Benassi Roberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Roberto Benassi. Sono nato il 28 novembre del 1915 a Genova, ed abito a Genova. Sono stato arrestato da… era l’OVRA allora, nel ’39 mi pare, nel ’39. E portato a Regina Coeli e condannato per reato contro lo stato fascista. Poi, di là, m’han poi portato a Porto Longone, e sono stato tre anni e mezzo o più a Porto Longone. Poi ci hanno fatto sgombrare…

D: Roberto, che cosa vuol dire a Porto Longone? Cosa c’è a Porto Longone?

R: È il penitenziario. Ce n’erano due di quelli lì in Italia. Uno Porto Longone e l’altro era giù a… che c’era i campi della mafia una volta… e sono stato anche a visitarlo dopo quello là. Nel ’44, quando ormai si avvicinava… c’era già lo sbarco in bassa Italia, c’hanno fatto sgombrare e in mano alle brigate… era la Guardia repubblicana e Brigate nere, e c’hanno portato a Parma. Tutti i politici che eravamo là ci hanno portato a Parma. Qualcuno è stato liberato col telegramma, qualche politico sì…

D: Cosa significa col telegramma?

R: Dopo la caduta del Fascismo, c’è stato qualche mese… e qualcuno col telegramma è riuscito a esser liberato, altri no perché erano molto lenti con i telegrammi. E allora poi furono… era tutto il braccio di politici [che] fu portato a Parma – a San Francesco – e lì eravamo in mano alle SS tedesche. Le SS. Poi abbiamo avuto il bombardamento a Parma, il primo bombardamento che ha avuto la città l’abbiamo avuto anche noi lì. Ha preso il carcere e ci siamo salvati quasi per miracolo perché nel cortile avevamo scavato dei camminamenti alti quasi due metri, coperti dalle griglie, e con un pezzo di legno per tenere la bocca aperta perché… E le bombe sono esplose talmente vicine che non abbiamo sentito nemmeno le botte. Ballava la terra ma le esplosioni no. Finito il bombardamento, era l’una [di] pomeriggio, col sole tutto non si vedeva niente, tutto calcinacci. Di lì, poi c’hanno sgombrato. Ci han portato alla Certosa di Parma, sempre in mano alle Brigate nere e SS.

D: Roberto, tu sei stato interrogato a Parma?

R: Ah no, a Roma fummo interrogati. A Roma, prima, quando eravamo al Tribunale speciale.

D: Ma per te il 25 luglio non ha comportato niente? Sei sempre rimasto a Porto Longone?

R: Quasi tutti. Tre o quattro sono riusciti a ricevere il telegramma.

D: Ma che cosa avevi fatto per essere…?

R: Reato… ma erano tutti reati politici. Era un blocco… eravamo un braccio… tutti politici. C’erano spionaggio, c’era organizzazione del Partito, c’era propaganda, e via di seguito.

D: Ma la tua attività, il tuo motivo personale?

R: [Il mio] era spionaggio politico-militare. Non volevamo la guerra, volevamo che non la facesse la guerra. E invece camminava verso l’imperialismo, verso la guerra e via. Tanto è vero che lì venne poi dopo un mese [dal mio trasferimento a Parma, mentre Porto Longone e l’Elba erano occupati dagli alleati] un Ufficiale dei Servizi a cercare di me, ma non c’ero più. Voleva liberarmi e portarmi a bordo, e farmi combattere, perché è durata poi un anno ancora [la guerra].

D: Ascolta, poi allora la Certosa di Parma…

R: Certosa di Parma… dopo Parma a Fossoli. A Fossoli ci han portato. A Fossoli eravamo in mano alle SS. E so che ci siamo trovati assieme con quelli di Milano, di Torino, della Breda. Anche loro [hanno] caricato lì. E fino al… mi pare attorno al 18 giugno del ’44.

D: Roberto, sei stato immatricolato a Fossoli?

R: No, no.

D: Ti ricordi in che baracca eri?

R: Mi ricordo il capo blocco perché è mancato. E lo conoscevo anche, era un maestro proprio di Genova, di Borgoratti. Vezzelli, Armando Vezzelli, buon’anima. Era capo blocco lui. E abbiam dedicato un’aula alla scuola di Borgoratti a lui.

D: E un giorno? Cosa è successo un giorno?

R: Beh, ci hanno imbarcati tutti e ci hanno portato a Carpi. Coi camion a Carpi, e a Carpi sui treni, sui vagoni, quei famosi vagoni… dei carri bestiame. Eran ventidue vagoni. Ventidue vagoni. E di lì c’han distribuito un pane a testa, una pagnotta, e poi la popolazione ha portato due o tre cestini di ciliegie e amarene. E quello era il nostro mangiare per tutto il viaggio, eh. E su su… insomma, tre giorni e due notti. Poi siamo arrivati a Mauthausen, di notte. Di notte, a Mauthausen, dalla stazione, giù [vedevamo] che è un paesetto vicino al Danubio. Di lì, tutti in fila – c’erano i cani – in fila, su in salita, su un altipiano, poi il campo, campo di sterminio. Pensi che mio padre, buon’anima, è stato a Mauthausen, ma [in] paese, nell’altra guerra. [Nel] ’15-’18 è stato, era vicino alla stazione, mi diceva… va beh, io invece da su. E i colpi nella schiena, “schnell, schnell”. Dopo tre giorni di vagone, o più, e col poco mangiare che avevamo e tutto…
Su siamo arrivati – tutta a piedi eh, è lunga, sono 3-4 chilometri buoni – siamo entrati nel locale… è uno… ci sono le porte grosse, non è la principale quella… E di là ci hanno spogliato, tutti nudi, tutta la notte nudi all’addiaccio. Per fortuna era giugno, era intorno al… il 24 mi pare che fosse, di giugno, 23 o 24 di giugno. E alla mattina poi giù a rasare capelli. Dove c’erano peli, rasare tutto, la disinfettata, poi la doccia. E poi ci davano un paio di mutande e la camicia. Scalzi, in quarantena. In quarantena, che erano le baracche 16, 17, 18, 19 e 20. Cinque baracche che erano in fondo all’Appellplatz. E c’era una porticina dietro a quel muro ed eravamo noi. E noi siamo andati alla baracca 17, la seconda era. E lì, alla sera… tutti i materassini alla mattina si toglievano, alla sera si dovevano mettere tutti in terra. E poi dovevamo metterci a dormire testa e piedi, di costa, se no non ci [si] stava: se uno si metteva con la schiena giù uno rimaneva in piedi. E allora col bastone, o con la ‘gumma’, die Gummi :“Se non vi mettete a posto passo e picchio”. Picchiava tutti, eh. E allora si trovava il posto, perché cominciavano a dare colpi di…
E sono stato 3-4 giorni lì. Poi m’hanno mandato al Baukommando. Baukommando sarebbe comando costruzioni [squadra di lavoro edilizia, ndr], nel campo stesso. Dovevamo costruire le fogne. Ecco, siccome io ero un pugile – ero stato pugile una volta, dicevano che ero bravo, ero prima serie d’Italia – e c’era l’organizzazione pugilistica nel campo. Francesi, c’erano cinque o sei pugili, spagnoli ce n’erano diversi, tedeschi… Italiano non ce n’era… Parlavo il francese abbastanza bene, e con i polacchi ho parlato, e francesi, allora m’han provato. M’han fatto fare i guanti con uno spagnolo. In mutande, camicia, scalzo. Ho messo i guanti. Sotto dal [forno] crematorio, c’era una saletta lì. Boxavo bene, e m’han fatto… Così dal Baukommando mi hanno portato in officina elettrica, sempre a Mauthausen. In officina elettrica stavo meglio perché non avevo quasi niente da lavorare.

D: Roberto, nel frattempo avevi ricevuto un numero di matricola?

R: Sì, a Mauthausen sì. A Mauthausen era – in italiano – settantaseimiladuecento e trentasette [76237].

D: Ma lo dicevi in italiano?

R: No! Oh, ci prendevano degli sganassoni se non si sapeva. In tedesco bisognava saperlo. E ho fatto presto a impararlo. Lo vuoi sentire in tedesco lo stesso numero? È sechsundsiebzigtausendzweihundertsiebenunddreizig. Perché invertono i numeri loro.

D: L’officina elettrica?

R: Ecco. C’era un capo, un capo che era un austriaco, era un socialista si vede. Ma ci vedeva volentieri noi, e mi trattava bene anche lui lì. E mi diceva “Quì – diceva così – aquì, quieren que tu trabaja como un caballo e te dona de comer como una gallina”: chiede che lavori come un cavallo, e ti danno da mangiare come una gallina. Lui trattava bene, infatti ho fatto quattro o cinque incontri di [pugilato]. E il primo incontro, m’è toccato un tedesco che era Heltzer. È quello che portava i detenuti giù a prendere le pietre squadrate giù alla cava, quelle pietre squadrate poi da portarle su. E ‘sto qui, lui era 74 chili, un armadio sembrava. E io sembravo un bambino. M’ha dato tante botte, tante botte che non le ho prese in tutti gli incontri che ho fatto, eh. Però non ho piegato le gambe, quando sono andato all’angolo – la terza ripresa – parlavo da solo, ho detto “Bacicin ten canun”. Il mio soprannome era Bacicin. Parlavo da solo, “sei un cannone”, perché non avevo piegato le gambe. Ero nero eh, dalle botte. E così, dopo il secondo incontro, dopo quindici giorni, c’era un polacco che io insegnavo a parlare italiano a lui, che lui parlava francese, col francese lui insegnava… Senza dire niente a me, ‘sto Stashek Gregor, ha combinato l’altro incontro con me, convinto di darmele, perché m’ha visto buscare [subire colpi, ndr]. I francesi m’hanno avvertito, erano amici. M’han detto “Fais attention que [c’est] lui qui a voulu tout ça”. “Ah, bon!”. E allora prima di andare sul ring gli ho detto “Moi, sur ring je ne connais pas des amis. Je fais du sport”. “Et moi aussi”. “C’est bien alors”. Ecco. Così siamo andati sul ring, ma l’ho preso in velocità. Invece in quindici giorni – il primo incontro ero duro, ero legato – mi son sorto [ripreso, ndr]. L’ho preso in velocità e arrivavo da tutte le posizioni e lui non poteva far niente. Alla seconda ripresa lo invito, destro d’incontro, fulminato. Poi, ko. L’arbitro contava lentamente, non un secondo, uno e mezzo, anche due. Ma dopo i dieci [conti] eran già quindici [secondi] e ha dovuto prenderlo di peso, all’angolo, coi sali… E siamo andati avanti, ho fatto ancora un altro incontro con… Ah! Non l’ho detto un fatto. Appena quella notte che siamo arrivati, alla mattina, quello che c’ha rasato era un pugile, non lo sapevo io, e m’ha rubato quello che avevo in mano: saponetta, dentifricio… Non ho potuto reagire che mi son preso una sganassata qui, e poi m’hanno impedito tutti di fare dell’altro. Poi ho saputo. Era il pugile che mi toccò lui. Venne a cercarmi, mi offrì da mangiare, mi disse: “Io sono tedesco, ricevo i pacchi da casa”. Gli ho detto: “Tu deutsche, io sono italiener. Du shlage, ich auch shlagen können [kann, ndr]”. Tu picchi ma anch’io so picchiare. Non ho accettato niente. Allora, era forte questo qui, eh. Era un bel pugile. Aveva però avuto paura… aveva visto quel destro, no. E mi son detto, se non sto attento me le dà, perché veloce e un bel pugno. Ho visto però che aveva paura del destro. “Oh”, allora ho detto, “sei fregato”, perché il sinistro è quasi uguale: io ero ambidestro. Difatti di sinistro, tum, pluf. Ko. Gli spagnoli m’han portato in trionfo: “Tan bien a manciana tiene oste”. Anche la sinistra c’hai, no.

D: Roberto, ascolta, dove venivano allestiti questi incontri di boxe?

R: Lì erano i polacchi e i francesi che gestivano tutto, lì.

D: Ma i deportati?

R: Sì.

D: E dove?

R: Nel campo.

D: Ma dove?

R: Lì, al blocco 16, che era quarantena. Oppure nella piazza, l’Appellplatz. L’Appellplatz che è grande.

D: E le SS non dicevano niente?

R: E c’era lì, si montavano lì. Era uno spettacolo che si godeva anche l’SS eh. Oltre quelli dei blocchi liberi – perché fino al 12 avevamo blocchi liberi che potevamo circolare – gli altri blocchi erano quarantena o i transiti o via.

D: Ma giocavate di notte o…?

R: No, no, alla domenica. La domenica.

D: E durante la settimana lavoravi a…

R: Eh, giù al lavoro

D: E in che cosa consisteva il tuo lavoro?

R: Appunto, allora era un’officina elettrica, per quello m’hanno trattato bene come… eh, c’è un fatto, che chi mi aiutava da mangiare… perché era quello… E c’era un compagno che è mancato, era uno che l’han preso alla Benedicta [azienda di Genova, ndr]. Devo dire il nome? Salerno si chiamava. È mancato quattro anni fa. E lui era due, quasi tre mesi prima di me a Mauthausen. Era piazzato bene. Era Stubendienst, garzone di baracca. Era una baracca che erano tutti spagnoli e tedeschi. E la zuppa non la mangiava nessuno. La zuppa la dava… metteva in fila chi la voleva e la dava a tutti. Poi però loro rubavano anche il pane, e a me mi dava un pezzo di pane, un po’ di margarina. Due giorni soli me l’ha data perché in baracca con me eravamo cinque italiani… dividevo. Il terzo giorno qualcuno gliel’ha detto, m’ha fatto sedere là da lui. “Ecco, questo pane lo mangi te, perché te devi andare sul ring. E gli altri della zuppa ce n’è per tutti”. Eh, dovevo mangiarla lì.

D: Ascolta, ma il tuo lavoro all’officina elettrica in cosa consisteva?

R: Ero un muratore. Maurer, Maurer. Qualche volta ho lavorato… per lo più facevo… o limavo o facevo qualcos’altro. Perché era un po’ una copertura per aiutare il pugile, capisce? Per mascherare.

D: Ma giravi anche nel campo con il tuo lavoro?

R: Ero nell’officina elettrica. Siete stati a Mauthausen? La parte [del] museo, era tutto quello lì, e sotto c’era l’officina elettrica. Perché quello lì doveva essere il nuovo ospedale. Quando ci lavoravamo noi eravamo sotto. Era in costruzione sopra, no.

D: Eravate in tanti all’officina elettrica?

R: Eh, c’eran dei tecnici cecoslovacchi bravissimi. Avevamo sempre una radio… loro tenevano una radio, con la scusa di ripararla, per sentire le notizie, no. Eravamo una decina di uomini a lavorare lì. Questo m’è durato fino a quando ho fatto l’ultimo incontro con Hertzer, quel tedesco là, che gli ho fatto piegar le gambe. […] E l’ho rimesso in piedi l’ho rimesso. E poi è andato pari ma noi avevamo buscato. Già due giorni dopo io non ero più lì. Transport. E quella volta [quando] m’han fermato: “Italiano, back stay in block”. Ho sentito un freddo nella schiena, perché poteva essere il crematorio. Solo che dopo, quando m’han chiamato: “Hei, tu, transport”. “Ah beh, allora non è ancora…”. Infatti, poi a piedi di lì, a Gusen. Da Gusen a Lungitz. Abbiamo dormito una notte a Gusen. Da Gusen a Lungitz, altri dodici chilometri. E a Lungitz eravamo trecento, più o meno, trecento. Dovevamo costruire un Beckerei, un forno, per il pane.

D: Questo quando è successo? Questo trasporto, più o meno quando?

R: Dunque, compivo gli anni per strada, quindi fine novembre e i primi di dicembre [1944]. Il 28 compivo gli anni di novembre, perciò, era lì. Tra l’altro c’è stata… poco dopo c’è stata la prima neve lì, e l’unica fuga che han fatto da Mauthausen, dai blocchi là della quarantena, l’han fatta i russi, 19-20: i due blocchi ultimi, l’alta tensione intorno avevano. Me la raccontò uno: son cinque o sette che si son salvati, su settecento. Perché con la prima neve quei tetti lì eran piuttosto [appesantiti], minacciavano di sfondarsi. Allora [i tedeschi] han detto: “Un volontario per baracca, per andare a spalare la neve”. E loro erano organizzati come a casa, avevano un responsabile [per baracca]. È uscito il responsabile nell’una e nell’altra. Han spalato la neve e han guardato bene. Erano nell’angolo. Girato l’angolo, sui pali, c’era una garrita grande, con la Maschinengewehr, con la sega di Hitler, e c’erano cinque SS, tutti armati. Lui ha visto bene tutto, poi ha spalato tutta la neve giù… tutt’e due; la neve l’han buttata vicino ai muri, poi son rientrati. […] La notte li facevano uscire, perché non potessero orientarsi. E alla notte, come li han fatti uscire, con una coperta addosso, una spranga di ferro l’han buttata sui reticolati: corto circuito, tutto il campo al buio. Un attimo dopo avevan già disarmato quelli là su. Disarmati e buttati giù, via… I tedeschi non sapevano niente, han fatto per venire su, e questi han cominciato a sparare. Allora poi son tornati coi carri armati, auto blindo [e] carri armati. Hanno fatto una strage. Qualcuno se n’è andato ma c’era la neve, e tanti li han rintracciati presto [per le] orme. E quello che me l’ha raccontato – era un eroe dell’Unione sovietica già – è capitato in una fattoria dove c’erano tante donne russe a lavorare. Quando l’han visto gli han parlato, gli han detto: “Chi è?”. L’han spogliato sulla neve, han bruciato i suoi vestiti, e gli han dato altra roba sporca di sterco, e poi l’han nascosto nel fieno. L’han salvato così. Quando potevano gli portavano da mangiare. E ce la raccontò alla Liberazione, mangiò con noi e ci raccontò come andarono ‘sti fatti. E lì siamo già alla Liberazione.

D: Roberto, scusa, ma quando da Gusen ti hanno portato in quell’altro sottocampo…

R: A Lungitz.

D: Dovevi lavorare lì?

R: Lì ero… al giorno facevamo i ferri per il cemento armato: piega ferri, ferraiolo sarebbe. E alla sera, per avere un pezzetto di pane in più, facevamo dalle sei alle undici il Nachtarbeit. Dalle sei alle undici per un pezzetto di pane. C’era il greco, mi diceva: “Italiano, tu consumare di più!”. E aveva ragione lui. Perché lui non veniva, ma quando c’han fatto sgombrare venti giorni prima della fine – c’han fatto sgombrare da Gusen – io son caduto per terra. Da solo non mi rialzavo più. E il greco e il triestino, io c’ho detto: “Lasciatemi stare che… son finito qua”. M’ha dato una sberla il triestino, poi dice: “Tasi, mona”. Un braccio per uno m’han rimesso in piedi, sennò io ero lì, un colpo in testa e… Il bello è [che] quella notte lì han fatto il congresso di Yalta, i grandi. I russi han dovuto tornare indietro perché avevano camminato troppo, così noi siam ritornati a capo. Altri venti giorni e quanti… Dopo venti giorni sono arrivati gli americani. E i primi della zona sono arrivati da Lungitz. Alla mattina alle otto sono arrivati con una jeep, erano sei uomini, hanno disarmato… le SS erano scappate tutte. C’erano gli anziani… però gli anziani… a noi non volevano dare le armi. Però a loro gliele han date subito, con le mani così [dietro la nuca, ndr], gli han portati via. Han sparato nel cancello, nel lucchetto, e han detto: “Go away”. […]. E noi [siamo andati] nei magazzini: era una settimana che pane non ne vedevamo.

D: Ma Roberto, quest’altro sottocampo di Mauthausen, quello dopo Gusen…

R: Sì, era un sottocampo di Mauthausen. Avevo sempre la stessa matricola io.

D: Ma era distante molto da Gusen?

R: Più o meno quello che era da Mauthausen a lì: 12 chilometri, 12-13 chilometri, più o meno sì.

D: E come era organizzato? C’erano molte baracche?

R: Erano 300 [persone], erano due baracche mi pare. Due baracche, poi la cucina, e di là c’era l’abitazione delle SS. Eravamo chiusi dentro e lì dovevamo lavorare anche. Il Beckerei, il forno, lo dovevamo fare lì dentro.

D: E c’erano altri italiani?

R: Lì eravamo cinque o sei… cinque. C’erano dei ragazzi di… partigiani di Udine, di quella zona lì. Poi chi c’era? Il triestino, buon’anima, è mancato, sarà 10-12 anni fa. Un romano che non son riuscito mai a ricordarmi il nome, eppure eravamo insieme anche a Mauthausen, quando ero al Baukommando eravamo assieme, e poi lui era anche lì con noi…

D: C’era anche qualcuno di Empoli, se ti ricordi?

R: Di Empoli… sì, ma non so dove sono andati… A Mauthausen è stato portato qualcuno di Empoli.

D: Ma lì a Gusen III, lì quando facevate il forno, quando dovevate costruire il forno, c’era anche qualcuno di Empoli?

R: No, lì no. C’era uno… due di Milano, di…

D: Ascolta, e alla Liberazione però vi hanno portato a Gusen I?

R: No no. Alla Liberazione avevamo messo insieme i fili di un’ambulanza, un’autoambulanza che era una Citroën, aveva già il cambio sotto al volante. Avevamo un fusto di benzina, da 200 litri o quanti sono. Tanche di benzina avevamo preso, e una tanca d’olio. Credevamo fosse olio, olio da motore, invece era olio di semi, c’è servito poi per cucinare.

D: Ma dove sei stato liberato tu?

R: Da Lungitz. Quel giorno lì il primo campo è stato Lungitz. È scritto con la ‘gi’ ma loro pronunciano ‘g’, Lungitz. Poi hanno liberato Gusen, la stessa camionetta. E oggi… qualche anno fa, è un ufficiale superiore, allora era un sergente mi pare. Poi da Gusen andò a Mauthausen, contro il parere dei superiori. Dice: “Qui bisogna far presto”. Ha visto quanti cadaveri, quanta gente che moriva. Li vedeva camminare come automi: bum, a terra, basta.

D: Roberto, quindi tu sei stato liberato lì a Gusen III?

R: A Lungitz, a Lungitz.

D: Sì, a Lungitz. Tu sei stato liberato lì.

R: Ma poi di lì c’han portato a Wels. Noi volevamo [andare] con l’ambulanza, avevamo la benzina per arrivare a casa, invece ci han bloccato e ci han buttato lì, nella caserma di Wels.

D: E lì cosa ti hanno fatto?

R: Lì erano gli americani, ci davano da mangiare. Andavamo a prendere da mangiare, anche troppo. E tanti son morti perché hanno mangiato troppo. È che ci davano… avremmo dovuto mangiare un po’ di brodo, man mano più spesso, per riabituare l’organismo. Invece così… pastasciutta, condita con marmellata, e burro. Era da morire. Io ho avuto la fortuna… la prima sera che c’era un fornaio con noi – e avevamo preso farina anche nel magazzino – ha fatto le lasagne, e ha fatto il pane, ma io non ne ho mangiate. Avevo dei dolori, dei dolori di pancia. E in quella fattoria c’era una donna – c’era un anziano, un vecchio, poi tutte donne, e bambini – e c’ho detto: “Ich bin krank, habe Ich Schmerzen”. Ho i dolori qui. È tornata con una bella tazza di latte caldo, con la grappa dentro. M’ha detto: “Trinken! Ganzen, ganzen! Trinken!”. E io l’ho bevuta. Poi su una panca, mi sono allungato lì, ho dormito tutta la notte. Alla mattina stavo bene. Poi ho cominciato a mangiare, e stavo bene. Invece quel romano che non sono mai riuscito a trovare il nome, a ricordare, lui invece mangiava, mangiava… E io dicevo: “Guarda che stai crepando”. Per fortuna ho trovato un pezzo di specchio, gli sono andato avanti, [gliel’] ho messo così. Gli ha preso paura quando s’è visto. M’ha detto: “Bacicin, se non ti ubbidisco picchiami!”. E allora gli riducevo il mangiare, poco poco, ed il brodo dopo, spesso. In 3-4 giorni mangiava come mangiavo io. E non riesco a ricordare il nome di quel ragazzo lì.

D: Roberto, e dopo Wels cos’hai fatto?

R: E dopo di lì, poi siamo stati… poi ci hanno imbarcato nei treni. Ora ricordare le date precise… ma io non stavo in piedi però. So che i treni poi ci hanno portato fino a Bolzano. A Bolzano volevo andare a casa. A casa era un anno che non sapevano niente. Io non stavo in piedi… “Ma tu non puoi andare a casa. Te, all’ospedale!”. “No…”. Di peso m’han portato all’ospedale. Dovevano operarmi, diceva appendicite. Boh. E io non so. Non potevo reggermi su ‘sta gamba [sinistra, ndr], hanno piantato un ago qui dietro per vedere il rene. Era un “tutto bene, tutto bene”. Dopo qualche giorno camminavo bene. E poi per fortuna erano venuti dei preti lì… c’era un prete, di Genova, e gli ho detto di avvisare la mia famiglia. Meno male son venuti – lui non è mai andato – son venuti due di Sestri e m’han chiesto, ci ho detto… Credevano che uno venendo di lì [dal campo] conoscesse tutti. Ma conoscevi quelli che avevi lì e basta, perché gli altri non potevi… Quei due fratelli di Sestri sono andati avvisare a casa mia. Hanno avvisato mio fratello, buon’anima, che lui era partigiano in Toscana, era commissario politico nella Brigata… a Siena, da quelle parti. E lui è venuto a placcarla su e m’ha preso. Siamo andati dal dottore: “Lui può andare a casa”. L’operazione non l’ho mai fatta. E son tornato a casa così.

D: In Treno?

R: Fino a Milano… No, fino a Milano [con] uno di quei camion grossi. Era autista un nero. La Gardesana, più di 100 all’ora andava. Però siamo arrivati salvi a Milano. Poi a Milano abbiamo mangiato a casa di un ex pilota, compagno di mio fratello, e l’indomani a Genova col treno. Il biglietto con la Croce Rossa in treno.

D: Roberto, nei diversi Lager che tu sei stato – Mauthausen, Gusen, eccetera, ma anche quelli italiani – hai visto se c’erano dei religiosi?

R: Oh sì, religiosi ce n’eran parecchi. E qualcuno che conoscevo anche. C’era uno… Don Campi mi pare che si chiamasse, di San Martino, era a Mauthausen quello lì. Don Gagero, buon’anima, anche lui è mancato. Anche lui, era a Mauthausen anche lui. Poi l’han liberato da Mauthausen. E io invece… Alla Liberazione non siamo andati in campo, potevamo venire a casa, invece ci han portato a Wels. A Wels, chiusi nella caserma…

D: Roberto, hai visto se c’erano anche dei bambini, dei ragazzini?

R: Subito [appena deportati] nel trasporto con noi c’era uno di Firenze, non ricordo il nome. Lui e suo zio. Il padre era partigiano, in Toscana, a Firenze. Volevano che si consegnasse, non s’è consegnato, hanno preso lo zio… il fratello del padre, e il bimbo, il figlio. Aveva dodici anni mi pare. Però ho visto anche nei trasporti i bambini sui dieci anni, più o meno. E avevan fame. Noi, eran i primi giorni, non avevamo ancora fame così, no. E se cercavano un pezzetto di pane… non volevano… “Son ladri – dicevano – son ladri”. E rubavano sì, se non avevano da mangiare rubavano.

D: A Mauthausen…

R: A Mauthausen. Quand’ero in quarantena ne ho visti di trasporti di bambini così.

D: A Mauthausen hai visto anche se c’erano delle donne deportate?

R: Ho visto quelle della casa… del bordello, perché c’era anche il bordello. Però ci sono state anche delle donne [deportate]. So perché una delle nostre, che adesso è mancata, aveva firmato nel carcere a Mauthausen. Quando siam tornati, nel ’75: “Vieni un po’ a vedere”. In un braghettone nella finestra del carcere c’era il suo nome. Era una di… era di Milano, da quelle parti lì era.

D: Ascolta una cosa Roberto, quando ti facevano tirare di boxe a Mauthausen, il ring, dov’è che era messo rispetto al campo?

R: Dentro il campo. L’Appellplatz è grande. Ecco, a un lato dell’Appellplatz… o anche delle volte, quand’era un po’ freschino, dentro alle baracche di quarantena, che al giorno son vuote. Alla sera metton lì i trapuntini a terra, ma il giorno son vuote lì. Ho boxato lì e fuori.

D: E in che giorni, se ti ricordi, della settimana facevano questi combattimenti?

R: Mi pare fosse di domenica.

D: Chi partecipava? Chi assisteva agli incontri?

R: Anche quelli che erano nei blocchi liberi, e le SS, tutte loro, anche quelle di guardia sopra vedevano bene, no.

D: Roberto, quando tu sei stato deportato, hai visto azioni di violenza?

R: Azioni…

D: di violenza, contro i deportati?

R: Dunque, io ho visto… parecchie, parecchie. Quasi tutti i giorni. La strada che dal campo va giù alla scala della morte, giù lì, a qualcuno toglievano il berretto e lo buttavano verso il reticolato e lo mandavano a prendere. Il Post [Posten, ndr] – era sulle garrite, a 30-40 metri l’una dall’altra – come vedeva [il deportato], tum [sparava]. Ne ho visto uno, cinque salti ha fatto, cinque volte gli ha sparato. Poi l’ultimo è rimasto là. Che scene ho visto. E ho visto anche… e questo nessuno l’ha scritto… Erano partigiani belga-olandesi, ragazzi giovani, in gamba, li han tenuti 48 ore faccia contro il muro, dentro a Mauthausen, e ogni tanto ne prelevavano due e li portavano fuori. C’era il Politische Abteilung, l’ufficio politico, e li interrogavano, li torturavano: nessuno parlava. Gli spagnoli, i giovani, facevano i servizi, erano entusiasti, dicevano: “No hay uno que abla. Que corazon que tiene”. Però il primo giorno, al pomeriggio, io ero fuori [in] una baracca lì e vedevamo… ho visto… prima li han fatto fare due viaggi, con la cosa per le pietre. Il terzo viaggio c’era il reticolato – adesso non ci sono più quei reticolati ma… io li vedo [ancora] – che faceva angolo, [poi] un passo d’uomo [passaggio coperto, ndr], e 20-30 metri più indietro sulla garrita c’era [il Posten], aveva un Parabellum russo, sparava con quello. Metà li ha fatti uscire da questo passo d’uomo, l’altra metà continuare, e quello là che sparava su questi. Eh. So che ero rimasto incantato alla finestra, il triestino m’ha strappato via: se si accorgevano che avevamo visto ci ammazzavano anche a noi. Ero rimasto bloccato, non ero capace di muovermi, era una cosa tremenda. Poi un fotografo… fotografa… figurano fuori dal reticolato: un tentativo di fuga. […] Il Post passava, col piede lo toccava, se muovevi ti dava il colpo di grazia col fucile. Poi ho visto quando li han portati su, han caricato dei carrelli… una scia di sangue… L’altra metà l’indomani han [subito] lo stesso, però non eravamo lì a lavorare, quelli non li ho visti. Questi qui non credo che ci sia più nessuno che li ha visti.

D: Roberto, ti ricordi se fuori dalla recinzione del campo di Mauthausen c’erano delle officine?

R: Erano nei boschi però, andavan giù. Ci andavano giù, eh. C’erano dei compagni nostri che andavano giù. C’era Antolini, buon’anima, di Genova; c’era il Masetti, anche, il Masetti di Bologna, che è mancato anche lui qualche anno fa. Andavano giù nella scala… tutta la mattina c’era la scalera della muerte, giù, e andavano nei boschi. Facevano dei pezzi di aeroplano. Eh, sì. Invece di qua – quelli però li ho visti dopo, sapevo che c’era – a Ebensee c’erano quelle che avrà raccontato Algeri, dove facevano le Fau 1 e Fau 2 [V1 e V2, ndr]. E le gallerie ci sono ancora lì.

D: Io ti chiedevo lì attorno a Mauthausen se ti ricordi di officine.

R: Ma io non sono mai andato in quei posti lì. Io, escluso il campo… Per andare all’officina elettrica che era lì, che dalla [baracca] 12 erano 30 metri, dovevamo uscire dalla porta principale, togliersi il berretto e salutare la sentinella, facevamo un giro largo, poi andavamo di là, e per ritornare uguale. Mentre lì dentro erano 30 metri. C’erano cinque campi in un campo, capito. Grande il [perimetro] esterno, poi man mano [i più piccoli interni]: lì c’era il campo russo, l’ospedale – lo chiamavano Revier.

D: Tu sei mai stato al Revier?

R: Quando stavo male gli ultimi… volevo farmi mandare, ma si vede che il Kommandoführer – era un maresciallo, era lui che comandava, avevano facoltà di vita e di morte di noi loro – so che gli ho chiesto: “Bitte, bitte, Ich bin krank. Revier”. “Italiano, nicht gut Revier. Kaputtmachen. Bleibst im Bett”. Stattene a letto. Son rimasto lì, non me l’aspettavo. Poi ho capito: si vede che lui mi aveva visto quando facevo il pugile, perché ha dimostrato una certa forma di benevolenza, di simpatia ecco. Infatti anche alla baracca 17, in quarantena, il capo blocco era un omone, era peso massimo, aveva fatto pugilato ai suoi tempi, e quando m’ha detto… quando ha preso il primo incontro [che] ho buscato, m’ha detto: “Tu italiano, prima box haben keine Kraft”, cioè boxi bene ma non hai forza. “Mein lieber muss setzen”. Allora mi faceva andare… passare dalla quarantena. Se non c’era lui lo Stubendienst doveva darmi un bel pezzo di pane. E tutto faceva mucchio…

D: Roberto?

R: Sì?

D: Tu sei mai stato intervistato?

R: Ma una volta, uno dell’Ufficio storico. Però non so se ho raccontato tutto così perché non volevo mai dire le cose mie perché sembra che… perché nessuno ha fatto quello che ho fatto io.

Visintin Antonio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Prima parte

Io mi chiamo Visintin Antonio. Sono nato a Fiumicello, il 17 gennaio 1924.

D: Scusa Antonio, Fiumicello in provincia di…?

R: Di Udine. Nato, eh. Poi sono stato residente – sono andato prima a lavorare in cantiere – a Staranzano, che prima era provincia di Trieste, dopo il territorio litorale adriatico è passato sotto la provincia di Gorizia perché han diviso il [territorio], una parte è andata sotto la Jugoslavia.

D: Tu hai fatto il partigiano Antonio?

R: Sì.

D: Quando?

R: […] Io ero esonerato, dovevo andare di marina militare. Marina, naturalmente, se andavo un anno prima, perché erano trentasei mesi da fare, non c’era ancora la guerra perché eravamo nel ’39. Ho fatto il militare, e tutto quanto, e a un certo momento è arrivata la cartolina. L’ho portata in cantiere. Io lavoravo sulla Marina da guerra, lavoravo in sommergibili, e insomma, porto la cartolina, devo andare da militare. Loro m’han detto: “Va bene, passa domani”. Sono andato a lavorare, tranquillo. [L’in]domani mi vengono a dire: “Non c’è bisogno, non vai più a militare, sei esonerato. Però sei militarizzato”, cioè ho dei doveri militari. Va bene, però loro mi tenevano sempre d’occhio perché prima, quando facevamo il premilitare, che il sabato toccava andare a marciare, io non ho pagato la tessera. Allora quelli che non avevano pagato la tessera andavano in sala a studiare la marineria, quello che studiavamo anche in cantiere alla sera; invece quelli che avevano pagato la tessera ci davano un fucile, un moschetto, senza otturatore, che potevano darci senza cartucce, per non farli vedere… tanto stupidi, proprio. Ma siccome che è una nazione governata da stupidi, va bene così. Allora ci mettevano [lo] zaino con delle pietre dentro e li facevano camminare per caso per rocca. E noi, logico, che non avevamo diritto del fucile eravamo in scuola a studiare quello che realmente una persona deve andare in Marina deve sapere, del vocabolario, dalla A alla Z, fino all’ultimo bullone del motore, tutto. Io ero appassionato di questo, mi sono fatto una cultura non indifferente, oltre quella delle scuole di cantiere che facevo. Sono stato esonerato perché ero anche uno specialista, lavoravo sui sommergibili, dove nessuno poteva mettere le mani, che era stretto: io, a biondo dio [abbondantemente, ndr], c’arrivavo. In effetti, non avevo nemmeno cottimo più, io non ero nei cottimi, perché avevo sempre dei lavori che non si poteva “cottimare”. E allora mi davano una percentuale fissa. Posso dire, non stavo male, perché il lavoro mi piaceva e mi piaceva lavorare.
A un certo momento, hanno bombardato il cantiere. L’avevano bombardato prima, ma con poco danno. Hanno bombardato il cantiere e seriamente non si poteva lavorare. Allora, io già lavoravo per i partigiani prima, in terra. È successo così. Lavoravo perché avevo il lasciapassare, perché noi lavoravamo sui sommergibili, a turni, e avevo un lasciapassare timbrato dai tedeschi [così] che potevo camminare. E vicino [a] casa mia c’era l’artiglieria antiaerea, e lì i fascisti passavano con i camion, controllavano. E mi hanno fermato anche parecchie volte, ma con questo lasciapassare potevo passare. Era l’occasione buona per lavorare coi partigiani, le ore [in cui] io avevo i turni di poter lavorare [con loro]: fare quello che serviva alla nostra organizzazione. Tornando indietro, bombardano il cantiere. Tutto un disastro. Mi avvertono: “Guarda che domani han già messo i vagoni… un treno pieno in cantiere che, visto che non si può lavorare, hanno intenzione di caricarvi e portarvi in Germania”. E così è stato, ma io non sono andato a lavorare, né io né una decina di noi. Alla notte stessa siamo andati sul monte, sulla rocca. Siamo andati in montagna e siamo andati coi partigiani. Ecco, questa è la prima fase.

D: Che formazione partigiana era?

R: Siamo andati con la Brigata Triestina, e siamo stati un po’ di tempo con la Brigata Triestina. Ma eravamo in tanti, veniva su sempre [più] gente, perché ormai i tedeschi facevano rastrellamenti e portavano via tutti. Allora la gente aveva paura e veniva coi partigiani, che credeva fosse rose e fiori. Invece lì c’era da fare. Così eravamo un numero tanto grande che con la Brigata Triestina avrebbero dovuto essere 450 persone, [ma] eravamo più di tremila. Allora gli jugoslavi, furbi, han fatto una proposta: “Mandacene un po’ a noi”. E ci han mandato in 250 col IX Korpus [IX Korpus Sloveno, ndr], che era la Vojkova, la Circhina [Circhina, o Cerkno, città slovena; ndr] e la Presiniva [forse Prešernova Brigada, ndr]. E io ero con la Vojkova, con gli jugoslavi. Eravamo in dodici di noi italiani con la Vojkova, gli altri sono andati con le altre due [brigate]. Combattevamo sempre in territorio jugoslavo, ma era una [furbizia] che abbiamo capito dopo. Visto che loro han capito subito chi era furbo e chi era meno furbo, o chi sapeva più fare o meno fare, han detto: “Mi sembra che te sai fare: ti mettiamo con le armi pesanti”. [Come] armi pesanti si trattava di bazooka, due mortai – il piccolo e il [Brixia] – e la Breda; la Breda era la mitraglia più grande che avevamo, la Breda grossa proprio… perché c’era anche il fucile mitragliatore Breda, c’era il Fiat e il Breda, ma la mitraglia Breda era un’arma che ci volevano tre persone dietro. Era un’arma molto pesante. Allora mi han messo con la Breda all’inizio, e fatica, pesante abbastanza. Poi a un certo momento viene un altro, uno sloveno che vuole anche lui la Breda. Allora mi dice il comandante di battaglione, che era un goriziano: “Daccela a lui va’. Guarda che belle spalle che c’ha lui” – ha detto – “daccela a lui che 45 chili, la canna con tutto l’affare [che] non c’era tempo di smontare”. E poi c’era il cavalletto – va beh, lo portava un altro – e poi c’era la munizione, [quindi] tre persone, e trenta chili di zaino, non so io dove si va a finire. I muli li avevamo mangiati. È logico no, qualcosa bisognava mangiare. È finita così.

D: Antonio, ma questo quando è avvenuto?

R: Questo è avvenuto […] in maggio, in maggio siamo andati su coi partigiani.

D: Di che anno?

R: Del ’43 [1944, ndr]. Quello che mi rammaricava – non le azioni che facevamo, non come andava – ma quello che mi disturbava [era] che ci hanno sempre trattato da fascisti. Erano più fascisti loro che noi; sicuro, senz’altro, perché il [loro] comportamento non mi è mai piaciuto. Perché in combattimento abbiamo sempre combattuto, ma quando uno si arrendeva, quando si era finito di combattere, abbiamo sempre diviso quel pezzettino di pane con quello che avevamo preso. Loro non erano così. E allora questo mi disturbava. Per quello loro ci prendevano… “Italiano! Porco italiano fascista!”. Ma se sono qui, a casa tua, combatto insieme con te, ma come faccio a essere un fascista? Che poi, non c’ho nemmeno l’età di essere stato. Poi io credo di essere un partigiano. […] Con le armi pesanti mi caricavano sul camion degli altri e mi mandavano in prestito ad altre divisioni che erano in bisogno, che erano in pericolo. Così, ve lo giuro, che tutto quel periodo che sono stato lì ho combattuto quasi ogni giorno, escluso le preparazioni, era sempre da combattere. Quando tornavamo indietro, che tutti [speravano fossimo] morti, gli zaini erano vuotati, [avevano] portato via tutto. E un giorno sono andato dal comandante e c’ho detto: “Stia a sentire, qui è così e così […] Informati dai tuoi scagnozzi, dalle tue spie, ti informi e vedrai che loro ti diranno com’è la cosa”. Allora si è informato, è stato onesto, e ha scoperto le cose. Ha chiamato tutta la brigata, per sloveno e poi per italiano, ha fatto un bel discorso. Allora nessuno ha toccato più gli zaini […].

D: Quando ti hanno arrestato?

R: È venuta lunga la faccenda. Ad un certo momento mi hanno cambiato di brigata e mi hanno cambiato armi. Non mi trovavo tanto bene. Dei nostri amici italiani erano già rimasti pochi, perché in prima linea eravamo sempre noi e sempre in Jugoslavia. A un certo momento, [al] comandante del mio battaglione – era goriziano, cioè, era uno sloveno di quelli che abitava in Italia – c’ho detto: “Ma perché dobbiamo combattere in Jugoslavia? Abbiamo la nostra Italia [dove ci] sono i tedeschi. Abbiamo i fascisti”. […] Un’altra cosa: sono un testimone che può dirlo, che nessuno lo ha mai detto, che i belagardisti che erano con re Pietro [Bela Garda: Guardia Bianca, ovvero Milizia Volontaria Anti Comunista; ndr] erano coi tedeschi, e gli inglesi buttavano armi a loro e buttavano armi anche a noi. Sappiate questo: che loro lo facevano perché si combattesse fra di noi […] Questo nessun giornale lo ha mai detto dopo la guerra, nessuno ha mai detto niente. Questo dimostra la vigliaccheria degli inglesi, non degli americani. Gli americani erano bonaccioni, ma gli inglesi, non ne parliamo… Abbiamo avuto anche comandanti inglesi con noi.
Allora viene il momento, dopo tanti mesi, dopo nove mesi che sono con loro, [dalla brigata Voikova] mi mandano con la Brigata Triestina.
La Brigata Triestina ha tenuto il colpo più duro: – comunque ero con gli Jugoslavi quando abbiamo occupato il Montenegro – i tedeschi han messo tre divisioni ad aprire un varco per andare in Austria, da Monfalcone […] vicino Postumia per andare in Austria. Volevano aprire un varco per i rifornimenti, per la ritirata. Ed è stato tutto sulle spalle della Brigata Triestina, [che] era già in brutte condizioni. Però comunque c’ha preso, abbiamo fatto l’affare. Visto che non sono riusciti a aprire ‘sto varco si sono rimboscati di nuovo ‘sti tedeschi, e son venuti su. Allora il comandante della Brigata Triestina ha detto […] a me e ad altri ventinove di noi – ricordo come adesso, che fosse giorno, tutti giovani, tutti i migliori: “Noi dobbiamo ritirarci nei boschi, dove i carri armati non possono venire, devono venire a piedi e lì ci combattiamo, e voi fate un’azione di disturbo: cominciate a sparare, poi mollate le armi e tutto, e scappate via. Dovete fare solo un’azione di disturbo”. E noi invece non abbiamo fatto un’azione di disturbo. Avevamo ben impostato [l’azione]. Avevamo quattro Breda e due mortai e tutta gente coraggiosa che andava a buttare la bomba a mano dentro al carro armato, che si coricava in mezzo ai cingoli. Buttava al fianco di benzina, poi la bomba a mano e il carro armato era bello che fregato. L’abbiamo fatto tante volte quel lavoro. Poi loro si sono accorti, allora passavano sopra un cespuglio e han fregato qualcuno di noi. Ma noi avevamo fregato tanti carri armati in quella maniera lì. Loro tranquilli col parapetto sopra andavano via. Fiasco di benzina e bomba a mano. Scoppiava per due ore dopo.
Allora, facciamo ‘sta azione. Davanti era la fanteria, i carri armati erano lenti, erano dietro e c’era una curva in questo vallone, in questa montagna. Noi eravamo sulla collina, impostati, io per fortuna ero il più lontano di tutti, un po’ in dentro, riparato un po’ dal bosco, e davanti la collina era tutta pulita, e lì sotto era la strada. È venuta avanti la fanteria e tre camion – mi ricordo come adesso – i camion erano caricati di gente, di armi, di rifornimenti. Di dietro si sentiva il rumore dei carri armati, ma erano molto lontani. Allora vengono avanti, quando sono ben a tiro apriamo il fuoco: potete capire quello che è venuto fuori perché loro non se lo aspettavano, sia quelli sui camion che quelli in terra, quanti c’erano non so. Ma insomma, così è andata.
Allora noi abbiamo continuato. Dopo un’ora circa vengono avanti i carri armati. Al massimo tre tiri ogni postazione saltava per aria, coi cannoni. […] Ho preso una pallottola nella caviglia, un altro mio amico ha preso una scheggia di granata e all’altro han piantato tutti i sassi nella faccia. Gli unici tre rimasti vivi. […] Allora scappiamo via, giriamo e vediamo che la collina – sono già arrivati – è tutta circondata: “Addio, siamo fregati”. Vado un po’ avanti, trovo un buco [sotto] quelle piante di montagna, quella felce. Ci siamo buttati tutti e tre. Loro han passato tutta la montagna – han trovato i morti che c’eran lì – hanno camminato sempre mitragliando: le pallottole cadevano sempre sulla faccia, noi fermi lì. Dirò di più: davanti avevano tutta la gente del paese, avevano quasi un seicento persone, davanti alla fanteria. Perché noi avevamo sparato di dietro, non volevamo colpire la gente. Però la gente, poveracci […] li hanno ammazzati dopo i carri armati quando sono venuti lì, perché i fanti non hanno potuto fare più niente, loro erano già che si riposavano tranquilli. […] Siamo stati nel buco, lì, tutta la notte. […] Dopo due giorni – loro sono andati via, dove sono andati non lo so, se sono andati avanti verso la nostra Brigata, infatti sentivo sparare […] – noi siam venuti fuori, siamo andati in paese. In paese sapevano già, ci han detto: “Guardate, tutti quelli che han preso in ostaggio han tutti fatti fuori, giovani e vecchi, tutti quelli che c’erano”. Allora questo paese c’ha dato un carro e due cavalli, perché non potevamo camminare: io [con] la pallottola nel piede già da due giorni, senza levar la scarpa, piena di sangue; quell’altro con una [ferita] dietro, che si chiama Visintin anche lui, che era con me, Paolo Visintin; e uno che era di Cervignano, ma non mi ricordo più il nome adesso, che difatti poi non ho visto in campo di concentramento. Paolo Visintin l’ho visto dopo, ma quello là non l’ho visto.

D: Scusa Antonio, ma questa battaglia qui, in che località è avvenuta?

R: A Locavizza.

D: Dopo che vi hanno dato il carro cos’è successo?

R: Siamo andati per le strade, in ogni paese cambiava uomo che ci guidava. Dovevano portarci in ospedale a Monfalcone, [e intanto] ci portavano fino a Jamiano, che era un paese già in pianura, poi conoscevo i sentieri, di notte andavamo là. Avevamo un po’ di bombe a mano, un mitra, due pistole, e un fucile. E la divisa di partigiano. Allora ci siamo cambiati, ci hanno dato da cambiare quando siamo arrivati in pianura. Ma noi non sapevamo, loro già sapevano che noi venivamo giù: qualcuno… le spie… va a sapere cosa. Quando siamo giù, che siamo già cambiati e abbiamo lasciato le armi, ormai siamo sul sentiero. […] Da Jamiano andammo a Doberdò, da Doberdò siamo a Monfalcone e andiamo in ospedale. Io so già dove andare, conosco già la gente che ci fa passare. Andiamo in una famiglia a chiederci un fiammifero per accendere la sigaretta e di strada ci [chiediamo] se lì sono i tedeschi. I tedeschi erano arrivati alle 5: erano le 8 ed avevano invaso tutto il paese. Questo ci doveva dire, e noi eravamo salvi. Perché bastava fare un passo indietro. E [invece] noi camminavamo sulla strada, loro erano fermi col mitra, che ci aspettavano. Tutto lì.
Ci hanno aspettato, ci hanno preso. Siamo in borghese, cosa c’entra? Armi non ce ne abbiamo. Non sanno niente. Non si sono accorti… però hanno visto l’altro mio amico che [era tumefatto in volto], quella lì era in vista, e difatti per quello penso che l’abbiano fatto sparire. Ci hanno messo in una casa, lì, e han messo fuori le guardie. L’indomani mattina ci han caricato su un pullman, ci han portato a Trieste, ma non al Coroneo, al comando delle SS. Lì ci hanno bastonato ben bene, senza dirci niente. Se sapevano quello che avevamo fatto ci tagliavano a fettine. Poi ci interroga uno. Io, non so come, mi sono appoggiato sul tavolo… si è alzato quello là solo perché ho messo le mani sul tavolo: m’ha dato una sberla che non finiva più. Sapevo già che dovevo star zitto e non dovevo far niente. E così ho fatto, avevo già preso la mia dose prima! Allora, io sapevo già il tedesco perché a Monfalcone, alle scuole industriali, invece di fare Francese facevamo Tedesco. Si capisce, non ero un professore, è quello che si impara a scuola… in tre anni di scuola che si fa… […], comunque uno si vendeva, si arrangiava. Prima parlò in tedesco e io feci finta di non capire; allora poi chiama uno e dice: “Italiano, tu eri partigiano. Come ti sei trovato là?”. “Mi sono trovato là per caso, sono andato in un posto, [ho] ritardato perché era coprifuoco”. Ci mandano al Coroneo. Altra lezione: ci mettono sul carretto, tira le mani, tira le braccia, di qua di là, e niente da fare. Non ho visto più quell’altro mio amico con le schegge piantate [sul volto]; avevano capito che era ferito, che qualcosa c’era [da dire], ma non ha parlato. Di noi io avevo ancora [il piede] da medicare, non avevan fatto ancora niente: dopo quattro giorni mi han mandato al Coroneo di nascosto. Nella cella che avevo in prigione nel Coroneo han messo un fascista – ha detto lui che era un fascista – che ha detto che l’han messo lì perché ha rubato. Furbo, no? Quello voleva cercar di levar qualcosa. C’ho detto agli altri: “Non parlate che qui siamo nei guai”. Quando siamo andati a fare l’ora di aria si sono avvicinati tanti: “Voi siete partigiani?”. “Non parlate con nessuno, non conosciamo nessuno, non sappiamo com’è la faccenda qui”. Allora medicati, tutti quanti. L’altro [fascista] non è entrato più in cella. Non si sa, non abbiamo mai saputo che fine ha fatto.

D: Scusa Antonio, tu prima dicevi che ti hanno portato a Trieste nella sede della SS. E dov’era la sede della SS?

R: Eh, a sapere… Io so che era un locale grande, di lusso, difatti non c’erano prigioni, non c’era niente. Erano uffici, e ho visto tutti della SS, non c’era nessun italiano dentro. Tutti quanti della SS.

D: Non sai in quale palazzo era?

R: No.

D: Poi dicevi che quando ti hanno portato al Coroneo ti hanno fatto ‘il carretto’…

R: Ti legavano mani e piedi e ti tiravano, col mulinello ti tiravano, finché parlavi. Ma cosa parlavi? Se sai che se parli ti ammazzano… Han visto che non ricavano niente e c’hanno mandato giù. Siamo [stati] giù una settimana, nelle celle della prigione, ogni ora l’aria. A un certo momento è venuto l’ordine di sfollare tutta la prigione del Coroneo e mandare in Germania. Ci hanno preso, caricato in camion, ci hanno portato in stazione sul carro bestiame, chiuse le porte e via, in Germania.

D: Dalla stazione o dal silos di Trieste?

R: No, dalla stazione. Dal Coroneo andati diretti in stazione, che c’è un tragitto molto corto, che si può fare anche a piedi. In stazione c’erano già i vagoni lì, il carro bestiame già pronto, coi reticolati sulle finestre.

D: Quando questo?

R: Questo è avvenuto sempre in maggio, quando sono stato preso. Sempre in maggio. In maggio sono andato via, in maggio l’altr’anno mi sono trovato lì, e in maggio sono stato liberato. Guarda un po’ sempre ‘sto mese di maggio…

D: Allora, vi hanno portato alla stazione…

R: […] C’hanno aperto l’indomani a mezzogiorno – non so nemmeno dov’eravamo, ma eravamo già in Austria perché vedevamo le case… vedevo che non eravamo in Italia – e lì ci hanno fatto fare i nostri bisogni. Col fucile, si capisce, in aperta campagna. Tutti quanti tornano su di nuovo, chiusi i vagoni e via. Ci hanno dato una pagnotta, di quei mattoni… ogni vagone. Nel vagone dove c’ero io eravamo in 46, e gli altri erano anche 60, ma mica han dato due pagnotte! Una ciascuno, l’abbiamo tagliata a pezzi, fatto un pezzettino ciascuno. Non bere, per l’amor di dio! Niente! Non abbiamo nemmeno tirato l’acqua quando siamo andati in gabinetto. Non abbiamo bevuto per quattro giorni. Allora ci hanno dato due pagnotte in quattro giorni, finché siamo arrivati a Buchenwald.

D: Il treno non si è fermato a Buchenwald però…

R: Dentro! Come no! La ferrovia entrava dentro. C’era la ferrovia perché a Buchenwald loro avevano fatto un grande deposito di roba per l’esercito, perché speravano che inglesi e americani non lo bombardassero, capisci? Là c’era la ferrovia che arrivava fino a dentro il campo, dentro i reticolati. Dentro chiudevano, avevano dei portoni che non finivano più. Chiudevano tutto e il treno rimaneva dentro: aveva la possibilità di manovrare, come in una stazione ferroviaria.
Poi ci hanno portato in queste baracche. […] L’indomani mattina c’era un grande catino, proprio la forma del catino, aveva 3 metri di diametro, alto un 80 centimetri. Cosa c’era dentro non lo so; so che sapeva di petrolio, di nafta, di qualcosa. Allora uno alla volta, spogliati tutti, e dentro, ci buttavano dentro, con la testa ci schiacciavano giù. Poi si andava avanti di là. C’era un altro corridoio: tagliavano tutti i peli, dappertutto, capelli… tutto. I capelli [li tagliavano alti un dito, oppure facevano la striscia in mezzo a zero, oppure ancora la lasciavano crescere in modo da essere sempre riconoscibili]. Poi ci han visitato tutti: ci han guardato in bocca, se avevamo oro lo levavano subito, tutto toglievano. Va bene che non c’erano [da] anni di orologi, però qualcuno aveva qualche anello, o l’orologio del taschino: tutto, lì non rimaneva più niente. Passavi di là, e ci han dato la nostra bella divisa [a righe], col numero, col triangolo, un paio di zoccoli col legno sotto. È cominciata l’odissea.

D: Antonio, il tuo numero?

R: […] Settantotto quattrocentodiciotto [78418].

D: E in tedesco te lo ricordi?

R: No, non mi ricordo più. Potrei dirti […]

D: E dopo che ti hanno immatricolato cos’è successo?

R: Siamo stati un po’ di tempo lì, non sapevamo niente. Di italiani eravamo in due rimasti, di tutto il vagone che c’era, lì, nella baracca 18, eravamo rimasti in due. [Da] mangiare ci davano una volta al giorno. [Per] lavarsi c’era fuori all’aperto una fila di lavandini, acqua fredda… questo si sa. Ogni tre baracche c’erano reticolati in giro, non con la corrente, [mentre] tutto in giro al campo c’era la corrente. […] Da una baracca all’altra non potevi andare perché se ti prendevano… Perché loro mettevano i numeri progressivi [alle baracche], allora quei numeri sapevano già che era da quello a quello, che sulla porta c’era già scritto, da quello a quello. Se ti trovavano fuori erano…

D: Antonio, quando tu eri a Buchenwald, hai visto se c’erano anche delle donne?

R: Ho visto donne, in una baracca-tenda. Erano donne, uomini e bambini, ma erano ebrei. Dopo le nostre baracche, uscendo dalla porta sul lato destro, c’era un grande tendone. C’era una grande baracca di tela che adoperano anche per gli sportivi… E lì, io non lo sapevo, m’han detto: “Là son tutti gli ebrei”. Di fronte a noi, di là dei reticolati, c’era una baracca di svedesi, prigionieri politici come noi, tutti svedesi. A loro, mi dicevano quelli lì che li vedevano, ogni mese da casa ci mandavano i pacchi. Strano, a noi non arriva niente. La Croce Rossa dice che li faceva i pacchi, ma a noi non ci è mai arrivato mai niente.
Tante volte ci portavano le rape, e le rape ce le portavano di campagna, sporche di terra, col sacco. Venivano lì, buttavano il sacco in mezzo alla baracca, con la macchina fotografica facevano le fotografie e noi, come scemi, chi ne prende due, chi ne prende nessuna, a mangiarle ancora con la terra su. Io lì ho conosciuto un certo Nikolai, un russo, che aveva un po’ di autorità, anche lui che era già da un po’ che era prigioniero coi tedeschi. E ha fatto un discorso perché ce l’ho detto io: “Perché dobbiamo essere noi così cretini da farli ridere loro? Almeno, stiamo male, ma non siamo dei cretini. Siamo uomini, e dimostriamo di esserlo. Allora, cosa dobbiamo fare? Quando arrivano vuotano il sacco” – siccome che tutti in terra non si stava, bisognava stare nel vespaio, tutti in piedi non si poteva stare – “quattro o cinque persone si incaricheranno di andare ai lavandini, lavare le rape, le divide: siamo in 38, li divide in 38 pezzi, uno si gira con la schiena, ci dice [a] chi tocca questo [a] chi tocca quello”. Allora vengono, rovesciano, il maresciallo pronto con la macchina fotografica: nessuno si muove. Tutto [arrabbiato] col nerbo, botte di qua e di là. […] Nessuno ha parlato, nessuno niente. Ha preso su, è andato via. È rimasto male, ha capito che i disonesti erano loro, non noi, che le bestie erano loro, non noi. […] Abbiamo fatto così finché siamo rimasti lì. Ci han tenuto due mesi lì. Poi non facevamo niente… anzi, due giorni ci han mandato – quando sono venuti a bombardare gli americani – ci han mandato nei magazzini a sistemare della roba, delle divise dell’esercito. […] Vengono lì, ci chiamano… i numeri, quelli che sono. Fanno una fila, ci portano in piazza, c’è il treno, ci caricano, e ci portano via.
Da Buchenwald – mi sembra sotto il distretto di Weimar – ci han portato fino a Dessau. Siamo arrivati a Dessau, abbiamo trovato il campo bello nuovo, perché si vedevano i legni, appena levata la ‘buccia’, piantati i reticolati nuovi, col filo spinato in giro, con la corrente elettrica. Tre grandi baraccone che tenevano 500 persone l’una, ognuna divisa con reticolati ma senza corrente. E fuori all’esterno c’erano quelle garitte che facevano loro, di legno, con la scala, con una mitraglia – tutte avevano un mitraglia – avevano il coperchio e ogni 50 metri ce n’era una di queste. Io ho fatto un calcolo ben preciso: noi eravamo in 1.500 ed erano 500 della SS, tutti riformati, feriti, tutte bestie che non si può dire altro; io penso che si drogavano o si ubriacavano, perché è impossibile che una persona possa agire così contro un’altra persona che non ha fatto niente. […]
Ci mandano a lavorare in fabbrica. Alle 4 e mezza sveglia, un pasto, una brodaglia, margarina l’abbiam mai vista; a Buchenwald qualche pezzo di margarina ce lo avevano fatto vedere, qualche fetta di pane. Lì, nemmeno quello noi abbiamo visto. Una fetta di pane [tipo] mattone, [grande] come la mano, e la brodaglia di zuppa, sempre quella di margarina. Non hanno capito che se ci danno da mangiare non possiamo lavorare: vuol dire che erano molto più arretrati di noi, perché io se ho un cavallo lo mantengo bene perché mi serve per lavorare, che mi rende il lavoro, ma se gli do delle botte e non ci do da mangiare quello mi dà calci, ma non lavora. […]
Mi mettono in questa fabbrica di vagoni e tutto funzionava bene. Siccome era scritto già sulle carte e sapevano che ero uno che aveva studiato, che sapevo il mio lavoro, mi danno da fare un ponte, di quei ponti movibili per buttare sopra i camminamenti per passare coi carri armati. Il mio lavoro era molto impegnativo. C’erano le gru che funzionavano, dopo per fortuna è rimasta solo la mia che funzionava. Poi mi hanno messo a fare altri lavori, ma sempre dov’ero io solo, chiuso [tra] le lamiere, perché i lampi della saldatura davano fastidio ai borghesi. Il borghese che era capo della fabbrica, un tedesco del posto, era una brava persona, mi aveva preso in simpatia, ma non poteva parlare con me, mi doveva dare solo ordini e basta. Io avevo un tornio, avevo tutto dentro, facevo dei barattoli di alluminio col manico, che si porta a pranzo col tegame sopra. Li facevo belli nuovi, e li lasciavo sopra. Lui capiva, li portava fuori e portava dentro patate, sigarette, roba. E io portavo là [in baracca]. Però era difficile entrare con della roba: noi avevamo una stufa ma non ci permettevano di far fuoco, e noi dovevamo cuocere le patate. Allora ci voleva la legna, e il carbone che in fabbrica c’era. Eravamo in 1.500, 400 prendevano un pezzo di legno, piccolo, ciascuno. Metà li prendevano [nella perquisizione], toccava buttarli nel mucchio, là; e l’altra metà passavano […]. Mi dava le patate e le portavo dentro, e allora io dovevo essere protetto: eravamo in 40 nella baracca, se a me mi visitano, mi trovano la roba… oltre quello la baracca non mangia. Accendevamo [il fuoco], tagliavamo le patate e le attaccavamo tutte al camino, quando la patata cadeva era cotta. E avanti, diviso sempre per tutti. Al mercoledì non si lavorava in fabbrica, ci mandavano a Dessau a sgombrare le strade. Viene un certo momento che uno si accorge che sotto una cantina ci sono delle patate mezze cotte, con gli spezzoni di legno. Allora andiamo là a prendere le patate. Uno della SS si accorge, ci aspetta sulla porta: ognuno, con un tondino grosso così, lungo così, un colpo nella testa. Io mi sono alzato e l’ho preso qui [sul petto]. Mi ha fatto male ma me la sono cavata. Quattro ne ha ammazzati, ci ha aperto il cervello. Poi botte a noi per portarli là nel campo, perché eravamo andati a prendere le patate. […]
Un’altra volta andiamo sempre fuori a sgombrare. Era un mercoledì, e c’erano gli aerei americani che passavano. ‘Sto salame della SS faceva bum bum bum, ma non sparava, faceva solo finta di sparare. E c’era un muro rimasto su così e noi scavavamo sotto. Non so come questo qua si è appoggiato sul muro. Era un muro alto 20 metri, rimasto solo… e ‘sto muro ballava, e lui col fucile giocava “balla, balla”: ‘sto muro cade giù, e cade dalla parte dove sono i miei che lavorano sotto. Botte col fucile alla schiena per tutti, da scavare alla svelta per tirarli fuori. […]
Un altro mercoledì una donna, sopra, ci vede passare e ci butta una pagnotta di pane: puoi capire, una colonna di 1.500 persone, butti una fetta di pane, viene fuori il pandemonio. Hanno avuto coraggio di andar su, e ci hanno sparato eh. Quella era tedesca… ma non sarà stata tedesca, perché se era tedesca non buttava il pane. Perché solo i cecoslovacchi si facevano sparare dai tedeschi per buttarci il pane oltre i reticolati. Solo i cecoslovacchi, solo quella gente! Non mi potrò mai dimenticare di quella gente. Poi vi racconterò come ci hanno aiutati.
Così è stato il campo di concentramento. Se volete dire, le gru erano rotte, e noi lavoravamo sui vagoni, tutta roba pesante che bisognava portarla da un posto all’altro, tutto a mano. La mia gru, fortuna, era rimasta buona. È venuto il tempo di dover fare un altro ponte, gli americani erano vicini, si sentivano già le cannonate. Torno indietro: […] noi avevamo uno della nostra baracca che andava a mischiare le patate nella dispensa che era dentro nel campo – era dentro i reticolati di corrente – che le mischiava ogni giorno perché non andassero a male, levava quelle marce; bisognava far quel lavoro, e si trattava di tonnellate di patate, perché loro mangiavano, non noi, ma loro mangiavano. […] Quando bombardavano, che spegnevano le luci, e i fari non funzionavano, noi andavamo dentro per un finestrino, andavamo a prendere le patate e poi le portavamo fuori. Difatti quando ci hanno portato via di lì abbiamo lasciato sul soffitto, sopra, un quintale di patate. È morto uno solo della mia baracca, un polacco, perché era vecchio proprio. Si vede che ha preso un male, senza cura, senza niente… bronchite, tossiva sempre, ma fu l’unico morto della baracca.

D: Antonio, tu dicevi che oltre a costruire i ponti tu con altri costruivate dei vagoni speciali?

R: Sì, erano vagoni cisterna mascherati con dei compensati robusti [e] con una croce rossa, e in centro avevano le mitragliere. Fuori era compensato ma dentro c’era uno strato di cemento di 50 centimetri, tutto in cerchio, dove giravano ‘ste mitragliere antiaeree a quattro canne, e sopra c’era un coperchio scorrevole e apribile. […] A me mi serviva l’acciaio, l’acciaio buono per far coltelli, perché erano molto in voga i coltelli di acciai buoni, e poi le pentole per friggere le patate, di ferro; io avevo l’attrezzatura e le facevo, il borghese mi portava roba. Per me andava bene perché la baracca mia fumava e mangiava, e così ci siamo salvati. Ci siamo salvati così.

D: Quanto tempo sei rimasto tu in quel campo lì?

R: Siamo rimasti lì… marzo-aprile… fino ai primi di aprile del ‘45. Poi hanno proprio raso la fabbrica al suolo e ci hanno portati via. Ma torniamo indietro. […] È venuto di fare un altro ponte di questi: chi era in grado di farlo? E allora dice a me: “Guarda che devi fare quello lì, devi cercare di fare delle ore [di lavoro]”. “Ma io, benedetto, se non mi porti da mangiare, io non lavoro, perché ci vuol forza”. C’erano le saldature da fare, le saldature larghe così, con elettrodi da un centimetro, non era uno scherzo. Prima mettere assieme tutta la roba e poi saldar tutto, girare con la gru di qua e di là. Lui ha detto: “Per te ci penso io”. E io sempre dividevo, sempre con tutti. […] C’era sempre un fattore: uscire dalla fabbrica, dividere la roba per persone, quelle persone dovevano essere precise di quello che bisognava fare sennò perdevamo tutto. Perché usciti dal portone della fabbrica noi eravamo più niente. Eravamo in mano alle SS […]. Allora accetto di fare questo ponte. Siamo a metà lavoro, contenti vengono i borghesi, i proprietari e grossi ufficiali, lo guardano, non dicono niente. Mi dice il capo borghese: “Guarda, c’è da girare”. “Va beh guarda, giralo te perché io devo andare al gabinetto… almeno a quello posso andare?”.
Vado in gabinetto e trovo una ventina – un gabinetto grande, lungo – una ventina di questi prigionieri che erano lì che parlavano… perché si sentiva già le cannonate, e loro si vede che parlavano di questo. Viene un capo [kapò, ndr] di quelli tedeschi, di quelli del 33 che l’abbiamo portato da Buchenwald, c’hanno dato quelle mansioni lì, li ha fatti stare un po’ più bene, avevano una baracca a parte, mangiavano meglio, avevano dei permessi. Viene lì quello, prende il numero di tutti. Arriva lì da me, ero appena entrato, e mi dice: “Dammi il numero”. “Non ti do il numero per niente, perché devo darti il numero?”. “Perché sei qui?”. “Sono qui perché devo andare in gabinetto, devo fare i miei bisogni”. “No” – ha detto – “Mi dai il numero”. “Te mi prendi il numero, domani… Ich morgen kein essen, tu […] kaputt”. Tutti sono rimasti meravigliati. Allora lui m’ha dato uno schiaffo forte, perché aveva forza, lui mangiava. Io avevo degli zoccoli, erano pesanti così […], c’ho scaraventato due pedate nello stinco […]. Lui m’ha buttato per terra, sono venuti gli altri capi [kapò], m’han dato pedate e legnate anche loro. E poi mi hanno portato in infermeria. In infermeria ho trovato anche lui […]: “Guarda che qui ci vuole il medico. Qui è scheggiato l’osso da tutte e due le parti”. Sicché lo portano in ospedale. Per me è ora di andare in baracca […]. Quello là in ospedale è peggiorato. […] È venuto [dal] Gauleiter l’ordine di vedere com’è questa roba, che non si può permettere che uno vada contro un capo. Nel frattempo io sono andato in fabbrica, prima di tornare dentro [in baracca], mi sono seduto sul banco. È venuto il borghese, mi ha detto: “Come mai?”. “Io non lavoro più: sono andato in gabinetto – ho lavorato fino all’ultimo momento, non mi sono nemmeno lavato le ami e la faccia – a fare i miei bisogni, [e il kapò] mi ha preso, mi ha detto che mi prende il numero che domani non mangio. Io ero appena andato…”. “Ma io lo so, testimonio io” […]. Lo sapete che non potevo piangere? Avevo il singhiozzo, mi venivano giù le lacrime, sapere il disprezzo, non mangiare, dover lavorare. Che un ignorante mi possa fare una cosa del genere, senza chiedere quanto tempo, come sei, dove lavori, che lavoro stai facendo. Queste erano cose che mi davano un’offesa che non potevo piangere. E andiamo in baracca. Siamo in baracca tutti quanti, compreso Nikolai, questo russo. Tutti quanti sanno tutto, tutti han visto tutto. Quasi alle 10 di sera arriva il Gauleiter, il capo del [campo], sarebbe quello che comanda le SS, il campo, tutto […]. Viene lì con tre della SS, due col nerbo in mano, nerbi di quelli che ti fanno rimaner secchi. Viene, chiede il mio numero, dove sono io. Sono su [in] baracca, dentro. Nikolai mi dice: “Non scendere, perché qui ci deve portar via tutti”. Lui viene dentro, arriva a trascinarmi fuori: i miei mi tirano di qua, loro tirano di là. [Dei] due delle SS uno tira fuori la pistola. Ho detto, qui si mette male. Arriva una motocicletta dentro, con un ordine. Il capo borghese, che non poteva parlare con la SS, non si poteva, ha parlato col direttore di fabbrica, con quello interessato al ponte; ci ha spiegato tutto: “Questo già non mangia per fare ‘sto lavoro, ancora ci diamo delle botte dopo che ha fatto il lavoro? È l’unico in grado di poterlo fare”. […] Han mandato una motocicletta al comandante, il comandante non era nella caserma, è venuto con la moto dentro, ci ha dato questa carta. Noi abbiamo visto la carta, non sappiamo cosa era scritto. Si ritira, il Gauleiter si ritira, mi molla. SS dà ordine di uscire, di andar via. Dopo un quarto d’ora arriva il cuoco delle SS con una gamella di zuppa, con due pacchetti di sigarette e un pezzo di pane. Io c’ho detto a Nikolai – non avevo mangiato – “Mangiate voi, fate quello che volete, io non sono in condizioni di poter far niente, poi domani vedrò.” […] Io ho voluto farci vedere… “Mi ammazzerete, non mi interessa, però voglio dimostrarvi di essere più civile di voi, ma molto di più”.
Torno indietro. Un’altra cosa che è molto importante, che i tedeschi devono sapere: quando noi scavavamo fuori le bombe, che ci portavano a scavar le bombe [inesplose], mandavano le donne, mandavano i bambini piccoli, con la bacchetta, andavano in colonna a darci bacchettate per le gambe. E loro a ridere, bere il thè sulla finestra insieme alle donne. Questo è il fatto, questa è l’umiliazione. Queste sono cose che pesano. Ma come si fa a fare un’azione del genere? […]

Seconda parte

Siccome che [in] quei mesi lì erano i mesi che han bombardato dappertutto, han bombardato anche la fabbrica, han bombardato tutte le città. Addirittura Dessau l’hanno spezzonata, solo con spezzoni, ogni metro quadro uno, spezzoni che bruciano fino a… nell’asfalto andavano a tre-quattro metri sottoterra, roba potentissima, che non si è salvato niente. Loro han detto – si vede che han parlato – “li portiamo via”. Allora ci hanno messo come le bestie [a tirare] i carri, e c’han fatto camminare. Abbiamo camminato una giornata intera. Siamo arrivati in una città che non so come si chiami.
Ci han portato lì dei carri, [che trasportavano] della roba, del pane, […] in questa città [dove] non si poteva andare [per] le strade perché era tutto sottosopra. E siamo andati a portare ‘sto pane alla gente, due pagnotte ognuno, “con la speranza che ci diano da mangiare” – han detto – “se facciamo questo lavoro il comune ci dà da mangiare”. Invece non è stato così. Fortuna che eravamo all’aperto, in campagna, ogni tanto prendevamo delle brancate di cicoria e mangiavamo quelle ed è andata bene così. […] Di nuovo, prendi i carri e via in un’altra città. Abbiamo camminato due giorni e una notte. Siamo arrivati al mattino là e c’erano dei camminamenti da [tracciare]: c’erano i picchi… quella roccia friabile; due giorni senza mangiare; camminare… chi restava indietro era morto; ancora a tirare i carri avanti per portare la roba [dei tedeschi] perché cavalli non ce n’erano. Là si sono accorti che, picco o non picco, è inutile: a fine giornata non c’era nemmeno dieci centimetri di buco fatto, è inutile darci botte, legnate, se non c’è fossa non si può fare niente. Allora via di lì. Ci portano in un altro posto a fare un altro lavoro. Niente da fare, troppo esauriti. Allora vanno in una dispensa con un carro e prendono dei sacchi di orzo. ‘Sto orzo bisogna dividerlo. Eravamo 1500, e qualcuno era già morto, metti che era mancato un 50 di loro, non di più. Comunque, eravamo sempre una bella cifra: dividi qua dividi là, tre cucchiai di orzo crudo ciascuno, così era da fare, in fila, uno due tre, uno due tre. [I tedeschi] però avevano il suo pane, la sua marmellata, loro avevano la sua roba, questo si sa. Quella giornata è andata così. Poi ci portano sul [fiume] Elba, non so che città era, e ci mettono su tre barconi. Ormai non erano in grado di consegnarci a nessuno, ci dovevano far fuori tutti perché sennò erano responsabili di quello che era, di quella che han fatto, è logico. Abbiamo navigato un mese su questi barconi, sempre con queste razioni di mangiare spaventose. La gente come moriva nelle stive… Non c’era gabinetto, non c’era niente: abbiamo noi levato qualche tavola [per i nostri bisogni], fortuna che non si mangiava e così c’era poco da fare. Non c’erano letti, non c’erano coperte, non c’era niente. Bestie, come si mette le vacche, bestie e basta.
[Abbiamo] fatto questo mese di viaggio e siamo arrivati vicino Praga, a 17 chilometri da Praga. Era l’8 maggio. [Davanti a noi] c’era un bivio: da un lato era la centrale, dall’altro lato, sull’Elba, c’era un ponte bombardato e caduto. Di là del fiume c’erano le camionette dei russi che ci facevano già segnale, anche i cecoslovacchi dicevano “buttateli tutti e [lasciateli a noi], ormai la guerra è quasi finita” perché [eravamo] in una sacca, i russi erano andati più avanti, la notte son passati di lì. Non possono più andare avanti coi barconi. Fermano i barconi lì. L’Armata Rossa viene avanti, ho visto gli apparecchi. C’era una colonna di militari tedeschi sulla strada vicina, li han fatti fuori tutti, allora quelli lì hanno preso paura. Durante la notte… Ma noi non si sapeva niente, né che giorno c’è, né quando finirà la guerra, né dove eravamo: avevamo perso tutto ormai, qualunque orientamento e qualunque speranza.
Durante la notte [i tedeschi] si sono levati i vestiti [militari], han messo vestiti normali. E lungo il fiume loro erano sul rimorchiatore, non erano sulle chiatte; loro erano nella barca motore dietro, che faceva la guardia, e ogni tanto di giorno venivano a vedere chi era vivo e chi era morto: morto, puf, nel fiume, e via. A un certo momento ci alziamo al mattino e non li troviamo più. Viene qualcuno con la moto, ci dice: “Guardate, siete liberi, loro sono scappati”. Andiamo in terra, abbiamo paura anche ad andare in terra. Mi ricordo come adesso: c’erano i corvi che avevano fatto i nidi in questo bosco, questo triangolo [di bosco], ma ce n’era tanti, ce n’era cinque-sei nidi per pianta. Allora io che da bambino sono sempre andato sugli alberi mi sono arrampicato e ho cominciato a buttar giù ‘sti piccoli. Allora accendi il fuoco col cotone, perché non avevamo fiammiferi. Un pezzo di cotone, due tavole, una sfregata: cinque minuti e c’era la brace già bella pronta. Difatti col cotone si fa anche l’esplosivo, noi questo lo sapevamo. Abbiamo mangiato, il primo giorno tutti. Però abbiamo visto che siamo in pochi, difatti poi ci hanno contato: 900 eh, partiti in 1500. […]
Ma il bello deve ancora venire. La notte è passata l’Armata Rossa – bim bum, spara di qua spara di là – e noi siamo andati in una fabbrica di tabacco, e [lo abbiamo cosparso] per terra, “guarda che bello, finalmente una dormita”. Poi viene un vecchietto lì del posto, un cecoslovacco: “Ragazzi uscite tutti, perché se no con quel gas lì domani mattina voi siete tutti morti, perché quello lì è veleno, è un gas che deve fermentare”. Allora siamo usciti e siamo andati in una stalla. Il contadino ci ha dato un secchio di latte; ormai eravamo già allargati, chi è andato di qua chi è andato di là, eravamo rimasti in pochi. Ci ha dato delle patate sode e questo latte. Abbiamo mangiato così, con le mani, come le bestie, perché non avevamo niente, né cucchiai né niente.
L’indomani ci portano a Praga, eravamo vicini. Siamo a Praga, cosa facciamo? Han detto: “Andate per negozi che ci vi danno qualcosa, dovete vestirvi, tirar fuori [i vostri], lavarvi”. Ci mettono in tre-quattro per famiglia a Praga, ci danno da mangiare, da vestire, ci mettono a posto, ci danno il bagno, tutto. Poi ci passano la visita e dice: “Fra tre giorni vi trovate tutti in stazione che vi portiamo in un campo di smistamento”. Allora andiamo in giro, per Praga, di qua di là.
Anzi, devo dire prima [una cosa]. Quando ci hanno portato a Praga che abbiamo fatto tutti quei chilometri a piedi, ogni paese tutta ‘sta gente veniva con le pinte di caffelatte, coi dolci, col pane, fin troppo, fino a vergognarsi da dover dire “no basta, abbiamo già mangiato già in quel paese là”. Ogni paese ci facevano riposare, arrivava ‘sta gente, sembrava che sapessero… Insomma, una cosa… una cosa che ancora adesso mi commuove, a pensare quella cosa lì. Mentre gli altri ci han trattato in quella maniera, come ci han trattato…
Allora, ci portano là, ci danno ‘sti vestiti, ci mettono a posto, e noi andiamo in stazione. In stazione ci sono dei russi che scaricano delle cassette di uova sode colorate. Ogni tanto [qualche uovo] cadeva e lo mettevano da parte. Noi ci abbiamo detto: “Possiamo prenderle?”. “Prendete finché ne volete”. Io avevo il berretto, ne ho preso un berretto pieno, gli altri lo stesso. Siamo andati lì un po’ avanti nel fosso per non sporcare, le abbiamo pelate e le abbiamo mangiate. Ne abbiam mangiate [tante] che… io meno, gli altri non so, non li ho visti. Sono andato in coma, quattro giorni in coma: Mi sono trovato a [incomprensibile], mi han preso gli amici, mi han messo sul treno, con la testa fuori del vagone; e mi hanno detto [poi] che fino in Ungheria ho sempre buttato fuori.
Ci hanno portato in Ungheria, in un campo che erano tutti italiani, e c’era il comando italiano con gli ufficiali italiani. Ecco perché abbiamo perso la guerra: siamo stati quattro mesi lì a aspettare che arrivino ‘sti vagoni. Noi abbiamo perso la guerra perché avevamo delle signorine come ufficiali! Prima di tutto non dovevano accettare la guerra, perché dovevano capire gli intelligenti ufficiali che noi siamo un fuscello rispetto al mondo. Ed era solo che da perdere e far stragi. Invece di dire “otto milioni di baionette” dovevano dire “otto milioni di gente scalza”. Perché in Grecia la gente [arriva] tutti congelati. Come si fa? Ma dalla Russia, con le pezze ai piedi: come si fa vincere una guerra così? Questi dovevano essere processati, dal tenente a tutti gli ufficiali. “Adesso voi fate tutto quello che avete fatto fare alla gente” […]

D: Antonio, quando sei rientrato in Italia?

R: A [incomprensibile] si aspettava che arrivassero ‘sti vagoni, e i russi ci facevano lavorare, lì, che avevano una santabarbara da far saltare sulle granate. Ma non andava tanto bene, era un lavoro che non mi piaceva. “Ho giocato tanto con le bombe, adesso la guerra è finita e non voglio fare [più]” E allora ho trovato il sistema di sgattaiolare. Però, posso dire, ci davano da mangiare a volontà. Noi eravamo in ventisei italiani [mentre] gli ungheresi erano tutti spariti, erano tutti con i tedeschi. Finché non sono andati via i russi di lì non si è fatto vedere nessuno. Ci [sono voluti] dei mesi perché ogni tanto arrivasse qualcuno. Allora ci hanno dato una casa. “Chi vuole” – han detto – “si faccia da mangiare da solo, viene qui il capo baracca, fa la nota del personale che c’ha, e noi ci diamo i viveri e fanno da mangiare”. Io ero insieme con degli alpini, con altra gente dell’esercito. Internati politici erano pochi perché ormai eravamo sparpagliati. Dov’ero io ero il solo [deportato politico] italiano rimasto, erano tutti stranieri. Ci avevano diviso: [ad] ogni nazione han dato il suo campo. Noi prendevamo il tabacco; c’erano i sacchi [che contenevano] tabacco tagliato: a noi ogni settimana ci veniva uno di quelli. Fai il conto: 25 grammi di tabacco ciascuno al giorno – che io ne ho portato a casa uno zaino perché fumavo poco – 25 grammi di lardo o pancetta [da] mangiare col pane, 700 grammi di pane e 25 grammi di zucchero. E poi caffè, che non era caffè ma era orzo, quello a volontà: caffè non c’era, va ben. Se volevamo [c’era] anche il latte, latte in polvere, quello che adoperava l’esercito, ma noi quello non l’abbiamo mai preso. Sicché il mangiare, vi dico la verità, era troppo. All’inizio mangiavo dove avevano fatto la mensa, erano sette italiani che facevano da mangiare, tutto al modo nostro. Noi abbiamo fatto le tettoie, noi abbiamo fatto i tavoli, noi abbiamo fatto le panche. Noi italiani facciamo tutto. Noi abbiamo fatto i bidoni per buttare lo scarto, [anche se] qualcuno buttava fuori. Qualcuno faceva il minestrone – era più carne che fagioli – buttava i fagioli e mangiavano la carne, poi buttavano per terra […].
Ad un certo momento dice l’ufficiale russo: “State a sentire, qui vogliamo fare qualcosa visto che bisogna stare ancora insieme. Chi vuole venire con me, prendiamo due camion, andiamo in Austria, prendiamo un po’ di strumenti” – perché sapeva già, chi suona quello chi suona quell’altro, io anche suonavo la chitarra – “e mettiamo su un teatro”. “Teatro?”. “Non aver paura, vedrai che facciamo”. Siamo andati in Austria, ci han comprato – comprato, cosa ne so io? – ci hanno dato questi strumenti, li abbiamo messi sul camion, abbiamo provato [e] funzionano. E siamo venuti a [incomprensibile]. Lì c’erano due camion di tavole: abbiamo fatto il palco, abbiamo fatto tutte le panche, abbiamo fatto tutto, nel tempo di una settimana dopo arrivati lì. C’erano già altri prima [che arrivassimo noi], c’erano già gli ufficiali lì, ma erano troppo ignoranti per capire. Abbiamo fatto la squadra di calcio quando eravamo contro i russi, e c’era il comandante che era più rabbioso quando prendevamo il goal noi che non quando lo facevamo, che voleva sempre che facevamo vedere a loro come si fa. Perché quattro mesi erano lunghi, quattro mesi li abbiamo passati così. Almeno abbiamo passato il tempo. Poi [avevano] da dire che gli italiani in cucina erano quelli che rubavano. Un giorno arriva la pattuglia – la sera eravamo liberi – e prendono [uno] con un sacco di zucchero che lo andava a vendere. Tasta, guarda, fa il buco: “Zucchero! Torna indietro, portalo indietro, non fare lo scemo”, Che già si capiva bene il russo: io ero quasi tutto [il tempo] coi russi, tedesco m’arrangiavo, dopo il russo l’ho imparato. L’han fatto portare indietro e non c’han fatto niente… Perché rubare? C’abbiamo tanto che vogliamo! Per darcelo a quelli là? Che gli ungheresi son peggio dei tedeschi: la razza seconda peggiore che ho trovato sono gli ungheresi eh, questo è un fatto.
Viene il momento in cui arrivano ‘sti carri bestiame, aperti, non chiusi. Han detto: “Arrivano dall’Italia”. Infatti era scritto ‘Italia’. Io sono partito [con] la seconda andata, perché quelli che erano prima di me lì sono partiti prima.
Eravamo in quattromila lì: duemila son partiti e siamo rimasti in duemila. Dopo un quindici giorni è arrivato il treno, tutto aperto: “Se piove qui come facciamo? Sarà un po’ di tempo da navigare per arrivare”. “Dobbiamo arrivare in Austria, però bisogna fare il giro per Monaco di Baviera”. Eravamo in Ungheria e bastava andare a piedi, eravamo già in Austria. No, abbiam dovuto andar su, in Germania, perché la ferrovia era per l’esercito, era per loro, americani e russi, serviva a loro. Questo devo ammirare, che l’ufficiale russo che comandava, non i militari russi; quello era un uomo. Ha mandato i carri scoperti, conosceva già tutto il tragitto. Ci fermammo in un posto dove lui aveva già preso le tavole per fare il teatro. “Qui dobbiamo star fermi due giorni”. Abbiamo fatto [di] ogni vagone una baracca – questo ve lo giuro – e lui rideva che non finiva più. In centro abbiamo messo la carrozza passeggeri per i soldati russi, e subito dietro la cucina da campo, [che] ha sempre funzionato. Quando era ora di pasto: “Ferma, adesso si mangia”. Non abbiamo mai mangiato in corsa, abbiamo sempre mangiato fermi. Per dormire lui ha telefonato e ha detto di andare là. Allora è andato – comandava lui il treno – in un posto e c’erano delle brande, ma non c’erano materassi: “Ragazzi, materassi non ci sono, solo brande!”. Allora fil di ferri, ligar sopra, ligar sotto, una branda, l’altra branda: castelli a due [piani]. Ragazzi, questo ve lo posso giurare. Questo ha fatto quest’uomo. Un mese ci abbiamo impiegato. Siamo arrivati in Austria, in mano agli americani. Gli americani ci danno un pacchetto di sigarette, una cioccolata. Cioccolata non avevamo mai vista. Ci han dato di tutto, ma cioccolata…
Poi vengono con quel DDT in polvere, ci [disinfettano] qua e là, dappertutto, e ci mettono lì, dove c’erano i letti. Quella cioccolata è durata quattro giorni! Ci hanno messo sui treni dopo, treno passeggeri, per venire in Italia, e quando siamo arrivati dopo quattro giorni sul confine italiano la prima cosa che han fatto, han suonato ‘Il Piave mormorò’. Avevano le ceste di panini: due ceste, duemila persone! Due ceste, cinque minuti erano sparite. E poi non si mangiava. E ‘Il Piave mormorò’: carabinieri sulla passerella, camminavano. Allora metti in moto il treno e avanti, altra stazione. Di nuovo la musica, ‘Il Piave mormorò’. […] Nessuno prende panini, i cesti sul treno. Andiamo nel paese dopo e loro suonano quello che vogliono. Noi scendiamo dal treno, tutti duemila. Duemila in città, in tutti i negozi; i carabinieri [sono] restati lì di stucco perché eravamo duemila, mica uno. Andati in tutti i negozi, ci siamo riforniti con ceste, con robe, perché sapevamo che dovevamo arrivare fino a Verona, con pane, con panini, prosciutti, tutto quello che c’era. [Chiedevamo che pagassero alla gente quello che avevamo preso], non ‘Il Piave mormorò’. Tenetevelo pure, noi teniamo il pane!
Sono arrivato a Verona. Ci hanno messo nel campo, con le tende già preparate dai militari, ci hanno visitato, siamo stati un paio di giorni, ci hanno dato da mangiare, ci hanno dato dei soldi, il biglietto. Ci hanno divisi – sud, nord, est, ovest e via avanti – ci hanno dato il biglietto e siamo venuti a casa. Non è finita. Quando sono arrivato a casa, arriva la cartolina di andar militare, cartolina rosa. Come, non avevo fatto già abbastanza io? Ogni tre mesi arrivava la cartolina. A un certo momento io mi rifiutavo, questo è logico, e loro a tutti i costi volevano… cosa volevano poi non lo so nemmeno io. Un giorno arriva un brigadiere a casa mia, c’è mia moglie: “Non avete il postino per mandare la posta? E viene lei in casa mia?”. Ha detto: “Ho avuto ordine di portarci io la cartolina”. “Perché la cartolina, per cosa? Tanta paura avete? Avete paura che facciamola rivoluzione? No, la facciamo ancora perché quando siete voi d’accordo con noi di fare la rivoluzione, che voi avete le armi, con le vostre armi dobbiamo fare la rivoluzione. Quando voi siete d’accordo con noi faremo la rivoluzione, perché noi armi… Comunque, quella carta lì, che lei ha in mano, se la tenga pure perché io ho fatto già la prigionia, io ho fatto già il partigiano, io ero esonerato, e cercate di mandarmi il congedo, perché io ero esonerato, ho lavorato per il governo”. Allora quello lì è stato bravo: “Ha ragione. Io queste cose non le sapevo”. Ed era quello che era appena venuto brigadiere nel paese, comandava. Ve lo giuro che dopo due mesi m’hanno mandato il congedo con trentasei mesi di ferma e m’hanno dato tutti i soldi della paga di militare di quella volta – mia moglie testimonia – ottomila lire. Pochi erano, non importa, m’hanno servito. E non mi hanno più seccato, ma ve lo dico che mi hanno rovinato bene.

D: Antonio, tu non sei mai stato intervistato in questi 55 anni?

R: No, mai. Nessuno m’ha mai chiesto com’ero, dov’ero, niente. Ho fatto [richiesta], m’han mandato la Croce Rossa la carta dov’ero, ho consegnato, ma m’hanno riconosciuto in ritardo: io il premio di inizio l’ho perso perché non ero al corrente delle cose. Infatti, quello l’ho perso io, e difatti sul ‘libro mastro’, il libro grande degli internati politici io non risulto.

Algeri Giuseppe

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Io sono Algeri Giuseppe, nato a Caltagirone il 17.11.1921, [in] provincia di Catania. Sono stato preso… arrestato il 9.9 del 1943 a Tirana, Albania, catturato dai tedeschi. Dopo quindici giorni di prigionia in un campo di concentramento i tedeschi, dopo averci disarmato, ci hanno riarmato di nuovo e ci hanno portati al confine della Bulgaria. Il riarmo è stato il motivo perché… dovevano passare dai ribelli albanesi, e allora avevano paura e ci hanno riarmato. Arrivati al confine della Jugoslavia ci hanno di nuovo disarmato. Da lì, ci hanno messo su dei carri bestiame e ci hanno portato in Germania.

D: Pippo, ma tu eri in Albania come militare?

R: Sì, ero in Albania come militare. Aviere di governo.

D: In che campo ti hanno messo quando eri in Albania?

R: Era un campo tra Durazzo e Tirana, era un campo di concentramento dei greci. Allora c’erano i greci, perché in queste baracche c’era scritto “noi spezzeremo i reni ai greci”. Ci hanno portato lì, ma io ci sono stato dieci giorni, quindici giorni, e poi dopo ci hanno messi su questi camion, e per attraversare l’Albania ci hanno dovuto riarmare, come ho detto prima. Arrivati in Bulgaria ci hanno messo sui vagoni bestiame e siamo andati in Germania.
La prima tappa l’abbiamo fatta a Vienna. A Vienna ci hanno fatto delle perquisizioni, ci hanno cercato di levare quello che avevamo, e da lì ci hanno portato a Königsberg. Königsberg era un lager di concentramento. Sono arrivato il pomeriggio… di sera, sarà stato verso la fine di settembre ecco, non ricordo con precisione le date. Da lì, l’indomani mattina mi hanno fatto delle foto segnaletiche, impronte digitali, e basta. Al pomeriggio ci hanno detto che cercavano degli operai specializzati. Io ero falegname e allora mi hanno preso. E mettevano da un lato chi era buono e [da un altro] chi era malato. Io un po’ [sentivo] la paura del malato… m’ha fatto un po’ paura. Ma comunque io stavo benissimo, non avevo nessun problema. Da lì mi hanno messo da parte. L’indomani mattina subito un ufficiale – eravamo una trentina – ci ha messo sul treno, e ci ha portato a Nordhausen. Le città che abbiamo passato erano: prima Berlino, abbiamo fatto una prima tappa, tutta la notte ci siamo fermati lì, la prima volta che ho visto la scala mobile, che io non sapevo cosa era la scala mobile; da Berlino l’altra città era Essen e poi siamo arrivati a Nordhausen. Nordhausen è a quattro chilometri c’è il Lager Dora, Dora-Mittelbau. Da lì, appena arrivati, subito ci hanno preso i nomi e poi ci hanno portato in una specie di bagno. Ci hanno rapato a zero, ci hanno spogliato di tutto e, finito di fare il bagno, ci hanno fatto vestire con le divise a righe. Noi, che eravamo militari, per quale motivo vestiti a righe? E lì c’è stato uno sconforto generale.
Eravamo una trentina, così: un po’ venivamo dai Balcani, qualcheduno – cinque, dieci – venivano dalla Russia e avevano fatto undici mesi di ritirata. C’erano dei carabinieri. C’era un alpino, perfino, che era diventato sergente al valore militare: questo qui si è messo a piangere come un bambino, [con] gli altri ci siamo guardati in faccia… Ci hanno portato di nuovo fuori, è arrivato un contrordine. Ci hanno spogliato di nuovo lì, all’aperto, e ci hanno ridato di nuovo la divisa. La divisa aveva il numero 0162. La matricola che mi avevano preso prima a Königsberg non serviva più e allora il mio numero di matricola ora era 0162.

D: Ma questo numero di matricola dove te lo hanno dato?

R: Al Dora. Una nuova matricolazione, ecco. Dopo siamo rientrati in galleria. In galleria ci hanno dato una zuppa. Questa zuppa era una zuppetta dolce. Io… mai mangiata, difatti alla notte poi mi è venuto un forte mal di stomaco e sono stato male.
A mezzanotte mi hanno mandato già subito a lavorare. Dentro la galleria stessa m’hanno mandato a lavorare e m’hanno dato un martello perforante, che io non sapevo nemmeno cos’era, e abbiamo cominciato a fare buchi alle pareti, a questa roccia, in queste gallerie: un tunnel era. Facevamo dei buchi profondi 4 metri e 20: cominciavamo con un metro fino a che si arrivava ai 4 metri.
Ora, la notte, come turno facevo da mezzanotte a mezzogiorno. Questo sin dal primo giorno [che ero] arrivato, sarà stato i primi di ottobre [1943], non ricordo con precisione le date. A mezzogiorno si doveva andare a dormire per regola, finite dodici ore di quel lavoro snervante. Da lì, dove si dormiva? Si dormiva nei castelli alti a cinque piani, e io, siccome già avevo qualche pidocchio addosso, io me ne andavo all’ultimo piano perché c’avevo la lampadina più vicina, in modo che mi potessi schiacciare questi pidocchi e ucciderli. Alle cinque di sera arrivavano gli altri deportati che lavoravano fuori. Allora, figuratevi, un casino che c’era: la gente che rientra dal lavorare, noi che dovevamo dormire, e non si dormiva. Alle 11, di nuovo sveglia, ma già eravamo svegli: “Italiani, 11, a lavorare!”. E si va di nuovo a lavorare nelle gallerie, sempre a fare lo stesso lavoro: perforare questa roccia. Dopo, finito questo lavoro – eravamo circa dodici-quattordici persone che bucavamo questa roccia – l’indomani mattina, finito di fare questi buchi, venivano i minatori, riempivano e facevano saltare la roccia. Questo lavoro l’ho fatto per sei mesi consecutivi, dodici ore al giorno, da mezzanotte a mezzogiorno e da mezzogiorno a mezzanotte, una settimana così, una settimana…
Dopo sei mesi – che io come morale ero alto, non ero uno che mi… e poi avevo 22 anni… – e allora, insomma, mi cominciava a pesare: non era tanto per il lavoro, quanto perché non dormivo, né notte né giorno. Allora, si è dato il caso [che] è venuto un cecoslovacco, ma che io mai avevo conosciuto e mai visto, si vede che veniva dall’Arbeitsstatistik, non lo so, veniva da fuori. Gli dissi: “Mi faccia la cortesia, vedi se mi puoi fare uscire da qui dentro, perché io qui sto morendo, non ce la faccio più”. Ma non so se m’ha visto simpatico o cosa è stato. Dopo due giorni m’ha detto: “Vieni fuori a lavorare”.
Allora m’ha portato fuori all’Arbeitsstatistik e lì mi hanno mandato alla baracca numero 18 dove c’erano tutti gli italiani, che io gli italiani quasi ne avevo visto pochi. O meglio, se c’era qualche italiano non ci incontravamo mai quando si smetteva di lavorare perché uno faceva da mezzanotte a mezzogiorno e l’altro faceva da [mezzogiorno a mezzanotte]. Nel frattempo che noi facevamo [un turno] avevamo due turni di civili, che loro invece facevano dalle sei alle sette. Noi in un turno avevamo due turni di civili… freschi sempre. Finito questo, ci davano un po’ di zuppa. La zuppa consisteva in un litro di brodaglia, un pezzo – circa 200-250 grammi – di pane. Alla mattina ci davano un po’ di caffè amaro, surrogato sarà stato, e con quella roba lì si tirava avanti. Il caffè era importante perché l’acqua dentro la galleria non ce n’era. Arrivava un’acqua colore bianco: chi la beveva… a qualcheduno che l’ha bevuta ci veniva la diarrea [con il] sangue, e moriva.
Per sei mesi: mangiare, dormire, lavorare, fare i nostri bisogni, tutto in galleria. Erano due tunnel lì, scavati già dai tedeschi prima. Questi due tunnel erano paralleli e noi foravamo delle gallerie in modo da poter congiungere i due tunnel. I nostri bisogni, si facevano di fronte a tutti. Nel tunnel c’erano circa 30-40 bidoni. Insomma, erano dei fusti di benzina tagliati in due. Lì ci si metteva un pezzettino di tavola e in quella tavola dovevamo fare i nostri bisogni. Buona parte [di noi] aveva la dissenteria, come già detto. Però dovevi essere fortunato a fare i tuoi bisogni che non si trovasse a passare la SS, perché quando passava la SS erano botte perché loro credevano che lì andavamo a riposare. Effettivamente qualche volta si andava anche a riposare, allora dovevi scappare con i pantaloni addosso, correre e andare via di lì.
Dopo questi sei mesi, ripeto a dire che io ero proprio finito. Allora son passati e mi hanno portato fuori a lavorare. Arrivato fuori a lavorare m’hanno mandato a costruire delle strade. Pensa: un falegname, un ebanista com’ero io… e quest’era il lavoro. Quando si andava fuori a lavorare, andavamo a lavorare trenta uomini, trenta prigionieri, e chi ci scortava? Dunque, avevamo un caposquadra che lo chiamavamo Vorarbeit[er], in tedesco, che portava il triangolo verde. Erano gli uomini più pericolosi, più delinquenti che c’erano. Da lì, oltre a quello, avevamo quattro guardie della SS che ci scortavano coi fucili spianati e quattro cani ammaestrati, cani lupo. E questa era l’andata e il ritorno del lavoro, e sul lavoro c’erano sempre questi tedeschi. Oltre [a loro] c’era un capo civile. Capo civile [che] dalla mattina alla sera non diceva altro: “[Los], arbeit! Los, arbeit! Schnell! Los, arbeit”. Quando passavano gli altri ci diceva: “Badoglio, Badoglio […]”. Alla sera dovevamo rientrare. Rientrando cosa facevano? I tedeschi si divertivano a lanciare i cani addosso man mano che camminavamo, e allora i cani si imbestialivano. Una sera di queste, questa guardia delle SS non ha fatto in tempo a tirare il cane indietro e difatti m’ha dato un morso nella gamba sinistra, [di] cui porto ancora l’impronta. Insomma, la cicatrice è rimasta. Arrivato dentro, ho dovuto andare… chiamiamola infermeria… arrivato lì mi hanno detto: “Cosa è stato?”. Io ci ho detto: “Un cane”. Allora quasi mi picchiavano perché dicevano: “Allora volevi scappare se il cane ti è corso addosso!”. Dissi: “Guarda, dato che non ti capisco…”. Né loro capivano l’italiano né io capivo il tedesco. Ma sempre tutti deportati eravamo eh! Tanto in infermeria, tanto… Insomma, là non si vedeva altro. Gli unici che eravamo, 800-1000, erano questi militari, ecco. Dopo, cosa m’hanno dato per medicare? Una fascia di carta igienica! Me l’hanno fasciata, e basta. Poi sono andato a lavorare, l’indomani. Ora, cosa succede? Dopo sei mesi che non vedi aria, che non vedi niente, mi sono gonfiate le gambe, grosse e sproporzionate. Tanto che io dovetti passare la visita, perché non ce la facevo a camminare, non mi potevo muovere e poi lavorare nelle strade, e mi dissero: “Riposo, riposo a letto con le gambe per aria”. Allora, cosa facevo? Un giorno sì e un giorno no dovevo andare a passare la visita in questa specie di infermeria con l’inverno freddo che c’era. Perché io sono uscito a marzo dalle gallerie eh! Intendiamo… allora faceva ancora freddo. Le gambe le avevo sempre gonfie, però, se io mi mettevo con le gambe per aria come mi dicevano loro, le gambe si sgonfiavano. Passato questo, son stato io… Ecco, questo è perché Algeri Giuseppe è ancora qui. Ecco. perché fu la mia fortuna. Io mi riposai quasi due mesi, stando in baracca, non andando a lavorare. Perché non andare a lavorare era la vita, ecco, per noi deportati del Dora. Perché quello era l’inferno, si chiamava, del Dora. Allora, stando due mesi a riposo, io mi sono ripreso di tutto il male che avevo preso e che avevo subito nelle gallerie. Così ripreso, appena che è arrivato il mese di maggio, che ha fatto un pochettino… [la] temperatura è cambiata, io, senza mettermi con le gambe per aria, le gambe si son sgonfiate. Dico: “Giuseppe deve andare a lavorare, non c’è niente da fare”. E invece cosa avviene? Lo stesso pomeriggio arriva quello che faceva da caposquadra e che non mi voleva fare uscire dalle gallerie, che era un siciliano, un paesano mio, che non mi voleva fare uscire perché diceva che io ero l’unico che sapeva fare il lavoro e se mi levano a lui quel lavoro non va avanti. Questo qui gli dissi: “Guarda, o mi fai uscire o ti ammazzo. Loro ammazzano a me e io ammazzo a te”. Questo lo portano alla baracca 18, dove eravamo tutti italiani, dove si dormiva. Alla baracca 18 aveva il tifo petecchiale. Avendo il tifo petecchiale ai tedeschi c’è venuta una paura tremenda. La SS, tutto il Lager Dora… perché il Lager Dora, sai, non era un campetto, era un Lager che c’erano 25.000-30.000 persone.

D: Pippo, scusa, ci puoi spiegare com’era organizzato il Lager Dora? C’erano delle baracche all’esterno e delle baracche all’interno?

R: Dunque, noi eravamo combinati [così]. All’interno, non c’era niente nel tunnel. Nel tunnel non c’era niente, si dormiva dentro le gallerie stesse. C’erano questi enormi castelli a cinque piani, ogni piano era alto 60-70 centimetri. Tu dovevi restare disteso: se ti mettevi in piedi non potevi restare, perché era troppo basso. I piedi non dovevano uscire di fuori, perché se per caso uscivano di fuori passava la SS e te li tagliava – insomma ti dava delle botte tremende – quindi dovevi stare rannicchiato, sempre messo lì. All’esterno, dopo sei mesi, sette mesi, avevano costruito delle baracche, in modo che, che facevano… quando si cambiava il turno, un po’ andavano nelle baracche e un po’ andavano … insomma, questo col tempo.

D: Quindi tu hai fatto sei mesi all’interno delle gallerie?

R: Sei mesi all’interno delle gallerie senza uscire mai. Nemmeno per… niente, niente! Io per sei mesi non ho visto la luce del sole, ecco. Sì, si sentiva l’aria, perché questi due tunnel paralleli erano lunghi circa due chilometri, magari non c’erano porte e allora l’aria correva. Faceva freddo alle volte lì dentro, ma uscire per andarmi a lavare: niente. Anzi, quando qualche volta cercavo di pigliare un cannellino di acqua – che era la nostra… il recipiente per la zuppa degli avieri – alle volte, molte volte ho preso tante botte, gli occhiali m’andavano a finire… come non si son rotti non lo so. Perché credevano che io bevessi l’acqua e allora… si moriva ecco. L’acqua non c’era, non si poteva bere. Difatti ci davano il caffè amaro, ogni giorno.
Invece fuori c’erano le baracche, ecco. [Nelle] baracche c’era il lavandino, c’erano una specie di… I gabinetti non ce n’era però eh! Anche nelle baracche, all’esterno del tunnel, c’erano sempre questi benedetti bidoni che si andava a fare… Ora, capite che di notte dell’inverno, con 24 sottozero, uno che si doveva mettere a andare a fare i suoi bisogni fuori, all’aperto, anche se uno non era malato, si ammalava. Quel gelo… avere gli intestini aperti. Alla mattina, quando ci svegliavamo alle 5 e mezza, alle 6, dovevamo andare a lavare con quel gelo, a torso nudo. Se uno si portava la camicia ce la strappavano addosso. Questo era il Lager Dora. Il Lager Dora era l’inferno vero e proprio. Nessuno… Io se sono oggi qui, sono perché voglio parlare di questo Lager Dora.
Noi di italiani eravamo pochi. Eravamo 800-1000, non ricordo. Nel giro di pochi mesi, 3-4 mesi, sono morti 304 italiani. Sette sono stati fucilati. Sono stati fucilati questi sette sapete per che cosa? Perché dentro le gallerie, quelle che lavoravamo col martello perforante, si diceva… ecco, chiacchiere… si diceva che ci toccava un litro di zuppa in più. Invece, noi altri, questo litro di zuppa i Kapò se la vendevano o non so cosa facevano. Allora questi sette alpini – insomma, io ho smontato, per dire la precisione, e loro montavano al turno mio, perché facevano lo stesso mio lavoro – questi si sono rifiutati di lavorare. Ci dissero: «Fateci cambiare un altro lavoro, levateci di qua, dato che non ci date il litro di zuppa [in più]». Nel frattempo c’era la SS vicino a questo Kapò, ha detto: “Se non li denunci tu, li denuncio io”. Ce l’hanno detto in tedesco. Comunque, questi sette italiani sono stati fucilati per un litro di zuppa. Non è che non volevano lavorare, han detto: “O ce la date o ci fate cambiare lavoro, dato che noi altri [utilizziamo] questi martelli perforanti, dateci… se ci spetta perché non ce lo date?”. In sostanza, il torto lo avevamo sempre noi, e i Kapò e la SS avevano ragione.
Il giorno che ero a riposo io mi son trovato per caso che ero fuori dal turno, e ci hanno chiamato tutti quelli che eravamo fuori e ci hanno portato dentro una cava di pietra. Noi eravamo un centinaio, ci siamo guardati in faccia, dico ma: “Qua cosa fanno? Ci vogliono ammazzare tutti?”. Nel frattempo arrivò un plotone di esecuzione, e poi arrivarono questi sette italiani, per dirsi precisi sei italiani in piedi e uno che era malato in barella. Quando sono arrivati questi qui, siccome noi eravamo prigionieri, eravamo militari, allora c’hanno fatto un regalo, che invece di impiccarli, li hanno fucilati. Le parole che ha detto questo ufficiale io non lo dimentico mai, mai! Posso vivere ancora cento anni. L’ufficiale disse: “Gli italiani, siete i figli di una nazione che per ben due volte ci ha tradito. Voi lo dovete pagare col lavoro e con la disciplina. Chi sbaglia [paga] anche col sangue. Su 100 italiani, 99 devono morire e uno deve rientrare in Italia malato”. Noi italiani, o meglio io, avevo paura dei russi, che erano uomini come me! Tanto era diventata la paura tremenda in questo Lager. E il bello è che si dice che il Lager Dora sarebbe stato il nome o della moglie o di una figlia di questo ufficiale.
Ritorniamo di nuovo al discorso che venne il tifo [petecchiale]. I tedeschi si misero paura perché sai, infestare migliaia di persone non ci voleva niente. Tutti avevamo i pidocchi addosso. Basta che c’era un pidocchio eri infestato, e l’avevamo tutti. Allora cosa hanno fatto? Hanno recintato tutta la nostra baracca 18. Non potevamo uscire, ci avevano messo come in quarantena.
Dopo sei mesi sono andato a fare la prima doccia. M’hanno di nuovo rapato a zero, perché ogni volta che si faceva [la doccia] rapata a zero, in tutti i posti del corpo, dove c’era pelo ci passavano. Come finiva di lì, c’era una vasca che era piena di disinfettante. Ti dovevi infilare lì dentro. Se tu non ti bagnavi la testa loro ti mettevano la testa dentro questo disinfettante, perciò delle volte gli occhi bruciavano. Ma se uno era un po’ furbo, uno si lavava un po’ la testa, e così non veniva… Poi quando [il locale] era pieno – saremo stati 100-150 – allora aprivano le docce che ti bruciavano, poi ti davano le docce di acqua fredda. Finito di lavarci, in sostanza, uscivamo fuori. Tutti la nostra roba, gli indumenti, li davamo prima, in modo che li portavano in una sala di disinfezione, li mettevano a disinfettare. Dopo, finito di fare la doccia, nell’inverno, mese di marzo, aprile, stare fuori ancora un’altra mezz’ora, tre quarti d’ora, nudo, per darti gli indumenti. Dopo andavamo in baracca. Alla sera venivano specie di infermieri con dei fari, accesi, e ci guardavano in mezzo alle gambe e sotto all’ascella, per vedere se avevamo qualche pidocchio. Dopo quindici giorni si resero conto che gli italiani… avevamo fame, non pidocchi! Ecco, dopo sette mesi e qualche cosa, mi ho potuto lavare. Dopo io sono andato sempre a lavorare queste strade. Chi andava a lavorare, a fare la strada, sempre chi comandava erano…che noi come caposquadra avevamo dei delinquenti. Delinquenti tedeschi però, non italiani o cosa, gente che aveva fatto dei sabotaggi, gente che era condannata o all’ergastolo o a vita… Allora questi qui, siccome parlavano tedesco, li hanno levati dal carcere e li hanno portati nei Lager. Molte volte la SS non comandava nemmeno, ma comandava più questo Vorarbeit[er]. Lui ci poteva ammazzare, e la SS quasi non parlava, va bene? Finito questo lavoro, nel mese di maggio… giugno, insomma, giugno, luglio, ci hanno fatto i raggi a tutti gli italiani – io parlo degli italiani – per vedere dal torace cos’è che avevamo. Quelli che erano malati o di tubercolosi o di prurito li hanno messi da una parte, e noi ci hanno mandati a lavorare.
Il Lager Dora era tutto su una pianura, e poi c’era una collina. Lì, poi dopo è avvenuta la costruzione della bomba volante, perché questo lavoro nelle gallerie era tutta la preparazione da poter fare degli stabilimenti in modo che si poteva lavorare per fare la bomba volante: le V1 e le V2. Quando poi un giorno di questi mi sono trovato ad andare a pigliare del materiale nel tunnel, quel giorno ho visto Von Braun, questo uomo pericoloso, uno scienziato che merita tutte le lodi possibili. Nel Lager Dora però era un assassino, perché lui andava a prendere, mano a mano che morivano… I morti che c’erano lì dentro, erano una cosa spaventosa, non potete immaginare. Erano accatastati come la legna, poi venivano dei camion e li portavano a Buchenwald a bruciare, perché noi ancora non avevamo i forni. Ma dato che i morti aumentavano sempre, in continuazione, allora furono costretti a far mettere due forni crematori, così li bruciavamo al Dora. Quando uno faceva un piccolo sbaglio, o si allontanava dal lavoro, o una disattenzione, tutto era [considerato] sabotaggio. La minima cosa erano venticinque colpi sul [fondoschiena]. Loro lo chiamavano ‘Gum’ [Gummi, ndr], era un filo elettrico con dentro il rame. Dopo dieci colpi nessuno brontolava più. Io fortunatamente non ci sono arrivato, perché fin dal primo giorno ho capito che io dovevo lavorare poco e non farmi trovare mai fuori posto, perché se eri fuori posto erano botte, da morire. Allora, dopo di questo, ho fatto quasi un anno al Dora. Dal Dora, nel mese di agosto [1944] mi hanno trasferito e mi hanno portato a Ellrich. Sarebbe un sottocampo, ma era il più grosso che c’era. Paragonare il Dora e l’Ellrich… erano padre e figlio, né più né meno. Mi hanno portato lì e ci hanno messo a dormire per terra.

D: Quando ti hanno trasferito in questo sotto-campo, con cosa ti hanno portato?

R: Con un camion, sempre per via di camion ci hanno portato.

D: Con altri italiani?

R: Sì, eravamo cento italiani. Ci hanno preso dal Dora e ci hanno portato a Ellrich.

D: Ti hanno dato un’altra immatricolazione?

R: No no, sempre 0162 la mia matricola. La mia matricola non è cambiata più. Io ero 162, dato che dipendevo [da Dora], perché Ellrich si chiamava Ellrich Dora Buchenwald.
Allora, prima di continuare su Ellrich volevo precisare… Ho conosciuto Von Braun dentro la galleria. Questo uomo – che è stato uno scienziato, ci ha portato sulla luna, ci ha fatto tutto quello che ha fatto, però dentro il tunnel era un assassino, un assassino che come lui non ce n’erano – andava giornalmente, continuamente a Buchenwald a pigliare nuovi prigionieri che arrivavano – deportati, non prigionieri, deportati, perché forse gli unici prigionieri eravamo noi italiani – e li portava in Germania.
Prima che io andassi a Ellrich ci fu un sabotaggio delle bombe volanti. Si diceva – 10 mila bombe, che io non posso precisare – che la bomba partiva dalla pista di lancio, andava in Inghilterra, però non scoppiava più. Il mio pensiero corre [a] qualcuno di questi che lavoravano dentro il tunnel, alle gallerie, che ci dava alle volte qualche cosina e diceva: “Buttalo nel cesso”. Diciamo cesso, ecco, e magari poi ci regalava pure un pezzettino di pane “e noi eravamo felici e contenti”. Saranno stati loro… Comunque, le bombe andavano in Inghilterra e non scoppiavano più. Allora cos’è successo? Quel giorno, quando poi la cosa si è saputa, hanno impiccato trentadue persone. A noi – tutti quelli deportati che erano fuori, al riposo – ci hanno fatto stare dalla mattina alle sei fino alle sei e mezza, sette [di sera] fuori senza mangiare, senza bere, in piedi, per aspettare quest’impiccagione. In sostanza quasi tutti erano civili, perché erano vestiti civili, perché non erano vestiti a righe. Comunque, di questi ne hanno impiccati trentadue. Quando è finita l’impiccagione, siamo tornati.
Il lavoro che c’era sulle strade erano due squadre: una squadra si chiamava ‘Becker eins’, che è dov’ero io, ed era discreta. Poi c’era una ‘Becker due’. Erano deportati italiani, e lì tutte le sere se ne portavano un morto, perché c’era un Kapò che si era messo in testa che noi avevamo ucciso suo padre, perché il padre era morto nella guerra del ‘15-’18. Non faceva altro dalla mattina alla sera che dare botte, senza motivo, senza motivo perché si era lì a caricare i vagoni. Io ci sono capitato un giorno, con questo figlio di…, diciamo così.
Poi dopo sono stato trasferito a Ellrich. Dunque, trasferito all’Ellrich, lì a dormire per terra, di nuovo mi sono riempito di pidocchi.

D: Scusami Pippo eh, ma è importante: a Dora tu donne non ne hai mai viste?

R: Mai, mai… [anzi] l’ho visto! Ho visto qualche donna. Sapete cosa hanno fatto i tedeschi? I tedeschi, sulla collina dove fucilarono questi sette alpini, avevano costruito delle baracche. Avevano messo una baracca di prostitute, una baracca per quelle malate di polmonite e di bronchite e quelle cose lì, e loro volevano che noi andassimo da queste prostitute. Ma se non stavamo in piedi, come facevamo ad andare? Più di una volta ci hanno accompagnato da queste prostitute, ma io non lo trovavo. Io per due anni non sapevo se ero un uomo, cos’ero… mi serviva solo per fare la pipì e basta. Ma non lo trovavo nemmeno, non sapevo niente. Io per due anni non so se ero uomo, se ero donna, niente ero, ecco. Per due anni. Dopo liberato, subito mi sono svegliato, i miei sensi si sono svegliati ecco.
Allora lì a [Ellrich], una volta che ero bello pulito, venuto dal Dora, e andare lì a dormire a terra, questi pidocchi… mi sono cominciati a venire dei pruriti, delle cose spaventose. I pidocchi camminavano sulle coperte, in fila indiana, e io dovevo dormire, mi dovevo mettere sul pagliericcio. Allora cosa ho fatto? Andavo in questa mezza specie di infermeria, mi hanno dato un liquido, era come un olio, me lo passavo tutto e il prurito se ne andava. Non so che olio era. Comunque, poi sono andato a lavorare. Da Ellrich si pigliava un trenino, si faceva mezz’oretta di treno, ed andavamo a lavorare dall’altra sponda delle gallerie. Da lì andavo a scavare i pozzi d’acqua. Un altro lavoro ancora. Non avevamo delle trivelle, che forse ancora non esistevano. Siccome eravamo vicino ad un fiume allora noi bucavamo questi pozzi, facevamo un metro di diametro e ci andavamo con una pompa, che facendola scendere dalla gru fino a lì dentro. Allora poi, dato che era mischiata acqua e ghiaia, questa pompa aspirava e tirava su e poi la svuotavamo. Quando eravamo ad una certa profondità si metteva il tubo dei pozzi artesiani e a giro ci mettevamo una ghiaia speciale che portavano da fuori, in modo che potesse filtrare l’acqua. Quest’acqua di questi pozzi doveva servire per portare l’acqua potabile al Dora… che forse non ci sono mai riusciti a portarla. Questo lavoro l’ho fatto… dunque, Pasqua quell’anno lì è stata il primo di aprile del ‘45… perciò dal settembre del ‘44 fino al primo aprile del ‘45 sono stato a Ellrich. Lì diciamo che ero un po’ più libero. Lì lavoravo… però era arrivato un contrordine che io dovevo… che gli italiani, potevamo andare a lavorare senza più la SS, senza più i cani, senza questi Kapò. Insomma, c’era un italiano che faceva da caposquadra. Allora si aveva un pochettino più di libertà. La sera, dopo aver lavorato di giorno – erano tutti terreni che c’erano state patate – e ci mettevamo a zappare con il piccone per vedere se trovavamo una patata marcia . Lì si andava a lavorare tutti i giorni a 24 gradi sottozero. Io avevo una divisa di tela, perché la divisa di aviere – difatti lì nessuno mi conosceva come Algeri, io ero ‘l’aviere’, e basta, aviere 0162 – la divisa si era consumata, le scarpe si erano consumate. Poi le scarpe dell’aviazione sono delle scarpe normali, come le nostre erano, non erano scarpe da militare con i chiodi. Mi dettero degli zoccoli: di sopra c’era la pelle ma di sotto c’era lo zoccolo, e forse era un bene perché non si sentiva tanto il freddo. Poi ci avevano dato i para-orecchi e un paio di guanti, di cose che duravano un giorno e si dovevano buttare. Ma 24 sottozero, tutte le mattine, fino al mese di febbraio, che l’anno del 1944-45 il tempo fu più clemente. Le piogge cominciarono a febbraio, che invece generalmente cominciavano a aprile e maggio e invece quell’anno lì… e insomma la temperatura cambiò, ma fino a che siamo arrivati alla fine di febbraio, caro mio… 24 gradi sottozero. Tanto che ‘sto borghese che ci comandava ci aveva dato il permesso di poterci scaldare con una stufetta e facevamo un cambio, due sotto e due sopra.
In due anni che sono stato nel Lager Dora e a Ellrich io non ho visto né un mitragliamento, né un bombardamento, niente. Mai suonare un allarme. Sì, di giorno magari passavano degli apparecchi, ci facevano smettere perché quando passavano degli apparecchi si nascondeva il sole. Ne passavano tanti, ma non so dove andavano. Generalmente si diceva che andavano a… non mi ricordo, come mi viene in mente ve lo dico. Allora cosa facevamo noi? Ed era la mia impressione, dico “ma come mai viene nessuno qui?”. Mai un mitragliamento, mai un bombardamento. Eppure, il Lager Dora ed Ellrich erano illuminati a giorno, di notte, non è che c’era da nascondere. Si sapeva che lì si costruiva la bomba volante, la V1 nelle gallerie, ma un mitragliamento, una cosa, mai, mai successo una volta. L’unico mitragliamento che fu fatto a Nordhausen fu dopo la Pasqua del ‘45. Ma se è stata una settimana dopo Pasqua o dieci giorni non ricordo con precisione. Appena c’è stato questo mitragliamento ci fu un temporale, quindi scappiamo tutti per rientrare nei nostri lager. L’indomani mattina non si andò più a lavorare. Invece di andare a lavorare ci hanno messo su un treno dei carri bestiame. Gli italiani per stare insieme, eravamo novanta italiani tutti in un vagone, messi seduti uno con le gambe dentro l’altra, pur di stare tutti vicini. Gli altri erano tutti deportati.
E io che cosa avevo di divisa? Dato che la divisa si era rovinata, quella di aviere, m’avevano dato una divisa di tela. Era tutta marcata, dietro le spalle, secondo il mio punto di vista c’era scritto ‘Kriegfand’ [Kriegsgefangener, ndr], davanti nel petto e nelle ginocchia c’era scritto ‘Concentramento Lager Buchenwald’ [Konzentrationslager Buchenwald, ndr]: io li decifravo così, perché c’era K, B… KLB.
Ma a 24 gradi sottozero, come si faceva ad andare a lavorare in quel sistema? Allora cosa succede? Perché a delle volte… Rubai a Ellrich un pezzo di coperta a un altro disgraziato come me, gli feci un buco, me la infilai dalla testa e così poi mi chiudevo con questa divisa di tela. Alla sera quando rientravo, questa coperta mica la potevo portare nel castello dove dormivo, allora andavo nei cessi, mi levavo questa coperta, la mettevo sotto un bidone di acqua, all’ingresso, e poi l’indomani mattina me la andavo a pigliare e la mettevo di nuovo. Era più fredda allora che alla sera, bagnata, umida era, perché sotto un fusto di acqua cosa poteva nascere?
Poi questa non ve l’ho detta. Il Lager del Dora ed anche quello dell’Ellrich erano tutti elettrificati e reticolati. C’erano cavi elettrici così [spessi]. A un metro di distanza ti attirava. Se uno si avvicinava ti attirava e rimanevi appiccicato sul muro eh! Sui fili… non c’era pietà. Inoltre c’erano trecento cani messi sulla collina, che appena uno faceva qualche fesseria loro erano addosso. Invece a Ellrich i cani non c’erano, avevamo come ho detto un po’ più di libertà perché non avevamo più i tedeschi che ci comandavano, che ci accompagnavano. E rientravamo qualche mezz’oretta, qualche ora più tardi. Si rientrava e non succedeva niente. Magari l’ufficiale se la pigliava a ridere. “Eh” – dice – “siete stati con le donne”. Ma l’interessante è che gli dicevo: “Machine kaputt”, non funziona più. Lui si faceva una risata e tutto passava così. Rientravo dentro e andavo a mangiarmi quel po’ di zuppa. A gennaio finisce la zuppa… [anzi] finisce il pane! Non ce n’era più né per noi altri e nemmeno per i militari che erano lì d’intorno. Allora ci davano un litro di zuppa in più. A cosa serviva un litro di zuppa in più? Brodaglia! Quando davano le rape, era amara, puzzava, una cosa che io quel giorno io rimanevo senza mangiare. Già non mi davano niente, e io stavo senza mangiare.
Alla mattina come ho detto pigliavo il treno. Andavamo, mezz’oretta di treno, poi scendevamo per raggiungere la sponda dietro i tunnel. E da lì passavamo. C’erano delle baracche, chissà, ci stavano dei borghesi… e alla sera buttavano bucce di patate, e allora io raccoglievo alla mattina tutte queste bucce di patate perché durante la notte col nevischio erano belle bianche, ma erano sempre bucce. Raccoglievo le bucce, prendevo queste carote e me le portavo sul lavoro. Lì avevo la possibilità di bollirle e mi mangiavo quello. Un giorno di questi ho trovato un po’ di crusca e allora cos’ho fatto? Ho preso questa crusca, la impastavo assieme alle patate marce che trovavo, e così poi le mettevo in questa stufa e mangiavo. Il pericolo, la mia disgrazia, tuttora e fino adesso, non era altro che la fame.
Io fino a oggi – c’ho 78 anni – a casa mia non c’è mai una volta che non ci sia il pane. È un’ossessione, sarà un fattore psicologico ma il pane ci deve essere. Guai se non c’è il pane, a costo che c’avanza, ma ci deve essere. E questo è quello che mi sono portato dalla Germania: la fame.
Ritorniamo di nuovo a Ellrich. Quando ci hanno messo sui vagoni bestiame – allora, perché il lavoro era cessato in Germania, già si vedeva che i russi, i francesi, gli inglesi e gli americani ormai avevano circondato – ci hanno messo su questi treni. Andammo avanti e indietro, ma non si sapeva dove andare, perché di là non si poteva passare perché c’erano i russi, di là non potevamo andare perché c’erano gli americani, di là non potevamo andare perché c’erano gli inglesi… E allora un giorno di questi ci hanno fermato in una stazione – non so che stazione – a binario morto. Siamo stati un giorno. Nel frattempo, ecco, il primo mitragliamento. È passato un mitragliamento di caccia inglesi e hanno mitragliato questo treno che era fermo. Eppure, il nostro [vagone] degli italiani era chiuso, ma la maggioranza di tutti gli altri deportati erano scoperti. Li vedevano che c’era gente dentro questi carri ma si sono messi a mitragliare! Con un mitragliamento che hanno fatto, ne hanno uccisi più di trecento. Un italiano che l’avevo in mezzo alle gambe, forse lui mi ha salvato la vita: lui ha preso le pallottole, ci ha fatto saltare il braccio destro e la mano sinistra come se fosse stata schiacciata da un carrarmato, qualcosa del genere. Lui, come l’abbiamo messo a terra, ha detto: “Tagliatemi il braccio, pigliate un coltello”. C’abbiamo tagliato il braccio, però… è morto, non ce la faceva. L’indomani mattina i tedeschi volevano che andavamo a scavare la buca per seppellire… Io ho fatto tutto in mezza maniera… a scavare non ci sono andato. Comunque, tanti hanno dovuto andare per seppellire questi trecento. Da lì ci hanno portato in una fabbrica. Dicono – io non lo so – che eravamo a 40-50 chilometri distanti da Berlino, perché noi sentivamo dei bombardamenti, suonavano degli allarmi, la terra tremava dov’eravamo, sotto nei rifugi. Io che non capivo cosa significava alzarsi la notte per l’allarme, cominciai ad alzarmi 3-4 volte durante la notte, andare in un bosco per ripararci. Così dopo 2 o 3 giorni mi raparono di nuovo a zero e mi hanno di nuovo immatricolato. Mi immatricolarono e mi dettero questo numero. Da militare mi fecero diventare un politico: 138.636. Ora, io non lo so per quale motivo mi dettero questo numero. Ho pensato che loro non potevano più portare in giro… noi eravamo militari a tutti gli effetti. […]
Il giorno che m’hanno messo a fare… il giorno che abbiamo cominciato la marcia della morte, era il 20 aprile del ‘45, pensate un po’. 20, 18, 19 aprile, non più di questo. Perché si chiama marcia della morte? Perché man mano che camminavamo, chi cadeva per terra veniva ucciso. Io sono partito con 40 di febbre. Due italiani, un ex carabiniere che aveva fatto la ritirata dalla Russia e un mio paesano che non so come si chiama perché… lì non li sapevo i nomi, m’hanno trascinato per tre giorni. Il primo giorno, quando la sera piovigginava, ci siamo fermati in un fienile. Allora loro m’hanno buttato addosso due balle di fieno. Si vede che il caldo del fieno mi ha dato un po’ di respiro. L’indomani mattina sembrava che mi sentissi un po’ meglio. E invece cosa avevo? C’avevo le ghiandole dell’inguine che erano grosse come i testicoli, quindi mi impedivano di camminare per il dolore che c’avevo, tremendo. Comunque, questo lavoro l’ho fatto per tre giorni. Finendo il quarto giorno, quasi quasi avevo un po’ di fame. Ma sai che io strisciavo le punte dei piedi e questi due ragazzi mi tiravano e dietro c’avevo un ufficiale… un soldato della SS che mi puntava il fucile alla schiena, perché appena cadevo per terra lui mi ammazzava. Perché chi l’ha fatto per disgrazia, chi l’ha fatto per fare il furbo, son morti tutti. Allora cosa è successo? È successo che il quarto giorno, vedendo che non potevamo andare più in nessun modo, né a piedi né… ci hanno messo dentro un bosco. E lì, due volte al giorno ci facevano uscire per andare a pigliare un po’ di acqua, acqua verde… non acqua… insomma, per potere bere. C’erano dei miei amici – forse avevano più coraggio di me, avevano un altro stomaco – pigliavano l’erba a terra e se la mangiavano cruda. Io non ci riuscivo. Prima di partire m’avevano dato un pezzo di filone di pane e una scatoletta. Dato che non potevo camminare, per alleggerirmi, questo zainetto lo avevo dato a un altro compagno. Questo compagno aveva più fame di me, se l’è mangiato, e io il giorno che avevo fame… poi mi venne una crisi, sai, [di] nervi, comunque passò tutto. Alla sera un ragazzo, contadino – magari conosceva, io non sapevo cosa era – è andato a pigliare dell’ortica. Sono andati a pigliare dell’ortica e l’hanno bollita. Sai, io senza mangiare da tre-quattro giorni, cos’è successo? È successo che poi, durante la notte, mangiata questa ortica di sera, mi è venuto un forte mal di stomaco. Come l’ho mangiata intera, così l’ho buttata giù. Perciò in questo bosco ho mangiato questa ortica, che io non conoscevo, non sapevo nemmeno se si poteva mangiare, quindi l’indomani mattina l’ho buttata per intero.
Alla sera ci hanno portato dei pacchi: era la Croce Rossa canadese, dicevano. Io non lo so chi erano. Un pacco da cinque chili di viveri che dovevamo dividere in cinque, ogni pacco cinque persone. Molti si sono messi a mangiare e qualcuno è anche morto, perché il nostro intestino era diventato piccolo e mangiare così, a saziarsi… L’indomani mattina ci hanno messo di nuovo in cammino.

D: Questo dov’era?

R: Non lo so, caro mio, non lo so. Camminare a piedi, avanti e indietro… Qualche volta guardo la cartina geografica ma non mi rendo conto. La Croce Rossa canadese aveva dato ordine che chi non poteva camminare ci dovevano lasciare sul margine della strada. Io non potevo camminare. Poi, siccome durante la notte un insetto m’ha morso il naso – io ce l’ho bello grosso, ma era [diventato] una tromba, una cosa sproporzionata, non so che insetto sia stato – sono rimasto io e altri compagni che aspettavamo la Croce Rossa canadese. Da lì ci siamo mossi e abbiamo trovato sulla strada un fienile e ci siamo infilati dentro. Dopo due-tre giorni è venuto di nuovo un camion – che noi non avevamo capito se era venuto a prenderci, non lo so cosa era venuto [a fare] – ci hanno lasciato un altro pacchettino piccolo da due chili e se ne sono andati. Siamo stati ancora per due giorni… non so se era il primo di maggio o il 3 o il 4, ma comunque erano questi i giorni, non più di questi, è arrivata la SS di pomeriggio, e a colpi di calcio di fucile nella schiena, che sembrava che ci rompesse la schiena, ci ha fatto uscire fuori da questi fienili. Ero più nudo che vestito, avevo una coperta e me la sono messa sulla testa: sembravo un barbone. Siamo andati verso il centro del paese, che non so cos’era ‘sto paese… Arrivati lì, ci ha visto un vigile. Questo vigile ci ha portato dentro al Municipio, ci ha dato una zuppa di piselli e dopo ci ha accompagnato fuori da questo paese. Mentre eravamo nel Municipio sentivo dire ‘kilometer’… ho capito che a 8-6 chilometri c’erano i russi che arrivavano. Ci hanno portato fuori di lì. Questi uomini si sono meravigliati perché lì ci dovevano essere tanti prigionieri o deportati, invece non abbiamo trovato nessuno. Allora subito questi qui ci hanno lasciati lì e sono scappati. Dopo mezz’ora ci è saltata una polveriera, cos’era… certo che era una cosa straordinaria…
L’indomani mattina sono venuti due olandesi – noi abbiamo dormito per terra – e cominciavano a fare: “Italiens, la guerre est finie! La guerre est finie!”. “Ma insomma questo è scemo…”. Non potevo pensare… Poi dice: “Fertig, La Guerre est fertig!”. Così abbiamo cominciato un po’ a crederci. Di fronte – questo era un deposito di patate prima – c’era un treno abbandonato. Siamo andati a vedere: i tedeschi si erano spogliati, le SS si erano spogliate. Lì facevano da mangiare, non so cosa facevano, perché abbiamo trovato dei pezzi di bue, carne buttata lì, medicine… insomma, si vede che si erano spogliati e sono andati via. Io che ero più nudo che vestito ho preso un giubbotto della SS, c’ho levato tutte le mostrine e me lo son messo. Quel territorio lì era stato liberato dai russi. E allora come la mettiamo? I russi avevano l’intenzione di raccogliere tutti i prigionieri e portarli di nuovo a lavorare in Russia, o in campi di concentramento russi. Giuseppe – perché io mi chiamo Giuseppe, Pippo è affettuoso – non sapendo parlare né il russo né il tedesco ho pensato bene: questi qui ci portano a lavorare. Allora siamo andati alla stazione per andare verso gli inglesi. I figli di… non ci mandavano verso gli inglesi ma ci mandavano verso i russi!
Siamo arrivati in una stazione, abbiamo trovato un siciliano, m’ha detto: “Ma dove andate di qua? Qua i russi vi portano a lavorare nei Lager”. Toh, torna indietro col treno. Sono ritornato di nuovo indietro col treno. Durante il viaggio ho incontrato dei prigionieri, dei deportati che erano nel Lager Dora, non so se erano svedesi, olandesi, non lo so… dalla Danimarca. I più pochi di tutti erano solo gli italiani, ma poi non dico quanti francesi c’erano, non dico quanti russi, polacchi, cecoslovacchi, c’eravamo tutti, nel Lager Dora e Ellrich. Allora, questi due ragazzi ci dissero – che loro parlavano un po’ il francese, insomma, non so – dicevano: “Venite con noi altri”. Siamo andati con loro in un posto di smistamento, al confine tra i russi e gli inglesi. Lì m’hanno fatto presentare, c’ho dato il mio nome e cognome e io c’ho detto: “Sono tre giorni che non mangio, mi dia un pezzo di pane”. E i russi m’hanno dato… quest’ufficio di smistamento m’ha dato un pezzo di pane e siamo andati sopra i camion degli inglesi. Sopra il camion c’erano sigarette, c’era scatolame, c’era il ben di Dio. A noi che ci mancava tutto, là invece c’era tutto. Da lì c’hanno portato ad Amburgo. Ad Amburgo abbiamo passato un fiume, il ponte era fatto tutto di barche… Siamo arrivati ad Amburgo la sera stessa, ci hanno spogliato e ci hanno disinfettato, polvere addosso… L’indomani mattina quando ci siamo alzati suonava la tromba per andare a mangiare. C’era tanto pane bianco buttato per terra che voi altri non avete idea. Noi, che eravamo morti di fame, ci siamo messi a raccogliere tutto il pane per terra, e allora gli altri ragazzi ci hanno detto: “Ma cosa raccogliete? Qui si va a mangiare cinque volte al giorno. Gli inglesi ci chiamano ogni cinque minuti per andare a mangiare”. Comunque io me lo sono preso un po’ di pane, poi …
Da lì, dopo due-tre giorni m’hanno mandato a Sulingen. Ci hanno di nuovo smistato, ci hanno passato la visita per vedere se sotto l’ascella avevamo il gruppo del sangue della SS. Da lì mi hanno mandato in un altro paesino vicino. La sera c’erano dei paesani napoletani e siamo usciti. L’addetto alla cucina dice: “Non ti preoccupare, usciamo”. Era mezzanotte: abbiamo trovato inglesi all’incrocio, ci hanno arrestato e ci hanno portato in carcere per otto giorni. Siamo andati in un vero carcere! Dopo otto giorni ci hanno portato al tribunale […] io non capivo niente. Ci hanno mandato… noi abbiamo fermato un camion e sono ritornato di nuovo nel campo di concentramento dove ero. Con gli inglesi mi hanno messo a lavorare. Io, per la fame che avevo, con gli inglesi… Ci hanno dato la divisa da inglesi, perché non avevamo niente, eravamo più nudi che vestiti. Allora io sono andato nella cucina a lavare le gamelle, sempre per il pensiero per la fame. Così mangiavo carne grassa, mangiavo cose… e se mi si vede nella fotografia, guarda, dopo liberato sono bello gonfio che sembro un pallone.
Arrivato a Caltagirone, dopo quindici giorni, mi sono sgonfiato completamente, tanto che nessuno mi credeva. Dice: “Eh, poi dicevano di aver sofferto! E come mai stanno così?”. Invece dopo quindici giorni tutto è finito.
Per trentun anni non ho parlato più di prigionia, perché nessuno ci credeva. Anzi! Anche ora, tutt’oggi, si fanno delle risatine, specie in Sicilia, nel meridione, perché loro la guerra non l’hanno vista come è stata fatta nel nord. Dopodiché poi sono rientrato in Italia, il 28 settembre sono arrivato al mio paese, 28 settembre del ‘45.
Quando siamo partiti dalla Germania per arrivare a Caltagirone, c’ho impiegato diciotto giorni di carri bestiame. La prima tappa l’abbiamo fatta a Wietzendorf, dove c’erano prigionieri tutti gli ufficiali. Da lì siamo andati poi nel Brennero, seconda tappa. Terza tappa l’abbiamo fatta a Pescantina, poi da Pescantina fino in Sicilia.
Questa è la mia storia, e la mia disgrazia. Però ringrazio Iddio che sono ancora vivo. Non so se è stato un miracolo, o che io ero sano – veramente il mio sangue era buono – e un po’ di fortuna. Tutti i deportati che sono rientrati hanno avuto tutti un tantino di fortuna, tutti l’abbiamo avuta. Nessuno può dire che non ha avuto un po’ di fortuna.

D: Pippo, tu non sei mai stato intervistato?

R: Dunque, qui a Genova?

D: No, in genere.

R: Sono stato intervistato soltanto da Piccini, quando è stato… tre anni fa, due anni fa, l’Istituto storico della Resistenza.

D: E basta?

R: E basta. Poi ho scritto un diario, ma me lo son scritto per conto mio.

D: Hai scritto un diario?

R: Sì, un diario, l’ho scritto per conto mio, così. Ma l’ho scritto dopo cinquantun anni! […]

Fumolo Dario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Sono Fumolo Dario. Anzi, anagraficamente Dorio. Comunque, vengo chiamato Dario. Sono nato a Udine il 4 maggio 1920.
La mia storia ha bisogno di una premessa. La premessa della mia condizione di militare nell’aeronautica, nella 36ª squadriglia di osservazione aerea, dove, fin dall’inizio della guerra ho fatto servizio. Devo dire appunto che presso questa squadriglia ho conosciuto una persona che già avevo incontrato da ragazzo, Vignando Mario. Dico il nome perché è un personaggio importante che occupa parecchio spazio nella mia storia.
Quando è accaduto che c’è stato l’armistizio l’8 settembre 1943, io l’ho perso di vista il Vignando. Abbandonato il campo… l’aeroporto di Lucca, dove mi trovavo in quel periodo, con la mia fida bicicletta, con la quale veramente posso dire di aver fatto la guerra, sono partito e mi sono diretto verso casa, verso Udine, con le difficoltà che si possono comprendere. In due giorni, attraverso il passo della Porretta, sono arrivato a casa e naturalmente ho fatto in modo che la mia presenza fosse stata notata il meno possibile, data la situazione e dato il momento particolare nel quale mi trovavo. È successo poi che la costituzione della Repubblica Sociale Italiana ha fatto sì che anche a me, come ad altri ex aviatori, fosse giunt[a] una lettera dove mi si imponeva di presentarmi al comando della ZAT di Padova – Zona Aerea Territoriale di Padova – per riprendere servizio con l’aeronautica repubblichina. Questo fatto mi mise in crisi, perché in me era maturata la convinzione che la guerra che avevamo fatto non era una guerra giusta, era una guerra di aggressione, e successivamente, piano piano mi sono convinto che anche la politica che aveva portato avanti l’Italia e soprattutto il Fascismo, non era giust[a], non poteva essere una politica da approvare, specie dopo le prove che avevo sopportato e subìto in una guerra difficile e logorante.
Quindi ho deciso di non presentarmi e di darmi un pochino anche alla latitanza. Per questo molto spesso, anziché dormire a casa, trovavo ospitalità presso un contadino che abitava nei paraggi miei. E così cercavo di dare nell’occhio il meno possibile. Però ho mantenuto – visto che il Vignando era tornato pure lui a casa – ho mantenuto dei rapporti con questa persona, con questo amico. E questo fatto è stato per me di un’importanza estremamente grave. Perché lui aveva conosciuto un ex militare sbandato [che] è rimasto intrappolato in Friuli, a Udine, [che] non riusciva più a tornare al suo paese di nascita e di residenza, e quindi non so come vivesse. Certamente era qui, era a Udine, nella nostra città. È successo anche che per restituirmi un libro che il Vignando mi aveva prestato, un giorno sono capitati a casa mia ambedue, e quindi questo signore ha potuto vedere anche dove abitavo, oltre che ad aver conosciuto il mio nome in precedenza. Succede che questa persona in un bar viene arrestat[a], perché ad un confidente della SS – o comunque della polizia tedesca – che lui non credeva tale, aveva fatto vedere che lui girava armato di una pistola e che lui conosceva parecchi personaggi vicini al movimento di Resistenza. È successo con questo [fatto] che lui è stato arrestato. E con gli interrogatori che aveva subito, probabilmente anche abbastanza violenti, aveva fatto il nome di tutte le persone che aveva conosciuto, compreso il mio, facendo delle accuse anche particolarmente pesanti. Per esempio, io ero accusato di avere fatto dello spionaggio a favore dei partigiani sulla consistenza delle forze armate tedesche a Udine, in particolare di una caserma delle SS, con i loro movimenti e la loro presenza. Quindi una cosa molto, molto grave per la mia situazione. A un certo punto la SD – la polizia di sicurezza tedesca – prepara una retata e una mattina, molto presto, tutte le persone che erano state implicate da questo personaggio, implicate nella nostra vicenda, sono state arrestate.
Quella mattina io dormivo a casa mia per sfortuna, e ho sentito una macchina fermare davanti sulla strada. Affacciatomi alla finestra – eravamo in agosto, era il 3 agosto del 1944 – ho visto che in assetto di guerra, in assetto di combattimento, scendevano da due-tre macchine dei tedeschi [che] circondavano la mia casa. Al che io, che avevo preparato una specie di rifugio, sono uscito di casa velocemente, avvertendo mio padre che stavano arrivando i tedeschi, e mi sono messo in questo rifugio, che avevo creato al di là di un cortiletto, nel retro della casa. Queste persone [delle SS] erano accompagnate da due repubblichini, armati di mitra, in borghese e molto violenti. Diciamo che mentre i tedeschi entrati in casa erano passivi, questi [repubblichini] si davano da fare per chiedere dov’ero io, e chiederlo con violenza, con insistenza, insistendo con mio padre che dicesse dov’ero. Mio padre, da me istruito, aveva detto che io ero stato arruolato, che mi ero portato nella zona di Verona, che facevo servizio in un aeroporto, che peraltro lui non conosceva per ragioni di segreto di guerra.
Non potendo provare quanto diceva, questi repubblichini si fecero ancor più violenti e minacciarono di bruciare la casa se io non mi fossi fatto vivo. Al che [ad] una mia sorella – ne avevo due oltre che il padre presenti in casa – sono saltati i nervi, come si suol dire, e si è affacciata a una finestra chiamandomi e dicendo: “Qui bruciano la casa, devi uscir fuori!”. E quindi io ho dovuto abbandonare il mio rifugio, il mio nascondiglio, e naturalmente facendo del rumore, perché al di dietro della casa sapevo che… avevo anche visto passando velocemente un militare tedesco che impugnava il mitra. E naturalmente se avessi fatto le cose meno rumorosamente probabilmente avrebbe anche sparato. Ora questo, sentendo i rumori, si fa avanti e rompendo con la violenza un lucchetto a un piccolo cancello mi viene a prendere; io in pantaloni, scalzo, mani alzate, mi presento e dimostro di essere sicuramente non in condizioni di reagire. Quindi entriamo in casa. Questi due repubblichini hanno fatto man bassa di documenti, di cose, eccetera. Poi hanno portato fuori biciclette, hanno portato fuori le cose che più avevano secondo loro un valore immediato, e mi hanno fatto accomodare su una macchina della polizia tedesca assieme a mio padre e a una sorella. Quindi in tre persone abbiamo preso la via Spalato, dove tuttora ci sono le carceri a Udine.
Venni messo in una cella di isolamento, e quindi persi ogni contatto con la realtà, con la presenza dei miei, e anche senza conoscere il motivo per cui ero stato arrestato. E questo lo venni a sapere soltanto quando durante un interrogatorio da parte di un ufficiale tedesco e di un interprete italiano mi venne presentato questo personaggio che avevo conosciuto a Udine a fianco dell’amico Vignando, e capii. Venne chiesto a lui se io ero la persona di cui lui aveva parlato, e dopo il suo assenso venne subito portato via. Sicché con questo io capii che la questione del mio arresto era tutta dovuta a questo personaggio del quale conoscevo proprio niente. E così, dopo alcuni giorni, anche attraverso la regalia di una camicia fatta a un secondino, potei essere messo fuori dalla cella di sicurezza… di isolamento. Mio padre e mia sorella furono rimandati a casa e io mi trovai in una cella comune con altre quattro o cinque persone che erano lì in attesa del futuro nebuloso che a noi si sarebbe sicuramente presentato. Ed effettivamente una mattina siamo stati inquadrati e portati in stazione, dove sui soliti carri bestiame siamo stati rinchiusi e portati in Germania.

D: Ti ricordi che periodo era questo? Quando ti hanno portato alla stazione? In che mese?

R: Questo nostro trasferimento è stato eseguito il 24 agosto sempre del 1944. Dico questo perché a Buchenwald, dove eravamo diretti, sono arrivato il 28 agosto, dello stesso anno naturalmente. È stato un viaggio anche abbastanza tranquillo. Addirittura dopo la partenza hanno aperto gli sportelloni, perché i tedeschi avevano una loro tecnica per far sì che le persone che venivano deportate non perdessero mai la speranza che le cose andassero per il meglio; infatti eravamo tutti convinti di finire in qualche fabbrica, in qualche campo di lavoro, e attendere così in una situazione discretamente buona la fine della guerra che prevedevamo fosse discretamente vicina.
Invece ebbimo [avemmo, ndr] la delusione di ritrovarci in una bolgia infernale che non avremmo mai pensato potesse esistere, ed era il campo di Buchenwald. La visione di queste persone che attraversavano, passavano, intente ai loro lavori, fu orribile. Fu un’impressione orribile perché questa gente si presentava rasata di capelli, magra all’infinito, con questa casacca, con questi pantaloni zebrati, ed era una umanità che non pensavamo ci potesse essere. Lì cominciò la distruzione della nostra personalità, perché ben presto ci accorgemmo che anche noi avremmo dovuto fare la stessa fine e indossare gli stessi panni. Tant’è vero che, portati alle docce, fummo rasati la testa, i capelli rasati [e] depilati completamente, disinfettati con un ridicolo scopino immerso nella creolina, ed infine ci venne fatta la doccia e mandati nudi così come eravamo rimasti – ci avevano tolto naturalmente tutto – e quindi ci ritrovammo senza possedere alcunché alla vestizione con questo che avevamo visto: questi giacconi rigati e questi pantaloni. Ed è così che poi fummo mandati in una baracca dove ci fecero fare una breve quarantena, iniettandoci anche dei medicinali o dei sieri che potevano contrastare le malattie che nel campo erano le più diffuse: tifo petecchiale, colera ed altre malattie. Dopo questi brevi giorni… anzi, devo dire che durante questa permanenza, a un certo punto fummo chiamati: ormai avevamo soltanto un numero, il nostro nome non veniva più pronunciato.


D: Ti ricordi il tuo numero, Dario?


R: Il mio numero era il ventidue cinque quarantadue, 22542. Dovetti impararlo anche velocemente in lingua tedesca, perché vedevo che se non c’era la comprensione alla chiamata cominciavano a piovere le botte. Quindi fu giocoforza imparare questo numero velocemente. Devo dire che chiamarono il nostro numero, il mio e quello di Vignando, e poi chiedendo quale dei due conoscesse meglio il francese. Siccome lui lo conosceva meglio gli dissero di prepararsi e di andare assieme alla persona che lo aveva preso in consegna. Questo mi ha fatto sospettare, visto poi anche l’esperienza che ho avuto: dove mai una persona singola era stata chiamata? Mi fece sospettare che la lunga mano della polizia di Udine fosse intervenuta per eliminare immediatamente appena arrivato nel campo il mio amico Vignando, tanto è vero che non l’ho più visto e non è più rimpatriato, anche alla fine della guerra.
Quindi rimasi solo con alcuni, pochissimi degli amici che avevo conosciuto nella cella… dopo [essere] uscito dalla cella d’isolamento. Iniziammo i faticosi lavori, iniziammo a capire com’era che funzionava questo campo, quali lavori venivano assegnati. A me toccò purtroppo di fare dei lavori pesanti. Era recentemente stato bombardato il complesso industriale che stava accanto al campo e quindi c’erano lavori di ricostruzione in corso, e allora mi toccava fare il manovale, portare i sacchi di cemento, trasportare pesi, trasportare mattoni, trasportare cemento, eccetera. Quindi una cosa che io fra l’altro non avevo mai fatto perché il mio mestiere era un mestiere da ufficio, prima da militare, naturalmente nel ruolo di marconista, come ho detto in aviazione. Purtroppo questo sarebbe stato anche sopportabile se il cibo fosse stato sufficiente, ma la situazione era veramente tremenda perché il cibo veniva dato una volta al giorno in una quantità minima e con delle calorie alquanto basse, sicché non era possibile immediatamente eseguire i lavori alimentandoci in maniera così sconveniente. Ebbi la possibilità di sentire che un altro dei miei pochi amici aveva trovato modo di entrare in un Transport che secondo lui doveva portarlo in una piccola officina dove la vita doveva essere molto più facile. Io una mattina, rischiando anche la vita, abbandonai il gruppo, il Kommando nel quale ero inserito e andai a chiedere al suo kapo se potevo essere anch’io trasferito in quest’officina e far parte di quel trasporto. Il kapo acconsentì e mi portò all’Arbeitsstatistik, l’ufficio che teneva in conto di tutti i prigionieri lavoratori e mi fece passare al suo comando.
Questo mi fa ricordare anche quanto ho detto in precedenza, cioè che i tedeschi avevano una tecnica particolare, e anche qui la misero in pratica. Perché anziché [in una piccola officina] dopo quattro giorni di viaggio, con lunghe soste naturalmente – più lunghe le soste che i movimenti – ci ritrovammo a Dora-Mittelbau, che non era una piccola officina, ma un grandissimo campo con migliaia di prigionieri che alimentavano le vicine fabbriche delle armi segrete tedesche. [Le fabbriche] si trovavano in gallerie scavate a suo tempo dai prigionieri, con una mortalità spaventosa, e dove c’erano [in] costruzione due ordigni, le V1 e le V2, le armi segrete sulle quali puntavano i tedeschi per raggiungere una vittoria che ormai stava loro sfuggendo di mano. Devo dire che la vita nel campo era dura, era pericolosa quanto lo era a Buchenwald, con un’aggiunta in più: i tedeschi [a Dora] erano assillati dal problema del sabotaggio. Questo si aggiungeva a tutte le sofferenze che dovevamo patire sia per l’impossibilità di un letto, di un riposo accettabile, sia per il poco cibo che ci veniva somministrato. Diciamo che parecchie persone, che anche magari senza una colpa – come toccò a me, in seguito che vi potrò dire – [ma] solo per una sbadataggine o per una dimenticanza venivano sospettati di sabotaggio e quindi spesso e volentieri lungo la galleria, andando al lavoro la mattina, trovavamo… dovevamo anzi passare in mezzo alle loro gambe, di gente che era stata impiccata nelle ore precedenti. Questa è una cosa…

D: Scusa Dario, due cose. Ti ricordi quando ti hanno trasferito da Buchenwald e se, quando sei arrivato a Dora, ti hanno di nuovo immatricolato o no?

R: Facciamo una premessa. Per chiarire meglio la mia posizione devo dire che trasferitomi a Dora, ed era l’11 novembre del ‘44, non mi fu cambiato il numero di matricola, ma io rimasi sempre col ventidue cinque quarantadue [22542], che è il numero che ho sempre avuto fino alla Liberazione.
Devo dire che la vita del campo, come ho accennato prima, era durissima anche a Dora, aveva delle regole particolari. Chi si recava nelle gallerie al lavoro aveva dodici ore di lavoro continuato, salvo mezz’ora di riposo a metà giornata o a metà notte, perché il turno era una settimana di giorno [e] una settimana di notte. E quindi dovevamo portarci in queste gallerie per lavorare. Ora. i primi giorni mi toccò di dover fare un lavoro pesante quanto quello che facevo a Buchenwald, e questo mi mise nella condizione di pensare che se così fosse andata io non avrei avuto una vita molto lunga, sicuramente. Perché lì c’era un lavoro di ampliamento delle volte delle gallerie con dei compressori che pesavano moltissimo, per forare queste rocce, eccetera. Io venni in un primo tempo messo al lavoro di portare questi pezzi di roccia che cadevano, di portarli all’esterno con una specie di barella, in due persone. E naturalmente era un lavoro faticoso, ripetuto per dodici ore in un giorno. Che fra l’altro, finite le ore di lavoro non si andava direttamente al campo ma si passava da una cava di pietre dove si prendeva su… ognuno di noi doveva prendere una pietra e poi entrare al campo con la pietra per gettarla dove il fango dominava per far sì che ci fosse la possibilità di passare su un terreno meno disagevole, meno fangoso. Quindi anche questo [supplizio] si univa a quello di dodici ore di duro lavoro.
Al che, sentito sempre da questo mio amico Noro che era stato messo in un reparto di aggiustaggio – perché lui di mestiere era aggiustatore ai cantieri di Monfalcone – chiesi se era possibile fare la stessa cosa, e mi accinsi a fare un capolavoro che il capo civile che comandava il reparto volle darmi da fare per capire se ero in grado veramente di fare l’aggiustatore o meno. Siccome di famiglia sono stato sempre in mezzo ai meccanici, con banco di lavoro, le lime eccetera, a portata di mano, pur non essendo il mio mestiere avevo una certa dimestichezza, sicché superai brillantemente il capolavoro che dovevo fare e venni assunto… venni dato in consegna come schiavo a un tedesco che doveva essere il mio padrone, in sostanza. E quindi mi misi a fare questo nuovo lavoro che per la verità era meno faticoso di quelli che avevo in precedenza fatto.
Per altro, la situazione dell’alimentazione così scarsa, il fatto di lavorare una settimana di giorno e una di notte, il fatto di portare le pietre dopo dodici ore di lavoro, fecero s che a un certo punto io mi sentii veramente male. Entrai in crisi, e un giorno mi venne in bocca un flutto, una piccola quantità di sangue, e capii che lì le cose andavano male perché poteva essere soltanto sangue proveniente dai polmoni, quindi un segnale gravissimo per le mie condizioni di salute. Inoltre si accompagnava a questa situazione anche la febbre. Quindi lasciato il reparto che andava al riposo nelle baracche, presi la strada del Revier, e andai per una visita, per un controllo. E lì veramente c’erano dei medici francesi deportati come noi: trovarono che avevo bisogno di essere ricoverato perché dai raggi si notava una caverna, che era un segnale gravissimo, di una situazione che sicuramente non poteva andar bene. Sicché in questi Revier… sarebbe lungo raccontare… per altro è bene dire che, fatta la visita, denudati completamente naturalmente anche per la visita, e poi successivamente, consegnando questi vestiti in una specie di magazzino, in pieno inverno dovetti andare lungo un sentiero ghiacciato, con solo una piccolissima coperta che mi copriva la testa, andare al reparto, al Revier, all’ospedale ‘Krankenhause’ dove mi avevano assegnato. E naturalmente lì ebbi un periodo diciamo di riposo sotto il profilo lavorativo. Per altro un periodo alquanto triste e duro, sia per una situazione mia personale che si era creata, sia anche per lo spettacolo che avevo davanti ai miei occhi di altri deportati che come me finivano la loro vita lì in mezzo a questi letti, in condizioni di disagio non solo alimentare ma anche fisico, anche di situazioni… di lenzuola che non esistevano, quando c’erano erano una macchia continua… di una macchia completa di tracce lasciate da precedenti ammalati. Sicché, dopo un periodo lungo di una decina di giorni la febbre se n’era andata. So che mi davano soltanto una cosa, del calcio liquido, pensando che quella era la cosa che poteva risollevare la mia situazione. Dopo dieci giorni, visto che non avevo più febbre, mi diedero cinque giorni di lavoro leggero e mi rimandarono alla mia baracca. Devo dire che i cinque giorni di lavoro leggero si trasformarono in una brutta avventura, perché mentre il lavoro che ci veniva dato era veramente leggero – si trattava di fare dei gomitoli mettendo vicino lunghi pezzi di spago, che forse erano quelli che tenevano legate valigie eccetera di quando i prigionieri arrivavano – […ma] a un certo punto mi vennero a chiamare assieme ad altri quattro o cinque per andare in cucina a prendere dei sacchi di patate e portarle su una collina dove c’era un allevamento di maiali per le SS. E questo lavoro fu veramente una cosa terribile perché nelle nostre condizioni non riuscivamo proprio a andare avanti lungo queste scalinate che ci portavano in cima alle colline.
E quindi decisi che dovevo rinunciare a questa specie di lavoro leggero e tornare in galleria. E così feci, e fui rimandato in galleria. E per altro dopo dieci giorni di nuovo mi si alzò la febbre, ebbi delle situazioni alquanto dolorose, per febbre, per malesseri generali, e dovetti tornare al Revier per una seconda visita. Fatto un secondo ricovero, una mattina un medico francese, armato di una bombola, di un tubo di gomma e di un ago, mi fece uno pneumotorace. Il pneumotorace consisteva nell’infilare l’ago fra la pleure e la parte esterna del corpo, diciamo in zona polmonare, e immettere dell’aria a pressione per immobilizzare il polmone che era ammalato. Quindi mi ritrovai con un fiato cortissimo, una situazione enorme di disagio, non potendo naturalmente che respirare con un solo polmone, una situazione mai provata, nuova. Sono state giornate veramente tristi e dolorose. Se non che altri cinque giorni di riposo con lavoro leggero e mandato fuori di nuovo nella mia baracca. Che poi fra l’altro non era più la baracca dove ero consueto esserci, ma era una un’altra baracca, e quindi mi ritrovai senza alcun italiano vicino a me, in una marea di gente che parlava altre lingue: tedeschi, russi, jugoslavi, eccetera.

D: Scusa Dario, il campo di Dora, rispetto alle gallerie era vicino o era distante? Quando voi uscivate dalle gallerie per andare al campo, il percorso era molto distante?

R: Questa nuova situazione mi impediva anche i movimenti più brevi, le camminate più brevi, gli sforzi meno intensi, perché la situazione respiratoria era quella che era, condannata all’immobilità. E questo fece sì che anche quei giorni a riposo furono per me molto tremendi. Fra l’altro, avendo una certa libertà, ebbi modo di vedere – e correva voce di questo – che per gli ammalati che avevano necessità più gravi venivano trasportati in sanatori, dicevano loro, in luoghi dove potevano risanarsi e guarire per poi tornare nel campo. E ebbi modo di vedere alcune volte dei camion sui quali venivano caricate delle persone in condizioni veramente disastrose, facevano fatica anche a salire, eccetera. E ebbi modo successivamente di vedere dei camion dello stesso tipo, peraltro tutti coperti coi teloni, dai quali venivano scaricati dei prigionieri, dei deportati tutti morti. Un carico di morti. Avevano soltanto il numero segnato sulla coscia della gamba sinistra, con una matita copiativa. E c’erano delle squadre di prigionieri che con delle barelle avevano aperto un cancello che recintava il campo dal bosco all’esterno del campo, su, lungo le colline, e prendevano questi cadaveri sulle barelle e li trasportavano all’esterno. Capii immediatamente che potevano essere soltanto o bruciati su cataste di legna – perché c’era il crematorio [ma era] all’interno, e non aveva grandi capacità per poter nello stesso tempo bruciare parecchie persone – quindi, o erano state scavate delle fosse comuni, oppure si trattava di cataste di legna sulle quali venivano bruciati questi cadaveri. Questo mi fece pensare al pericolo che stavo correndo anch’io essendo in una situazione di questo genere. E per questo, per una seconda volta andai all’Arbeitsstatistik per pregarli di riportarmi al mio lavoro consueto, dove perlomeno conoscevo ormai l’ambiente e facevo un lavoro che non era dei più pesanti.
In questa situazione siamo arrivati ai primi di aprile del 1945, quando, dopo un violento bombardamento della città di Nordhausen, che era a pochi chilometri da noi, venne deciso il trasferimento di tutti i prigionieri del campo. Devo dire – non l’ho detto prima, ma per un chiarimento – che dal campo alle gallerie dove lavoravamo non c’era un lungo percorso, si poteva trattare di quattro-cinquecento metri, mezzo chilometro diciamo. E allora dovevamo uscire inquadrati per cinque, e guai sbagliare il passo – quando eravamo in particolare vicino all’ingresso dove la SS era sempre presente – e quindi portarci fuori, entrare in queste gallerie e percorrerle per centinaia di metri, perché le gallerie erano moltissime, molto distanti, con percorrenze molto lunghe. Questo per dire che andare al lavoro non era una grossa fatica, la fatica era il ritorno, come ho detto, quella di dover andare anche alla cava di pietra e prendere un grosso masso da portare sulle spalle.
Quando ci venne dato l’ordine di sgombero loro dissero: “Chi può andare, chi se la sente può sgomberare e chi non se la sente rimanga al campo”. Naturalmente il buon senso mi disse che io era meglio che me ne andassi perché non sapevo che fine avrebbero fatto quelli che rimanevano. E su dei carri… dei vagoni – non questa volta di bestiame e quindi chiusi, ma su dei vagoni scoperti – venimmo caricati e portati per una destinazione per il momento ignota. Il vagone scoperto era più comodo, nel senso che c’era l’aria che si poteva respirare liberamente. Peraltro pioveva, e quindi eravamo in una condizione veramente penosa. Tra l’altro lo spazio era talmente stretto… perché una larga parte se l’erano presa i kapo e noi dovevamo accontentarci di stare come sardine, in piedi. Quando poi veniva notte e dovevamo piegarci, perlomeno cercavamo di sederci, dovevamo allargare le gambe e far sedere uno in mezzo alle gambe, alla turca diciamo, per poter stare tutti. Naturalmente se c’era una necessità, che uno non sentisse più una gamba, non si sentisse male, eccetera, alzarsi [significava] perdere il posto e entravano in azione i kapo che con delle buone, vigorose bastonate, facevano crollare a terra la persona. E dove crollava doveva rimanere, i prigionieri dovevano fargli spazio per farlo rimanere in ogni caso.
Così andò avanti per quattro giorni, naturalmente facendo pochissima strada, pochissimo percorso, perché anche le ferrovie erano bombardate, [e] la situazione era tremenda in ogni senso. Una mattina ricordo che ci hanno fatto scendere da questo treno e ci hanno diviso in due gruppi, dando ordine che chi voleva e poteva camminare si fosse messo da un lato, dall’altro si fossero messi tutti coloro che per condizioni di salute non erano in grado più di camminare. Io scelsi questa soluzione, perché con la posizione in cui ero stato per ore e ore in tutte quelle notti avevo i ginocchi che si erano gonfiati e sembravano fiaschi, più che dei ginocchi. Quindi realisticamente pensai che era meglio che mi mettessi subito dalla parte di chi non poteva camminare, anche se ciò poteva comportare una fine non certo facile, e non certo positiva.
Comunque, ebbi una grande sorpresa. Prima, di vedere nell’altro gruppo che si era formato di intravedere il mio amico Noro che avevo perso di vista. E la situazione era tale che ci guardammo e non ci dicemmo nemmeno una parola, nemmeno una parola, tanto era la situazione sia psicologica che fisica per tutti noi. Quindi mentre loro, circondati dalle SS e con i cani lupo, presero una certa direzione, noi stranamente ebbimo l’ordine di rimontare su dei carri che non erano più i carri aperti di prima ma erano carri bestiame, addirittura c’era un po’ di paglia all’interno, per terra. E quindi io non feci altro che stendermi sulla paglia e addormentarmi, per il lungo periodo che non dormivo, pesantemente. Svegliandomi mi ritrovai in una stazione, fermi, probabilmente c’erano problemi di transito. E poi per altri due giorni errammo così, senza una meta, almeno senza una meta apparente, lungo queste ferrovie, sentendo a un certo punto anche il tuonare dei cannoni, quindi comprendendo che stavamo inoltrandoci in una zona dove la guerra era veramente guerra. Ebbimo anche la sorpresa di essere abbandonati dalle SS e di vedere al loro posto dei vecchi militari con dei vecchi fucili, che non erano più in grado di mantenere quell’ordine e quella disciplina che ci erano stati imposti fino a quel momento.
Tanto che, dopo una notte insonne, al mattino a qualcuno riuscì [di] aprire un vagone, un carro, e da un vagone aperto ebbero la possibilità di aprirli tutti e ci trovammo in una situazione di libertà. Addirittura, siccome sul nostro convoglio c’era un tedesco, naturalmente un tedesco politico, un triangolo rosso anche lui, che stranamente era del paese dove ci eravamo fermati, ebbimo delle notizie che nei paraggi c’era un baraccamento di militari che l’avevano abbandonato e che poteva essere un buon rifugio per noi. E così come potemmo, aiutandoci l’uno con l’altro, arrivammo a questo baraccamento dove c’erano dei lettini a castello, però con dei materassi veri, dove non ci parve proprio vero di poter adagiarci e rimanere, anche se avevamo moltissime situazioni di disagio, come ho detto, sia perché il cibo non ci era mai stato dato, sia per, in particolare, la mia condizione fisica.

D: Ecco, questo Dario, dove è avvenuto e quando è avvenuto?

R: Diciamo che questa improvvisa semilibertà – perché non potevamo ancora pensare di essere liberi – è accaduto circa… verso l’8 di aprile, l’8 di aprile naturalmente del ‘45. E questo baraccamento era non lontano da un piccolo paese rurale. Quindi noi ci trovammo lì e cominciammo – alcuni [di noi], quelli che potevano muoversi – a rovistare, a trovare che c’erano delle minestre vegetali abbandonate dai tedeschi eccetera, e potemmo almeno così avere qualche cosa, perché poi c’era una cucina funzionante sul posto. Potemmo cominciare a bere qualcosa di liquido che avesse l’apparenza di una zuppa, e questo per noi fu già un motivo di grande soddisfazione. Diciamo che nei giorni successivi la battaglia continuava nei paraggi, al punto che alcune granate – ci fu un duello di artiglieria – caddero anche sulle baracche, per fortuna vuote, di questo piccolo baraccamento. Dopodiché, dopo una pausa di alcune ore, vedemmo comparire con grande gioia un militare americano, armato di tutto punto, carico di tutte le cose di cui avevano bisogno oltre che delle armi. E allora si scatenò una tale gioia, un tale entusiasmo, che a gruppi di cinque-sei tentarono di sollevarlo, di portarlo in trionfo, e per la verità, dato lo stato di debolezza in cui si trovavano, finivano col cadere a terra loro con il soldato americano che doveva essere portato in trionfo. Io naturalmente non potevo fare nemmeno questo perché con le ginocchia che tenevo non ero in grado di sopportare sforzi, appena appena di muovermi.

D: Dario, geograficamente dove eravate? Ti ricordi il posto, la zona o la città più vicina?

R: Diciamo che questo grande piacere di trovarci qui… eravamo veramente liberi, perché gli americani ci dimostravano che eravamo liberati finalmente da questa situazione di schiavitù. Ci trovavamo in una zona, diciamo, non lontana da Dora, perché in sostanza con tutto il nostro girovagare avremmo fatto 60 o 70 km di percorso vero; ed eravamo vicini a una cittadina che si chiamava Seesen – che si chiamerà tuttora Seesen. Dobbiamo dire che per i primi giorni ci siamo arrangiati con questo piccolo magazzino, bevendo queste minestrucole di verdure, e trovando poi anche barattoli di pomodori, roba di questo genere. Poi sono intervenuti gli americani… il giorno successivo, devo dire, è arrivato un americano con una mucca, l’ha portata in mezzo alla piazza e c’ha sparato un colpo, la mucca è crollata e poi col suo gesto liberale ci ha indicato che potevamo approfittarne. E allora lì c’è stato un assalto a sezionare questa mucca, i più esperti naturalmente, e su grossi pentoloni [a] bollire. Abbiamo avuto la soddisfazione di bere del brodo, di mangiare della carne, insomma cose che non avevamo fatto da tanto tempo, che per noi era da un’eternità.

D: Dario, il ritorno a casa, come te lo ricordi?

R: Devo dire che eravamo liberi, ma il ritorno alle nostre case non era ancora pensabile. Per fortuna i polacchi del nostro convoglio avevano predisposto in questa cittadina, Seesen, ottenendo naturalmente tutto quello che serviva in una scuola sgomberata da banchi eccetera, [di] fare un ospedale, perché la maggior parte di noi aveva bisogno urgente di essere ricoverato, di essere curato. E quindi da lì, con dei carri – con dei carri a cavallo… trainati da cavalli – fummo trasportati in questa scuola, in questa piccola città di Seesen. E iniziammo veramente un periodo di ricostruzione di noi stessi, sia fisico che morale. Sicché ebbimo il piacere di avere le zuppe abbondantemente servite. Di essere curati non diciamo perché di medicine non ce n’erano; comunque la cura maggiore, la cura più importante era quella di poter alimentarci in maniera sufficiente.
Siccome in questo posto, a un certo punto, avevamo capito che non poteva essere il modo migliore per rimpatriare, abbiamo avuto sentore che a non molta distanza c’era un campo, un Lager di italiani internati l’8 settembre [1943], di militari italiani. E quindi abbiamo preso contatto con loro – dico ‘abbiamo’ perché avevo fatto amicizia con un deportato di Pesaro – e assieme ci siamo poi portati in questo campo da dove alcuni mesi dopo abbiamo avuto la possibilità di essere trasferiti a Braunschweig, una grande stazione, e partire per l’Italia.

D: Quale percorso hai fatto per rientrare in Italia?

R: Naturalmente la strada è stata lunga, il rientro è stato anche difficile per la condizione in cui si trovavano le ferrovie e tutto il territorio tedesco. Comunque, ricordo che verso i confini austriaci ci siamo fermati in un campo di raccolta dove siamo stati abbondantemente spruzzati di DDT e di tutte le altre cose che potevano far sì che tutti gli insetti che possedevamo fossero stati uccisi. E alimentati con un puzzolentissimo formaggio tedesco, che aveva veramente un odore schifoso, ma che insomma, per noi era già una cosa preziosa. Dopodiché, dopo questa sosta, siamo arrivati al Brennero e siamo arrivati poi giù a Pescantina, che era in Italia il primo posto di soccorso, così, di raccolta e di ripartizione poi per le varie destinazioni. E con dei mezzi americani, assieme ad altri che avevano come direzione Venezia, siamo stati portati fino a Mestre, e da Mestre, preso il treno, ho fatto finalmente ritorno a casa.

D: E questo era il…?

R: Era, diciamo, il mese di agosto [1945]. E come stranamente il mese di agosto ero finito nel campo di Buchenwald, stranamente il mese di agosto dell’anno successivo avevo avuto la fortuna di tornare a casa. Devo aggiungere che questa non fu la mia liberazione definitiva, perché io ero solo in parte liberato. Perché essendo arrivato ammalato, e essendo poi dovuto andare, per altri mali che mi erano sopraggiunti, all’Ospedale al Mare del Lido di Venezia, credendo di fare un breve periodo di riposo in zona marina, ebbi la sventura di fare tre anni e tre mesi di ricovero all’Ospedale al Mare. Tre anni e tre mesi. Dei quali, devo dire – per una questione di malattie ossee che m’aveva colpito la colonna vertebrale – almeno due anni li ho trascorsi immobile sul letto di un padiglione dell’Ospedale al Mare. E quindi la mia vera liberazione si può dire che comincia nel settembre… anzi, per l’esattezza, il 16 settembre del 1949.

D: Dei tuoi compagni, si è salvato nessuno?

R: Devo dire che io, come ho accennato in questo lungo, forse anche un po’ noioso racconto, non ho avuto l’opportunità, come tanti altri, di avere grosse conoscenze, di avere ampie conoscenze di altri prigionieri, conoscerne i nomi, le loro storie. Mi son trovato proprio a causa dei miei malanni in baracche dove addirittura non c’era nessun italiano, e quindi non ho avuto modo di conoscere chissà che amici e che persone… così, qualche persona, per uno scambio di frasi e di parole, spesso rese difficoltose dalla differenza di lingua. Ma, alla fine, io avevo due persone nel cuore: Vignando e Noro, Vignando Mario e Noro Sergio. Vignando Mario, come ho detto, è sparito e non è più tornato. Noro Sergio – che l’ho visto… quando si esce dal treno io mi sono portato nel gruppo di quelli che non potevano camminare, lui invece era nel gruppo di coloro che camminavano ancora – non ha fatto ritorno a casa. Anche lui evidentemente ha avuto qualche cosa, probabilmente in crisi, lungo il percorso è stato abbattuto da queste SS così crudeli. E quindi devo dire, concludendo questa storia, che in solitudine, quasi in solitudine, sono salito, e quasi in solitudine… anzi, sicuramente in solitudine, sono tornato.

Cantoni Rosa

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Cantoni Rosa, sono nata a Pasian di Prato, che sarebbe vicino a Udine, qui alla periferia di Udine, il 25 luglio del 1913.

D: Quando ti hanno arrestata Rosina?

R: Ecco, io sono stata arrestata i primi… non mi ricordo se 1 o 2 dicembre del 1944, cioè verso… alla fine dell’anno, ecco. E sono stata arrestata dai fascisti. Io stavo andando a un appuntamento con un compagno, al quale dovevo dare delle cose, come si faceva a quel tempo, insomma, lui ne aveva per me delle altre. Invece di trovarlo lui, a quell’ora lì, alle 9 e mezza del… alle 8 e mezza del mattino, attendevo, lui non veniva. E allora ho fatto… sono salita, ero in bicicletta, sono salita per andare un po’ più avanti pensando che ritardasse per qualche motivo. Escono dalle siepi di qua e di là – perché ero però alla periferia di Udine – due giovani in borghese che erano della milizia della polizia fascista, insomma, della 63ª Legione Tagliamento, mi pare, che aveva sede in via Aquileia, a Udine. Allora questi mi chiudono la strada e io devo fermarmi, e mi chiedono la carta d’identità, e quello che sembrava il capo della pattuglia me l’ha presa, l’ha letta e se l’è messa in tasca, nel taschino. Allora fra me e me ho detto “adesso ci siamo”, perché sennò me la restituiva. Ho cercato di dire qualcosa così, che ho fretta qua e là, ma insomma, [a] loro non gli importava niente. “E così deve venire con noi”. Due sono rimasti lì e due… siamo partiti a piedi, perché erano a piedi loro, io avevo la bicicletta, uno di qua uno di là, e a piedi abbiamo attraversato tutta Udine. Poi è suonato l’allarme, siamo andati sotto un ponte. E quindi mi hanno portata alla caserma della milizia dove, prima di tutto, mi hanno fatto sedere. Era vicino a me un fascista più anziano, sembrava panciuto insomma, sembrava un buon papà, che ha cercato di essere gentile con me, dicendomi che io sembro una persona per bene e che abbia fiducia in lui, che se le dico qualcosa, che rispondo alle sue domande e che eventualmente lui pensa che potrebbe mandarmi a casa. Allora io non avevo voglia di parlare tanto, tanto sapevo che… ero già preparata a queste cose, insomma, le conoscevo senza averle mai provate, ma sapevo come si comportavano, perché cercavano prima con le belle di farti… E allora ho detto: “Guardi, io sono l’ultima ruota del carro”. Perché avevo molta cosa… non potevo dire “non ho niente”. “L’ultima ruota del carro”, come si usa dire. Una che non ha niente, che non sa cosa fare, più di così… “che non ho compiti particolari, che non conosco nessuno, a parte una persona, la quale mi porta dei pacchetti che poi viene a riprenderli: una specie di deposito, ecco”. “Ma perché fa questo?”. “Perché” – e allora ho detto – “perché mi sembra, secondo il mio punto di vista, che dò una mano a chi, per dirla franca, non è fascista, e non è nazista, e non vuole insomma… vuole cambiare: io sono d’accordo con questi”. E allora così, visto che non era possibile fare niente mi hanno mandata su e poi fatto altri interrogatori, interrogatori stupidelli, così, perché proprio vuoti. Un gruppo di fascistelli lì mi ha chiesto… mi ha detto: “Voi siete comunista?”. Perché danno del voi, parlavano col voi. E ho detto: “Come faccio a essere comunista? Non ci sono neanche partiti in Italia, siete soltanto voi. Quindi io non sono niente, no? Non chiedetemi chissà che cosa perché io non so niente. Non avrei niente di utile da… per voi”. A secco, così. Insomma, poi due-tre volte ho girato un po’ di uffici là, che mi interrogavano. C’era un caporione, il quale mi ha detto: “Ma come lei è così calma? Non ha paura di quello che può capitarle, no? Sono i suoi compagni!”. Era un buffone. Un bell’uomo, stupido. “I suoi compagni che si buttano in ginocchio di fronte a me”. Ma io ho detto: “Non ho l’abitudine d’inginocchiarmi. Così e basta, no?”. E insomma, così, varie cose. Poi ho fatto un’altra trafila, ho preso un paio di ceffoni da un fascista, il quale – meridionale questo – voleva che [fossi] messa a confronto con un giovane che, a dire il vero, non lo conoscevo. Era un biondo, alto. Io ho detto: “Non lo conosco, non l’ho mai visto”. E lui, anche lui ha detto: “Non la conosco”. E così questo ha urlato: “Tutti uguali, voi banditi non vi conoscete mai?”. E allora mi è venuto a dire qualcosa e gliel’ho detta. Gli ho detto: “E voi fascisti? Cosa credete di essere?”. Pim-pum, due ceffoni. Me li son tenuti e basta. Però ero contenta di averlo detto, dico francamente. E poi, insomma, mi hanno chiuso in una stanza, vuota, dove c’era solo ritratto di Mussolini, là, in alto, che mi guardava.
Han messo dentro una povera pazza, che era con la sorella. Due sorelle di Caporetto. Erano state fermate da un fascista che conosceva… perché erano tre fratelli, i quali, secondo loro, erano partigiani – saranno stati – e volevano sapere dove erano dalle sorelle. Una non sapeva niente perché era veramente fuori di senno, e urlava, aveva la bava alla bocca, una roba tremenda. Era stata in manicomio per dieci anni, l’avevan tirata fuori per via della guerra, per tenerla a casa. E insomma… e così, ho avuto il mio da fare. Ecco, questa è stata una paura che ho presa, perché questa qui… Io sono andata vicino per cercare di calmarla, perché ho capito che era malata, e lei si è rivoltata con le mani così e mi correva dietro per prendermi per il collo. E insomma, abbiamo fatto un po’ di corsa intorno a questa stanza e per fortuna hanno buttato dentro anche la sorella che l’ha calmata. A mezzanotte circa siamo andati… ci hanno accompagnati in carcere, a Udine, il carcere di via Spalato, dove… sì, si passava dalla milizia. La milizia faceva la raccolta, prendeva la gente, e poi la passava, che andava sotto la SD. La SD era la sicurezza Deutsch., la sicurezza della Germania.

D: Scusa Rosina, la caserma della milizia dov’era?

R: In via Aquileia, in fondo. È stato bombardato… Poi son [state costruite] case nuove, negozi lì, eccetera… Era una vecchia caserma. E siamo andati di notte, insomma. C’era una bella luna, me la ricordo ancora. Mi hanno accompagnata a piedi in carcere e… [la] farei troppo lunga se racconto anche questo, ma ho fatto una bella chiacchierata con quel fascista che mi teneva per il braccio. E poi dietro di me venivano le due sorelle, quella malata e quella sana, e avevano altre due, uno di qua uno di là, poi dietro ancora c’erano tre ragazzi molto giovani, sbrindellati, vestiti presi in qualche bosco, in qualche posto, così, ed erano legati con una corda tutti e tre e due della milizia, uno di qua, uno di là e uno dietro, tre insomma. E io aprivo la strada con questo qua, il quale ha cominciato a parlarmi e a dire: “Ma” – dice – “è la prima volta che porto in prigione una persona… ho portato ancora di quelle passeggiatrici, così, ma non una persona… lei mi sembra una persona per bene ecco, come mai insomma”. “Eh” – ho detto io – “robe che succedono in questi anni belli”. E così siamo venuti nel discorso e io gli ho detto: “Guardi che lei… come fa lei a non sapere che la Germania perde dappertutto?”. Perché ormai era il ’45, quindi si andava verso… la Germania… era già stato liberato Auschwitz anche mi pare. No no, non ancora… E comunque si andava avanti, la Germania perdeva, l’Italia perdeva, il Fascismo perdeva. E allora lui: “Ma lei…”. “Guardi” – ho detto – “voi perderete la guerra, la Germania perderà la guerra quindi la perdete anche voi, perché voi siete al servizio”. Ma siccome mantenevo sempre quella calma, come adesso che parlo, questo stava ad ascoltare ed era anche un po’ impressionato. Dice: “Ma come fa lei a sapere tutte queste cose?”. “Come faccio? Niente” – ho detto – “non occorre niente, basta pensare un po’ e cercare di capire, di informarsi no”. E così siamo arrivati chiacchierando fino al carcere. Al carcere mi hanno presa in nota, come facevano per tutti. E questo qui mi guardava e non andava via, e allora poi dice: “Scusi sa, ma potrei salutarla?”. Allora io ho pensato un momento e mi allungava la mano, e allora ho pensato “Sì”. Ho detto: “Perché no? Si ricordi però di quello che abbiamo parlato oggi, si ricordi bene, ci pensi sopra”. E ci siamo lasciati così. Non so se ho fatto bene. Male no sicuro perché ho capito che non capiva niente, e che in quel momento nessuno gli aveva detto certe cose e incominciava a pensarci su, un poco. E così, finita la storia.
Sono stata in carcere. In carcere sono stata interrogata tre volte da un maresciallo. Era un austriaco, di cui ricordo il nome anche. E questo maresciallo parlava molto bene l’italiano, perfettamente. Era un professore di violino, aveva sposato una contessa friulana. Conosceva tutto il Friuli e quindi, quando l’Austria è stata incorporata con la Germania tutti gli austriaci sono diventati tedeschi sotto il nazismo, lui ha avuto… hanno approfittato del fatto che parlava bene l’italiano che conosceva tutta la zona, e era al servizio della polizia per interrogatori. Ma non interrogatori cruenti, interrogatori così, di inizio, perché quello che li faceva cruenti ho avuto la fortuna che era lontano, andato in Germania per discutere magari robe… e che sarebbe tornato fra un po’ di giorni. Ma quello era… dicono che era tremendo, eh… Comunque, altre volte mi ha interrogata. La prima ho risposto così, come ho potuto. Sì, ho risposto cercando di non dire niente, come al solito. E allora, poi mi ha richiamata. La prima volta, quando sono… mi hanno chiamato… Perché in carcere dal mattino alle 9 fino alle 5 della sera si era sempre in attesa di essere chiamati per interrogatori, si era sempre – come si dice – col cuore in mano, no? Perché si pensava di venire chiamate a interrogatori, eccetera. E allora, insomma, quel giorno lì, quella mattina lì, chiamano Cantoni Rosa, e allora vado. E tutte le compagne lì… una mi tira via… che avevo un fazzoletto rosso attorno al collo, mi tira via il fazzoletto. Un’altra mi fa il segno della croce, perché era così… un modo, così un po’… anche diremmo affettuoso. “Non parlare”. “No no, non parlo io, non so niente io”. Allora vado giù. Andando giù per le scale avevo un certo batticuore e allora mi aprono la porta e mi passa tutto. Una roba straordinaria. Sono padrona di me tanto bene. Allora entro, senza dir niente, e vedo quel signore, nella scrivania lì che mi guarda. “Buongiorno Giulia”, mi ha detto. Da notare che io avevo nome, così detta battaglia [nome di battaglia, ndr], era Giulia, ed ero stata segnalata tempo prima… una Giulia di Udine che aiutava la Resistenza, ma non avevano fatto ancora il nome vero, così quando è capitato quello là che era già in prigione e han trovato non so come… perché è morto a Dachau questo poveretto… E allora: “Buongiorno Giulia”. E io non rispondo, non sono mica Giulia. E allora lui dice: “Ho detto lei, non è Giulia lei? Il suo nome di battaglia non è Giulia?”. “No” – ho detto – “io mi chiamo Rosa Cantoni, o se vuole Rosina, perché da sempre mi hanno chiamato Rosina, in famiglia, i miei amici… e battaglie non ne ho fatte”, così. E lui era tranquillo per fortuna, anche lui, come me. Un personaggio molto dritto e che non mi ha fatto tanta impressione vederlo. Ho conosciuto dopo il figlio anche, dopo la guerra. E quindi dice… mi chiede se conosco questo, col quale dovevo trovarmi. Ho detto che “non l’ho mai visto, non so chi sia”. E allora dice: “Ma, beh…”. Insomma, mi fa altre domande. Io rispondo che non so niente, come ho detto agli altri, così. Continuavo sempre a dire quella, che non ero… non conoscevo né i capi né niente. Conoscevo solo una persona sola alla quale davo, e restituivo, prendevo pacchetti, e così ho dovuto ripetere anche che… mi pare che secondo il mio pensiero era giusto aiutare così. “Come?” – dice lui – “Aiutare i poveri soldati tedeschi, i partigiani li uccidono sparando alle spalle”. Allora mi ricordo di aver detto questo: “E i poveri soldati tedeschi cosa fanno in Italia? Se tornano a casa loro, nessuno andrà a cercarli a casa loro, no? Tornino a casa loro”. È stato zitto, non ha detto neanche […] Meno male. Avrà detto “ha ragione ‘sta qua”, forse. La seconda volta invece mi ha fatto chiamare. “Allora, non conosce questo?”. “No, non conosco”. “E allora chiamo un secondino lì… fammi venire qui tizio”. E allora tizio arriva, con la testa bassa, così, non mi guarda. E lui dice: “E questo lo conosce?”. Io ormai dovevo dir di no. Ho detto di no. Naturalmente dopo lui invece ha detto di sì. E allora lui ha detto: “Sì? E come si chiama? Che nome di battaglia ha… aveva?”. “Giulia”. Giulia, no? E allora… “E quando vi trovavate?”. Insomma, [ha confessato] tutto: due giornate settimanali che ci incontravamo per mezz’ora, così, per darci robe, eccetera. E allora dice: “E’ giusto quello che ha detto”, mi fa questo. “Se l’ha detto lui”, ho detto io. Eh, era giusto sì. Però sul nome di battaglia aveva detto un altro nome: aveva detto di chiamarsi Oscar, invece aveva… non mi ricordo più, un altro nome di battaglia. Ma insomma, non sono stata a dire “no, non eri così, ti conoscevo…”. Facciamola finita ho detto, tanto… Dopo, la terza volta invece mi han detto che sanno… sanno che so molte cose, che non le voglio dire, che me le farà dire quel tizio che era andato a Berlino. “Quando torna, quello fa parlare tutti. E come? A forza di pugni, di schiaffi e di cose peggiori” ha detto. E allora sono andata. Invece, per fortuna, intanto che quel tizio era via – non era ancora giunto – una mattina sentiamo leggere una sfilza di nomi. Eravamo in quattordici donne che sono state mandate… era venuto su un treno da Trieste, il quale aveva pochi ebrei, perché ormai eravamo verso la fine. I rastrellamenti erano fatti di ebrei, no… e tanti. Ma [c’erano anche] partigiani, sia sloveni, croati, come tanti italiani, [provenienti] dalle carceri di Udine, che erano affollatissime, specialmente nel reparto uomini, perché [c’] erano state le grandi… i grandi rastrellamenti, le grandi battaglie della fine estate e tutto l’autunno, ed era stato un macello. Anche se, pur essendo arrestati tanti, morti tanti, però la Resistenza continuava a ingrossarsi lo stesso, e a fare, ancora. E allora il carcere era pieno. Di donne non [c’] era tanto posto, ma non eravamo molte, quattordici, così. C’erano due zingare anche: erano in tre in carcere, ma una era incinta e dal carcere di Udine l’hanno mandata via. Forse se era un altro carcere dove i tedeschi erano lì, anzi, [e] doveva fare un figlio, andava a morire. Comunque, è andata così per questa, è rimasta lì. Le altre due son andate via con noi. E così tanti uomini e anzi sotto… prima di imbarcarsi sul treno insomma, [ci] siamo salutati in tanti. E mi ricordo che c’era una certa Noemi che era in carcere con me, e sapeva che il marito sarebbe stato portato in Germania. Allora mi ha detto: “Senti, se vai giù, chiedi di Bepi, di mio marito. Gli dici che lo saluto tanto e gli dai un bacio, per me”. “Sì sì” ho detto. Ho cercato questo [Bepi] e l’ho salutato. Poverino è rimasto là, a Dachau. E anche quello da cui è sorto l’arresto mio, quello non l’ho visto: probabilmente ha cercato di evitarmi, non sono neanche andata a cercarlo. E allora ho salutato quello lì, ci siamo baciati. “Coraggio” ho detto. Poverino, era un giovane così dolce, carino, si vedeva. È morto a Dachau. E di quelli lì sono morti tantissimi uomini, perché erano già alcuni debilitati per la lotta partigiana, o feriti, e poi maltrattamenti, eccetera. Erano in molti. Il treno era pronto: carri bestiame, uomini, donne. Tante donne, del Friuli Venezia-Giulia, cioè dalla provincia di Udine in gran parte, Pordenone, ma più di Udine e… di montagna e di pianura. E poi tante di queste erano… alcune di Gorizia, provincia di Gorizia, di Trieste, ma più di tutto dell’Istria. Perché l’Istria era sotto l’Italia, in quel tempo, no. Dopo la guerra del ’18 era stata [annessa] e però queste si dicevano, si intendevano [slave] ed erano partigiane di Tito. Ma ragazze in gamba! Giovani, alcune un po’ più anziane, ma altre anche giovanissime. Erano quattro sorelle, mi ricordo, quattro belle ragazze, con la madre. Una andava dai ventidue e la più piccola ne aveva quattordici, e la madre. E insomma, storie così.
E questo treno è stato… come si sa. Il viaggio in treno, in piedi, giorno e notte. E dopo [ci furono] alcuni battibecchi… no battibecchi, chiarimenti, avvenuti tra… a cui sono intervenuta, a dire il vero, io. Perché c’era una donna anziana che diceva che tutti… Lei non può vedere gli italiani perché sono tutti traditori e fascisti. Allora le ho detto che “si sbaglia, perché se noi siamo qui non siamo…”. “Eh, ma io non dico voi!”. “Vabbè, lei ha detto tutti gli italiani, e io non intendo che metta anche i miei fratelli e tutti quanti, che non sono fascisti. Mai stati. E ricordatevi…”. A me non interessava tanto lei, perché era vecchia. È morta là, poverecia. Mi interessava più le altre che capissero, perché avevano fatto piazza, si erano ritirate tutte assieme, senza toccarci, e non mi andava quella cosa lì. Allora ho detto: “Guardate, se siamo qui, noi, siamo appunto perché non siamo fasciste, e perché in Italia ci sono le carceri… dietro là nei vagoni ci sono dei vagoni pieni di giovani partigiani italiani che sono stati presi appunto perché non erano né fascisti né niente”. Insomma…

D: Scusa Rosina, quando questo è avvenuto? Quando sei partita te? Ti ricordi?

R: Ecco… sì. Il 10 gennaio [1945], perché le feste, e le robe, le abbiamo fatte tutte lì, sì, tutte in carcere. Il 10 mi pare, verso… In carcere, era dura però in carcere.

D: E siete arrivate quando?

R: Ecco, io non so. So che ci pareva fossero passati non so quanti giorni, una roba tremenda, lunga. Ma abbiamo passato alcune notti, no? Mi ricordo quando veniva sera, il fiato, l’umidità, si gelava nelle pareti del treno, perché era gennaio. Si andava nel nord, era tutto un luccichio dentro. E sempre in piedi, oppure accovacciate un po’ a turno, ma dura, è stata durissima. Di giorno però riprendevamo fiato. E a dire il vero dopo è venuto anche un simpatico… [una simpatica] amicizia fra quelle altre e noi e le altre… siamo state dopo sempre assieme, sempre molto amiche, che ho alcune che ancora conosco. E sì, siamo arrivate di giorno, dopo un lungo viaggio in treno. Una volta sola ci hanno dato da mangiare, perché avevamo qualche cosetta dal carcere, portato dentro [sul treno]. Io avevo un paio di wurstel, un po’ di pane, chi aveva divideva con le altre, no? E chi non aveva mangiava quello che gli davano. E insomma, gli uomini – il treno è stato diviso – gli uomini, di cui erano anche degli ebrei, alcune famiglie ebree, allora hanno separato gli uomini dalle donne, i bambini che sono venuti con noi a Ravensbrück, e gli uomini sono andati a Flossenbürg e poi a Dachau… e poi a Dachau. E così, non saprei se abbiamo fatto tre giorni e tre notti… lì attorno insomma, ma era un’infinità, sembrava di essere nati… nate sul treno. E cantavamo però. Per fortuna avevano le canzoni partigiane slovene, erano bellissime, mamma mia che cori! E allora si andava dietro. Cantavamo canzoni partigiane tutta la strada, per darci animo. Giova, molto! E così siamo arrivate a Ravensbrück. Siam passati Berlino. Berlino tristissima, dall’alto, si vedeva Berlino giù, no? Gente… tristezza proprio, gente pallida, rabbiosa, si vedeva chi passava sotto là. E siamo poi proseguite, e mi ricordo di aver visto la scritta ‘Sachsenhausen’, in grande, così, e lì probabilmente era il campo di Sachsenhausen e il treno passava davanti. Allora ho detto io: “Oh, guardate! […] Sarà un campo lì”. Era un gran portone… e sì, difatti era lì. Abbiamo passato Sachsenhausen e siamo andati ancora più su, fino a Ravensbrück, il quale è circa 80-90 chilometri, non so, da Berlino, verso nord-est. E quando siamo arrivati a Berlino: “Finalmente siamo a Berlino, chissà cosa ci tocca adesso, ma intanto abbiamo finito di andare in treno”. E così ci tocca come è toccato a tutti, a tutti quelli che arrivavano in un campo: spoliazione, cappelli, via vestiti, tutto… porta via tutto, orecchini… Avevo un bellissimo orologio io, era stato di un ufficiale della SS, ed era morto, e a quello che me l’ha portato ho detto: “Che bell’orologio che mi hai portato!”. Perché mi prendeva in giro: “Non hai neanche un orologio”. “Eh, son povera”. In quella volta non riuscivamo a comperarci l’orologio, neanche lavorando. “E allora ti farò avere uno io”. Questo qua era un compagno che era stato preso… bravo, medaglia d’argento, morto a Mauthausen. È stato arrestato gli ultimi tempi, ma partito dopo di me, un mese dopo. E’ partito moribondo, perché lo hanno tanto bastonato, tanto torturato: Periz, Orio [Giovan Battista, o Giobatta, Periz, nome di battaglia ‘Orio’; ndr]. E così mi ha portato questo… “Uh” – poi ho detto – “e il padrone chi era?”. “Un colonnello della SS” – ha detto – “lo abbiamo mandato a Codroipo”. Codroipo è un paese qua vicino, e così… e così è tornato a casa sua l’orologio…
E poi tutto il resto: la doccia, i vestiti, orribili… coi pidocchi, dicevano che erano disinfestati ma erano… Dopo, quando siamo entrate nelle baracche che ci avevano segnato, dalle cuciture uscivano i pidocchi secchi, uscivano secchi, come foglie secche, perché senza… andavano a cercare nutrimento, che eravamo noi. Correvano su per i vestiti, mamma mia che roba! Però m’è toccato di fare quel giorno lì un’esperienza, che sono stata tanto tempo senza ricordarla, perché succede anche una fortuna: che quando sei sbattuto in particolari situazioni, le robe che ti capitano in questo momento vanno tutte dietro, perché hai ancora da pensare “Chissà cosa mi tocca? Devo andare di là, devo andare di qua… seguiamo…”. Ma comunque, siccome eravamo circa… un centoventi saremo state – quelle slovene… quelle istriane e noi, e anche le due zingare – divise, così, a sorte, [a] metà. Una parte l’han condotta per trovare dove metterle, e l’altra avrebbero procurato per noi… Intanto in questo grande cortile c’era una tenda nera – che è stata dentro un po’ di ore anche quella compagna lì di Treviso no, la Moimas [Albina Moimas, ndr] – che sembrava un circo, come le tende del circo, grande, nera. Entriamo lì, e ci dicono: “Andate lì che presto, subito, fra poco torneremo a prendervi per portarvi al punto di destinazione”. Va bene, entriamo lì. E vediamo nella penombra di questa baracca, di questa tenda, un mucchio di donne, ma un grosso mucchio di donne, tutte così, a cono, perché man mano che… eh… e sotto probabilmente erano già tutte morte, vestite di nero. Sopra però galleggiavano alcune che si muovevano ancora un pochino, particolarmente due, una specialmente, bianche, come quella carta, con quegli occhi infossati, neri, facevano un senso. E un momento dopo arrivano due inservienti, prigionieri che facevano dei lavori per l’interno, così, e portavano un recipiente con patate lesse. Probabilmente… io non so se l’hanno fatto per farci vedere cosa succede, che sia di… o se hanno fatto [per portare] lì le patate per noi, perché noi non eravamo destinate a morire, ancora. C’erano ancora tre o quattro mesi per vivere noi, lavorando, e mangiando niente, quasi. Insomma, arrivano queste. E queste qui che erano condannate, senz’altro, a morire d’inedia, cioè messe lì, senza bere, senza mangiare, freddo tremendo – la notte specialmente, su là, sopra Berlino, in gennaio – in quelle condizioni, senza poter ribellarsi… perché non ti ribelli, come fai a ribellarti in un campo di sterminio, se non hai neanche la forza, non hai neanche le armi, non hai niente? Se ti ribelli ti succede solo peggio perché ti bastonano, ti fanno star male. Allora queste qui, queste sopra, si sono allungate, specialmente una, che era molto alta – si vedeva dalla sagoma – e ha messo la mano nell’orlo del recipiente, e le patate sono tutte corse, rotonde, correvano sul pavimento, e si sono chinate, perché non stavano in piedi, a prenderle su e a portarle subito alla bocca. Ma a vedere lo spettacolo, era una cosa spaventosa. Vedere queste, già quasi morte, non potevano muovere le mandibole perché orami erano strette, non potevano… Aprivano appena un po’ la bocca e cercavano col dito di mandar dentro, e tenevano stretta la patata perché non… ma non riuscivano a mandar dentro, a ingoiare. E quelle sotto – che erano ancora un po’… che capivano, appena appena, per istinto di conservazione, che erano sotto di loro – che cercavano di andare a portargli via il pezzettino che avevano sulla bocca. Ed era una cosa spaventosa. C’era una ragazzina, giovanissima, si è messa a piangere, ha detto: “Oddio, così succederà anche per noi”. Nessuno gli ha risposto: perché, chi lo sa? Fatto sta che queste due han gridato, [ed] è venuta la tedesca. La tedesca ha incominciato a urlare, con il bastone di gomma, a dire di tutto a queste povere disgraziate, che si son rimesse al punto di prima, in silenzio. Non ho sentito… neanche un piccolo grido abbiamo sentito. Niente, niente di niente! E si sono rimesse lì, e ci guardavano queste due sopra, con quegli occhi fondi. E così han preso su le patate e le han portate via… Noi non le avremmo mangiate, come fai a mangiare quando vedi… Magari ti allungano le mani, e se li dai da mangiare ti mettono anche te dopo lì, no. Sì, non era possibile. E così hanno portato via le patate e un po’ dopo sono venuti a prenderci. E subito tutta questa visione è andata dietro per un bel po’ di tempo, eh. Quando ho cominciato a pensare, a rivangare, con un po’ di calma, e mi è tornata su, ma… perché tutto andava dietro. E così siamo andati in questa… era una baracca di… come si dice, cosiddetta ‘quarantena’. Ma non si faceva quarantena ormai, eravamo in gennaio del ’45, una settimana almeno. Allora lì era kapò una tedesca, col triangolo verde, perché come voi sapete, eravamo… si distingueva la categoria delle prigioniere, uomini o donne che fossero stati, dal triangolo che portavano. Perciò i più numerosi erano i triangoli gialli e i triangoli rossi, poi venivano i verdi che erano delinquenti comuni, generalmente tedeschi o polacchi, uomini specialmente, testimoni di Geova, omossessuali, zingari: insomma, ognuno un colore, no. E poi c’erano anche il colore di giallo e una lista rossa, che sarebbero stati ebrei… mezzi ebrei, sì cioè, misti…

D: Scusa Rosina, ti hanno immatricolata lì a Ravensbrück?

R: Sì, sì, ci hanno immatricolate, dovevo dirlo prima quando abbiamo [parlato della] vestizione. Allora ci hanno dato, hanno messo… c’erano dei mucchietti già pronti di vestiti, cosiddetti vestiti, e con un paio di zoccoli di legno, spaiati: una che aveva i piedi piccoli aveva un numero quaranta, quella del quaranta aveva… dopo si cambiavano un po’, oppure vedevi una che girava: “Chi ha una scarpa in più, di sinistra o di destra?” – perché aveva una scarpa sola. E così ci hanno dato il numero di matricola, che era scritto stampigliato in un pezzettino di tela bianca, e sotto… dovevamo sistemarlo sotto il triangolo rosso noi, triangolo rosso e il numero di matricola. Il mio numero di matricola era 97323. Ecco, questo ero io… eravamo tutte su quella cifra lì insomma no, quelle [che] si andava assieme. E così poi ci hanno portate nella baracca e questa col triangolo verde, una sera quando hanno chiuso – siamo state una settimana lì – la baracca, la sera che chiudeva, allora diventava gentile, perché aveva sempre il bastone e urlava di far paura, aveva una voce stridula, alta ‘sta donna, sembrava tagliata come una statua abbozzata, però è stata la migliore kapò che abbiamo avuta. E allora accendeva un coso per asciugare i panni lì, o aria calda insomma, e lì c’erano già tante altre ebree, ungheresi, buona parte ungheresi, e questa qui c’ha detto: “Guardate, voi siete qui per qualche giorno, e qui mangiate una zuppa, che insomma non è cattiva”. Difatti non era cattiva. “Però” – dice – “quando andrete in baracca starete molto male, perché dormirete male, mangerete peggio, e qui invece, sì, c’è un po’ di zuppa che aveva un po’ di patate, un po’…”. E dice: “Poi, vi dico un’altra cosa, che in questa zuppa, i primi giorni che uno viene si mettono…”. Perché alcuni medici dicono che non è vero, altri dicono di sì; io ho letto su un giornale molto serio […] che parlano di questa polverina, che non mi ricordo come si chiama, che è corteccia di un albero che nasce in America del sud, il quale ha potenza sia come veleno, ma anche la medicina son tutti veleni… sì, ti guariscono secondo come li usi… Allora lei dice: “Va’ che queste fermano le mestruazioni”. I medici dicono “il corpo si difende”: sì è vero anche questo, però i primi tempi han dovuto pensare a fare qualcosa… che i primi tempi quelle donne polacche che erano prima mandate dentro – o anche le non polacche, ancora sane, no – eh, come la mettevamo? Ci sta poco a dire. Ad ogni modo, è andata così [a] noi per una decina di mesi, più o meno. Qualcuna ha dovuto curarsi, a secondo il fisico; a me non han fatto niente, andavo meglio che non ci fosse. E dopo ci han detto: “Adesso voi preparatevi, vi faccio… state sempre in gruppi, non fatevi trovare sole, perché può passare qualcuno a prendervi e sfogare tutta la rabbia che ha, o fare pazzie insomma; allora cercate di stare il più possibile insieme e non disobbedire tanto perché qua non c’è pietà, non c’è pietà. Se volete tornare a casa dovete cercare di sopravvivere”.

D: Rosina, scusa, tu quanto tempo sei rimasta lì a Ravensbrück?

R: Dunque, gennaio, febbraio, marzo… tre mesi sicuro. Perché dopo febbraio c’hanno adunate col gruppo nostro, è venuto lì un capitano della SS, piccolo, con le gambe storte, con la voce stridula. Era rabbioso, perché non rappresentava tanto bene fisicamente la razza forte: questo ho pensato io, perché mi restava di pensare, sì. E allora questo ci ha fatto un discorso, ci ha detto [che] se vogliamo andare a lavorare in una fabbrica staremo meglio, avremo… eccetera. “Allora venite fuori!”. Nessuna è andata fuori. Noi eravamo partigiane, e andiamo a lavorare volontarie in una fabbrica? Che dopo, tra l’altro, ci bombardavano anche gli americani. E insomma nessuna di noi. Quella che aveva le quattro figlie cercava di mandarle fuori ma loro si sono rifiutate, anche la madre. E allora siamo rimaste ancora lì. Più avanti ci hanno mandate fuori, perché man mano si avvicinavano i russi a Ravensbrück. E man mano perché Auschwitz in gennaio era stato liberato e i russi correvano su, andavano avanti bene. E allora hanno mandato un po’ che [di donne] a Belsen, un po’ che di qua un po’ che là. Io ho avuto la fortuna di dover mettermi a camminare. No, anzi, prima a fare un pezzo in treno, tutto il mio gruppo, più altre. Hanno tenuto le vecchie lì, che sono morte, e altre mandate a Belsen che quasi tutte morivano, malate magari, eccetera. Però son rimaste ancora molte che sono state liberate dai russi. E io con le mie abbiamo avuto destinazione Buchenwald, ma un pezzo in treno e un pezzo a piedi, sai, non era la strada dell’orso! Dormire all’aperto, pioveva, era freddo in quel periodo lì. E insomma siamo arrivate [a] Weimar e Buchenwald. A Buchenwald non siamo mai entrate perché poi c’erano anche degli uomini, non so [di] che campo, collegati con noi, dietro: gli uomini li hanno tenuti lì dentro e noi, le donne, niente. E così quella notte – la ricordo sempre quella notte – pioveva a dirotto, non so quanti giorni non si mangiava, un freddo… e quello che era peggio è il sonno. Il sonno è una cosa tremenda, quando sei lì che… ti butteresti per terra tanto volentieri, magari anche sotto la tempesta, però ti tiene su sempre quello che “non puoi! non devi”, e vai avanti. Insomma, siamo arrivate in quel posto, là, Abteroda, c’era una fabbrica vicino un bosco. Lì siamo state un po’ di tempo. Ma lavori di quelli… lavoravano per l’aviazione. Mi ricordo che veniva un vichingo, altissimo, bell’uomo, giovane, un mantellone azzurro, pieno pieno [di sè]… Uh! Credeva di essere il re del mondo. E allora “Heil Hitler” – queste donne – “Heil Hitler”, [dicevano] queste tedesche addette lì a sorvegliarci. Aspetta che ti racconto anche questa, anche se vien da ridere adesso… sì ma non è che io piangessi per questo. Lì, tutte soffrivamo di dissenteria, perché fra le varie pidocchi, scabbie eccetera c’era anche la dissenteria, e se veniva tanta si moriva. Allora eravamo stanche, magari lavorare in piedi… C’erano delle francesi – molto brave le donne francesi… sì, ci hanno aiutate, abbastanza – e c’era una matrona. [In] questa fabbrica lunga lunga, con tante macchine, in fondo, all’inizio, c’era una poltrona, seduta lì c’era una matrona tedesca, vestita di nero, di scuro, non militarizzata sarà stata, si capisce. E lì, tutto il giorno seduta lì che guardava in giro così. Per andare in gabinetto si doveva… sì, siccome c’erano i servizi, e anche con water e tutto quanto, allora quelli che han scoperto prima ci han passato la voce “sapete che si può sedersi tanto bene?”. E allora un giorno – questo lo dico per me, per dare l’idea, ma succedeva a tutte, allora qualche volta si aveva bisogno, [solo] qualche volta, per fortuna – il primo giorno io vado lì, e si doveva dire una frase che si aveva imparato lì: “Bitte Frau, viel krank”, [mentre] si teneva la pancia. “In Abort”, perché l’Abort è il cesso. Bene, vicino a lei c’era un soldatino, biondo, color canape, quello delle pannocchie, con un fucile di quelli della guerra del ’15-’18, con baionetta in canna. Allora questa matrona che era lì vede me, piccola, con la croce sulla schiena, tutta… e dico: “Bitte Frau, viel krank, in Abort”. E allora questa a questo qua che era vestito non di SS [ma] di soldato tedesco, allora mi tocca la seconda volta, così. E questo mi viene dietro, baionetta in canna, io su per le scale, per andare all’Abort. Si andava dentro e finalmente ci si sedeva. Si sedeva fino a quando lui non cominciava a batter la porta. Io esco e lui mi guarda – avevo i capelli molto scuri, quasi neri – e dice: “Franzosa?”, se sono francese. “Nein” – ho detto – “Italien”. “Ah, italianska”. Detto ciò [capisco] che quello lì non è tedesco, difatti era croato. Allora abbiamo parlato un momento. “Italianska”. “Ja, Trieste” – ho detto – “Trst”, si diceva Trieste , anche se non è vero che siamo vicino, ma abbastanza. E allora, e lui dice – aveva voglia di sfogarsi poveretto – dice: “Hrvatsko, hrvatsko”. Mi parlava in croato dopo. Mi ha fatto capire che aveva bambini, ragazzini, tanti ragazzini. Povero, è che lo hanno preso, e lui si è lasciato prendere per salvare la famiglia, sennò… E allora ha detto: “Pochi mesi”. ‘Monat’, [così] dicono i mesi, ho capito che erano pochi, non mi viene la parola [in croato]. Poi: “Fertig Krieg”, finisce la guerra. “Ja, ja, bitte”. E allora via avanti, che lui mi accompagnava dopo senza parlare, giù per le scale. Lì [ad Abteroda] siamo stati poco perché poi avanzavano gli americani, si sentiva la notte che passavano, sparavano, passavano [sopra] il tetto della fabbrica. Era una bella fabbrica, in tempo di pace, ben fatta, tutto. E così una mattina… via. E siamo partite per un viaggio senza fine, perché avrebbe dovuto essere un viaggio come quei viaggi della morte dove la gente… non sapevano più dove metterci, no. Allora abbiamo camminato un po’, senza fine non ancora, perché abbiamo camminato un po’, e poi ci hanno messe… Era in mezzo a una campagna, un piccolo campo che erano solo ebree ungheresi, saranno state, non so io, cinquecento. E lì, tutte coi vestiti loro tutti sbrindellati, chi aveva le spalle fuori, chi aveva… ce n’erano due che camminavano in ginocchio, un’altra che pregava, impazzite, donne di una certa età, però c’era qualche giovane anche. E allora lì… Penig era, un piccolo… Non si poteva scappare da lì perché non era niente. Dove vai, in campagna? Era erba dappertutto e basta. Non c’erano alberi, non c’era niente. Ed era in sotto, così. C’era un piccolo… un po’ di baracche e così siamo state alcuni giorni lì. Intanto gli americani venivano… E allora una notte, una sera verso le due di notte, ci svegliano e ci mettono… E quello era veramente il viaggio che non si sapeva dove [saremmo andate], difatti si girava di qua e di là, si andava in su in giù, da una parte dall’altra. Non ti davano da mangiare. Erano due giorni che non mangiavamo niente, solo erba, quel radicchio famoso, che si mangiava lì, come i conigli. E insomma, così, non so come abbiamo fatto. [Siamo] partite, e poi via avanti e da un campo – non so da che campo perché… un po’ la debolezza, un po’ così, [e c’erano] anche uomini, era una grande fila di donne e uomini – e abbiamo trovato… sì, combattimenti per aria, e carri armati che bruciavano per la strada, era stata battaglia lì, e un aereo inglese che si abbassava a sfiorare la… per vedere. Non ci han toccati noi, han capito che era una cosa di prigionieri, una colonna di disgraziati. Fantasmi, sembravamo fantasmi. E così abbiamo camminato un giorno, una notte, un altro giorno, un’altra notte, e poi sorgeva un altro giorno. Sai cosa significa camminare senza che ti diano niente? E loro, i tedeschi, quando ci dicevano di riposare, allora si mettevano lì, si mettevano a mangiare pannocchie. Sì, non è che si mettessero lì a mangiare bistecchine, si arrangiano, però mangiavano no! Ti veniva un desiderio di assassinio straordinario, ci sta poco da dire. E mangiavano lì di fronte a noi perché sapevano che avevamo fame e che li vedevamo: la cattiveria ancora. E una notte invece, [dopo che] io tutto il giorno rimuginavo “non vado più avanti”, in quella notte lì sono scappata con quella di Udine – insomma, siamo andate di nascosto, non ci vedeva nessuno – in una casa bombardata, e lì abbiamo trovato un’altra friulana, una belga, e due, madre e figlia ebree. E siamo state lì. Dopo abbiamo aspettato l’alba e poi siamo andate… uscite, perché la guerra non era finita… i tedeschi… Abbiamo cercato un posto e il posto era un cimitero, siamo andate in un cimitero. “E adesso?”. Il cimitero… Ma prima di arrivare al cimitero abbiamo incontrato uno vestito di SS, tutto armato, solo, che veniva contrario a noi. Avevamo quella belga che parlava tedesco, come tutti i belgi, e francese, molto bene. Era della Resistenza. Era un po’ anziana ma in gamba la donna, alta, magra, alta. Allora andiamo avanti e ci troviamo vicino. E allora questo qua: “Ma, dove andate? Chi siete, dove andate?”. “Eh” – dice lei, perché noi avevamo nominato capo questa donna, lei ci teneva – “sì, eravamo in colonna, viel krank”. Insomma, in tedesco gli ha detto ‘ci sentivamo male, siamo rimasti indietro’. “E adesso dove andate?”. “Eh, andiamo a cercare di ritrovare la colonna”. “Siete matte!”, ci fa questo SS, vestito tutto armato, tutto qua pieno di robe [Cantoni indica la presenza di un cinturone, ndr]. “Perché” – dice lei, lei gli ha detto così perché credeva fosse tedesco – “ma di dove siete?”. Allora dice: “Io sono belga”. Quella volta – mi pare di vederla ancora, stava un po’ sorgendo il giorno – si alza in tutta la sua altezza – perché era piegata nello stomaco, pancia vuota – e dice: “Sei un belga, e non ti vergogni a indossare quella sporca divisa?”. E lui [che] si è arrabbiato dice: “Ma, cosa vuoi, ero studente e mi hanno fatto…”. Ad ogni modo ci ha insegnato che lì c’era un cimitero. “Aspettate lì che arrivino gli americani”. Gli americani sono mai arrivati, poi sono arrivati i russi. Insomma, è stata tutta una storia che comunque si è conclusa bene perché sono qua a raccontarla, ecco, ma ho fatto molte esperienze anche [dopo] questa storia.

D: Ecco ascolta, una cosa Rosina, il tuo rimpatrio, quando è avvenuto?

R: È avvenuto il 27 di ottobre del ’45. Sono arrivata a Udine, sempre in vagone bestiame.

D: Passando da dove?

R: Passando per il Brennero. Sì sì, per il Brennero, perché abbiamo fatto tappa a Pescantina. Anche lì ci sono state… coi frati che non ci davano da mangiare perché eravamo partigiane. E così, tante cosucce, sai. Poi siamo andati a Mestre e finalmente siamo riusciti per venire in Friuli, io e la Casati che era di Udine. [Su] un treno merci un ferroviere ci ha detto: “Voi non avete soldi, tornate a casa e salite sul treno, questo va a Udine”. Vagone del bestiame prima, del bestiame dopo. E siamo arrivate a Udine, di sera, e ho dovuto baruffare anche col tranviere, perché era l’unico tranviere, che era fetente fascista; per andare in pensione aveva i baffi… baffone, aveva un paio di baffoni così, me lo ricordo ancora. Era l’ultima corsa dell’autobus… del treno… del tram, del tram con le ruote, e sopra c’era solo un uomo. Allora io salgo e gli dico questo, educatamente, che “non posso fare il biglietto perché non ho soldi perché vengo dalla Germania”. E lui fa: “Cosa mi importa a me se viene dalla Germania lei? Deve pagare se no sale a terra”. “Va bene, mi butti giù, e domani ci vedremo in questura” ho detto. E allora quell’altro dietro, che sbolliva, si alza su, gli dice: “Ma non si vergogna? Cosa crede di fare? Qua!”. Ha tirato fuori… costava poco, gli ha buttato i soldi così. Allora è stato zitto, e io sono scesa. Ho ringraziato quell’uomo, e son tornata a casa di notte. Mia madre era a letto, e ho fatto… Mille cose si potrebbero dire…

D: Dicevi a Pescantina, i frati? Quali frati?

R: Ma, non so, erano frati vestiti di nero mi pare. Era un posto di ristoro e non ci hanno ristorate per niente. C’erano invece tre carabinieri, giovani, son passati di lì e ci han viste sotto la pioggia lì, in quella baracca, e hanno chiesto… E allora “Venite con noi”, nella loro caserma. Poverini, tanto carini, e ci hanno fatto il vin brulè, e poi ci hanno fatto raccontare la storia, seduti sulle loro brande, così cari. E così dopo siamo andati a Mestre per vedere di trovare un treno. Treni ce n’era pochi, allora treno bestiame, andiamo a Udine, e trovo… anche quello…

D: Scusa Rosina, la Liberazione in realtà, la tua Liberazione, è avvenuta dove e quando?

R: La mia Liberazione, ecco, liberata dal campo, è stato [al] cimitero. È stato il custode del cimitero che ci ha detto che non possiamo stare lì in quella baracca che era nel cimitero, perché lui deve avvertire la polizia, e ci ha portato patate lesse. “E domani mattina andate via!”. E così, a tappe. Poi abbiamo trovato italiani, militari italiani che ci hanno aiutate, e insomma…

D: E questo cimitero dov’era?

R: Dov’era?

D: Non te lo ricordi?

R: Se sapessi andrei una volta a trovare quell’Otto che era sepolto là, coi baffoni, che era scritto ‘auf wiedersehen’. [Avevo pensato:] “Se vado via di qua stai fresco che vengo a trovarti”.

D: Non ti ricordi il posto?

R: Era… no, perché abbiamo fatto tanta strada. Certamente era Turingia, penso, perché Buchenwald è in Turingia… ma forse eravamo passati anche più…

D: E nemmeno il periodo ti ricordi, quand’era la data più o meno?

R: Guarda… la data era… dunque, la Liberazione… ecco, io, quando […]


Maris Gianfranco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Gianfranco Maris, sono nato a Milano il 24 gennaio del 1921. Se debbo affrontare nel suo sviluppo e nelle sue radici la mia esperienza concentrazionaria ritengo che sia necessario che io parta un poco da lontano. Io voglio partire da quando avevo 17 anni e frequentavo la seconda Liceo a Milano presso il Liceo Carducci. Qui conobbi un mio compagno di scuola, il quale a sua volta mi fece conoscere ad un certo momento un suo fratello. Come accade fra giovani si chiacchierava, ci si incontrava, si discuteva e il fratello cominciò a passarmi dei libri perché io leggessi e trattassi e conoscessi dei temi di cui avevamo parlato a voce.

Inizialmente ero abbastanza stupito perché questi libri portavano un timbretto, Ventotene; io non capivo bene cosa volesse dire questo Ventotene, soltanto in un momento successivo capii che erano i libri che questo fratello aveva avuto mentre era a Ventotene confinato politico, dopo essere stato carcerato politico. Questa conoscenza mi portò alla conoscenza di altri che erano tornati dal confino di Ventotene e che erano invece clandestini a Milano. Questo rapporto mi portò non dico ad una militanza operante e responsabile all’interno del Partito Comunista, ma mi portò ad una dimestichezza con il Partito Comunista o quanto meno con dei militanti clandestini del Partito Comunista. Questa vicenda per una infinità di complicate ulteriori vicende mi portò ad essere preso, io come gli altri, sotto particolarissima attenzione dai fascisti del gruppo rionale di Oberdan, di Via Cadamosto che era in Porta Venezia a Milano; io abitavo ed ero nato in corso Buenos Aires. Costoro quasi con cadenze ravvicinate o sempre più ravvicinate, ogni tanto ci convocano nel gruppo rionale per sapere cosa facevamo e le cose si concludevano con delle grandi violenze e delle grandi percosse.

Per uscire da questa situazione particolarmente difficile ad un determinato momento, ritenni, raggiunta la maturità classica, di chiedere di frequentare il corso allievo ufficiali. Così feci, e a vent’anni ero sottotenente. Sottotenente con una coincidenza particolare: ero diventato sottotenente quando il 10 giugno del 1941 l’Italia era entrata in guerra. E così senza soluzioni di continuità io partii per la Grecia prima, e poi passai alla guerra di Croazia; e fui prima in Slovenia poi in Croazia praticamente per il ‘41, ‘42, ‘43 fino all’8 settembre.

Intervento: La dichiarazione di guerra è del ’40?

In Croazia trascuriamo le vicende drammatiche e dolorosissime per chi aveva invece una cultura della libertà dell’uguaglianza e del rispetto fra i popoli.

L’8 settembre mi coglie in Croazia in una situazione che era diventata particolarissima in quei tempi, proprio nell’ultimo mese, perché in Croazia vi erano anche dei battaglioni della milizia volontaria sicurezza nazionale, fascisti. Anche loro dopo il giugno del ‘40, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, erano stati mandati al fronte ed erano in Croazia. Il 25 aprile del 1943 io operavo nella zona di Bromoravizze; fui chiamato ad Ogulin dal comando di reggimento e mi si impose di prendere sotto il mio comando una compagnia di milizia volontaria sicurezza nazionale del battaglione San Giusto che doveva essere ricondotta nell’ambito dell’esercito in quanto non potevano più avere la camicia nera, non potevano avere più i fascetti alle mostrine, dovevano avere le stellette, e anche i loro ufficiali diventavano soldati semplici. Per cui io inglobai nel reparto che comandavo anche questi cento uomini.

D: Scusa questo è avvenuto quando esattamente?

R: Questo avveniva il 25 luglio del 1943.

L’8 settembre del ‘43 questi uomini erano inquadrati nel mio reparto, ormai da un mese e quindici giorni. Quando io mi resi conto, dopo l’8 settembre, il 9, 10, 11 che ormai il comando di reggimento era scomparso, i comandi non esistevano più, che si era dissolto tutto e tutti avevano preso disperatamente la strada di casa con tutti i mezzi immaginabili possibili, io mi trovai lì solo, centinaia di chilometri lontano dai confini d’Italia, senza sapere cosa fare. Allora io presi contatti con i comandanti partigiani della zona. Perché? Perché avevo questo retroterra politico che mi sospingeva verso una presa netta di posizione a favore dei partigiani perché volevo schierarmi a fianco a loro nella lotta che io avevo ritenuto e conosciuto come una lotta sacrosanta.

Qui si inserisce il dramma per me, perché mi dicono che tutto ciò è possibile, però vogliono la consegna di quei cento uomini della milizia volontaria sicurezza nazionale che erano stati inglobati nel mio reparto; evidentemente senza che io abbia necessità di spiegare le ragioni, per me ciò non era assolutamente possibile. Quindi io fui costretto a iniziare, credo unico nella storia dell’esercito italiano dopo l’8 settembre, una ritirata militare con tutte le regole della sicurezza per poter in questa ritirata garantire sia la sicurezza degli uomini del mio reggimento, che avevo sotto il mio comando sia quelli che avevo poi cooptato, diremo così, dopo il 25 luglio del 1943. Cioè con marce molto lente, con fiancheggiamenti, avanguardia, ecc., per un centinaio di chilometri in una situazione disperata perché avevamo soltanto poche gallette, basta dire che noi ogni giorno mangiavamo mezza galletta bagnata nell’acqua, per giorni e giorni, fino a quando siamo riusciti ad arrivare prima a Fiume e successivamente a Trieste. Fra Fiume e Trieste tutti presero la strada che ritenevano più conveniente per garantire la propria sicurezza, per poter tornare a casa ecc., finalmente poi io solo riuscii a rientrare in Italia.

Premetto: qui c’è una parentesi che io devo aprire. Insieme ad un certo gruppo fui accerchiato da un reparto delle SS armato e noi eravamo tutti armati ancora, ed era ormai quasi la fine di settembre .. era il 20 settembre, avevamo impiegato molto tempo, fummo catturati, fummo chiusi in un vagone ferroviario e fummo portati a Przemyśl, in Polonia. La situazione era per me ragione di un vero furore; per cui quando alcune settimane, dopo vennero degli ufficiali tedeschi e ci dissero che era stato ricostituito l’esercito italiano in Italia e chiesero se qualcuno di noi volesse aderire, io ravvisai in questa scelta la possibilità di realizzare situazioni nuove e diverse delle quali avrei potuto operare quella scelta finalmente volontaria di lotte di collocazione nella lotta che avevo pensato di realizzare l’8 settembre, quand’ero ancora in Croazia.

Dissi che ero disponibile, ci presero, eravamo proprio uno, due, tre tanto è vero che fu angosciosa anche questa scelta di fronte a tutti quanti gli altri che ritenevano che noi fossimo addirittura dei traditori; dei traditori perché la massa, pur avendo l’angoscia della prigionia e l’angoscia della lontananza dalla famiglia, pur intravedendo attraverso quella scelta la possibilità di tornare a casa, la rifiutarono. Fui molto fermo, io dissi di sì; ebbi una piccola prudenza, presi un compagno che era un ufficiale notaio di Venezia, e gli dissi: “Guarda tu mi conosci, sai cosa potrebbe capitarmi; qualunque cosa mi possa capitare ove io morissi prima sappi che questa è la ragione della mia scelta”. Comunque fui portato, mi pare, a Ulm, poi di lì, nella fine di ottobre, primissimi di novembre su un treno e portati in Italia. Questo treno passa il Brennero, passa naturalmente Verona, arriva a Bologna di notte. A me pare che quello sia il momento giusto, scendo dal treno in un buio tremendo e mi allontano dal treno rapidissimamente; poi in una situazione – non conoscevo qual era la situazione di Bologna;  Bologna era stata bombardata -, il treno si era fermato, non è che si fosse fermato in stazione, era fuori stazione; io non capivo più niente, però vidi alcune persone che camminavano perché si vede che altri erano scesi, e pure lì c’era altra gente che camminava in una certa direzione. Io mi misi al seguito di costoro, mi confusi nel buio con le loro figure, che malamente si intravedevano e arrivano alla stazione di Bologna dove salgo su un treno che va in direzione di Milano. Nella notte fonda mi infilo in questo convoglio, ma dove mi metto io ci sono una serie di soldati ufficiali tedeschi. Mi siedo lì in silenzio, non parlo, non succede niente, e il buio, non c’è nessuna lampadina accesa nel treno per dirle in breve. All’alba arrivo a Milano. Scendo, erano le prime luci dell’alba; arrivo a casa mia, prendo degli abiti borghesi, prima che si accorgano, nessuno si accorge che io sono arrivato, esco e vado in un rifugio, che io conoscevo, di questi miei compagni comunisti in via Fatebenefratelli, proprio di fronte all’ospedale Fatebenefratelli in Milano. Questo è un grosso antefatto. E’ l’antefatto che spiega perché io poi cambiai nome e fui catturato poi con un altro nome. I compagni mi condussero a Varese, dove c’era un funzionario del comune che era molto favorevole alla Resistenza. Questo riuscì perché era un funzionario di elevato rango: mi procurò una carta di identità falsa dove io presi il nome di un mio zio, Gianfranco Lanati, mantenendo inalterati gli altri dati e dissi che ero nato in Santa Maria Capovetere e che la mia Residenza era Santa Maria Capovetere.

Prima ho fatto una certa peregrinazione perché cercano di collocarmi come comandante partigiano, perché fatalmente in quella situazione io ero un elemento prezioso per la Resistenza; in quanto non sapevo nulla della vita, non conoscevo nulla della vita perché ero passato praticamente dai banchi di scuola alla guerra, ma però della guerra sapevo tutto, perché avevo fatto tre anni al fronte, e poi conoscevo le tattiche della guerriglia, prima in Val Canobina; ma in Val Canobina non c’era ancora un tessuto connettivo che si potesse utilizzare poi nella val Brembana. Siamo nel novembre, ai primi di novembre del 1943. Quindi le organizzazioni partigiane sono in formazione faticosa, sottolineo faticosa. C’era stata l’esplosione popolare dell’8 settembre, ma esaurita quella spinta iniziale.. poi le formazioni partigiane sono frutto di organizzazione: trovare gli uomini, organizzarli, dare loro la possibilità di vestirsi, di mangiare .. era tutto molto faticoso. Vengo mandato in Val Brembana, e allora lì in Val Brembana, in una valle che parte da San Giovanni Bianco, la Val Taleggio noi organizzammo un gruppo partigiano abbastanza numeroso; non gruppi foltissimi, ma venti, trenta persone, un piccolo gruppo riuscimmo a organizzare. Questo direi che siamo riusciti a mettere in piedi nel corso di circa un mese, un mese e mezzo fra i 5, 6, 7 e 8 di novembre e il 5, 6, 7, 8 e 15  dicembre del ’43.

I mezzi erano infimi, non avevamo neanche mezzi finanziari; io ricordo che far vivere questo gruppo, avevo cinquecento lire da parte e usai anche questi miei soldi e ci sostentavamo soltanto mangiando fagioli bolliti e polenta e basta.

Le vicende di questo gruppo partigiano finiscono per quanto è a mia conoscenza, rapidamente. Perché? Perché verso il 20 di gennaio, il comando militare di Milano mi chiede di ritornare a Milano in quanto ha bisogno di un comandante in Valtellina dove il gruppo armato è molto più consistente e quindi ha maggiormente bisogno di una direzione militare. Scendo a Milano con Abele Saba, all’alba mi pare del 22, 23, 24 di gennaio.. era il giorno del mio compleanno tra l’altro. Andiamo separatamente, io seguendo lui e vedendolo da lontano, andiamo prendendo un treno dalla stazione centrale a Lecco. Quando giungiamo a Lecco io lo seguo da lontano, ma poi mi affianco a lui; nel momento in cui mi affianco a lui, proprio di fronte alla sede del Comune di Lecco, ci troviamo circondati dalle SS.

Io non avevo visto, evidentemente erano nascosti nel Comune sono usciti alle nostre spalle, ci hanno circondati, io mi sono trovato con tre, quattro, cinque mitra nella testa e così lui e ci hanno separato immediatamente. Ci hanno separato immediatamente, ci hanno fatto percorrere un po’ le vie della città come per esporre il trofeo della caccia; poi ci hanno messo in una vettura da una parte Abele Saba, hanno messo me in un’altra vettura, dopo una sosta in una caserma che non saprei come riconoscere. E qualche ora passata su un tavolaccio in quella caserma isolato, fui portato a Bergamo.

A Bergamo fui messo in una cantina di una casa delle SS; poi da quella cantina mi trasferii in un’altra cantina che era trasformata però in una serie di celle, che in una piazza, che oggi si chiama Piazza delle Libertà, alle spalle del Tribunale di Bergamo, lì c’è un grande e moderno immobile. E lì mi misero sotto la sorveglianza della Guardia Nazionale Repubblicana fascista, però di proprietà e di riserva della Gestapo. Io lì fui tenuto undici giorni e undici notti.

Quelli della Guarda Nazionale Repubblicana mi massacravano di botte per divertimento, perché non mi interrogavano, ogni tanto entrava qualcuno e mi massacrava di botte. E io ero isolato lì nella cella. Di notte avevo l’interrogatorio delle SS. Undici notti di interrogatori. Nel corso dei quali la posizione che avevo presa era la posizione più assurda di questo mondo, anche come risposta, perché io dicevo che non conoscevo la persona con la quale io ero stato arrestato, catturato, non l’avevo mai vista, non sapevo chi fosse.

Io però avevo una situazione drammatica personale, in quanto ero stato preso armato; non solo avevo le armi addosso, ma avevo anche due borse nelle quali c’erano materiale di propaganda e armi.

Quindi dire che non sapevo chi era quello, che non sapevo chi fosse dicendo che io andavo a cercare un rifugio per me, era la mia tesi: essendo io un soldato che l’8 settembre era rimasto sbandato e non sapevo come fare a vivere e sopravvivere, quelle erano le armi che io avevo anche prima e che me le portavo appresso, ma era più difficile dire perché avevo anche il materiale di propaganda della Resistenza. Comunque il primo discorso che loro mi dissero era che io sarei stato fucilato, perché il bando della Repubblica fascista della Repubblica Sociale italiana stabiliva che coloro che venivano presi armati dovevano essere immediatamente fucilati, e che quindi io sarei stato fucilato e che qualche speranza di non essere fucilato avrei potuto averla se avessi detto qualche cosa; e io continuavo ad insistere che invece non sapevo niente di niente, non conoscevo nessuno, che quelle armi le avevo, le conservavo per ricordo, cioè una posizione quasi di offensiva; però era la posizione che ritenevo giusto in quel frangente e nella situazione generale del paese e per la scelta che avevo fatto di mantenere.

Dopo undici giorni però la Gestapo, io non appartenevo alle prede dei fascisti, erano prede della Gestapo, e anche Saba era preda Gestapo; noi abbiamo saputo dopo che eravamo stati denunciati, non ci presero a caso. Ci attendevano, noi avevamo un piccolo gruppo staccato di partigiani che era stato catturato, ed erano stati fucilati; credevamo che erano stati fucilati tutti, invece uno non era stato fucilato. Saba infatti quando fu catturato a Lecco lo aveva visto, io invece non l’avevo visto e quindi non avevo capito, non avevo potuto formulare nessun collegamento.

Sta di fatto però, che i tedeschi non volevano fucilarmi immediatamente, in quanto speravano di poter avere quelle informazioni che volevano avere. Allora mi trasferirono nel carcere di Sant’Agata di Bergamo, che era nel braccio del Tribunale militare tedesco, sezione di Bergamo distaccata da Verona; e io proseguii nella mia istruttoria per novanta giorni.

In un’altra cella, ma io non lo sapevo, sottoposto al mio medesimo trattamento c’era Abele Saba.

Quindi, io ho avuto poi altri novanta giorni, sessantanove giorni, novanta, settantanove giorni di interrogatori e anche Abele Saba, li ha avuti continuando a tenere questa mia linea che non sapevo niente.

Sta di fatto che un giorno, uno di quelli che loro chiamavano i secondini, mi porta all’aria. Voglio ricordare questo, perché voglio ricordare come anche oscuri uomini che non erano nella Resistenza, la vivevano nella loro coscienza e nella loro scelta. Questo carcere, era un carcere complicatissimo perché era un vecchio convento: scale scalette, corridoietti, mentre passo per uno dei tanti corridoietti per poi scendere una scaletta e andare a prendere l’aria, apre lui stesso una porta, mi butta dentro e mi dice “Presto, presto, presto”. Io entro e trovo Abele Saba.

Cinque minuti, dieci minuti cerchiamo di mettere in piedi, lui ed io, un racconto qualsiasi: lui mi dice che ha saputo per tramiti che il reparto in Val Taleggio non c’è più, l’hanno spostato e quindi posso anche dire che sono stato in Val Taleggio, perché lì non c’è più nulla, l’hanno spostato. E invece potrei dire sempre sulla scelta mia che ero uno sbandato che cercava un collocamento per vivere, sopravvivere, nella campagna, qualcuno che mi mantenesse e mi facesse lavorare ecc. E che avendo incontrato lui, che avevo conosciuto nel passato, lui mi aveva proposto di portarmi in un posto sul lago dove lì avrei potuto, presso suoi amici, passare il tempo di lavorare e poter mangiare e sopravvivere.

Allora abbiamo imbastito questo discorso; non è che fosse molto più intelligente di quello di prima, ma comunque noi negli interrogatori successivi a questo nostro incontro, abbiamo detto queste cose lentamente l’uno e l’altro.

La cosa non cambiò molto ai fini, perché sia Saba che io fummo condannati a morte: io ero condannato a morte come Gianfranco Lanati, e lui come Abele Saba. Però sia lui che io, essendo nelle mani dei tedeschi forse per una scelta diremo di opportunità non fummo fucilati: lui fu prelevato al mattino e mandato per un altro itinerario per un campo di sterminio, un campo di annientamento; io per un itinerario un po’ più complesso fui mandato ugualmente in un campo di annientamento KZ.

Mi mandarono a Milano dove stetti sette, otto giorni, poi da Milano con un convoglio fui mandato a Fossoli.

D: A Milano dove ti hanno mandato?

R: A Milano mi hanno mandato nel carcere di San Vittore di Milano. Io sono stato pochi giorni, il tempo forse che consentisse a loro di preparare il convoglio e di mandarci … poi infatti, arrivammo a Fossoli in un gruppo abbastanza numeroso, un gruppo tutto di politici, in Fossoli io rimasi sino al 20 di luglio.

L’11 di luglio di sera si sono verificati due episodi, voglio fare un piccolo passo indietro. Nel campo di Fossoli i partigiani avevano organizzato una struttura interna segreta che aveva come finalità e sogno quella di poter liberare il campo attraverso un colpo di mano. Il comandante di questa struttura era Leopoldo Gasparotto; poi c’era una serie di giovani partigiani – ero giovane anche io allora, avevo ventire anni – che già si predisponevano per tempo nella piazza dell’appello alla sera in certe posizioni, avendo ognuno un compito particolare; il suo uomo di aggredire in un determinato momento sia delle SS sia magari qualche traditore, qualche spia che era all’interno di questo gruppo. Il momento per questa azione doveva essere quello nel quale i partigiani emiliani avessero attaccato le torrette agli angoli del campo, impegnando quindi gli uomini delle torrette in un combattimento con loro; distolte le armi delle torrette per questo attacco partigiano esterno, il gruppo interno doveva operare questa azione. Soltanto che non fu possibile fare questo perché Gasparotto, il 21 di maggio del ’44 fu preso: vennero in baracca, lo portarono fuori, aveva i calzoncini corti, fu portato fuori caricato su una vettura che si allontanò dal campo. Poco tempo dopo, noi abbiamo visto rientrare un ciclo con un cassonetto dietro, e abbiamo visto colare del sangue: era il corpo inanimato assassinato straziato di Leopoldo Gasparotto.

Il giorno 11 di luglio del ’44 vengono prelevati sulla Piazza dell’appello settantuno uomini. Dicono che dovranno partire per la Germania l’indomani mattina; in effetti la cosa è chiara, perché noi veniamo a sapere che un gruppo di ebrei era stato mandato al poligono di tiro del Cibeno e avevano scavato una fossa lunghissima. E questi uomini, per la verità non tutti e settantuno vengono poi assassinati l’indomani mattina sull’orlo di questa fossa. Uno viene salvato, viene tolto dal gruppo dei settantuno ed era Carenine: era un compagno che aveva combattuto in Spagna e il maresciallo Haage che lo toglie dal gruppo perché gli serviva in quanto era un muratore lo faceva lavorare nel campo. Altri due fuggono al mattino quando si ribella un gruppo nella fucilazione e ne restano quindi sessantotto. In effetti però uno viene si nasconde, ed è quello che ha scritto la preghiera del partigiano, Olivelli, che si nasconde in una baracca sotto le merci e non lo trovano. Quindi ne vengono fucilati sessantasette; Olivelli finirà anche lui in un campo di sterminio. Gli altri rimasti dopo questa fucilazione, del gruppo forte politico che veniva da Milano, siamo stati caricati su dei pullman…

D: Ecco scusa due cose, ti ricordi la data di quando sei arrivato a Fossoli? Più o meno..

R: Ricordo che era la vigilia di Pasqua. Potrei verificarlo perché io ho il registro del Carcere di San Vittore con il nome di quelli che partirono insieme a me per Fossoli. Doveva essere qualche giorno prima di Pasqua, qualche giorno dopo Pasqua, scusa, mi sto sbagliando; la fine di aprile del 1944.

D: L’altra domanda era questa ti ricordi se c’erano dei sacerdoti a Fossoli?

R: A Fossoli c’erano sei sacerdoti. Di cui poi parlerò anche perché ho un ricordo molto vivo e molto affettuoso di loro.

D: Il numero di Fossoli tuo te lo ricordi?

R: 315, quello me lo ricordo; sì 315.

D: E la baracca quale era?

R: Io ero nella baracca 19.

D: Nel periodo che tu sei rimasto a Fossoli, durante il giorno vi facevano lavorare?

R: No, io non lavoravo. Alcuni lavoravano. Per esempio, in Fossoli io poi trovai altri due che erano della mia brigata: Ciceri che era un ragazzo di Lecco che fu fucilato con i sessantasette e un siriano, si chiamava Giorgio Titorian; questo siriano era stato reclutato da me, perché essendo soldato nell’armata francese, e la Siria era sotto quel tempo il protettorato francese, e quindi nell’esercito francese c’erano anche i siriani. Questo siriano fu prigioniero di guerra, e come tale venne portato a Bergamo dove c’erano dei campi di concentramento per prigionieri di guerra. Dopo l’8 settembre era fuggito sulle montagne; quando io arrivai in Val Brembana, mi mise a rastrellare a mia volta tutti i prigionieri di guerra, perché cercavo di proporre a loro di entrare nella brigata che io andavo formando in quel momento.

Titorian poi venne anche lui con me nel campo di sterminio. Allora, siamo pochi giorni dopo la fucilazione, veniamo portati a Bolzano.

D: Ecco, ma dal campo di Fossoli vi hanno portato alla stazione di Carpi?

R: No, noi siamo stati portati al Po con dei pullman. Poi abbiamo attraversato il Po su dei barconi, mi fai ricordare una circostanza. Anche lì allora, noi volevamo far affondare il barcone, poi però dopo c’erano i vecchi che non sapevano nuotare, c’erano i giovani o le donne, c’era una situazione per cui noi non ci sentimmo, perché noi partigiani potevamo essere anche nuotatori esperti capaci a superare la corrente del fiume, o lasciarsi trascinare più a valle, ma gli altri sarebbero morti, e questa è una scelta che nell’immediatezza non poteva essere fatta.

Passiamo con i barconi, veniamo caricati nuovamente su altri pullman e veniamo portati a Bolzano. A Bolzano mi fermo però pochi giorni, non più di otto giorni credo.

D: Ti ricordi questo trasporto cioè da Fossoli a Bolzano quanti eravate? Poi accennavi che c’erano anche delle donne…

R: Però le donne non vennero con noi al di là del fiume Po, quindi non so che fine fecero; non erano donne neanche del campo. C’erano alcune donne che non so a che titolo fossero state caricate su questo o forse perché facevano fare anche loro, consentivano a qualcuno che doveva passare il Po di salire; sta di fatto che c’erano alcune donne su quel barcone, che è una chiatta enorme, non erano donne che poi furono deportate con noi.

D: Quanti eravate più o meno?

R: Non era un trasporto per Bolzano molto numeroso. In precedenza vi erano stati trasporti molto più numerosi, io non credo che superassimo la memoria qui non è che mi assista. Io vedo stranamente soltanto tre camion, non ne vedo di più, diciamo quattro, ma non vedo cinque, dieci camion sui quali io penso che non potevamo stare più di una quarantina di persone.

Quindi non credo che il numero potesse andare oltre le centoventi, centotrenta e centoquaranta persone, però non ho ben chiaro il numero.

D: E il viaggio è durato un giorno solo?

R: Noi siamo arrivati partendo al mattino, alla sera eravamo già a Bolzano; non ci siamo neanche fermati a Verona. A Bolzano non mi ricordo che mi abbiano dato un altro numero, ci hanno messo in cameroni che evidentemente erano di adattamento recente per questo tipo di ospitalità, in quanto erano come delle valli, come degli hangar alti, alti, alti e però separati ogni campata dall’altra da dei muri altrettanto alti, che però superavano di poco il livello dell’ultimo castello, senza peraltro arrivare a chiudere tutta questa campata fino alla cima. Per cui c’era ancora spazio, c’era comunicazione tra una campata e l’altra.

Rimasi, come ho detto, circa otto giorni, dopo di che siamo stati caricati, questa volta su un treno molto lungo in vagoni bestiame, con me c’erano nel mio vagone i preti di cui tu mi hai fatto ricordare.

D: Ti ricordi qualche nome?

R: Uno era Camillo Valota dalla Valtellina; l’altro era quello dei Paolini, che era la Cardinal Ferrari, don Paolo Liggeri. Poi vi erano altri due, di cui in questo momento però mi sfuggono i nomi. Credo che nel mio vagone c’erano anche due partigiani feriti, uno era un giovane di cui non ricordo il nome che portava un busto perché era stato ferito in combattimento e aveva avuto una ferita nella schiena, per cui portava uno di quei busti che reggono anche il collo. L’altro era Bracesco, Bracesco che aveva perso una gamba mentre trasportava delle armi, era stato intercettato da parte dei reparti armati della Repubblica Sociale Italiana.

Arrivammo qui dopo parecchio tempo con soste continue, non dico notturne, soste continue perché o vi erano ragioni di bombardamenti, o bisognava dare la precedenza ad altri treni; ogni tanto si sostava a lungo sui binari, neanche nelle stazioni e quindi sete, fame, era fine luglio. I disagi, cinquanta-sessanta persone in un vagone, devono fare i loro bisogni, perché poi l’umanità che deve compiere queste rituali quotidiane necessità sporca … insomma una situazione disastrosa anche se fra di noi la comprensione e la tolleranza era infinita … logicamente nessuno veniva disturbato per queste cose dall’altro, però creava grave disagio, fame e sete, fetori.

Arriviamo di notte a Mauthausen. Una stazioncina che sono quelle stazioncine svizzere, una baracca di legno, tutto lì, ma vediamo che si chiama Mauthausen. Per noi non diceva niente. Con noi invece c’era un avvocato di Milano, Barni, al quale gli è venuta una sincope, perché Barni era stato a Mauthausen prigioniero di guerra della prima guerra mondiale. E lui si è ricordato che Mauthausen voleva dire per lui comunque quantomeno, perché non sapevamo che cosa ci aspettava, ma voleva dire quantomeno fame, sofferenza, sete, dolore.

Voglio qui ricordare invece una situazione particolare. Quando stiamo per arrivare, il treno rallenta, siamo alla stazione; si capisce che siamo arrivati. I preti pensano che se fossero in “divisa” (uso questa parola tra virgolette evidentemente), cioè se indossassero l’abito talare questo potrebbe essere un parafulmine per loro. Allora si mettono tutti con la tonaca, indossano tutti l’abito talare. Si aprono le porte, il buio della notte, qualche luce, e poi vediamo molti uomini con i cani. Scendiamo, saltiamo giù sulla terra – forse era in terra battuta ancora allora – non mi ricordo bene, sul marciapiede di questa stazione. Come vedono costoro i quattro preti con l’abito talare, si avventano sui quattro e li massacrano di botte; li massacrano di botte. Il che comincia ad essere per noi un elemento di riflessione di giudizio su quello che sarebbe stata la nostra condizione. Ci inquadrano, dopo questo episodio, e lì iniziamo una faticosa salita; faticosa in senso generale per tutti, perché fra di noi c’erano anche molte persone anziane, non è che fossero tutti i giovani della Resistenza armata: c’erano patrioti, uomini politici, tipografi, tutti quelli che avevano partecipato alla Resistenza. La strada per il campo KZ di Mauthausen stava in salita, è ad alcuni chilometri, un quattro chilometri circa.

Nel buio della notte, tuttavia non una notte di buio totale, perché un po’ di luna c’era. Io aiutavo a salire un operaio della Breda che non riusciva a camminare e aveva un pacco, una valigia da portare, che non era in grado di portare. Io non avevo nessun pacco né nessuna valigia perché mi avevano preso con gli abiti che indossavo nel gennaio del ‘44 e avevo ancora quegli abiti; non avevo niente. E allora gli portavo il pacco e lo aiutavo a salire.

Era un uomo anche capace di ironia e di spirito. Quando siamo arrivati in vista di questo campo, che cosa ci si presenta? Noi vediamo su questa altura, che si stagliava in questa luce della luna, una sorte di castello enorme, muri poderosi con torrette con sentinelle armate in alto, poi fili spinati, due serie di fili spinati, una visione apocalittica. Questo che era con me, questo vecchio mi dice, parlando in milanese, e io lo ripeto in milanese “Ui, ti” a me “… a me che schi me pare el quartetto dell’Aida”, cioè si immaginava forse la tomba dove Radames, quella coreografia che era negli occhi di chi era appassionato di lirica. Bene arriviamo nel campo di Mauthausen, aprono le porte, siamo ancora molto lontano dall’alba; ci mettono subito a destra, tutti in fila, tutti in piedi e a terra i nostri abiti.

Ci sono alcune ore prima che venga l’alba. E noi siamo lì, qualcuno passa e ci dice che ci toglieranno tutto; io per esempio avevo con me una fotografia di mia madre e chiedo allora a Bracesco “Ci toglieranno tutto ma a te Bracesco le stampelle te le lasciano”, gli dico “Lasciami che io infili sotto l’imbottitura delle tue grucce la fotografia di mia madre, poi me la darai”. E così facciamo, infiliamo lì la fotografia di mia madre. Sta di fatto che quando viene l’alba e arrivano, Bracesco che non aveva una gamba, il giovane partigiano che aveva il bustino, questo vecchio che avevo aiutato a salire e un prete che mi pare fosse di Bologna, un uomo molto grasso, enorme, vengono prelevati, portati giù da una scaletta e noi ci rendiamo conto che non tornano più.

Non sappiamo ancora esattamente che lì c’è una camera a gas, però non tornano più. Non tornano più. Non escono. E quindi cominciamo ad avere l’ulteriore messaggio: vediamo che sono tolti quelli che non sono idonei al lavoro. E poi noi invece veniamo portati giù da un’altra parte, spogliati, ci portano via tutto, rasati, depilati, disinfettati, ispezionati inchinandoci avanti per vedere se per caso avessimo qualche cosa; non avevamo proprio più niente. Con noi c’era Aldo Ravelli. Aldo Ravelli che aveva con sé qualche centinaio di migliaia di lire, in biglietti da mille. I biglietti da mille di quel tempo erano piccole lenzuola, tovaglioli enormi, pezzi di carta. Quando si accorsero questo lui distribuì a tutti noi questo denaro dicendoci di andare al gabinetto. E ognuno di noi andò al gabinetto, per non consentire che questo denaro finisse nelle mani delle SS. Quindi depilati, spogliati, non avevamo più niente. Qualcuno aveva dato il suo orologio a qualche altro che era già prigioniero del campo, comunque ci tolsero tutto. E fummo dopo portati in una baracca cosiddetta di quarantena, che era ai limiti del campo. Erano i giorni nei quali Mauthausen era una macelleria per coloro che erano ritenuti cospiratori nell’azione condotta all’interno dell’esercito tedesco contro Hitler, per cui pervenivano ogni giorno lì numerosi tedeschi prigionieri e li fucilavano. Erano questi i giorni. Quindi all’ulteriore vicenda della condizione della deportazione ai fini del lavoro della morte del campo, si aggiungeva questa contingente vicenda della soppressione dei congiurati del colpo di Stato, nel tentativo di colpo di Stato di luglio del ‘44 contro Hitler.

Ci mandano in questa baracca, ci distribuiscono un berretto, siamo nudi, non ci sono castelli, non ci sono coperte, dormiamo uno a fianco all’altro così fitti che se uno si gira su un altro fianco nella notte si deve girare tutta la fila, tutto un effetto domino da una parte e dall’altra. Non abbiamo spazzolino da denti, non abbiamo cucchiaio, abbiamo però un cappello e siamo nudi. Ci cominciano a dare una zuppa. Una gamella è riempita di zuppa per due persone. Premetto che, a questo punto, non eravamo più soltanto italiani: siamo italiani, jugoslavi, croati, serbi, cecoslovacchi, russi, di tutta Europa in senso allargato, un’Europa allargata. Quindi difficoltà di lingua tra di noi enormi, non abbiamo un cucchiaio e siamo in due a prendere la zuppa e la dobbiamo prendere, ma ci intendiamo fra di noi. La prendiamo a sorsi, però come mangia un maiale, a sorsi: un sorso io, un sorso te, un sorso io, un sorso te. Però abbiamo il berretto. Insisto su questo berretto, perché la storia della zuppa va avanti per tutti i giorni che rimaniamo lì, ma parallelamente si sviluppa una sorta di educazione ad ordine chiuso diremmo con un linguaggio, mutuando il linguaggio militare, perché veniamo inquadrati alla mattina e al pomeriggio fuori dalla baracca, noi nudi in file con il nostro berretto. E per ore il comando è questo: Mützen ab Mützen auf, Mützen ab Mützen auf … su il berretto, giù il berretto, su il berretto, giù il berretto. A questo punto è un ulteriore messaggio che almeno i più avvertiti di noi ricevono, registrano e su quello riflettono, perché? Quali automatismi vogliono indurre in noi? Solamente un automatismo di rispetto verso il superiore quando passa per cui tu automaticamente togli il berretto e non tieni il berretto in testa. E’ un po’ poco, con i loro sistemi basta che la prima volta che non togli il berretto ti danno quattro sberle, o quattro legnate, e tu hai subito capito, poi da quel momento in poi togli il berretto quando passa un superiore.

Ci sono degli automatismi diversi, un automatismo che abbiamo avuto dopo, non conosciamo le teorie di Pavlov e del cane che viene sottoposto a dei processi che determinano degli automatismi. Però ci rendiamo conto che vogliono determinare in noi un annientamento della volontà, dell’intelligenza, della vigilanza, dello spirito. Dopo giorni di questo, siamo nuovamente smistati in altri blocchi di quarantena perché la quarantena dura ancora altri giorni; mi pare che duri una quindicina di giorni nel suo complesso. Fra questa quarantena in questo posto dove siamo nudi col berretto, all’altra quarantena dove invece siamo con gli abiti che ci vengono distribuiti, degli zoccoli aperti, un paio di pantaloni. A me è capitato un paio di pantaloni forse dell’armata polacca o non so di quale altra armata, poi una giubba, io ebbi una giubba verde con tanti bottoni che non so da quale esercito provenisse, e poi una camicia. Altri ebbero quelle cose a righe che conosciamo, ormai l’iconografia è nota. Però vestiti nella maniera più svariata.

Allora passano e assimilano il lavoro. Data la mia specializzazione mi mandano a lavorare in cava di pietra, mentre gli operai vengono mandati in fabbrica, la Steyr. Naturalmente a questo punto ci hanno dato il numero che viene messo sul petto e sui pantaloni, con il triangolo rosso con su scritto “it” per noi e il numero. Il mio lo ricordo ancora oggi, era 82.394 e la prima cosa che capii immediatamente dopo le altre, sulle quali prima mi sono soffermato, è che questo numero io dovevo capirlo in tedesco, perché se non lo capivo in tedesco ogni volta che facevano l’appello prendevo delle gran botte. Allora diventava sì un riflesso automatico, io ricordo il mio numero questo lo conoscevo e poi quando io sentivo questo suono io dicevo “Ich” sono qua. E così facevano gli altri, perché anche coloro che erano addirittura analfabeti il linguaggio del campo lo hanno subito appreso.

E poi si è appreso quel linguaggio del campo che ha consentito … io ricordo sempre che ventuno nazionalità con ventuno lingue diverse si sono parlate, si sono conosciute, si sono comprese, si sono stimate, si sono rispettate, si sono aiutate.

Vengo mandato in cava di pietra e a questo punto forse io posso rapidamente procedere fino alla liberazione.

In cava di pietra rimango il resto del mese di agosto, settembre, ottobre, novembre e dicembre. Poi vado a gennaio a lavorare nel Transportkolonne. Preciso meglio, quelli che trasportano da un’ala all’altra delle fabbriche, la Steyr, portano le casse, fanno il trasporto esterno.

D: Quando parli della cava, tu intendi la cava quella sotto Mauthausen?

R: No, no. Io ho sorvolato un passaggio, perdonami, io nella cava sotto ci sto pochi giorni e lavoro pochi giorni, perché vengo passato poi a Gusen 1; poi il resto della mia deportazione lo passo a Gusen I, alla cava. Alla cava sotto Mauthausen passo i pochi giorni di agosto dopo la quarantena. Dopo di che finita la quarantena io passo alla cava di Gusen 1.

D: Come lavoravate lì alla cava di Gusen 1?

R: Alla cava di Gusen 1 c’erano dei detenuti che operavano, mettevano mine per far saltare la parete. Le mine, i buchi per le mine per creare i fornelli venivano fatti con il martello pneumatico, facevano dei buchi, infilavano della gelatina, della dinamite, sistemandola secondo anche le indicazioni del Meister del lavoro, il Meister civile, e poi si faceva saltare, crollava. Noi nella cava, tranne quei pochi che erano addetti a questo lavoro del creare fornelli e mettere le mine, trasportavamo soltanto il materiale. Allora lo trasportavamo o a spalle individualmente, oppure avendo quella che gli spagnoli chiamavano una barriquella, una barella, delle assi con due bastoni, uno davanti e uno di dietro e si mettevano o più pezzi, oppure grossi massi, ma fino a 30-40 chili si portavano così.

D: E dove portavate queste pietre?

R: Le portavamo all’estremo limite della cava. Vi erano una serie di impianti, di frantoi che frantumavano questi massi in varie grandezze, addirittura fino alla sabbia. L’ultimo frantoio era sabbia. Oppure venivano trasportati perché lì passava la ferrovia. Allora noi li dovevamo portare da dove crollavano a terra, all’interno dell’anfiteatro della cava e li portavamo ai frantoi o al caricamento per i treni.

D: L’esplosione era in uso anche nella cava di Mauthausen?

R: Sì, sicuramente; perché se no come fai? Deve crollare perché se no quelli, non è che c’erano per terra i sassetti quelli che li portavano su dalla scala della morte…

D: Quindi non è che lavoravano in verticale a taglio?

R: No, ho capito quello che dici. Io so come è quello, non so se tu vai a Siracusa trovi le latomie, perché vengono fatte secondo un vecchio sistema, come si fa a Carrara, cioè tu hai dei motori che trascinano e tirano un filo di acciaio che strisciando continuamente secondo una certa collocazione dei due motori su una parete tagliano proprio delle lastre come tagliare il burro con un filo con due prese estreme di questo filo. Qui era per crollo, non c’era taglio; è possibile che questo taglio ci sia stato in tempi più antichi, perché effettivamente quelle cave sono di origine antichissima. Io credo che Vienna viva e sia stata costruita solo perché c’erano quelle cave che, attraverso un trasporto a basso costo rappresentato dal Danubio, poteva utilizzare come Milano ha utilizzato i marmi di Candoglia attraverso il Ticino, attraverso il lago. Così Vienna utilizzava per lastricare la città o costruire queste cave. Però forse allora tagliavano, quando sono stato io facevano buchi e saltavano le rocce. Oppure anche con il picco e pala poi dopo rompevano.

D: Lì a Gusen ti ricordi il tuo blocco e la tua baracca? Quali erano a Gusen?

R: Io ne ho attraversate tre secondo il lavoro che ho fatto. Sono stato alla 31, alla 26, mi pare anche alla 14, e poi da fine gennaio alla liberazione sono stato al blocco B, che era invece fra i blocchi più prossimi all’ingresso del campo.

Siamo al lavoro della cava. Ad un certo punto vengo prima addetto al trasporto dei sacchetti di cemento verso la fine di dicembre che pesavano cinquanta chili ognuno, ma io ero ancora in forza, quindi ce la facevo abbastanza. Trasportavamo i sacchetti di cemento, da dove arrivava la ferrovia si dovevano trasportare, credo fino a dove poi successivamente io lavorai anche per scavare le gallerie. Ho lavorato però pochi giorni in questo trasporto di cemento, dopo di che sono stato addetto al trasporto all’interno delle baracche. Poco tempo perché poi sono stato addetto a scavare le gallerie.

Dopo che abbiamo finito di scavare una galleria abbiamo immesso, scaricando dalla ferrovia e trascinando, le macchine che arrivano dall’Italia perché erano state predate e rapinate in Italia. Alcune anche macchine ancora nuove, non utilizzate, neanche macchine vecchie di impianti disattivati in Italia.

Le abbiamo immesse in queste gallerie. Alla fine di questo lavoro, dopo che avevo lavorato come scavatore e come muratore nella galleria, dopo che avevo immesso nella galleria queste cose, fui trasformato in operaio all’interno di questa galleria.

D: Come è che vi cambiavano lavoro? Venivate chiamati? C’era una selezione?

R: Ignoro totalmente. Cosa determinasse questa scelta credo che fosse determinata dalle necessità loro di lavoro, ma erano ignorate dalla gran parte di noi. Anche se io ebbi una possibilità di maggior conoscenza delle vicende del campo, perché quando arrivai ero ben noto ad alcuni che erano venuti con me. Per esempio c’era un senatore, uno che poi fu senatore del partito comunista di Siena, Vittorio, poi dirò il nome fra poco, che era stato comandante militare a Milano, Vittorio Bardini di Siena; quindi io avevo conosciuto lui a Milano come comandante di Milano, con lui avevo avuto contatti quando ero in Val Brembana per l’organizzazione della Val Brembana, lui aveva combattuto in Spagna. Quando arrivò a Mauthausen lui immediatamente fu recepito nell’organizzazione clandestina del campo politica, perché era conosciuto dagli spagnoli che erano lì nel campo perché era stato in combattimento in Spagna.

Lui mi segnalò naturalmente e allora entrai in un ruolo vorrei dire di giovane partigiano politicamente affidabile che poteva essere introdotto per le cose che minimamente si potevano fare. Anche minimamente nei confronti dei compagni, rimproverarli se cedevano la loro zuppa per avere una sigaretta, rimproverarli se non si comportavano con dignità, se diventano servili. Ricordare a loro quale era il loro dovere di comportamento perché erano dei prigionieri trattati in maniera disumana da chi aveva occupato il nostro paese e contro i quali noi avevamo combattuto. Insomma era più un ruolo etico-organizzativo che non un ruolo veramente ai più alti gradi, proprio perché dove c’era Bardini, dove c’era Francesco Albertini, dove c’erano altri, allora lì invece magari c’erano possibilità maggiori di avere informazioni e di operare nell’ambito della clandestinità del campo.

Allora le condizioni di vita del campo le avranno descritte già tanti, credo sia inutile che le descriva io.

Il cibo. Penso che è inesistente, arriviamo all’inizio, quando arrivo prendono una pagnotta, ogni giorno una pagnotta e viene divisa in sei. Poi dopo un poco viene divisa in otto e via via in una progressione che porta nell’ultimo mese a dividere la pagnotta in ventiquattro. Una pagnotta di un chilo diviso in ventiquattro fette per il lungo e poi … Alla mattina una gabellina di un liquido nero che credo sia, dicevano che fossero zucche abbrustolite, quindi poi bollite per trovare questo estratto dolciastro nero, una specie di surrogato, uno dei tanti surrogati fantasiosi di caffè con una gabellina. Poi a mezzogiorno questo litro di zuppa che era fatta di una brodaglia i cui elementi erano soprattutto costituiti, pochi perché era molto brodaglia, erano barbabietole da foraggio, quelle lunghe bianche. E alla sera invece con la fetta di pane ci davano una fettina di margarina, un dado di margarina, un dado di un insaccato strano, ma insomma vuol dire trenta grammi di roba, 25-30 grammi di roba, poca roba. Questa era l’alimentazione.

Una alimentazione che credo gli stessi padroni di fabbriche delle industrie tedesche si rendevano conto che era insufficiente. Questo io l’ho capito dopo perché veniva distribuita ogni sera a coloro che lavoravano nelle fabbriche, una zuppa che era gialla, ci hanno dato un mestolo di zuppa, potrei dire un quarto di litro di un liquido giallo, non so che cosa ci fosse dentro, so che era giallo e che era un quarto di litro, veniva distribuito soltanto a chi lavorava nelle fabbriche perché era una distribuzione personale a quelli che lavoravano nella fabbrica da parte del padrone. La zuppetta Steyr si chiamava per chi lavorava nella Steyr. Io l’ho capito dopo quando dopo la guerra ho potuto leggere la corrispondenza fra le fabbriche e le SS. I deportati erano proprietà delle SS e quindi le SS li manteneva e riceveva quattro marchi al giorno per darli in affitto come manodopera, come se desse un cavallo per lavorare dodici ore, per le dodici ore di lavoro che questo cavallo o uomo davano loro ricevevano quattro marchi, però dovevano pensare poi a vitto e alloggio, diciamo così. I padroni si rendevano conto che essendo la vita media di questo cavallo-uomo che ricevevano in affitto, in godimento temporaneo, essendo la vita media tre mesi, succedeva che per quindici giorni rendevano poco perché era un apprendistato, negli ultimi giorni rendevano poco perché stavano per morire, allora la corrispondenza tra le fabbriche e le SS era questa: gli ultimi cinque pezzi che ci avete consegnato non sono buoni, hanno durato soltanto due mesi, allora loro per farli durare di più gli davano una zuppetta a carico proprio.

Per solidarietà con se stessi, per avere qualche giorno di più, qualche energia in più a propria disposizione.

Questa era l’alimentazione. Il lavoro durava dodici ore, o dodici ore di giorno o dodici ore di notte secondo i turni, che si potevano fare però soltanto quando si scavavano le gallerie e nelle fabbriche, non si facevano i turni alla cava di pietra. Dodici ore.

Le sevizie vorrei dire erano infinite. In che senso io trascuro per un attimo la violenza individuale del capo-campo, del capoblocco, del capo del lavoro, del kapò, perché c’era un kapò in ogni squadra, in ogni blocco che ti picchiava, derubava il cibo, anche scarso che già c’era.

Trascuro tutta questa violenza, io guardo proprio come regime la violenza globale. Per esempio una volta la settimana ci portavano a fare la doccia. Durante il lungo inverno eravamo nella baracca, arrivavamo dopo il lavoro alle 6 di sera, ci spogliavamo nudi, ci mettevamo fuori dalla baracca nudi, era pieno di neve, attraversavamo nudi il campo innevato per arrivare a metterci in fila dietro altri gruppi che ci precedevano per andare a fare la doccia. Quando uscivi dalla doccia, non avendo né sapone né asciugamano ed eri soltanto bagnato di acqua gelida o calda che si sostituiva di volta in volta, uscivi bagnato, ripercorrevi a ritroso il cammino nella neve camminando nudo per andare alla tua baracca e poterti vestire. Questa era un modo per far morire la gente evidentemente.

Per esempio, a mio avviso, ulteriore tortura collettiva. Questa era collettiva anche se poi si traduceva di volta in volta in una tortura individuale, era quella del Lauskontroll, il controllo dei pidocchi.

Ogni sera questo rito dei controlli dei pidocchi faceva una serie infinita di vittime, cioè non era preso l’individuo: tutto il blocco doveva ogni sera spidocchiarsi. Allora nella incerta luce della baracca tu prendevi la tua camicia e guardavi nelle giunture se c’era qualche pidocchio. Dopo aver ben guardato però tutti passavamo davanti al kapò, il quale seduto su uno sgabello guardava e ogni pidocchio che tu non avevi saputo, prendevi cinque bastonate. Io ricordo quello che è capitato a me nel mese di dicembre, fra Natale e Capodanno, con un freddo tremendo, il campo pieno di neve, mi trovarono cinque pidocchi. Allora il rito qual era? Tutti quei disgraziati che prendevano che avevano trovato i pidocchi li avevano messi in fila da una parte, poi c’era uno sgabello sul quale tu ti dovevi piegare mettendo le mani, e un vice kapò, sotto semivice, quasi aiuto kapò, perché ce n’erano tanti che desideravano farlo, con un bastone di legno lungo ci dava il numero, un pidocchio cinque bastonate, oppure io che avevo cinque pidocchi, venticinque bastonate.

Io avevo visto cos’era accaduto ad altri; poi dopo le bastonate pisciavano sangue, perché cosa accadeva? Dopo la prima bastonata, chi prende la bastonata si inchina per non prendere la seconda. La seconda invece se tu ti chini la prendi sulle reni invece che sul sedere. Io che avevo visto mi presi le venticinque bastonate senza muovere di una frazione di millimetro il sedere, perché volevo essere ben sicuro che quel disgraziato che continuava a picchiarmi con molta solerzia colpisse sempre in quel residuo di parti molli che c’era ancora sul mio sedere. Non volevo che mi colpisse sulle reni perché sapevo che avrei pisciato sangue l’indomani mattina e sarei finito al crematorio subito. Non solo ma finite queste bastonate, le venticinque che presi, mi fecero arrampicare sulla porta esterna della baracca e mi fecero mettere gli abiti sotto la neve sulla cima della baracca. Non solo. Poi mi hanno fatto stare nudo tutta la notte, all’indomani mattina mi hanno fatto uscire nudo, mi hanno mandato a fare la doccia attraversando nudo tutto il campo coperto di neve, sono tornato nudo, mi han fatto ri-arrampicare, riprendere gli abiti, li ho messi e sono andato a lavorare.

Vorrei dire che bisognerebbe superare il ricordo individuale di quella volta che tu hai preso le botte per mettere in evidenza il regime finalizzato alla morte dei campi di lavoro, perché questi erano destinati all’annientamento dell’uomo, non solo attraverso dodici ore di lavoro senza cibo, ma vivendo nelle intemperie senza abiti, vivendo le quotidianità nella sofferenza più disperata e poi su tutto questo si accumulavano tutte le singole violenze individuali.

D: All’interno di queste violenze collettive, rientra anche l’appello? L’appello era una tortura in che senso?

R: Era una tortura perché non ti potevi muovere e dovevi stare lì magari delle ore e per uscire a lavorare e prendere il lavoro alle sette del mattino, la sveglia era alle cinque, tu avevi lì ventimila persone e allora le contavano. E alla sera quando si ritornava c’era un altro appello e tu dovevi portare con te al ritorno anche i morti, ti dovevi trascinare a spalla anche i morti perché l’appello si faceva con i vivi in piedi e i morti per terra, in modo che tornassero esattamente i numeri che erano stati annotati al mattino all’uscita per andare sul posto di lavoro.

D: A Gusen 1 che tu ti ricordi ci sono mai state impiccagioni o fucilazioni?

R: Io per Gusen 1 ho sentito di impiccagioni, sicuramente le fucilazioni del luglio. Ho sentito anche di impiccagioni, io non ne ho mai viste nel tempo in cui sono stato lì, anche se altri dicono che ce ne sono state e io ritengo che possono benissimo esserci state, perché il sabotaggio sul lavoro veniva punito con l’impiccagione.

Vorrei invece ricordare a proposito di sabotaggio un episodio che è accaduto a me personalmente, fortunatamente mi è accaduto negli ultimissimi giorni di aprile, vorrei dire all’antivigilia del giorno in cui poi le SS hanno lasciato il campo.

Io lavoravo in una di quelle gallerie e lavoravo all’imboccatura della galleria e in quelle ultime settimane ero andato a lavorare sui controlli. In che cosa consisteva il mio lavoro? In questa galleria arrivavano delle grandi lamiere che passavano sotto le grandi trance che sagomavano queste lamiere; queste lamiere poi venivano saldate fra di loro in modo che formavano poi una Maschinenpistole, io con una linguetta dovevo verificare che i punti elettrici fossero saldati, se no dovevo rimandare la saldatura. Io non solo non verificavo nessuno, ma avevo un martello di legno vicino, un Holzhammer e davo delle gran martellate. E potevo farlo perché quest’ultima parte era, la galleria era tutta a serpente, a curva, quest’ultima mi consentiva di farlo in quanto nessuno mi poteva vedere. Che cosa è accaduto? Lì lavorava anche Albertini con me. E’ accaduto che una mattina vediamo arrivare lungo la decouville cinquanta, sessanta vagoncini della decouville trascinati, pieni di questo pezzo; arrivano lì con l’ufficiale delle SS e il capo del lavoro di tutta la Steyr, entrano e chiedono chi controllava quei pezzi lì, migliaia e migliaia. Non è mai uscito un pezzo. E dicono che li controllavo io. Arriva il tedesco, io sono lì sull’attenti, lui mi piazza due manrovesci, e io resto sull’attenti, senza neanche portare la mano alla faccia, senza ripararmi neanche. Albertini viene chiamato perché parlava il tedesco. E lui mi chiede perché tutti quei pezzi sono dissaldati. Allora io gli dico: “Qui fa molto caldo, questa galleria è chiusa lì, qui fa un caldo, sudiamo, appena saldati li controllo, vengono portati fuori e lasciati lì fuori, lì fa freddo”. Io penso che questo sia, c’è una differenza termica che determina questo e forse fanno saltare la saldatura. Questo mi guarda, stringe i denti, mi guarda con odio, stringe il pugno e lo alza, poi lo abbassa, esce a grandi passi seguito da tutti gli altri pieno di furore, e io pieno di sudore resto lì. Però non vi meravigliano queste cose perché non erano atti di eroismo, erano coerenza, per chi sa che la vita media è tre mesi e ne ha già fatti tanti di mesi.

Questo episodio ricordo.

Un altro episodio invece che voglio ricordare è quello dei gas.

Alla vigilia sempre della fine, il giorno 21 di aprile del ‘45, io lo sottolineo sempre 21 aprile del ‘45. Era chiaro per noi che la guerra stava per finire perché sentivamo i bombardamenti, passavano tanti aerei da oscurare il sole; evidentemente sentivi che sparavano i cannoni, l’artiglieria di campagna, sparavano nei dintorni, passavano lì, quindi sentivi che ormai erano arrivati lì, non era finita la guerra. Il 21 ci riuniscono sulla piazza dell’appello di Gusen, passa il capo-campo, il comandante delle SS con alcuni ufficiali, i comandanti dei blocchi ecc., e uno per uno li tirano fuori, ne tirano fuori seicento, non uno, seicento. Ne tirano fuori seicento, tra gli altri c’era Arialdo Banfi, non Arialdo, il fratello di Arialdo Banfi, l’architetto Banfi che era insieme a Rogers Peressutti, il grande studio architettonico di Milano. Momi Banfi.

Viene lui, noi cerchiamo attraverso qualche trucco di farlo rientrare, di fargli cambiare collocazione. E lui era talmente consapevole che non avevano altro approdo che quello che non ha voluto tornare indietro, è rimasto lì. Li gasano tutti nella notte, e li mettono in una baracca che svuotano sigillandone le porte e le finestre con della carta incollata.

Ecco io credo che questo sia emblematico di tutto: tu puoi parlare finché vuoi, di tutto quello che è stata la deportazione, ma quando tu dici che il 21 di aprile questi uomini fanno una selezione per gasarne seicento alla vigilia della loro fuga dal campo, questo dà la misura della criminalità del totalitarismo nazista e fascista.

D: Il giorno della liberazione dove ti trovavi?

R: Io ho sentito mille volte questa domanda: “Chissà che gioia hai provato!”

Io ero a Gusen, ero uno dei pochi che stava in piedi ancora, io non ho provato questa gioia. Non so quale perversione, quale strana vicenda era andata maturata in me, ma dentro ero devastato, avevo visto troppa gente morire. E vorrei dire che prima io ne avevo visti morire troppi in guerra, avevo visto tanti compagni giovani, avevo avuto due grosse battaglie in Croazia dove erano morti centinaia e centinaia di uomini del mio reggimento, giovani, miei compagni di corso. Avevo visto troppa gente fucilata, impiccata, ho visto troppa gente morire a Mauthausen assassinata. Ero contento non ero felice, ero contento, ero triste.

D: Come te la ricordi la liberazione?

R: E’ esattamente il pomeriggio del 5 di maggio. La liberazione è avvenuta perché si è aperta una porta, è entrata una camionetta, c’erano su due persone, non è che è arrivato un reparto, è arrivata un camionetta con due persone, fotografie, qualche parola, credo che uno fosse un italo-americano per cui credo masticasse qualche cosa del dialetto antico della mamma. E poi dopo se ne sono ripartiti, sono andati via. Quello che è accaduto nel campo credo che sia fatto noto.

Giustizia è stata fatta.

E anche qui vorrei fare una notazione, perché mi fu chiaro in quel momento. A mio avviso chi definisce quell’ecatombe che c’è stata una vendetta, vuol dire che non ha capito nulla della vita e vissuto inutilmente. Perché? Furono ammazzati i kapò, furono ammazzate le spie anche all’interno della nazionalità, furono anche ammazzati, linciati crudelmente se vogliamo, però nel campo da tre giorni i guardiani non erano più le SS, erano fuggite, erano arrivate delle truppe territoriali, dei vecchiotti che da tre giorni stavano lì. Nessuno di questi ha ricevuto neanche uno schiaffo. Perché sottolineo questo? Per dire che quando questa violenza si scatena non è una violenza cieca, è un fenomeno vorrei dire fisico, una reazione pari e contraria, i kapò meritavano la morte, le spie meritavano la morte. Questi non meritavano neanche uno schiaffo perché non avevano dato a noi neanche uno schiaffo. E così è stato.

D: Gianfranco il ritorno?

R: Il ritorno è molto divertente. Io ho avuto un ritorno particolarissimo. Perché mi trovavo una sera a passeggiare fuori da Gusen, proprio fuori dal campo, era credo la fine di giugno, era passato quindi già parecchio tempo dal 5 di maggio. Noi eravamo stati lì, avevamo cercato di aiutare quelli che non avevano potuto, che non camminavano più, quelli che dovevano essere ricoverati in ospedale, quelli che dovevano essere aiutati per mangiare. Noi abbiamo fatto il nostro dovere fino all’ultimo nei confronti dei nostri compagni. Ma oramai la fase drammatica era anche scomparsa perché la fase successiva alla liberazione … noi per dieci, quindici giorni abbiamo avuto morti a non finire, perché mangiavano ciò che non potevano più mangiare perché erano state distrutte anche le strutture preordinate per digerire il cibo, le strutture fisiche. Ma superato questo, ormai la situazione era più quieta, gli altri erano negli ospedali quelli che ancora erano molto malati e andavano organizzandosi i trasporti. Lì io passeggiavo con Ravelli e con Belgioioso, davanti al campo, vediamo arrivare un’autolettiga dell’armata americana. E arriva vicino a noi, scende un soldato e ci chiede se conosciamo Ludovico Belgioioso. “E’ questo qui”, che era lì con noi; con noi c’erano anche altri due, credo uno fosse Emanuele Flora e l’altro Magini di Roma, non mi ricordo come si chiami di nome. Allora scende un altro ufficiale, italiano questo, che era Cicogna, il cugino o il cognato di Belgioioso che era nell’armata degli alleati, perché aveva risalito l’Italia nei reparti italiani e con gli alleati. Avendo sentito la radio, perché noi eravamo riusciti a far sentire alla radio chi erano i presenti superstiti in Gusen, aveva sentito che in Gusen era superstite Ludovico Belgioioso. Lui si è fatto dare un’autolettiga dal suo comando e con i soldati è venuto fino a Gusen e ha imbroccato proprio noi. A questo punto su quella autolettiga sono saliti i cinque che eravamo lì: allora Ravelli, Belgioioso, credo Emanuele Flora, il Maggini ed io, e siamo arrivati in Italia così.

D: In questi cinquantacinque anni che sono trascorsi dalla liberazione, quante volte sei stato intervistato, raccontando però come hai fatto oggi la tua storia?

R: Questa è la prima volta che la racconto, perché io in questi cinquantacinque anni … io sono prigioniero di uno schema ideologico-culturale, vado nelle scuole, parlo, ecc., non ho mai raccontato le mie vicende, ho sempre e soltanto raccontato la storia dei processi che hanno determinato il sorgere del nazismo, il crearsi all’interno del nazismo per repressione e per manipolazione della cultura di uomini che finivano per essere convinti dell’intrinseca necessità di eliminare altri uomini inferiori. Ho sempre parlato dell’organizzazione di sterminio, ma della mia storia inserita in questo quadro non ho mai parlato.

D: Due cose riferite a Gusen 1: ti ricordi di Don Sordo?

R: Don Sordo era a Bolzano. Io però non l’ho più visto a Gusen e a Mauthausen; so che è morto con noi il fratello di lui che era un medico dentista, è stato a lungo anche un dirigente della nostra associazione. Don Sordo lo ricordo però soltanto per Bolzano.

D: L’altra cosa come a Gusen 1 c’erano queste fabbriche della Steyr, della Messerschmitt, ma voi come facevate a sapere i nomi di queste aziende? C’era scritto da qualche parte?

R: Io non so risponderti se c’era scritto da qualche parte, perché il mio metodo di dire le cose ricordandole è di vedere se vedo una scritta o se vedo Messerschmitt, però quello che vedo sono gli aeroplani. Quello che vedo sono le Maschinenpistolen, quello che vedo è la cava, quello che vedo sono le macine della cava, quello che vedo è la ferrovia, quello che vedo sono le baracche, però noi sapevamo che era la Messerschmitt quella di quegli aeroplani lì e sapevamo che era la Steyr quella che faceva le Maschinenpistolen. Non escludo che ci fosse anche scritto, ma non ho memoria di grandi visibili cartelli.

D: L’ultima cosa, vicino a Gusen 1 c’era il campo di Gusen 2

R: Sì, era proprio contiguo e separato da noi da un enorme spazio vuoto dove però venivano seppellite le patate; il campo era contiguo si può dire, non realizzava una vera e propria soluzione di continuità questo spazio ampio, anche perché aveva una sua funzione specifica: seppellivano sotto le patate che poi venivano usate per l’alimentazione.

D: Ti ricordi quando Gusen 2 è stato abbattuto?

R: Lo abbiamo bruciato anche noi. Gusen 2 lo abbiamo svuotato di tutti i cadaveri facendoci aiutare dalle popolazioni che insomma non ti dico, i carri, lì noi siamo intervenuti sulla popolazione, imponendo alla popolazione di venire a prendere questi cadaveri spostarli con i carri e poi noi per timore di epidemie lo abbiamo bruciato, perché anche da noi vi era stato un periodo nel quale i forni crematori non avevano funzionato e i campi erano pieni di morti. Lì quotidianamente ne morivano decine e decine e decine per cui si formavano delle cataste di morti.

Gusen 1 non è stato bruciato, Gusen 2 è stato bruciato.

Rigouard Adriano

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Adriano Rigouard. Sono nato a La Spezia il 27 aprile 1925. A La Spezia sono stato arrestato per attività in una squadra SAP, il 17 settembre del 1944 e portato presso la caserma del 21° Reggimento Fanteria. Qua sono stato per due mesi, ci sarebbe a lungo da parlare perché c’erano già altri prigionieri, tutte le notti dovevamo salire sopra per gli interrogatori, ci hanno dato un po’ di botte, ma il più che era tremendo era vedere ritornare gli adulti; dal lunotto che avevamo sopra la nostra porta noi ci schiacciavamo contro il vetro per vedere e tornavano giù delle persone che erano tutte tumefatte. Io me le rappresento sempre come una polpetta di carne tritata, l’unica cosa che si vedeva era il bianco degli occhi, perché gliene facevano di tutti i colori, prima li picchiavano con sacchetti pieni di sabbia, gli davano …

Mi ha arrestato la Guardia Nazionale Repubblicana in seguito alla dichiarazione sotto tortura del nostro capo-squadra. Questo l’hanno picchiato, l’hanno torturato e ha fatto i nomi degli appartenenti alla squadra. Pensate che noi al mattino siamo andati dove c’era la sede, abbiamo portato via i manifestini e due pistole che c’erano, e poi ce ne siamo stati tranquillamente a casa, ingenui senza che nessuno ci abbia aperto un po’ le orecchie a dire “andatevene”. Lì sono state mancanze di chi avevamo al di sopra. Quindi al mattino del 17 settembre hanno circondato il quartiere del Favaro e ci hanno presi tutti. Ci hanno rinchiuso al 21°, poi abbiamo assistito a queste cose che già ho iniziato a dire. Molto probabilmente loro si sono accorti subito che noi eravamo l’ultima rotella e non è che ci avevamo sottoposto a grandi torture, ma gli adulti li hanno ridotti proprio in maniera inumana: con la scossa elettrica gli pungevano i testicoli, gli facevano dei lacci e li sospendevano per i testicoli, gli mettevano una manichetta in bocca e aprivano l’acqua gli facevano la pancia in questa maniera. Io voglio dire questo, che oggi sento tutto il dovere di avere delle scuse sopportato dei sospetti verso coloro che mi hanno fatto arrestare, perché mi sono reso conto che la resistenza alla tortura è soltanto nei bei libri e nei bei film, non è possibile resistere alle torture, c’è un limite. Se sei capace e se ti danno il tempo di ucciderti, se no non c’è niente da fare, i tormenti sono così tanti che non puoi, anzi poi ti dirò il resto.

Dunque ci hanno portato al 21° e col passar del tempo questo carcere si è riempito, prima eravamo in otto, poi piano si è riempito. Hanno messo nel carcere, nella cella insieme a noi, delle persone anziane che soffrivano di disturbi intestinali. Insomma per farla corta questi hanno dovuto mangiare dove prima avevano fatto i loro bisogni, insomma è un quadro che non è facile descrivere. Con tutto ciò, dopo queste varie traversie, il 4 di novembre ci hanno imbarcato su delle moto zattere e ci hanno portato al carcere di Marassi di Genova, ci hanno consegnato alle SS. Le SS hanno ricominciato da capo, però senza sapere nemmeno i motivi per cui eravamo stati arrestati.

D: Scusa Adriano, tu sei stato accusato di cosa in particolare?

R: Prima ero stato arrestato per appartenenza alla SAP, poi dalle SS ero stato accusato di aver ucciso un colonnello della Guardia Repubblicana, di aver partecipato a fare saltare una batteria, tutte cose che sono successe quando io stavo in carcere, quindi proprio erano al di fuori di … Però avveniva questo: loro hanno preso tre persone, fra le quali anche un sacerdote, e devo dire, lo devo dire con tutto quello che ho detto prima, un certo Don Stretti li han presi e li hanno torturati ben bene, poi ci portavano davanti a loro e questi dovevano sostenere l’accusa. Allora a me mi han detto “Tu hai fatto questo, hai ucciso il colonnello” e cadevo dalle nuvole. Il prete diceva: “Ma ti ricordi, te l’ho data io la pistola, le armi te le ho date io?”. Io dicevo di no, allora cosa hanno fatto? Mi hanno fatto inginocchiare, un pezzo d’uomo delle SS, sulle cose delle seggiole, c’erano quelle sbarre che tengono assieme le seggiole, mi ci ha fatto inginocchiare sopra e poi quando sono stato inginocchiato mi ha preso a seggiolate. Poi c’erano altri due testimoni che anche loro, sotto la minaccia della tortura, dovevano confermare quanto detto. Adesso in tutto questo, io non ero un giovane di grande resistenza, e dico anche la verità non avevo ancora acquisito quei grandi ideali che mi avrebbero portato a sopportare, però chi mi ha fatto crollare le braccia, il sistema nervoso, è stato il prete, perché lo conoscevo bene, era stato lui che mi aveva educato a certe cose. E allora, dato che poi prima di me molti ne erano passati, non sapevano mai di cosa si tratta, ho preso e ho firmato. Quello che ho firmato era la mia condanna a morte, perché accettavo quello che loro …

Per questo poi ho dovuto passare tutte le altre persone, ed è venuto fino all’8 dicembre. L’8 dicembre al mattino presto ci hanno caricati su un camion a rimorchio, ci hanno legati a due per due, la mia mano destra con la destra dell’altro, insomma intrecciati, ci han caricati su questo camion, era la mattina di dicembre, 8 di dicembre, pioveva, era freddo e su questo camion scoperto siamo partiti e siamo arrivati fino a Padova. A Padova ci hanno messo su un pullman che in mezzo aveva il soffietto, aveva il soffietto e mi pare che prima siamo passati da Milano, han caricato altra gente, e poi abbiamo proseguito per …

Su questo pullman qualcuno aveva cominciato a tagliare e anche qua qualche persona si è gettata, però dietro c’erano le macchine, con i fari, han visto e sono subito intervenuti con la loro maniera, avevano la bomba a mano e dove battevano battevano, ci hanno rovinato insomma in sostanza, ci hanno fatto un sacco di ammaccature. Alla bell’ e meglio siamo arrivati a Bolzano. Dico la verità ormai quando siamo arrivati faceva giorno, trovarmi in mezzo a quel panorama, all’aria aperta, e vedere, mi sembrava, dopo tre mesi che noi non ci portavano nemmeno a prendere l’ora d’aria come fanno ai soliti carcerati, dopo tre mesi sempre lì, poter respirare e poter vedere fuori mi sembrava una cuccagna, di essere in un altro paese. Poi mi ricordo che là eravamo tutti italiani, il capoblocco era italiano, è stata una lieve parentesi, levando il mangiare che era sempre scarso, però è stata una buona parentesi ecco. Mi ricordo che alla sera ci arrampicavamo attraverso i castelli, ci si andava ad affacciare sul muro perché di là c’erano le donne, e queste a volte passavano magari qualche pezzo di pan tostato, del pane secco, qualche drappo e persino dei ferri da portarsi durante il viaggio se qualcuno … E lì a Bolzano siamo stati cinque giorni.

D: Ti ricordi in che blocco eri a Bolzano?

R: Credo che sia il blocco E; se ricordo bene era il blocco E, era il blocco dove c’erano i perseguitati politici diciamo, il triangolo rosso.

D: Ti ricordi nomi di altri tuoi compagni che c’erano con te?

R: Sì, c’erano i miei compagni. C’era Lubrano Franco, Angeloni Alfredo, Tartarini Bruno, poi adesso non me ne viene altri. Luciano, non me ne ricordo altri.

D: Tu sei stato cinque giorni nel Lager di Bolzano e dicevi che avevi visto delle donne. Ti ricordi se hai visto anche dei sacerdoti nel Lager di Bolzano?

R: Io penso che nel Lager di Bolzano siano arrivati quei sacerdoti che sono partiti con me da La Spezia, però non sono sicuro, non sono sicuro perché non so se poi a Genova loro hanno seguito la nostra via, non ne sono più tanto sicuro.

D: Adriano, e dopo cinque giorni che sei rimasto lì a Bolzano, nel Lager di Bolzano cosa è successo?

R: Nel Lager di Bolzano niente di speciale, la conta al mattino e alla sera, la faccenda di imparare a mettersi e a togliere il cappello in maniera perfetta, tempi perfetti, qualcuno che si è meritato le venticinque bastonate di punizione e la cellula di garanzia, la cella di rigore. Però non tanti particolari, è stato un periodo troppo breve.

D: E poi cosa è successo?

R: Nel pomeriggio del 13 di dicembre per Santa Lucia, ricordo le date perché le ho sempre collegate, ci hanno caricato sui vagoni.

D: Dal campo dove vi hanno portato per caricarvi sui vagoni?

R: Dal campo siamo andati penso alla stazione, però era la stazione merci, mi ha dato quell’idea, perché so che avevamo seguito un torrente e avevo visto uno di quei capannoni che sono di solito negli scali merci, negli scali merci delle stazioni. Ci hanno caricato abbastanza stretti in questi vagoni e nel mezzo del vagone c’era cenere e trucioli per i nostri bisogni. Ci avevano dato la nostra razione di pane, era non so un etto di pane al giorno, che ce la siamo mangiata andando alla stazione mi sa e poi ci hanno rinchiusi dentro, bere niente. Senza bere.

Quando siamo stati sul vagone, io penso sull’imbrunire, siamo partiti. Ed ecco che sono saltati fuori questi scalpelli, questi martelli e sono nati anche dissidi fra di noi, perché io ero ragazzo ma mi rendevo ben conto che com’ero conso, com’ero messo, non sapendo la lingua, non sapendo nemmeno dov’ero, non sarei andato un gran che lontano ecco perché … Ma altri, infatti non so come qualcuno è riuscito ad aprire, come si chiama, il portellone, il ferro che chiude il portellone, lo ha aperto, hanno spinto il portellone e in cinque sono fuggiti. Adesso io questo l’ho raccontato così di seguito, però non so quanto tempo, da quanto tempo eravamo già in viaggio. Se ne sono accorti, sono saliti sul vagone, mi han picchiato col calcio del fucile. Ricordo che dove ci eravamo fermati, perché ci hanno portati in un binario morto, c’era una cassa fatta di strisce di legno, han preso queste strisce che avevano sopra dei chiodi, e dove han battuto, han battuto, hanno rovinato anche un occhio ad uno, e ci han conciato ben ben male. Poi io non so quanto siamo stati fermi, che poi fra parentesi anche questa stanchezza, questa fame, questa sete perché il nostro vagone era foderato di lamiera. Quindi noi non ci rendevamo nemmeno perfettamente conto se era giorno o se era notte, solo magari qualche fessura dal portellone ci poteva dire che era giorno. Poi eravamo così stretti che non potevamo stare, dovevamo stare o tutti in piedi o tutti seduti incastrati l’uno nell’altro, senza cercare di andare a finire nel mucchio delle feci.

Quando siamo stati, so che hanno gettato dentro un secchio di patate, che io non lo so se ho mangiato, se ne ho mangiato non ricordo più perché la ressa è stata tanta. Poi io dico la verità, io non so se son rimasto sempre lucido, se dentro quel vagone sono sempre restato in lucidità. E il colmo dei colmi, che dopo il fatto della curva han messo un soldato di guardia sopra il mucchio delle nostre feci.

Siamo arrivati a Mauthausen, quello che era Mauthausen, era buio noi non ce ne rendevamo conto né dove andavamo e né cos’era. Quando siamo scesi, in faccia avevamo un dito di patina gialla, di anidride carbonica. Poi dimenticavo di dire: dalla sete avevamo leccato il ghiaccio che si formava nel nostro fiato nella parete di zinco, di lamiera. E siamo arrivati, ci hanno messo in colonna; sì sì perché là andava tutto a bastonate, prima picchiavano e poi dicevano il perché, insomma ci han messi in colonna e siamo partiti, a piedi. Io non so quella strada come l’ho fatta perché quando l’ho rivista quanto era lunga ho detto “a me non sembrava di aver fatto tanta strada”, o dormivo e ho camminato o ero fuori coscienza, fatto sta che sono stato meravigliato quando ho visto, poi era anche in salita, faticoso. Per fortuna io bagaglio non ne avevo. Insomma quando siamo arrivati, lì ci spalancano i cancelli, entriamo dentro. Ai lati dell’entrata c’erano due file di persone con bastoni, nerbi, manici di piccone, di badile, gomma, i fili dell’alta tensione, e cominciano a menar botte, giù botte, giù botte, giù botte, picchia di qua, picchia di là. E poi ci hanno spiegato che quando si passa davanti alle SS ci si scopre. Noi eravamo coperti di stracci, non avevamo il cappello, avevamo qualcosa giusto che le donne ci avevano passato lì a Bolzano, un pezzo di tela ecco. Ci hanno spiegato e … Poi ci hanno portato davanti a una baracca, ci hanno fatto schierare e da là, dalle cantine sotto, c’era qualcuno che diceva: “Se avete qualcosa datecelo perché tanto vi tolgono tutto, vi tolgono tutto”. Lì siamo stati un po’ increduli, poi la cosa si è ripetuta. C’era della gente che era salita a Milano che in quelle valigie aveva di tutto; allora abbiamo tutti gettati, chi uova soda, la magnesia San Pellegrino, qualche pezzo di salame, tutti abbiamo cercato di ingoiare qualcosa. Poi sono arrivati, la squadra addetta, ha detto: “Spogliatevi tutti”. Era in piena notte. “Spogliatevi nudi e lasciate tutto lì, lasciate tutto lì a terra”. Avevamo delle perplessità … “Ma questi qua cosa dicono?”. Qua c’era neve ghiacciata per terra. Io andavo col pensiero a mia madre che mi diceva togliti di lì che c’è corrente, la corrente d’aria e questi mi vengono a fare spogliare bello nudo. Fatto sta che poi han cominciato … ci siamo spogliati e abbiamo aspettato poi il nostro turno, siamo andati a fare la doccia, un po’ d’acqua calda, un po’ d’acqua fredda, poi ci hanno tutti pelati, dalla testa a tutti i peli che avevamo sul corpo, poi ci hanno disinfettato con della creolina, che sembrava di essere delle torce accese. E poi ci hanno passato della biancheria, era una commedia, a chi han dato le mutande a bambola, a chi quelle della nonna, a chi il camicione da notte. Insomma era tutta roba che loro avevano accumulato. E a me m’era toccato persino un paio di mutande lunghe e la camicia abbastanza buona. Le scarpe, ecco le scarpe … a me non se sono accorti, avevo gli scarponcini della divisa da marinaio, loro non se ne sono accorti che m’erano rimaste ai piedi. Adesso mentre passo davanti per uscire c’era uno lì, mi ha preso, e mi ha detto: “Te come va?”. Dato che come ho detto ero pieno di scabbia, e avevamo avuto i pidocchi a non finire, e la mano dove mi avevano messo la manetta l’aveva messa così stretta che mi era gonfiata. Allora m’han preso e in piena notte cammina in mezzo a queste baracche appena illuminate dalla luce che c’era in tempo di guerra, la luce con l’oscuramento, mi han fatto capire che andavamo al Revier, all’ospedale. E io non volevo, io volevo restare con gli amici, non ero ancora cosciente, io volevo restare con i miei amici. Questo mi ha dato un paio di frustate e mi ha portato via. Adesso quando siamo arrivati davanti ad ogni baracca c’era un mucchio di morti. Io non so come spiegare questo, se è un brutto sogno, passa la baracca, poi erano ben sistemate come fossero state le traverse della ferrovia, ogni baracca … Finché sono arrivato al blocco 8 dove c’erano gli infettivi. Mi buttano dentro, e come sono arrivato uno mi è saltato addosso e mi ha tolto le scarpe e mi ha dato un paio di scarpacce vecchie. Mi ha dato scarpacce vecchie e poi mi ha portato in un castello dove erano già in tre, c’erano già tre persone, infatti quello lì era sporco, era gente che aveva la dissenteria, era appena appena appena pulito con lo straccio, con qualcosa. E mi ha detto “Mettiti lì”. Io che esitavo ad andarci, quegli altri che non mi ci volevano perché erano già in tre, erano stretti; insomma poi ho detto ormai ero fuori coscienza, ormai non lo so se ero ancora lucido, mi sono sdraiato lì. Poi al mattino è venuto il medico, mi ha guardato, poi mi hanno tutto pitturato con della roba per la scabbia, per curarmi la scabbia e sono stato lì. Sono stato lì e ricordo che lì ho passato il Natale, mi han dato un pane intero, un pane tedesco intero. Però io ero sempre a calpestare che volevo andar via, volevo uscire, volevo andare dagli amici.

D: Scusami un attimo Adriano, dopo la vestizione ti hanno dato anche un numero di matricola?

R: Sì, ma la vestizione io non l’avevo ancora avuta, avevo avuto solo una camicia, la camicia e le mutande, perché all’ospedale non aspettava niente di più, chi era all’ospedale  camicia e mutande e basta, e scalzi. Poi, ecco quando si andava dal medico, anche se il mio malore fosse stato nel dito qua, bisognava andare nudi. Quindi l’ospedale era molto pericoloso perché s’era sempre sotto la sorveglianza della selezione, era pericolosissimo. E poi giusto questa mia tendenza a voler andare a riunirmi con gli amici. C’era un francese che mi diceva “Guarda stattene qua, cerca di star tranquillo e stai qua”, ma io non capivo perché quello mi diceva queste cose. “Stattene tranquillo”, mi tranquillizzava; poi giusto ci han dato questo pane, due sigarette a Natale, mi ricordo che han fatto persino l’albero di Natale con delle figurine, perché c’erano mille contraddizioni no, con le razioni di pane e di zuppa che ci toglievano a noi i Kapò facevano la festa, si son fatti il Natale. Passato il Natale secondo loro la scabbia era guarita e allora mi han portato, mi han fatto fare una doccia ghiacciata, che mi è venuto il mal della tarantola, quanto ho dovuto saltare per levarmi il freddo. E poi mi è venuto in mente di farmi vedere che qua dove avevo dormito sul tavolazzo mi si era infiammata, gliel’ho fatto vedere al dottore allora mi han cambiato reparto, mi han portato in chirurgia. Sono andato là, mi hanno tagliato, mi hanno tagliato dove c’era la suppurazione, è stata la mia fortuna. Lì ho trovato un medico polacco che ha fatto di tutto per trattenermi lì più tempo possibile. Però il tempo è passato e allora son dovuto uscire e mi han portato alla quarantena. La quarantena la chiamavano così, ma per lo più era come un magazzino non di uomini, un magazzino di pezzi, perché noi eravamo Stück, ein Stück, due Stück.

Quando si andava nella quarantena avevamo diritto ad avere una giacca e un paio di pantaloni, che non erano a righe come si vede nelle … erano per lo più vestiti militari che nella schiena, nella giacca c’era una finestra con le righe zebrate, una riga rossa, altrettanto era nella gamba dei pantaloni, con la riga rossa, poi sulla giacca il numero, il triangolo rosso e il numero. E dico la verità che non mi viene più in mente dove mi hanno immatricolato. Penso che sia stato lì, però non me lo sono mai più ricordato. Mi avevano dato un numero di latta, legato col fil di ferro.

Adesso cosa avveniva? Che in questi blocchi di quarantena erano sempre al completo, erano pieni, perché arrivava anche gente da fuori; per dormire bisognava mettersi a pesce in scatola: testa e piedi, testa e piedi, testa e piedi, insomma a formare un unico tappeto a completare tutto il pavimento, che non rimaneva niente per poter, un corridoio per poter riuscire a camminare non c’era. Quando uno doveva uscire doveva camminare sopra gli altri. Allora era un lamento, era un lamento, chi bestemmiava in tutte le lingue, ecco che poi il babele lì era che c’erano cento paesi, gente di cento paesi, ognuno imprecava nella sua lingua. Poi anche lamenti, perché sai metterci un piede nello stomaco o in un occhio, insomma … Allora si svegliava il capoblocco, “Alle raus”, tutti fuori nella neve in piena notte. Adesso sulla porta del blocco di quarantena c’era un certo numero di zoccoli, chi ce la faceva metteva quelli, che poi non è che ci fosse tanta differenza perché erano inzuppati di neve, bagnati. E gli altri restavano scalzi. Ci si attaccava fra di noi, ci si sfregava, ci si massaggiava, e poi facevamo i covoni, ci si ammucchiava, ci si fiatava nella schiena uno con l’altro con la speranza che altri si ammucchiassero, insomma si veniva a fare … E poi sempre cercare di saltare sui piedi perché erano scalzi, evitare di farceli congelare. Finché non girava meglio al capoblocco si doveva restare lì.

Adesso alla sera quando si andava, prima di sdraiarsi, toglievano le ante delle finestre. La finestra spalancata: levavano l’anta, chi dormiva sotto aveva tutta l’aria addosso. E c’è stato anche un poverino che era lì sotto a dormire e una notte ha detto “Ma perché io devo andare a camminare sopra gli altri, esco dalla finestra”. La sentinella dalla garitta lo ha fulminato.

E poi bisognava tirare avanti. Al mattino bisognava andarsi a lavare nel Waschräume, era una baracca apposta, che era sopra un poggio, c’era un poggio e sopra c’era questa baracca. Per salire c’erano degli scalini scavati nella terra, che però venivano sempre riempiti dalla neve. Quindi salire lassù era un’impresa. Poi quando eravamo nella baracca trovavamo là tutti quelli che durante la notte erano morti, li buttavano nel Waschräume.
Certo poi a scendere era più facile, ci si metteva col sedere per terra e si tornava. Insomma da lì siamo andati avanti non so quanto sarà stato, quindici-venti giorni e poi un bel giorno, “antreten”, han chiamato un numero.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: In tedesco non lo ricordo più però, il mio numero era 114.154, l’ho in tasca.

Insomma hanno chiamato i numeri e era anche un’impresa, perché io dovevo, per lo più mi ricordavo che avevano chiamato in anticipo, usavo la memoria, che avevano chiamato in anticipo poi toccava a me. Insomma mi han chiamato e mi han dato un paio di zoccoli che nella metà si aprivano, facevano da cerniera. Ci han messo lì, saremmo stati un centinaio di persone, ci han portati nella piazza principale del campo, mi hanno spiegato che i blocchi di quarantena facevano campo a parte diciamo, quattro o cinque baracche fra quattro mura che poi portavano tutti in questa piazza.

Ci hanno messo in fila e ci hanno portato a Gusen. Gusen 2 a piedi, siamo andati a piedi, che non è molto lontano, fatto in condizioni, ma come eravamo già conci noi non è stata un’impresa facile. Ci hanno portato a Gusen, mi hanno mandato alla baracca 27, e poi bisognava prendere il lavoro. Adesso il lavoro a Gusen non era lì sul luogo dove c’era la baracca, bisognava prendere un treno che ci portava sotto le gallerie di Sankt Georgen. Allora bisognava far la conta del mattino, poi metterci in fila per cinque, sfilare davanti alla SS che contava, poi salire su una piattaforma, che era abbastanza grande, da contenere le persone che poi sarebbero state nel vagone. Allora nel tempo che il vagone iniziava e finiva di passare a fianco a questa piattaforma, noi dovevamo riempire il vagone. E lo stesso, al contrario, all’arrivo, però il treno camminava a passo d’uomo, ai fianchi c’erano le SS col lupo e il faro se era notte perché facevamo una settimana lavoravamo di giorno e una settimana di notte.

E poi da lì dove ci lasciava il treno bisognava correre alle gallerie. Lì prima di entrare nelle gallerie torna in fila a ricontarci, e poi il primo lavoro che mi hanno dato mi hanno messo assieme ad un tedesco a fare dei collegamenti elettrici sui motori degli aerei. Ma io il tedesco non lo capivo, il mestiere non lo conoscevo, allora questo ha un po’ brontolato poi mi ha mandato via. Allora mi hanno messo a mettere lo schermo di protezione al bidone della benzina, come si chiama?

D: Un paracolpi?

R: Era la corazza che proteggeva la benzina, il serbatoio della benzina. Questa era una lastra abbastanza grande, pesante, bisognava portarla alla mola a smeriglio e fargli degli scassi uno per parte, poi bisognava dargli una certa inclinatura col martello e poi farli brasare per chiudere la fessura e poi metterli sotto e avvitarli; c’erano un bel numero di viti da mettere. Queste viti molto spesso non combaciavano. Allora ci voleva un punteruolo apposta, col martello e mettere le viti. Adesso questo lavoro andava fatto dal basso rivolto verso l’alto. Questo lavoro mi ha demolito, mi ha distrutto, tanto è vero che ormai mi ci voleva tutta la mia forza, tutta la mia volontà per lavorare. Poi avveniva anche questo: se si andava al gabinetto in galleria c’era il guardiano, il Kapò, che passava lì del suo passo, ogni volta che passava lasciava cadere un colpo con ‘sto filo di piombo, il filo di rame fasciato di piombo, bisognava essere disposti a farsi rompere la testa o un orecchio perché bisognava prendere il colpo. E allora io preferivo portarmela al campo, senonché ormai ero ridotto in una maniera che non potevo più star seduto, perché ormai c’erano soltanto le ossa, le ossa dell’anca. Non avevo la forza di stare in piedi, mi dovevo appoggiare sulla carlinga. E un mattino, dopo aver cercato di resistere, di andare al gabinetto, in quell’attimo giusto ero seduto, è venuto impellente perché poi là che faceva più terrore era la diarrea, la diarrea era il terrore. Ho detto “Vado, bisogna che mi decida di andare”, nello sforzo di alzarmi mi sono tutto sporcato, sono diventato lo zimbello di quattro o cinque che mi hanno gonfiato di botte, insomma. Poi alla bell’ e meglio sono riuscito ad andar fuori, mi son levato le mutande l’ho gettate via, ho cercato di ripulirmi, e sono ritornato sul lavoro. E devo dire anche questo: ho avuto la fortuna che mentre finivo io, finiva anche la guerra, anche loro non erano più, ormai non avevano più la certezza della vittoria, non avevano più il fanatismo che avevano quando siamo arrivati, se c’era qualcuno c’era qualcuno di questi Kapò ignoranti che non capivano niente, se no Adriano non sarebbe ritornato.

Ricordo che quando si ritornava al campo bastava che mi scontrassero e andavo in terra, nella neve ormai in disgelo, mi sporcavo, poi alzarmi era una tragedia, non ce la facevo, finché non trovavo qualche compagno che mi desse un aiuto.

Poi sul lavoro c’era la tensione di non sbagliare, perché gli errori venivano considerati sabotaggio e a seconda del tipo di errore andava dalle venticinque nerbate all’impiccagione. Ricordo che un povero giovane di Udine, ormai il nome non lo ricordo più, ma stava ancora bene perché era da poco che era arrivato là, l’avevano messo a pulire in terra con la randazza. Dato che oltre alla fame e alla sete si era accumulato anche il sonno, perché quando era che si lavorava di notte, che il giorno si poteva riposare, invece c’erano mille cose da fare, e la doccia, e portare i vestiti all’autoclave, e a rinnovare la riga in testa e a fare la barba, insomma si riposava poco, quindi il sonno era arretrato. Questo giovane io non so, ha trovato la maniera nascosta di dormire, si è seduto e si è addormentato. Lo hanno trovato e ce lo siamo portati in baracca impiccato.

D: Adriano scusa, con voi nelle gallerie c’erano anche dei civili a lavorare?

R: C’era qualche militare dell’aviazione. Civili non ne ricordo, forse qualcuno c’era ma io non ne ricordo. Poi era anche una tragedia col mangiare, perché veniva sempre meno. Prima quando siamo arrivati prima era un pane in tre, poi un pane in cinque, poi un pane in dieci, poi si andava a tagliare il pane, era un ammasso di muffa. Insomma il mangiare diventava un’ossessione. L’interrogativo del mattino era quanto pane avrebbero dato oggi. E tutta l’attenzione era al pane e a cercare di non prendere bastonate.

Insomma alla meno peggio è arrivato il giorno che non ci hanno più portato a lavorare.

Ma dimenticavo di dirvi una cosa molto importante. Al mattino si partiva per andare a lavorare, chi non partiva veniva finito: a Gusen 2 non c’era la camera a gas, chi non partiva per andare a lavorare gli facevano un’iniezione al cuore e poi li ammucchiavano lì davanti alla baracca.

Mi ricordo che un mattino siamo arrivati, si vede che non avevano ancora finito il lavoro, era ormai aprile avanzato, c’era venuto anche il sole addosso, e noi eravamo lì ormai imbambolati; sentivamo fra il mucchio dei morti uno che diceva “eine Decke”, voleva una coperta “eine Decke” e noi non siamo stati capaci di aiutarlo. Per fortuna poi non è più arrivato materiale, non ci hanno più portato a lavorare e io sono ancora vivo.

Senonché come è venuta la liberazione ci siamo subito gettati fuori dal campo, che è stata la nostra stupidaggine. Poi è passato un camioncino di quelli che portavano le bibite, ci ha caricati io e Ciacchini/Ciachini, un compagno che era ridotto come me e ci hanno portato all’ospedale civile di Linz. Come mi hanno messo a letto non ce l’ho più fatta a stare in piedi, per portarmi al bagno dovevano portarmi in braccio.

D: E quanti anni avevi Adriano?

R: Ho compiuto il 27 aprile del ‘45 vent’anni. Ho compiuto vent’ anni.

E poi la cosa più dolorosa, più dura, nella gioia della liberazione: un mattino mi metto a sfogliare la cartella che avevo ai piedi del letto, c’era scritto tutto in tedesco e non capivo niente. Senonché ho trovato scritto tbc polmonare in latino. Allora è stato un trauma. Ho superato anche quello, ho detto “non è vero” non è vero perché io mi facevo un dato quadro della malattia, dicevo “ma io ho fame, io mangio”, infatti come mi sono rimesso scappavo dall’ospedale, andavo fuori a chiedere da mangiare perché c’erano i militari italiani. Insomma mi vedevo che rifiorivo, ma purtroppo era vero. E ci sono voluti cinque anni di sanatorio per rimettermi in piedi. Poi ho avuto la pensione, mi sono curato a casa, sono uscite per fortuna le cure che mi hanno fatto guarire.

D: Da Linz come ti ricordi il tuo ritorno?

R: Da Linz ricordo che ci hanno prima radunati in una scuola su una collina, e poi ci hanno portato sul treno ospedale della Pontificia Opera di Assistenza. Poi da Bolzano mi hanno portato all’ospedale di Bergamo, Ospedale Clementina di Bergamo, lì c’era questo mio povero amico, Roberto, che era morente, mi chiamava perché le mosche gli davano fastidio: “Adriano la mosca, la mosca”. Poi è venuta una sua zia, una zia a trovare, anzi una zia e la madre e quando è andata via la zia m’han portato a casa con dei mezzi di fortuna e come sono arrivato a casa, dato che mi avevano raccomandato di ricoverarmi subito; all’indomani sono entrato nell’altra vita. Insomma, per me la guerra non è mai finita, m’è cambiato tutto.

D: Adriano il momento della liberazione, tu dove ti trovavi al momento della liberazione?

R: Al momento della liberazione mi trovavo sdraiato in baracca, a Gusen 2, perché ormai non mi reggevo più, senonché tutto il clamore che mi ha spinto ad andare fuori, e abbiamo visto passare delle camionette di americani sulla strada, perché adesso a Gusen 2 non si nota più, ma il campo era più basso, era coperto con dei teloni di iuta dalla strada. Però avevamo visto questi camion, poi eravamo rimasti su, le SS era già fuggita prima, ci avevano messo la guardia, come si chiamava quei vecchi col pennino, la Guardia Nazionale e poi erano spariti anche loro, siamo rimasti abbandonati. E quella è stata la liberazione, quei giorni di maggio, quel bel sole. Non me lo sarei creduto rovinato in quella maniera.

D: Adriano ancora due cose; quando tu hai raccontato che da Spezia ti hanno portato al campo di Bolzano hai detto che sei passato da Padova?

R: Sì.

D: E poi da Padova?

R: Aspetta, aspetta, forse era Pavia. Da Pavia, mi sono confuso, da Pavia, il pullman lo abbiamo preso a Pavia.

D: Un’altra cosa: venti anni nel Lager. A vent’anni tu eri deportato nel Lager: avevi un progetto speranza, cosa è che ti ha mantenuto vivo?

R: Se devo dire, di ideali politici non ne avevo ancora di così forti, io avevo imparato l’abc della politica in montagna, nelle canzoni della Resistenza, poi c’era il commissario, perché come volevo dire sin dall’inizio noi siamo vissuti a fascismo all’apoteosi, l’impero, vestiti da balilla, ci insegnavano la fierezza, poi non avevamo confronti politici, non c’era paragoni, noi pensavamo che tutto il mondo fosse così. Poi c’è stato il 25 luglio, insomma qualcosa si è cominciato a orecchiare. Poi l’8 settembre. Poi vivevo in un rione come Migliarina, che si è subito visto il voltafaccia, come prima tutti tacevano, nessuno ci aveva mai detto una parola, il 25 luglio si è tutto rovesciato, infatti i primi a partire per la montagna erano stati quelli che si erano messi in evidenza il 25 luglio. Poi lì ero in montagna, c’era il commissario, abbiamo cominciato ad imparare la politica, certo quando ho sentito dire la terra a chi la lavora, il pane a chi lavora, che poi leggendo fra parentesi io le avevo prese per parole d’ordine comuniste, invece a quanto pare erano parole di Sant’Agostino, che però la chiesa non mi aveva mai detto.

E’ da allora che ho cominciato ad essere il vero partigiano, perché allora non avevo ancora quella potenza ideale che mi ha fatto resistere. Sono stati i vent’anni, diciannove anni, penso che non so se è una impressione mia, nessuno accetta di morire ma i giovani particolarmente. E là vedevo che qui i giovani che morivano avevano come un senso di stupore in viso: “Ma guarda cosa mi è capitato?”. Però sono sempre stato portato ad avere fiducia; vedevo un uccellino “Porta bene, mi porta speranza”. La prima macchia di verde che ho visto fra la neve, a primavera forse, perché poi c’erano anche questi contrasti: gli americani sono qua, dopo l’indomani erano cento chilometri più indietro. E dato che quando mi hanno arrestato gli americani erano a Carrara, dicevo “in carcere non ci sto mica tanto”, e invece piano piano anche questa speranza è dovuta scemare. Era forse il mio carattere, ero forse, come si potrà dire, immaturo, non so, idealista, speravo in me, e speravo tanto di sognare mia madre, che a volte quando sul lavoro mancava l’energia mi andavo ad accucciare sotto la carlinga disperato, mi sfogavo di pianto, mi sfogavo di pianto a invocare mia madre. Il desiderio di sognarla, non mi è mai capitato, anche la notte riuscivano a fartela diventare un incubo, perché al mattino bisognava andare a ritirare il caffè, che poi non l’hanno mai visto, ma quel po’ d’acqua calda e allora chi capitava capitava. Io ormai che ero ridotto in quelle condizioni avevo un incubo: “Ho detto questi se mi prendono è finita, infatti al mattino Aufstehen, io non ce la facevo”. Facevo “No, guardate come sono ridotto non ce la faccio” e questi a picchiarmi, facevano finta di non capire che io, non è che non volevo non ce la facevo a portare quei bidoni, finché quel povero disgraziato che era con me si è bruciato, se l’è rovesciato addosso, ma anche quella volta lì sono stato fortunato, sono rimasto vivo.

Rupel Savina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami ?

R: Rupel Savina ma Savi ….

D: Quando sei nata?

R: Il 3 del 10 del 1919.

D: Dove?

R: A Prosecco, provincia di Trieste.

D: Posso chiamarti Savina adesso io ..?

R: Sì tesoro. Sui documenti mi hanno ridato il mio nome. Savina va bene, Rupel Savina.

D: Savina, quando sei stata arrestata?

R: La prima volta del 16 giugno, no agosto del ’43 fino all’8 anzi fino al 10 di settembre. Dopo sono stata liberata che era il “ribalton[1]”.

D: Perché sei stata arrestata quella volta?

R: Perché, non so neanche io perché. Sono venuti e mi hanno arrestato.

D: Ma sono venuti a casa a prenderti?

R: A casa. Me, mio papà e mio fratello, tutta la mia famiglia. A Prosecco.

D: E dopo il 10 settembre 1943 …

R: Alle 8 di sera siamo partiti per Frosinone e alle 6 di sera è arrivato l’armistizio. Così dopo due giorni mi hanno liberato. Quella volta ero deportata dai Gesuiti, a Trieste sempre.

D: I Gesuiti sono le carceri?

R: Le carceri dei Gesuiti ma adesso non son più là.

D: E dopo sei stata arrestata ancora, quando?

R: Dopo sono stata arrestata il 18 novembre del ’44.

D: Dove?

R: Sempre a casa.

D: E perché?

R: Quella volta un rastrellamento, non sapevamo neanche per cosa. Sempre contro il nazifascismo, ecco. Avevamo le nostre idee e volevamo essere liberati.

D: Savina, chi e che ti ha arrestato questa seconda volta?

R: I tedeschi.

D: E hanno arrestato solamente te della tua famiglia?

R: Quella volta sì, sola, dopo otto giorni anche mio fratello.

D: E dove ti hanno portato?

R: Al Coroneo.

D: Che sono le carceri di Trieste?

R: Sì il Coroneo.

D: E ti hanno interrogata?

R: Sì un poco, qualche cosa.

D: Non hai subito violenze, botte?

R: No.

D: Cosa ti chiedevano?

R: Solo dov’era mio fratello più piccolo e dove lavora, dov’è e tutto questo.

D: Ma tuo fratello era partigiano?

R: Era in organizzazione, come eravamo la maggioranza nel paese.

D: E quanto sei rimasta lì al Coroneo?

R: Dal 18 di novembre al 2 dicembre.

D: Poi al 2 dicembre cosa e’ successo?

R: Il 2 dicembre mi hanno portato verso le 4, 4 e mezza di mattina alla stazione di Trieste e mi hanno messa nei vagoni di trasporto per la Germania.

D: Eravate in tante donne?

R: Sì circa cinquanta in tutto.

D: In un vagone?

R: Sì.

D: E c’erano anche degli uomini?

R: No, solo donne.

D: E c’erano anche persone anziane?

R: Si, qualcuno anche. Non so se quarant’anni, ma pochi, la maggioranza gioventù.

D: E voi non sapevate dove stavate andando?

R: No.

D: E quanto è durato il viaggio?

R: Il viaggio quattro giorni, perché il giorno di San Nicolò siamo arrivate. Il 6 dicembre.

D: Durante il viaggio il treno si è fermato il trasporto?

R: A Villach, solo una volta e dopo sul terzo giorno, di sera mi ha portato qualcosa come una zuppa, un quarto di litro. Un poco di caldo dopo tre giorni. Niente altro.

D: Per tre giorni non avete mangiato..

R: Sì. chi aveva qualche cosa con sé allora si guardava di mangiare quel necessario per salvare più a lungo.

D: Tu credevi di andare a lavorare in Germania?

R: Ma speravo di essere almeno un poco libera ma non mi aspettavo quello che dopo ho visto, in che condizioni.

D: Savina, dopo quattro giorni di viaggio siete arrivate dove?

R: A Ravensbrück, sarebbe circa 80-85 km oltre Berlino, a nord.

D: Cosa ti ricordi dell’arrivo a Ravensbrück ?

R: Verso sera era già scuro, due tre ore, quando siamo scese era pieno pieno di ragazzini di 7-8-10 anni e voleva che davamo i nostri bagagli. Abbiamo detto impossibile e loro li pretendevano, quasi quasi obbligavano. Allora noi ci siamo rifiutati perché erano nostri. Hanno cominciato a sputare a tutte e non potevamo fare niente perché c’erano SS tutto intorno. Rifiutammo di darli però non rispondemmo niente andammo a cinque verso la porta del Lager. Sulla porta del Lager che mi ha impressionata, almeno a me, ho visto due impiccati, proprio sulla porta del Lager. Quello mi ha fatto un’impressione che non ho mai dimenticato.

D: E dopo che siete entrate nel campo.

R: Nel campo per una sera ci hanno messo sotto una tenda grande grande. Quella sera non potevamo respirare perché l’aria era una roba incredibile. Non si poteva respirare. Era una puzza che non si può neanche descrivere com’era. Là chi aveva ancora qualcosa … abbiamo finito quasi tutto, dopo quattro giorni. Chi aveva qualcosa le è sparito. Poi ho visto che in una colonna dentro un grande porzie c’era. Ho guardato e ho detto “sarà abbastanza da mangiare perché già abbiamo abbastanza fame. Ci dev’essere abbastanza da mangiare se hanno delle porzie – porzie sarebbe come bacinelle grandi. E cantavano. Se cantano si vede che lavorano e non va tanto male”.

Di sera era scuro e non si vedeva. Solo da lontano si vedeva che marciavano cinque e cinque. Dopo quella notte si è dormito poco e la mattina presto mi hanno portato in un altro posto, di fronte, e là ci hanno detto che dovevamo cambiarci.

Difatti hanno portato via tutto quello che avevamo, tutto, tutto. A certi, quasi tutti, anche i capelli. Tutto. A me sono stata fortunata e un’altra, siamo restate e mi hanno lasciato i capelli. Del resto hanno portato via tutto quello che avevamo ed eravamo nude. Per non so quante ore. A noi sembrava assai lungo perché era assai freddo. Eravamo nude e aspettavamo cosa mettere addosso.

Siamo andate in questo bagno grande grande, e là hanno portato su un carretto, tirato da queste prigioniere, si è fermato davanti alla porta e ha portato questo poco da vestirci per tutte noi. Allora abbiamo diviso. Chi era più fortunata riceveva qualche vestito un poco più pesante. Certe della roba di seta, roba che non ci riconoscevamo più l’una con l’altra perché eravamo … può capire in che modo. Non potevamo credere. Dopo che eravamo là tutto il giorno, verso sera era l’inverno e veniva subito scuro, ci hanno portato nel blocco di Zugänge[2], blocco 29, e là mi hanno messo su questi letti a castello e hanno messo su ogni letto, che era circa 70 cm, ne hanno messe tre. Eravamo stanche, sfinite un po’ dal trasporto, annientate il primo giorno – con una parola – non potevano credere che così presto eravamo arrivate a questo.

Là hanno dato ordine alla mattina c’è stato l’appello che era tremendo. Una che era già dentro mi ha avvertito “Guarda che l’appello è la roba più tremenda”. Allora quando c’era l’appello dovevi essere pronta subito, alzarsi e andare non restare se no si andava incontro a prendere legnate.

In quel momento eravamo già sfinite, alla mattina, non so a che ora perché non avevamo orologio, era ancora due o tre ore di scuro, eravamo già sull’appello. Come hanno ordinato, anche se non capivi a suon di bastonate dovevi capire. Il primo giorno sono stata battuta tre volte. Perché il primo giorno, io ero quasi ultima, pioveva una roba spaventosa, freddo, piove eravamo in fila come militari e c’era una pozzanghera piena d’acqua e io invece di tenere le gambe dritte tenevo le gambe una di qua e una di là: hanno cominciato a battermi per le gambe. Freddo e sentivo dolori forti e non ho capito per cosa allora una davanti mi ha detto che dovevo tenere. Ed ho subito capito.

Dopo quando siamo rientrate ero sempre ultima perché non volevo mai, si doveva mantenersi sempre in mezzo, mai ultima, no prima, ho subito capito ma non sapevo. Ero ultima sempre … non avevo il coraggio di spingere, insomma vado ultima e per il freddo mi tenevo così e vado dentro. Sulla porta mi hanno acchiappato e mi hanno buttato fuori. Ero giovane, ho fatto un salto e non sono cascata per terra. Allora ho guardato perché e non capivo perché era freddo. Sono andata di nuovo dentro così. Di nuovo mi butta fuori ed ogni volta mi ha dato una nerbata. La terza volta che avevo paura ad entrare perché ero rimasta sola e una, dietro questa Ausierka, mi ha fatto che dovevo guardarla. L’ho guardata questa prigioniera mi ha fatto “dritta” come dovevo comportarmi, allora era una scuola che non ho mai dimenticato, ho fatto così e infatti mi ha lasciato entrare.

Così il primo giorno sapevo già regolarmi. Dopo non ero mai più battuta, mai più perché non ero la prima e anche per andare a prendere il rancio, il mangiare, non si doveva essere primi e neanche ultimi perché i primi erano guardati come volessero essere primi, era questo.

D: Savina, la vestizione. Cosa ti hanno dato da vestire?

R: Un vestito nero, stretto, di lana fino qua e qua tutto un pizzo, come se dovessi andare a ballare. Ma per me era grave perché ero incinta e dovevo sposarmi quel giorno che ero in viaggio per la Germania. Dovevo sposarmi il 2 gennaio. Ero contenta lo stesso perché era di lana. Dopo mi hanno dato il numero. Il mio numero era 91329: Questo non lo dimentico mai, in tedesco era Einundneunzigtausenddreihundertneunundzwanzig, non l’ho mai dimenticato. Questo era importante perché se chiamavano si doveva subito … Così abbiamo cominciato la vita del Lager, ma era tremendo. Non si può capire come si viveva perché non vi era che giorno, non c’era un orologio. Pensa che bestia.

Poi quella era insopportabile l’odore, ci volevano cinque-sei giorni per poterci abituare un poco poco, si teneva sempre qualcosa ma sull’appello non si poteva, si dovevano tenere le mani dritte. Non ci potevamo tappare il naso. Tremendo.

D: Savina, ti hanno messo in qualche compagnia di lavoro?

R: Per il momento no, ho aspettato. Dopo di là sono restata sempre in questo blocco di Zugänge perché ero, ma erano di tutte le nazioni era là; dopo mi hanno spostato al blocco 32. Nel blocco 32 ero finché avevo la mia creatura e dopo fino al giorno, doveva essere il 14 di febbraio, doveva essere no l’11 febbraio, perché dopo tre giorni avevo questa creatura.

Ha vissuto quattordici giorni, il giorno 28, come calcolavo, è morta di fame e di stenti.

D: Come facevi al alimentarlo?

R: Prego?

D: Come facevi ad alimentarlo, a dargli da mangiare?

R: Niente. Facevano esperimenti perché quasi tutte che erano con me quella volta sono tutte morte. Le conoscevo.Una di Gorizia, Pinter Helena, era di Piuma, vicino Gorizia. Aveva 18 anni e quella era stata violentata da quello da cui lavorava. Il padrone l’ha mandata e l’hanno portata via, trasportava il vino di Vipacco con un cavallo, l’hanno arrestata, così raccontava. Perché il padrone aveva paura che sua moglie lo veniva a sapere. Piangeva sempre. Lei era magrolina. Eravamo tutte magre.

D: Ed era in campo con te anche lei?

R: Prego?

D: Era in campo a Ravensbrück  con te anche lei?

R: Sì. E’ venuta su da Gorizia lo stesso giorno perché erano tante di Gorizia, erano di Biglie, erano di Ranciano, Vertoiba. Erano tante. Abbiamo fatto il viaggio preciso sempre là. Dopo delle mie paesane i primi giorni di dicembre, prima di Natale, sono andate per le fabbriche a lavorare. Certe sono restate là ma al Betrieb, alla Schneiderei, che dopo sono andata anche io a lavorare a Betrieb. Noi in tempo di due ore si doveva sapere lavorare a macchina elettrica, il mio mestiere era altro. Insomma non si può neanche capire, insopportabile. Solo se si aveva quella di tornare ancora una volta a casa.

D: Quindi Savina, tu come altre donne avete partorito un bambino a Ravensbrück ?

R: Sì, ma sono tutte morte quelle che conoscevo.Una era di Solcano di Gorizia, non so se aveva bambino o bambina ma è morta anche lei. Lei era sposata con un Grossovin ed i suoi genitori avevano una, come si dice, una segheria.

La segheria. Sono slovena e sono diversi anni che non parlo tanto italiano perché sono via dal mio lavoro.

D: Lo so che è doloroso Savina, lo so che per te è molto doloroso. Per quattordici giorni tu hai tenuto la tua creatura lì a Ravensbrück ?

R: Era tremendo perché sapevo che sarebbe morta, dal primo giorno perché non c’era niente. E anche quei tre giorni che mi martirizzavano, non so come sono sopravvissuta. Perché erano patimenti, lo facevano per vederequanto sopportavauna donna. Mi ricordo che guardavo e sapevo che sarebbe morta; ma forse succederà che finisce la guerra. Sarebbe stato un miracolo. Perché si sentiva già che sarebbe finita presto, perché si sentiva il fronte vicino. I Russi. Speravamo perché gli ultimi due mesi più venivano i bombardamenti più eravamo felici perché prima finiremo.

Solo di sera andavamo a letto e avevo le speranze almeno di sognare casa e i miei familiari. Eravamo tre fratelli là. Non sapevo dove era l’uno o l’altro. Mio papà era solo a casa. Guardavo questo cielo delle volte e mi consolava anche quello. Guardavo il cielo tante volte. Ho detto: tutto mi avete portato via tutto, ma proprio tutto ma il cielo, questo non avete potuto portarlo via perché questo copre anche i nostri familiari, le nostre case, i nostri paesi. Anche quello, si doveva sempre avere speranza e guai ad abbattersi; poi neanche parlare.

Poi alla fine era tremendo perché non si poteva più. Il 25 di aprile di sera è venuto un ordine, c’era anche dentro qualche organizzazione, si sentivano già i cannoni, il fronte era vicino, era tutto rosso il cielo. “Abbiamo 20-30 km al più grande fronte, guardiamo di nasconderci”. Questo è un ordine venuto quando era già un’ora di buio. Dopo sono venuti i tedeschi ed hanno detto “In cinque minuti tutti fuori” dopo hanno dato altri ordini. Saremo liberati. Sono andati dentro con queste mitragliatrici. Finito. Chi è restato dentro ha perso la vita. Dopo sarà quel che sarà, siamo venuti fuori. Hanno dato cinque minuti allora tutti pian piano, pochissimi sono restati e quelli sono finiti là.

Ci hanno messo in fila, era verso mezzanotte già se calcoliamo indietro le ore che era scuro, ci hanno messo in fila ed hanno dato l’ordine a destra o a sinistra, non mi ricordo più, se non si può camminare 30 km che si metta da parte che verranno i camion e li porterà via. Quelli che se la sentono di camminare 30 km si mettano dall’altra parte. Abbiamo detto “So che non camminerò 30 km, ma neanche 3 km però vado da questa parte perché non posso credere che mi porterà con un camion”. Sapevo che nel blocco 23 i camini che fumavano erano le persone che ardevano ogni giorno, giorno e notte. Allora ho detto “No, mi metto da questa parte”.

Dopo hanno diviso un pacco da 5 kg per cinque persone – che erano sempre per cinque – dentro questi pacchi abbiamo spartito subito perché nessuno poteva portare 5 kg, era pesante e poi è meglio spartire subito. Chi ha mangiato subito qualche cracker o latte in polvere o cosa. Li portavamo così perché non avevamo niente. Avevamo un piccolo vasetto e qualcosa abbiamo messo là, se no portavamo tutto poi mangiavi. C’erano quelli che mangiavano subito, io mi salvavo più che potevo perché sarò sempre più bisognosa quando camminerò.

Abbiamo camminato fino all’alba, siamo andati fuori, era una fila, il campo era grande, era una fila grandiosa. Non finiva mai. Siamo andati fuori. Quando veniva l’alba, veniamo sulla strada principale e vediamo i militari del fronte, tutti fasciati, tutti rovinati venivano carri con cavalli e questa gente che si ritirava dal fronte, gente dei paesi, con le carrozzelle, coi figli, senza figli, coi bagagli, si ritiravano tutti dal fronte. Avevano tutti fretta. E noi ci siamo messi in mezzo e loro da una parte e dall’altra, eravamo in centro. Perché quando venivano questi apparecchi mitragliavano, loro scappavano fuori dal centro della casa e noi dovevamo stare là, avevamo sempre le guardie con i cani; ogni tanti passi c’era un soldato della Wehrmacht che seguiva la colonna e camminavi, camminavi. Otto giorni e otto notti.

Sempre in fila, si vedeva questa fila davanti e dietro di noi, giorno e notte, non c’era altro. Il primo giorno si mangiava quello che si aveva, il secondo giorno anche ma dopo non si aveva più niente e dopo si fermava venti minuti, mezz’ora; andavamo dove c’era acqua per farci qualcosa con la roba che si trovava per strada o un poco di radicella, che cominciava a spuntare quella radice selvatica o indifferente. Si trovavano i cavalli o qualche bestia che era morta allora tiravamo fuori e allora con queste mani, erano tanti, tutti là tutti raggruppati. La prima volta ho detto “Cosa fa là quel gruppo, cosa spartisce?”. Dopo che abbiamo visto che era uno scheletro, siamo arrivati troppo tardi e dopo guardavamo tanto se si trovava qualche bestia crepata o morta o di bombardamento o cosa.

Mi ricordo una volta, senza nessun coltello, solo tirando l’uno con l’altro.Qualche volta si tirava, si tirava e dopo non si trovava niente perché qualcuno perdeva la mano. Qualche volta mi è toccato che mi hanno portato la mia razione di pane. Che dovevo quellavolta vestirmi che non avevo niente addosso, quando avevo questa creatura, anche per questa creatura, solo con il pane o con la zuppa si comprava qualcosa.

Quella volta mi ha salvata una certa Pierina che era infermiera, ma era anche lei come noi, deportata. Però faceva l’infermiera, era di Gorizia, era una brava persona. Mi ha detto “Anche se ti hanno rubato ti procurerò io”, lei mi ha trovato un cappottino piccolo, ero secca e tutto mi stava, fino qua e sotto avevo una canottiera da uomo. Quando è morto il mio piccolo.

Quando era l’ultimo giorno, quando ho visto questa gente che si ritira ho detto “Ma noi forse torneremo, ma loro?”. Loro saranno adesso prigionieri e noi forse avremo la nostra liberazione. Intanto se devo morire, morirò fuori del Lager e quello mi ha dato tanto, tanto coraggio. Che abbiamo camminato, camminato: in otto giorni abbiamo fatto, giorno e notte, non so, so che chi si strascinava una con l’altra, qualche amica che aveva un po’ più di forza, quella che stava per morire, si trascinavano una con l’altra. Una volta forse due volte, gli ultimi giorni che il fronte era un po’ lontano, perché a loro veniva il cambio con la macchina e li portavano via e venivano altri di quelli che ci guardavano.

Gli ultimi giorni proprio non potevo più e ogni tanto domandavo a questi, non ci bastonavano per andare avanti però sempre in cinque, quella che non poteva più si ritirava, allora restava ultima, come è toccato a me l’ultimo giorno. Ho domandato “Dove andiamo?” mi hanno risposto: “Bitte wohin? ” “Ich weiß es nicht, immer weiter” … Allora dopo l’ultimo giorno era c’era una pianura, noi eravamo in colonna, bellissimo era questo bel prato e guardavo, era un bel sole che tramontava, questo è l’ultimo sole “Ragazze se venite qualche volta a casa“, dopo ci siamo trovate con le mie paesane, quando sono andata a lavorare al Betrieb Schneiderei. “Dite che non potevo più andare avanti. Portate i miei saluti ai miei fratelli se torneranno anche loro e dite che non ce la facevo più”. Sono uscita dalla fila perché si doveva andare fuori della fila e mi sono poggiata su un albero e guardavo questo sole e sono passati forse anche venti minuti, il sole era andato via.In quel momento sento mitraglie, mi giro, credevo che era vicino il fronte e vedo che cascano queste prigioniere che non potevano andare avanti, con la raffica. Quando erano a forse cinquanta metri, vedo una che era proprio con me, che dormiva con me aveva due figli, era di Ljubljana, due ragazze, la vedo che si alza di nuovo sul ginocchio e si teneva così e guardava avanti, voleva ancora camminare. Loro le hanno detto: “Noch einmal e ancora raffiche” è caduta lei e ancora un venti altre là per terra. In quel modo che ho visto come finivano le ultime mi ha preso una forza di volontà, “No!” – ho detto – “Non devo crepare su questa maledetta terra. Devo tornare a casa”. Era già quasi scuro e ho cominciato a camminare, non so chi mi ha dato la volontà, i nervi: devo tornare a casa.

Mi sono messa in fila con quelle che erano ancora vive e ho cominciato a camminare, a camminare, dopo un’ora ho visto venire, come altre, come si poteva, si camminava sempre come si poteva però non è questi che mi guardavano con i cani sapevano che non potevo scampare perché ultimo, ultimo che cascava. Dopo quella sera abbiamo camminato tutta la notte e alla mattina presto sentimmo come una bomba. Ci siamo girate e si può dire che eravamo proprio ultimi, tutta la notte ancora, forse c’era un chilometro dietro di noi. Vediamo che era saltato un ponte che avevamo passato prima e siamo restate tutte ultime. Saltato questo ponte è venuto un camion che ha detto “Ormai è finito”. Ha caricato tutti su un camion e siamo andati avanti. Siamo cascate per terra, doveva essere di sera tardi oppure verso la notte, la mattina c’era il sole, una bella giornata fredda perché era maggio. Abbiamo visto che non c’era più nessuno di questi tedeschi e ultimo che era ha cominciato che voleva ancora e l’altro “Non vedi che è finita?” lo ha battuto e lo ha buttato via. Dopo quel camion sono restati un po’, siamo restati ultimi e siamo scappati in un boschetto che era lì vicino e là siamo stati al sole, non si vedeva nessuno. “Allora siamo libere, libere”.

In quel momento non si vedeva nessuno, allora certe une sono andate per dritto dove era questo camion ad hanno trovato tanto tanto the, come the russo, tante scatolette e le hanno caricate tutte, due o tre erano mezze bruciate, qualcuna che tutto per terra, qualcuna era ancora buona. Insomma l’abbiamo sciolto, ci voleva l’acqua, allora abbiamo visto una casa, come una fattoria, grandiosa, ma era da fare cento metri su una collina, bellissima, là troveremo acqua. Una è andata, noi dietro pian piano che ci tenevamo l’una con l’altra, ci aiutavamo per metterci in cammino perché non si poteva. Eravamo indurite per terra. Avevamo il the, siamo libere, non si vedevano più i militari, i tedeschi. In quel momento vedo che da una parte viene un militare su un cavallo grande con una stella rossa così. “Partisan!” ho detto. “Niet Partisan!” – ha detto, “za ruski vojnik”, che sono militari russi. Ho detto “Non ci sono più tedeschi?”. “No”. “Siamo libere”. Non ci potevano credere, come alzarsi dalla morte.

Ha detto: “Non è ancora finita la guerra, dovete stare bene attente perché ci sono tanti che si nascondono ed è un peccato adesso”. Parlava russo ma ci capivamo, tutto capivamo perché era così, purtroppo non so perché si sentiva una parola di qua e una di là e si capiva abbastanza.

“Dovete stare assai attente a non perdere la vita, perché è peccato forse, venite in una casa che credete sia vuota e invece c’è sempre qualcuno che può tirare ed uccidervi. Perché la gente è disperata e siamo ancora in guerra”, hanno detto questi russi.

Arriva un altro con un cavallo e ci dice “Volete tanto mangiare ma non mangiate, guardate anche l’acqua può essere avvelenata perché tanti hanno perso la vita. Sono quattro anni che combattiamo ed ho visto tanta gente morire. Ed è peccato perché avete tanto superato che avete patito tanto nei Lager. Dovete avere tanto sentimento perché in qualche angolo potete ancora trovare la morte. Se adesso avete bisogno di qualche cosa, qui ci sono le mucche mungerle e bere il latte”. Se sono patate allora sì, cucinarle ma neanche frutta, niente perché è pericoloso. In qualche orto si trovava.

Si doveva sempre stare attenti; mai fidarsi. Sempre in gruppi andare mai andare da soli, due o tre o quattro sempre nei grandi gruppi e non aver premura di andare a casa perché le strade sono rovinate “Verrà il giorno, aspettate, abbiate pazienza. Noi vi porteremo da mangiare ancora per un giorno dovete andare avanti sole come potete. Poi le nostre cucine vi porteranno. Raggrupparsi più che potete insieme. Anche di notte sempre in tante insieme, mai sole.”

Qualche volta anche per prendere un uovo si perdeva la vita.

Così siamo state liberate e sono finita in un palazzo di Himmler; dappertutto era Hitler e Himmler sulla porta su quelle sale grandi dove c’erano armi antiche e su una porta c’era una tenda rossa e una tenda verde; giusto per avere le coperte di notte. Io ho scelto la verde, lei la rossa. E’ indifferente. Dopo quella coperta che avevamo per tutto il viaggio, siamo arrivati a casa dopo quattro mesi, il primo di settembre; eravamo state liberate il 3 maggio.

A Lipsia c’era un fiume, Elba, mi pare, che dovevamo andare, dopo un mese siamo andati su questo fiume fino in Cecoslovacchia e non so quanti chilometri con questa barca. Sulla cornice del fiume alla mattina gli uomini e dopo pranzo le donne. Abbiamo messo per capitano uno zingaro, che i russi gli davano non so quanto da mangiare e lui mangiava e così ne dava, era tutto buono per mangiare.

Dopo 12 km abbiamo visto una fattoria grandiosa con tante tante bestie, abbiamo detto qua ci fermiamo e là c’era da mangiare per tutti e siamo stati due o tre giorni, eravamo in cinquecento. Sotto c’era questa barca di commercio e là dormiva una vicino all’altra strette come pesci. Basta che andavamo verso casa. Ci siamo accorti poi che c’era un ponte piccolo e la barca non poteva andare oltre, è venuto il comando dei russi: non si poteva toccare quel ponte. Sono venuti due camion, siamo andati in una fabbrica di zucchero avevamo un paio di chili di zucchero, avevamo sempre paura di non trovare da mangiare. Avevamo cambiato quello che avevamo addosso con quello che trovavamo per essere più pulite, perché dentro non era possibile lavarsi. Era acqua sporca nei Lager, davano un sapone che si restava più sporche. Non so di che cosa era, una puzza che non si poteva sopportare, quel sapone bianco che quando si insaponavamo non andava più via. Era come una colla, meglio non mettersi niente.

Dopo abbiamo camminato 40 km e quello che dovevamo portare lo hanno portato loro con i camion per noi tutti. Non avevano altri camion, i russi non li avevano. Però finché eravamo in quella casa, di Himmler, ci hanno portato da mangiare, andavano là e ci portavano pane, subito dal primo giorno, abbastanza pane e dopo siamo andati 40 km a piedi.

Siamo andati a Prinzwalk in una bella cittadina piccola. siamo stati per cinque giorni una fabbrica, forse erano caserme, c’era una grande corte forse c’erano militari dentro prima. Eravamo tutti noi quasi cinquecento, ci siamo stati cinque giorni. Dopo siamo andati sui treni e ci hanno portato a Neubrandenburg, nelle caserme. Belle caserme, sul monte e là abbiamo aspettato fino al giorno che siamo andate verso casa, fino al 12 agosto.

Il 12 agosto eravamo sicure che in tre, quattro giorni arrivavamo a casa, invece siamo arrivate a settembre. Mio fratello … siamo arrivati a casa ma sono andati via perché sono andati a fare il militare per mangiare.

Erano brutte le guerre, sono tremende. Solo questo dico, chi l’ha provato se ha un poco di onestà un poco di cuore, non dovrebbe mai più venire nessuna guerra.

D: Savina scusa una cosa veloce quella fabbrica che tu citavi, che in due ore dovevi imparare …

R: Era a Ravensbrück. Sempre a Ravensbrück; prima mi hanno mandato in una baracca dove si andava solo per lavorare perché veniva la roba del fronte, le divise tutte rovinate, tutte sporche di sangue delle bombe, tutte bruciate. Rovinate e noi, almeno io, dovevo perché avevano messo una tavola grande come era la baracca, dritta, e tutto intorno avevamo e dovevamo mettere quello che trovavamo nelle scarselle sulla tavola. Là ero due o tre giorni ma non si poteva per la puzza che era dentro, questi odori, questa roba sporca, rovinata; se si guardava verso la luce non si vedeva l’una con l’altra tanta polvere, tanta sporcizia c’era. Fuori era enorme e dentro tanto di più per la polvere. Ogni notte – io lavoravo di notte – andavo fuori non potevo mai buttare fuori questa roba tremenda.

Un giorno come trovo nella tasca di questa divisa vedo come un portafoglio, era abbastanza grande l’ho messo sulla tavola però era rovinato. Passa un’Ausierka perché passava sempre così attorno e quando ha visto ‘sta roba, guardava se era qualcosa che voleva. “Cos’è”. L’ha guardata, mi ha levato di mano questa roba, ha cominciato a guardare e dopo l’ha messo dentro e ha visto che era bruciata e ‘sto portafoglio era bruciato, sporco di sangue. Ha guardato e l’ha levato dalle mani, non sapevo, ed è andata via. Dopo un po’ torna e ha cominciato che era suo fratello, era al fronte e gli era toccato. E’ andata via e non l’ho vista più. Il giorno dopo viene e mi dice di andare con lei e mi ha portato in questo posto in cui c’era assai confusione perché c’era un cento macchine, ma era netto, c’era aria pulita. E io ero contenta solo in due ore dovevo sapere le macchine elettriche, per metterle in moto con le ginocchia. Mi ha messo dove si lavora delle camicie, delle divise dei militari, delle aviazioni; era la fabbrica per tutti, roba nuova. Ha visto che non potevo nemmeno lavorare perché stavo male, ero assai grave. Allora mi aveva messo in un altro posto, meno difficoltoso in cui dovevo fare segno se qualcosa non va bene; allora dove potevo stare in piedi, non potevo stare seduta perché mi doleva schiena. Se trovavo qualcosa difettoso o non ben cucito dove portarlo nella parte di fabbrica che lavorava e aveva quello da fare. Segnalavo che non era ben fatto. Quando ha visto che non potevo stare più in piedi mi ha dato i posti meno difficoltosi.

D: Abbiamo finito, però prima di finire una cosa importante: come hai chiamato tuo figlio?

R: Danilo, perché mio fratello si chiama Danilo. O l’uno o l’altro tornerà, Kleiner Partisan. E’ vissuto, non so come ma è vissuto per quattordici giorni.


[1] A Trieste, l’armistizio di Cassibile viene definito in dialetto “Ribalton”, ad indicare l’evoluzione del conflitto dell’8 settembre 1943.

[2] Blocco degli arrivi.

Limentani Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Limentani Mario sono nato a Venezia il 18-7-1923. Nel ‘37 sono venuto a Roma con la mia famiglia; nel ‘38 hanno messo le leggi razziali. Ci hanno levato la scuola, il lavoro, chi aveva una licenza gli è stata levata; insomma noi non facevamo più parte dell’Italia, il soldato non si poteva fare. Poi venne il 1940 quando l’Italia entrò in guerra, essendo ebrei eravamo esclusi. Poi venne l’8 settembre vennero i tedeschi a Roma. Verso la fine di settembre Kappler si presentò alla nostra comunità israelitica di Roma, chiedendo entro ventiquattro ore cinquanta chili d’oro altrimenti prendeva cento uomini e li portava in Germania a lavorare.

Ci siamo dati da fare, cinquanta chili d’oro in ventiquattro ore erano un po’ elevati, però siamo riusciti, anche con la cooperazione dei cattolici, che si sono presentati in tanti dando ciò che hanno potuto dare. Abbiamo consegnato questi cinquanta chili d’oro credendo che ormai per noi non c’era più paura. Invece il 16 ottobre alle ore 4,30 di mattina, circondarono il rione ebraico e vennero per le case. Io abitavo in via della Reginella n. 10, proprio nel quartiere ebraico. A casa mia, per fortuna, avevo a parte della cucina, un cunicolo che andava giù, un nascondiglio in cui c’era una cantina. Noi uomini ci siamo calati credendo che portavano via solo gli uomini, invece quando ci siamo calati le donne hanno cominciato a strillare … portavano via pure le donne, ammalati, vecchi, bambini; allora sono risalito con mio fratello ho preso mio padre, mia madre, tre figlie di mio fratello e siamo scesi. Poi non vedendo mia cognata sono risalito, aspettava il quarto bambino, era incinta di pochi mesi, salii e feci: “Vieni giù”. “No, non vengo giù”. Non ce la faceva con la pancia, poi non voleva lasciare il padre, la madre e una sorella. Mentre io convincevo mia cognata, sentivo con il calcio del fucile che buttavano giù la porta e allora mia cognata ha detto: “Vattene”. E io mi gettai giù. Siamo rimasti là qualche ora; da sotto vedevamo passare tutta questa gente, poi siamo risaliti e non c’era più nessuno. Non c’era né oro, né soldi perché gli avevano detto su un foglietto in mano: “Se avete oro soldi e biancheria, portatevela appresso perché dove vi portiamo vi può essere utile”. Quella mattina presero 1.222 persone, tra le quali 400 uomini, 400 donne e 222 bambini. Da quella spedizione ritornarono un solo uomo e una sola donna. Neanche un bambino di quei 222, neanche un bambino.

Io ero scappato con mio padre e mia madre ed eravamo andati in una zona qui vicino, abbiamo preso in affitto un bunker, quello dove mettono le macchine; io e mio fratello dovevamo uscire per rimediare i soldi per dare da mangiare a sette persone. Per fortuna mio fratello aveva un amico e gli ha dato dei documenti falsi, io invece no.

Un giorno passai per la stazione in via Cernaia, sarebbe qua di dietro, camminando ho visto tre persone che stavano attaccate al muro, ma non potevo più tornare indietro, perché sennò… ma io con la coda dell’occhio ho visto che erano fascisti. Camminai e quando passai, questi mi fischiarono; io feci: “A me?”. “Sì, vieni qui, documenti”. “Guarda mi sono cambiato i calzoni, i documenti non li ho”. Allora quello dimezzo ha fatto un cenno con la testa, mi hanno messo in mezzo a questi due … “andiamo dentro il portone, prendiamo le generalità e poi te ne vai”. Vedevo che passava il tram numero 4 che andava dalla stazione in via Po. Feci una franconata, avevo venti anni e mezzo, ero un ragazzo ancora snello, vedevo che il tram veniva giù – i tram a quei tempi erano aperti – così, io mi inchinai, mi presero per le caviglie, avevo le mani in tasca e mi buttarono per terra. Corsi, stavo per prendere il tram e ho sentito una rivoltella qui sulla nuca, fece “Stai fermo che ti sparo”. Le gambe mi tremavano, anche se ero giovane sentirmi una rivoltella alla testa … e mi portarono in via Montebello, alla questura. Mi levarono la cravatta, tutto quanto, fece “Tu non avevi i documenti”, mi dettero uno schiaffo, lungo per terra. Mi portarono in camera di sicurezza e c’erano un’altra quindicina di ragazzi come me e mi hanno domandato “Come ti hanno preso?”. Quando è stata la sera ci hanno portato su al primo piano. C’era il maresciallo, entrarono questi ragazzi uno per volta e uscivano con un bigliettino in mano, avevano un’ora di tempo per arrivare a casa e c’era il coprifuoco. Arrivò il mio turno, mi guardò, poi guardò un libro “Limentani Mario, prego si metta seduto”; disse “Tu sei ebreo?”, Sissignore sono ebreo, c’è qualcosa di male? Sai dove ti mandiamo noi?”. M”e lo dica lei, io non lo so”. Mi hanno preso ma non so il motivo. “Ti mandiamo in Germania a lavorare”, “Mandatemi in Germania”. Mi fece una proposta. Dice: “Senti, ti dò la parola d’onore che ti lascio, però devi fare una cosa”. “Mi dica, se posso volentieri”. “Dimmi dove sta tuo padre, tua madre, tuo fratello e tre nipoti”. Questo di me già sapeva tutto. Dapprima stetti zitto, poi disse: “Allora?”. “Senta, già che io alla sua parola non ci credo, per carità, perché un italiano che mette in mano a un altro italiano per cinquemila lire a persona, per me lei l’onore non ce l’ha”. Dice: “Guarda che … faccia quello che gli pare”. “Ammesso e non concesso che lei abbia la parola, mi lasci per prendere sei del mio sangue, no, invece che cinquemila ne prenda trenta, lasci perdere”. Allora si arrabbiò, diede un cazzotto chiamò il piantone e disse: “Portalo a Regina Coeli. Arrivai alla porta, mi rivoltai e gli feci un segno col ditino, così. Dice: “Che significa quel segno? Lei deve pregare Dio che non ritorno, perché se ritorno la mando all’altro Paese”. Da lì mi hanno mandato a Regina Coeli, blocco n. 5. Ci stetti un po’ di giorni; il 4 gennaio del 1944 alle quattro e mezza di mattina ci dettero la sveglia, ci hanno incatenato cinque per cinque e ci hanno portato alla stazione Tiburtina, ci hanno caricato, ci hanno messo dentro un vagone, settanta persone per vagone, ci hanno rinchiuso. Solamente una ventina si potevano mettere seduti, abbiamo viaggiato, siamo partiti, abbiamo fatto due giorni e due notti per arrivare a Monaco di Baviera. Siamo arrivati verso mezzanotte e siamo andati  al campo di concentramento di Dachau, ma ancora non sapevamo nulla. Credevamo di andare in un campo di lavoro come avevano detto, ci hanno rinchiuso dentro la baracca delle docce, ci hanno lasciato là un po’ di giorni, non sapevamo nulla ancora; poi la mattina ci svegliarono, ci hanno preso e siamo arrivati a Mauthausen, l’11 gennaio del 1944 verso le undici, mezzogiorno.

D: Scusa Mario, a Dachau non vi hanno fatto la spoliazione.

R: No, niente, non ci hanno dato matricola. Non sapevamo niente perché eravamo dentro la baracca ma non si vedeva niente. Arrivati a Mauthausen, sulla destra dove c’è il muro del pianto ci hanno messo lì e ci hanno fatto l’appello. Ancora non sapevamo, non si vedeva niente, la neve alta, un freddo, 20 gradi sotto zero. Ogni qualvolta che chiamavano un ebreo si faceva uscire dalla riga e ci hanno messo sulla baracca dove sotto ci sono le docce. Eravamo solo 11 ebrei su 480 italiani. Ci mettono in fila addosso al muro, ci misero con le spalle sopra la baracca e si presentò uno delle SS Sarà stato due metri, aveva le spalle, era un colosso. Mentre i nostri compagni andavano giù un po’ per volta a tagliarsi i capelli, tutti vestiti, questo mi chiamò per prima, mi disse: “Sprechen Sie Deutsch?”. Ma non sapevo cosa, però col dito faceva così. Ho capito, sono uscito e mi sono messo … mi fa: “Parli tedesco?”. E io non rispondevo, non sapevo. Un collega nostro, certo Renato Pace, fece: “Mario, ti ha domandato se parli il tedesco”. Non sapendo dove eravamo caduti, risposi un po’ sgarbato: “Ma che mi importa a me, non so quasi l’italiano!”. Alzai le spalle e dissi: “No, non parlo il tedesco”. Non glielo avessi mai detto: mi dette un cazzotto mi mandò lungo per terra, mi rialzai, mi ha riempito di cazzotti, di calci. Per fare breve il discorso, per cinque sei ore di seguito fino all’ultimo che andavo a fare la doccia, cominciava col primo e finiva con il secondo poi ricominciava con me; insomma avevamo la faccia gonfia, usciva il sangue dagli occhi, dal naso, dalle orecchie dalla bocca, dappertutto; gli occhi erano diventati così non ci riconoscevamo più uno con l’altro. Finito di far la doccia ci hanno levato i vestiti, i capelli, l’oro, quello che avevamo e ci hanno mandato a far la doccia, l’acqua era gelata. Finito di fare la doccia, ci hanno fatto uscire senza asciugarci, senza vestire; ci hanno mandato al blocco di quarantena che sta giù in fondo. Siamo entrati là e c’erano i nostri compagni, quando ci hanno visto questi poveracci “Ma che vi hanno fatto, perché vi hanno fatto così…”. E noi chiudevamo gli occhi e dicevamo non lo so; ci hanno dato il vestito e da quel momento non ho inteso più il mio nome.

Da quel momento il mio nome era “Zwei­und­vierzig­tausend­zwei­hundert­dreißig”, 42.230. Dovevamo imparare in pochi secondi altrimenti erano botte. La mattina presto ci hanno levato dalla quarantena e ci hanno mandato al blocco numero 5, il blocco degli ebrei. Entriamo dentro viene un francese, ci ha visto con la stella ebraica e ci ha detto: “Ma voi siete ebrei?”. “Sì”. “Ringraziate Iddio che ancora siete vivi”. “Perché?”. “Perché quelli che vi hanno preceduto li hanno subito eliminati”. “Ma scusa come li hanno eliminati?”. “Guarda là sotto”. Siamo andati sotto e abbiamo visto il fumo. “Ma che cosa è quello?”. “Sono usciti da là”. “Come sono usciti da là?”. “Quello è il forno crematorio”. “Ma perché? Non lo so”.

Quando è stato il giorno appresso sono venuti da Torino, il convoglio e invece c’erano cinque ebrei e li hanno mandati da noi, padre e figlio, due fratelli e un altro. Viene questo francese e fece: “Guarda, voi domani andrete a lavorare alla cava, però quando andate giù mettetevi sul lato destro, quando venite su mettetevi sul lato sinistro”. “Ma perché?”. Ho fatto io. “Lo vedrai domani mattina”. Effettivamente la mattina alle quattro sveglia, mi metto subito in fila, siamo stati due tre ore là in fila, per l’appello, poi hanno aperto il portone e siamo andati giù, e siamo arrivati alla cava … Effettivamente aveva ragione perché sulla destra non c’era il burrone, sulla sinistra c’era.. noi la chiamavamo la scalinata della morte, le SS dicevano invece che era il muro dei paracadutisti. Oltre cinquanta metri. Il nostro lavoro consisteva da dodici ore al giorno andare giù a mettersi sulle spalle un masso di granito di minimo venticinque chili, si doveva percorre questa scalinata in fila per cinque, non era che tu pigliavi il masso e andavi su, no, prendevi il masso dovevi mettertelo in spalla e poi aspettare la fila. Davano il via e andavano su e lì morivano tutti i giorni duecento, duecentocinquanta perché bastava perdere l’equilibrio … sa noi eravamo appena arrivati giovani di venti, sedici, diciotto anni, bastava che cadeva uno o sennò quando arrivavamo su le SS con il calcio del fucile ti davano una botta sulle costole tu perdevi l’equilibrio e cadevi. Finito il nostro lavoro noi ci dovevamo prendere i cadaveri metterli sulle spalle e andare su, c’era quello che contava, per modo di dire, cento persone, loro dicevano “einhundert Stück” significa che noi non eravamo più uomini, significa sono usciti “cento pezzi” e cento pezzi dovevano ritornare, perché se ne mancava uno stavi delle ore e ore. Noi portavamo questi cadaveri. Poi si posavano per terra, gli addetti ai forni crematori li pigliavano e ritornavamo alla baracca numero 5. Alla baracca numero 5 non c’erano le cuccette, come le altre baracche, si doveva dormire per terra, per modo di dire su una parete che poteva andare cento centocinquanta persone, ci doveva entrare duecentocinquanta. Perciò il capoblocco quando dava le bastonate, insomma … 

Un passo indietro, noi ebrei prima di entrare nella baracca ci dovevamo spogliare nudi, solamente con una camicia di cotone, fare il pacco dei vestiti, delle scarpe e lasciarli fuori sulla neve, può immaginare quando la mattina dovevamo… Il capoblocco aveva due modi per svegliarci, dipende da come si svegliava lui, o a suon di bastonate, aveva un coso di gomma o sennò con la pompa dell’acqua. Può immaginare, tutti bagnati uscire fuori in mezzo alla neve; era diventato legno, per fortuna è durata quattro mesi solo. Quattro mesi, ma erano quarant’anni, no quattro mesi. Da lì ci hanno mandato a Melk.

D: Scusa un attimo Mario, quando ti hanno dato il numero, l’immatricolazione da mettere sulla zebrata, vi hanno dato anche la piastrina per il polso?

R: Il polso e il collo.

D: Cioè?

R: Il fil di ferro con la piastrina di metallo, con il numero mio sul collo e il polso.

 D: A te che triangolo hanno dato?

R: La stella ebraica.

 D: E basta?

R: La stella ebraica gialla e rossa e sopra “it” che significa italiano.

D: Quando vi hanno chiamato per andare a Melk, è stata fatta una selezione?

R: No, una selezione no. La selezione l’han fatta dopo due mesi, poi vi racconterò. Andiamo a Melk, una bella passeggiata…

D: Con cosa siete andati a Melk da Mauthausen?

R: Siamo andati dopo quattro mesi e mezzo.

D: Sì, ma con cosa? Con cosa vi hanno portato?

R: A piedi. Da Mauthausen a Melk è una bella … perché Melk rimane vicino a Vienna, invece Linz …. Arriviamo a Melk ed era un campo, vicino c’era l’aviazione e lì i bombardamenti erano dalla mattina alla sera. Lì però ci hanno dato la cuccetta, eravamo insieme agli altri, non insieme … come a Mauthausen, però sempre la stella ebraica. Non solo eravamo ebrei, eravamo pure martirizzati dai prigionieri stessi perché eravamo oltre che ebrei italiani, ci chiamavano traditori. Lì si doveva uscire dal campo per andare a lavorare, dicevano che non sapevano che c’erano i campi di concentramento, eccome se lo sapevano, perché noi dovevamo uscire dal campo, un bel pezzo di strada vicino alla ferrovia. La mattina c’erano i bambini che ci aspettavano le donne e gli uomini anziani, invece di buttarci un pezzo di pane, ci sputavano addosso e ci buttavano le pietre. Poi sulla ferrovia si doveva andare a lavorare alla cava, era sulla montagna. Si facevano delle gallerie di sette chilometri l’una che poi combaciavano con quelle altre e lì facevamo dei saloni, là si lavorava…. Avevano bombardato le cose e non c’era più niente. E invece siamo andati a lavorare là. Si lavorava dodici ore di giorno e dodici ore di notte.

Le dico un particolare, quello che mi hanno fatto.

Lavoravo di notte, una mattina entrò una delle SS dentro la baracca ha preso venti ragazzi e in mezzo mi ci ha messo pure a me, si rivoltò e mi ha visto che avevo la stella ebraica e mi ha messo in mezzo. Io avevo un vizio che quando ci chiamava il capoblocco o le SS, mi mettevo sempre per ultimo, perché volevo vedere quello che succedeva davanti, tante volte chiamavano per andare a prendere la legna, e poi quando era ora della zuppa, ti davano quei due cucchiai di zuppa per noi era tanto. Anche quella mattina mi misi di dietro in venti in fila, arriviamo dentro una baracca, entra per primo un francesino snello, entra dentro gli strilli! ”Oddio che stanno facendo lo stanno ammazzando?”. Gli strilli proprio, pochi minuti dopo questo poveraccio esce fuori con la mano sulla bocca. “Ma che ti hanno fatto?”. Ha aperto la bocca gli hanno tolto tutti i denti, non gliene hanno lasciato uno; io sono stato fortunato, al tredicesimo ha buttato le pinze, mi ha mandato via “Geh weg”, “Vattene” perché si era stufato. Me ne ha tolti solamente dodici, puoi immaginare, là cominciai a buttarmi giù.

D: Vi toglievano i denti per quale motivo?

R: Per divertimento. C’era un dottore che stava così, passano le SS che fai? Te lo trovo io il lavoro. Tutti questi disgraziati, tutti i denti, poi a me a un bel momento mi squartarono la bocca, li toglievano, li strappavano proprio e buttavano giù: la bocca si era gonfiata, sono stato qualche giorno senza mangiare, mi pulivo con la neve; ecco perchè c’è la selezione. In quel tempo che ero a Melk, il forno crematorio ancora non funzionava, quando morivano mille duemila, li mettevano sui camion e li portavano a Mauthausen e là facevano la selezione. Sapevo che c’era la selezione, spogliandomi mi detti un paio di schiaffi qua, andavo da quello “Dammi un paio di schiaffi, ma dammi i cazzotti”. Vedeva che stavo bene, andavo là facevo così, facevo vedere che stavo bene, mi fa che ancora potevo lavorare. Vado io là “Linz”… ho visto il capoblocco sussurrava alle SS, mi fa “Torna indietro” , mi hanno messo al posto di ad… Ci portano di fuori e ci buttano sopra i cadaveri, arriviamo a Mauthausen…

D: Scusa un attimo Mario, tu a Melk nelle gallerie che lavoro facevi?

R: Dietro le cave, scavavo le cose e portavo fuori con il coso; specialmente la notte la bufera, quando più in là faceva freddo di agosto, può immaginare. Ci misero sopra i cadaveri. Come arrivammo a Mauthausen, quelli che erano ancora in vita, per terra sul muro della morte e quegli altri li portavano vicino al forno crematorio e li buttavano là. Si è presentato uno con un libro faceva: “Tu che sei italiano, francese”; siccome io qualche parola l’avevo capita, avevo imparato, bisognava imparare sennò erano botte, ho capito che cosa è successo; io presi mi strappai la stella ebraica, misi in saccoccia e mi buttai sulla destra. Cominciai a darmi un paio di schiaffi … quando venne da me fece: “Tu? Italiano”. Mi guardò mi mandò in infermeria. L’infermeria era fuori del campo, sulla destra, che adesso ci hanno fatto i monumenti, c’è una grande buca.

C’era un certo Paolino, spagnolo, che era capo cucina, mi conosceva bene, come mi ha visto, “Oh, Jud italiano!”. E io dissi una parolaccia perché parlava bene italiano; gli dissi i morti. “Ma che succede?”. Gli spiegai, “Va bene ti chiamerò italiano solo, va bene?”.  Mentre stavo parlando con lui, mi fa “Vuoi una sigaretta?”. Lui aveva le sigarette, ma non fumava; era un colosso puoi immaginare, le SS gli facevano: “Permetti una parola?” Lui faceva boxe, tutte le domeniche faceva boxe e mandava al creatore. E va bene dammi una sigaretta, mentre stava per rompere un pacchetto, ancora mi ricordo il nome “Zorro” erano piatte piccole, da venti, passa una SS “Paolino, permetti una parola?” “Eccomi”. Mi ha dato in mano le sigarette e mi ha detto: “Pigliati una sigaretta e mi dai il resto”. Come si allontanò mi squagliai e gli rubai le sigarette. Da lì mi salvai. “Ma come ti salvi con le sigarette?”. Sì, sono stato quasi un mese vendendo le sigarette, farne commercio una zuppa e facevo, compravo e vendevo, insomma dormivo, non lavoravo, mangiavo, non pigliavo botte, stavo bene no?  Quando erano cinque giorni andavi in infermeria ti guardavano e io avevo qui sulle gambe tutte rotte le piaghe; quando sapevo che dovevo andare a fare la visita, pigliavo e mi grattavo poi davo una pulita con l’acqua poi mi rifasciavo andavo là altri cinque giorni, stavo bene. Quando è stato l’ultima volta “noch eine fünfe” meno male altri cinque giorni, poi ci ripensò e disse “Vieni qua indietro, metti il piede qua sopra”, disse bandito, “Sei bandito, tu ci provi è quasi un mese che sei qua”; mi prese il numeretto, quando pigliavano il numeretto eri fritto, lui quando andava a Mauthausen faceva la dichiarazione e ogni due domeniche c’era l’impiccagione. Esco fuori da questa baracca e chi incontro? Paolino. “Ahoo non mi saluti più? Mi hai fregato le sigarette ..”. Non mi ha detto niente perché ha capito. “E manco mi saluti! Piantala, non stare a rompere. Aohh che ti è successo?” “Solo tu mi puoi salvare”. Gli ho fatto: “Un’altra volta? Che ti è successo? Così raccontai tutto. “Cosa vuoi da me? Che mi sei figlio? Mi hai rubato le sigarette, io non ti posso fare niente”. Però lui mi guardava … “Guarda guarda va fa…” dissi e andai via. Dopo una mezz’oretta venne dentro uno e dice: “42230 vai alla baracca numero tot che ti vogliono”. “Va be’”, ho fatto io. Era martedì mi pare, mi impiccano oggi invece che domenica. Vado dentro “Guarda tu vai su domani mattina alle quattro c’è il trasporto che va a Melk. Allora mi salvai, andai su alle quattro, quattro e mezza e là mi salvai.

D: Ti hanno riportato ancora a Melk?

R: Sì, mi hanno riportato ancora a Melk e sono stato qualche altro mese. Sempre a lavorare e là era una cosa insopportabile.  Insomma arriviamo e poi da lì siccome si avvicinavano gli alleati ci hanno mandato a Ebensee.

D: Da Melk a Ebensee come vi hanno portato?

R: Sempre a piedi … quella è stata, era la marcia della morte: anche se un mio collega un mio compagno, stava per cadere non potevo sorreggerlo perché sennò le SS prima sparavano a me e poi a lui. Lì, quando cadevano, le SS davano una mitragliatrice e buttavano giù. Siamo arrivati manco la metà a Ebensee, siamo arrivati e nel blocco n. 8, blocco degli italiani, da lì non si doveva uscire dal campo per andare a lavorare perché a Ebensee c’era la montagna e sopra questa montagna c’era il campo di concentramento. Faceva un freddo enorme e là c’erano pochi passi e si usciva dalle baracche e si andava a lavorare dentro le gallerie e facevo le stesse cose. Passarono i mesi e non ce la facevo più. Quando è stato gli ultimi di aprile, io stavo dentro a lavorare e non ce la facevo, sono caduto su un masso e mi sono messo a sedere, è venuto il Meister che era civile e chiamò le SS, “Scusa sa che mi porti i morti qua? Quello non ce la fa manco a reggere un cacciavite”. Non mi ha detto niente, quando è stata l’ora che dovevamo entrare nella baracca invece di mandarmi nella baracca numero 8 mi mandarono nella baracca della morte. Come ti ripeto io camminai, andai proprio in fondo in fondo, mi appoggiai alla baracca però sono caduto, sono svenuto, sopra di me sono caduti altri due, ma erano morti. Insomma erano tre giorni che non potevo neanche muovermi, hanno cominciato a entrare dentro con le barelle a prendere i vivi, i cadaveri e avevano fatto le fosse comuni; per eliminare più persone, hanno fatto le fosse comuni e venivano, buttavano e buttavano; mo’ toccava al gruppo vogliamo dire mio, ho aspettato, sentivo che strillavano in tedesco, in francese non capivo, perché avevo perso la memoria. Non parlavo stavo con gli occhi sbarrati e non parlavo, questo me lo ha raccontato un mio amico, un carissimo mio amico. Mi trovai alla baracca numero 8, il 2 o 3 maggio mi ritrovai con otto coperte sopra. E non capivo niente, vedevo che tutti camminavano con il pane, avevano dato l’assalto ai magazzini e quello è stato un male, perché morivano per mangiare. Effettivamente io quando vedevo da mangiare io lo buttavo anche se non capivo, vedevo e un amico mio un certo Ciccio, mi dette una botta, lui stava bene grazie a Dio, mi dette una botta e mi fece cosare.

E là non capivo più niente, non mangiavo, non capivo più niente, quando il 5 maggio è stato liberato Mauthausen; invece Ebensee è stato liberato il 6 maggio, alle 14.30 entrarono gli americani sfondarono, vedevo, però non ho avuto quella gioia di piangere, dicendo sono libero, non capivo nulla. Allora questo amico mio mi ha portato alla tenda che hanno allestito mi hanno portato in città, dove mi hanno spogliato, lavato e pesato. Pesavo ventisette chili e due etti. Hanno requisito case, hanno requisito tutto quanto, però non c’era più posto e mi hanno mandato al vagone della Croce Rossa. C’era un treno della Croce Rossa, dopo cinque giorni mi hanno preso e mi hanno portato in una villa .. pagherei un milione a vedere quella villa, francamente, una villa, figlio mio, avevo la mia cameretta, una ragazza che mi custodiva, mi lavava, mi dava da mangiare mi portava a spasso, però non capivo niente. La mattina passava il comandante americano con l’interprete e mi domandava come stavo, però io guardavo con gli occhi sbarrati e non …. Dopo ventitre, ventiquattro, venticinque giorni, una notte m svegliai di soprassalto, feci così proprio, tutto buio, misi la mano di dietro e accesi la luce, mi guardai intorno, lenzuola pulite bianche, pigiama … “Signore Iddio mio, ma dove sto qui?” Mi alzai, aprii una porticella e c’era una vasca da bagno, mamma mia, apri la finestra, tutto verde, prato bello, guardai in cielo tutto stellato, stavo con le mani così e guardai in cielo, feci uno strillo da bestia, uno strillo, ma forte, la ragazza che stava nella cameretta a dormire, ha sentito questo strillo ed è venuta là, ha aperto la porta e mi vedeva che stavo così. Poi io mi rivoltai e vidi questa ragazza, e in tedesco gli feci “Hallo Fräulein, es ist fertig Krieg”. “Signorina, ma è finita la guerra? Io sto bene? Ritorno a casa mia?”. Allora questa qua vedendomi così venne là e mi fece: “Sì, sei ancora vivo grazie a Dio”. Mi abbracciò, feci un pianto dirotto erano mesi che non mi usciva più una lacrima anche se mi menavano non usciva più una lacrima. Questa poveraccia mi ha ricoperto bene, mi accarezzava, mi è andata a prendere un bicchiere d’acqua, mi ha calmato e mi sono addormentato. Quando è stata la mattina che è venuto il comandante americano, stavo sdraiato e allora che è successo, venne e mi ha fatto le stesse domande, dice: “Come stai?” “Aho’, io sto bene! Io torno a casa mia, grazie a Dio, grazie a voi, ritorno a casa mia”. E il comandante con le lacrime, mi abbracciò. Insomma, sono stato quasi due mesi, ma mi hanno trattato benissimo, gli americani mi imboccavano.

D: E quando sei rientrato in Italia? Come?

R: Poi sono rientrato nel campo, perché dovevamo fare… si radunava tutti gli italiani e si andava via. Io sono ritornato a Roma il 27 giugno.

D: Che percorso hai fatto e con che cosa?

R: Siamo partiti con i camion fino a Bolzano, fino a che siamo rimasti in mano agli americani con i guanti bianchi. Come siamo arrivati a Bolzano, niente. Sì, c’era la Croce Rossa, c’era un panino con il formaggio e via siamo montati un’altra volta sul camion per andare a Bologna perché non c’erano treni a Bologna, montai sul camion e svenni. Fermarono il camion venne la Croce Rossa e svenni .. “Portiamolo all’ospedale questo”. “No, no”, feci io. “Sono vicino a casa, vado a casa mia all’ospedale”. Allora l’amico mio che stava con me siamo partiti insieme e siamo ritornati insieme. Fece Mario: “Ci vado io a casa. Glielo dico io che sei vivo”. Perché dopo l’ho saputo: mia madre mi credeva morto, perché nel nostro rione qui a Roma avevano messo un cartello dicendo che Mario Limentani era deceduto a Mauthausen. Mia madre mi credeva morto.

In quei tempi quando moriva un figlio, un marito o quello che sia si vestivano di nero, adesso non si usa più. Mia madre invece non si era vestita di nero e quando la vedevano, dicevano “Ma perché? Figlia mia bella, il lutto lo porto al cuore, non al vestito”. Pareva che se lo sentiva questa donna. E mi hanno portato all’ospedale a Bolzano, non lo so quale ospedale, era un grande ospedale. Là sono stato un po’ di giorni, quando è stato il quinto giorno non ce la facevo più e sapevo che c’era un treno che andava a Bologna andai dal coso e dissi: “Guardi dottore mi dia il biglietto che io voglio andare”. “No, ancora sei debole”. “Guardi sto bene, sia buono”. Insomma gli rompevo gli stivali fino a che mi hanno dato. Come sono uscito dall’ospedale, se stavo altri quaranta giorni là morivo io non ci stavo, mandavo per aria tutto.  Ritornai a Roma, andai a Ponte Garibaldi. Siamo arrivati alla stazione Tiburtina, non avevo i soldi e non sapevo dove andare. Andai in un ufficio, “Guardi io vengo dalla Germania”; dice “Embe’?”. “Qualcuno mi porterà a casa mia ..”. “Dove abiti?”. Abitavo in via Arenula. “Aspetta adesso, viene la camionetta ti faccio portare a casa”. Sono passate due ore nessuno mi prendeva, all’ultimo mi sono stufato ho preso il tram; non ho pagato il tram, non ho pagato niente e sono andato a casa.

Grazie a Dio ho ritrovato tutti quelli che ho lasciato.

D: Mario, durante il tuo periodo di deportazione nei campi hai trovato anche delle donne deportate?

R: Sì, a Mauthausen c’erano delle donne. Erano al campo 3 ma si vedevano poco.

D: Hai trovato anche dei religiosi deportati, dei sacerdoti?

R: Sì, sì mi ricordo uno che si chiamava … Mi ricordo che aveva fatto il presidente qui .. Era prete poi si è spogliato. C’erano dei sacerdoti, dei preti e pure loro prendevano le botte come noi.

D: E dei ragazzini, dei bambini ne hai visti?

R: Purtroppo io posso dire tre cose solamente, perché se dovessi dire tutto ciò che ho passato io, tutto ciò che ho visto io … Già non parlo mai perché farebbe male a me stesso, quando vado per le scuole non racconto; racconto solamente tre cose.

Un giorno il comandante di Mauthausen portò il figlio che compiva diciotto anni ha preso quaranta deportati li ha messi sul muro del pianto, ha preso la sua rivoltella e l’ha messa in mano al figlio e il figlio uno per uno li ha giustiziati, per far vedere che lui era un uomo, non noi.

La seconda volta entrò uno delle SS si rivoltò e ha visto un gruppetto di ragazzi piccoletti, tre anni e mezzo, sei, cinque anni, si soffermò a guardare poi prese il più piccolo, si mise a giocare un po’ poi con tutta la sua forza lo buttò sui fili spinati. Quel bambino è rimasto appiccicato lì. “Che cosa ha fatto di male quel bambino?”.

Un’altra volta entrò uno delle SS ubriaco, cominciò a sparare, dopo pochi secondi è caduto ubriaco, ne uccise quattrocento.

Queste sono le tre cose che io dico solamente, altro non posso e non voglio dire perché sono cose che c’è rimasto impresso, sono passati 57 anni e mi pare sempre di essere stato lì. Io adesso ho parlato con voi, mi avete interrogato, io questa notte non dormo. Perché mi viene tutto in mente ciò che io ho detto, molte notti io mi sveglio mi pare di stare lì.  Mi pare di stare nel campo e vedere con gli occhi i maltrattamenti che hanno fatto ai miei compagni, quello che hanno fatto a me. E’ una cosa indimenticabile, non si può scordare, io vado per le scuole, porto i ragazzi a Mauthausen, non lo faccio per me ma lo faccio per un suo avvenire, per mettere in guardia che oggi domani non possa più succedere una cosa simile.

D: Come si chiamava l’amico che ha fatto tutto il percorso con te?

R: Questo Ciccio ha fatto con me, poi un altro Davide, però disgraziatamente siamo tornati in quattro qui e sono rimasto solo io.

D: E di tutto il trasporto che siete partiti, in quanti siete tornati?

R: 480, e siamo rimasti in tre, quattro, uno sta a Torino, erano due fratelli, erano i nipoti di Badoglio. Partiti con noi. Adesso uno sta a Torino, gli ho telefonato dopo 52 anni, il fratello è ritornato Pietro si chiamava, ha avuto un incidente con la macchina è morto, e questo è rimasto che io a un congresso nostro si parlava del più e del meno, sta a Torino, sta con me, e mi dette il numero del telefono. Quando ritornai a Roma gli telefonai, dice: “Ma chi sei?” “E’ inutile che ti dico il nome. Io mi ricordo di te perché siete due fratelli”. “Ma tu chi sei?” “Io ti dico un particolare”. Io gli dissi quel particolare e non ho neppure finito che si è messo a piangere.

Isola Luigi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Isola Luigi, sono nato a Varazze il 30 giugno 1925. Sono stato arrestato il 28 di luglio del 1944, sempre a Varazze, da un manipolo di bersaglieri. Fui condotto subito alle prigioni locali, interrogati dagli ufficiali dei bersaglieri. Alla sera ci portarono alle carceri di Sant’Agostino a Savona, sotto la giurisdizione delle SS tedesche. Rimasi a Sant’Agostino circa una settimana, dopo una settimana ci trasferirono a Genova, ci dovevano portare alla casa dello studente; senonché durante il tragitto, siccome ci misero sopra una corriera – le corriere di quell’epoca andavano a gas – a metà strada mancò la bombola del gas e rimanemmo fermi a Cornigliano. L’autista si diede da fare per sostituire questa bombola, ma si vede che il tempo è passato perché non la trovava ed è venuto tardi; finché siamo ripartiti e quando siamo arrivati alla casa dello studente, che era praticamente chiusa, non ricevevano più nessuno, e ci dissero che dovevamo essere portati a Marassi.

Infatti ci portarono nel carcere di Marassi a Genova. Anche qui rimasi mi sembra otto o dieci giorni, non di più. Dopo dieci giorni un mattino vennero le SS e ci tirarono fuori dalla prigione, noi eravamo convinti di andare all’interrogatorio alla casa dello studente. Invece quando siamo usciti fuori nel piazzale mi ricordo c’erano dei pullman che ci aspettavano, tre grossi pullman e insieme a degli altri, che erano forse delle altre celle, ci caricarono su questi pullman. E partimmo per la volta di Milano. Il viaggio fu …

D: Scusa un attimo Luigi perché ti hanno arrestato?

R: Venni arrestato perché mi incolparono di far parte di una cellula comunista. Mi arrestarono per quello, io mi scuso di non averlo detto prima, perché dovrei fare dei passi indietro per spiegare come diventai comunista, per dire, diventai comunista, avevo 17 anni potevo essere, insomma …

Dunque la mia infanzia purtroppo è stata un’infanzia un po’, non dico brutta ma una infanzia da povera gente. Era un’infanzia da povera gente, mio padre e mia madre lavoravano tutti e due, mia madre faceva la lavandaia, mio padre lavorava alla Tubi Ghisa di Cogoleto, nell’andare a lavorare un giorno cadde di bicicletta e purtroppo morì. E restammo io mio fratello e altre due mie sorelle ad aiutare la mamma. Io ero ancora un ragazzino, avevo circa 10 anni. A 14 anni mi misero a lavorare nei cantieri Baglietto; nel frattempo scoppiò la guerra, mio fratello fu richiamato, fu mandato in Grecia, dove purtroppo morì anche lui, in un combattimento.

Io avevo in casa mia un giovane che faceva il tubista all’officina gas dove lavorava prima anche mio fratello. Il giovanotto che era di qui, di Savona, dormiva e mangiava da noi, veniva a casa il sabato. Propose al proprietario dell’officina gas, visto che mio fratello era mancato, di prendere me al suo posto. E andai a lavorare all’officina gas. Qui conobbi bene questo giovanotto, che io in casa insomma si conosceva così ma le sue idee, le sue cose non le aveva mai confessate e conobbi che era un fervente comunista, proprio un militante, che poi infatti fu fucilato con i tredici qui, lo presero e lo fucilarono qui in Valloria, insieme ad altri tredici. E sovente mi parlava di questo comunismo, di questa cosa, come doveva essere composto, la società non era giusta, insomma mi convinse e divenni anch’io partecipante a queste cose. Infatti alla sera si andava ad attaccare i manifesti, a scrivere, si cercava di fare quello che si poteva fare. Mi fecero la spia, che a volte si dice chi trova un compagno trova un tesoro, io purtroppo trovai un serpente, mi fecero la spia e mi arrestarono.

Mi arrestarono quella sera del 28 di .. E feci tutta la trafila.

D: Scusa Luigi, tu non hai mai subito quindi interrogatori?

R: Gli interrogatori li ho subiti sì, la prima sera, lì a Varazze, poi basta, poi non ho mai subito un altro interrogatorio, non ho mai avuto qui sevizie e cose non ne ho mai avute; qui sono sempre stato prigioniero, ma con i nostri, diciamo le nostre ansie, le nostre cose perché si sapeva che essendo in prigione sotto le SS qualunque cosa poteva succedere fuori potevano anche prenderci come ostaggio e metterci al muro, fucilarci.

In sostanza partimmo per Milano dal carcere di Marassi a Genova. Il viaggio fu un’odissea, fu un’odissea perché chi guidava i camion erano degli ufficiali tedeschi e pure se non erano pratici di viaggi, non erano pratici dell’itinerario, non eravamo ammanettati, eravamo messi così tranquilli; l’unica cosa che mancava era il mangiare e il bere. Le cose per andare a fare che bisognava aspettare che loro fossero comodi. Infatti io avevo ho parlato, avevo con me una, sul sedile avevo una signorina che diceva di essere una giornalista, poverina se la fece addosso perché non la lasciarono scendere, se la fece …

D: Scusa Luigi quindi non eravate solamente uomini?

R: Eravamo uomini e donne. Poi adesso vengo ad un particolare che … Vuol dire che si arrivò persino in un punto che sbagliarono strada, presero un fiumiciattolo, una cosa che era asciutta la presero per una strada, ci infilammo lì dentro e poi dovemmo tornare indietro. Oltre a tutto venivano i caccia a mitragliare, allora ogni tanto si scappava, si scendeva, ci facevano scendere; io mi ricordo che in un momento di quelli lì ho cercato di scappare, mi sono infilato in un cespuglio. Quando han chiamato non mi sono presentato; senonché uno, forse senza pensarci, ha detto, siccome avevo un vestito un po’ da marinaio, dice “Il marinaio dov’è? Il marinaio dove è andato?” E allora ho dovuto far finta di abbottonarmi i pantaloni e dire che ero andato a fare, dico “Sono qui, sto arrivando, un momento”. E va be’.

Si arrivò in un punto dove c’era da attraversare il Po; eravamo a San Benedetto del Po, c’era da attraverso ‘sto ponte che mettevano solo di sera, lo facevano di chiatte perché quello che c’era normale era stato buttato giù. Oltre tutto sì che lo mettevano di sera ‘sto ponte, ma prima passavano tutti i militari che venivano in giù, tutte le colonne tedesche, poi se c’era tempo si passava noi. Insomma rimanemmo lì a San Benedetto due giorni, ci infilarono in una stalla e mi ricordo che in due giorni che siamo stati lì ci hanno dato un pezzettino di formaggio parmigiano e una cosa di pane. E una sera mentre eravamo lì c’erano marito e moglie, che oltretutto poverini li avevano arrestati mentre andavano al lavoro, avevano lasciato a casa i due bambini con la nonna, due bambini piccoli con la nonna e li avevano arrestati e non avevano più saputo niente. Mi ricordo che si sono messi a cantare una canzone genovese, non le dico la commozione che venne a tutti.

Dopo due giorni, una sera allora ci imbarcarono, si passò il ponte. Si passò e si arrivò a Milano, nella mattinata, nei giorni che si arrivò a Milano e ci portarono a San Vittore. A San Vittore ci misero in uno stanzone, eravamo parecchi in quello stanzone lì, e mi ricordo come dicevo che era forse il 15 e il 14 di agosto e c’era un temporale; noi lì dentro si vedeva ‘sti lampi, si sentivano ‘sti tuoni, speravamo sempre che fossero gli alleati che stessero arrivando, perché dicevano c’era sempre radio bugliolo che diceva sempre “arrivano, arrivano, i tedeschi sono in rotta, son di qua son di là”. Beh lì a San Vittore siamo stati anche poco, forse cinque o sei giorni. Un mattino ci chiamano e ci portano fuori, ci caricano sui camion, camion di quelli militari, ci hanno stivato dentro con piedi, calci, pugni, han fatto tre camion, … si parte dove si va non si; e poi ci han portati con destinazione era Bolzano mi ricordo.

D: In questo trasporto c’erano ancora delle donne con te?

R: No, in questo trasporto eravamo tutti uomini; non ce n’erano donne; le donne le ho riviste poi a Bolzano, perché a Bolzano quando sono andato io non era un campo di concentramento, ma quando sono andato io più che altro era un campo di smistamento, perché a Bolzano arrivavano tutto quello che i tedeschi rubavano in Italia, macchinari, di tutto, arriva lo immagazzinavano, lo catalogavano poi di lì si imbarcava sui camion e si portava alla stazione e si caricava sui vagoni. C’era un blocco a parte che arrivava la gente, la mettevano in questo blocco e quando c’era il numero sufficiente facevano i treni da mandare in Germania.

D: Cosa ti ricordi tu del campo di Bolzano?

R: Io mi ricordo che quando sono arrivato al campo di Bolzano .. avevano detto prima che era un autocentro, dove c’era un autocentro italiano, lo avevano requisito e avevano fatto questo campo. E c’erano quattro enormi padiglioni, fatti a tetto, come si entrava c’era una villa, una palazzina, poi c’erano ‘sti padiglioni, poi c’erano i gabinetti che li avevano fatti, avevano fatto una tettoia, avevano fatto dei buchi con una tavola, quelli erano i gabinetti, perché non c’era ancora … Poi c’era un’altra grossa palazzina che lì serviva da magazzino. Sul fianco di qui c’erano le cucine, c’erano dei cosi vuoti che poi in uno di quei sgabuzzini abbiamo fatto la cosa del dentista, non so a chi aggiustavano i denti o se gli serviva per poi togliere i denti, e dietro ancora c’erano i laboratori, la falegnameria e l’officina. Lì hanno cominciato poi a selezionarci. Piano piano siccome avevano i nostri documenti, a seconda del mestiere, delle cose che si aveva. Infatti c’era la baracca a, b, c e la baracca d. La baracca d era quella dove avevano messo un po’ di recinto perché poi c’era un piazzale enorme; avevano messo un po’ di recinto, lì mettevano quelli che arrivavano e che erano di passaggio, quelli che non servivano, quando li avevano selezionati. Poi c’erano le altre baracche che servivano per la falegnameria, ognuno aveva la sua baracca; e io fui messo nella baracca dove c’erano i meccanici, gli idraulici, quella roba lì, facevo l’idraulico e fui messo lì.

Fui destinato come dico nella baracca lì dei lavoratori meccanici.

D: Ricordi che blocco era?

R: Blocco a, era il blocco a, il primo. Poi c’era la b, la c, poi c’era quell’altro dove, come dico, mettevano quelli che non servivano. Infatti di noi, dei miei amici, eravamo in quattro, no eravamo in cinque e lì vi fu un po’ un mistero perché ce n’era uno che faceva il panettiere, non serviva, quindi lo misero; un altro che era un .. come ho detto, aveva un’officina di auto … non gli serviva forse neanche lui; ci tennero in tre, io che facevo l’idraulico, no in quattro ci tennero, io che facevo l’idraulico, due che facevano il falegname e uno che non faceva niente, uno che era un manovale, quello lo tennero.  Questo lo mandavano a caricare e a scaricare, e lì cominciammo a fare i lavori.

Come dico si arrivò lassù che non c’era niente. Alle finestre di questi cameroni non c’era niente; noi abbiamo cominciato a fare le grate. C’era era un fabbro che era di Udine, era una cannonata e avevamo il capo che era un altro fabbro di Milano, era un dirigente del partito comunista; venne il momento che dovevano deportarlo anche lui fu fatto scappare.  Io ero ancora lì.

Devo dire che abbiamo fatto tutte queste grate, abbiamo messo tutti i ferri che sporgevano in fuori per mettere poi i reticolati. Quando abbiamo finito quello poi venne il momento che si doveva ripristinare tutto l’impianto dell’Alfa e allora mi ricordo che c’era un maresciallo che si chiamava maresciallo König, mi diceva “Dimmi cosa ti serve, vado a Milano e vado a prendere gli attrezzi”. E infatti andò a Milano, prese un cavalletto, prese le filiere, dei tagliatubi, prese tutto quello che poteva servire. E cominciai a fare questi impianti, cominciammo a mettere un po’ d’acqua nelle baracche, a mettere un lavandino nel cortile, cominciammo a mettere l’acqua nei gabinetti, perché nei gabinetti non c’era niente, come dico era un buco, e poi c’avevano messo sopra una tavola, e lì si andava, ci si teneva così. E cominciai a fare tutti questi impianti. Poi portarono un autoclave, me la ricordo, un’autoclave che era rotta; io l’aggiustai, però mancava un manometro, che era spaccato. E ‘st’ufficiale mi disse: “Adesso quando vado a Milano cerco di procurarvelo, cerco di procurarvi ‘sto manometro”; avevamo girato dappertutto lì si vede che non erano ancora riusciti a trovare un manometro. 

Nel frattempo, come dico, lì a Bolzano non si stava male, non si stava male perché il rancio era quello che era, però c’era chi poteva pagare e si faceva dare, facevano il supplemento rancio. E allora, specialmente nella baracca lì dove ero io c’erano tanti che avevano qualcosa e pagavano anche per noialtri che eravamo indigenti e allora si prendeva sempre un po’ di più di zuppa. Mi ricordo che facevano quella zuppa di orzo, soltanto che non la lasciavano cuocere bene, allora si mangiava ‘sta zuppa e cresceva nella pancia, dei dolori di stomaco. E poi alle volte la sera ci davano una fetta di polenta, polenta dura, la facevano bollire tanto che diventava, ti davano una fetta di polenta e una fetta di marmellata, dura anche quella. E quello era il rancio della sera.  E lì, come dico, ci stetti fino a novembre.

D: Scusa Luigi, ti ricordi il tuo numero di immatricolazione di Bolzano?

R: Di Bolzano non ne avevo, non ce n’erano numeri di matricola. A Bolzano, chiamavano ancora per nome; hanno cominciato a darci poi il numero di matricola a Mauthausen.

Io mi ricordo che un giorno lì, non era ancora, come dico, un campo di concentramento, però un giorno uno gli venne la cattiva idea di scappare, lo presero con i cani, con i cani lo portarono in mezzo a quel piazzale, ormai era più morto che vivo, tutto azzannato da questi cani; misero un palo in mezzo al campo e lo legarono lì, e lo lasciarono lì. Io mi ricordo che lo abbiamo sentito gridare per tre giorni, senza bere, senza mangiare, giorno e notte lì, sotto il sole se c’era il sole, sotto l’acqua se c’era l’acqua, stette due notti senz’altro, e poi mi sembra ancora un altro giorno. Ma due notti senz’altro che non si poteva dormire perché lo sentivamo gridare, finché poi morì poverino. E quello fu l’unico episodio che vidi lì che mi impressionò.

D: Visto che tu hai girato tutto il campo di Bolzano, ti ricordi del blocco celle?

R: Non c’era ancora il blocco celle. L’hanno fatto dopo il blocco celle.

D: Dicevi che nel blocco A hanno raggruppati tutti i meccanici, nel blocco B e nel blocco C chi c’era?

R: C’erano gli altri che facevano … c’erano i cuochi, c’erano quelli che lavoravano nel campo, c’erano gli inservienti, c’era tutta quella gente lì. E lì arrivavano i pullman. Io mi ricordo che andavo a vedere se vedevo gente di Varazze; infatti ne vidi due, poi non ritornarono lì, quattro gemelli, due si chiamavano Piombo e due Cinelli, erano gemelli che abitavano a Varazze, non son tornati, sono morti tutti e quattro. Mi ricordo che li vidi arrivare con un pullman; lì arrivavano pullman misti: donne, bambini, non li separavano, li mettevano nella baracca lì, che poi dovevano essere trasportati. Infatti prima che andassi via io fecero mi sembra due trasporti, due volte partirono questi qui.

Quando toccò poi al mio trasporto …

D: Prima del tuo trasporto due cose importanti, quando tu eri dentro a Bolzano hai visto se c’erano anche dei religiosi?

R: Sì, c’erano anche religiosi; c’erano i Geova anche e c’erano tanti tanti zingari. Tutti, bambini, donne, zingari ce n’era tanti. Sì religiosi ce n’erano; sul mio convoglio uno l’avevo nel mio vagone, ma poi ce n’erano altri tre o quattro che erano preti, uno era sul mio vagone che era un prete di Genova. Quando è stato il momento che io dovevo partire …

D: Scusa sempre Luigi, dicevi prima che un funzionario del partito, che era dentro nel campo …

R: Un mattino ci chiamarono a far l’appello, ci portavano fuori a far l’appello poi ci chiamavano per nome, e questo non rispose. Allora cominciò il trambusto: ci infilarono di nuovo dentro la baracca, ci chiusero, in genere non ci chiudevano. Cosa è successo, cosa non è successo? Non si sapeva perché non si sapeva; poi, quando tutto si calmò e siamo andati di nuovo in officina, disse perché  questo che era scappato, perché era il capo officina oltretutto non c’era più, disse che avevano procurato una scala, gli avevano buttato la scala, aveva saltato il coso e c’era una macchina che lo aspettava. Altrimenti da Bolzano non si andava via.

Da Bolzano coi cani che c’erano non si andava via.

Domanda: Ti ricordi il nome di questo?

R: Non me lo ricordo, eppure ce l’ho in mente, ce l’ho in mente da qualche parte.

D: E di dov’era questo?

R: Di Milano. Era un milanese, un fabbro in gamba anche lui; e mi ricordo che faceva cornici di ferro battuto per ‘sti ufficiali, per essere un po’ … Ce l’ho nella mente ma non mi viene in mente, è l’unico forse che mi è rimasto nella mente questo qui.

D: Luigi, com’è che facevano l’appello lì a Bolzano?

R: A Bolzano ci mettevano baracca per baracca sul campo e lì chiamavano per nome, si rispondeva “presente”. L’appello era una cosa semplice, non avevamo, come dico, numero di matricola, come se fossimo stati in prigione, come ritorno a dire.

Quando venne il momento che dovevo partire anch’io, mi misero nella baracca naturalmente, mi spostarono; allora si sapeva che c’era la spedizione, finito un lavoro quando non si serviva più si mandavano lassù. Però non eravamo scontenti di andare in Germania perché eravamo convinti di andare a lavorare. Nessuno sapeva niente di cosa succedeva, di quelli che erano in Germania cosa succedeva, si va a lavorare si va a lavorare. Infatti mi ricordo che quelli del blocco lì ci diedero una scatoletta di carne, perché se le procuravano, ci diedero una maglia di lana, dicendoci “lassù farà freddo”, la carne vi servirà magari nel trasporto, che poi ci si avesse potuto parlare e dire tenetevela per voi che a noi non serve a niente qui perché qui ci portano via tutto, quindi è inutile che ci date la maglietta di lana, qui non serve più niente.

Ci misero in colonna, ci portarono alla stazione di Bolzano dove c’era la tradotta che ci aspettava. Questa tradotta l’avevano, c’erano i finestrini con le sbarre va bene, dove non c’erano avevano tirato dei reticolati e lì cominciammo a vedere cos’era la disciplina tedesca, perché ci infilarono dentro a calci, pugni, tutto quello che poteva capitare ci infilarono dentro. E lì c’erano donne e bambini, tutto, lì c’era tutto. Lì non c’era selezione, la selezione c’era soltanto per chi non lavorava e poi dentro tutti insieme. Fatevi conto in un vagone che non ci si poteva neanche sedere da tanti che eravamo pigiati dentro. Quindi non ci si poteva sedere, non si potevano fare i nostri bisogni perché quello, sì, si facevano, un bel momento bisognava farli ma farli tutti insieme del vicino, senza mangiare e senza acqua. Sì, avevamo la scatoletta di coso, ma la scatoletta di carne con cosa si apriva? Con i denti, la scatoletta di carne di latta non si apre, il più era la sete però. Mi ricordo che in ogni stazione che si fermava c’era qualcheduno che sapeva il tedesco e diceva “Gridate Eine Miski Wasser” e gridavamo sì “Eine Miski Wasser”, ma nessuno si muoveva.

Perché il viaggio, noi non si sapeva che si andava a Mauthausen, ma quando poi si è calcolato da Bolzano a Mauthausen, il viaggio è una stupidata, non è distante, non so quanti chilometri farà ma non è una distanza eccessiva. Un giorno abbiamo messo più di cinque giorni, cinque giorni e quattro notti, sì perché passavano i convogli, ci infilavano in un coso morto finché passavano convogli, quando la linea era libera noi si andava. E si stava delle giornate fermi in una stazione per quello che si gridava che avevamo sete; la fame sì, ma la sete … Meno male che dopo uno o due giorni si mise a piovere, allora con un po’ di carta, con un po’ di cartone abbiamo fatto dei canalini e chi aveva un bicchiere, qualcosa, prendevamo quest’acqua che veniva giù dal tetto del vagone. Insomma siamo arrivati a Mauthausen in una sera di novembre, una serata nuvolosa, pioveva, piovigginava, pioggia fitta, un freddo cane; metà siamo scesi dai vagoni, metà li abbiamo tirati giù e li abbiamo messi sulla panchina, se ne erano andati. Metà erano andati.

D: Sul tuo trasporto c’era questo sacerdote? Ti ricordi chi era?

R: Il nome non me lo ricordo, ma mi ricordo che mi raccontò il fatto, perché dice: “Io sono qui per una mia parrocchiana”. Gli aveva detto che si erano rotte le calze e che non trovava le calze e lui per scherzo gli aveva detto “Te le dà Mussolini le calze”, questa aveva fatto la spia e lo avevano portato. Non mi ricordo. Era un parroco di Genova.

Arrivammo a Mauthausen ci scesero, come dico, quelli che scesero, gli altri li tirammo giù e li mettemmo lì; ci fecero incolonnare ci portarono su, mi ricordo che come si uscì dalla stazione, Mauthausen rimane un po’ su una collinetta e tra la nebbia si vedeva un riverbero rosso, noi abbiamo detto sarà un’officina, sarà una fonderia, sarà qualcosa, ci portano lì a lavorare.

Poi dopo venimmo a sapere che era un crematorio che funzionava.

Arrivammo al campo di Mauthausen, ci fecero fermare su un piazzale ci fecero attendere e allora cominciammo a vedere qualcheduno vestito con queste zebre che girava lì per il campo, veniva lì furtivamente, cercava di farsi capire. Voleva sapere se avevamo degli anelli, degli orologi, se avevamo qualcosa da dare a loro poi ce li avrebbero restituiti, perché altrimenti i tedeschi ce li portavano via. Qualcheduno glieli diede; io non avevo niente non gli diedi niente, poi sparirono, anche le scatolette di carne gli abbiamo dato, nessuno era riuscito ad aprire queste scatolette. Ci diedero l’ordine di spogliarci, di mettere la roba in un angolo che poi alla fine della disinfezione l’avremmo ripresa. Andammo dentro tranquilli perché non si sapeva ancora che tante disinfezioni erano camere a gas; in un salone grande, ci saremo stati in un migliaio di persone, tutto un treno era stato caricato … Stavo dentro e c’erano tutti i cosi dell’acqua, in quel momento aprono l’acqua, acqua gelata, fredda, fredda e non ci si poteva spostare. Un bel momento acqua fredda finita, acqua calda, bollente, anche lì peggio che l’acqua fredda perché l’acqua fredda resisti, ma l’acqua bollente. Bene, un po’ di tempo acqua fredda, acqua calda, acqua fredda, acqua calda, poi entrano due o tre con dei rasoi e qui la pelata. Pelata completa … Mi ricordo che ‘sto prete l’avevo vicino, dice: “Io ho una certa età ma dice non mi sarei mai creduto di vedere degli spettacoli così, di dover finire così con donne bambini nudi qui”. Dice: “Io non avrei mai detto che si arriva a questo punto qua”.

Bene ci pelarono e poi ci buttarono fuori. Manganellate ancora niente, ci buttarono fuori sul piazzale nudi, vestiti non c’erano, nudi. Un’ora sotto la pioggia al freddo, nudi sul piazzale. Poi ci portarono alla baracca, mi ricordo che andammo alla baracca 27; sapemmo dopo che era una baracca di eliminazione perché le baracche avevano quel dato posto che erano dei castelli a tre, si stava due per castello il minimo, due, due e due, e lì c’eravamo quattro, cinque anche più seduti uno sopra l’altro, perché, come dico, ci infilarono dentro anche in quella camera come ci si stava, chi era per terra, chi era, sempre nudi, nudi. 

Alla notte allora cominciarono le bastonate. E chi ci comandava a noi, chi era il capo blocco, chi era il capo campo, era un ex, uno spagnolo preso in Spagna, gli mancavano tutte e due le orecchie, gliele avevano fatte cadere, gliele facevano congelare poi con la bacchetta tac, ti tenevano fuori al freddo. Ed era uno dei pochi che era ancora superstite lì e faceva quel lavoro lì, anche lui era diventato; per la sopravvivenza si faceva di tutto.

Di notte entravano dentro, secchi d’acqua freddi, tubo di gomma, cinghie, cinghiate, insomma che al mattino quando ci si svegliava ce n’era sempre sei-sette, dieci partiti, li tiravano fuori. Piano piano ci siamo fatti il posto per dormire. Piano piano ci siamo fatti il posto, si faceva così. Quattro giorni e quattro notti nudi, completi senza vestiario e senza niente; si usciva, ci chiamavano al mattino dieci per volta, ci facevano infilare nella doccia, c’erano quelle docce rotonde così che venivano giù, si infilava sotto col busto, quello aveva l’acqua gelata, c’era quello col tubo, se uno si tirava fuori perché … tubate. Poi aveva il fischietto “pirilì” e si usciva. Dieci, ne entravano altri dieci, si andava fuori dalla baracca nudi. Allora ci si metteva due a due, ci si brancava così, a fregarsi la cosa per scaldarci. Dopo quattro giorni, ci hanno dato un paio di mutande, ma non mutande di lana, mutande di cotone lunghe, però di cotone e una camicia e basta. Scalzi e una camicia.

Al mattino ci hanno incolonnato e ci hanno portato in un ufficio. In questo ufficio ci chiamavano dentro uno per uno, ci hanno fatto una fotografia, prima davanti poi di profilo, ci hanno chiesto tutti i dati che volevano sapere: quando si è nati, di che religione eravamo, tutto quello che si poteva dire, il mestiere che si faceva. E poi ci diedero il numero di matricola, ci diedero una striscetta di tela dove c’era scritto la nazionalità, Italy, e dove c’era il triangolo; io avevo il triangolo rosso perché i deportati politici avevano il triangolo rosso.

D: Il tuo numero di Mauthausen?

R: Il mio numero di matricola me lo ricordo anche in tedesco perché me lo fecero imparare, era: “Hundertdreizehnneun”, quello era il mio numero di matricola. E quando si uscì, l’ufficiale che era lì ci  disse: da oggi voi non vi chiamate più per nome, voi avete soltanto un numero, dovete rispondere soltanto con questo numero, altrimenti son castagne.

Io mi ricordo che ci portarono poi di nuovo al blocco, e al mattino fecero l’appello. Allora cominciò l’appello vero e cominciò a fare i numeri. Quando arrivò il mio numero – ero zero completo  di tedesco, non sapevo proprio niente – quello là continuava “”Hundertdreizehnneun”. Allora si degnò un bel momento … Isola Luigi, “Presente”, “Oh, jawohl”; mi fece avvicinare, mi fece mettere sull’attenti, mi sputò in fronte e con la matita copiativa mi fece il numero sulla fronte. Poi mi fece voltare a destra, mi sputò sulla guancia, me lo fece qui, poi a sinistra, “Gira per il campo finché non sai il tuo numero”. Ecco perché ho imparato il numero anche in tedesco. Questo di Auschwitz non lo so in tedesco, ma quello là l’ho imparato, l’ho imparato subito. E allora al mattino quando chiamavano bastava che dicessero “”Hundertdreizehnneun”,“jawohl”, non ho mai più preso.

Le botte si prendevano, bisognava stare attenti quando si usciva per il campo se si incontrava un ufficiale, un soldato: mettersi sull’attenti, lasciarlo passare mettendosi sull’attenti e non guardarlo, guardare da un’altra parte perché se per caso uno lo avesse scontrato, guai, allora erano nerbate … se non si andava a finire alla famosa scala del pianto, quella dei trecentottanta gradini, quanti erano? Trecentottanta gradini mi sembra che fossero. E come dico lì la disciplina era quella; lavoro, l’aveva chi aveva qualcosa, ma lì era già quasi tutto preso: o che  si andava alla cava o si portavano i morti al crematorio. Nostro compito era quello di raccogliere i corpi che erano in giro e quelli che arrivavano da fuori, perché ne arrivavano dei camion da fuori, di carne maciullata, loro dicevano che era carne di animali, di cosi morti nei combattenti, per noi era carne di cristiano. Si tiravano giù da ‘sti cosi, si mettevano nelle griglie, poi si portavano dentro al coso, dove li stendevano sulle griglie, poi c’erano gli addetti apposta per il crematorio. I crematori erano in funzione tutto il giorno. Io mi ricordo che il blocco 28, era proprio quasi sotto, quando si mangiava a mezzogiorno quella ciotola di brodaglia che ci davano, ogni tanto veniva giù qualche lapillo, eppure purtroppo si toglieva con le dita, perché si mangiava così come gli animali, perché non c’era niente; ah sì qualcheduno che aveva scheggiato per avere una scheggia di coso, il castello dove si dormiva ha preso legnate ma legnate in abbondanza.

In sostanza la vita del campo di Mauthausen era quella, noi eravamo destinati lì e io non feci in tempo ad ambientarmi perché un mattino mi chiamarono, mi riportarono lì a questo ufficio e mi diedero il vestiario: un paio di pantaloni, una giacca zebrati, un paio di zoccoli, un paio di pezze da mettere ai piedi al posto delle calze, e un berretto. E mi dissero: “Tieniti a disposizione perché devi andare in Polonia a Auschwitz”. E io, quando mi dissero Polonia, capii Polen. Ho detto: “Se vado a Pola sono vicino a casa, posso anche cercare di scappare”.

Due giorni dopo mi chiamarono e ci portarono di nuovo alla stazione di Mauthausen, ci infilarono sul treno, però questa volta su un treno normale, un treno comune. Ci infilarono su questo treno, io capitai in uno scompartimento, ero praticamente solo nello scompartimento, perché questo treno era carico di ebrei, rumeni, ungheresi reclutati un po’ dappertutto e li stavano portando a Auschwitz. Il viaggio, a parte il mangiare, perché mangiare non ce ne diedero, non fu bestiale come fu bestiale quell’altro per arrivare a Mauthausen. La sete ci si poteva togliere perché l’acqua nei gabinetti c’era, era acqua cattiva, ma c’era, quindi la bocca si bagnava. Verso metà pomeriggio, arrivammo; il treno si fermò e c’era questa consolazione; poi riprese perché ad Auschwitz il treno andava direttamente dentro il campo, non si fermava fuori, aprivano i vagoni, si scendeva; dopo la pensilina c’era un caseggiato, un salone che era immenso sembrava una piazza, ci infilarono tutti lì dentro. Io non conoscevo nessuno, come dico, di lì eravamo partiti in due, uno diceva che era italiano, che poi non era, era un serbo, … parlava un po’ italiano, e lì persi anche a lui. Ci infilarono in questo camerone e lì c’era da attendere, si aspettava; in fondo a questo camerone c’era una balaustra di legno e c’erano due ufficiali tedeschi e c’erano due addetti come noi, vestiti a zebre come noi, non so cosa facessero perché ero distante e non riuscivo a comprendere; poi, piano piano che si avvicinava il mio turno, vidi che si alzavano la manica della cosa e quando poi toccò il mio turno mi facevano la matricola.

La matricola di Mauthausen non serviva più, qui serviva solo Italy con il triangolo, perché la matricola era fatta qui nel braccio, era impressionata qui. Questa era la matricola, davanti a me ne erano già passati 201.825, perché io porto il 201.825, quindi guardate quanta gente era già passata davanti a me, quanta ne sarà passata ancora poi, ma non tanta perché poi anche lì hanno distrutto tutto. Ecco la fortuna che ho avuto io … a volte mi dicono “Ma come hai fatto a ritornare indietro?”. Perché sono stato fortunato, sono capitato in un periodo in cui i tedeschi avevano più bisogno di manodopera, cioè ammazzare la gente e finché uno era valido e faceva qualcosa lo tenevano in vita, gli davano solo il necessario per vivere. Io sono capitato in quel periodo lì. Mi ricordo che mi fece: “Italiano?”. Dico: “Sì.” Dice: “Giudeo?”. Dico: “No, son cristiano.” “Come cristiano? Qui cristiani non ne viene.” Dico: “Io son cristiano, perché devo dirvi che sono giudeo se sono cristiano? Se  poi volete che vi dica che sono giudeo…”. Questo era un polacco zebrato come me, forse non aveva il coraggio, poi prese il coraggio e parlò all’ufficiale, che non si poteva parlare, e gli disse: “Questo dice che lui non è ebreo”. Dice: “Ma perché sei qui?”. “Mi han detto che devo venire a lavorare qui, mi han mandato per lavoro, io non so”. E allora l’ha detto a questo ufficiale tedesco. Questo ufficiale tedesco ha fatto segno, “Si sposti, si metta lì”. Mi misi lì ad un fianco, questo ufficiale andò via e ritornò dopo una mezz’oretta circa … poi arrivò e mi fece capire che dovevo uscire e cercare la baracca numero 9. In questa baracca dovevo fermarmi e poi sarebbe passato un addetto che avrebbe chiesto Golleschau e io mi dovevo presentare. Uscii fuori, fate conto di uscire in un campo dove ci sono un’immensità di vita di baracche e non si sa da che parte girare, le prime baracche erano tutti uffici, tutti magazzini, tutta roba. E io cercavo questa baracca, non avevo il nome, il tempo stava passando, stava venendo buio, luci non ce n’erano e non trovavo questa baracca. Gira e gira, girai tanto che un bel momento stanco mi buttai in terra e per la prima volta, vi dico la verità, mi misi a piangere perché avevo proprio pensato che questa fosse stata l’ultima ora, perché mi avevano raccomandato, sotto l’acqua mi avevano fatto capire di non sbagliare perché se sbagli poi se ti vedo ancora ti saprò dire.

Infatti in un bel momento mi rialzai … la forza della disperazione, devo trovarla questa baracca, le girerò tutte e infatti poi la trovai, trovai …

D: Le baracche erano di legno o in muratura?

R: Le baracche ad Auschwitz erano in muratura, non erano di legno, soltanto che la zona dove mi avevano mandato era una zona ormai forse abbandonata, era in disfacimento; infatti non c’era più niente lì, c’era solo questa baracca che gli stava cadendo il tetto, dentro c’erano sì i castelli, c’erano i cosi, ma non c’era più niente, c’era un po’ di paglia ammucchiata e basta. Io cercai di ammucchiare ‘sta paglia e adattarmi per passare la notte. Senonché mentre ero lì in questa paglia, era già buio, sentii dei passi e io credetti che venissero a cercarmi, mi venissero a chiamare, mi alzai e mi tenni pronto. Invece era quel polacco, che rimpiango ancora adesso di non sapere il nome, di non sapere di dov’era, di non sapere niente, perché io una parte, per essere venuto indietro, forse la devo a lui. Sto polacco è venuto, in un gabellino aveva due o tre patate schiacciate, e aveva una coperta, mi ha detto: “Ti porto una coperta”. Parlava anche discretamente un po’ l’italiano, poi mi disse che era stato a Milano a fare dei lavori, aveva un po’ imparato l’italiano. Mi diede questa coperta e mi disse: “Non muoverti di qua, perché se perdi il posto qui sei fritto”. Dico: “Possibile?”. Dice: “Se domani mattina sei ancora qui io vengo, in mattinata presto, vengo, ti spiego e ti faccio vedere”. Infatti al mattino io ero ancora lì, arrivò e dice: “Vieni e vieni di corsa. Vieni, vieni vieni”. E mi portò dove il giorno prima facevano le matricole e da un finestrino, siccome rimaneva un po’ sotto mi fece vedere, dice: “Guarda dentro”, c’erano tutti quelli che erano il giorno prima tutti andati, tutti gasati. Ha detto: “Questa è la disinfezione”. Infatti ce n’era qualcheduno dalla porta che aveva cercato di aprire questa porta, ce n’era qualcuno avvinghiato alle gambe, quando se ne accorgevano ormai era tardi e dicevano “li portiamo alla disinfezione”. Per quello poi c’era venuta la fobia della disinfezione: ogni volta che c’era da andare a fare la disinfezione si aveva paura che la disinfezione si tramutasse in una camera a gas. Mi fece vedere, dice: “Te sei stato fortunato quindi non muoverti di qui perché se no passano al tuo turno vai a finire lì, domani è il turno tuo”. E stetti lì quattro giorni e lui veniva la sera, veniva sempre a portarmi un pochettino di cose, si fermava due o tre minuti lì e poi andava via. Poi una mattina non mi trovò più perché al mattino arrivarono, chiamarono Golleschau passarono con un camioncino, io salii sopra ‘sto camioncino e andammo via. E andammo su una montagna vicino ad Auschwitz, vicino, insomma si viaggiò circa un’oretta su questo camioncino, inerpicandosi su questa montagna. Da una parte c’era un fabbricato, un’industria, una fabbrica e dall’altra c’era una cava, e poi era una industria di cemento, facevano cemento, e avevano bisogno di un idraulico perché ci sono tante flange, ci son tante guarnizioni, funziona quasi tutto a vapore; e loro avevano bisogno. Io infatti divenni poi un esperto dei sotterranei, perché i tubi passavano tutti nei sotterranei, io mi infilavo lì dentro al mattino e uscivo alla sera quando suonava la campana dell’adunanza, che si ritornava dentro. E come dico in quel campetto non si stava male, perché eravamo pochi. C’era tanta disciplina, infatti anche lì due rumeni tentarono di scappare. Li trovavo al mattino, c’era una scaletta dove si dormiva che veniva giù, fatta a chiocciola e poi c’era un po’ di pianerottolo.

Erano tutti e due lì che gli avevano sparato alla testa, tutti e due lì che bisognava o saltarli o passarci sopra.

D: Quanti italiani c’erano con te?

R: Lì non c’era neanche un italiano, era tutta una colonia di ebrei grechi; ne ho trovato uno che adesso poi vi racconterò e ne ho trovati altri otto proprio all’ultimo, quando ormai si stava scappando; ci portarono via dalla zona sovietica cercarono di portarci in quella americana. Lì non ce n’era, c’erano soltanto come dico degli ebrei.

Insomma una sera suona la campana, che suonò prima del previsto, come mai suona la campana, bisogna radunarsi al campo. Ci siamo radunati dentro e allora è venuto il capo campo, l’ufficiale dice: “Dobbiamo evacuare il campo, il fronte si sta spostando, noi dobbiamo evacuare il campo. C’è da fare quattro chilometri a piedi, prendetevi una coperta, quello che avete; ci diedero un pezzo di margarina e si uscì. Questi quattro chilometri son venuti lunghi; noi eravamo lì circa un seicento, settecento e non eravamo tanti, ma piano piano la colonna cominciò ad ingrossarsi, perché tutti i campi che erano limitrofi ad Auschwitz venivano evacuati per portarci tutti a ‘sto Auschwitz e si cominciò a marciare: un giorno, due giorni, tre giorni, quattro giorni, si arrivò a Auschwitz. Auschwitz era stato evacuato anche lì, si passò in questo campo, c’erano i morti, c’era una desolazione e si continuò. Ogni tanto ci davano qualche cosa, ogni tanto si mangiava un pochettino di questa margarina, finché un giorno arrivammo in una stazione vicino ad un treno convoglio che ci aspettava. Era un convoglio merci, i vagoni coi piani non coperti. Ci fecero salire anche lì, chi ci stava, ci stava, chi non ci stava non ci stava, sotto la neve perché nevicava, mi ricordo che veniva la neve con dei fiocchi grossi così e partimmo con ‘sto treno. E su ‘sto treno ci si stette anche lì due giorni e più, lì come si poteva, al freddo; meno male che ci avevano lasciato prendere ‘sta coperta. Mi ricordo che quando poi sono riuscito ad alzarmi, perché era difficile anche potersi sedere, c’era chi bisticciava per sedersi, perché quello che rimaneva in piedi bisticciava per sedersi. Mi ricordo che quando mi sono alzato non riuscivo a piegare la coperta, era dura dal ghiaccio.

E anche lì quando si arrivò in questo campo, il campo di Oranienburg, vicino a Berlino, ci fecero scendere. Anche lì chi scese e chi non scese, più tanti non scesero, più tanti erano già eliminati in partenza, tra la stanchezza del viaggio e tutto il resto. Anche lì ci infilarono, qualcheduno aveva bisogno di fare i suoi bisogni. Allora avevano allestito un camerone: avevano tagliato quei bidoni della benzina, gli avevano tagliato il coperchio, avevano messo sopra delle tavole, una scaletta; si andava lì sopra e quello era il gabinetto. Quello lì era il gabinetto. Per dormire un altro stanzone: avevano fatto una riga intera come quella delle macchine e avevano diviso il posto per dormire, un po’ di paglia. Quello era quello che avevano preparato. Poi, piano piano ci assegnarono una baracca e mi misero a lavorare alla mia squadra di lavoro; c’era una strada e ci si andava a fare il ciotolato, quando si poteva fare; quando non si poteva fare, perchè magari c’era stato un bombardamento a Berlino, ci prendevano e ci mandavano a togliere le macerie e ci mandavano alle bombe, cioè a cercare le bombe che non erano esplose, ci davano la bacchetta di ferro, le bandierine rosse: se si sentiva qualcosa di metallo si mettevano. Noi si cercava di scappare nel campo, ma a volte però facevano una retata, ti rimaneva dentro e si andava a finire lì. E ci portavano a fare quei lavori lì. Senonché c’era un campo grosso, immenso di cani Dobermann che erano addestrati a tirare delle slitte con le rotelle, che erano i porta-ordini. Erano addestrati ‘sti cani, ci mandavano a fargli la pulizia e a dargli da mangiare, ma ci mandavano quando non c’erano; quando c’erano, non conoscevano altro che la divisa: quello che non fosse stato in divisa lo sbranavano. Gli davano da mangiare nelle ciotole, la carne secca, quella roba lì; li mantenevano bene. Allora cosa si faceva? Si aspettava che non ci fossero degli ufficiali in giro, poi in due, uno andava dietro la baracca di questo cane, e gli faceva … e l’altro prendeva la ciotola e la portavamo via per mangiare. Sì, per mangiare le gallette e le cose che davano a ‘sti cani. Però erano talmente furbe ‘ste bestie, che quando se ne accorgevano, facevano un buchetto in terra, rovesciavano la ciotola poi ci si sedevano sopra. Allora non si muovevano di lì. Però erano una cosa … Poi divennero un pericolo. Mi ricordo che poi gli ufficiali russi gli spararono perché circolavano persino liberi questi cani, erano ritenuti un pericolo.

Come dico lì il lavoro consisteva di andare a togliere le macerie, di togliere le bombe esplose, perché purtroppo il campo si era ristretto perché stavano arrivando i russi, anche lì. Infatti tutte le sere si cercava in baracca di capire se il fronte andava bene, chi diceva di sì, chi diceva avanzano; insomma la speranza era sempre quella che arrivassero da un momento all’altro gli alleati a liberarci.

Lì cosa si faceva? Si faceva questo: al mattino c’era l’appello, l’appello in cosa consisteva? Un momento prima di parlare dell’appello parliamo un po’ di un’altra cosa, poi ci arriviamo all’appello.

Dunque la vita della baracca era una vita che potete immaginare in un campo di concentramento, si dormiva in due e avevamo l’obbligo alla sera, quando si andava a dormire, di toglierci gli zoccoli, i pantaloni, la camicia; insomma di metterci nudi, avvolgere gli zoccoli nella camicia e nei pantaloni che servivano poi per cuscino, di mettersi sotto nella coperta, c’era una coperta e un po’ di paglia. Alla notte si prendevano la briga, i tedeschi, la sentinella che era fuori, di venirci a svegliare, veniva dentro ci diceva “aufstehen”, ci faceva uscire, vestire, ci faceva mettere in fila, poi diceva “schlafen”, ci mandava di nuovo dentro; così due o tre volte per notte, fino alle quattro e mezza del mattino, quando c’era la sveglia per tutti per l’appello. L’appello serviva più che altro per le razioni di zuppa che dovevano arrivare alle baracche. Cosa succedeva? Che nella notte magari era morta una persona, due, tre, a seconda, morivano tutti i momenti di stenti; allora si aveva l’obbligo se se ne accorgeva di prenderlo e portarlo nel gabinetto, si metteva nella doccia. Al mattino, quando c’era, veniva il nostro capo baracca, prigioniero come noi, ormai erano tutti delinquenti comuni che li avevano messi a dirigere le baracche, e guardava quanti morti c’erano. Poi si usciva, ci  metteva in fila, ci contava, poi prendeva due, due o tre a seconda di quanto, si andava a prendere questo morto si cadeva in piedi, in fila; si portava al campo dove poi facevano l’appello generale. Perché si portava questo morto? Perché poi quando finito l’appello scivola giù e va be’ si lasciava lì poi passavano gli addetti col carretto, li ramazzavano e li portavano via. Si faceva questo perché doveva corrispondere a tante razioni: se eravamo venti consegnati il giorno prima, venti dovevamo essere. Ma perché? Perché portavano venti razioni, però due o tre razioni dei morti le prendeva il capo baracca che le barattava. Io adesso non l’ho detto, perché come dico, a volte succedono tante cose che … quando si era a Mauthausen ci hanno dato ‘sto numero di matricola: con cosa si cuciva? Con cosa si attaccava? Con lo sputo? Non avevamo mica niente. Mi ricordo che lì c’era addirittura un prete che gli faceva ‘sti lavori, gli faceva le calze, dava il filo e l’ago, però voleva un pochettino della razione. E bisognava dargliela perché altrimenti come si faceva? E così succedeva: volevano contare ‘ste razioni perché poi rimanevano a loro e poi loro le barattavano per le sigarette o per le calze, o per le maglie, o per qualcosa insomma. Perché si deve sapere che ogni quindici giorni facevano la die Läuse, cioè i pidocchi. Veniva dentro il capo baracca diceva: “Die Läuse”. Allora in cosa consisteva? Si andava in una baracca di disinfezione, la doccia, se c’era della peluria perchè erano nati i capelli, rasavano di nuovo. Poi la roba si metteva da una parte, la mettevano in un carrello e la mandavano all’autoclave, la sterilizzavano e noi ci facevano ‘sta doccia, poi quando si usciva, si usciva da una porticina. Lì c’era un addetto con un bidone di creolina, non so se sapete cos’è la creolina, ma pura non diluita e aveva un guanto di spugna. Ci faceva allargare le braccia poi metteva ‘sta cosa qui, una manciata in testa, una qua sotto e una qui. Figuratevi voialtri, all’indomani faceva così, la pelle se ne andava come quando le bisce cambiano la pelle. Poi si andava a prendere i vestiti, svelti a prendere i vestiti che fossero i miei, i suoi, di qualcheduno l’importante è prenderli, averli, qualcheduno ne prendeva due perché poi faceva commercio col capo-campo. E l’altro rimaneva nudo. Rimanere nudi per il campo voleva dire andare a finire al crematorio, non si poteva mica circolare nudi per il campo. O uno aveva qualcosa in baracca da barattare, allora lo barattava con delle mutande, con delle camicie, o se no rimaneva nudo e andava a finire nel crematorio. C’era anche quella cosa, dover correre a prendere, poi uno diceva “Ma c’hai la mia, te”. E si cambiava. Era anche quello.

Si cominciava questo appello, come dico, alle quattro e mezza ci portavano sulla piazza, si calcolava, lì avevano detto che eravamo circa venticinquemila dentro a quel campo, ci mettevano sull’attenti, col berretto in testa, e quando il capo campo, eflin prigioniero come noi, consegnava i documenti gli effettivi all’ufficiale tedesco, dava l’attenti, volevano ci si togliesse il berretto, dicevano “Mütze ab”, cioè levarsi il berretto; bisognava togliere il berretto, picchiarlo sulla coscia, voleva sentire un colpo unico. Non puoi capire. Allora consegnava la cosa, poi “…”, dalle 4 e mezza alle cinque, quanto era durato il coso, a fare quel lavoro lì; finché venivano le otto, l’autoparlante diceva “Arbeitskolonne formieren”, “formate la colonna dove lavorate”, allora ci si scioglieva e si andava alla colonna dove si lavorava.

Quella era la vita del campo di Oranienburg… Soltanto che lì non c’era il crematorio, allora cosa succedeva? Che questi morti li accumulavano e poi coi residui della benzina gli davano fuoco. Tanto che Luftwaffe aveva protestato perché diceva che questi falò facevano i segnali agli apparecchi nemici.

Finché un bel momento arrivarono veramente i russi. Si cominciarono a sentire, a veder passare gli aeroplani, han cominciato a buttare anche dei manifestini che incitavano a ribellarsi, a fare. Ma prima di tutto, io il russo non lo capivo, ma lo capivano i russi perché ce n’erano tanti e cominciarono ad evacuare il campo. L’evacuazione del campo … chiamavano per autoparlante, chiamavano perché lì c’erano tanti norvegesi, svedesi, ce n’erano tanti. Hanno cominciato a chiamare gli svedesi, i norvegesi e a portarli via. E piano piano han chiamato per nazione, finché han chiamato gli italiani e io mi sono presentato; qua ho trovato otto italiani. Che poi non erano prigionieri politici, erano prigionieri militari; era per quello che non li avevo mai visti, perché erano in un’altra zona, in un’altra parte del campo. Lì trovai ‘sti otto italiani, ci siamo messi d’accordo, perché avevamo paura perché dicevano che li portavano via a gruppetti ‘sta gente e poi li fanno fuori, per non avere delle testimonianze. Quando hanno chiamato gli italiani non ci siamo presentati, loro non stavano mica a guardare per il sottile, se c’erano gli italiani c’erano. Quando han chiamato i russi, che sono stati gli ultimi, allora ci siamo presentati insieme ai russi. Lì ci hanno fatto marciare giorno e notte, di corsa, perché pioveva; avevamo sempre il fronte che incalzava e loro volevano portarci verso gli americani. Ci han fatto viaggiare tanto che a un bel momento ha cominciato a morire la gente. Io mi ricordo, e quello mi dispiace, mi ricordo che c’era uno, un sardo, mi si è aggrappato alle gambe, è caduto, si è inginocchiato, si è aggrappato alle gambe, ho cercato di alzarlo, c’era l’ufficiale tedesco che seguiva la cosa, mi ha fatto segno di andare. Allora questo mi ha detto: “Se ritorni in Italia avverti la mia famiglia”. “Come avverto la tua famiglia? Come faccio? Mi dai l’indirizzo, ma dove me lo scrivo? Dove me lo metto?”. La testa non era mica poi più a posto; so che era un sardo, so che il tempo che lui mi diceva così, l’ufficiale col boschetto mi ha dato un colpo nella schiena, ho fatto in tempo di far così, gli aveva sparato. E quello è l’unico ricordo degli italiani che mi è rimasto perché mi è rimasto proprio, mi dispiaceva anche gli altri morti, ma quello era … quello mi è dispiaciuto proprio. E va be’ insomma che ci hanno fatto marciare, questo così arriviamo poi alla fine.. Ci hanno fatto marciare per una quindicina di giorni, tanto che si mangiava, meno male che i russi conoscevano, si mangiavano delle radici che loro cercavano nei campi dove ci si fermava, cercavano ‘ste radici, che erano commestibili.  

Un giorno ci han fermato tre o quattro camioncini della Croce Rossa Internazionale, della Croce Rossa Svizzera, perché si stava morendo tutti, lì si stava morendo tutti, non solo noi, anche quelli che ci accompagnavano, erano rimasti tagliati fuori, se andavano da una parte arrivavano i russi, se andavano di lato c’erano i russi, allora si cercava sempre … a volte si faceva la stessa strada due o tre volte. Arrivano e ci diedero un pacco ogni cinque persone, dice: “C’è un pacco da dividervi in cinque”. Allora cosa abbiamo fatto? Non si sapeva cosa c’era dentro questo pacco. Vediamo se riusciamo a prendere uno una cosa e uno l’altra, insomma un po’ di cose differenti. Allora non ci siamo messi insieme, ognuno si è messo in un .., io mi sono messo per esempio … avevo un francese, avevo un polacco, avevo un ungherese, eravamo in cinque, non c’era nessuno di italiani, ci siam divisi così. Poi abbiamo aperto ‘sto pacco, in cui c’era una scatoletta, una lattina di latte condensato, un sacchettino di prugne secche, una scatoletta con delle vitamine, un pacchetto di sigarette e una confezione di tè. Erano le cassette di conforto dell’esercito americano. Cosa si divide, chi è che vuole il the? Avevamo voglia di prendere tè coi biscottini? E allora cosa abbiamo fatto? Uno si è girato, si è messo con la testa più così e abbiamo fatto … uno prendeva qualcosa in mano… a chi questo? … dice a chi questo? E questo all’italiano per esempio. Solo che a me  toccarono le prugne. Ma insomma non ce la cavammo tanto male perché qualcheduno gli toccò le sigarette, qualcheduno gli toccò il latte condensato e qualcheduno purtroppo il tè … e va be’; però il latte e le prugne venivano già bene perché per lo stomaco, non son venute poi bene perché abbiamo mangiato latte e prugne, poi abbiamo cominciato dissenteria a non finire. Ma le sigarette si cambiavano con qualcheduno che aveva qualcosa, perché c’era sempre quello furbo, che si era fatto le scorte.

Poi una sera si arrivò in un fienile. Ci fermarono lì, per la notte, ci chiusero dentro, i tedeschi andarono via perché c’era un paesino, si vede che sono andati a vedere se trovavano da mangiare. Cosa si fa cosa non si fa, qui qualche giorno ci levano di mezzo, adesso è venuta la Croce Rossa ma poi se non viene più, un bel momento questi si stufano, ci fanno fuori. Allora io e altri due abbiamo deciso di cercare di scappare. Questo fienile era fatto a due piani, soltanto quel piano che era di sopra era venuto giù, c’era rimasto un angolo con un po’ di fieno sopra ancora. Ci siamo arrampicati su per le colonnette che tenevano su ‘sto coso, siamo andati in quest’angolo, e al mattino ci siamo lì messi, dove il tetto spiove, ci siamo tirati sopra il fieno e abbiamo aspettato; infatti sono arrivati i tedeschi un bel momento, fanno la conta e sento il tedesco che dice “Drei Mann weg”, “tre sono scappati, tre non ci sono. Sono partiti…” e han lasciato due lì e con le Maschinenpistolen hanno cominciato a sparare, diciamo dentro al fieno, non son stati lì a guardare, han fatto due o tre raffiche dentro al fieno e neanche gli è venuta voglia di girare e sparare su, magari non ci avrebbero preso lo stesso, ma siamo stati fortunati; il mattino poi loro sono andati via. Siamo stati tutto il giorno ancora lassù in silenzio, la sera siamo scesi, è venuto il padrone, bagna la testa, e se vi trovano qui vi ammazzano, vi fucilano. Be,’ insomma ci ha dato un po’ di tabacco e dei fiammiferi e ci ha detto: “Uscite di qui, c’è una stradina che va su in campagna, prendete quella stradina, troverete una baracca. Dentro la baracca ci sono gli arnesi di lavoro, gli aratri, c’è tutta quella roba lì e ci sono le patate della semina”. Noi non aspettavamo altro e siamo andati a finire in quel fienile lì, siamo stati lì fino forse il primo di maggio. Il primo di maggio perché la guerra è finita poi dopo, il primo di maggio sono arrivati i russi dove eravamo noi, e allora siamo stati liberi. Lì è stata la liberazione.

Soltanto che poi i russi ci hanno detto che dobbiamo organizzarci per venire in Italia, che loro non hanno la possibilità e i mezzi di venire e di portarti in giù, perché dice che dalla parte loro i tedeschi avevano rotto tutto, non ce erano treni, dovevamo andare nella zona americana. Però ci fecero una carta, un benservito che diceva: “Con questa carta potete andare da qualunque parte, potete rivolgervi a qualunque comando russo, che vi saranno dati aiuti”. Ci hanno organizzato, abbiamo preso un carro, abbiamo preso un po’ di provviste perché c’erano dei magazzini tedeschi e poi siamo partiti, siamo venuti verso l’Elba. Quando siamo stati all’Elba non volevano lasciarci passare.

D: Dov’è che esattamente ti hanno liberato?

R: A Berlino; ma un momento.

I russi proprio dove sono arrivati era un paesetto, era Freistein, era un paesetto di campagna. Ma poi dove avevamo avuto proprio la liberazione perché il comando era Berlino poi, lì erano di passaggio; loro passavano, poi lasciavano una guarnigione, ma poi siamo andati a Berlino con loro poi. E lì ci hanno fatto questa carta, ci han dato ‘sto carro, siamo arrivati fino all’Elba. All’Elba bisognava lasciare lì il carro; c’era da passare di là dell’Alba e non c’era il ponte, avevano buttato giù dei carri armati, poi ci avevamo messo le tavole sopra; passavamo sopra questo ponte di tavole, dove a metà c’era la sentinella, di qua c’era la sentinella russa, di là c’era la sentinella francese, perché eravamo finiti nella zona francese. Non ci han lasciato passare perché han detto che non avevano l’ordine di lasciar … tutti passavano, fuorchè gli italiani; gli italiani dovevamo ritornare a Berlino … allora cosa c’era? C’era uno con noi, uno di quelli che è scappato con me, che viveva e lavorava in Francia, era scappato in tempo di guerra, era venuto qui in Italia e l’avevano arrestato. Ha parlato lui in francese; mi ha detto: “Facciamo una lista di doni”, quando siamo andati là che chiedevano il nome lui gliela diceva in francese; ci hanno mandato in un campo di concentramento francese e lì hanno cominciato ad uscire i guai perché non ci potevano vedere, dicevano che gli avevamo dato la pugnalata alla schiena, di qui e di là e … Siamo andati avanti così, finché poi loro sono andati via, noi abbiamo cercato di venir via con loro perché il treno veniva a Mentone e han detto, da Mentone in Liguria ci si va anche a piedi. Quando siamo stati lì hanno fatto la spia agli americani perché allora eravamo già passati con gli americani, che non siamo francesi che siamo italiani. E ci han fatto scendere. E poi quando son partiti sul treno ci facevano le mani, ci dicevano italiani maccheroni, ma qualcheduno con la testa spaccata a casa c’è andato perché le pietre che erano lì in ferrovia … A volte mio figlio mi dice “Ma te ce l’hai più coi francesi che coi tedeschi”. Dico: “Certamente, perché i tedeschi perlomeno sapevano che eravamo contro, dicevano che li avevamo traditi, può darsi anche a ragione, ma dico ma questi qua dico erano in campo di concentramento come voialtri, mangiavano la zuppa che mangiavate voialtri, e mi venite a dire che io ero fascista!”. E allora me la son presa con loro, mio figlio mi dice “te la prendi coi francesi, ce l’hai coi francesi”.

D: Luigi ma tu quando sei arrivato in Italia?

R: Io sono arrivato dopo un anno preciso.

Dunque mi hanno preso il 28 di luglio e io sono arrivato al 28 di luglio dell’anno successivo. Era un’odissea venire poi in Italia, perché poi siamo andati a finire nel campo degli inglesi, poi gli inglesi ci han portato nel campo dove finalmente si riunivano tutti gli italiani, perché siamo i soliti noi che non abbiamo mai organizzazione. Lì mi sono preso la pleurite. Una sera arrivo in baracca, c’era lì un compagno che mi dice: “Ma te hai la febbre”. Dico: “Ma che febbre!”. Dice: “Aspetta che te la misuro, ho un termometro io”. Avevo la febbre a 40. Allora va a chiamare il dottore del campo che comincia a fare dei segni davanti agli occhi, dice: “Domani mattina ti portiamo all’infermeria”. L’infermeria era una birreria, dove c’era una sala da ballo, avevano messo dei letti e fatto un’infermeria. Il medico tedesco mi ha visitato anche lui, poi ne è venuto un altro, un polacco, han fatto un consiglio, poi mi ricordo che dice: “Oggi a mezzogiorno te non mangi”. “E perché?” Dice: “Te non mangi, hanno da fare un lavoro che te non mangi”. Mi hanno fatto sedere poi su uno sgabello, han chiamato uno, mi hanno fatto abbracciare, poi han preso una siringa che era grossa così, con l’ago, han cercato qui poi tac, due litri e mezzo d’acqua han tirato fuori. Prima ha cominciato a sgorgare da sola, poi han cominciato a tirarla fuori. E lì non so se son stato tre o quattro giorni, poi vengono i miei amici, mi dicono: “Guarda che domani noi partiamo, domani c’è il convoglio noi partiamo”. “E io?”. E il dottore mi dice: “Te…”

D: Questo dov’era?

R: E chi lo sa dov’era ‘sto campo di concentramento, non lo so. Non sono mai riuscito a sapere dov’era, perché questo campo di concentramento era in un posto dove prima c’era un campo di aviazione; avevano fatto questo campo di raduno per gli italiani, ma non so dove fosse la località.

D: Ma in Francia?

R: No no, in Germania. Eravamo sempre in Germania. Han fatto ‘sto treno; io mi sono impuntato, non ho più voluto stare lì. Allora il dottore, come dico, mi aveva fatto ‘sta carta, siamo partiti con ‘sto treno, a me m’avevano messo su un vagone solo, con un infermiere, che era il vagone che serviva da infermeria. Mi ricordo solo che siamo passati da Amburgo; qui ci siamo fermati, ma non so da dove si venisse; siamo arrivati fino a Innsbruck. Quando siamo stati a Innsbruck ci hanno fatto scendere e han detto: “Qui vi facciamo la disinfezione, domani ripartite”. Infatti quelli che erano arrivati il giorno prima prendevano il treno nostro e venivano giù in Italia; questi prendevano il treno che arrivava poi all’indomani. Siccome ero malato, avevo questa pleurite, non mi hanno fermato, non mi hanno fatto neanche scendere dal treno, mi han fatto stare lì e son partito subito. Col treno siamo arrivati fino a Bolzano; no, fino a Pescantina dove ci hanno dato un panino di pane bianco e un limone; chi dava poi ste cose erano quelli del Vaticano. Ci han fatto scendere e ci hanno imbarcato sui camion che ci hanno portato fino a Milano. In stazione ci hanno imbarcato su un treno a seconda delle destinazioni verso cui si doveva andare. Ci hanno fatto scendere a Genova, dove c’era poi il treno che veniva verso Ventimiglia.

Io mi ricordo che il treno che portava la carrozza per gli internati c’era dopo tre ore; io ho preso il primo che c’era, oltretutto avevo trovato un vicino di casa, che lavorava a Genova. Gli ho domandato: “Come sta la mamma, come sta mia madre?”, dice “Tua madre sta bene”. Dico: “Allora fammi un favore, quando arriviamo a Varazze scendi un momento, vai su un momento prima te cerca un po’ di prepararla sta vecchietta”. Quando sono stato sul treno ho dovuto fare poi una lite col controllore che voleva che pagassi il biglietto, io mi ricordo che gli ho detto: “Glielo dò il biglietto, gli dò una manciata di pidocchi con la croce uncinata”. E poi si son messi in mezzo i viaggiatori, hanno detto “E’ una vergogna!”. Dico io, è un anno che manco da casa, mia madre che ha già perso un figlio, che non sa dove sono andato a finire, ma io ci andavo a piedi piuttosto a casa.

E ricordo che sono arrivato a casa, questo era andato su e dice che poi gli aveva detto alla mamma: “Lo vedreste volentieri vostro figlio?” Dice: “Eh!”. E dice: “Allora se vi dicessi che a Genova?” Dice: “Mi cambio e ci vado subito!”. Dice: “No, no stia lì che è qui che arriva su dalle scale”. E lì è finita l’odissea.

D: Luigi tu non sei mai stato intervistato in questi cinquantacinque anni?

R: No. E’ venuta una volta una, ma due domande così, mai più saputo niente. Non ho mai più saputo niente. Una cosa, che a volte mi dicono: “Ma avete aspettato tanto a farvi vivi e a parlare, perché non …”. Dico: “Quando siamo arrivati prima di tutto c’era l’euforia della fine guerra, la gente ballava, cantava, non pensava nemmeno a noialtri. Poi abbiamo cominciato a parlare quando abbiamo visto che si era deciso Levi a scrivere, qualcheduno insomma un po’ più istruito di noi … e ti dico la verità, non si credeva neanche noi di aver passato quello che si era passato. Ma è verità o non è verità? Ma saranno immaginazioni? Saremo scemi? Possibile che sia così? Infatti quando mi dicono “Ma come ha fatto?”. Ragazzi fortuna, fortuna. E’ fortuna, perché altrimenti non si veniva a casa, se non si era fortunati non si veniva a casa. Fortuna perché magari nel periodo che si stava male qui io ero andato un po’ più in là … infatti mia moglie a volte mi dice, le dico sempre: “Ma io sono scarognato, non riesco a vincere una cosa”. Dice: “Ma te hai già avuto la fortuna, quella di venire a casa”. A volte mi dico: “Ma sarà una fortuna o sarà una disgrazia? Ero già pronto là, qui invece mi tocca di nuovo, là ero già pronto per andare, adesso qui invece ho dovuto iscrivermi per farmi bruciare, invece là ero già, senza spese, senza niente. Dice: “Ah, sei fortunato” e dico “Sì, per quello sì”.

D: Luigi tu non sei più ritornato su nei luoghi?

R: No, no. Non ce la faccio. Non ce la faccio.

Siamo partiti in cinque amici e sono ritornato solo; ero il più gracile, il più esile, a parte uno, quello che aveva l’autofficina, che era già anziano, gli altri erano tutta gente che erano più … Sono venuto solo.

Grazie Luigi.