggi “a Paolo piacciono le mele”: noi non capivamo, ma erano dei segnali; infatti, ogni tanto ci facevano accendere dei fuochi di notte, e aspettavamo i lanci e i lanci non arrivavano mai. Insomma, per farla corta, abbiamo tribolato tanto. Al 7 marzo io ero di guardia, di notte, perché li aspettavamo: eravamo avvertiti che dovevano venire su a fare il rastrellamento – la SS tedesca assieme ai repubblichini – dal comando CLN che si era ormai formato. E noi, lì, quando eravamo di guardia, facevamo turni di due ore; il mio turno verso il mattino era dalle cinque alle sette, difatti dovevo smontare alle sette meno un quarto [quando] c’era la colonna a fondo valle che veniva su, coi repubblichini davanti e i tedeschi dietro. Io ho avvisato i compagni che erano a riposo, dico: “Guarda che stanno arrivando”. Ci siamo messi ognuno al nostro posto di combattimento, e quindi abbiamo combattuto fino verso le due del pomeriggio. Poi sono riusciti a chiuderci a ferro di cavallo e ci hanno bombardato con due apparecchi, ogni tanto che venivano sopra a bombardare. Noi con quelle poche armi abbiamo fatto miracoli. E quindi dopo abbiamo indietreggiato su, dove c’era una chiesa che si chiama Bogliano [località in provincia di Torino, la chiesa è di San Bartolomeo, ndr]: lì non c’è stato più niente da fare, si salvi chi può. Chi è scappato prima è riuscito ancora a varcare il monte e passare dall’altra parte in Valle di Viù, e invece io, purtroppo, con altri, siamo rimasti presi nel cerchio e non abbiamo più potuto scappare. Ci siamo trovati alla sera, di notte, in un posto su in montagna, dove c’era anche il comandante. Eravamo senza mangiare, affamati, al freddo, c’era una baita solo: chi dormiva nella stalla chi nel fienile. Abbiamo passato la notte. All’indomani, oltretutto abbiamo dovuto andare a cercare da mangiare; hanno preso una mucca in una stalla dei pastori, l’han portata su, dove erano passati i tedeschi avevano bruciato i paesi, non abbiamo trovato le nostre provviste. Alla sera, dopo aver mangiato quella mucca, squartata in quattro e quattro otto e fatta bollire, il comandante dice: “Ho bisogno che qualcuno vada in Valle di Viù a vedere se ci sono i tedeschi”. Noi là eravamo in un angolo in alto in montagna che non si poteva vivere, e allora io – ero abbastanza pratico – sono andato con altri due miei compagni, siamo partiti per andare nella Valle di Viù: uno, posso fare il nome, un mio caro amico, Luca Castello Sergio, eravamo coscritti, l’altro, un certo Emilio, che era di Torino, adesso non ci sono più. E abbiamo attraversato tutta la costa, abbiamo trovato un cane impaurito sperso, l’abbiamo carezzato e ci è venuto dietro, e lo chiamavamo Dick. Quando siamo arrivati giù dall’altra parte abbiamo trovato una baita e ci siamo messi lì. Abbiamo aperto con tanta attenzione, abbiamo visto che c’era un fuoco, abbiamo acceso il fuoco per farci asciugare i panni e le scarpe. Al mattino, morti di fame come eravamo, abbiamo visto che più in basso c’erano dei pastori. Siamo scesi e siamo andati da questi pastori, abbiamo chiesto prima di tutto se c’erano i tedeschi e loro ci hanno risposto: “Sì, sono lì sotto al paese dei Tornetti, in Valle di Viù”. E allora abbiamo chiesto da mangiare. Ci han portato un po’ di polenta e latte, quelle cose che si fanno in montagna; noi con le mani l’abbiamo mangiata in quattro e quattro otto, e loro ci han detto: “Non andate giù, scappate su per la montagna perché vi prendono”. Noi con quel cane abbiamo attraversato dietro la casa per prendere la mulattiera che andava su in montagna. Loro erano già di dietro, ci hanno sparato e ci siamo messi per terra, abbiamo nascosto quelle poche armi che avevamo sotto delle foglie secche. Sono arrivati lì: “Vi arrendete?”. E noi abbiamo alzato le mani perché non c’era niente da fare: loro erano in sedici, noi eravamo in tre, disarmati, con un novantuno [fucile, ndr] non potevamo fare niente. Un repubblichino… Il cane si è spaventato perché avevano sparato, si è messo a scappare su per la montagna. Un repubblichino gli ha sparato al cane e l’ha ferito. Era lì che piangeva, il cane. Io ho sempre amato molto le bestie e… mi ha toccato quello, ma dico: lui ha fatto mica niente di male, è un animale! Perché? Pazienza noi, ma il cane cosa ne poteva? E così abbaiava, e lui è partito: “Adesso vado su e te lo finisco”. E lo ha ucciso. Primo segno di criminalità.
Poi ci hanno arrestato. Passa nel sentiero lì un repubblichino, mette il piede sopra il calcio del moschetto e il moschetto viene fuori… e lì è uscito poi dopo tutto il resto. Chiedeva di chi era questo moschetto. Ci ha messo davanti il plotone per fucilarci, per farci parlare. Noi parlare non parlavamo, non avevamo niente da dire, non sapevamo neanche chi erano i nostri capi, ecco. E da una parte è stato meglio così, e non potevamo dire niente. Quello che aveva il moschetto dice: “L’ho preso per la difesa della notte”. Io avevo le bombe a mano, ed erano le bombe a mano tedesche. Ha detto: “Cosa ne facevi di queste bombe?” “Cosa ne facevo, per la difesa della notte”. Insomma, li prendevamo ancora in giro così. L’altro aveva una pistola, idem. E quindi ci hanno poi portati giù al paese dei Tornetti, ci hanno picchiati a sangue. Poi hanno rubato le provviste dei pastori che avevano in casa, le donne urlavano, insomma c’è stato delle cose… Poi hanno preso i pastori per farci fare da guida, ci hanno portato a fondo valle. Arrivati in fondo valle c’erano le camionette e ci han caricati sopra, e ci han portati alle scuole di Lanzo torinese. Lì abbiamo passato una notte. Ci hanno picchiati, ci hanno fatto mettere con le mani contro il muro, ogni tanto passava qualcuno, ci dava delle pedate e degli schiaffi sulla testa, quindi torturati. Il giorno dopo ci han caricati sui camion e ci han portati alle carceri di Torino. Nel tragitto ci han fatto passare alla Veneria reale, poi ci hanno fatto fare Corso Regina, Porta palazzo, Via Roma, Porta Nuova: giro di propaganda per la città dicendo che avevano preso i banditi, noi ci chiamavano “banditi”. Poi Corso Vittorio. Siamo arrivati davanti al carcere di Corso Vittorio, Torino, ci hanno rinchiusi dentro nelle celle 10 e 15 nel braccio tedesco politico della Gestapo. Lì siamo stati interrogati, picchiati, malmenati, torturati. Insomma, sono ricordi purtroppo anche dolorosi. Nella notte, verso l’una, è suonato l’allarme, mezzanotte l’una, ricordo la prima notte che eravamo lì, c’è anche stato un bombardamento da parte degli americani oltretutto. Lì siamo stati fino al giorno 13 di marzo. Il giorno 13 al mattino assieme a noi hanno messo quelli che avevano arrestato ai primi di marzo per gli scioperi nelle fabbriche: la Fiat, la Spa, la Lancia, gli operai, uno sciopero più che altro di protesta contro questa dittatura. Oltretutto ce n’era già di politici che erano in carcere nella regione di Cuneo, di Saluzzo, nei dintorni e via dicendo. Ci hanno al mattino portati sotto, ci hanno caricati sui camion. Abbiamo percorso Corso Vittorio fino a Porta Nuova, dove guardavo io fuori da una parte dall’altra: ogni tanto c’erano la gente che ci guardava, madri di famiglia che vedevano noi ragazzi giovani, poi c’erano i loro mariti, che erano stati presi nella notte, arrestati nella notte perché avevano scioperato, e li chiamavano, chiamavano i loro mariti. Insomma, era un viaggio della tragedia proprio. Io queste cose me le ricordo bene. Siamo entrati nella stazione, c’era una tradotta che ci attendeva. Ci hanno caricati sopra quei vagoni dove fuori era scritto “cavalli 8, persone 40”, nell’angolo c’era una tinozza per i bisogni. E poi ci hanno fatto partire, alle quattro e mezza del pomeriggio siamo arrivati a Bergamo. A Bergamo ci han fatti scendere e siamo passati lì due tre giorni perché hanno concentrato lì quelli di Milano, che avevano arrestato nei pressi di Milano, specialmente alla Caproni, che erano allora, quelli che avevano scioperato, e quelli che erano contro… insomma. E poi da Brescia sono arrivati in diversi. Il giorno 17 ci han fatti partire, e siamo… Noi pensavamo che ci portassero in Germania a lavorare, come si sentiva.

D: Pio, scusa, ti ricordi a Bergamo, vi hanno messo dove?

R: A Bergamo ci hanno messo in una caserma che si chiamava Umberto I, della cavalleria. E lì c’erano dei genovesi, di Savona, c’erano milanesi. Io ricordo tanti nomi di Milano che sono stati con me, Carlo Annovazzi, ricordo Guido Bortolotto, ricordo tanti nomi, Ottolini, Malaguti che era di Torino e lavorava alla Michelin. Erano tutta gente molto più anziani di noi, che noi li chiamavamo i padri nostri, ecco.
Il 17 ci han fatti partire, inquadrati per cinque. Siamo arrivati di nuovo alla stazione di Bergamo. Ognuno portava con sé la sua tristezza. I padri di famiglia pensavano ai loro figli, e ci hanno fatto un discorso prima di partire, un ufficiale tedesco ha detto: “Voi adesso, vi porteremo tutti a lavorare per la grande Germania, per il nostro Fuhrer. E state attenti di non scappare perché noi abbiamo il vostro indirizzo e faremo rappresaglie sulle vostre famiglie”. Questo me lo ricordo benissimo, e l’ho anche scritto. Dopo… adesso non ricordo se siamo arrivati alla sera del 19, mi sembra, a Mauthausen. Dopo tutto il tragitto… Siamo passati per Tarvisio nel Friuli; ricordo che a Verona e a Casarza abbiamo buttato giù dalla tradotta dei bigliettini scritti, e difatti io ne avevo messo anche giù due o tre a casa mia. M’avevano detto che l’avevano ricevuto ma non me l’hanno mai fatto vedere i miei fratelli, la mia famiglia, perché quando ero arrivato sono successe delle altre cose che racconterò dopo.
Quel viaggio è stato molto sofferto da tutti perché noi giovani cercavamo di scappare, invece i padri di famiglia ci intimavamo di non farlo perché era pericoloso non solo per noi ma anche per la nostra famiglia. E quindi nel mio vagone almeno posso dire che nessuno è scappato perché non abbiamo avuto la possibilità. E siamo arrivati a Mauthausen. Quando siamo arrivati alla stazione, quello che posso ricordare dopo un viaggio sofferto e patito: di arrivare in una terra dove non capivi neanche a parlare, ti davano degli ordini in quella lingua che noi non conoscevamo e non capendo stavi fermo e loro ti picchiavano a morte. Un bel momento, scesi dal treno ci hanno inquadrati per cinque, in quell’attimo io… C’erano due, uno era un infermiere che lavorava all’ospedale qui di Torino, al Mauriziano, l’avevano arrestato perché portava una camicia di colore rosso. E quando siamo arrivati lì a Mauthausen, più avanti ha visto che c’era suo figlio, Afro, e l’ha chiamato. Si sono abbracciati e poi ha detto: “Ma guarda qui dove ci troviamo… Io nella guerra mondiale del ‘15-‘18 sono stato ferito e nell’ospedale in Italia [dove] mi avevano portato ho sentito dire che i prigionieri militari li portavano a Mauthausen, e adesso qui sono arrivato con mio figlio”.
Io con loro ho vissuto una storia, che l’ho anche spiegata. Insomma, ci hanno portati su a Mauthausen, dove abbiamo subito le pene dell’inferno. Arrivati lì dove adesso ci sono i monumenti, sia a destra che a sinistra c’erano le baracche delle abitazioni dei guardiani delle SS. Ci buttavano addosso dei catini d’acqua che usavano per farsi la barba, degli sputi, ci tiravano addosso qualsiasi cosa, ci chiamavano banditi traditori italiani, fascisti traditori, comunisti, tutti i nomi, e via dicendo.
Poi una volta che siamo entrati dentro ci hanno messo lì di fianco e un ufficiale tra il muro dove adesso ci sono delle lapidi e via dicendo, in attesa del bagno, della doccia.

D: Scusa Pio, partendo da Bergamo nel tuo Transport c’erano anche delle donne?

R: Io ero giovane allora, non ho potuto vedere le donne, non mi ricordo. Però so della gente, ad esempio c’è un avvocato che adesso non c’è più di Cuneo, Bonelli ad esempio, che l’ha anche scritto questo, che c’erano delle donne, mi sembra 17 o 30 non mi ricordo più, però io personalmente non le ho viste le donne. Non lo nego per carità, se l’ha detto è perché c’erano. Quando ci hanno messi lì in colonna per aspettare la doccia, un ufficiale ci ha detto che quel portone lì quando siamo entrati era la porta per entrare e uscire per andare a lavorare. Poi si è girato – sempre con quell’italiano mal parlato, qualche parola in tedesco – ha puntato il dito verso la canna del forno crematorio che allora non sapevamo neanche che cosa era, che fumava, e ha detto: “Quella è la strada per andare a casa vostra”. Queste sono le battute che mi ricordo bene.
E quindi poi di lì ci hanno svestiti. Quello che ricordo io, ad esempio, a me mi hanno spogliato sopra, dove adesso esiste una cappella cattolica. Allora era divisa in due parti: da una parte c’era le SS, blocco scrivani e via dicendo, e la prima parte era vuota, faceva freddo, nevicava. Ci han fatti salire lì e ci han detto: “Lasciate la vostra roba lì a terra, prima della doccia, oro, brillanti, tutto quello che avete lasciatelo nelle tasche, noi tanto abbiamo il vostro indirizzo, manderemo tutto a casa vostra”. Queste sono le cose che ricordo con tanta lucidità. E con memoria visiva.
Poi nudi ci hanno fatto andare sotto, sotto c’era una fila di Friseur, cioè barbieri, che con una macchinetta ci rapavano i capelli, e chi aveva la barba lunga anche la barba. Poi passavano il rasoio, facevano l’Autobahn, la Straße, in mezzo alla testa col rasoio. E poi prima di entrare nella doccia con un pennello ci disinfettavano da tutte le estremità superiori e inferiori, con dei liquidi che bruciavano da morire. Ho visto delle cose che non mi va neanche di raccontarle. Quando ci hanno spogliati c’erano degli uomini che piangevano. Diceva: “Era il regalo che mi aveva fatto la mia Rita”. L’altro diceva altre cose, e noi giovani non avevamo nessuno, io che cosa avevo? Il pensiero della ragazza, qualche cosa così, mi aveva regalato il maglione per andare nei partigiani. Tutte queste cose, le nostre cose care che ci tenevamo ci hanno spogliato. Avevamo… una catenina d’oro di poche lire, che mi aveva regalato il padrino della cresima e via dicendo, insomma tutti questi ricordi, ci hanno spogliati di tutto. Siamo stati nudi come mamma ci ha creato, dal ragazzo di 17-18 anni al vecchietto di 70 anni, eravamo tutti uguali. Noi non eravamo abituati a presentarci nudi e via dicendo, ne soffrivamo un po’ di vergogna.
Poi una volta passata quella famigerata doccia, coi bruciori infernali, nell’uscire ci han dato una camicia e un paio di mutande, di tela, e noi dovevamo indossarle immediatamente e poi prendere un paio di zoccoli che ci davano anche spaiati e metterle nei piedi e salire sopra al freddo. Sopra dovevamo aspettare almeno di essere in 100-150 prima che ci portassero via, e lì prendevamo freddo da morire, i primi malanni sono successi a quelle persone più deboli, subito, due tre giorni dopo.
Abbiamo fatto quattro giorni di quarantena con delle botte, trattamenti ingiusti, trattamenti infernali. In quella quarantena abbiamo sofferto perché arrivando da un paese che più o meno eravamo a casa nostra, di fatto una vita normale, trovandoci là, trattati peggio delle bestie: noi non avevamo più il nostro nome, ci chiamavano con un numero che noi non conoscevamo. Dopo quattro giorni di quarantena, maltrattati a morte – dormivamo per terra come le acciughe – il mattino ci hanno portato il vestito a righe con un berretto e ci hanno portati a Gusen I dove ci hanno messi in un campo a lavorare per costruire Gusen II. È stato un momento più massacrante, in quanto non abituati. Eravamo tutti sofferenti, dal contadino all’avvocato all’insegnante al professore, eravamo trattati tutti ugualmente. Poi la Pasqua. È arrivata la Pasqua.

D: Scusa Pio, l’immatricolazione di Mauthausen, ti ricordi il tuo numero?

R: Cinquantotto mila ottocento diciannove [58719]. E in tedesco venivamo chiamati con un nome diverso, perché… l’avessero almeno chiamato in italiano! A Gusen, quando il mattino era ora, ci portavano a lavorare dopo l’appello, in quei lavori di campagna, a spalare terra, spingere carrelli, lavori pesanti, sotto la pioggia, sotto la neve, nel fango. Ci chiamavano con un nome in tedesco che noi non conoscevamo, e allora loro ci giravano attorno, poi avevano delle gomme con dentro dei cavi di rame eccetera, e di piombo: picchiavano a morte. Se era uno un po’ robusto magari li sopportava, se era una persona già anziana piena di acciacchi il giorno dopo finiva al forno crematorio. Lo vedevamo steso nel Waschraum, cioè nelle latrine, in un angolo, alla sera, morto, con il numero scritto sul petto per traverso. Scrivevano con una matita copiativa, gli scrivevano il numero e lo scaricavano poi al forno crematorio che era morto. Succedeva spesso che tante volte, degli errori… che il capoblocco non l’aveva scaricato, l’appello durava delle ore per trovare lo sbaglio dove era andato a finire. E noi dovevamo restare sotto la pioggia, sotto il freddo, sotto la neve perché c’era stato… Mancava due Stück! Perché noi venivamo chiamati “Stück”. Per esempio a Mauthausen le SS ricevevano degli ordini… Allora erano più di 40 sottocampi nell’Austria, di lavoro, dove ci mandavano noi, e gestiti dalle imprese, ad esempio a Linz ce n’erano tre: Linz I, Linz II, Linz III. Io sono stato a Linz I poi a Linz III. Quando le telefonavano di lì, che avevano bisogno di duecento… non dicevano duecento uomini, dicevano “zweihundert Stück”, in tedesco, duecento pezzi. Noi eravamo diventati dei pezzi, di lavoro, destinati certamente poi a morire e passare per il forno crematorio. Questo era il sistema nazista. Quando l’abbiamo capito era tardi. Tante volte ho pianto sulla piazza d’appello, quando vedevo impiccare poveri ragazzi perché erano stati messi a fare un lavoro che non erano capaci. Sbagliando, venivano considerati come sabotatori, impiccati sulla piazza d’appello davanti a noi tutti. Quante volte un padre ha visto suo figlio impiccato o il figlio impiccare suo padre, anche. Queste cose diverse volte le ho viste, e senza avere esagerato, solo dire quello che ho visto. Poi oltretutto arrivava la domenica nei sottocampi e loro dovevano avere un divertimento, le guardie delle SS. E loro per avere un divertimento, [a loro piaceva] vedere lo sport, il pugilato, e obbligavano questi detenuti a picchiarsi, addestrarli, poi alla domenica… Io mi ricordo uno che era di… Mugnaini, si chiamava di cognome, era di Firenze, era l’unico che aveva fatto il pugile nella sua carriera. Era del ‘15, ed era molto più anziano di me: io ero del ’24 quindi lui aveva nove anni più di me, io allora avevo vent’anni e lui ne aveva ventinove. L’abbiamo pregato, dico: “Fai te al posto degli italiani il pugile, se hai fatto il pugile!” Era magro, così, piccolino. Hanno cominciato a fare l’incontro a eliminazioni, nazione contro nazione, francesi contro italiani, polacchi contro francesi, a eliminazione così, russi, c’era tutta l’Europa lì ecco, c’è poco da dire. Davanti hanno fatto dello spazio, nella baracca davanti, c’erano tutti questi ufficiali e gendarmi delle SS che guardavano, eccetera. Noi un po’ fuori dai vetri guardavamo dentro con rancore a vedere i nostri compagni lì che si picchiavano per la bellezza… e anche questo era un sistema per eliminare…

D: Questo a Gusen I o anche a Mauthausen?

R: Questo che io racconto l’ho visto a Linz I. È un campo che dopo, verso la fine di giugno, è stato eliminato dai bombardamenti dove sono morti diversi prigionieri anche. Io per fortuna lavoravo di giorno ed ero in fabbrica, ci hanno fatto attraversare uno stradino, ci han portato sotto un rifugio. Da quel bombardamento lì mi sono salvato. Poi eravamo soggetti ai bombardamenti, continuamente, in quanto lavoravamo per costruire, dopo due o tre giorni arrivavano e bombardavano di nuovo. Questo era il sistema.
Quel sistema lì diciamo a Linz, dov’ero addetto al comando dello “Stallbau” [Baustelle, cantiere, ndr], dove si lavorava l’Hermann Göring, dove si costruivano i carri armati tigre, e io facevo il saldatore, lo Schweißer. Ero già meccanico, quindi di conseguenza è stata una sciocchezza per me da fare tornitore, conoscevo il disegno e via dicendo, lavoravo già al tornio, alla rettifica e tutto quanto. Per passare al ramo saldatura, era stata una sciocchezza in quanto ero già capace anche a saldare. E saldavo anche bene, mi sono guadagnato il posto da saldatore, lì all’Hermann Göring, facendo dodici ore di lavoro massacrante, di giorno una settimana e una settimana di notte.

D: Parlando di Linz I, il campo dov’era rispetto alla fabbrica?

R: Era proprio davanti al reparto, era vicinissimo, ci sarà stato cento metri. Il magazzino delle lamiere, finiva quasi al confine col campo, diciamo. Erano tre baracche, che l’ho disegnato anche sul libro [Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice – Memoria di sette lager, Dell’Orso, Alessandria, 1998] ho fatto tutti i disegni dei campi che sono stato, una di qua e l’altra di là e l’altra per traverso così… la terza era la cucina e il magazzino dei viveri.

D: Eravate in pochi come deportati.

R: Ah, sì saremo stati 700-800 forse, anche mille certe volte, ma non di più perché non aveva la capienza.

D: E a Linz I sei andato dopo Gusen I?

R: Sì, a Linz I sono andato dopo Gusen I. Poi da Linz I, dopo il bombardamento ci han trasferiti a Linz III. Linz III era un campo che era un po’ in basso dalla strada, un paio di metri, la strada andava leggermente in discesa. Appena entrati a sinistra c’erano le cucine, e poi in fondo c’era la piazza appello, a metà si girava una stradina a sinistra dove c’erano venti baracche. Quest’anno abbiamo trovato il sito, tramite una professoressa che vive in Austria, storica. Siamo andati con gli studenti, c’è anche la foto che mi hanno fatto, dove lì adesso ci sono più le fotografie dove esisteva questo campo con le venti baracche, come ho fatto io il disegno che mi ricordavo. E queste venti baracche erano tutte in fila, davanti allo stradino. Bisognava attraversare lo stradino per andare a fare i nostri bisogni alle latrine, o lavarsi. Erano delle baracche quadrate, ogni tre baracche avevamo questo servizio, diciamo. Però c’erano minimo 600 prigionieri [in] ogni baracca.

D: Linz I era vicino a Linz III o era molto distante?

R: Linz I da Linz III era poco distante, ci sarà stato tre chilometri di marcia a piedi, su per giù, che ricordo io. Però andavamo sempre a lavorare nella stessa fabbrica.
Quindi questo lavoro, fin quando sono stato a Linz III, è durato fin nel novembre… dopo il 20 di novembre del 1944, in quanto, penso, per mancanza… cioè i bombardamenti avevano quasi distrutto completamente l’industria bellica. Allora un bel mattino ritornando dal lavoro, dopo l’appello, sono entrati dentro degli ufficiali delle SS, con i gendarmi col mitra e hanno diviso… hanno selezionato i prigionieri, “links rechst, links rechts”, senza sapere cosa succedeva. Quelli che hanno mandato a destra li hanno mandati in baracca a dormire, quelli che han mandato a sinistra sono arrivati dei camion, ci hanno caricati sopra e ci hanno portati di nuovo a Mauthausen. Io in quel periodo lavorando in fabbrica avevo conosciuto dei militari italiani e avevo avuto modo di avere un piccolo quadernetto, qualche foglio di quaderno piegato, me lo tenevo in tasca, con una matita copiativa, dove mi prendevo degli appunti.
Avevo capito che andavamo a Mauthausen sul camion, e allora quegli appunti che vi avevo preso – ad esempio su tutte le memorie, nomi di compagni italiani e stranieri, le impiccagioni, chi avevano impiccato, le date, tutto tutto quello che succedeva – l’ho buttato dal camion perché avevo paura di… l’ho buttato dal camion, però mi è rimasto impresso nella memoria quello che avevo scritto, più o meno. Arrivati a Mauthausen ci hanno spogliato di tutto. Noi eravamo oramai… era otto mesi che avevamo i vestiti strappati addosso, pieno di pidocchi. Siamo di nuovo passati alla disinfezione, ma questa volta invece di usare il pennello ci hanno buttati dentro una vasca di creolina, cos’era, con la testa sotto, gli occhi bruciavano. Poi siamo passati alla doccia, ci hanno dato un altro vestito. Il giorno dopo, assieme a tantissimi altri che erano arrivati a Mauthausen da altri campi, malandati di salute, deperimento, ci hanno portati a Mauthausen, ci hanno caricati su una tradotta e siamo arrivati a Birkenau. Destinazione ignota, nessuno sapeva dove ci portavano.
Siamo arrivati a Birkenau. Sul foglio della Croce di Arolsen [archivi di Arolsen, ndr] dice l’uno o due di dicembre, però a mia memoria siamo arrivati molto prima, qualche giorno prima… che poi le registrazioni venivano fatte anche dopo, questo è possibile che sia stato così.
Poi ci hanno mandati… Siamo arrivati lì, in quel grande lager, e ci ha impressionato per la grandezza, per quello che vedevamo. A sinistra c’erano tutte donne, che tiravano dei carri di patate di verdure, eccetera, la kapò e gli ufficiali che ridevano, e facevano frustare queste donne, come schiave, rapate a zero. E noi purtroppo avevamo già subito queste umiliazioni prima, ma capivamo che lì era ancora peggio. Poi lì passavamo davanti all’ufficiale, dottore, dicevano, delle SS, poteva anche esserci Mengele assieme, chi lo sa? [Josef Mengele, ndr], e ti davano una destinazione, links o rechts, sinistro o destro. Nessuno di noi poteva sapere cosa succedeva ad andare a sinistra o destra, ognuno di noi oramai abituati al trattamento avevamo già fatto il callo. E chi mandavano a sinistra, a me fortunatamente mi hanno mandato a destra. Finita la selezione ci hanno mandati un po’ distanti di qualche chilometro, in un posto dove ricevevano i prigionieri, e lì siamo passati prima di tutto alla spoliazione, poi ci han fatto il tatuaggio sul braccio. E quello che io ricordo… c’era l’ufficiale che teneva la lista in mano del trasporto e con noi c’erano anche degli ebrei, specialmente ungheresi perché si distingueva dal modo di parlare. E gli ebrei li avevano scelti, andavano a farsi immatricolare in un’altra fila, e venivano immatricolati qui sopra [indica la parte esterna dell’avanbraccio, ndr], mentre gli ariani venivano immatricolati di qui [mostra il tatuaggio, all’interno dell’avambraccio sinistro, ndr]. Questo quello che ricordo io… difatti io non ho mai visto – sono stato assieme a tanti ebrei – non ho mai visto un ebreo immatricolato da questa parte [indica l’interno dell’avambraccio, ndr].
Questa è stata una memoria che ho sempre portato avanti, che poi dopo è venuta fuori… Nel momento, quando siamo tornati, non potevamo raccontare queste cose, perché nessuno ci credeva.

D: Pio, due cose: quando sei arrivato ad Auschwitz II, a Birkenau, il treno è entrato dentro nel campo?

R: Sì, sì è entrato dentro, si è fermato dentro, fino in fondo. Ha fatto una grande curva molto grossa, perché arrivava diritto così, poi ha fatto una grande curva così, è entrato dentro al lager fino in fondo, là c’erano due o tre binari… Arrivavano continuamente i convogli. Io mi ricordo che alla sera, era già notte, finita la doccia e l’immatricolazione… perché prima ci hanno immatricolati, poi ci hanno fatto fare la doccia, c’hanno detto che questo [il tatuaggio] doveva asciugare, di non fregare col dito, sennò erano botte.

D: La seconda cosa è proprio l’immatricolazione. Tu ti ricordi? Te l’hanno fatta in piedi… seduti..

R: In piedi in piedi. Così, mi hanno fatto mettere il braccio così, appoggiato a qualcosa lì, e il prigioniero era da quella parte lì che scriveva, difatti [indica il numero tatuato, ndr]. Poi c’era quello che era più abile che lo faceva meglio, si vede che chi l’ha fatto a me era uno specialista, poi ce n’era degli altri che lo facevano più rosso e via dicendo. Perché erano tutti prigionieri che facevano quello, non erano…

D: Tutti deportati.

R: Tutti deportati! Ognuno aveva un compito ben preciso, anche ad esempio – che poi si è saputo dopo – in zona del comando, che erano addetti a fare quel lavoro lì, dei forni crematori, no, tirare fuori i cadaveri dalle camere a gas: erano tutti prigionieri. Figuriamoci cosa provavano in quel momento. Oltretutto potevano avere una vita di due o tre mesi, non di più, perché poi li cambiavano, non ci dovevano essere testimoni che raccontassero queste cose. Era una cosa studiata a tavolino, perfettamente, perché lo sterminio lo facevano fare dagli stessi prigionieri.

D: E tu a Birkenau quanto tempo sei rimasto?

R: Poco, diciamo tre o quattro giorni per la quarantena in una baracca, poi il primo trasporto che c’è stato hanno chiamato il mio numero e a piedi ci han trasferiti a Auschwitz III, cioè a Monowitz.

D: Il tuo numero di Birkenau qual è?

R: Duecentouno mila cinquecentosessantuno [201561]. In tedesco veniva chiamato diversamente: zweihundert[ein]tausend fünfhunderteinundsechzig. Ho dovuto anche memorizzare, oramai la numerazione la conoscevo già abbastanza bene, perché se uno non capiva cosa succedeva quando ti chiamavano il tuo nome… perché noi eravamo solo che dei pezzi, non eravamo più creature umane, quindi botte da orbi. Lì ci avevano preso in giro strada facendo. Ci raccontavano ogni tanto sorridendo le SS: “Arbeit [kochen]?” Cioè, di voi chi è capace a fare il cuoco? Tutti eravamo capaci a fare il cuoco in quel momento. Loro ridevano, ce l’avevano detto apposta, perché ci avevano promesso che ci mettevano tutti a lavorare a far da mangiare in cucina o pelare patate. Strada facendo eravamo abbastanza contenti. Poi quando siamo arrivati là, la tortura del lavoro… Ci han messi in un campo dove dovevamo spalare terra nel gelato, battere tutto il giorno nel ghiaccio… perché lavoravamo a venti gradi sottozero, ventidue, diciotto d’inverno, tanto di quel freddo, ogni tanto moriva qualcuno. Scaricare vagoni di cemento sfuso. Quando era mezzogiorno noi avevamo la gamella attaccata alla natica del sedere, perché dovevamo avere la gamella per prendere quella brodaglia che ci davano a mezzogiorno. Ci facevano uscire dal vagone impolverati e non sembravamo neanche più persone, avevamo il cemento incollato dappertutto… e la gamella figuriamoci: secondo loro noi avremmo dovuto mangiare quella brodaglia nel cemento, e allora cercavamo – fortunatamente c’era la neve – prendevamo la neve da sotto i piedi e ci pulivamo la gamella, così, e poi con il gomito l’asciugavamo un po’, la pulivamo come potevamo. Eravamo sempre sporchi, luridi, perché non avevamo mezzo di cambiarci. Oltretutto dovevamo lavorare sotto la pioggia, sotto la neve. Insomma, è stata una cosa che a raccontarlo non sembra vero, eppure io sono ancora qui a raccontare queste cose. Mah!

D: Questo a Monowitz?

R: Sì, a Monowitz.

D: Alla Buna?

R: Sì, alla Buna. Portavamo delle travi quando non ci facevano spalare il cemento sfuso, portavamo delle travi di cemento armato a una impresa che montava dei piccoli capannoni, bassi capannoni, per la IG Farben. Queste travi erano pesanti, di cemento armato, dovevamo portarle a spalle, e io ero assieme a quattro o cinque italiani che erano friulani. Mi ricordo benissimo, tre erano friulani, uno era il padre, e altri due erano i suoi figli, due fratelli. Quando prendevamo queste travi sulle spalle – il padre era più alto, era uno molto alto, magro, per forza era magro, poverino, soffrivamo tutti la fame – ogni tanto si sentiva più peso addosso e noi non ci arrivavamo tutti a… Si sentiva stroncare, e allora nel dialetto friulano diceva: “Ostrega Bettin, te m’accoppi, te m’accoppi”, e noi facevamo tutto il possibile per arrivarci su, e lui si abbassava e il figlio gli diceva: “Abbassati papà, abbassati papà, dacci dai più peso a noi!”. Lui poverino faceva in modo di… Abbiamo sofferto le pene dell’inferno, cose che nel mondo purtroppo ogni tanto se ne sente ancora, sono cose vergognose.

D: Pio, il campo di Monowitz, le baracche eccetera, rispetto al luogo di lavoro, era distante? Dov’era?

R: Diciamo, abbastanza distante, sì, non erano vicine. Tanto è vero che noi dovevamo fare una strada nel ghiaccio dove a gennaio, nei primi giorni di gennaio, ogni tanto vedevamo già delle colonne di tedeschi che si ritiravano, e sentivamo già i cannoni a suonare il fronte che era vicino, magari sarà stato cento chilometri, chi lo sa. Noi non potevamo sapere niente.
Ma quello che più ricordo lì, poi alla fine quando ho dovuto… posando una trave per terra, con questi miei compagni di lavoro, mi è andata sul piede destro, che mi ha marcato il piede per tutta la vita. Fortunatamente nel ’97 ho poi trovato un dottore francese che è riuscito a mettermelo a posto, con un intervento. Ho sempre portato delle scarpe con tre numeri in più se no non potevo camminare. Sono stato colpito su questa trave di cemento armato, ho sofferto le pene dell’inferno per arrivare la sera a casa, cioè a casa… nel campo di concentramento. Non potevo più camminare, sorretto dai miei compagni, perché io non mi arrendevo, avevo coraggio, mi facevo coraggio, mi facevo forza. Dopo, quando sono arrivato in baracca mi hanno mandato a Revier, cioè al “kabè”, lo chiamavano “kabe” l’ospedale. E lì l’infermiere o il dottore che mi ha preso in cura mi ha medicato i piedi, tutti e due perché anche il sinistro era un po’ colpito ma solo sull’alluce, invece il destro era molto rovinato. Io temevo che fosse rotto, e allora quando me l’ha fasciato poi con della carta e tutto, mi ha detto qualcosa in polacco che io non ho capito, e io dicevo: “Nicht verstehen”, parlavo in tedesco, “non capisco”. In polacco qualche parola la capivo, ma dicevo che non capivo. Lui è andato fuori poi è tornato dentro con uno che parlava bene l’italiano, un prigioniero come me, e quando è stato lì m’ha detto:
“Sei italiano?”
“Sì”
“Di dove sei?”
“Di Torino”
Mi ha guardato.
“Sei ebreo?”
“No, sono cattolico”, ho detto la verità, avevo il triangolo
“Mi ha detto il dottore di dirti che non c’è niente di rotto, però ti tiene qui due tre giorni perché non puoi camminare, col piede che hai, va a finire che…”.
Difatti mi ha dato un posto per dormire tutto per me. Ho dormito due o tre giorni, giorno e notte, quando era ora della zuppa me la portavano, i primi due giorni. Due giorni dopo andavo alla medicazione, nel corridoio ho incontrato questo italiano. La curiosità di entrambi… ci siamo incontrati con lo sguardo, ci siamo salutati e poi gli ho detto a lui:
“Ma tu di dove sei?”
“Anch’io sono di Torino, sono ebreo, sono stato arrestato in montagna, e adesso mi trovo qua. Fatti coraggio – m’ha detto – vedrai che tutto finisce presto.”
È finita così, al 17… al 16 sono uscito nel pomeriggio dal kabè, con il mio piede fasciato, avevo avuto la fortuna di avere un paio di scarponi ancora in buono stato. Al 17 siamo partiti, almeno almeno la metà dei prigionieri che eravamo lì. Ci han fatto partire per l’evacuazione del campo, ed ecco perché… io che avevo questa memoria, non ho mai scritto, avevo tutte queste memorie, e raccontavo ogni tanto e nessuno ti dava retta, un bel momento ho scritto. Nel 1986 incontro nel congresso a Torino Primo Levi, ci mettiamo a parlare. Ho detto che c’ero anche io lì alla Buna, ci siamo abbracciati. Gli ho fatto vedere la matricola, gli ho spiegato quell’affare del kabè, e lui mi ha detto: “Ma io mi ricordo: eri te quel ragazzo?”, dico: “Si ero io”. E allora tutte queste memorie un bel momento… Io ho conosciuto un professore, tanto caro, che mi ha aiutato a realizzare queste memorie, e penso che ne valga la pena. Perché anche poi dopo nel tragitto della marcia della morte, tutti quelli che sono morti uccisi per le strade, prima li caricavano su delle slitte, le troike chiamate, li buttavano lì come dei sacchi di patate. E poi han fatto delle fosse comuni, andando avanti li buttavano dentro, li seppellivano lì. Queste cose sono rimaste, sono ancora là da vedere adesso, le abbiamo trovate.

D: Pio, ma quando voi avete evacuato la Buna, Monowitz, a piedi vi hanno messo?

R: Sì.

D: Diretti dove?

R: Noi non potevamo sapere dove eravamo diretti, era una destinazione ignota. Sapevamo che ci portavano all’interno della Germania – potevamo pensare – però nessuno sapeva di noi. Il giro che ci hanno fatto fare, i chilometri. So che abbiamo camminato tanto, tanti sono morti per sfinimento, li hanno uccisi, che non potevano più camminare. E poi siamo arrivati al 19 notte sera, siamo arrivati a Gliwice, a Gleiwitz. A Gliwice c’era un piccolo campo già evacuato, ci saranno state dieci o dodici baracche, noi eravamo novemila o diecimila, chi lo sa, dalla colonna che eravamo eravamo in tanti. Arrivati a Gliwice eravamo molto, molto di meno. Siamo entrati in quel campo, i primi che sono entrati nelle baracche ci sono rimasti, ma eravamo in tanti e non c’era posto per tutti e molti siamo rimasti fuori. Qui dovrei raccontare delle storie che sono molto pesanti. Al mattino del 21 di gennaio si sentiva una locomotiva fuori nelle vicinanze, che si muoveva, e poi rientrato nel campo il comandante con le SS e i gendarmi ci hanno spinti tutto in fondo al campo, così ammassati. Poi ci hanno obbligato a passare dietro le baracche e il filo spinato, c’era un corridoio di un metro e mezzo così, o neanche, in fila indiana. Quando arrivavamo all’ultima baracca, davanti c’era il comandante delle SS e gli ufficiali che scartavano: “Links rechts”. Loro lì decidevano chi poteva ancora sopportare un altro viaggio in tradotta o chi era oramai alla fine. Chi era alla fine lo mandavano in mezzo alle due baracche che c’erano in fondo. In mezzo alle due baracche c’era già… un po’ di prigionieri lì, io adesso non posso fare il numero perché è difficile. Quando passo io lì, con un piede un po’ zoppicando, si vede che loro han detto “questo qui bisogna eliminarlo”, e mi han mandato a sinistra. Io sono andato a sinistra. Oramai ero stanco, non ne potevo più, sfinito, non me ne importava più di morire. Oramai ero rassegnato. Ero lì, con gli altri: chi piangeva, chi borbottava, ognuno diceva la sua. Un bel momento il mucchio è diventato grande. Quando è diventato grande alcuni cercavano di scappare e le SS coi mitra sparavano nelle gambe. Qualcuno è stato ferito, piangeva, urlava. Era una cosa tremenda, raccontarlo proprio come l’ho vissuto non si può. A un bel momento, quando ero lì, trovo un altro italiano che conoscevo già da Mauthausen. Si chiamava Pasquale, lui era di Latina, aveva subito il trasporto mio, la stessa trance, diciamo. Ci siamo incontrati, ci siamo abbracciati, e lui fa: “E’ finita. Andiamo in baracca prima che… prima di morire, che tanto qui fa freddo”. Faceva un freddo terribile. Ci siamo seduti su un pagliericcio, di quei castelletti a tre piani. Davanti a noi, abbiamo guardato, c’era una divisa da prigioniero francese, col triangolo francese, e l’abbiamo guardato e abbiamo detto: “Ma tanto a noi non ci serve neanche più a fare le pezze da piedi, cosa la prendiamo a fare?” Eravamo lì così. Ci siamo abbracciati, abbiamo pianto, abbiamo fatto di tutto. Poi un bel momento arriva un ufficiale. Prima, in tedesco, ha detto “Kommandant”, perché là dicevano il Kommandant fuhrer, il comandante e poi dicevano sempre fuhrer. Perché qualcuno, quando io dico questo ride. Era così, là. “Il Kommandantführer ha deciso di graziare gli ariani francesi”. E allora Pasquale lì ha detto: “Porca miseria!”. Noi avevamo un ago nel bavero della giacca, e il coltello dalla parte del manico lo tenevamo molato per tagliare il pane o qualcosa. Abbiamo preso questi due triangoli, col coltello è stato un attimo, li abbiamo scuciti e poi li abbiamo cuciti sopra il nostro. Ecco perché c’è questo, vede? [mostra l’immagine del triangolo stampata sulla prima di copertina del volume Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette lager, ndr]. L’abbiamo cucito sopra. E poi, con la “F” lì siamo passati [mostrando] il braccio, la matricola così, davanti al comandante delle SS, e ci chiama: “Französisch?” E io ho risposto: “Jawohl”. Pasquale ha fatto così anche lui. E ci siamo salvati.
Di quel viaggio ci sarebbe da raccontare un mucchio di cose, ma è tutto scritto. Ci sono stati i francesi ebrei, che poi sul vagone si sono anche litigati un po’, per il trattamento che hanno avuto. Loro avevano ragione a dire: “Se uno deve morire deve essere sempre un ebreo”. Tanto è vero che Primo Levi ha detto che il giorno 18 era passato, negli ultimi dieci giorni – “Se questo è un uomo” – era passato un maresciallo delle SS per assicurarsi che nelle baracche ci fosse uno che facesse il capo, e ha messo un ariano perché non si fidava degli ebrei. L’ha scritto, l’ha scritto lui questo. E ha detto: “Il mattino del 18 è passato l’amico Albert a salutarmi perché partiva per l’evacuazione del campo”. Dice: “Ma, se qualcuno potrà un giorno scriverà la loro storia”. Sono passati cinquantasei anni, questo libro ha raccontato quella storia lì di quel trasporto… fine prima parte

D: Vi siete cuciti il triangolo sulla divisa e vi siete salvati così.

R: Sì.

D: E lì cosa è successo?

R: E poi visto e considerato che siamo stati fortunati a salvarsi, ci hanno messo nella colonna di quelli che venivano inviati nella tradotta. Siamo stati per la strada che stavamo facendo per andare alla tradotta dei carri scoperti, quelli di carbone, abbiamo sentito le mitragliatrici che sparavano e delle urla da non finire, perché li hanno uccisi tutti con le mitraglie. E quindi noi siamo rimasti – io e Pasquale – male, avevamo le lacrime agli occhi, strada facendo ci guardavamo solo così, non c’era più segno di… di niente. Arrivati dove c’era la tradotta, ci hanno fatto salire su dei vagoni molto alti da per terra, abbiamo anche tribolato, ci aiutavamo uno con l’altro. Eravamo 120 –130 per ogni carro, impiombati con pancia e schiena uno contro l’altro come le sardine. Verso sera la tradotta, quando è stata completata, è partita, ha fatto un fischio, poi pian pianino pian pianino, dopo un po’ quando è riuscita a prendere la velocità di crociera, nelle curve… questi vagoni nella curva… chi era in mezzo, cosa faceva… si piegava così e poi con la debolezza, dopo due o tre volte, cadeva sotto i piedi dei compagni e non riusciva più alzarsi perché gli altri si allargavano, e molti sono morti anche così. Il giorno dopo, dopo 24 ore, alla sera, ci hanno fatto fermare in un posto di campagna, e abbiamo scaricato i cadaveri, li abbiamo messi in un vagone dietro dove ce n’erano già degli altri. E poi il viaggio è continuato. So che siamo arrivati… per tutto quel tragitto, ogni tanto in certi vagoni – nel mio non mi ricordo che sia stato fatto quello – ma molti aspettavano che arrivasse la notte, poi i cadaveri li buttavano fuori per farsi più spazio loro. Io mi ricordo che quando sono arrivato a Buchenwald, nel nostro vagone avevamo da una parte i cadaveri impilati, a triangolo così, da una parte e dall’altra, li avevamo accantonati lì e quelli che erano lì vicino ai cadaveri si erano seduti sopra, per riposarsi. Siamo arrivati al 26 del mattino a Buchenwald. Una tradotta che era lunga – anche Beppe Berti ha detto che non si ricordava in tutta la storia di Buchenwald una tradotta lunga così – entrata nel campo, ci hanno fatto scendere e abbiamo aspettato anche due giorni per passare alla disinfezione. Tanti morivano di freddo, allora in quattro lo prendevamo lo portavamo dentro: magari era ancora vivo, però lo caricavano sul carretto che andava al forno crematorio. E quelli che erano riusciti a passare e portare dentro il cadavere, invece di mandarli fuori, passavano subito alla doccia e alla disinfezione e via dicendo, e venivano mandati poi a destinazione nel campo nella baracca. Io con Pasquale – il nostro turno è stato verso dopo la mezzanotte – eravamo sfiniti. Siamo sempre stati assieme fino al momento della doccia, poi ci hanno divisi. Io non so più la fine che abbia fatto lui, se è andato al Revier, se fosse stato male. A me mi hanno destinato alla baracca numero 10, dove ho trovato poi un altro compagno di Torino che ci siamo fatti compagnia e che mi ha aiutato molto. Ho trovato Luciano La Rocca, della Sicilia. Era della Commissione segreta per la Liberazione, ma noi non lo sapevamo. Però ognuno aveva il suo gruppo e noi eravamo sotto il suo gruppo di Luciano La Rocca, io Prato ed altri, Fiori, Giovanni. Lì era un campo politico dove c’era una organizzazione clandestina. Si erano organizzati, c’erano delle armi nascoste. E sono rimasto lì fino alla Liberazione. Devo dire che sono anche stato un po’ protetto dal dottore triestino, Pecorari, al quale ogni tanto al mattino quando c’erano dei trasporti, mi mandavano al Revier perché io avevo una ferita qui da Linz [indica un punto dietro la spalla destra, ndr], quando ero stato ferito e poi per i piedi che avevo feriti. Mi hanno curato. In quei momenti lì, diciamo tra la fine di febbraio fino alla fine di aprile… cioè a marzo, c’erano di nuovo le evacuazioni, ogni tanto venivano dentro il campo le SS per far uscire dei prigionieri. Siamo arrivati a un punto che ce n’erano ottantamila. Li portavano nell’interno della Germania, Mauthausen o Dachau, chissà dove. E lì facevano altre marce della morte. E li facevano uscire dalle baracche con forza.
Io mi sono salvato due volte, le altre volte che mi hanno mandato in Revier mi è andato bene. Diciamo che io posso ringraziare anche la solidarietà che ho trovato dei compagni lì, a Buchenwald, altrimenti…
Ad esempio, Pasquale, che con me è arrivato lì a Buchenwald, poi si vede che è stato preso in un altro trasporto e poi portato a Mauthausen, è stato immatricolato un’altra volta, mandato a Gusen II dove morì mi sembra assieme a Caresio Andrea, il 21 aprile del 1945, pochi giorni prima della Liberazione.
Così ho avuto la fortuna di resistere fino alla Liberazione che è arrivata l’11 di aprile, dall’esercito americano, la terza armata comandata dal generale Patton. È l’unico campo che con la sua organizzazione segreta è riuscito a liberarsi da solo, perché temevamo di essere sterminati prima della Liberazione. Al mattino alle 10 e mezza, sono venuti due apparecchi a fare un volo sopra. Noi avevamo paura che fossero i tedeschi, che buttassero giù le bombe. Poi invece il secondo giro che hanno fatto a bassa quota, abbiamo notato che avevano le stelle bianche sui fianchi: abbiamo capito che erano gli americani e allora è stato un urlo: “sono gli americani, siamo liberi”, così. Poi stop.
Fuori qualche sparatoria, perché dal passo del campo avevano tagliato i fili, erano giù usciti qualcuno, dei più anziani. E invece all’una meno un quarto, io mi ricordo come fosse adesso, che il nostro comando con Luciano La Rocca e altri italiani, siamo usciti dalla porta centrale senza “Mützen ab e Mützen auf”, cioè berretto su berretto giù. Abbiamo capito che eravamo liberi.
Quando dopo l’una, l’una un quarto, l’una e venti, eravamo fuori è arrivata su la prima camionetta americana con il comandante Patton e dietro tutta la colonna, che ogni tanto si fermavano perché sotto a Weimar facevano la resistenza i tedeschi. Noi li abbiamo accompagnati un pezzo, loro ci davano dei biscotti, delle gallette, ci davano del cioccolato. Buttavano giù anche delle sigarette, ma noi… avevamo fame. Poi molti sono morti ancora dopo per la dissenteria, ci è voluto un bel po’ per mettere a posto il campo. Si sono dati da fare, diciamo, per la pulizia, per i pidocchi, per tutto.
Alcuni militari che venivano lì che parlavano anche l’italiano – perché erano figli di italiani [immigrati] in America, e ci parlavano in italiano – abbiamo fatto le fotografie assieme. Qui [nel libro citato sopra, ndr] ce n’è una dopo la Liberazione, fatta il primo maggio, eravamo già tutti gli italiani in una baracca assieme. Così era finita la nostra sofferenza. Però non avevamo la minima idea di quando poteva essere il nostro turno per arrivare a casa, in quanto ogni tanto andavamo a vedere, informarci dal comando, dicevano che le ferrovie non circolavano, i ponti erano saltati e bisognava attendere che gli americani dessero… Difatti, dopo tante tragedie e via dicendo, siamo poi riusciti con molta difficoltà avere un rimpatrio da Erfurt, verso l’8, il 9 di giugno. E siamo arrivati con molta fatica, passando da Bolzano, dove ci ha raccolto la Croce Rossa italiana e ci ha aiutati per il resto del tragitto, in quanto ha cercato dei camion dei mezzi di trasporto, dei corrieri che venivano a Milano. Siamo saliti sopra e ci hanno portato alla Croce Rossa di Milano. Poi quelli che dovevano andare giù al sud, si sono interessati di farli trasportare con altri automezzi. Noi che venivamo in Piemonte, a Torino, so che siamo arrivati a Torino su un camion di autotrasportatori, eravamo una quindicina di torinesi.
Però la tragedia non era finita, in quanto poi abbiamo sofferto: anche solo arrivando a Torino, nessuno ti credeva cosa avevi passato. Io mi ricordo un fatto. Arrivato a Porta Nuova, dopo tanta sofferenza, avevo il mio zaino, ero vestito con della roba usata, ma se non altro pulita, vestito militare americano, e avevo lo zaino con un po’ di porcheria dentro che mi ero portato via di là, dei ricordi. Aspettando il tram tutti mi guardavano con curiosità, eccetera: io ero senza capelli, avevo l’eczema, e certamente che ero da guardare, ero diverso dagli altri. Poi è arrivato il tram, il numero 13, sono salito sopra, e ho ancora avuto dei rimproveri da una donna, una signora, che diceva che “gente come me che puzzava non avrebbero dovuto prendere il tram”. Sa cosa le ho risposto io? “Signora – c’è anche scritto qui sopra [sul libro, ndr] – preghi di non avere nessuno in Germania come sono stato io, e se un domani avesse qualcuno che arriva lo abbracci, senza fare queste insinuazioni, perché io arrivo da un posto della morte”. Tutti gli altri che erano lì, m’han tenuto le parti, io ho solo dovuto stare zitto perché han pensato loro a tenermi le parti. Vede quando uno arriva da una tragedia del genere, che cerca di raccontare quello che ha patito e sofferto, e di essere incompreso, la ferita invece di chiudersi si apriva una volta di più. E per me è stato per molti anni, fin quando… Alla sera andavo a dormire e non riuscivo a dormire, avevo sempre quei ricordi, quelle parole crudeli in tedesco, le sognavo, e [sognavo] come mi avessero picchiato. Poi ho trovato una signorina, che poi è diventata mia moglie. Poco per volta mi sono formato una famiglia, ma quel tempo, la ferita si sarà rimarginata, ma mi è rimasto un segno profondo. E quindi non mi stancherò mai, mai… sia per quello che ho passato io personalmente, ma per tutti quei miei amici e compagni di lotta che hanno perso la vita per la libertà e la democrazia, e una pace che sia duratura.

D: Pio, ti ricordi il tuo numero di Buchenwald?

R: Cento ventitré mila trecento settantasette [123377].

D: Ecco, poi su Buchenwald ritorneremo ancora. Adesso vorrei ritornare un attimo alla Buna: il campo era molto distante dalle officine?

R: Diciamo, distante… io che posso ricordare, non era un’esagerazione perché andavamo a piedi, non eravamo portati con i camion o automezzi. Ci sarà stato quel viaggio di tre o quattro chilometri al massimo, o due e mezzo, io adesso a distanza di tanti anni è difficile calcolare proprio con esattezza. Non era molto distante, era lì nei pressi diciamo, che a piedi in quella mezz’ora tre quarti d’ora si andava e veniva, ecco. Perché noi lavoravamo fino alle sei di sera, alle sette c’era l’appello, quindi alle sette eravamo già in campo per l’appello.

D: Ecco, un’altra cosa, lì alla Buna c’erano dei civili a lavorare?

R: C’erano anche delle imprese che avevano del personale civile, e dei prigionieri militari. I civili polacchi cercavano di apprestarsi di darci aiuto, difatti ogni tanto ci lasciavano scorrere un pezzo di pane, lo buttavano a terra, e chi arrivava prima lo prendeva.

D: Pio, scusa, a Monowitz tu lavoravi alla Buna?

R: Sì.

D: Quindi quando dici le officine intendi la Buna?

R: La Buna, sì. Cioè… Io lavoravo in un cantiere dove stavano costruendo dei capannoni, dei capannoni di cemento. Portavamo il cemento, scaricavamo il cemento sfuso, facevamo delle buche, insomma, era un cantiere grande, che stavano ampliandolo per fare dei capannoni non alti ma bassi. E quindi lì c’era un po’ di tutto, diciamo, non lo so, perché… Poi lì, a Auschwitz III, che lavoravano alla Buna, nello stabilimento, c’era poi anche quelli che lavoravano nella chimica, come forse Primo Levi e via dicendo. Lui, la sua fortuna è stata che aveva una laurea e riusciva a farsi capire, a parlare abbastanza bene il tedesco, è stata la fortuna. Io purtroppo avevo… quando sono stato arrestato avevo un mestiere – e l’hanno anche scritto in tedesco, “Dreher”, Dreher vuol dire tornitore – e allora era un mestiere di prestigio il tornitore, ero un meccanico. Tornitore allora voleva dire conoscere il disegno, e fare tutti i pezzi per montare un apparecchio. Però da meccanico che ero mi hanno poi in ultimo destinato a un lavoro pesante, massacrante, di manovalanza.

D: Se tu ricordi, quando eri alla Buna, a Monowitz, potevate scrivere o ricevere lettere, o pacchi?

R: No, per carità, ma neanche per sogno! Io questo… Per tutto il periodo della mia permanenza di sedici mesi nei campi di sterminio, da Mauthausen fino alla fine, non abbiamo mai potuto scrivere a casa. Questa discussione poi l’ho anche intrapresa con Alberto Berti, che quando m’ha detto che lui scriveva e riceveva i pacchi da casa ho detto “Non bestemmiare, perché a me, a me non mi è mai successo, ma nessuno di noi, nessuno, nessuno ha mai scritto”. Per scrivere bisognava avere… non lo so, non ho mai potuto scrivere, ma nessuno di noi ha scritto a casa, noi italiani. C’erano qualche francese che potevano scrivere a casa, ma non tutti. C’erano i cecoslovacchi che scrivevano a casa e ricevevano i pacchi, c’erano i polacchi che scrivevano e ricevevano i pacchi, ma più tanto di lì… Per quello che so io.

D: Pio, Buchenwald, ti ricordi di aver visto delle donne o dei ragazzetti, dei bambini nel Lager di Buchenwald?

R: Sì dei ragazzetti, sì. Ultimamente, quando sono arrivato io, sono arrivati da Auschwitz, ce n’erano parecchi. Adesso non mi ricordo bene la baracca che erano, ma mi sembra la 17, dove c’era anche Sabatino Finzi, che lui per scherzo chiamava quella baracca “Hotel tre stelle”.

D: E anche delle donne hai visto a Buchenwald?

R: Io non ho mai visto le donne, non mi ricordo di aver visto donne, proprio sinceramente. Senz’altro ci saranno state anche delle donne perché ho sentito anche delle testimonianze di donne che sono state a Buchenwald, però se ci sono state erano chiuse in una baracca, dove ad esempio era anche morta la Mafalda e via dicendo. Io so che quello che ho sentito di Buchenwald l’ho sentito da altre persone raccontare, delle donne. Ma io personalmente, ero un ragazzo di diciannove anni quando mi hanno preso, ho compiuto venti e ventuno anni in quei posti, non mi ricordo di aver visto una gonna, una volta. Mai, mai.

D: E religiosi, ti ricordi se c’erano dei religiosi?

R: Religiosi sì, ce n’erano. Ad esempio, io mi ricordo a Linz I, che c’era un greco, un ragazzo greco di Salonicco, molto bravo. Ma non mi ricordo la religione che era, perché lui digiunava al giovedì… mi voleva bene, parlava correttamente l’italiano, lavoravamo come Schweißer, tutti e due nello stesso posto. Lui al giovedì mi dava la sua zuppa, e anche il pane. Io gli dicevo: “Ma avanzalo per domani” “No, a me la mia religione non me lo permette”. Ecco, questo me lo ricordo benissimo, non mi ricordo più il nome perché sono passati tanti anni, ma di questo ragazzo io mi ero scritto le memorie in quel memoriale che poi ho dovuto buttare via, e ricordo solo quello.

D: Vado a memoria, magari mi sbaglio: era successo a te che nel campo di Linz, ti eri avvicinato al reticolato, che c’era una SS sulla garitta che t’ha lanciato un pezzettino di pane?

R: No, ma non è così. Non è così. A Linz III stavamo noi italiani, era di domenica. Eravamo un gruppo molto affiatato che lavoravamo nello stesso comando, alla quale c’era uno di Bergamo, Obert si chiamava, come lo ricordo io, c’era Malaguti, i nostri padri anziani c’erano diversi. Poi c’eravamo noi giovani, e un bel momento abbiamo intonato una canzone, “Mamma”, e quando abbiamo cantato si sono avvicinati a noi i russi e i polacchi a cantare, ma cantavano nella loro lingua, facevamo la stessa tonalità. Finita la canzone, da quella garitta, un SS già anziano che era là – ha sentito cantare – ha detto: “Italiener, komm”. E noi abbiamo guardato, abbiamo sentito, abbiamo pensato a un richiamo ufficiale e ci siamo spaventati un po’. Poi questo bergamasco, Obert, che era di “Bergamo de hure”, diceva, [sopra, in dialetto, ndr], si è avvicinato, ha detto: “Bitte”. [L’uomo delle SS:] “Alles Italiener, komme. Singer!”. Dice: tutti voi italiani, venite qui sotto e cantate. Allora lui ha detto: “Venite che vuole che cantiamo una canzone”. Siamo andati là, eravamo una quindicina quel gruppo, e quando siamo stati là fa: “Cantate Mamma, Singer Mamma”. E allora noi abbiamo cantato la canzone “Mamma”. Abbiamo cantato la canzone “Mamma”, poi ci ha chiesto di cantare “Lili Marlene”, e noi gli abbiamo detto: “Nicht…”, “non la sappiamo”. E invece la sapevamo! In quella occasione, mentre cantavamo, io notavo le sue mosse, ogni tanto si asciugava le lacrime, e poi un bel momento ha preso uno di quei pani che aveva nello zaino e un pezzo di salame, l’ha avvolto dentro un pezzo di carta, e poi ha detto “Alles, teilt egal!”, cioè “un pezzo per uno, tutti uguali”, e ce l’ha buttato giù, e l’ho preso proprio io, così! Questo sì, è vero, è vero. Bisogna dire tutto, il bene e il male…

D: Da Birkenau alla Buna, vi hanno portato in che modo?

R: A piedi, a piedi. Sono sette o otto chilometri mi sembra. Siamo andati a piedi, abbiamo sofferto il viaggio perché faceva freddo, eravamo male equipaggiati, e quindi era stato molto duro.

D: A Buchenwald, tu eri presente quando hanno fatto entrare nel campo la popolazione di Weimar?

R: Eh, eh, eh, porca miseria se ero presente! Però non ci hanno mai inquadrati, ci hanno messi distanti noi, eravamo là… Allora non portavo gli occhiali ma avevo una vista da fenicottero, vedevo bene e li vedevo che ogni tanto… loro cercavano di guardare da un’altra parte. E poi alla domanda che le facevano “Ma voi lo sapevate che tutte queste cose…” e loro rispondevano che non erano al corrente di niente. Ma l’hanno sempre detto, questo, perché… loro ci vedevano tutti i giorni nelle stazioni, a lavorare nelle fabbriche, attraversare il paese a piedi, maltrattati: si chiudevano magari in casa, o li incontravamo per le strade e via dicendo, tante volte i loro bambini ci hanno preso a palle di neve anche, quindi non possono dire che non ci vedevano. Ancora tanti anni dopo, dopo il processo di Norimberga, [durante] un viaggio che abbiamo fatto nel 1983, il primo viaggio che si sono mossi gli storici e via dicendo, abbiamo poi incontrato dei civili lì a Norimberga. Tramite un interprete tedesco che avevamo assieme, gli abbiamo chiesto se loro erano al corrente, loro hanno detto no, che non erano al corrente, che non potevano sapere. In realtà c’era una disciplina che faceva paura. Questo è vero, che c’era una disciplina che faceva paura, però non potevano dire che non sapevano, perché lo sapevano questo, era impossibile che non lo sapessero. Lo condividevano, diciamo.
Poi, ritornando sul periodo della Liberazione, di Buchenwald, io ho un ricordo molto vivo in quanto l’11 di aprile, all’una meno un quarto, tre anni dopo ero già sposato. È nato mio figlio tre anni dopo, e l’ho preso in braccio io, e mi è venuta in mente la memoria di tre anni prima e gliel’ho detto a mia moglie. Non si può dimenticare quelle cose lì, erano cose fresche, di tre anni….

Vitiello Salvatore

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Sono Vitiello Salvatore. Nacqui a Boscoreale, in provincia di Napoli, il 22 agosto 1915. Venni arrestato a Pola il 5 di agosto 1944, dalla SS, sottoposto a interrogatori, anche con qualche tortura, ma riuscii a non tradire i miei compagni.

D: Salvatore, perché ti hanno arrestato a Pola?

R: Io facevo parte di una cellula partigiana di cinque elementi. Venivamo contattati da un… come chiamarlo… era un certo Nino Vangoni che aveva il compito di coordinare il nostro lavoro. Ogni tanto si facevano delle riunioni di queste cinque persone, a me affidarono l’incarico di volantinaggio di manifestini nei locali pubblici e anche di contattare le famiglie dei partigiani per dar loro notizie e trasmetterle ai partigiani combattenti in Jugoslavia.

D: Tu ti sei stato aggregato alle formazioni partigiane a Pola dopo l’8 settembre [1943]?

R: Dopo l’8 settembre… Io ero a Venezia in servizio nella Marina militare, ero di carriera. All’8 settembre non mi presentai ai tedeschi – bisognava presentarsi sotto minaccia di pena di morte – rimasi latitante per un bel poco, forse… non so, un mese o due. Dopo, mia mamma da Pola – perché non siamo polesi ma la mia famiglia era a Pola, mio papà era un ufficiale di marina, era stato preso anche lui prigioniero, internato nei campi militari, era rimasta a casa soltanto mia mamma – mia mamma riuscì ad avvicinare un maresciallo dell’aviazione, nostro compaesano, e questo qui una volta che venne a Venezia, ci mettemmo d’accordo e mi portò a Pola. Qui, dopo un po’ presi contatto con le formazioni partigiane.

D: E lì ti hanno arrestato le SS.

R: Lì mi hanno arrestato le SS, sì.

D: E ti hanno portato dove?

R: Mi hanno portato prima nelle carceri di Pola. Lì, dopo gli interrogatori, forse sono stato una ventina di giorni, all’incirca. Di lì poi fummo trasferiti a Trieste nel carcere al Coroneo, e dopo forse quattro o cinque giorni su dei carri merci ci trasportarono per via Tarvisio, arrivammo in una località che non ricordo bene quale fosse. In questa località fummo selezionati: una piccola parte ci condussero a Dachau, l’altra [parte] non so dove, probabilmente erano liberi lavoratori che, non so, avevano aderito… [deciso] di collaborare con i tedeschi.

D: Nell’arresto hanno preso tutta la tua cellula partigiana?

R: Le accuse erano quelle che ho detto prima, io naturalmente le ho sempre negate. La denuncia fu fatta da una ragazza con la quale avevo avuto dei rapporti in precedenza; allora chiesi che fossi messo a confronto con questa ragazza per sentire da lei. Questa venne al confronto, confermò tutto, io imbastii una storia, cercando di convincere che questa qui agiva per vendetta, ma in effetti questa si era data ai tedeschi, era diventata un’agente dei tedeschi. Si chiamava Vittorina Torollo, era di Rovigo. Quando ritornai – adesso faccio una breve [spiegazione] – fui chiamato dalla Corte d’Appello di Venezia: qualcuno aveva fatto denuncia di questo fatto, aveva denunciato questa Vittorina Torollo. E la Corte d’Appello mi chiese se io intendevo proseguire, dico: “No, ormai sono ritornato, se la vede lei con la sua coscienza, per me la storia finisce qua”. Mi guardarono un po’ perplessi, mi dissero: “Va be’, contento lei”.

D: Salvatore, al Coroneo eri in una cella da solo o con altri compagni?

R: Eravamo in sette o otto in una cella, una camera… non so cosa fosse. Qui riuscii a procurarmi dei panini tramite i secondini, anche tre o quattro pacchi di trinciato di tabacco che mi servì moltissimo perché arrivai a Dachau che ne avevo ancora. Poi racconterò la storia di questo tabacco.

D: Ti ricordi il nome di qualche tuo compagno di cella?

R: Sì, c’era Chert Pietro, che l’ho visto menzionato nel libro. C’era il colonnello Imparato, che era il direttore dell’Arsenale di Padova. C’era un certo De Tommaso, un insegnante molto giovane di Pola. Ce n’erano altri ma non ricordo il nome. De Tommaso e il colonnello Imparato non sono più tornati, sono morti.

D: Quando ti hanno portato al vagone, al Transport, dal Coroneo, vi hanno portato a piedi?

R: Sì, a piedi.

D: Dove vi hanno portato?

R: Beh penso alla stazione ferroviaria. Penso eh…

D: Eravate ammanettati?

R: No, non eravamo ammanettati. Io, anzi, devo dire questo. Nel carcere ero riuscito a scrivere quattro righe su un foglio di carta e messo in una busta; durante il tragitto la buttai per terra, questa busta fu raccolta e i miei genitori la ricevettero a Bassano del Grappa, perché i miei genitori, nel frattempo, erano sfollati a Bassano del Grappa. In questo foglio io dicevo: “State tranquilli, sono certo che ritornerò”.

D: Nel tuo Transport c’erano anche delle donne?

R: No, eravamo tutti uomini. C’erano degli ebrei, uno particolarmente vecchio, forse avrà avuto più di 80 anni. No, non c’erano donne.

D: Ti ricordi più o meno quanto è durato il viaggio fino a Dachau?

R: È stato abbastanza spedito, rapido, penso una giornata e mezza, non di più.

D: L’ingresso del campo di Dachau come te lo ricordi?

R: Un gran portone, c’era una scritta in tedesco, che poi m’hanno detto che voleva dire: “Il lavoro nobilita…”, qualche cosa del genere [“Arbeit macht frei”: il lavoro rende liberi, ndr]. Subito dopo l’ingresso ci portarono in una sala, ci tolsero tutto, mi lasciarono soltanto la pipa e il tabacco, poi tutto il danaro che avevamo ce lo portarono via, tutto il bagaglio, tutti i vestiti. Prima ci raparono a zero. A noi italiani chissà perché, non ho mai capito, ci fecero il solco in mezzo alla testa: dicevano che questo era uno sfregio che loro facevano perché eravamo ritenuti traditori. Non so se sia la versione esatta oppure no, comunque questo è quello che io so. Dopo la doccia ci vestirono con le tute a zebra, e ci portarono…

D: Vi hanno dato l’immatricolazione?

R: L’immatricolazione è stata successiva, quando eravamo già nel blocco, nel blocco numero 8, che era un blocco di transito. Vi rimanemmo forse venti giorni, forse qualcuno in più, e non ci facevano lavorare. Stavamo lì, ogni tanto ci chiamavano, facevano dei lunghi interrogatori, chiedevano notizie sul nostro conto, sulla nostra infanzia, sulle malattie che avevamo avuto, i nostri genitori, se erano ancora vivi oppure se erano morti, a che età erano morti, se fumavamo, quanto fumavamo, da quanto tempo fumavamo, insomma un mucchio di domande di questo genere. Nel frattempo, ci fecero anche l’immatricolazione, ci dettero il triangolo rosso, il numero, con la “I” sotto il vertice del triangolo, e rimanemmo lì per forse venti giorni.

D: Ti ricordi il tuo numero di Dachau?

R: Mi ricordavo le prime [tre] cifre, le ultime tre non le ricordavo, le ho viste adesso… le prime tre cifre corrispondono a quelle che io ricordavo.

D: E che cos’era il numero?

R: Era centododici… ma ancora adesso non ricordo le tre cifre [finali]. Mentre quello degli altri campi, quelli lì li so perché furono presi dopo la liberazione, che poi racconterò.

D: E lì a Dachau sei rimasto una ventina di giorni sempre nel blocco di quarantena?

R: Sempre nel blocco numero 8, sempre a fare visite mediche, questi interrogatori di cui ho parlato, senza mai lavorare. [Di] episodi particolari ce n’è soltanto uno. Posso raccontarlo, sì, l’unico episodio di un certo rilievo. Una mattina entrò un soldato della SS, noi stavamo fuori, tutti ammucchiati l’uno contro l’altro per ripararci dal freddo. Entrando questo qui, tutti quanti si tolsero il cappello. Io non lo levai il cappello. Allora questo mi guardò e diceva probabilmente di togliermi il cappello, e io rispondevo: “Nichts verstehen”, non capisco. I compagni che mi erano vicino mi dicevano: “Togliti il berretto”. Il berretto non lo levai, me lo levò lui con dei ceffoni e con delle botte. Da quel giorno in poi non portai più il berretto, in tutti i posti dove andavo, il berretto lo buttavo via.

D: Salvatore, la vestizione cosa comprendeva, oltre alla zebrata?

R: A Dachau ci dettero una specie di panciotto di carta crespata, aveva una fettuccina che si girava attorno, e basta. C’erano delle scarpe e come calze davano degli stracci da avvolgere attorno al piede. In complesso di Dachau non posso dire gran male, perché noi non lavoravamo. Era un cortile chiuso dove stavamo noi, c’erano due ali, al centro c’era una gran vasca rotonda con tanti rubinetti, ci si poteva lavare con facilità, abbastanza agevolmente. Nelle capanne [baracche, ndr] dove si dormiva c’erano dei castelli grezzi con dei pagliericci imbottiti di paglia, o di altre cose del genere. In definitiva era sopportabile. Al mattino ci davano una bevanda calda, credo che fosse tiglio o qualche cosa del genere, a mezzogiorno ci davano un pezzo di pane con un pezzo di margarina, una minestra completamente liquida senza niente dentro, altrettanto la sera. Comunque, dato che non lavoravamo era sufficiente per mantenerci in vita.

D: In quanti eravate circa in un blocco?

R: In un blocco… valutando così, forse centocinquanta, nelle due ali, di sinistra e di destra, forse duecento; non saprei con esattezza perché stavamo sempre fuori per tutta la giornata: al mattino dopo la sveglia non si poteva più entrare dentro in blocco, stavamo fuori. E non eravamo in tanti: forse cento, centocinquanta, non di più.

D: Ti ricordi il nome di qualche tuo compagno di Dachau?

R: Io ricordo questo De Tommaso, ricordo questo colonnello, che tra l’altro era riuscito a portarsi una Divina Commedia, e lui ce la leggeva e la commentava, e questo ci era di gran conforto. Era di gran conforto anche la pipa col tabacco; e naturalmente ero diventato amico di tutti perché tutti quanti facevano una boccata da questa pipa. Poi ad un certo momento il tabacco si esaurì e rimase soltanto la pipa.

D: Salvatore, ti ricordi se a Dachau hai visto dei religiosi tra i deportati?

R: Sì, c’erano. Ma non facevano parte di quelli che erano partiti con noi da Trieste, erano già là. E poi ne venivano di nuovi ogni giorno. Ogni tanto capitava anche qualche internato militare che per qualche motivo, qualche mancanza che avevano fatto, li mandavano a Dachau per punizione, ma temporanea, un mese o due mesi a seconda della gravità del misfatto che avevano compiuto.

D: E dopo venti giorni del blocco di quarantena di Dachau cosa è successo?

R: Dopo passammo una visita medica, e c’era un medico francese che dopo la visita mi disse, testualmente: “Sei un ragazzo robusto, sano, fai attenzione a non farti ammazzare. Se riesci a non farti ammazzare, con molta probabilità potrai ritornare”. Dopo questa visita medica ci portarono a fare una doccia, ci dettero degli abiti civili, però sempre col triangolo. Ci portarono in una stazione, non so quale fosse, e di lì si iniziò un viaggio. Dopo un paio di giorni ci fermammo a Buchenwald, ma di questo campo non posso dir niente perché ci tennero per due tre giorni in un blocco. Dopo ripartimmo subito diretti a Neuengamme. E qui incomincia la vera storia, la vera deportazione, i sacrifici e tutte le brutte cose che abbiamo subito.

D: Quando sei arrivato a Neuengamme ti hanno dato un altro numero?

R: Sì. Non l’ho in mente però ce l’ho scritto, se vi interessa posso cercarlo.

D: E lì cosa ti hanno fatto fare?

R: In prevalenza ci portavano ad Amburgo a scavare macerie, oppure in qualche fabbrica. Una volta capitammo in una fabbrica, penso che fosse di prodotti chimici: c’erano delle vasche all’aperto: in superficie c’era una specie di pellicola, noi dovevamo levarla e accantonarla, non so poi a cosa servisse. Ecco, una cosa devo ricordare, a vantaggio dei tedeschi. Una volta capitammo in una fabbrica di birra. Mentre stavo lì, che facevo il lavoro che dovevo fare, arrivò un giovane della SS, un ragazzo alto, però senza un braccio, evidentemente era stato ferito in guerra. Questo, con fare un po’ riservato, dice: “Italiener, komm komm”. Dico, cosa vorrà questo… Mi portò in uno sgabuzzino, mi mostrò un sacco di orzo, e mi disse: “Essen essen”. Allora io capii, presi questo orzo, mi imbottii tutto, cioè raccolsi quanto potevo raccogliere, e quest’orzo mi aiutò moltissimo a integrare i pasti che ci davano nel campo.

Questo lavoro era particolarmente pesante, non per il lavoro in sé stesso. Noi partivamo al mattino verso le 4 [o] le 5, non era molto lontano Neuengamme da Amburgo, a volte in camion a volte in treno, e poi a piedi in Amburgo per raggiungere il posto di lavoro. Però al rientro non c’era mai un mezzo: era compito dell’accompagnatore, di quello della SS, di trovare un mezzo; a volte questo mezzo si riusciva a trovare alle 10 di sera, una volta addirittura alle 3 del mattino, e noi arrivavamo in campo. Una nota particolare è questa: quando si arrivava in campo – è una cosa veramente che ricordo… – ad accoglierci c’era sempre una banda musicale che suonava Beethoven oppure Mozart oppure altre cose. E poi entrati in campo, ci distribuivano l’unica minestra della giornata, e si andava subito a letto. Capitava spesso però che il conteggio non tornava, allora ci facevano alzare di nuovo [ed andare] in piazza, finché la conta riusciva a quadrare. Una volta, evidentemente per capriccio di qualcuno, ci fecero spogliare nudi, al freddo, di notte, cosa diciamo… così, senza nessun senso insomma. Però la cintura ce la fecero mettere attorno alla vita, nudi.

D: Neuengamme come te lo ricordi? Più grande di Dachau o più piccolo di Dachau?

R: [Del]l’estensione di Dachau non ne ho idea perché rimanemmo sempre chiusi in quel cortile; soltanto una volta ci portarono in una piazza dove c’erano delle forche e ci fecero assistere all’esecuzione di impiccagione di alcuni russi che avevano tentato di rubare delle patate dalla cucina. Ma dell’estensione di Dachau non ho nessuna idea.

D: A Neuengamme quante baracche erano, ti ricordi?

R: No, comunque era abbastanza grande, ma non saprei rispondere a questa D.

D: Il campo era recintato?

R: Sì, certo, era recintato, sì.

D: Ti ricordi delle torrette?

R: Le garitte, beh, quelle c’erano in tutti i campi, non ricordo particolarmente che ce ne fossero a Neuengamme ma penso che ce ne siano state anche lì.

D: Nella baracca di Neuengamme eravate in molti deportati?

R: No, direi di no, 40-50 persone non di più. Però c’è un fatto, non se n’è mai parlato. Io non sono stato sempre a Neuengamme. A un certo momento, vicino a Neuengamme, quasi ai confini con l’Olanda, c’era un sottocampo, Meppen. Di questo campo non si è mai parlato. Ma io penso che le cose peggiori succedevano in questi campi [sottocampi, ndr], perché mentre nei campi principali c’erano dei servizi – ci si poteva lavare, poi ogni tanto i barbieri ci facevano la barba, quando i capelli erano un po’ cresciuti continuavano a tagliarli – a Meppen non c’erano. […] Premetto che qui l’avvicendamento avveniva circa ogni due mesi, ma di quelli che arrivavano a Meppen, mettiamo che una percentuale dell’80% non tornava più. Ora, provo a descrivere… è difficile… provo a descrivere quello che era Meppen. Dunque, i blocchi erano senza castelli, per terra c’era soltanto la paglia. Si dormiva tutti sulla paglia. Non c’erano coperte, non c’era niente. Ci avevano levate le scarpe e ci avevano dato degli zoccoli olandesi, senza calze. Sotto, biancheria non avevamo assolutamente niente. In breve tempo iniziò un’epidemia di dissenteria, la paglia dove dormivamo diventò un letamaio. Non c’erano servizi igienici; c’era una latrina all’aperto che per andarci si affondava nello sterco, perché la gente non faceva in tempo ad arrivare che si scaricava, e si scaricava anche durante la notte mentre dormiva; perciò questa paglia era diventata un letamaio. Ad un certo momento i vestiti che avevamo addosso erano diventati quasi duri, pieni di melma e di porcherie.

Ora, quando ci portavano al lavoro, qui non c’era nessuna regola. Si formavano i gruppi spontaneamente, bastava formare un gruppo di cinquanta, e si partiva. C’erano i Vorarbeiter che in prevalenza erano slavi, polacchi, mai un italiano, non ho mai incontrato un Vorarbeiter italiano, e questo è un nostro onore. Ci portavano nelle foreste… boschi, foreste… ci facevano costruire con delle zolle delle specie di trincee, non so a cosa servissero. Io, per non fare un lavoro utile, prendevo queste zolle, le portavo, poi le riportavo indietro, e facevo su e giù. Un francese che era vicino, che mi aveva visto, mi denunciò. Forse per avere un mozzicone di sigaretta o qualche cosa. E allora quello della SS, oltre a picchiarmi, poi ad un certo momento mi tirò un colpo di pistola e mi colpì qui nella [gamba]. C’era uno zingaro che era con noi, riuscì a levarmi questa pallottola, poi prese delle erbe, degli intrugli, me le applicò lì sopra e riuscii a guarire. Dopo una ventina di giorni fui colpito anch’io dalla dissenteria. Naturalmente, sangue nelle feci… Mi decisi allora di andare in una specie di infermeria. Non c’era luce guardi, in questo campo, c’erano dei lumi e basta. Arrivai in questa infermeria, c’era un medico francese, prigioniero anch’egli; mi fece fare una scarica, e, resosi conto che era dissenteria, mi scrisse una “D” sulla fronte, e mi mandò in un blocco dove erano ricoverati tutti questi colpiti dalla dissenteria. Lì trovai dei francesi all’ingresso, nell’anticamera, era già sera, e chiesi: “Dov’è che si dorme?”. Mi fecero cenno: “Lì”. Io andai lì, era tutto buio, e mi buttai, così, senza sapere cosa facevo. Al mattino quando venne la luce mi accorsi che avevo dormito addosso a un cadavere. Mi alzai, camminai un poco e vidi che almeno una ventina di quelli che erano lì erano già morti. A mezzogiorno vennero a portarci un cucchiaio di purè di patate, anzi la punta di un cucchiaio, allora pensai: “Di qui io non esco e qui non ci voglio stare”. Allora andai da questi francesi e dico: “Guardi, io qui non voglio rimanere”. Il medico allora dice: “Va bene, non vuoi rimanere? Allora però al mattino devi andare lo stesso a lavorare, però ti scrivo un’esenzione dal lavoro per cinque giorni, cioè: tu devi andare sul posto però non possono farti lavorare”. E così fu. La sera, rientrando, nel blocco c’era lo sgabuzzino del capoblocco – che generalmente era un criminale o qualche cosa del genere, comunque non era mai un politico – e lì fuori dallo sgabuzzino c’era una stufa. Di notte – penso verso le 2, le 3, quando tutti dormivano, compreso il capoblocco – io mi alzavo, andavo vicino a questa stufa, mi scoprivo e mi mettevo col ventre quasi attaccato alla stufa. Poi prendevo dei pezzi di carbone e di legno, e li ho mangiati. Guarii dalla dissenteria. Ecco, un’altra cosa importante è questa: quando tornavamo dal lavoro, di cinquanta persone, sette o otto morivano. Bisognava riportarli indietro, trascinarli, perché lì non c’era la possibilità di… non era come negli altri campi, che c’era un servizio: li portavamo indietro. E così, penso che in due mesi… non so… una mortalità almeno dell’80%, forse è approssimativamente in difetto.

D: Salvatore, come sei stato scelto tu da Neuengamme per essere mandato nel sottocampo di Meppen?

R: Ci guardavano, ci tastavano, sentivano i muscoli, così. A un certo momento, trascorsi due mesi ritornai a Neuengamme e trovai le cose molto cambiate. Non so, può darsi che fosse il mese di gennaio o febbraio [1945], si avvicinava la fine della guerra. Trovai le cose molto cambiate. Non mi fecero più lavorare, mi misero in un blocco insieme a tutti gli altri ammalati. Non ci curavano, perché forse non avevano neanche la possibilità di farlo, però ci davano del vitto, non dico buono ma sopportabile. Finché un giorno, ci riunirono – era anche una bella giornata – ci riunirono e ci imbarcarono su un treno merci. Prima di imbarcarci però notai questo: delle crocerossine, per la prima volta. Ci distribuirono panini, in gran quantità. Evidentemente ci si allontanava, non so il perché di questo trasferimento. Questo trasferimento forse fu la cosa più brutta di tutto il periodo. Era un treno merci, formato forse da venti vagoni. In ogni vagone si stiparono un’ottantina di persone. Noi salimmo, i primi riuscirono a sedersi, io e un fiumano, un italiano di Fiume, salimmo per ultimi e non trovammo posto a sedere, dovemmo rimanere in piedi. Iniziò il viaggio. I primi due giorni non successe niente, sentivamo soltanto la mancanza dell’acqua, perché non ci davano da bere, da mangiare ne avevamo avuto abbastanza dalle crocerossine. Dopo, la gente iniziò a morire. La mancanza dell’acqua… riuscii a trovare un sistema per dissetarsi: al mattino presto, svegliandomi, vedevo sui tubi del carro merci delle goccioline d’acqua, allora io le assorbivo, così [apriva la bocca sotto il gocciolio, ndr] e forse quello mi salvò. A un certo momento questo ragazzo fiumano non ce la faceva più, allora io chiesi – erano quasi tutti francesi insieme con noi, di italiani eravamo soltanto io e questo fiumano – chiesi a questi francesi, io parlo un po’ il francese, se per piacere facevano un po’ di posto per far sedere questo compagno che non si reggeva più in piedi. Questi mi risposero: “Merde!”. Io con quella forza che avevo gli detti un manrovescio, questi si guardarono stupiti: “Evident, l’italien est très fort”. Allora si strinsero subito e mi dissero di sedermi; dico: “No, non sono io che devo sedermi, è lui che deve sedersi”. Dopo qualche giorno… – non so quanto tempo durò, dieci, forse quindici giorni, questo trasporto – dopo tre o quattro giorni la gente cominciò a morire, allora venivano scaricati i morti e si fece spazio, così potei sedermi anch’io.

Arrivammo a Sandbostel. Qui, scendendo dal vagone, ci distribuirono un pane intero con abbondante margarina. Naturalmente rimanemmo tutti quanti stupiti. Non c’era più la scorta, ci indicarono la strada che dovevamo fare. Arrivammo così a un campo militare evacuato di Sandbostel. All’ingresso c’erano dei russi che appena arrivammo ci aggredirono per portarci via quel pane: a me lo portarono via. Questa è una cosa che non ricordo con piacere, ma comunque devo dirla. Durante la permanenza a Neuengamme io avevo fatto una lama alla coda del cucchiaio, e allora, preso dalla rabbia, non tanto per il pane che mi portavano via, ma per la violenza che mi veniva fatta, presi questo cucchiaio e colpii il primo che mi capitò sotto di questi russi; per fortuna il cucchiaio era di alluminio, e i russi erano imbottiti di paglia, come lo eravamo anche noi, perché noi, per proteggerci dal freddo, ci imbottivamo di paglia. La coda [del cucchiaino] si piegò e non fece niente.

A Sandbostel intanto si sentivano già da lontano le cannonate degli americani che avanzavano, o inglesi che fossero. Qui fui preso dal tifo petecchiale. Poi non ricordo più niente. Mi svegliai dopo la Liberazione nell’infermeria del campo. C’era una crocerossina olandese che quando mi vide aprire gli occhi tutta contenta si mise a gridare: “L’italien! L’italien è vivo!” Di quel periodo non ricordo niente, però mi è rimasto impresso… io vedevo sempre un bel prato pieno di fiori, di margherite, di uccelli, con dei torrenti, ecco, questo lo ricordo. Poi non ricordo più niente. Rimasi in quell’infermeria una decina di giorni, poi mi trasferirono in un ospedale americano. Qui mi curarono un poco. Poi mi trasferirono ancora in un altro ospedale, un altro ancora, e per ultimo un’infermeria italiana. [Lì] c’era un sottotenente medico che mi visitò e mi trovò delle infiltrazioni polmonari. Mi mandò in un altro ospedale, sempre italiano. Qui mi curarono un poco con calcio e mi fecero un’operazione: siccome io perdevo molto sangue per le emorroidi mi operarono di emorroidi, però senza anestesia. Comunque, riuscii a superare anche quello.

Verso la fine di agosto [1945] poi ci misero su un treno ospedale e arrivammo a Merano. Qui venne una ragazza, ci chiese se sapevamo dove stessero i nostri genitori. Dopo qualche giorno vidi arrivare mia sorella da Bassano con un mezzo di fortuna, un camioncino tutto sgangherato, venne a prendermi e mi riportò a casa.

D: Quando sei arrivato a Bassano?

R: Penso che sia stato verso metà settembre.

D: Salvatore, quando da Neuengamme ti hanno mandato nel sottocampo, a Meppen, eravate solo uomini?

R: Sì, sempre uomini, io non ho mai visto una donna.

D: E a Meppen ti hanno dato un altro numero di immatricolazione?

R: No, era lo stesso di quello di Neuengamme, era un sottocampo di Neuengamme.

D: Era molto grande questo sottocampo?

R: No no, erano soltanto sette o otto baracche, però oltre il recinto vedevo altre baracche, e vedevo degli uomini però vestiti, che stavano bene, saranno stati dei lavoratori.

D: Durante il tuo periodo di deportazione, quando per esempio andavate ad Amburgo a spostare macerie, tu hai avuto possibilità di avere contatti con dei civili?

R: Quando passavamo c’era pochissima gente che si incontrava per istrada, ma quando ci incontravano giravano il viso dall’altra parte.

D: A Neuengamme avevate i castelli nei blocchi? In quanti dormivate per castello?

R: Due per ogni posto.

D: Mentre invece a Meppen?

R: Dormivamo per terra, senza coperte, senza niente, in mezzo agli escrementi.

D: Volevo chiederti una cosa: la pipa sei riuscito a salvarla?

R: La pipa sono riuscito a salvarla fino a Meppen, lì poi mi è stata portata via.

A Meppen è successo un brutto fatto, sempre con i francesi. Alla sera, quando rientravamo, distribuivano una minestra liquida, un pezzo di pane, 50-100 grammi, non so quanto fossero. Io questo pane, metà lo mangiavo e metà lo serbavo per l’indomani mattina, me lo mettevo sotto la testa. Vicino a me c’era un francese, io avevo visto che lui il pane se l’era mangiato. Al mattino quando ci svegliano per alzarci, la prima cosa che cerco è il pezzo di pane. Non lo trovo più e vedo questo francese che mangia del pane. Capisco che è stato lui a rubarlo, e faccio per tirarglielo via. Questo si mette a urlare: “L’italiano mi ruba il pane!”. Mi presi venti [scudi]sciate. Ho portato i segni per tre o quattro anni dietro alla schiena. Sempre con i francesi, a Neuengamme. Ci avevano distribuito il pane, io avevo conservato come al solito la metà per l’indomani mattina. Al mattino io incomincio a sbocconcellare questo pane e vedo questo francese che mi guarda, voglioso, allora io stacco una briciola di questo pane e gliela do. Questo si rivolge ai suoi compagni e dice: “L’italien est fou!”, l’italiano è pazzo! Io ho capito, dico: “Non, je ne suis pas fou”.

D: In questi 55 anni dalla Liberazione ad oggi, Salvatore, tu non sei mai stato intervistato?

R: No. Sono stato contattato da un’associazione piemontese, mi pare che fosse di Torino, che mi pregò di fare una relazione [per] stabilire chi erano i superstiti del campo di Neuengamme. Ecco, allora io scrissi, feci una breve relazione, e dopo qualche tempo, circa 7-8 mesi, così per caso sul canale 3, vidi un servizio e alla fine diceva: “Si ringrazia tizio caio… in ultimo si ringrazia Vitiello Salvatore per la collaborazione prestata”. […] Penso siano stati quelli di Torino che avevano fatto questo servizio.

D: A Dachau non sei più ritornato?

R: No, no. È andato mio figlio.

D: Tu non li hai accompagnati?

R: No.

D: Quindi neanche a Neuengamme sei mai andato?

R: No, no. Quando sento parlare tedesco scappo. Se vado in un albergo e sento parlare la lingua tedesca…

D: …non ci stai

R: No.

D: Non ci stai, è troppo forte.

R: Non li odio, ma non li sopporto neppure però. Io ho una piccola industria, sono stato contattato parecchie volte da tedeschi ma ho sempre rifiutato di avere rapporti con loro.

D: Quanti mesi hai fatto nei Lager?

R: Complessivamente sono nove mesi, dall’agosto dell’arresto fino all’aprile della Liberazione. Ripeto, della Liberazione non ho nessun ricordo.

D: Salvatore, cos’è stato un Lager per te?

R: Una brutta esperienza. Ho perduto la fiducia nell’umanità.

D: Un giorno, il quotidiano di vita di un giorno che vuoi, di Dachau, di Neungamme, o di Meppen, nel Lager, ce lo puoi descrivere?

R: Bah, non so… Ho visto anche delle cose molto brutte. Per esempio, da parte dei russi specialmente, da parte dei russi ho assistito a del cannibalismo addirittura, mangiare carne di compagni morti. Ho visto dei russi che, quando vedevano qualche morto, che moriva lì, prima che arrivasse qualcuno a sgombrarlo, gli aprivano le labbra per vedere se aveva delle protesi. E se aveva delle protesi, con una scalcagnata… E poi evidentemente erano organizzati per commerciarle, per ricambiarle… infatti i russi erano sempre ben nutriti. Erano sempre ben nutriti. Oddio, non volevo dirlo questo…

Bressan Milovan

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Bressan Milovan, sono nato a Gorizia il 29 febbraio 1920. Abito a Gorizia. Nel settembre 1943 svolgevo servizio militare nella Regia Marina e mi trovavo a Trieste. L’8 settembre 1943 sarà ricordato come “la grande fuga”. Molti i soldati allora si riversarono verso stazione ferroviaria, e lì vennero fermati dalle truppe tedesche, rinchiusi in certi locali e successivamente trasportati in Germania. Io che ho assistito a queste scene mi sono procurato un vestito borghese e il 12 settembre ho preso il treno e sono arrivato a Gorizia. A Gorizia il 12 settembre si svolse una battaglia per la conquista della città da parte delle truppe tedesche. I morti furono parecchi, e appartenevano ai partigiani italiani e sloveni che hanno fatto battaglia presso la stazione ferroviaria, ma sono stati battuti dai tedeschi perché i tedeschi erano fortemente equipaggiati. I tedeschi giunti a Gorizia dopo pochissimo tempo hanno organizzato, coi loro sistemi, dei lavori coatti, e molti giovani vennero reclutati per eseguire questi lavori di pala e picco nel circondario del Goriziano. Tutto questo era organizzato da una organizzazione chiamata Todt. Ed anch’io fui reclutato, questo per i mesi di marzo, aprile, maggio e giugno 1944.

D: A Gorizia c’erano dei comandi della SS e della Gestapo?

R: Anche, anche.

D: Ubicati dove?

R: Qui a Gorizia erano anche stati istituiti dei comandi delle SS. Le SS qui a Gorizia hanno preso una villa che oggi si trova in via Armando Diaz, e questa villa era di proprietà di un medico ebreo, che l’hanno portato naturalmente in Germania. In questa villa, che oggi è prospiciente la scuola che si trova in Largo Culiat, era il comando delle SS. Durante il lavoro che io svolsi come operaio, come manuale, nell’ambito dell’organizzazione Todt, durante le pause di lavoro – che ce lo portavamo da casa qualche pezzo di formaggio con pane, eccetera – io mi dilettavo anche a disegnare i luoghi e qualche operaio mentre era intento a fare lavori di sterro. Per questa mia capacità di tradurre in disegno le cose che vedevo sono stato avvicinato da partigiani; perché le opere che venivano eseguite dall’organizzazione Todt avevano lo scopo, soprattutto, di formare grandi buche che erano destinate a fermare eventualmente un’occupazione con carri armati. Però lo facevo con molta attenzione, senza dare nell’occhio, ma ciononostante qualcuno ha capito, ha intuito quelle che erano le mie intenzioni e deve aver parlato a qualcuno in proposito.

D: Queste buche che voi facevate erano orientate verso dove?

R:Verso la zona dove eravate voi oggi.Queste buche venivano eseguite allora nella zona che oggi è fortemente popolata, ma allora erano puri e semplici campi per la coltivazione di fagioli, di verdure, di rape, che si estendevano dalla zona di San Rocco di Gorizia fino al cimitero centrale. Quando io ho capito che qualcuno deve avermi denunciato – e che non sono mai stato mai in grado di individuare chi personalmente – non ho voluto un giorno andare a casa, perché temevo il peggio e mi sono rifugiato per qualche ora in un cinematografo, che allora veniva chiamato il cinema Moderno di Gorizia, oggi in Corso Verdi. A un certo momento hanno smesso di proiettare il film, sono entrati delle SS: uomini da una parte e donne dall’altra, e ad uno ad uno ci hanno spogliati della giacca, del vestito, e andavano in cerca di documenti o qualche cosa del genere. Di questi uomini una decina sono stati messi da parte, tra i quali c’ero anch’io. Da lì ci hanno portato in una caserma militare di piazza Cesare Battisti, sottoposti a duro interrogatorio. Mi hanno fatto tantissime domande, nome, cognome, indirizzo… certe cose già le sapevano: io avevo un cognato che allora era contrario al regime, iscritto nel Partito socialista e condannato a vivere lontano dalla famiglia, nelle zone sud dell’Italia. Dopo pochi giorni mi hanno condotto in un campo allestito fuori di Udine, in una zona verso Cividale. E lì ho vissuto per alcuni mesi finche ho organizzato una fuga, perché non era un campo molto difeso: quando le sentinelle camminavano su e giù c’era la possibilità di valicare il muretto e di scappare.

D: Lo chiami “campo”, in realtà era un’organizzazione vostra?

R: No, non era una organizzazione, perché mi avevano avvicinato dei partigiani, sapevo che erano partigiani che combattevano nelle organizzazioni slovene e italiane, la “Garibaldi”. Non posso dire, non so se era una organizzazione che aveva dei compiti precisi anche nell’ambito della città; evidentemente sì, perché c’era molta gente che transitava in questi luoghi e che vedeva, che osservava. Naturalmente mi avevano notato come un disegnatore che poteva rendere loro qualche servigio. Nel frattempo, a Gorizia avevano arrestato mia mamma e mia sorella: a Gorizia non ci potevo andare. Mi sono rifugiato a Udine. Non conoscevo nessuno, vivevo praticamente così, nei portoni di qualche casa, o mi rifugiavo in qualche giardino pubblico. Questo eravamo nel mese di settembre o ottobre 1944, il freddo non era ancora intenso, e comunque cercavo in qualche modo contatto con i partigiani. Ma Udine era allora piena di truppe tedesche e anche cosacche, che combattevano per i tedeschi, era circondata e non ci si poteva allontanare né rimanere a lungo. Ad un certo momento, del gruppo di cui facevo parte – perché eravamo altri cinque sei che sono riusciti a scappare da questo campo di Udine – avevano individuato uno o due persone che erano andate in città per comperare qualche cosa, da mangiare credo, e questi, sottoposti ad immediato interrogatorio, li hanno portati dove noi ci nascondevamo. E allora da qui ci hanno arrestati nuovamente e portati non più nel campo bensì nelle prigioni di Tolmezzo, prigioni civili, dove rimanemmo fino al mese di novembre.

D: Allora il campo [di Udine] era tedesco?

R: Sì, era un campo di SS, comandavano le SS nel campo.

D: Era ubicato dove esattamente? Te lo ricordi?

R: Sulla strada che da Udine porta a Cividale.

D: Aveva un nome o un numero questo campo?

R: Non lo so. Questo non lo ricordo.

D: C’erano delle baracche?

R: C’erano delle baracche. Era un campo militare italiano prima dell’8 settembre, poi occupato dalle SS tedesche, e loro portavano lì la gente che ritenevano di dover far lavorare, eccetera. Nel novembre del 1944 ci hanno caricati nei vagoni ferroviari e portati in Germania.

D: Dopo [il campo di Udine] ti hanno portato a Tolmezzo.

R: Nella prigione. Ora è una prigione civile.

D: Interrogatori lì te ne hanno fatti?

R: Anche lì hanno fatto gli interrogatori. Volevano conoscere qualche cosa di più dell’attività; loro non erano certissimi, perché io ho cercato di sviarli attraverso le domande, con reticenze ed altro, ma comunque hanno capito che si trattava… Noi italiani, eravamo quelle cinque sei persone, fummo sottoposte a un interrogatorio, ma non durissimo, perché avevano dei dubbi. Ciò nonostante, da Tolmezzo ci hanno caricato sui vagoni ferroviari e portati a Dachau.

D: Vi hanno caricato da quale stazione?

R: A Tolmezzo, stazione di Tolmezzo.

D: E i tuoi familiari che avevano arrestato?

R: I miei familiari che avevano arrestato, per mia fortuna e per loro fortuna, li hanno portati alla Questura – erano ancora italiani – e siccome i miei familiari non sapevano nulla dell’attività che io svolgevo, sono stati creduti e li hanno rilasciati. Hanno avuto fortuna. Noi durante il viaggio eravamo quasi contenti, perché non si sapeva niente dei campi di concentramento in Germania, nulla si sapeva dei campi di sterminio, addirittura. Si credeva che in qualche modo ci avrebbero fatto lavorare, ma comunque che saremmo stati dei liberi cittadini civili. Invece ci hanno portati a Dachau. A Dachau rimanemmo, mi pare, due settimane. A Dachau ci vestirono con le divise trovate nei magazzini militari italiani; e ci vestirono con delle divise di tela che normalmente il soldato italiano portava nell’ambito della caserma, erano delle divise di tela vere e proprie e naturalmente, trattandosi ormai del mese di novembre a Tolmezzo, faceva già freddo. Con quelle divise ci hanno portato a Dachau. A Dachau ci hanno lasciato quelle divise, ci hanno fatto lavorare, ci portavano fuori, eccetera. Dopo quindici o venti giorni ci hanno nuovamente caricati su vagoni bestiame e portati a Buchenwald.

D: A Dachau non ti hanno immatricolato?

R: No, adesso arriva l’immatricolazione.

D: A Dachau vi hanno portato nel campo?

R: Nel campo di Dachau, senza darci la matricola.

D: Avevate una baracca vostra?

R: Avevamo una baracca nostra con tantissimi altri prigionieri, di qualsiasi genere insomma. Comunque, da Dachau ci hanno portato a Buchenwald. A Buchenwald ci hanno fatto spogliare, ci hanno rapato, tosato e ci hanno dato le divise rigate, con il triangolo rosso e il numero di matricola. Poi ci hanno messo in una baracca, enorme, dove eravamo insieme con dei polacchi, iugoslavi, sloveni, croati, serbi, cecoslovacchi, ungheresi e italiani. Ma [quello degli] italiani era un gruppo piccolissimo. A Buchenwald tutti i giorni ci portavano a lavorare. Un lavoro duro, terribile. Hanno chiesto prima ad alcuni che mestiere facevano: alcuni di noi, due o tre, erano operai. Hanno dichiarato il loro mestiere ma, ciò nonostante, non li hanno portati a svolgere una qualche attività nell’ambito di qualche fabbrica dove potessero essere utilizzati come meccanici o come tornitori, come avevano dichiarato. Ci portavano invece tutti all’aperto, sotto le intemperie, il vento, il freddo, la neve, e dovevamo lavorare in zone squallide, brutte, a portare sulle nostre spalle le rotaie per i treni. Pesantissime. Un lavoro terribile. E il peggio si è che io, col mio metro e ottanta, mi mettevano alla fine, e un altro, di un altro metro e ottanta all’inizio di questa rotaia, nel mezzo erano quelli con una statura di 10 centimetri più bassi di noi, toccavano appena con le spalle… Comunque, era un peso terribile e un freddo tremendo e una fame patibolare. Per tutto il tempo che fummo a Buchenwald, lavorammo in questa zona, deperendo ogni giorno a vista d’occhio.

D: Il tuo numero di Buchenwald te lo ricordi?

R: Sì, me lo ricordo vagamente, […] Sono sempre incerto sul… Ho cercato con la spugna di cancellare dalla memoria.

D: E la baracca te la ricordi? Il blocco?

R: Blocco numero 28.

D: Il periodo in cui sei rimasto a Buchenwald, hai visto per caso se nel campo c’erano dei ragazzini e delle donne?

R: Vedevo dalla baracca 28 dov’eravamo a Buchenwald anche le baracche delle donne, che però erano divise da un reticolato. In quel tempo mi pare che Mafalda di Savoia si trovasse anche prigioniera da quelle parti.

D: Ragazzini non ne hai visti invece…

R: No, ragazzini non ne ho visti.

D: Tu sei arrivato a Buchenwald quando, più o meno?

R: Dunque, nel gennaio… non so la data precisa, eravamo nel mese di gennaio e siamo arrivati a Buchenwald, e ci siamo rimasti fino al mese di marzo, con questo lavoro durissimo. Un giorno ci hanno portato ad una specie di visita molto frettolosa per vedere chi era ancora abile e chi non lo era: molti avevano delle piaghe e delle contusioni, soprattutto piaghe dovute agli zoccoli, alle scarpe senza calze, che camminando sfregavano la pelle in modo tale da produrre delle erosioni e delle infezioni. Ma eravamo anche oramai molto dimagriti, senza forze. In ogni caso eravamo nel mese di febbraio o i primi di marzo, che questa visita si è fatta in una baracca, con un medico, o per lo meno così lo chiamavano, ed era uno della SS: giudicava se l’individuo poteva continuare oppure no. Io fui tra coloro, fortunati, che vennero dichiarati “tauglich” cioè abile. Però prima di passare questa visita siamo stati all’aperto per circa un’ora, una fila lunghissima, nudi completamente. Quel giorno avevo visto su un termometro appeso ai vetri della baracca, dove era il medico che destinava l’individuo da una parte o dall’altra, questo termometro segnava 17 gradi sottozero. Ed io facevo moltissima ginnastica, mi muovevo, correvo su e giù, ogni movimento era destinato a riscaldare in qualche modo i muscoli perché la gente attorno [a] me cadevano come birilli. Comunque, passata questa visita, quelli che non erano abili venivano caricati su dei camion e non li abbiamo rivisti mai più. Il giorno dopo ci hanno portato in una baracca, hanno distribuito delle patate, abbiamo mangiato queste patate, e ci hanno dato anche una razione abbastanza buona. Patate. Solo patate. Ci hanno caricato sui treni, vagoni aperti, chiusi da un reticolato sopra: si poteva appena appena mettere la testa fuori per orizzontarci un pochino, per vedere dove ci portavano. Ogni tanto saettavano nel cielo apparecchi, formazioni che erano anglo-americane, che andavano a bombardare la Germania. Noi siamo stati su questo treno, mi pare, tre giorni e tre notti, senza mangiare. E finalmente siamo arrivati in una località, un paesetto, e ho visto scritto una… era una scritta prima di entrare: “Schömberg”. Schömberg era la località con un sottocampo di Natzweiler. In questo campo, anche lì, giornalmente, ci portavano a lavorare, ma qui il lavoro si svolgeva in una cava di pietra. Mi hanno detto che questa cava aveva lo scopo di triturare queste pietre perché estraevano dell’olio, olio minerale. Erano infatti delle pietre – non so come dire – non erano calcaree, non erano bianche, erano piuttosto un color marrone, molto lucide, contenevano olio. Il percorso era durissimo, perché dal campo di Schömberg a questa cava passavano circa 5-6 chilometri, e 6 chilometri bisognava farli a piedi nella via del ritorno. Sempre accompagnati dalle SS, con una fame tremenda… il lavoro era bestiale perché bisognava usare continuamente delle mazze e dei picconi per spaccare questa pietra. Rimanemmo lì fino al mese di aprile. Credo che fosse il 7 aprile. Oramai si sentivano in lontananza gli spari dei cannoni, le truppe anglo-americane avanzavano. Noi non ne sapevamo ancora niente.

In questo campo un giorno, quando facevamo ritorno lì in baracca, dopo il lavoro, in mezzo all’erba ho scoperto una carta geografica buttata da qualcuno, ed era una carta geografica che segnava le nostre Alpi e il confine italo-svizzero. Io ed altri miei compagni – tra i quali Risnefer, Zorzenon e Collini – guardavamo con una certa attenzione questa carta geografica perché volevamo capire in quale zona ci trovavamo esattamente. Non giravano nei campi di concentramento né calendari per leggere la data precisa né qualsiasi scritto o libro, cioè eravamo completamente isolati: trovare un pezzo di carta con su qualche cosa interessava comunque. Ma qualcuno deve aver notato questa nostra attenzione. Comunque, ritornammo nelle baracche. Il tempo scorreva lentamente, ma questo pezzo di carta che io avevo in tasca mi dava fastidio, mi faceva pensare. Insomma, a un certo momento ho deciso di andare ai gabinetti, ho sminuzzato questa carta e l’ho buttata. Ed ho avuto fortuna, perché quella notte stessa, in piena notte, verso le 2-3 della mattina – che faceva ancora un grande buio – è entrato nella baracca uno della SS accompagnato dal capobaracca e s’è messo a gridare il mio numero di matricola, e quello di un altro amico mio, Alfio Cantelli, che oggi non vive più a Gorizia, ma vive a Milano. Lui aveva segnato, durante l’esame di questa carta geografica, i nostri numeri di matricola, quello che era riuscito a fare, e sulla base di questo noi fummo svegliati in piena notte e portati ammanettati davanti al capo del campo, che era un maresciallo delle SS.

D:Il numero di matricola era ancora quello di Buchenwald?

R: Sì, era quello di Buchenwald, 97 mila eccetera […]. Insomma, questi ci presero a calci, a pugni, e cercarono di capire perché e come avevamo trovato quella carta geografica e dove l’avevamo messa. Io avevo ancora – nascosto fra le mie cose che a Buchenwald sono riuscito a nascondere – avevo ancora con me la carta di identità mia personale e la fotografia di mio padre, che avevo prima nel portafoglio. Ma poi il portafoglio, naturalmente, me l’avevano requisito già a Buchenwald. [In] questa fotografia era rappresentato mio padre quando faceva servizio nell’esercito austriaco durante la guerra ’14-’18, e aveva il cappello da Alpenjäger, cioè alpino. Questa fotografia trovata nella mia tasca probabilmente ha indotto il maresciallo che ci interrogava ad avere una certa pietà di noi, perché dice: “Questo chi è?”. E io gli ho detto: “Mein Vater”. “Cos’era, dell’esercito austriaco?”. “Sì, perché sono di Gorizia e Gorizia in quel tempo aveva combattuto contro l’Italia, aveva combattuto nell’esercito austriaco”. Insomma, dopo gli schiaffi e le pedate ricevute, quest’uomo, per confermare quanto lui pensava, ha chiamato quello che ci aveva denunciati, ed era un polacco. Era un polacco, che in nostra presenza ha ricevuto una fettina di pane… l’avevano premiato con questa fettina di pane, lui credeva chissà cosa. Ma comunque, al tempo in cui si viveva nei campi di concentramento mica tutti erano dei galantuomini, e non c’era quella solidarietà che normalmente esiste nella vita civile e nella vita di ognuno di noi: se uno poteva in qualche modo appropriarsi di un pezzo di pane o di una qualsiasi cosa a danno dell’amico o dell’Häftling , che era il prigioniero dei tedeschi, lo faceva. Quello credeva di ricevere chissà che cosa, e per questa fettina di pane ci aveva denunciati, facendoci correre il rischio di essere fucilati. Questo maresciallo tedesco s’era in quel frangente liberato di questo… puntiglio che aveva, non facendoci fucilare. Perché durante l’interrogatorio diverse volte ci aveva detto: “Ma cosa avete fatto? Sono gli ultimi 5 minuti. Die letzten fünf Minuten!”. E allora se l’è cavata facendoci segnare sul petto e sulla schiena, con del colore, una croce visibile anche da lontano, in modo che in qualsiasi circostanza, bastava per noi avvicinarsi ai reticolati perché la sentinella aveva l’obbligo e il diritto pieno di sparare senza aspettare altro. Il 7 di aprile ci hanno nuovamente caricati sul treno, un treno lunghissimo, ma questa volta vicino a noi c’erano soldati della Wehrmacht. Ed erano gente anziana, forse qualcuno aveva 60 anni: si vede che l’esercito aveva bisogno assoluto di reperire ancora chi potesse servire in qualche modo ai bisogni del grande Reich. Noi eravamo in questo vagone con due o tre di questi soldati armati. Anche in questo caso i vagoni erano aperti, non c’era il tetto sopra, ma era chiuso con il reticolato. Questi uomini invece stavano in una specie di garitta. Oramai eravamo sfiniti, al limite delle nostre forze, e io, in un impulso di rabbia estrema, ho inveito contro questa gente, contro la Germania, contro i soldati, contro le SS. Sennonché uno di questi, che doveva essere dell’Alto Adige, conosceva l’italiano, era un tedesco ma conosceva l’italiano. Allora non questo si era alzato, ma ha detto qualche cosa al suo compagno vicino, il quale è venuto vicino a me e col fucile ha cercato più volte di colpirmi con il calcio del fucile alla testa. Io andavo dondolando con la testa, cercando di salvare i colpi, e in questo forse mi sarà servito anche… perché da ragazzo ho fatto alcuni anni di pugilato. Invece aveva colpito uno dei miei vicini che era un croato, e sanguinava fortemente. A questo punto entrammo in una galleria, e nel buio io avevo fatto il salto dall’altra parte… cioè, eravamo tutti così eguali che lui non era più in grado, una volta alla luce del sole, di individuarmi nuovamente. E così giungemmo, dopo molte ore di treno, ad Allach, che è un sottocampo di Dachau. Lì non ci hanno mai portato a lavorare. Una notte, era il 29 aprile, la notte dal 28 al 29 aprile – mentre in questa baracca non esistevano i castelli dove normalmente si dormiva, eravamo tutti sdraiati a terra – con noi c’erano anche due prigionieri indiani, ma non i Pellerossa, indiani dell’India. Erano venuti lì, presi non so dove, col turbante eccetera, e uno nella loro lingua gridava, urlava un qualche cosa che noi non capivamo: segnavano con la mano “fuori, fuori, fuori”. Allora siamo usciti a vedere cosa succedeva: le garitte erano vuote, non c’erano più i tedeschi. Perché durante la notte le SS erano scappate. Capimmo subito di essere liberi, e infatti, verso le 7-8 della mattina – oramai faceva abbastanza chiaro – vedemmo lontano avanzarsi gli americani che ci liberarono.

D: Milovan, poi cosa è successo?

R: Eh. Subito dopo la Liberazione vedemmo questi americani che strisciavano nell’erba alta – almeno lì attorno a questo campo era un’erba ancora alta – e avevano dei ramoscelli sui loro elmetti. Vedemmo subito delle truppe meravigliosamente attrezzate, armate, e noi eravamo dietro ai reticolati a gridare, a urlare, e loro ci buttavano, devo dire subito, qualche pacchetto di sigarette, che era una cosa ricercatissima. Molti si abbracciavano, piangevano. Riuscimmo a forare qualche rete metallica, andammo di là, nel territorio delle ex SS, e lì c’erano delle patate in una fossa, coltivate, o messe come magazzino, e ricoperte di terra. Nella fame che c’era e bramosia di trovare qualche cosa ci riempimmo come potemmo di queste patate, che io raccoglievo e le mettevo nella giubba, che era zebrata, però ne avevo raccolto forse tre chili e quando ho voluto alzarmi… le forze mi mancarono, non avevo la forza di sollevarmi con tre chili di peso! E allora ne presi solo due o tre, le misi in una tasca, e andammo subito a fare un po’ di fuoco e arrostire questa roba qua. Comunque, dall’arrivo degli americani in poi, la fame, in pochi giorni, era del tutto sparita. Ci portavano del cibo anche abbondante, al punto che molti morirono proprio a causa di queste indigestioni. Per il resto, credo di aver finito perché non c’è altro da dire.

D: Il ritorno a casa.

R: Il ritorno a casa. Dopo qualche settimana, con la presenza degli americani, fummo portati in una specie di tenda da circo, una tenda molto grande che avevano allestito per disinfettare tutti questi uomini. Ci spogliammo completamente, e con le apposite macchine ci spruzzarono il DDT. E poi ci diedero delle divise, e anche belle, erano divise delle SS. Sì. Con i pantaloni delle SS, che erano di un panno grossolano, nero, e con dei giubbotti, ci hanno dato delle camicie, eccetera. Eravamo puliti. Avevamo dei vestiti, che non erano vestiti civili, ma erano dei vestiti che si potevano portare, perché prima eravamo tutti sbilenchi e oramai ridotti a brandelli. Ci arrivava qualche notizia. Eravamo oramai tutti liberi da una certa imposizione; si incominciavano a sentire le prime frasi gentili, prego, grazie, cose mai sentite nei campi di sterminio. Un giorno presero le nostre generalità, vennero lì con dei camion, camion militari, e a noi italiani ci caricarono su questi camion, velocemente. Ma non eravamo neanche tanto lontani, perché in una mezza giornata, pur partendo la mattina, arrivammo a Bolzano. E a Bolzano erano già attrezzati bene per accoglierci, per darci dei vestiti che non erano più quelli militari, ma qualche giacca, qualche pantalone, eccetera. Oramai eravamo in Italia. La Croce Rossa italiana ci accolse dandoci dei documenti, eccetera. E da lì finalmente potemmo dichiararci liberi… ma non del tutto! Perché Gorizia era occupata. Io mi fermai a Udine, poi andai in una zona vicina a Gorizia, Mossa, a casa dell’amico Zorzenon, prigioniero anche lui, con me, aveva fatto tutti i campi che io ho esposto. Dopo due o tre giorni ho cercato di venire a Gorizia, però sul ‘Ponte IX Agosto’, che era guardato da sentinelle iugoslave, non sono stato fatto passare, perché nessuno poteva entrare in città. E allora sono ritornato da Zorzenon, ringraziandolo, salutandolo, e sono andato nuovamente a Udine. A Udine, visto le condizioni fisiche in cui mi trovavo, sono andato alla Croce Rossa: mi hanno fatto ricoverare in ospedale, e sono andato all’ospedale per una quindicina di giorni.

D: Ma a casa quando sei arrivato?

R: A casa… A casa sono arrivato quando le truppe iugoslave hanno dovuto abbandonare la zona cosiddetta ‘B’, perché gli americani non erano arrivati in tempo ad occupare loro [per] primi Gorizia. Quando mi è stato detto che oramai si poteva ritornare a Gorizia – e Udine era piena di goriziani – tutti, in un modo o nell’altro, sono ritornati. E sono ritornati come? Io a Udine ho cercato qualcuno che andasse a Gorizia: di automobili ce n’erano pochissime, ma erano molti i camion guidati dai militari americani. E allora un camion militare americano andava fino a Cormons, poi un altro da Cormons mi ha portato fino a Mossa, e un altro ancora da Mossa mi ha portato fino a Gorizia. E sono ritornato finalmente a casa.

D: Ed era il…

R: Ed era il mese di maggio, 27 maggio, del 1945.

D: Un bel giro hai fatto. Da Bolzano con cosa sei arrivato a Udine?

R: Sempre con gli americani. Chiedevo chi era che andava verso Trieste, e allora ho trovato alcuni… ben disposti questi americani, tutto sommato, perché eravamo in fin dei conti i loro ex nemici. Io ed altri abbiamo trovato ospitalità su questo camion militare che andava diretto a Udine.

D: Quindi ti hanno portato giù loro?

R: Mi hanno portato su loro e poi da lì ho fatto il viaggio fino a Gorizia come avevo spiegato.

D: Dei tuoi amici che erano partiti con te…

R: Uno è morto su, e nessuno sa come.

D: Dove è morto?

R: È morto a Schömberg.

D: In che senso nessuno sa come?

R: Perché… Ci organizzavano per il lavoro in squadre, e la squadra non era sempre fatta da italiani, o magari da tutto quel gruppo del quale facevo parte. E allora, a un certo momento, potevamo trovarci 2-3 fra i nostri amici in quel gruppo formato da 30 persone magari, [con cui] andavamo a lavorare. E un giorno questo non è ritornato più. Non sappiamo come e perché. Però qualcuno ci disse che durante una ritirata di SS molti venivano fucilati. Trovati sul lavoro, trovati in un qualsiasi posto. E allora molti, in una strada, in campagna, c’era a un certo momento un tombino…

Goruppi Riccardo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Io sono Goruppi Riccardo, nato il 14.1 del 1927 a Prosecco, provincia di Trieste. Arrestato il giorno 25 novembre del 1944, trasferito alle carceri del Coroneo di Trieste, subìto tre interrogatori, certo non bene. L’ultimo interrogatorio l’ho subito cinque minuti prima della partenza per la Germania. Perché l’ultimo? Perché alla sera, quando hanno chiamato i numeri e i nomi delle persone che dovevano partire, il mio non è stato chiamato come [neppure] quello di mio padre. Al momento, non essendo stati chiamati era la cosa più brutta, perché si rimaneva nell’interno delle carceri come ostaggio, e come ostaggi la giornata era pericolosa sempre, in qualsiasi momento.

D: Riccardo, chi ti ha arrestato e dove ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato a Prosecco, per una spiata. Le SS e mi hanno trasportato al Coroneo.

D: Sei stato arrestato con altri?

R: Si, hanno rastrellato il paese completo, cioè, c’erano diverse persone, non saprei dire se 40 o 30.

D: Dici che ti hanno arrestato per una spiata: tu facevi parte di un’organizzazione partigiana?

R: Io ero partigiano. Ero partigiano. Ma in quel momento mi trovavo in paese perché ho dovuto subire un’operazione e sono ritornato a casa; dopo l’operazione sono ritornato a fare il partigiano. Comunque, m’hanno preso senza armi: ecco perché poi sono finito in Germania invece di finire alla Risiera di San Sabba, [nel]la quale mi promettevano o un interrogatorio o logicamente… Non ho mai detto che non ero partigiano, non l’ho mai detto, perché quando mi chiedevano [rispondevo: “sì, sono partigiano”]. Dopo la chiamata che hanno fatto la mattina, si sono presentati i due giannizzeri, cioè le SS, con l’interprete, gridando: “Dove sono quei due che non vogliono andare in Germania?!”, e ci hanno chiamato per cognome e nome. Mio padre è stato portato immediatamente nella fila [dove] c’erano cinque già pronti per la partenza. E a me mi hanno portato a un ultimo interrogatorio, m’ hanno pestato molto bene, nel quale momento m’hanno anche rotto i denti davanti. E poi, guarda il caso, mi hanno dato per il trasporto due pezzi di pane e un pezzo di formaggio, perché quello era dato a tutti per il trasporto che si faceva. Il trasporto è durato da Trieste partendo il giorno 8, siamo arrivati a Dachau il giorno 11 [dicembre 1944].

D: Siete partiti dalla stazione di Trieste?

R: Siamo partiti da Trieste dalla stazione dalla parte del silos, dove c’erano le famose partenze dei treni. E lì ero separato dal gruppo dei paesani, compreso da mio padre, perché m’hanno portato come ultimo. Devo dire che fra la scorta c’era proprio il mio operaio del cantiere San Marco, che era un sergente delle MM [Marina Militare]. Questo m’ha scortato nel vagone; non avevo la possibilità di chiedergli di entrare nel vagone di mio padre, fino a che nella vallata, credo in Austria, hanno fermato questo treno, hanno circondato il luogo e hanno fatto scendere le persone per vuotare le Kübel, cioè i bidoni famosi che si usavano nei vagoni. Nel vagone eravamo dalle 60 alle 70 persone. Lì ho chiesto a questa persona se [potessi] entrare nel vagone dove era mio padre, m’ha detto: “Beh, tanto andate tutti in un posto, puoi entrare.” Sono entrato nel vagone, fortuna perché non ho mangiato il pane – non lo potevo mangiare perché avevo rotti i denti – la fortuna di arrivare nel posto dove tutti avevano già fame: ecco che ho diviso quel poco di pane che c’era.

Arrivati a Dachau… Andando in Germania si pensava di andare a un lavoro, cioè certo in una prigione molto più grande, sempre però a un lavoro. Entrando, sulla porta, ho chiesto al mio operaio del cantiere San Marco se “può avvisare a casa che siamo in Germania, io e mio padre”. “Beh – ha detto – tanto non ha nessunissima importanza, da qui non tornate più”. Dunque lo sapevano molto bene dove ci hanno portato.  Ma non ho pensato questo, perché entrando in questo luogo ho visto l’ampiezza del campo; ho detto: “Questa è una prigione molto più attrezzata del Coroneo ma siamo nelle vicinanze di un posto di lavoro o qualcosa del genere.” Sennonché, arrivati, ci hanno fatto gettare tutto quello che avevamo: oltre al vestiario che si aveva addosso, i vestiti che ci hanno portato da casa nelle prigioni, avevamo qualcosa… e tutto bisognava gettare sul mucchio. E entravamo dentro nella sala delle docce. Nella sala delle docce c’erano i prigionieri, i famosi barbieri, che ti rasavano completamente. Fatta la rasatura completa sulla persona totale, c’hanno fatto a noi italiani una striscia lungo la testa che significava traditori. Noi italiani e i russi avevamo questo segno perché eravamo calcolati traditori. Fatto questo, ci hanno messo sotto le docce, hanno aperto l’acqua fredda – dico nel mese di dicembre, era l’11 dicembre – hanno aperto l’acqua fredda, l’acqua calda, l’acqua fredda: e allora si faceva dei salti che non finivano più, e loro ridevano, si divertivano. E poi ci hanno dato una manciata di un… hanno detto sapone, ma c’era una soda caustica o qualche cosa del genere, e poi bisognava molto bene sparpagliare dove ci avevano rasato: allora si vedeva i salti che si facevano perché la rasatura certamente non era tanto delicata, di tagli ce n’erano. Finito questo [loro] divertimento ci hanno consegnato le famose divise a zebra, era a strisce bianche e blu il vestito, e davano un paio di calzoni, una giacca. [Per] chi aveva la fortuna di riceverla, anche una specie di “sopra giacca” – noi la chiamavamo cappottino – era la stessa stoffa, ma era più lungo. Non tutti avevano questa fortuna, perché fino a quando c’era davano, poi non c’era più e non davano più, davano quello che era. Gli zoccoli aperti, con una tela; calze non se ne vedevano. Chi aveva ricevuto un po’ più lunghi i calzoni, [questi] servivano anche da calze, fortunatamente. La cosa più brutta… ecco quando si è capito di essere entrati in un campo di sterminio. Quando siamo usciti all’appello ci hanno consegnato prima dei numeri e i triangoli, e bisognava cucire sulla giacca e sui calzoni. Sul [triangolo] c’era la scritta dello Stato a cui si apparteneva: noi avemmo la “I” come Italia. Arrivati a questo punto fu chiamato un interprete dalle nostre file – anche se avevano un interprete proprio, non lo so perché, per una verifica, probabile – hanno chiamato e questo doveva dire le parole che le SS, cioè il comandante del campo, dichiarava in quel momento. La dichiarazione era questa: “Da questo momento voi non siete più uomini, siete un numero e con questo numero verrete chiamati. Non potete comunicare con l’esterno.” Ecco questa era la cosa più… la dignità della persona, nel momento che ti portavano via il tuo nome e cognome… e l’hanno pronunciato per l’ultimo nella chiamata, poi hanno chiamato col numero. Certo era molto difficile, difficilissimo per chi non capiva il tedesco; per chi capiva il tedesco il numero era facile, ma chi non lo capiva, il 135.423, nel tedesco era hundertfünfunddreissigtausend vierhundertdreiundzwanzig, che era una cosa enorme! Enorme al momento. E allora te lo sei imparato immediatamente perché arrivava e bastonava. Tornava a richiamare i numeri e bisognava rispondere con “hier” [qui, ndr], man mano che rispondeva quello che era davanti si rispondeva automaticamente, ma in poco tempo si è imparato il numero: la prima cosa che uno si è imparato è il numero, e non se lo è dimenticato di certo. Da lì trasferiti alla baracca della quarantena. C’erano le baracche dispari, c’erano i Revier, la baracca degli esperimenti e poi c’erano le baracche della quarantena. Ecco, si è saputo immediatamente da gente che era all’interno di non farsi vedere troppo forti, troppo veloci, troppo espansivi, perché potevi essere scelto per degli esperimenti. Non dovevi far vedere di essere ammalato perché potevi essere eliminato, perché hanno eliminato immediatamente gli ammalati. Ho fatto la quarantena, diciamo quarantena… ho fatto 20 giorni all’interno. La baracca era lunga 100 metri, divisa in quattro Stuben, e man mano che invocavano i numeri entravamo nelle Stuben. Nella Stube c’era lo spazio di una camerata – dunque doveva essere 25 metri circa – ma era ricavato anche uno spazio per il capobaracca; poi c’erano i letti a quattro piani. La cosa più tremenda era dormire in quel posto. Perché? Perché i letti non erano separati, erano incolonnati, attaccate le cuccette, attaccate tutte, era come un quadrato, e dove dovevano dormire 20 persone, ad esempio ne dormivano 40, anche 50. Guai perdere il posto la notte, perché alla metà della baracca c’erano le latrine e se uno perdeva il posto non riusciva più a ritornare; poi con le bastonate del kapò certo si rientrava, in una maniera o nell’altra. Si dormiva piedi e testa, l’uno con l’altro, c’era molta difficoltà.

Arrivati a un momento, a una data che non so esattamente, ci hanno radunato nel salone delle docce al quale sono arrivati i famosi capi dei campi che dovevano prelevarci e portarci via da Dachau. A Dachau c’erano dei trasferimenti, non è che uno rimaneva a Dachau perché era a Dachau, c’erano trasferimenti fino a Auschwitz, ad esempio. E io sono stato trasferito. Alla scelta del gruppo sono stato scelto per il lavoro e sono partito, mi hanno trasferito al campo di Natzweiler, nella località di Leonberg. Il campo era nel territorio tedesco e lavoravamo nel tunnel autostradale. Hanno chiuso i due tunnel della strada che porta non so dove… verso una località, e hanno fatto le fabbriche lì.

D: A Dachau, prima del trasferimento, hai visto se c’erano anche dei religiosi deportati?

R: Sì, nel trasferimento alla baracca 19… Quando sono stato scelto non sono rientrato più alla baracca 19 ma sono partito alla baracca 29. Nella baracca 29 ho trovato dei religiosi, dei preti, e devo dire anche una cosa molto bella, perché queste persone… io dico sempre: uno per sopportare, per riuscire a uscire da questo, doveva avere un senso di solidarietà, un Credo, un qualcosa, o in Dio o nel politico, un senso doveva averlo per poter sopportare queste cose che son successe.  Ho visto dei religiosi veramente… veramente… Io non sono uno di quelli che si inginocchiano per ogni cosa, mi inginocchio quando c’è la necessità di aiuto e lo faccio volentieri. C’erano questi religiosi che con la mollica del pane consolavano le persone che erano veramente dei devoti, che credevano in questo, e con piccole cose hanno dato coraggio alle persone; questo l’ho visto da questi religiosi in quel momento. Poi credo che questi sono stati scelti per andare in un altro campo, perché i religiosi erano nel campo libero, nelle ultime due baracche che c’erano [con] numero pari.

Trasferito in questo campo, la prima volta che ho visto il mucchio di morti davanti a crematori. A Dachau c’erano anche caserme delle SS, non delle SS che facevano la guardia a noi ma un reparto di SS che facevano addestramento. Coi camion ci hanno portati fino ad Asburgo perché le vie ferroviarie erano bombardate. Attraversando questo posto son passato davanti al cancello dei crematori e ho visto il mucchio dei morti. Lì mi sono reso veramente conto di cosa è il campo di sterminio. Ma nella speranza di uscire c’era una speranza sempre di andare verso qualche cosa di nuovo, difatti ci hanno portato in questo luogo di Leonberg, dove hanno chiuso questi due tunnel. C’era già un campo di baraccamento con il legname, hanno costruito due blocchi in cemento e m’hanno sistemato in uno di questi due. Devo dire che nell’interno della camerata c’era anche una stufa. Si lavorava giorno e notte. Non è che uno dice “la domenica non ho lavorato e ho fatto festa”, questo è anche successo nei campi, ma qui si lavorava giorno e notte.

Il viaggio da Augsburg a Leonberg è durato un giorno, perché l’ultimo dell’anno eravamo a Leonberg. Eravamo il gruppo di Ronchi al completo, poi c’era mio padre e un gruppo di ragazzi di Prosecco, proprio amici miei, partigiani, che abbiamo lavorato insieme. Arrivati a Leonberg c’hanno preso in consegna i kapò. I kapò erano sempre i triangoli verdi, non so se in qualche campo può essere stato anche con un altro triangolo, ma la maggioranza erano triangoli verdi prelevati dalle carceri e trasportati in questo. Nel campo di Leonberg abbiamo avuto un kapò italiano, un certo Carlo, di Bolzano. E io ho detto: “Meno male, abbiamo un kapò il quale capisce la nostra lingua e possiamo anche chiedere qualche cosa.” Ma era uguale a tutti gli altri, non ha cambiato niente, perché queste persone dovevano dimostrare alle SS di essere capaci di mantenere questo gruppo che avevano in dotazione, ecco perché anche questa gente doveva farlo nella maniera… certe volte erano più brutali delle SS. Io di lui, ho una cosa sola che poi dirò… L’Appelplatz iniziava alle 5 del mattino, per chi lavorava di giorno, e alle 6 si entrava in questo tunnel. Per 12 ore non si usciva, ma la cosa [importante] era questa: era un lavoro di catena, facevamo ali di aerei, e ogni gruppo che c’era di cinque-sei persone aveva un Vormann tedesco, un operaio tedesco del luogo, credo sia stato del luogo, o non so arrivato da dove. Ma comunque questi non erano tanto cattivi perché non bastonavano, avevano solo il dovere di controllare che non [esistessero] sabotaggi sui pezzi che si mandava avanti. Ogni quindici persone c’era un SS che camminava su e giù, lungo il tunnel. Ecco la cosa… quando passava bisognava levare il berretto e quando se ne andava mettere il berretto, quando ripassava levare il berretto: questo per 12 ore. Ecco anche questo, è una cosa per denigrare la persona. Davanti le latrine c’era la sentinella, dunque non dico altro. Il lavoro dunque era 12 ore, il sabato [con] il cambio turno tornavano a lavorare giorno e notte, c’erano 16 ore lavorative. Si cambiava il turno, tanto è vero che io avevo un numero di matricola minore di mio padre e non ci siamo mai incontrati, solo vedendoci nel passaggio, perché lui lavorava la notte ed io il giorno, quando lui lavorava di giorno io lavoravo di notte. Questo ha avuto una durata di poco tempo perché mio padre è morto in febbraio, il 20 di febbraio [1945] … Difficile era chiedere qualcosa. Io ho ricevuto molte bastonate da questo Karl, molte. Però devo ringraziarlo anche – credo sia morto – perché quando mio padre si è ammalato ti tenevano nel blocco per un giorno, il giorno dopo o uscivi o dovevi essere trasportato al Revier  Sennonché, maledettamente, in quella serata hanno fatto lo spidocchiamento, cioè la disinfezione del vestiario, che non hanno fatto mai. Quella sera tutti quelli che non avevano il turno, che non lavoravano, dovevano andare in fondo: c’era una baracca, spogliarsi a nudo – parlo sempre in febbraio – spogliarsi a nudo, depositare le cose sul posto, loro venivano, prendevano questi stracci, li portavano a disinfettare e poi li riportavano. Io non ho mai capito come dopo abbiamo ricevuto la stessa divisa, questo non lo so, ma comunque l’abbiamo ricevuta. Ecco, mio padre stava male prima, e quella sera era il colpo di grazia perché poi ha preso una polmonite fulminante e la mattina è morto. A questo Karl io ho chiesto – bisognava chiedere per poter andare da una baracca all’altra baracca – ho chiesto se [potessi] accompagnare [mio padre] e m’ha detto di sì, e di questo gli dico grazie. E poi quando sono ritornato dal lavoro la mattina ho chiesto se posso andare al Revier a vedere e m’ha dato [di nuovo] il permesso, non scritto, il permesso era così [a voce, ndr], e purtroppo ho trovato mio padre che era già morto. Sono arrivato, ho chiesto a due persone che c’erano lì, e parlavano italiano, ma non so di dove erano, e m’hanno detto: “Adesso lo hanno portato via”. E dico: “Verso dove?”, “Verso su”. E son corso. Potevo anche morire immediatamente, ma non aveva nessuna importanza. Son corso verso l’alto e c’era la fossa comune. Chi non ha visto una fossa comune sarebbe giusto che la vedesse, perché nell’interno di quelle fosse ci sono…  ci sono tutte le religioni, tutte le nazionalità. Io dico sempre e lo dirò sempre: lì dentro sono i pilastri dell’Europa unita, se la dovessero fare, perché lì dentro ci sono tutte le religioni; non si distingue dall’ebreo al cristiano o allo zingaro, perché c’erano lì dentro. E io l’ho visto. Io l’ho visto.

Non so se una decina di giorni poi, mi sono ammalato di tifo… e ho dovuto andare al Revier. Ma ero tanto sicuro di andare a finire la mia vita che mi son spogliato del cappottino famoso che avevo – perché non tutti l’avevano – mi son spogliato e gliel’ho dato a un ragazzo, un partigiano, e gli ho detto: “Guarda, a me non mi serve più. Te lo do a te, tanto…”. Ecco, io sono qui e lui è morto. Anche questa è una cosa… che il destino porta a questo. Vede come sono le cose che succedono. Comunque ho fatto il tifo, non so la durata di un’incubazione di tifo, credo sarà 20 giorni come minimo. E dico sempre, qualcuno m’ha dato da mangiare, perché sennò morivo di fame. Ecco, ringrazio sempre queste persone che non ho mai conosciuto e che mai conoscerò. Però qualcuno mi ha dato da mangiare. Da lì hanno evacuato il campo.

D: Prima dell’evacuazione del campo: voi facevate parti di aeroplani?

R: Ali, le ali di aerei.

D: Sai per che fabbrica, per che ditta?

R: Lavoravamo per la Messerschmitt.

Alla sera si sentiva il cannoneggiamento, poi dicevamo “Il fronte è vicino, il fronte è vicino”, ma purtroppo la durata era abbastanza lunga. Nel momento dell’evacuazione del campo, i gruppi che potevano camminare li hanno fatti camminare con la marcia forzata, e difatti hanno fatto 220 chilometri quelle persone nelle giornate seguenti, fino a Dachau nel ritorno; perché tutti questi sottocampi dovevano rientrare nel campo principale, perché c’era un programma di eliminazione. Tanto è vero che noi non siamo rientrati a Natzweiler, che era il nostro [campo], perché Natzweiler era evacuato, essendo in territorio francese verso Dachau. A me m’hanno portato col treno con i vagoni aperti, quelli che trasportano carbone, perché ormai non eravamo in forze, e ci hanno portato a Dachau. Siamo arrivati a Dachau, non dico i morti che c’erano in quei vagoni, dico che forse per ogni vagone c’erano cinque vivi. E dovevamo scaricare questi morti, con la tristezza di non aver potuto adoperare le mani, perché eravamo delle larve, coi piedi li rotolavamo e [li] scaricavamo. Fatto questo il treno imbarca e va a Mühldorf, perché Dachau era troppo pieno. Ci portano a Mühldorf, era un sottocampo di Dachau. La matricola è rimasta quella di Natzweiler; comunque non si cambiavano più le matricole perché erano giorni di smistamento, in questi sottocampi si stava dai dieci ai quindici giorni.

D: L’altra matricola che tu avevi quale era?

R: 40.184.

D: Ed era quella che ti hanno dato al campo…?

R: Di Leonberg, al [sotto]campo di Natzweiler. Di Mühldorf ricordo poco, sono ricordi di una ventina di giorni della mia vita […] A Mühldorf c’erano dei baraccamenti a punta, baracche piccole, son stato non so se cinque o dieci giorni, non saprei, e ci hanno trasferito in un altro sottocampo di Dachau, a Kaufering. Kaufering, lo dicono nei libri, era uno dei sottocampi più terribili. In tutto questo periodo di trasferimenti non c’era da mangiare, non si mangiava. Arrivati a Kaufering, c’erano dei baraccamenti sottoterra: io credo che una volta [ci fossero] dei depositi di munizioni o qualche cosa del genere. E c’erano dei baraccamenti dove ci stavano sedici persone. Non c’erano letti, per terra c’era della paglia sparpagliata, poi non c’era niente più. E arrivati c’era un’erba attraverso tutti i coperchi delle baracche [che emergevano per] un metro circa da terra, il resto era sotto. C’era l’erba verde, il giorno dopo non c’era più niente…  nemmeno… Io non so, abbiamo rosicchiato le radici [tanto che] per 20 anni l’erba non [sarà cresciuta] più, abbiamo mangiato tutto. La cosa più triste era che non entravano più le SS nell’interno, erano solo all’esterno, e ripartivano il mangiare.  Prima c’erano delle scodelle con cui ci davano le rape calde, lì invece ci davano del caffè, io credo [fosse] erba bollita. Ecco la differenza: a Dachau avevamo il pane diviso in quattro, a Leonberg avevamo il pane diviso uno a sedici. Devo dire, la sacra onestà del deportato che ripartiva questo pane: in ogni baracca c’era uno che doveva ripartire [il pane], che era già tagliato, in maniera che il fondo della pagnotta arrivava oggi a uno e domani ad un altro, non perché era più voluminosa ma perché era il pezzo più duro e durava di più.

A Kaufering sono rimasto una quindicina di giorni. Hanno evacuato il campo, hanno chiamato tutti gli ebrei fuori, perché c’erano degli ebrei fra noi. Noi eravamo tutti amici, io in quel senso nel campo non ho avuto delle brutture fra i deportati, ho avuto sempre cose belle fra i deportati. E ho avuto anche questa, di avere un ragazzo con noi nella stessa baracca; perché, quando moriva una persona bisognava spogliarla, bisognava trascinarla vicino alla porta, piegare il vestiario – queste giubbe, come se [fosse] oro – col numero verso l’alto, e appoggiarlo sul petto della persona. Venivano a prendere prima il vestiario, non il morto, e segnavano con una matita blu il numero [di matricola] sul petto. Ecco, voglio dire, quando uno va alla ricerca del proprio morto nelle fosse comuni, come può saperlo? Fatto questo, abbiamo detto a questo ebreo… perché le cose peggiori succedevano agli italiani perché traditori, ai russi perché russi, agli ebrei perché erano ebrei; tutto il resto non è che finiva bene, tutto il resto si risparmiava qualche bastonata, ne riceveva meno. E abbiamo detto: “Guarda, mettiamo la tua giacca al posto di questo e ti vestiamo con questa nostra giacca.” Difatti lo abbiamo fatto. E quando eravamo in piedi per la selezione che hanno chiamato tutti gli ebrei, lui è uscito automaticamente. È uscito perché si è sentito ebreo, perché ormai per tutto il periodo era ebreo, e l’ha fatto. Li hanno ammazzati tutti. Hanno scoperchiato una delle baracche più grandi che c’era al centro del secondo campo – c’erano due campi separati, il secondo era un baraccamento più grande, era una fossa comune – e poi hanno dato fuoco, [lasciando] una scritta: “Attenzione tifo”. A noi ci hanno imbarcato su un treno, sempre a vagoni aperti, e ci hanno trasportato lungo la ferrovia. C’era un treno blindato che sparava sul fronte e ci hanno messo come scudo. Gli americani erano arrivati a mitragliare questo treno, ma certo hanno mitragliato il nostro che non si finiva più.

Quando uno dice che non ha paura non credergli mai. Mai. Perché la paura fa il coraggio. In quel momento ci siamo tutti raggruppati verso gli angoli di questi vagoni, perché non avevamo la forza di scavalcarli. Certo, il gruppo che era sotto, erano morti, e ci siamo automaticamente rialzati per poter scavalcare la balaustra del vagone. I primi che sono caduti sulla ghiaia si sono spaccati. Io sono caduto su un mucchio di morti… ho avuto la fortuna. Ho avuto la fortuna anche di non approfittare del momento di andare verso il bosco, che c’era un boschetto vicino. Mi sono rintanato sotto le ruote dei vagoni, perché sempre mitragliavano, e i tedeschi, invece di mitragliare sugli aerei, hanno iniziato a mitragliare su quella gente che si sparpagliava, così ci sono [stati] dei morti. Io mi sono salvato perché eravamo quattro persone e abbiamo fatto un ragionamento di ricercare qualcosa da mangiare sul treno blindato, perché il treno blindato aveva due o tre vagoni di roba rubata. C’erano ad esempio, nel vagone dove siamo riusciti a salire – ma con molta difficoltà perché non era così facile risalire – c’era metà vagone di materassi. Materassi nuovi… e dei cassoni, che non so cosa c’era dentro. Man mano che si vede che il treno viaggiava questi materassi son venuti in avanti, e da un lato c’era uno spazio: allora ci siamo infilati nell’interno. Siamo stati in piedi perché c’era uno spazio così [stretto], dietro, e siamo stati lì. La cosa più triste, la cosa più brutta, è successa dopo. Quando hanno spostato il treno, hanno dato fuoco con benzina al treno nostro: e c’erano degli urli, tremendi, tanto erano grandi che se si è passato il fronte noi non ci siamo accorti. Alla mattina – io credo la mattina, poi può essere stato due giorni, non lo so – c’era un silenzio, ma un silenzio da tomba, un silenzio che ha fatto più paura delle urla che c’erano la notte. E allora decidiamo di uscire. Sempre strisciando a quattro [a carponi, ndr] non a due piedi, arriviamo fuori e ci mettono il fucile sulla testa. Abbiamo detto: “Adesso è la fine”. Poi comincia a levarci fuori da questi buchi [tra i] materassi, e inizia a piangere. Era un negro, era un nero… non finirò mai di ringraziarlo. Lui piangeva, noi piangevamo. Non abbiamo capito perché. Non sapevamo ancora che era uno che aveva iniziato a salvarci. Tirati fuori, finito a piangere, ci ha preso tutti e quattro nella cabina del camion e ci ha portato immediatamente – c’era un centro di raccolta in fondo, si raggruppavano da altri campi – e ci ha portato direttamente a un ospedale. C’era un monastero, nelle vicinanze – tutta questa cosa si sta svolgendo in una trentina di chilometri da Monaco – e questo monastero è stato preparato a un lato [come] ospedale per i deportati, e difatti ci hanno immediatamente ricoverato. Nell’interno ci hanno disinfettato, ci hanno levato gli stracci che avevamo, che non abbiamo più recuperato, e ci hanno messo in piedi sul letto perché… Io ho incontrato il prete di quel momento, dopo venti anni che sono andato su, e lui m’ha chiesto: “Da dove sei arrivato qui?”. Ho detto: “Sono arrivato dal treno…”. Ha detto: “Io so che vi hanno portato [in] pochissimi. Vi abbiamo dovuto tenere a sedere perché vi avevamo adagiati e vi cadevano gli occhi nell’interno”. Dunque, eravamo all’ultimo stadio, veramente. Ho avuto fortuna di mangiare poco, comunque regolare, quello che m’hanno dato, ma c’era gente che non si nutriva che solo con [la] flebo – io era la prima volta che vedevo [una] flebo, che prima non si sapeva nemmeno… – li nutrivano con questo perché l’intestino non lavorava più.

Ho fatto tre mesi d’ospedale. Quando mi chiedevano il nome e cognome ripetevo il numero. Non sapevo chi sono, non sapevo da dove arrivo né dove sono, ma mi sono rimasti nella testa – e che questo me lo sto chiedendo… – i nomi dei posti! Ma non dico di Kaufering, non dico di Dachau, non dico di Schaffhausen, il punto dove c’era il treno. Che poi io l’ho visitato dopo 25 anni, e ci sono le fosse comuni [dove] c’era il treno, ci sono le lapidi sulle fosse comuni solo in ebraico, perché le hanno fatte gli ebrei. Sulle lapidi c’è una bellissima scritta, che me la son fatta tradurre dal rabbino, perché c’è una scritta molto importante. C’è una scritta che dice: “Il viaggiatore passando si chiede cosa è questo: qui sono sepolte le ossa sacre dell’ultimo minuto di guerra”. Questo è scritto sulle lapidi.

Mi dispiace tanto di non aver avuto la forza… Quando mi sono ricordato il nome e cognome – che poi l’hanno scritto immediatamente perché si perdeva la [memoria] nuovamente, non rimaneva – è quando ho incominciato a ragionare e a camminare che questo nero veniva giornalmente all’ospedale a visitarci, e non gli ho chiesto il nome e il cognome. Io, la notte quando dormo, perché dormo poco, me lo vedo. Me lo vedo come quel giorno che l’ho visto. E non l’ho chiesto, non l’ho chiesto.

La cosa più triste ancora è stata anche all’ospedale. È stata la questione di una donna. Una donna di Rodi, parlava l’italiano. Eravamo 4 cristiani e 500 ebrei in questo ospedale, e fra questi c’erano due ragazzi di Rodi che, quando si è iniziato a camminare – io aiutavo a fare la barba alla gente, facevo qualcosa, tanto per fare qualcosa se no diventavo pazzo – m’hanno chiesto, questi due ragazzi, essendo questa persona da Rodi, se [potessi] andare a fare compagnia a questa ragazza che era sola, perché purtroppo questa era isolata. Era peggio che in campo perché nel campo era con altre persone ma lì era l’unica donna, isolata in una stanza. E difatti andavo. Andavo molto volentieri per stare insieme, per parlare, e anche per poter capire tante cose sulle questioni delle donne, che poi fra noi ci si parla molto apertamente, specialmente in quei luoghi. La cosa triste era questa, che quando ha iniziato a stare meglio questa ragazza, ha detto: “Riccardo, guarda… – ma si parlava di tutto, ecco, ma dico queste parole – pensi che io sarò donna qualche volta?”, che si è scoperta, c’erano quattro ossa… giuro, quattro ossa. E ho detto: “Sì, senz’altro, vedrai…”. Difatti, quando sono andato via, quando sono partito da quel posto, già camminava in piedi. Spero che viva ancora oggi, ecco.

D: Riccardo, quando sei rientrato in Italia?

R: Io Sono rientrato in agosto [1945]. Però, se mi permettete voglio dire una cosa che mi ha fatto diventare una persona nuovamente. Perché credo di aver assorbito tanto di quell’odio in quei posti, verso questi torturatori. Perché non parlo di tedeschi, perché non si può dire tedeschi, dobbiamo sempre dire SS. L’odio accumulato, avevo paura di non poterlo smaltire mai più. E la cosa che m’ha fatto pensare di diventare una persona nuovamente è stata al momento quando nell’ospedale… c’era un reparto dove c’erano i tronconi di persone, tronconi militari, che erano senza mani senza piedi, senza cose… E quando ho iniziato a camminare io ho voluto vedere questo, è una cosa che m’ha tentato a entrare, non so perché… è così il destino. Quando sono entrato, vedendo, queste persone m’hanno fatto pietà. E in quel momento ho detto: “Ecco, sono ancora una persona”. Queste cose… tutti dovrebbero vedere, per capire cosa può portare l’odio e cosa può portare una guerra. Perché l’odio verso di noi era tremendo, ecco. E spero, speravo sempre che mai più [succedessero] queste cose, questo di odiarsi, perché è la cosa più brutta, perché è la cosa che sta portando a quello che ha portato a noi. Ci odiavano e ci hanno fatto odiare dalla gente che non aveva né pena né colpa, perché i tedeschi, loro ci presentavano come dei criminali, a noi. Non ci presentavano come dei prigionieri o persone che erano imprigionate per un qualcosa, ma ci presentavano come criminali, e difatti i tedeschi civili avevano paura di noi, perché gli hanno inculcato nella testa queste cose. E difatti ci portavano dei ragazzini a tirarci, a sputarci, a [fare] tante cose… ma cose che, purtroppo, quando si è in una fase di un nazismo, come è preparato… succedono queste cose.

D: Riccardo, tu in questi anni sei mai stato intervistato?

R: Sì, sono stato intervistato, sì. Sì, ho fatto delle interviste. Ma io per molto tempo non si poteva… perché era difficile ricordare tante cose, perché un’intervista ti sta portando nel campo, rivivi il campo e poi non stai bene … non stai bene. Ma poi ho detto: se non testimoniamo noi che siamo i sopravvissuti? Dobbiamo farlo perché i giovani devono saperlo, perché non possiamo dire: i giovani sono così, non capiscono e non sanno. Non sanno perché non possono saperlo se non lo si spiega. Io vado anche nelle scuole, mi chiedono e vado. Ho fatto un’intervista a Roma con 2000 studenti, addirittura con sardi, e ho avuto delle grandissime soddisfazioni. Delle soddisfazioni che i ragazzi hanno capito. Ecco, quando capiscono i giovani è una grande soddisfazione. Certo, ero distrutto alla fine degli otto giorni che ero fuori, però non mi son lamentato per questo, senz’altro no.

D: Del ritorno cosa ti ricordi ancora?

R: Del ritorno mi ricordo tante cose perché poi il nostro ritorno non era facile. Credo, e qualche volta penso, che se [avessero] potuto ci avrebbero portato di notte che nessuno ci avrebbe veduto… un tiro di pistola, un tiro di fucile o di mitra… Ecco, questa è la cosa più triste. Quella, e vedere morire di fame. Questa è anche triste, perché morire di fame è una cosa …la persona [denutrita diventa] molto più di una bestia e diventa… poi ve lo racconterò senza essere registrato… non ha più un pensiero, non ha più una voglia di vivere perché non sa che è ancora in vita. [sono stato] una ventina di giorni in questo ospedale, non un giorno, e non sapevo chi sono, non sapevo…

D: E come è tornata poi la coscienza?

R: Si è ripresa con calma, ma con molta calma. E arrivavo a dire: io sono Goruppi Riccardo. Poi mi perdevo, non sapevo più chi sono, non avevo ancora da stringere le mie meningi, ecco. E quando sono riuscito a capire chi sono e iniziare a camminare a due… perché vi dico, una cosa molto triste in ospedale…

Tardivo Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Io mi chiamo Mario Tardivo e sono nato il 4 novembre 1927 a Eraclea, provincia di Venezia. Poi per ragioni di lavoro mio padre si è trasferito in questa zona qui [Ronchi dei Legionari, ndr] nell’anno ’32-‘33. Nella mia famiglia eravamo tre fratelli, e tutti e tre, salvo io, in misura minore, collaboravano, erano effettivamente dei partigiani. Io, così, qualche volta li aiutavo. Il 24 maggio del ‘44 io stavo in camera a studiare perché erano gli ultimi giorni di scuola e dovevo sostenere qualche esame, per cui alle 5 del mattino ero già sveglio. Ho inteso dei rumori di macchine, motori, mi sono affacciato alla finestra della camera e ho intravisto benissimo automezzi militari, soldati delle SS, civili… poi abbiamo saputo che erano collaborazionisti di fascisti, collaboravano con i tedeschi a Trieste. Dopodiché loro sono scesi da queste macchine e sono entrati a casa mia. Io avevo chiesto ai miei fratelli se in camera dove dormivamo c’era qualche arma “perché ci sono dei tedeschi”. E loro mi hanno detto: “No, armi non ci sono, stai tranquillo”. Loro sono saliti in camera col mitra spianato e ci hanno ordinato di scendere. Tanto è vero che poi, quando eravamo scesi al piano terra – il numero era maggiore di questi tedeschi e soldati vari – avevano detto anche a mio padre: “Anche lei si vesta e venga via.” Sennonché per fortuna uno dei presenti, di questi civili collaborazionisti, ha detto: “No, no. Il padre non c’entra!”, di modo che noi tre ci hanno fatto salire su una camionetta e ci hanno portato lungo una strada, il viale dove noi abitavamo. Man mano che questa camionetta avanzava, scortata di automezzi blindati eccetera, fermavano e entravano dentro in determinate case. Al che mio fratello, quello maggiore, aveva detto questo: “Guarda che qui ci deve essere stata una spiata”, e io gli ho chiesto: “Ma come fai a sapere?”. “Perché loro si fermano nelle abitazioni mirate, cioè dei compagni che io conosco”. Da lì abbiamo capito che era sì un rastrellamento, però ben organizzato, con nominativi ed altro. Ma quest’azione nel paese era stata fatta praticamente in tre zone: nella zona dove abitavo io – una frazione, si chiama Vermegliano – e poi un’altra parte, verso un altro borgo vicino a Redipuglia e poi nel centro. Praticamente loro hanno fatto questo rastrellamento, questi arresti, sono tre zone ben distinte dov’era questa concentrazione di collaboratori e partigiani. Da lì ci hanno portato al Coroneo di Trieste, le prigioni, e siamo rimasti per alcuni giorni senza sapere niente, la causa, perché… Il terzo o quarto giorno ci hanno fatto scendere dai bracci dov’eravamo rinchiusi, ci hanno fatto scendere al piano terra. Lì ogni tanto chiamavano uno di noi dentro una stanza. Entrando nella stanza abbiamo capito e visto chi erano questi due che poi hanno fatto la spia. E questi che hanno fatto la spia erano dei partigiani locali – allora non avevamo mai capito perché, e ancora io non ho mai saputo perché chi c’ha una versione chi un’altra – che erano passati dall’altra parte. Noi, rimanendo dentro in Coroneo, si vedeva che spesso veniva chiamato qualcuno, non del nostro gruppo ma di altri arresti; li portavano agli interrogatori e venivano su malconci. Per noi o la libertà o finire in Germania. Ma noi credevamo che andare in Germania si avrebbe lavorato come liberi lavoratori, ma non sapevamo dell’esistenza dei Lager, naturalmente. Così un pomeriggio hanno chiamato dei nomi: “Questi qua domani mattina partiranno per il trasporto in Germania.” Eravamo, come dire, felici, nel senso di andare fuori dalle carceri, perché era pericoloso rimanere dentro, anche perché qualche volta prelevavano come ostaggi.

Sennonché alla mattina, prima di uscire dalle carceri, eravamo circa un gruppo di 150 persone credo… perché dopo hanno raccolto altra gente alla stazione di Gorizia, dalle case di Gorizia, poi siamo arrivati con un convoglio a Dachau, più o meno sulle 300-350 persone. Comunque, ritornando alla mattina, prima di uscire dalle carceri si sono presentati due funzionari, noi eravamo tutti raccolti in un grande vano, un corridoio, hanno fatto dei nomi, e hanno chiamato fuori, se ricordo bene 7-8 nomi, tra i quali anche mio fratello maggiore. “Questi qua – han detto – non partono più”, e son rimasti lì in Coroneo. Poi al ritorno dalla Germania abbiamo saputo che tre dei nostri compagni, mio fratello e altri due di questi otto che avevano chiamato fuori, il 22 giugno del ‘44 li portarono alla Risiera [di San Sabba] e lì finì la loro storia. Io naturalmente di tutto questo non sapevo niente perché ero in campo di concentramento, però ogni tanto arrivava qualche trasporto da Trieste e chiedevo ai compagni: “Voi venite da Trieste? Bene, sapete qualcosa di Tardivo Arcù?” – si chiamava Arcù mio fratello – “No, non sappiamo niente”. Nessuno sapeva niente. E così fino al ritorno non sapevo quale fine avesse fatto mio fratello, e dopo abbiamo saputo, ecco, che era finito nella Risiera. Naturalmente il nostro trasporto è avvenuto col solito sistema: una mattina, usciti dal carcere del Coroneo, ci hanno portati alla stazione di Trieste e lì ci hanno caricati su questi vagoni merci e siamo partiti. Siamo arrivati poi a Dachau il 2 giugno [1944], di notte. Se ricordo bene siamo partiti due giorni prima, abbiamo trascorso tre giorni e due notti in treno: quelli erano i tempi geologici per i trasporti, perché per noi il trasporto doveva dare la precedenza a tutti gli altri treni, per cui noi sostavamo anche delle ore in qualche binario morto nelle stazioni.

A Dachau siamo arrivati di notte. Credo che quello sia stato proprio il sistema stabilito dalle SS per far sì che i civili non vedessero questi prigionieri. Per cui arrivati dentro – poteva essere mezzanotte, le undici, il campo era tutto illuminato – lì ancora non avevamo capito. Sennonché quello che ci ha fatto capire il tutto è stato l’indomani mattina, perché l’indomani mattina è cominciata la spoliazione, la depilazione, la disinfezione. Ci facevano entrare dentro queste docce, poi quando si usciva depilati, rasati, eccetera, ci davano l’abito del prigioniero, che noi vedevamo lì girare… qualcosa non quadrava. All’uscita di questo vestimento eccetera ci chiedevano i dati, e loro poi ci assegnavano il nostro nuovo nome, ci battezzavano con un numero. Il mio numero allora – il 2 giugno questo, quando sono entrato, m’hanno registrato il 3 penso, il 3 quella mattina – il mio numero era, ed è tuttora per me ancora vigente, come un nome, una distinzione che segna anche in certo qual modo la data dell’entrata, perché man mano aumentava il numero, e man mano capivamo chi era entrato in quel mese e in quell’altro mese. Il mio numero era 69.725, però io l’ho impresso in tedesco, perché… perché conoscere il proprio numero in tedesco voleva dire, qualche volta, riuscire ad evitare certe violenze. Perché loro chiamavo il numero, uno non sapeva che il suo numero era quello lì perché non lo ricordavano, per cui nel momento in cui loro si accorgevano chi era il titolare di quel numero lo bastonavano perché lo consideravano un sabotaggio o che so io. Il mio numero in tedesco era questo: neunundsechzig siebenhundert fünfundzwanzig. E questo è un numero… anche se a noi non è stato marcato sul braccio come quelli, gli ebrei e non che entravano ad Auschwitz, è marcato comunque, è sempre fisso. Ecco, dopo di lì, qualche giorno dopo, tutto questo gruppo è stato di nuovo… come dire, messo a disposizione, come un ufficio di collocamento dentro nel campo di Dachau, il quale destinava, a seconda della richiesta – questo sempre a posteriori ho capito – richiesta dell’industria: a loro servivano cento operai alla BMW, mandavano cento operai alla BMW.

D: Mario, ti ricordi in quale blocco ti hanno messo lì a Dachau?

R: Tante volte io l’ho chiesto a Mario Candotti, perché si ricordava lui tutto, adesso… Il blocco ancora adesso non ricordo se era il 13 o… Quando siamo andati a rivedere di nuovo il campo lui mi diceva: “Mario, eravamo qui”, ma è un numero che non mi è affatto rimasto. Non lo so ancora, se qualcuno mi chiede non lo ricordo. Comunque era il blocco della quarantena, erano due blocchi. Si entrava dentro a questi blocchi, queste due baracche erano chiuse da un portone. E dopo, sistemati lì… naturalmente non si lavorava, si stava lì… Un giorno è venuto uno di Monfalcone, un prigioniero anche lui – adesso non ricordo il nome, poi lo ricorderò, sono andato a trovarlo qualche tempo fa – era impiegato tecnico ai cantieri di Monfalcone. È venuto da noi nel blocco della quarantena, si è presentato, naturalmente con l’autorizzazione della SS. Questo monfalconese – Gorlato si chiama, è ancora vivente, 92 anni, sono andato l’altro giorno a trovarlo – lui in cantiere a Monfalcone faceva l’impiegato tecnico, in più faceva anche l’interprete, era un poliglotta, sapeva diverse lingue, francese, russo, tedesco. E lui ci ha raccomandato, ci ha dato delle informazioni, come dobbiamo comportarci, “perché se non volete andare incontro a dei guai non fate questo…”. Anzi, ci aveva detto: “Guardate che voi – ha ricordato Dante – voi che entrate perdete ogni speranza, e qui dovete ricordarvi che avete tutti i doveri e nessun diritto”. E così praticamente ci aveva dato delle coordinate, che poi sono servite ben poco perché bastavano delle sciocchezze per essere puniti.

Dopodiché questo gruppo… loro ci hanno destinato un compito, quale lavoro dovevamo svolgere. Allora, al momento della dichiarazione, loro chiedevano: “Che tipo di lavoro facevi quando eri a casa?” Io facevo lo studente, ma siccome mio fratello aveva dichiarato che era operaio – e difatti lavorava in cantiere a Monfalcone – avevo detto anch’io “operaio”, così c’era la possibilità di stare ancora assieme. E difatti siamo rimasti assieme per un mese circa, tutti e due, con altri compagni, destinati alla lavorazione meccanica alla BMW, lì ad Allach. Da Dachau ad Allach, questo dopo quindici giorni, da Dachau ad Allach. Ad Allach ogni mattina dovevamo andare a lavorare in fabbrica, dovevamo fare un percorso di 2-3 chilometri dentro una strada recintata, accompagnati ai lati dalla SS sino al posto di lavoro. 12 ore si facevano di notte – quando c’era il turno di notte, la settimana della notte – e 12 ore di giorno, 6 di mattina 6 di sera, 6 di sera 6 di mattina. E lì ad Allach avevano costruito questa fabbrica all’interno di una foresta, perché c’erano tanti pini altissimi, nascosta…

Però io lì non sono rimasto per tanto tempo. Dopo un mese, io e il mio compagno Mario Candotti, che abbiamo trascorso tutto il periodo insieme, ed altri compagni di Ronchi, siamo stati trasferiti a Markirch. Markirch è una località dell’Alsazia, e prima dell’occupazione tedesca, l’annessione dell’Alsazia, si chiamava Santa Maria delle Mine. Tuttora si chiama Santa Maria [delle Mine], adesso ha riacquistato il nome primitivo. Il nostro reparto è stato trasferito in quella località, e in quella località esisteva già una galleria lunga 5-6 chilometri. Questa galleria era adibita come strada, un tracciato di autostrada, poi i tedeschi l’hanno chiusa e hanno inserito dentro le macchine utensili, di modo che questo reparto lavorava indisturbato 24 ore su 24.

D: Che ditta era?

R: La BMW.

D: Che parti facevate voi?

R: Io per esempio… Il mio lavoro consisteva di lavorare su una rettifica, cioè inserivo il pezzo nella macchina, le macchine erano già predisposte per quel tipo di lavorazione. Io qualcosa di tecnologia e di lavorazione delle macchine avevo già acquisito a scuola, all’Istituto Tecnico, e ho capito che tutte le macchine… era come una lavorazione a catena, e il pezzo che io dovevo operare in quella fase poi passava a un’altra macchina successiva, sino alla fine. Quando il pezzo meccanico era finito – un pezzo che rettificava le canne, quelle che comandano le punterie dei motori – andava a finire al controllo.

Però abbiamo fatto anche un po’ di sabotaggio. L’ho fatto io, l’avranno fatto anche gli altri. In questa galleria era molta umidità, perché la volta era in pietra, per cui, per quanto loro [avessero] tentato attraverso tubazioni di acqua calda di abbassare quest’umidità – soffittare parte della galleria, eccetera – l’umidità c’era sempre, e parecchia. E allora, quando sistemavo questi pezzi meccanici finiti dopo dentro nelle cassette appropriate per sistemarli, dovevo ungerli completamente, ma io col pennello… soltanto la parte superiore. Poi partivano, non so dove andavano, forse a 300-400 km presso un’altra fabbrica dove avveniva il montaggio. Noi facevamo i particolari, e l’assemblaggio avveniva da un’altra parte. E lì è successo che una notte mi sono addormentato, perché stavamo sistemando le macchine lungo questo percorso – queste macchine utensili, pesantissime, con squadre eccetera – ero stanco, mi sono appoggiato per un momento a riposo, un momento di pausa… ci davano da mangiare di notte, e sui quei tubi dove passava quest’acqua calda… e io quei trucioli che eran lì, li ho disposti sopra il tubo e mi sono addormentato. Al risveglio c’era un silenzio assoluto. Per me era un silenzio assordante perché era terribile in quel momento, dico: “Qui io sono solo, gli altri sono usciti da quanto tempo?” E allora mi son messo a correre, con gli zoccoli, puoi immaginare come si corre con gli zoccoli ai piedi, senza calze, senza niente, infilati dentro, gli zoccoli andavano per conto loro. Sono arrivato, stavo raggiungendo l’uscita, o l’entrata, a seconda… io uscivo, gli altri entravano, e già mi dicevano nelle varie lingue: “Adesso sono fuori che ti aspettano per la punizione”, perché ritardavo tutto il ritmo. Difatti fuori, lungo la strada, i miei compagni erano già incolonnati e aspettavano me; allora quello lì, uno in divisa delle SS o Wehrmacht, non ricordo bene, si è scagliato contro di me e ha cominciato a pestarmi. Allora io mi sono buttato per terra, mi sono difeso a riccio, mi sono chiuso, “tu pesta, dopo vedremo”. Ma non ha insistito molto perché in quel momento – ho immaginato io – entravano dentro degli operai civili, per cui quello spettacolo lì in mezzo alla strada… forse sarà stata la causa che lo ha fatto smettere. Comunque, ha rilevato il mio numero, per cui mi aspettavo la famosa punizione “fünfundzwanzig, che voleva dire venticinque colpi sul sedere; il corpo contundente poteva essere un cavo di corrente elettrica, poteva essere un bastone, poteva essere qualsiasi oggetto, bastava picchiare. Sennonché l’ho passata liscia, il mio numero non è stato chiamato, per cui è rimasto lì, ecco.

D: Il campo, rispetto alla galleria, era distante molto?

R: Ecco, è interessante questo. Come dicevo, in Alsazia noi sappiamo che sono dei francesi, lì parlavano le due lingue benissimo, difatti avevamo anche un kapò alsaziano, ma ancora era venuto da Dachau sempre insieme a me e faceva l’interprete di francese. La distanza che intercorreva tra il campo e la galleria… boh, 2-3 chilometri. Ma noi eravamo alloggiati in un campo fatto su d’emergenza, appunto per quel motivo lì. Lì era lì una vecchia fabbrica di carta, c’erano delle vasche in legno, c’erano degli assi con delle pulegge, una roba obsoleta, chi sa da quanti anni abbandonata: al momento hanno approfittato per mettere un recinto e mettere dentro noi. Noi dovevamo attraversare tutto il paese, e il paese era conformato in maggior parte di un lungo tragitto lungo, una lunga strada, come un viale, percorso di 2-3 chilometri come dicevo, ma ai lati erano poste delle case e noi vedevamo le persone che attraverso le persiane osservavano questi prigionieri. E qualche volta sul ciglio del marciapiede era messa qualche sigaretta, però io non fumavo per cui non mi sono avvicinato: era sempre pericoloso che quello delle SS… per cui credo che nessuno… io non ho mai visto nessuno raccogliere quello che loro mettevano.

D: C’erano altri italiani con te? Eravate in molti italiani?

R: Eravamo molti italiani. Tanto è vero che lì hanno impiccato un italiano. Era uno di quelli militari che i tedeschi avevano deportato da Gaeta, da quelle carceri militari. Difatti i militari… io quando sono entrato a Dachau, come ho detto prima, avevo il numero 69 mila settecento e rotti…

D: Mario, oltre al numero cosa ti hanno dato?

RISPOSTA: Oltre al numero mi hanno dato anche il triangolo. Noi avevamo il triangolo di colore rosso, perché loro avevano un’organizzazione del Lager… era organizzato in maniera tale che ogni prigioniero si poteva distinguerlo [secondo] la causa per cui era stato deportato: allora c’erano i politici; i verdi erano i criminali, che erano in prevalenza delinquenti comuni, in prevalenza erano tedeschi; poi c’erano gli asociali, con il nero; poi c’erano i gay che avevano il colore rosa, e così via. Poi c’erano naturalmente gli ebrei che avevano la stella di Davide a sei punte. Alcuni avevano oltre alla stella di Davide – gialla naturalmente – sopra la stella di Davide anche il triangolo rosso. Alcuni, ma molto rari. Ciò voleva dire politico ed ebreo. Lì dentro queste erano delle regole che poi valevano sin che valevano, perché dentro, anche tra i politici – bisogna dire la verità – non è detto che erano tutti politici. C’erano politici dell’Istria, gente che aveva combattuto il fascismo, magari fatto carcere o confino. Mio fratello è stato ucciso alla Risiera, ma se veniva deportato era un ex perseguitato politico sotto il fascismo, che l’avevano processato al Tribunale speciale di Roma. Il triangolo rosso voleva dire per loro “politico”, perché se andavano dentro e prendevano tutti quanti, buttavano tutti politici dentro in un carcere… poi si sa che in carcere stavano dentro anche per tutt’altri motivi, ladri, od altro, che so io… assassini, cioè per altri crimini. Il rapporto tra politici non è detto che era un rapporto grande, come di compagni, erano politici e non compagni.

D: Stavi parlando di questi militari…

R: Sì, questo militare, che io conoscevo di vista, dopo che lo hanno impiccato ho saputo chi era naturalmente. E allora portavano i militari… quando sono entrato a Dachau i primi due numeri sull’ordine dei 45 mila, i primi due numeri andavano nel numero delle migliaia. Questo voleva dire in settembre – io sono entrato i primi di giugno [1944] – era già nel 69 mila, cioè 24 mila erano già passati, per lo meno registrati nel campo in quel periodo [settembre 1943-giugno 1944, ndr]. A questo qui cos’è successo…È successo che un giorno un compagno nostro che aveva funzione di interprete, un trentino, ex combattente in Spagna – questo sapeva lo spagnolo, il francese naturalmente, e il tedesco, essendo trentino – l’hanno preso, han fatto il nome, il cognome, di questo italiano che ha tentato di fuggire. A uscire dalla galleria e dal campo eravamo in mezzo al bel posto, bellissimo come villeggiatura, [c’erano] boschi, eccetera: ciò voleva dire che aveva la possibilità di nascondersi. Ma come poteva uno nascondersi quando aveva la Straße, quella famosa passeggiata con la macchinetta che facevano, ti tagliavano i capelli a zero, la strada si dice… Comunque, questo qui, poveretto, ha tentato di fuggire e lo hanno preso. E allora ci han detto: “Guardate, è stato preso…. verrà impiccato”. Erano passati diversi giorni, otto, non so, diverso tempo… “quelli hanno detto così tanto per farci prendere paura, non è vero”. Ma difatti non lo vedevamo quel disgraziato. E una mattina, in Platz appel [Appelplatz] abbiamo visto le luci e la forca; la forca era sempre appoggiata a un lato di una baracca, c’era sempre disposto il piedistallo che all’occorrenza lo infilavano dentro. E così questo qui lo hanno impiccato, e lui prima di morire ha detto più o meno queste parole: “Sono italiano, mi chiamo così e mi uccidono perché ho tentato… salutate i miei…”. Un mio compagno – un certo Piero Maieron che ha scritto un libro – lui riporta esattamente il nome di questo che è stato impiccato.

Nel frattempo gli americani avanzavano. Gli americani sono sbarcati nel giugno del ’44, noi lì eravamo a luglio-agosto, nel periodo in cui avevano fatto anche l’attentato a Hitler. Passo a questo [episodio] e dopo ritorno. Come abbiamo saputo dell’attentato? Io avevo fatto il turno di notte, alle 3 del pomeriggio eravamo già svegli per andare a lavorare alle 6 di sera e dei russi vicino a me dicevano: “Hitler Kaputt! Hitler Kaputt!”. Bene, Hitler Kaputt, ma queste notizie come arrivano? Quando ci hanno accompagnati al lavoro abbiamo capito che era vero, o morto o no, che qualcosa era successo perché i militari, gli addetti a accompagnare i prigionieri al posto di lavoro, avevano sempre il fucile posto [sulla] spalla, ma quel giorno ci hanno fatto vedere di aver caricato la pallottola in canna e il fucile lo tenevano in mano, perciò temevano qualche sommossa, che so io… e questo è durato quel giorno lì. L’indomani era ritornato di nuovo come prima, perciò abbiamo capito che o era una frottola o qualcosa del genere. E così è andata male, perché finiva la guerra altrimenti, meno morti eccetera.

Dopo, fine agosto, primi di settembre, gli americani procedevano l’avanzata in territorio francese, allora hanno ritenuto opportuno trasferire di nuovo queste macchine e tutto il reparto di nuovo ad Allach. Ad Allach siamo rimasti lì insieme a questi miei compagni, numerosi compagni arrestati a Ronchi, siamo restati lì un po’ di giorni senza lavorare. Dopodiché loro avevano ritenuto opportuno, frattanto che sistemavano le macchine, di utilizzare questi prigionieri, per cui ci portavano a fare dei lavori più svariati: ho lavorato alla Dickarhof, che voleva dire una grande ditta che faceva lavori, appunto, dove c’era questa fabbrica della BMW, che come dicevo prima…  Mio fratello è rimasto sempre lì! Lui non si è mai mosso da lì, ha sempre lavorato lì dentro in questi grandi bunker, di uno spessore di cemento armato rilevante. Poi io ho dovuto spingere dei carrelli con del beton per costruire queste cose qui… Tanto è vero che un giorno, era freddo e, spingendo i carrelli, mi bagnavo le mani e sentivo molto freddo, allora avevo avvolto le mani con della carta di sacchi di cemento legata col fil di ferro, e spingevo, mi proteggevo le mani dal liquido; se non che la presa non era tanto buona, e dove c’era un punto di svincolo di questi carrelli Wilson a scappamento ridotto, piccolini, sopra questa piastra circolare che dovevo ruotare di 90 gradi, mi è scappato il carrello e si è ribaltato il tutto. Ho bloccato il traffico, diciamo, e lì uno delle SS che era vicino ha fatto un cenno al cane lupo che avevano; ma erano talmente ben addestrati che questo cane prima si è buttato sopra di me e mi ha buttato per terra e dopo mi ha bloccato qui [alle caviglie] tenendomi fermo, sino a quando non ha avuto l’ordine di lasciarmi. Anche in quel caso ho avuto paura delle conseguenze. Lì era terribile, molto terribile lì a Dickarhof. Un mio compagno di Ronca [dei Legionari], che poi non è ritornato, all’appello durante l’ora di rancio non lo trovavano, e dov’era? Si era rifugiato in un posto dove usciva dell’aria calda, si era addormentato e dopo alcuni cani hanno cercato per tutto il cantiere sino a quando non lo hanno trovato. Poi gli hanno dato “le 25” in presenza di tutti. E lì abbiamo atteso un bel po’ prima che potessero rintracciarlo. Questo era.

Come dicevo, avanzano gli americani, ci mandano di nuovo a Allach e poi – loro, nel frattempo, avevano sistemato le macchine, noi non sapevamo niente – un bel giorno trasferimento a Trostberg. Trostberg era una località… un venti chilometri da Monaco, più o meno, e ci hanno trasferito in questo piccolo campo, sempre con la BMW, sempre a lavorare in altri capannoni. E lì mi è successa un’altra avventura. Dovevo lavorare su una dentatrice, una macchina che produceva degli ingranaggi. Al momento di far affilare l’utensile, perché non tagliava più, l’ho portato in restituzione e poi rimetto su questo utensile sulla macchina. E lì devo aver commesso un errore, perché altre volte lo avevo fatto… comunque, l’ingranaggio anziché uscirmi con quaranta denti era uscito con il doppio perché aveva fatto due volte la stessa fase. Inavvertitamente avrò sbagliato, turno di notte, tra l’altro. E allora da lì, con grande piacere mi hanno tolto dalla macchina e mi hanno fatto fare lo spazzino. È meglio lo spazzino, non ci sono responsabilità. Ma poi è venuto anche lì il guaio facendo lo spazzino perché ero stanco, ero appoggiato al muro e mi sono addormentato, in piedi così, con questa scopa. Un buon ceffone mi ha svegliato e… è finita, senza conseguenze.

Questo sino a marzo, aprile… marzo. Dopodiché la guerra stava per finire, di nuovo ad Allach e lì sino alla fine della guerra, per un mese circa, ho lavorato. La mattina ci portavano via, da Allach alla stazione di Monaco, con naturalmente quei treni merci e là dovevamo – messi in non so quanti, 20-30 di noi – con  la forca a tamponare le buche dei precedenti bombardamenti, trasferimento di rotaie tutte storte, e allora eravamo in 30-40 a trascinare queste rotaie. E lì è capitato un episodio. Nella stazione di Monaco, mentre noi lavoravamo, c’era un treno fermo su un binario morto; dentro erano dei ragazzi, giovani in divisa, e qualcuno attraverso il finestrino ci sputavano addosso, perché noi dovevamo lavorare lì vicino. Questo è andato avanti fino al 20 aprile – noi siamo [stati] liberati il 29 – fino al 25, 23 aprile… Alla fine ormai non ci portavano più fuori dal campo a lavorare: lì abbiamo capito che stava per finire. Anzi, arrivavano altri compagni da altri campi, stremati, chilometri di marce. Arrivavano e cadevano, si buttavano per terra. Qualcuno si è risollevato, qualcuno dopo mi ha raccontato che era terribile la marcia della morte: la chiamavano [così] perché a chi non riusciva più a reggere lo sforzo gli sparavano lungo la strada. Lì sono arrivati più o meno già mezzi morti. Siamo rimasti in attesa degli eventi.

Una mattina ci svegliamo sempre ad Allach, questo campo dipendente da Dachau, ci svegliamo e sulle torrette non c’è nessuno, non ci sono più SS! Però c’erano prigionieri, come noi. Poi ci hanno raccontato che prima di abbandonare il campo, quelli delle SS avevano informato alcuni prigionieri tedeschi, o che sapevano che erano dei politici, che potevano prendere il possesso del campo. Gli hanno consegnato praticamente il campo, e loro sono scappati. Questo è stato un bene perché quei 3-4 giorni prima dell’arrivo degli americani, noi ci siamo autodisciplinati, razionando ancora di più, perché gli ultimi giorni la pagnotta veniva divisa in 12-14 parti. Una volta era in quattro parti, la sera.

Così un bel pomeriggio – la notte prima sentivamo dei tiri di cannone – fuori del campo, che era in mezzo alla campagna, c’erano le jeep degli americani. Noi gli siamo andati incontro. Mi ricordo che la jeep aveva un carretto dietro, un carrello, e loro si portavano dietro le razioni. Avanzavano così, con i fucili in mano, col mitra. Ci hanno lasciato prendere quello che avevano, c’erano delle confezioni – che dopo ho saputo, che anche in Italia i soldati adesso usano – confezioni con sigarette, cioccolato… non so come si chiami il termine, che allora i nostri soldati non avevano di certo, non sapevamo come andavano a finire in Russia, in Africa eccetera. E loro [americani] avevano tutto l’equipaggiamento, ben attrezzati, tanto è vero che dopo 2-3 giorni loro avevano installato delle grandi tende, con delle docce, ci hanno fatto fare il bagno, disinfettati, tolto i vestiti di prigioniero. Loro si vede che avevano sottratto ai magazzini dei militari tedeschi delle divise: tutti quanti avevamo il vestito, chi della Wehrmacht, chi dei carristi neri. Mio fratello aveva ricevuto la divisa nera, io la grigioverde. Poi ci hanno dato le scarpe nuove, tutto nuovo! Tutto nuovo di zecca! Scarponcini… Dopo, tutte queste aquile, tutti questi distintivi applicati alle varie divise noi li tiravamo via e nel campo era pieno di aquile, tutte staccate dalle divise.

Arrivati gli americani ci siamo sistemati italiani con gli italiani, francesi con francesi; perché prima, nel periodo dell’occupazione, che c’erano ancora le SS, nelle baracche eravamo misti, perché eravamo posti dentro in funzione del lavoro, del reparto, che devono uscire, rientrare… Perciò lì dentro saranno 21-22 lingue che si parlavano. Succedeva una cosa, che per noi, l’esperienza fatta… quando eravamo a Dachau eravamo tutti quanti italiani nella stessa baracca, allora si divideva il pane. Ci davano il pane: quattro parti, una a te una a me. Quando siamo andati ad Allach, dentro nella baracca eravamo suddivisi in tavolate di 12. Tra i castelli dove si dormiva c’era questa tavola. Allora il capotavola andava dal capoblocco a ritirare le razioni. Noi eravamo in dodici: dodici pezzi, tre pagnotte. Arrivato lì uno di noi prende questo coltellino – preso da una lama, da un seghetto in fabbrica – ha tagliato in quattro parti… “No – ha detto un russo – alt! Non si fa così.” Dovevano essere parti ben precise, ma non era sufficiente questo. Venivano messi i pezzi in colonna, da uno a dodici, si cercava di farli uguali, per quello che si poteva raggiungere. Dopodiché ognuno aveva il proprio numero, se uno [otteneva] un pezzettino più grande di due grammi dell’altro era la sorte che decideva. Allora dentro il berretto [i numeri] da uno a dodici: io prendevo – come giocare alla tombola – io prendevo il numero tre, mi toccava il numero tre. Quindi se era un po’ più grande o un po’ più piccolo… si cercava sempre di fare [pezzi] più simili tra di loro. Ecco, loro [i russi] con l’esperienza di qualche mese o di qualche anno dentro, noi eravamo ancora freschi dall’Italia, non conoscevamo ancora la fame bene, cosa voleva dire un pezzettino di pane in più o un pezzettino di pane in meno.

D: Mario, in tutti questi cambi di campo che hai fatto, il tuo numero è rimasto sempre lo stesso?

R: Quando io sono stato trasferito a Markirch – Markirch era un sottocampo di Natzweiler, un campo madre, come Dachau – essendo un sottocampo era sotto la giurisdizione di Natzweiler, e allora mi hanno cambiato il numero. Quando poi col trasferimento sono ritornato ad Allach, mi hanno di nuovo rimesso il numero che avevo in origine, alle dipendenze di Dachau.

D:Il secondo numero te lo ricordi?

R:Ce l’ho scritto perché è durato poco, ce l’ho scritto nella scheda […]. Dopo la fine della guerra, noi ex deportati abbiamo beneficiato di un indennizzo. Ora, per ottenere questo indennizzo era necessario produrre una documentazione. Il documento che confermava la deportazione era quello rilasciato dalla Croce Rossa Internazionale di Arolsen. Cosa è successo? Che queste autorità dei vari paesi alleati, man mano che occupavano le varie zone, avevano raccolto le documentazioni dai campi, però non tutte erano complete. Ma nel caso di Dachau e altri campi le hanno trovate efficienti, efficienti per poter poi risalire [alle notizie sui deportati]. Difatti io ho questo certificato, chiamiamolo così, di Arolsen che dice da chi sono stato arrestato dalla Gestapo, quando sono entrato a Dachau, tutti dati anagrafici e tutti i trasferimenti: data, quel giorno… rientrato quell’altro. Praticamente lì è la mia storia, diciamo storia che valeva per loro, a loro interessavano questi dati e basta.

D: Ti ricordi se a Dachau o ad Allach hai visto anche dei religiosi?

R: Sì sì. Quando siamo partiti da Trieste, ma già quando sono stato arrestato io, in questo braccio delle prigioni del Coroneo di Trieste – lo chiamo braccio, era un corridoio di cui erano celle da una parte e celle dall’altra – eravamo in tanti e le celle non venivano chiuse, erano aperte, si dormiva tre, quattro, cinque in ogni cella, altri nel corridoio. Questo corridoio era chiuso da un lato con un cancello e dall’altra parte erano celle. Lì ho trovato due preti. Erano preti provenienti dai paesi slavi, uno da un paese di lingua slovena in territorio italiano, che parlava bene sia italiano che sloveno, l’altro invece… non so se quello là era stato arrestato proprio nel territorio, in genere erano tutti quanti istriani: Istria, Trieste, questo bacino degli arrestati del Coroneo andava fino a Fiume, giù lì in Istria, Pola, eccetera, poi Udine aveva le sue prigioni, lì rientrava il Friuli, il goriziano aveva le sue. Sarà stato croato quello lì, perché a Fiume e in quei paesi piccoli parlavano croato. Quelli lì sono stati trasportati assieme a noi a Dachau. Quando siamo arrivati a Dachau, io ho ancora l’immagine visiva di quello più anziano che non sapeva parlare l’italiano: ricordo che quando è uscito dalla doccia, fuori dalla baracca, nudo, si proteggeva con le mani le parti intime, l’unico che aveva fatto questo gesto, gli altri no. Per questo mi era rimasto impresso. Dopodiché non li abbiamo più visti, però a Dachau esisteva la baracca degli italiani. Questo Gorlato mi raccontava quando sono andato a trovarlo, qualche mese fa: “Sai, quando io ero a Dachau, oltre che fare l’interprete, quando sono venuto da voi, lavoravo un po’ in biblioteca, mi chiamavano qualche volta saltuariamente, c’era una piccola biblioteca. È successo che uno dei preti, un polacco, della baracca dei sacerdoti, sapeva che io parlavo diverse lingue, allora questo sacerdote polacco mi aveva chiesto se gli insegnavo l’inglese, attraverso il francese”. Ma quello poi ho capito che era puramente… perché dopo due-tre volte… Era un mio compagno, uno di Ronchi, mi diceva, che lo conosceva – [ora] è morto – il quale gli ha detto: “Guarda, adesso io andrò da questo prete, lui mi darà da mangiare io gli do lezione. Poi, finito il lavoro lui mi darà da mangiare, così avremo…” L’altro lo aspettava sempre fuori e dividevano quello che lui otteneva attraverso questo prete. Il quarto, quinto giorno il prete ha cominciato a mettere le mani addosso a questo Gorlato. Mi ha detto: “Quando sono andato fuori – quell’altro che lo aspettava, si chiamava Mario, Mario Chico – ho detto: “Mario, abbiamo finito, non si mangia più extra”. “Cos’è successo?” “È successo così, stavo per bastonarlo ma non sono stato capace, gli ho detto di tutto.” Cioè… bastonarlo… voleva schiaffeggiarlo, ecco. È finita lì.

D: Mario, il tuo ritorno.

R: Eh, il mio ritorno… Noi eravamo lì ad Allach – che valeva lo stesso discorso per quelli di Dachau – quasi un mese con gli americani. Che poi, tra l’altro, gli americani non sapevano; i primi giorni entravano con dei camion con dei maiali presi dentro nei frigoriferi, appesi come tante giacche sugli attaccapanni, portavano dentro camion di bestie che trovavano nelle grandi celle frigorifere. Ero andato lì in cucina, e allora cos’è successo? È successo che un sacco di prigionieri [hanno avuto la] dissenteria, e sono anche morti. C’era un liquame fuori che era spaventoso: io non avevo mai visto un’autobotte vuotare i pozzi neri dentro in un campo. Dopo questa storia qui era un disastro, un disastro. Dopo hanno cambiato! Dopo si sono accorti, finalmente. Prendevamo il pane con un po’ di burro su quel gamellino che avevamo, si scaldava sul fuoco e si arrostiva il pane. Mangiavamo così, per 3-4 giorni, 5 giorni. C’è stata una commissione di medici in divisa – diversi tipi di divisa – e dopo lì hanno bloccato questo tipo di alimentazione.

Lì siamo stati ad aspettare di essere rimpatriati. Veniva ogni tanto nella nostra baracca un ufficiale americano, di origine italiana, il quale parlava napoletano, ci ha detto: “Io non so l’italiano, io so solo il napoletano perché i miei genitori sono napoletani”. Lui era medico… no, farmacista era, farmacista mi ha detto, sì. La sorella era medico, ci ha raccontato la storia di tutti i laureati, fratelli eccetera. Era Maggiore, diceva: “Dovete portare pazienza che prima o dopo vi porteremo a casa”. E così è successo. Io ero stato ricoverato in infermeria, lì, del campo, non ricordo neanche bene cosa accusavo, stavo poco bene, allora mi hanno: “Beh, resta qua, vediamo”. Sono rimasto in infermeria del campo, e vicino a me c’era un polacco, povero, pesava sì e no 30 chili. Tutto il giorno pregava, la notte pregava, poverino. Lui non ha dormito, non ha detto una parola, solo pregava, pregava e dopo è rimasto lì.

Dopo questi tre giorni, dell’episodio di questo polacco che ho raccontato, arriva mio fratello. Mi batte alla finestra: “Guarda che si parte, oggi alle 11 è arrivato l’ordine, si parte”. “Allora vengo a casa anch’io” dico. Vado in infermeria e glielo dico al medico: “Sì, sì, guardo un po’, si faccia visitare…”. C’era un medico, un russo. Io e un altro mio compaesano – un certo Ferruccio Doloi, era con me – siamo usciti dall’infermeria, caricati in questa colonna di camioncini e siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano c’erano questi americani che guidavano, tutti neri, anche bianchi, coi piedi fuori del finestrino che bevevano whisky, bottiglie di whisky fuori dal finestrino; a un certo momento ha dato una frenata – perché quelli in colonna, sai, uno in curva frena e non… – Aldo Vigorin, che era un mio compagno, era seduto qua nella camionetta, io ero laggiù, con la frenata da là è arrivato sopra di me. Insomma, siamo arrivati a Bolzano sani e salvi. A Bolzano c’era un centro, io non so cosa poteva essere, un grande cortile ricordo, delle grandi stanze con letti, non so se una caserma poi adibita per emergenza, non lo so. Lì ho trovato anche altri miei compagni che erano arrivati qualche giorno prima, si vede che era un centro di raccolta. Attraverso il Brennero si arrivava e dopo ognuno si arrangiava. Arrivo lì a Bolzano, saluto i compagni che era da tanto tempo che non vedevo, mi fanno andare a riposare in questi letti là dentro. Dopo veniva [il medico]: “E’ meglio che tu resti qui”, perché gli ho detto “Forse ho il tifo, non lo so”, ero ricoverato e mi chiedevano cosa potevo avere. Loro venivano lì ogni giorno: un medico, sarà stato il primario, con tanti altri medici attorno, in otto o dieci in camice bianco, sollevavano le coperte, ti visitavano. Dopo, [per] quelli più magri c’era sempre un operatore che riprendeva. Dopo di che mio fratello dice: “Guarda, approfitto di una corriera che va a Trieste… o Udine” “Io rimango qui perché i medici mi hanno detto che è meglio”. Da lì mi hanno trasferito all’ospedale civile. Oh, bellissimo! A Bolzano. Avevo una camera, io e un ragazzo di Udine, con una bella terrazza, un giardino, favoloso. Premevo il bottone, mi portavano tutto quello che volevo, medici la mattina, suore la sera, insomma, assistiti in maniera esemplare. Lì sono rimasto un po’ di giorni e i medici dicono: “Meglio che lei rimanga qui perché noi la curiamo e se va a casa difficilmente potrà avere questa assistenza”. Allora rimaniamo lì, io e questo ragazzo di Udine. Un giorno arriva il fratello di questo qua: si vede che qualcuno aveva anticipato la partenza, aveva avvisato i familiari. “Di dove siete voi? – Di Udine – Ah, di Udine. C’è un pullman, la corriera, e andiamo a casa – Senta, potrebbe darmi un passaggio? – Dove abita lei? – A Ronchi del Legionari – Uh, difficile, bisogna che parli col parroco perché a Ronchi c’è una zona che era occupata come Trieste dalle truppe jugoslave (c’erano stati i fatti di Gorizia eccetera, uccisioni o altro) è un territorio che lei… è meglio che non vada – Guardi, dico, io vengo con voi fino a Udine, dopo vado a San Giorgio di Nogaro e mi farò ospitare dai miei parenti”. Questo naturalmente è quello che dicevo loro.

Io sono arrivato a Udine con loro, tutta la notte con questa corriera scassatissima. A Udine vado alla stazione e trovo dei miei paesani che lavoravano in trasferta, a Tolmezzo, quelli dell’aeronautica che si erano trasferiti… a Tarcento, a Tarcento: “Guarda Mario, sta qui con noi che noi adesso prendiamo il treno, poi scendiamo a Cervignana, il ponte di Pieris era stato fatto saltare per cui il treno non può transitare sul ponte, però abbiamo il camioncino del cantiere che ci porterà a casa”. E così io sono riuscito ad arrivare sino a Ronchi senza fare un passo. Scendo vicino all’aeroporto, passa Armando Filiput. Questo Armando Filiput, un mio vicino di casa era, campione olimpionico, uno dei primati mondiali ha detenuto, per il salto a ostacoli, ha fatto le Olimpiadi. Uno noto, Filiput, un olimpionico italiano. Mi ha visto, mi ha caricato in bicicletta e mi ha portato fino a casa. Così il mio tragitto del ritorno dalla Germania: camion americani, treno, camioncino e bicicletta. Ci sono alcuni invece che hanno dovuto camminare, cambiare treni. Ci sono alcuni che addirittura li hanno portati attraverso la Jugoslavia.