Pichler Erich

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Pichler Erich Florian. Sono nato il 14 ottobre 1926 a San Leonardo in Passiria.
D: è stato in carcere a Silandro?
R: Sì. Ci siamo dovuti presentare a Silandro per evitare che a causa della Sippenhaft, arrestassero i nostri genitori (come ostaggi familiari) e li portassero nel Lager di Bolzano. Mio padre, che si era già fatto quattro anni di prigionia in Russia, dall’agosto del 1914 fino all’agosto del 1918, non voleva assolutamente essere arrestato e ha voluto che noi andassimo a costituirci.
L’abbiamo fatto e ci hanno incarcerati. Ci siamo consegnati il 19 agosto 1944 a Silandro e il 22 agosto ci hanno incarcerati nelle caserme del paese. A Malles è poi arrivato il reggimento e per un certo tempo hanno portato a Malles anche noi, ma alla fine hanno deciso di incarcerarci definitivamente e ci hanno riportato nella prigione di Silandro.
D: A Merano non c’era il carcere?
R: A Merano ci sarà stato certamente un carcere, ma noi siamo stati rinchiusi in quello di Silandro.
D: Sa per quale motivo a Silandro e non a Merano?
R: Perché noi siamo stati incarcerati a Silandro e la competenza l’avevano là. Da Silandro ci hanno portati a Bolzano per il processo.
D: Dove?
R: A Gries, nelle caserme. Là hanno condannato sia me che mio fratello a tre anni. Dopodichè ci hanno riportato a Silandro. Forse era il 10 di ottobre. Siamo rimasti lì e non abbiamo più sentito nulla fino all’11 novembre.
L’11 novembre ci è stato detto che dovevamo tornare a Bolzano per un nuovo processo, perché l’ultimo non era stato fatto bene, forse saremmo stati assolti. Sono venuti con noi a Bolzano. Ci hanno fatto un nuovo processo. Ci hanno condannato a 11 anni per diserzione, perché ci eravamo rifiutati di andare in guerra.
D: Chi erano i giudici in questo processo?
R: Erano uomini della giurisdizione speciale delle SS e della polizia.
D: Dove si trovava esattamente questo edificio?
R: Non lo so con precisione. Era a Gries, nelle caserme.
D: In piazza Gries o in un altro luogo?
R: Fuori Gries, nelle caserme.
D: In Via Vittorio Veneto? Sulla strada per Merano?
R: Sì, là fuori. Ci hanno condannati a 11 anni. Siamo rimasti per cinque giorni nel carcere di Bolzano.
D: Dove si trovava il carcere a Bolzano?
R: Dove si trova ancora oggi, vicino al Talvera. Da lì ci hanno prelevato il 16 novembre tra molti insulti: “Verrete fucilati!” “Credevate di poter disertare?” Ci hanno messo le manette, poi però ce le hanno tolte perché ci hanno portati in stazione. In quel momento è scattato l’allarme aereo e siamo entrati nel tunnel, quello dall’altra parte, per trovare rifugio. Passato l’allarme ci hanno ricondotti in stazione e spediti a Dachau. Ci hanno tolto le manette perché dicevano che non avevamo fatto resistenza e che non potevamo fare resistenza. Il 17 novembre siamo arrivati a Dachau.
D: Prima di passare a parlare di Dachau, può spiegarci cosa esattamente significa diserzione?
R: Ci siamo presentati alle armi il 2 giugno ed il 6 giugno ci siamo allontanati dalla truppa, siamo scappati e dal 6 giugno al 19 agosto siamo rimasti nascosti vicino a casa. Alla fine abbiamo dovuto costituirci per evitare che i nostri genitori finissero nel Lager di Bolzano.
D: Lei sapeva che a Bolzano c’era un Lager?
R: Sì, si sapeva che c’era un Lager, ma nessuno sapeva che aspetto avesse. Lo chiamavano Lager Kaiserau, ma noi non abbiamo avuto nulla a che farci. Noi siamo arrivati a Dachau. Arrivati là abbiamo dovuto …
D: Si ricorda di come siete arrivati a Dachau? In autobus? In treno?
R: In treno. La ferrovia era distrutta e abbiamo dovuto fare una deviazione per la Val Pusteria fino a Lienz e poi da Lienz a Dachau. È stato un viaggio lungo. Abbiamo impiegato una notte ed un giorno interi. Fino a Monaco abbiamo viaggiato in treno. A Monaco ci hanno fatti scendere e ci hanno anche dato qualcosa da mangiare.
D: Eravate su un treno o su un vagone merci?
R: No, era proprio un treno, ma con i finestrini rotti. Faceva freddo.
D: Quanti eravate su questo treno per Dachau?
R: Io, mio fratello e Haller Franz: eravamo in tre con tre guardie.
D: SS?
R: Sì, e polizia.
D: Siete arrivati alla stazione di Monaco?
R: Sì. Da qualche parte in un ristorante ci hanno dato da mangiare. Hanno mangiato anche le guardie. Con un camion ci hanno portato al Lager di Dachau, che si trovava a circa 30 chilometri di distanza. Siamo arrivati verso sera. Ci hanno consegnati davanti al portone.
Subito abbiamo dovuto correre dentro. Beninteso, noi non eravamo deportati del campo di concentramento. I deportati avevano un abito a righe bianche e blu mentre a noi, quando finalmente ci hanno dato degli abiti, hanno dato l’uniforme della fanteria italiana. Ci hanno fatto vestire così perché avevamo abbandonato l’esercito ed eravamo disertori.
D: Avete ricevuto anche un numero di matricola?
R: No, i militari processati e condannati (Strafgefangene) non avevano numero di matricola. Lo avevano solo i deportati.
D: Non avete ricevuto alcun contrassegno a forma di triangolo?
R: No, proprio nulla.
D: In quale blocco è stato portato?
R: C’era una baracca apposta per gli Strafgefangene. Si trovava in fondo al campo. C’erano anche tante celle, era una caserma o una baracca di sole celle. C’era anche un lungo corridoio. Quella sera ci hanno portati in una di queste celle.
Ci hanno fatti spogliare. Nudi abbiamo corso per circa 30 metri. Siamo arrivati in una stanza dove ci hanno dato un paio di mutande ed una camicia. Questo era tutto.
Più tardi ci hanno portato nel Bunker, nel blocco celle e ci hanno rinchiusi in una cella. La cella era larga 2 metri e lunga 3. In questa cella erano rinchiusi 23 uomini appena arrivati.
Eravamo io, mio fratello, Haller Franz e tanti sconosciuti, 20 altri sconosciuti. 23 uomini sono rimasti rinchiusi in questa cella dalla sera alla sera successiva. Da mangiare ci hanno dato una pessima zuppa. Questo era tutto.
D: C’erano solo sudtirolesi in questo blocco per gli Strafgefangene?
R: No. C’erano prigionieri da ogni dove: tantissimi croati, poi italiani, francesi, olandesi, persino norvegesi, ungheresi.
D: C’erano anche tedeschi?
R: Sì, perché era un blocco per Strafgefangene.
D: Questo blocco aveva un numero o una sigla?
R: Non me lo ricordo. Era una baracca a se stante. Aveva 15 camerate e in ogni camerata c’erano 24 uomini. Erano piene. Quando era tutto pieno, trasferivano i deportati in un campo esterno
D: Da questo blocco per Strafgefangene si poteva vedere il forno crematorio?
R: No, il crematorio no. Era separato. Noi eravamo isolati. C’era un cortile. Quando uscivamo dal cortile arrivavamo sulla strada principale. Fuori c’erano ovunque baracche del Lager. Da qualche parte c’erano anche le baracche delle SS e le postazioni di guardia delle SS. Le SS sorvegliavano anche noi, proprio come facevano con gli altri.
Non ce la passavamo tanto meglio, forse in alcuni giorni andava meglio, in altri peggio. Ci hanno tormentati e affamati nello stesso modo. Avevamo una fame spaventosa.
D: Quanto è rimasto nel blocco celle?
R: Nel blocco celle siamo rimasti un giorno, fino alla sera del giorno successivo. Poi ci hanno dato l’uniforme della fanteria italiana. Ci hanno vestiti con quella. Eravamo Strafgefangene, ognuno aveva questa divisa.
D: Le hanno rasato la testa o no?
R: No. Ci hanno rasati, ma non completamente. Nella baracca io e mio fratello siamo stati assegnati alla camerata. E bisognava innanzitutto pregare per avere il permesso di andare dove eravamo stati effettivamente assegnati. Si usava così.
Abbiamo ricevuto il posto. C’erano tre tavolacci uno sopra l’altro e letti per alloggiare 24 uomini. C’era anche un tavolino. E questo era tutto. All’esterno della camerata c’era un ampio corridoio, largo tre metri, dalla prima all’ultima baracca attraverso 15 camerate e da qualche parte c’era il lavatoio, non riesco a ricordare bene, e la latrina.
Al mattino dovevamo alzarci alle 5 per fare le esercitazioni, dovevamo anche marciare attraverso il campo di concentramento. Molto spesso c’era un uomo sul piazzale, ben visibile a tutti, che aveva tentato di scappare durante il lavoro all’esterno e reggeva un cartello con la scritta “Ho avuto sfortuna” oppure “Sono stato troppo stupido” oppure qualche altra frase simile. Rimaneva là dalla mattina presto alla sera tardi. Non riceveva nulla da mangiare. Doveva stare sempre in piedi.
Cosa hanno fatto di questi uomini non si sa, non sappiamo proprio se li hanno fucilati o se li hanno riportati dai loro camerati. Non lo so. Li riacciuffavano quasi tutti quelli che tentavano di fuggire. Anche noi avremmo avuto un’occasione per fuggire, ma era solo una fantasticheria, perché li riprendevano sempre. Noi non l’abbiamo fatto.
Uscivamo per circa 2-3 chilometri. Fuori c’era una collinetta. C’erano degli alberi. Ai piedi della collina dovevamo costruire un Bunker, un rifugio antiaereo, ma il terreno era tutto sabbioso. Si doveva rivestire tutto con blocchi. Con la carriola dovevamo trasportare fuori il materiale, zig-zag e fuori. Era un lavoro difficile. Il materiale veniva reinterrato fuori, accanto ai binari, e camuffato perché non venisse visto. Non abbiamo continuato a lungo con questo lavoro perché la caserma o la baracca erano troppo affollate, dopo pochi giorni hanno spedito Franz Haller a Norimberga e il 3 dicembre hanno portato via anche me e mio fratello. Siamo arrivati a Mosbach, nell’attuale Baden-Wüttemberg, dove c’era un Lager chiamato Goldfisch. Siamo rimasti là dal 7 dicembre 1944 fino al 27 marzo (1945). Poi hanno evacuato l’intero campo e ci hanno portati via.
Ci hanno fatti tornare a Dachau a piedi. Abbiamo marciato dal 27 marzo fino al 24 aprile. Il cibo era sempre terribile, avevamo tanta fame, eravamo estremamente deboli.
D: A Mosbach c’era un campo di concentramento o una caserma?
R: C’erano diverse baracche per Strafgefangene.
D: Solo per Strafgefangene?
R: Sì, solo per Strafgefangene.
D: Durante il trasporto da Dachau a Mosbach eravate soli, Lei e suo fratello, o c’erano anche altri Strafgefangene?
R: C’erano altri 300/400 Strafgefangene. Ci hanno caricati sui carri bestiame e ci hanno portato in ferrovia fino a Mosbach, dove ci hanno fatto scendere e ci hanno fatto camminare per una mezz’ora o forse più per raggiungere le baracche. Il campo era in costruzione.
Io lavoravo nella squadra “U”, cioè Unterkunft (alloggiamento) e dovevo coprire di ghiaia i vari sentieri, c’era un binario e dovevamo prendere la ghiaia da un vagoncino. Dovevamo anche mescolare il cemento, fare le gettate per i pavimenti e costruire i tetti delle baracche.
Quando il grosso del lavoro era stato fatto, mi hanno mandato alla fabbrica. Mio fratello aveva cominciato a lavorare alla fabbrica sin da subito. Era a un’ora di cammino dal campo. Dovevamo uscire e andare verso Neckarelz. Là scorreva il fiume Neckar e sul fiume c’era un ponte ferroviario con un passaggio pedonale. Tutti i giorni attraversavamo questo ponte.
Dall’altra parte c’erano 150 scalini da salire. Proprio in cima c’era una ripida scala in legno, con altri 35 scalini. Lassù c’era l’ingresso della fabbrica. La fabbrica era tutta all’interno di una collina. In questa fabbrica c’erano tanti stanzoni molto grandi, tutti scavati nella roccia.
Camminavamo un quarto d’ora per raggiungere la nostra postazione di lavoro. Venivamo divisi. Ciascuno doveva lavorare al proprio posto. Non ricordo più quanti stanzoni ci fossero, dieci, undici o forse anche di più. Non l’ho mai saputo perché non ho mai visto tutta la fabbrica per intero.
D: Cosa si produceva nella fabbrica?
R: Si produceva materiale bellico. Parti di carro armato, parti di aeroplano. Le parti non venivano assemblate in fabbrica, venivano mandate a Berlino e lì si provvedeva all’assemblaggio.
Mio fratello ha lavorato più a lungo di me nella fabbrica perché io all’inizio ero nella squadra “U”. È andata avanti così fino a febbraio e poi ha iniziato a cedere, a sgretolarsi. Gli aeroplani erano molto fastidiosi. C’erano molti bombardamenti e c’erano moltissimi allarmi aerei. Venne colpito anche il ponte ferroviario. La prima volta lo hanno ricostruito, ma venne subito bombardato di nuovo. La seconda volta non sono più riusciti a sistemarlo. È stato verso la fine di febbraio.
D: Nelle gallerie c’erano solo Strafgefangene o anche deportati?
R: La fabbrica era separata. Era a un’ora di cammino dal campo. Al mattino dovevamo camminare un’ora per andare e alla sera un’altra ora per tornare. Nella fabbrica c’erano dei civili, c’erano anche prigionieri italiani, altri prigionieri, civili, tedeschi. C’erano persone di diverse nazionalità.
D: Il suo preposto era un civile?
R: Si, il mio preposto era un civile, e anche quello di mio fratello lo era. Poi c’erano le SS. Il loro compito era solo di accompagnarci alla fabbrica e di restare lì tutto il giorno di guardia, ma non avevano nulla da dire sul lavoro. Per il lavoro avevamo un preposto civile e con lui dovevamo lavorare.
D: Ha notato differenze tra Dachau, Mosbach e Goldfisch per quanto riguarda la disciplina e le esecuzioni ?
R: Devo fare un distinguo. Goldfisch era il nome del Lager. Che si trovava nei pressi di Mosbach. Mosbach era solo la città. Il nostro Lager era vicino a Mosbach. Un paio di volte, non spesso, siamo andati a Mosbach per fare la doccia perché si doveva curare un minimo di igiene. Eravamo comunque sempre pieni di pidocchi. I nostri vestiti erano tutti pieni di pidocchi che ci davano il tormento.
D: Com’era la disciplina nelle gallerie? Ci sono stati dei morti?
R: Non lo so. Credo che là ci siano stati pochi decessi. Se capitava era in seguito a incidenti; forse qualche prigioniero è morto di fame. Questo è assolutamente possibile. C’erano anche dei deportati che lavoravano, perché una volta ho parlato con uno di loro.
È arrivato un sergente delle SS che non conoscevo e che mi ha visto. Ha urlato contro di me se non sapevo che non fosse permesso parlare contro i principali nemici dello Stato. Io gli ho detto: “No, non lo sapevo”. Ed io davvero non lo sapevo. Poi lui ha chiesto: “Da dove vieni?” e io ho detto: “Dall’Alto Adige”. “Che mestiere fai?” “Lavoro in agricoltura” “Come?” ha detto “Vuole sapere ancora del mio lavoro?”. Allora mi ha schiaffeggiato e insultato per un bel po’ di tempo. Alla fine sono riuscito a cavarmela. Mi ha lasciato andare. Ho avuto sfortuna. Il giorno dopo l’ho incontrato di nuovo ed è incominciato tutto daccapo. “Tu! Tu sei quello di ieri, vieni qui!”. Mi ha di nuovo preso a schiaffi. Per un bel po’. Me lo sono ben tenuto a mente e mi sono detto: “Te non voglio proprio incontrarti più!”
Non l’ho più incontrato perché lo evitavo, ho pensato che non volevo proprio farmi picchiare senza motivo. Sapevo di non avere colpe. E poi era un sergente delle SS sconosciuto, uno che non aveva nulla a che fare con il nostro Lager Goldfisch a Mosbach. Non lo conoscevo. Era un estraneo. Forse aveva a che fare con i deportati, ma non con noi Strafgefangene.
D: Quanti eravate nel Lager di Mosbach? Centinaia o migliaia?
R: Qualche centinaio, 500/600. Non lo so di preciso, all’incirca 300 / 600 / 700 Strafgefangene. Alcuni eravamo stati condannati per diserzione; altri per furto, altri per omicidio, altri ancora per storie di donne, avevano commesso crimini diversi.
D: E lei ha davvero commesso un crimine?
R: Il nostro unico crimine è stato di non esserci arruolati con i tedeschi.
D: E’ stato davvero un crimine?
R: Ai loro occhi sì. Non potevamo abbandonare la truppa. L’abbiamo abbandonata. Siamo diventati disertori ma abbiamo dovuto costituirci perché altrimenti avrebbero portato i nostri genitori in campo di concentramento. Nostro padre ha detto: “Vi dovete costituire prima che finiamo tutti nel Lager. Voi siete solo in due e noi siamo in tanti”.
D: Ritorniamo ancora per un momento alla Sua storia. Poi è tornato a Dachau?
R: Sì.
D: E poi?
R: Il 24 aprile siamo tornati a Dachau. C’era una gran confusione, perché la guerra stava finendo. Non c’era quasi più nulla da mangiare. Ricevevamo caffè da bere, ma pochissimo cibo. È andata avanti così fino al 29 aprile (1945). Il 28 aprile ci hanno scartati alla visita. Quelli come noi avrebbero dovuto prestare servizio in guerra. Io e mio fratello eravamo troppo male in arnese, secondo loro. Non ci hanno preso. Avremmo potuto offrirci volontari. Non l’abbiamo fatto. Non ci siamo offerti. Siamo rimasti nel Lager. Il 28 aprile ci hanno restituito gli abiti che ci avevano tolto in novembre, anche i soldi, non più in lire ma in marchi tedeschi. Non abbiamo saputo fare nulla di più furbo che indossare i nostri abiti civili. Oggi non lo rifarei più, perché questa decisione ci è stata quasi fatale.
Oggi mi procurerei il vestiario dei deportati. Sarebbe stato meglio anche allora, ma eravamo solo dei ragazzi e non sapevamo cosa fosse la guerra e cosa sarebbe successo.
Il 29 aprile sono arrivati gli americani. Gli americani ci hanno presi prigionieri insieme alla SS. Ci hanno catturati e messi insieme a loro semplicemente perché noi indossavamo i nostri abiti civili. Glielo abbiamo ben detto che noi eravamo detenuti nel Lager. Ci hanno chiesto se eravamo stati soldati. Si, per quattro giorni. E allora dovevano trattenerci. Ci hanno portato fuori con gli uomini delle SS e con tutti i prigionieri che avevano catturato. Improvvisamente ci siamo trovati dietro un muro, un muro di pietra, lungo forse 30-40-50 metri e alto 3 metri, o forse di più.
Fuori avevano due mitragliatrici pronte, nessun uomo accanto a loro ma tutte le guardie che ci avevano accompagnato là. Abbiamo dovuto metterci lungo il muro, con la faccia rivolta al muro e le braccia in alto. Volevano fucilarci sul posto, immediatamente. All’ultimo minuto è arrivato un ufficiale americano di grado elevato. Ha fatto fermare tutto.
Ci è stato permesso di rientrare nei ranghi. Così ci hanno fatti uscire dal Lager e ci hanno portato a Dachau, forse in un edificio pubblico. Era una casa grande a due piani, con un grande piazzale. Hanno portato lì tutti i prigionieri che avevano.
C’eravamo anche noi. Nel giro di due giorni, o forse di un giorno solo, si è riempito tutto l’edificio. C’erano forse 300 prigionieri al primo piano e 300 al secondo. Dopo due giorni ci hanno portati a Fürstenfeldbruck. Là avevano preparato un campo per prigionieri nuovo di zecca. Ai quattro angoli del campo c’era una torre con illuminazione e con sentinelle americane. Erano molto preoccupati che i prigionieri potessero scappare.
Hanno disegnato una riga bianca, un quadrato che racchiudeva il campo. Nessuno poteva oltrepassarla. Chi l’ha fatto è stato immancabilmente ucciso a colpi di fucile. Ogni mattina c’erano dei morti perché molti prigionieri credevano di potersene andare inosservati. C’erano anche dei posti di guardia intermedi, il quadrato disegnato in bianco misurava forse 150 x 150 m. C’erano continui arrivi di nuovi prigionieri. Era il primo maggio (1945). Ha nevicato e piovuto. Faceva freddo. Noi gelavamo.
I prigionieri si sono scavati delle buche, con le mani o con qualsiasi altra cosa potesse servire. Perlopiù avevamo a disposizione solo le nostre mani. Ci trovavamo in un campo in cui erano appena stati interrati i tuberi delle patate. Avevamo tantissima fame. Scavando le buche abbiamo scoperto le patate, che erano ancora fresche di semina. Le abbiamo dissotterrate tutte. La notizia si è diffusa immediatamente tra i prigionieri. In un giorno solo tutte le patate sono state dissotterrate. Le abbiamo arrostite o lessate e mangiate, perché c’era della legna che si poteva usare.
Per otto giorni gli americani non ci hanno dato assolutamente nulla da mangiare. Avevamo una fame tremenda. Eravamo io e mio fratello e poi c’era un certo Franz Thaler di San Martino in Val Sarentina, era molto debilitato, zoppicava. Era triste e disperato. Io gli dicevo spesso: “Franz, adesso che la guerra è finita, che siamo fuori dal Lager non devi disperare, riusciremo a tornare a casa”. Era molto scettico perché era malato.
Dopo otto giorni gli americani ci hanno dato due scatolette, una con biscotti e un paio di dolci e l’altra con un pasto, pasta e fagioli o roba simile. Era tutto buono, ma troppo poco. Nel campo noi abbiamo mendicato. Ma abbiamo ricevuto ben poco, perché ognuno si teneva il poco che aveva. Ogni giorno arrivavano nuovi prigionieri. Sono arrivati anche Franz Haller e suo fratello. Stavamo insieme.
Loro rubavano. Questa era la nostra unica possibilità di sopravvivere, perché altrimenti saremmo morti di fame e poco ci mancava. Rubavamo ciò che ci serviva. Però ci hanno scoperti. Hanno detto in tutto il Lager che noi eravamo ladri. Quello stesso giorno sono arrivati gli americani con dei grossi camion per trasferire i prigionieri da qualche altra parte. Noi ci siamo subito fatti avanti e siamo partiti. C’erano 12 camion in tutto.
Su ogni camion hanno fatto salire almeno 50 uomini. Correvano come dannati, in colonna, c’erano tre/quattro metri di distanza tra uno e l’altro e viaggiavano a grande velocità. Siamo poi arrivati in una città. Da qualche parte c’era un ostacolo, forse a un incrocio. Il primo camion ha inchiodato. Tutti gli altri si sono fermati in pochissimo spazio. Non ci sono stati tamponamenti. Abbiamo proseguito verso Ulma.
Siamo rimasti lì un paio di giorni, sempre senza mangiare. Prima di partire con i camion da Fürstenfeldbruck, la Croce Bianca tedesca aveva distribuito del cibo e noi ne avevamo quel tanto che ci avrebbe permesso di vivere per un giorno. Ci hanno trasferiti da Ulma a Heilbronn in un campo per prigionieri molto grande. Si diceva che ci fossero più di un milione di prigionieri, suddivisi in gruppi più piccoli. Giungemmo anche noi in uno di questi gruppi.
Gli americani erano di solito buoni e non ci stressavamo mai, ma da mangiare non ci davano nulla, quasi nulla. Almeno tre settimane abbiamo passato così. Adesso non ricordo con precisione, ma è stato all’incirca da metà maggio fino a giugno, forse fino alla metà di giugno. Ricevevamo da mangiare una volta al giorno, mezzo litro/tre quarti di litro di zuppa liquida. Così è stato all’inizio. Dopo ci è stato dato del cibo tedesco in più, prima da dividere tra 18 uomini poi tra 14, oltre a una piccola fettina di pane. Ma non bastava. Eravamo molto deboli e smagriti. Dormivamo 16-17 ore al giorno, come i bambini piccoli. Ogni tanto volevamo e dovevamo alzarci, per andare a prendere da mangiare o perché magari avevamo qualcosa da fare, ma altrimenti ci lasciavano in pace per quanto potevano.
In tutta la Germania non c’era più nulla da mangiare. Prima di tutti venivano i soldati americani, loro ricevevano tutto, come sempre. Poi venivano i lazzaretti e i campi degli ammalati. Poi veniva la popolazione civile e alla fine i prigionieri. Per noi quindi non rimaneva molto.
D: Quanto è rimasto a Heilbronn?
R: Tra le tre e le quattro settimane. Non ricordo più bene. È passato troppo tempo. Alla fine siamo andati via anche da Heilbronn. Ci hanno caricati su un treno, migliaia di uomini. Abbiamo attraversato la Germania e siamo andati in Francia. In Francia, nei dintorni di Parigi, a Soissons.
Dalla stazione partiva una strada ripida che conduceva su un’altura. Abbiamo camminato di sicuro per una buona mezz’ora, o forse di più. Non eravamo quasi più in grado di camminare. Avevamo semplicemente esaurito le forze, perché anche ad Heilbronn non riuscivamo a stare in piedi e continuavamo a cadere. Tutto diventava grigio e per breve tempo svenivamo. Cascavamo e poi riprendevamo i sensi.
Poi ci rialzavamo, sempre molto lentamente, ma non ce la facevamo. Eravamo così deboli e talmente sfiniti che proprio non riuscivamo a stare in piedi. Cadevamo di nuovo, non sempre, ma spesso. Solo al terzo tentativo riuscivamo davvero ad alzarci ed a camminare, per fare quello che dovevamo, per prendere il cibo e cose così.
Dopo che avevamo fatto tutto, tornavamo nella nostra tenda e dormivamo, dormivamo, dormivamo.
D: La vostra situazione è migliorata in Francia?
R: È migliorata perché tutti sapevano che noi, eravamo sette o otto, eravamo stati prigionieri a Dachau. Lo sapeva tutto il campo. L’amministrazione del Lager, dove c’erano naturalmente tutti prigionieri austriaci ed italiani, ci ha diviso per nazionalità. Nel nostro campo c’erano solo austriaci e italiani con la cittadinanza italiana, come noi l’abbiamo sempre avuta. Noi eravamo e siamo rimasti cittadini italiani.
A noi, quando distribuivano il cibo, che veniva preparato fuori dal campo e distribuito poi all’interno, a noi davano sempre uno/due litri di zuppa in più, perché sapevano che eravamo stati a Dachau, e se ne avanzava ce ne davano ancora. Ogni giorno ricevevamo tre, quattro, anche cinque litri di zuppa. E la zuppa non era per niente male. Ne avevamo bisogno.
Era il cibo più adatto per superare la nostra totale debilitazione, il nostro stato di denutrizione. Era una zuppa né troppo grassa né troppo ricca. In questo modo siamo riusciti a riprenderci. Avevamo cibo quasi a sufficienza. Ricevevamo anche un pane americano, le “aggiunte americane” o come chiamavamo le pagnotte. Si trattava di pane bianco. Dovevano essere suddivise in quattro parti, c’era una pagnotta ogni quattro uomini.
D: In Francia?
R: Sì, in Francia.
D: Quando è arrivato a casa?
R: In questo campo stavamo meglio e siamo rimasti fino al 17 agosto. Alcuni giorni prima, forse tra il 10 ed il 12 agosto, è arrivato un colonnello italiano. Ci ha consolati e ci ha detto che saremmo tornati a casa. Era venuto apposta. Non sapeva che nel campo ci fossero prigionieri italiani, dovevamo scusarlo, altrimenti sarebbe venuto prima.
Si è subito dato da fare. Due giorni dopo hanno fatto partire gli ammalati. Poi sono partiti i prigionieri fino alla lettera “H”, che erano proprio tanti, e poi quelli dalla lettera “H” alla “Z”. Noi, con la lettera “P”, eravamo tra gli ultimi. Siamo usciti dal campo il 17 agosto e abbiamo ripercorso la strada fino alla stazione.
Ci hanno fatto salire di nuovo sui vagoni, sempre con gli americani di guardia. Quello è stato un bene, perché i francesi ce l’avevano a morte con i prigionieri. I francesi pensavano fossimo tutti tedeschi. Venivano con le pietre e le lanciavano contro i vagoni, ma gli americani sapevano come tenerli a bada. Gli americani ci hanno accompagnato fino al confine con la Svizzera. E poi sono spariti. Ci hanno lasciati soli. Finalmente, intorno al 19/20 agosto, eravamo di nuovo uomini liberi.
Ci siamo fermati là per un giorno e mezzo. Poi siamo partiti per l’Italia, attraverso la galleria del San Gottardo siamo arrivati a Domodossola e da lì siamo andati a Novara. A Novara ci hanno dato un foglio di congedo. Abbiamo potuto proseguire, fino a Milano il gruppo è rimasto unito, da Milano a Verona eravamo ancora numerosi e poi siamo rimasti in pochi. Alla fine siamo rimasti soli e ci siamo dovuti arrangiare per tornare a casa, dove siamo arrivati il 23 agosto.
D: Finalmente.
R: Finalmente! Avevo un fratello più vecchio. Era nato nel 1922. Era nell’esercito italiano di stanza in Italia. Avremmo dovuto combattere contro nostro fratello. Non l’abbiamo fatto e non abbiamo mai voluto farlo. Mio fratello è tornato in congedo proprio quando noi siamo arrivati a casa. Ci siamo incontrati da una delle nostre sorelle. Ci ha detto “Cosa? Siete i miei fratelli? Così gracili? Così scheletrici? Macilenti? Siete allampanati, vi si può vedere attraverso”. Gli abbiamo detto: “Avresti dovuto vederci due o tre mesi fa. Allora avresti potuto dire queste cose, ora non più”. Infatti ci eravamo ripresi abbastanza. Siamo arrivati a casa il 23 agosto 1945.
D: Posso farle ancora una domanda: Riesce a dimenticare? Vuole dimenticare? Oppure non vuole farlo?
R: Ho dimenticato tante cose, ma è impossibile dimenticare tutto. È proprio fuori discussione. È un pezzo della mia vita, un pezzo crudele della mia vita. I tedeschi ci hanno martoriati e torturati e stressati e ci hanno fatto soffrire la fame.
Dormivamo poco. Alle 10 potevamo andare a dormire, ma verso le 11, le 12 partiva l’allarme aereo che durava circa due ore. Era estremamente raro che non ci fossero allarmi aerei. Forse all’inizio di dicembre, ma da febbraio in poi l’allarme aereo suonava due volte quasi ogni notte. Con l’allarme dovevamo andare nel Bunker e nel Bunker nessuno poteva dormire. E adesso Lei sa quante ore ci rimanevamo per dormire, se andavamo a letto alle 10 di sera, stavamo quattro ore nel Bunker ed alle 5 del mattino dovevamo di nuovo alzarci. Tempo per dormire non ce n’era più tanto.

(traduzione dall’originale tedesco dell’Ufficio Traduzioni del Comune di Bolzano / Dr.ssa Maddalena Rudari, giugno 2017)

Ich heiße Pichler Erich Florian. Ich bin geboren am 14. Oktober 1926 in St. Leonhard in Passeier.
FRAGE: Waren Sie in Schlanders im Gefängnis?
ANTWORT: Ja. Wir mussten uns dort zurückmelden wegen der Sippenhaft. Man wollte unsere Eltern hier nach Bozen ins Lager bringen. Das hat der Vater nicht angenommen, weil er schon vier Jahre russische Gefangenschaft mitgemacht hat von 1914 August bis 1918, vielleicht auch August. So hat er von uns verlangt, dass wir uns zurückmelden.
Das haben wir uns und dann haben sie uns eingekerkert. Wir haben uns am 19. August 1944 gestellt in Schlanders und dann haben sie uns am 22. August eingekerkert in Schlanders in den Kasernen. Das Reglement kam dann nach Mals. Auch uns brachten sie nach Mals eine Zeit lang. Dann haben sie entschieden uns endgültig eingekerkert zu lassen und haben uns in das Gerichtsgefängnis nach Schlanders zurückgebracht.
FRAGE: In Meran gab es kein Gerichtsgefängnis?
ANTWORT: In Meran wird es schon ein Gefängnis gegeben haben, aber uns haben sie in Schlanders eingekerkert im Gerichtsgefängnis.
FRAGE: Wissen Sie warum genau in Schlanders und warum nicht in Meran?
ANTWORT: Weil wir eigentlich in Schlanders eingekerkert wurden und dort zuständig waren. Von Schlanders hat man uns nach Bozen gebracht zu einem Prozess.
FRAGE: Wo?
ANTWORT: In Gries in den Kasernen. Dort haben sie uns dann verurteilt, mich und meinen Bruder, weil ich war nicht alleine. Dann haben sie uns drei Jahre Zuchthaus gegeben. Dann brachten sie uns wieder nach Schlanders zurück. Das war vielleicht um den 10. Oktober. Dann blieben wir wieder in Schlanders, haben nichts mehr gehört bis zum 11. November.
Am 11. November hieß es wir müssten noch einmal zu einem Prozess nach Bozen, weil das letzte Mal ist nicht richtig gewesen, vielleicht werden wir freigesprochen. Dann sind sie mit uns nach Bozen. Dann haben wir noch einmal einen Prozess gehabt. Da haben sie uns 11 Jahre Zuchthaus gegeben für die Fahnenflucht, weil wir uns geweigert haben, Kriegsdienst zu machen.
FRAGE: Wer waren die Richter bei jenem Prozess?
ANTWORT: SS und Polizeigerichtsbarkeit war das.
FRAGE: Wo war genau dieses Gebäude?
ANTWORT: Das kann ich nicht genau sagen. Draußen in den Kasernen, hier in Gries, Bozen.
FRAGE: Am Grieserplatz genau oder an einem anderen Ort?
ANTWORT: In den Kasernen draußen.
FRAGE: In der Vittorio-Veneto-Straße? Auf der Straße nach Meran?
ANTWORT: Ja, dort draußen. Dann haben sie uns die 11 Jahre gegeben. Dann brachten sie uns ins Gerichtsgefängnis hier in Bozen für fünf Tage.
FRAGE: Wo war dieses Gerichtsgefängnis hier in Bozen?
ANTWORT: Wo es auch heute noch ist, draußen an der Talfer. Von dort haben sie uns am 16. November geholt mit viel Schimpfen: “Ihr werdet erschossen! Was glaubt ihr Fahnenflucht zu begehen?” Sie haben uns dann in Handschellen gelegt. Später haben sie sie uns wieder abgenommen, weil man hat uns hinausgebracht zum Bahnhof.
Dann war gerade Fliegeralarm und wir mussten dann in das Tunnel, das auf der anderen Seite um Luftschutz gehen. Wenn der Fliegeralarm vorbei war dann haben sie uns auf die Bahn gebracht und nach Dachau abgeschoben. Sie haben uns die Handschellen abgenommen, weil sie sagten, dass wir eigentlich uns ja nicht wehrten oder wehren konnten. Dann sind wir am 17. November in Dachau angekommen.
FRAGE: Bevor wir von Dachau sprechen. Können Sie uns genau erklären was Fahnenflucht bedeutet?
ANTWORT: Wir sind eingerückt am 2. Juni und am 6. Juni haben wir uns von der Truppe entfernt, sind geflohen und dann haben wir uns zu Hause in der Nähe oder so aufgehalten, vom 6. Juni bis zum 19. August. Dann haben wir uns stellen müssen damit die Eltern nicht ins Lager nach Bozen gekommen sind.
FRAGE: Wussten Sie, dass es ein Lager in Bozen gab?
ANTWORT: Ja, das wusste man schon, dass es ein Lager gab, aber wie das aussah wusste eigentlich niemand. Das Lager Kaiserau hat man es geheißen, aber wir haben mit dem nichts zu tun gehabt.
Wir sind nach Dachau gekommen. Dort angekommen mussten wir…
FRAGE: Erinnern Sie sich wie Sie nach Dachau gekommen sind? Mit einem Bus? Mit dem Zug?
ANTWORT: Mit dem Zug. Der Zug war demoliert worden und so mussten wir einen Umweg fahren über Pustertal nach Lienz und von Lienz nach Dachau. Das war eine lange Strecke. Somit brauchten wir die ganze Nacht und den ganzen Tag. Bis nach München sind wir mit dem Zug gefahren. In München, da haben sie uns aussteigen machen, bekamen wir auch einmal etwas zu essen.
FRAGE: Waren Sie in einem Zug oder in einem Wagon?
ANTWORT: Nein, in einem Personenzug, aber mit kaputten Fenstern. Es war kalt.
FRAGE: Wie viele ward ihr in diesem Zug nach Dachau?
ANTWORT: Ich und mein Bruder und Haller Franz, unsere drei und drei Posten.
FRAGE: SS?
ANTWORT: Ja, und Polizei.
FRAGE: Dann kamen Sie auf den Münchner Bahnhof?
ANTWORT: Ja. Dann haben sie uns irgendwo in einem Restaurant ein Essen gegeben, auch die Wache hat gegessen. Dann haben sie uns mit einem Camion nach dem Lager Dachau gebracht. Das sind circa 30 Kilometer entfernt. Dort sind wir gegen Abend angekommen. Da haben sie uns am Tor abgegeben.
Dann mussten wir schon sofort hineinlaufen. Wir waren nicht KZ-ler, wohlgemerkt. Die KZ-ler hatten einen weißblau gestreiften Anzug und wir wenn wir einmal eine Kleidung erhielten, dann war es eine italienische Infanteriemondur. Mit dem haben sie uns Strafgefangene eingekleidet, weil wir die Truppe verlassen haben und fahnenflüchtig waren.
FRAGE: Haben Sie auch eine Matrikelnummer bekommen?
ANTWORT: Nein, die Strafgefangenen hatten keine Matrikelnummer. Das hatten nur die KZ-ler.
FRAGE: Auch kein Dreieck haben Sie bekommen?
ANTWORT: Nein, gar nichts.
FRAGE: In welchen Block wurden Sie gebracht?
ANTWORT: Das war eine extra Baracke für die Strafgefangenen. Das war ganz hinten drinnen. Da waren auch viele Zellen, eine Kaserne oder eine Baracke mit nur Zellen. Es war auch ein langer Gang. In eine dieser Zellen haben sie uns an diesem Abend hineingebracht.
Man hat uns zuerst die Kleidung abgenommen. Dann mussten wir nackt, vielleicht 30 Meter laufen. Dann sind wir in eine Stube gekommen wo sie uns eine Unterhose und ein Hemd gaben. Das war alles.
Dann haben sie uns später in den Bunkerbau gebracht, in einen Zellenbau und in eine Zelle gesperrt. Die Zelle war 2 Meter breit und 3 Meter lang circa. In dieser Zelle waren 23 Mann Neuzugänge eingesperrt.
FRAGE: Waren Sie zusammen mit den anderen drei…
ANTWORT: Ich, mein Bruder und Haller Franz und dann viele Fremde, 20 andere Fremde. 23 Mann waren in diese Zelle gesperrt vom Abend bis zum nächsten Abend. Zu essen haben sie uns einmal eine schlechte Suppe gegeben. Das war alles.
FRAGE: Waren nur Südtiroler in diesem Strafgefangenenblock?
ANTWORT: Nein. Da waren von allen Ländern Gefangene, Kroaten sehr viele, Italiener, Franzosen, Holländer, sogar Norweger, Ungarn.
FRAGE: Deutsche auch?
ANTWORT: Auch Deutsche, weil das war ein Strafgefangenenblock.
FRAGE: Dieser Block trug keine Nummer oder eine Ziffer?
ANTWORT: Das kann ich mich nicht erinnern. Das war eine extra Baracke. Die hatte 15 Stuben und in jeder Stube waren 24 Mann. Da war voll. Wenn voll war haben sie die Häftlinge abgeschoben und in ein Außenlager.
FRAGE: Konnten Sie von diesem Strafgefangenenblock das Krematorium sehen?
ANTWORT: Nein, das Krematorium nicht. Also das war separat. Wir waren abgeschlossen. Es war ein Hof. Wenn wir von diesem Hof hinauskamen, kamen wir auf die Hauptstraße. Draußen waren die KZ-Baracken überall herum. Irgendwo sind auch SS-Baracken gewesen und SS-Wache untergebracht. Auch wir wurden von der SS bewacht genau so wie die anderen.
Es ging uns nicht viel besser, vielleicht in manchen Tagen besser, in manchen schlechter. Uns hatte man genauso gestresst und hungern lassen. Wir hatten schrecklichen Hunger.
FRAGE: Wie lange blieben Sie im Zellenbau?
ANTWORT: Im Zellenbau waren wir einen Tag, bis zum nächsten Tag Abend. Dann gaben sie uns die italienische Infanteriemondur. Mit der haben sie uns eingekleidet. Das waren wir Strafgefangene. Jeder Strafgefangene hatte diese Mondur.
FRAGE: Wurden Sie auch rasiert am Kopf oder nicht?
ANTWORT: Nein. Sie hatten uns wohl geschoren, aber nicht kahl. In der Baracke sind ich und mein Bruder in die Stube eingeteilt worden. Dort mussten wir uns einbettlen, weil das war so üblich, dass man erst muss bitten, dass wir hier kommen dürfen, wo man uns doch zugeteilt hat.
Dann haben wir auch den Platz erhalten. Es waren drei Bridgen übereinander und so viele Betten, dass 24 Mann untergebracht waren. Es war noch ein kleiner Tisch dran. Das war eigentlich alles. Da war draußen ein breiter Gang, 3 Meter breit, von der letzten bis zur ersten Baracke, über alle 15 Stuben hinauf und da war auch noch der Waschraum irgendwo, kann ich mich nicht mehr genau erinnern, das Klosett.
Dann mussten wir am Morgen um fünf Uhr aufstehen zum Exerzieren, mussten auch hinausmarschieren durch das KZ-Lager. Dort stand sehr oft gut sichtbar auf dem Platz ein Mann, der geflohen war bei der Arbeit aus dem Lager und er trug eine Tafel: “Ich habe Pech gehabt.” oder “Ich war zu dumm.” oder irgend so ein Spruch. Er ist immer vom frühen Morgen bis zum späten Abend dort gestanden. Er bekam nichts zu essen. Er musste immer stehen.
Was sie damit getan haben, das wissen wir überhaupt nicht, haben sie sie erschossen oder wieder zurückgebracht zu ihren Kameraden. Das weiß ich nicht. Die meisten haben sie immer eingefangen, die stiften gegangen sind. Wir hätten auch einmal eine Gelegenheit gehabt abzuhauen, aber das waren Flausen, weil die haben sie immer erwischt. Das haben wir nicht getan.
Wir mussten 2-3 Kilometer hinausgehen. Draußen war ein kleiner Hügel. Dort waren Bäume drauf. Am Fuße des Hügels mussten wir einen Bunker machen, einen Luftschutzkeller, aber das war alles Sand. Da musste alles mit Blöcken ausgefüttert werden. Da war es nur “so” breit. Da mussten wir mit dem Schiebekarren das Material herausfahren, zickzack heraus. Das war eine schwierige Arbeit. Draußen wurde das neben dem Bahngleis irgendwo aufgeschüttet und getarnt damit sie das nicht sehen konnten. Das ging so nicht lange, weil die Kaserne war voll oder die Baracke.
Den Haller Franz haben sie nach wenigen Tagen nach Nürnberg geschickt und mich und meinen Bruder haben sie auch am 3. Dezember herausgesucht. Wir kamen dann noch Moosbach in Baden. Das Lager haben sie Goldfisch genannt. Dort sind wir gewesen vom 7. Dezember 1944. Dann mussten wir dort bleiben bis zum 27. März. Da wurde das ganze Lager geräumt. Sie haben uns fort.
Wir mussten zu Fuß nach Dachau zurückgehen. Vom 27. März bis zum 24. April sind wir wieder zu Fuß in Dachau angekommen. Das Essen war immer sehr schlecht und wir hungerten sehr und wir waren äußerst geschwächt.
FRAGE: War in Moosbach ein KZ oder eine Kaserne?
ANTWORT: Da waren mehrere Baracken für die Strafgefangenen.
FRAGE: Nur für Strafgefangene?
ANTWORT: Ja, nur für Strafgefangene.
FRAGE: Bei Ihrem Transport von Dachau nach Moosbach, waren Sie nur mit Ihrem Bruder oder mit anderen Strafgefangenen auch?
ANTWORT: Mit 300 / 400 Strafgefangenen. Da haben sie uns mit Viehwagon mit der Bahn nach Moosbach gebracht und dort auswagoniert, mussten auch eine halbe Stunde oder länger zu Fuß gehen bis wir zu diesen Baracken kam. Das Lager war erst im Aufbau.
Ich musste dann im Baustab U, das heißt Unterkunft, arbeiten, Wege einschottern, da war ein Gleis gelegt, und mussten Schotter holen in einer Lore. Wir mussten auch Beton mischen, Barackenböden herausgießen und auf den Baracken Dächer draufmachen.
Wenn das Meiste gemacht war, da kam auch in die Fabrik. Mein Bruder ist sofort in die Fabrik gekommen. Die Fabrik war eine Stunde Fußweg entfernt. Wir mussten da hinausgehen nach Neckarelz. Dort ging die Neckar und über die Neckar war eine Eisenbahnbrücke und auch ein Fußweg. Wir mussten jeden Tag über diese Brücke.
Auf der anderen Seite waren 150 Stufen hinauf. Ganz oben war noch eine steile Holzstiege. Da waren auch noch so 35 Stufen. Dann kamen wir hinauf. Da war der Eingang in die Fabrik. Die Fabrik war alle unterirdisch. Das war ein Hügel. In dieser Fabrik waren viele Hallen, große Hallen, alles im Felsen herausgehauen.
Wir brauchten eine Viertelstunde hinein bis wir auf den Arbeitsplatz kamen. Dann wurden wir verteilt. Jeder musste auf seinem Platz arbeiten gehen. Ich weiß nicht mehr wie viele Hallen waren, 10-11 oder mehr. Ich habe es auch nie gewusst, weil ich nie durch die ganze Halle der unterirdischen Fabrik gekommen bin.
FRAGE: Was wurde in dieser Fabrik produziert?
ANTWORT: Da haben sie Kriegsmaterial produziert. Ich glaube, Panzerteile, Flugzeugteile. Die ganzen Teile wurden nicht zusammengestellt dort, sondern sie kamen alle nach Berlin und dort wurden sie zusammengefügt und -gestellt und aufgebaut.
Mein Bruder war länger in der Fabrik und ich weniger lang, weil ich im Baustab U war. Das ging so bis Mitte Februar. Dann hat es angefangen etwas abzubröckeln. Nicht mehr die Flieger waren sehr lästig. Es wurde viel bombardiert und es gab sehr viel Fliegeralarm. Auch die Eisenbahnbrücke wurde getroffen. Die haben sie das erste Mal wieder so zur Not herstellen können. Doch sie wurde bald wieder bombardiert. Das zweite Mal haben sie sie nicht wiederherstellen können. Das war dann so gegen Ende Februar.
FRAGE: In den Stollen gab es nur Strafgefangene oder auch andere Häftlinge?
ANTWORT: Die Fabrik war separat. Sie war eine Stunde Fußweg entfernt. Wir mussten am Morgen eine Stunde und am Abend eine Stunde zurückgehen ins Lager. Die Fabrik, da waren Zivilpersonen, da waren auch italienische Gefangene so und auch anders Gefangene, Zivilpersonen, Deutsche. Da waren auch mehrere Nationen bei der Arbeit.
FRAGE: Hatten Sie einen Zivilmeister?
ANTWORT: Ja, ich hatte einen Zivilmeister als Vorarbeiter, mein Bruder auch. Da waren die SS. Die haben uns nur hingebracht und waren den ganzen Tag als Posten irgendwie da, aber die hatten nicht rein zu reden bei der Arbeit. Arbeit, da unterstanden wir einem Zivilmeisterchef und mussten mit dem arbeiten.
FRAGE: Haben Sie Unterschiede bemerkt bei der Disziplin, bei der Todesstrafe zwischen Dachau und Moosbach und Goldfisch?
ANTWORT: Ich muss unterscheiden. Goldfisch hieß das Lager. Das war ganz nahe an Moosbach. Moosbach war nur die Stadt. Unser Lager war nahe an Moosbach. Wir konnten einige Male, nicht oft, aber einige Male nach Moosbach um zu duschen, weil für ein bisschen Hygiene musste auch gesorgt werden.
Verlaust waren wir sowieso immer. Die ganzen Kleider waren voll Läuse und die plagten uns sehr.
FRAGE: In den Stollen, wie war die Disziplin? Gab es Todesfälle?
ANTWORT: Ich weiß das nicht. Ich glaube, es sind dort wenig Todesfälle gewesen. Wenn vielleicht irgendwann ein Unglück war oder tatsächlich ein Gefangener verhungert ist. Das ist schon möglich. Es gab auch KZ-Arbeiter dort, einige wenige, weil ich habe einmal mit einem KZ-ler geredet.
Da kam ein fremder SS-Unterscharführer und er hat mich gesehen. Dann hat er mich zusammen geschumpfen ob ich nicht weiß, dass man mit diesen Staatsfeinden Nr. 1 nicht sprechen darf. Ich habe ihm gesagt: “Nein, das weiß ich nicht.” Ich wusste es auch nicht. Dann sagt er: “Von wo kommen Sie?” Ich sage: “Von Südtirol.” “Was sind Sie von Beruf?” “Ich arbeite in der Landwirtschaft.” “Was?” hat er gesagt. “Von meinem Beruf auch noch?”
Dann hat er mich geohrfeigt eine ganze Zeit lang und beschumpfen. Schließlich bin ich schon einmal davon gekommen. Er hat mich entlassen. Ich habe Pech gehabt. Am nächsten Tag begegnete ich ihm wieder. Dann ging es von vorne los. “Sie da! Sie sind ja der Mann von gestern, kommen Sie her!” Dann hat er mich wieder geohrfeigt, auch eine längere Zeit. Dann habe ich es mir gemerkt. Ich habe mir gesagt: “Mann, dir begegne ich nie wieder.”
Ich bin ihm nie wieder begegnet, weil ich bin ihm schon früh genug ausgestellt, weil ich dachte mir: Ich lasse mich nicht hauen für nichts. Ich weiß mich nicht schuldig. Dann ist das auch ein fremder SS-Unterscharführer gewesen, der mit unserem Lager Goldfisch in Dachau nichts zu tun hatte. Den kannte ich nicht. Das war ein anderer. Der hat vielleicht wohl mit KZ-ler zu tun, aber nicht mit uns Strafgefangenen.
FRAGE: Wie viele Strafgefangene ward ihr im Lager Moosbach? Hunderte oder tausende?
ANTWORT: Da waren mehrer hunderte, 500 / 600. Ich weiß das nicht genau, so herum, zwischen 300 / 600 / 700 herum, Strafgefangene. Wir waren Gefangene wegen Fahnenflucht, andere wegen Diebstahl, andere wegen Totschlag, andere wegen Frauengeschichten. Die hatten alle andere Delikte begangen.
FRAGE: Haben Sie wirklich ein Delikt begangen?
ANTWORT: Wir haben kein anderes Delikt begangen als, dass wir den Deutschen nicht gedient haben, den Soldaten.
FRAGE: War das wirklich ein Delikt?
ANTWORT: In ihren Augen schon. Wir durften die Truppe nicht verlassen. Wir haben sie verlassen. Wir sind fahnenflüchtig geworden, weil wir mussten uns stellen, weil sie sonst die Eltern ins Lager gebracht hätten. Der Vater hat gesagt: “Bevor wir alle ins Lager gehen, müsst ihr euch stellen. Ihr seid nur zwei und wir sind mehrere.”
FRAGE: Noch eine Minute zurück zu Ihrer Geschichte. Danach kommen Sie wieder nach Dachau.
ANTWORT: Ja.
FRAGE: Und dann?
ANTWORT: Am 24. April sind wir in Dachau zurückgekommen. Dann war auch alles nicht mehr in Ordnung, weil der Krieg ja zu Ende ging. Es gab kaum mehr zu essen. Man bekam sehr wohl Kaffee, aber zu essen sehr wenig. Das ging bis zum 29. April. Am 28. April haben sie uns noch ausgemustert. Die Strafgefangenen hätten sollen Kriegsdienst leisten. Sie bekamen eine Bewährung an die Front zu gehen oder auch nicht.
Ich und mein Bruder waren ihnen zu schlecht. Uns haben sie nicht genommen. Wir hätten uns dann freiwillig melden können. Das haben wir nicht. Wir haben uns nicht gemeldet. Also sind wir im Lager geblieben. Am 28. haben sie uns die im November abgenommenen Kleider zurückgegeben, auch das Geld, nicht mehr in Lire, sondern in Deutsche Mark. Wir wussten nichts Gescheiteres zu tun als unsere Zivilkleidung anzuziehen.
Heute würde ich das nicht mehr tun, weil das ist uns ziemlich zum Verhängnis geworden. Ich würde mir heute eine KZ-Kleidung besorgen. Das wäre besser gewesen, aber wir waren Kinder und wir wussten nicht was Krieg ist und was da kommt. Am 29. April sind die Amerikaner gekommen. Dann haben uns die Amerikaner gefangen genommen mit den deutschen SS und allen wie sie waren. Sie haben uns einfach mit denen zusammen gefangen, weil wir hatten unsere Zivilkleidung an.
Wir haben ihnen schon gesagt wir sind im KZ gefangen gewesen. Ja, ob wir einmal eingerückt sind? Ja, vier Tage. Ja, dann müssen sie uns behalten. Sie haben uns hinaus mit den SS-Männern und mit den ganzen Gefangenen, die sie hatten. Plötzlich waren wir hinter einer Mauer, eine Steinmauer, die war vielleicht 30-40-50 Meter lang, etwa 3 Meter hoch oder auch mehr.
Draußen hatten sie zwei Maschinengewehre stehen, aber keinen Mann dabei und die ganzen Posten, die uns dort hingebracht hatten. Dann mussten wir uns an die Mauer stellen mit dem Gesicht an die Mauer, mit den Händen hoch. Sie wollten uns da erschießen, ganz augenscheinlich. Doch dann kam ein höherer amerikanischer Offizier noch rechtzeitig. Er hat dann alles abgeblasen.
Dann haben wir wieder können in die Reihe gehen. Dann haben sie uns dort weg und hinausgebracht nach Dachau in ein Staatsgebäude wahrscheinlich. Das war ein großes Haus mit einem großen Platz, einen Stock unten und einen oben. Da haben sie die Gefangenen, die sie hatten, hineingebracht.
Wir waren auch da. Da war vielleicht innerhalb nur zweit Tagen das alles voll, ja, schon nach einem Tag. Es sind vielleicht untenauf 300 Gefangene gewesen und obenauf auch 300 Gefangene. Nach zwei Tagen mussten wir gehen nach Fürstenfeldbruck hinaus. Dort hatten sie ein nagelneues Gefangenenlager bereitet. Auf allen vier Ecken da stand ein Turm mit Beleuchtung und mit amerikanischen Posten. Sie haben zu sorgen gehabt, dass die Gefangenen nicht abhauen.
Man hatte einen weißen Streifen gezogen, viereckig. Dort durfte niemand hinaus. Wer da hinausgetreten ist, den haben sie unweigerlich erschossen. Jeden Morgen gab es dort Tote, weil viele Gefangene glaubten sie kommen fort, sie können sich fortschleichen. Es waren auch Zwischenposten, weil das war vielleicht 150 m x 150 m eingekreist mit diesem weißen Band. Dort haben sie dauernd neue Gefangene gebracht. Das war am ersten Mai. Dann hat es geschneit und geregnet. Es war kühl. Wir froren.
Die Gefangenen haben sich dort Löcher herausgemacht mit den Händen oder mit was immer. Wir haben meistens nur die Hände gehabt. Es war dies ein Acker. Dort waren gerade Kartoffel gesetzt. Hunger hatten wir sehr. Mit Löchermachen haben wir entdeckt, dass Kartoffeln angepflanzt sind und die waren erst frisch da. Die haben wir alle herausgegraben. Das wussten die Gefangenen sofort. In einem Tag sind die alle herausgegraben gewesen. Die haben wir uns gebraten oder gekocht und gegessen, weil es war auch ein bisschen Holz herum.
Die Amerikaner haben uns acht Tage überhaupt nichts zu essen gegeben. Wir hatten großen Hunger. Ich und mein Bruder, wir waren nur wir zwei, auch ein gewisser Thaler Franz aus Sarnthein, aus Reinswald, der war sehr behindert, er hinkte sehr. Er war trostlos und verzweifelt. Ich habe ihm oft gesagt: “Franz, jetzt wo der Krieg zu Ende ist, wo wir aus dem Lager heraus sind, darfst du nicht verzweifelt, wir werden schon nach Hause kommen.” Er war sehr skeptisch, weil er war krank.
Dann haben uns die Amerikaner nach acht Tagen zwei Dosen gegeben, eine mit Kekse und ein paar Süßigkeiten und eine mit einem Essen, Nudeln und Bohnen und so. Das war gut, aber viel zu wenig. Wir haben wohl im Lager gebettelt. Doch da haben wir kaum etwas bekommen, weil ja jeder das bisschen, das er hatte, nicht hergeben wollte. Es kamen täglich Neuzugänge, neue Gefangene. Da kam auch Haller Franz und sein Bruder. Dann sind wir zusammen gegangen.
Sie haben geklaut. Das war eigentlich die einzige Überlebenschance für uns, sonst wären wir verhungert. Wir wären es ja schon so fast.
Wir haben dann geklaut was wir gerade brauchten. Doch dann haben sie uns erwischt. Dann haben sie das im ganzen Lager veröffentlicht, dass wir Diebe sind. Da kamen die Amerikaner genau an dem Tag mit großen Camion um Gefangene aus dem Lager anderswo hinzubringen. Wir haben uns sofort gemeldet und sind mit 12 Camion weiter gefahren.
In jeden Camion haben sie zumindest 50 Mann hineingepfercht. Sie sind gefahren wie die Neger, im Tempo und alle kurz hintereinander mit drei-vier Meter Abstand, großer Geschwindigkeit. Dann kamen wir in eine Stadt. Dort war irgendein Hindernis, vielleicht an einer Kreuzung. Der erste hat schnell abgestoppt. Alle anderen haben sofort in kürzester Strecke abgestoppt gehabt. Sie sind nicht aufeinander aufgefahren. Als es wieder weiter ging, sind wir weiter gefahren nach Ulm.
Dort sind wir ein oder zwei Tage gewesen, auch ohne Essen, aber bevor wir in Fürstenfeldbruck fort sind mit den Camion hat das weiße Kreuz Deutschlands Essen ausgeteilt und wir haben gerade soviel zusammengebracht, dass wir auch tatsächlich einen Tag leben konnten. Dann haben sie uns von Ulm nach Heilbronn in ein großes Gefangenenlager dort. Da waren, so sagte man, mehr als eine Million Gefangene in vielen kleinen Abteilungen. In so eine Abteilung kamen auch wir.
Die Amerikaner waren sonst sehr gutmütig und haben uns nie gestresst, aber zu essen gab es nichts, fast nichts. Das ging mindestens drei Wochen so, wenn nicht länger. Ich weiß es nicht mehr genau, von Mitte Mai herum bis ein Stück in den Juni hinein, vielleicht bis Mitte Juni. Einmal am Tag haben wir zu essen bekommen, eine dünne Summe zwischen einem halben und einem dreiviertel Liter. Das war alles am Anfang.
Später gab es dann einen deutschen Kommis zu 18 Mann am Anfang, dann zu 14, drauf nur so ein kleines Schnittchen Brot. Das reichte einfach nicht aus. Da waren wir so schwach und so ausgehungert. Wir haben von den 24 Stunden so 16-17 Stunden geschlafen wie die kleinen Kinder. Als wir aufstehen wollten und auch mussten zum Essen holen oder was immer, irgendwas wurde verlangt von uns, von den Gefangenen, sie haben uns gewiss in Ruhe gelassen soviel sie konnten, aber irgendetwas war eben manchmal.
Ganz Deutschland hatte nichts mehr zu essen. Zuerst kamen die amerikanischen Soldaten, die haben alles bekommen wie immer. Dann kamen die Lazarette und die Krankenlager. Dann kam die Zivilbevölkerung und dann kamen erst die Gefangenen. Für uns ist nicht viel übrig gewesen.
FRAGE: Wie lange blieben Sie in Heilbronn?
ANTWORT: Das muss so drei bis vier Wochen gegangen sein. Ich weiß es nicht mehr genau. Es ist zu lange her. Dann sind wir von dort weiter gekommen. Sie haben uns auf die Bahn gebracht, einen ganzen Zug voll, mehrere tausend Mann. Dann sind sie mit uns durch Deutschland hinaus, nach Frankreich gefahren. In Frankreich, so in die Nähe von Paris, nach Soissons.
Dann ging dort vom Bahnhof ein bisschen ein steiler Weg hinauf auf eine Anhöhe. Wir hatten dort sicher eine halbe Stunde oder mehr Fußweg. Wir waren auch kaum im Stande dort hinaufzugehen. Wir waren einfach am Ende unserer Kräfte, weil in Heilbronn wenn wir aufstehen wollten, sind wir immer hinunter gefallen. Es wurde alles grau und das Gedächtnis hat uns verlassen für kurze Zeit. Wir sind hinunter gefallen, dann sind wir wieder zum Bewusstsein gekommen.
Dann sind wir wieder aufgestanden, immer sehr langsam, aber es reichte einfach nicht. Wir waren so schwach und so herunter gekommen, dass es nicht ging. Auch ein zweites Mal sind wir herunter gefallen, nicht immer, aber oft. Erst das dritte Mal ist es gelungen wirklich aufstehen zu können und gehen zu können und das zu tun was wir mussten, unser Essen holen und so.
Sobald wir das alles wieder hatten, gingen wir wieder in unser Zelt um zu schlafen, schlafen und schlafen.
FRAGE: In Frankreich wurde Ihre Lage besser?
ANTWORT: In Frankreich wurde die Lage besser, weil da wussten sie schon, es waren unsere sieben-acht aus Dachau, Gefangene. Das wusste das ganze Lager. Die Lagerführung, es waren alles Gefangene natürlich, Österreicher und Italiener, die haben uns nach Nationen sortiert. In unserem Lager waren nur Österreicher und Italiener mit italienischer Staatsbürgerschaft, weil die hatten wir immer gehabt. Wir sind italienische Staatsbürger gewesen und geblieben.
Dort sind wir gewesen. Uns haben sie immer dann, wo sie das Essen ausgaben, in der Küche, es war nicht die Küche, gekocht haben sie draußen, aber sie haben das ins Lager gebracht, zur Obrigkeit, dort wurde es verteilt, weil sie wussten, dass wir in Dachau waren, haben sie stets um ein-zwei Liter Suppe mehr gegeben und wenn noch eine übrig war noch den Rest, einen Nachschlag. So haben wir am Tag drei, vier, auch fünf Liter Suppe erhalten. Die Suppe war nicht gerade schlecht. Man konnte sie schon gebrauchen.
Das war eine passende Kost zum Übergang von unserer Heruntergekommenheit, von unserer Unterernährung. Sie war nicht zu fett oder zu üppig. So haben wir uns erholen können. Wir haben annähernd genügend zu essen gehabt. Wir bekamen auch dort ein amerikanisches Brot, die amerikanischen Militärkommiss oder wie man die hieß, die Brote. Es waren weiße Brote. Sie mussten in vier Teile geteilt werden und zu vier Mann bekamen wir ein solches Brot.
FRAGE: Das in Frankreich?
ANTWORT: In Frankreich.
FRAGE: Wann kamen Sie endlich nach Hause?
ANTWORT: In diesem Lager ist es uns besser gegangen und dort sind wir gewesen bis zum 17. August. Einige Tage vorher, so vielleicht zwischen 10. und 12. August kam ein italienischer colonnello. Er hat uns getröstet und hat gesagt wir kommen nach Hause. Er ist deswegen hier. Er wusste nicht, dass hier italienische Gefangene waren, wir sollen entschuldigen, sonst wäre er früher gekommen.
Er hat dann alles in die Wege geleitet. Die Kranken haben sie schon zwei Tage später fort. Dann haben sie die Gefangenen bis zum Buchstaben H genommen, weil ja viele waren und dann zuletzt vom H bis Z. Ich mit “P”, wir waren bei den Letzten. Wir sind am 17. August aus diesem Lager herausgekommen und wieder den Weg hinunter auf den Bahnhof, wo wir herauf waren.
Man hat uns wieder einwagoniert, immer mit den amerikanischen Posten. Das war gut, weil die Franzosen waren sehr erpicht auf die Gefangenen. Sie glaubten wir waren Deutsche. Sie sind dann auch mit Steinen gekommen, haben die Wagons gesteinigt, aber die Amerikaner haben sich schon gewusst fernzuhalten. Die Amerikaner haben uns begleitet bis an die Schweizer Grenze. Dann sind die Amerikaner verschwunden. Dann haben sie uns allein gelassen. Endlich waren wir freie Menschen, so um den 20. August herum, 19.
Dort hatten wir eineinhalb Tage Aufenthalt. Dann ging es nach Italien durch den Gotthardtunnel, nach Domodossola, von Domodossola nach Novara. In Novara haben sie uns einen Entlassungsschein gegeben. Dann haben wir können, bis Mailand ist die Gruppe noch zusammen gewesen, von Mailand bis Verona sind noch einige wenige gewesen und dann sind nicht mehr viele gewesen. Dann sind wir auf uns alleingestellt gewesen und mussten sehen wie wir nach Hause kamen.
Wir sind am 23. August nach Hause gekommen.
FRAGE: Endlich am Ende?
ANTWORT: Endlich am Ende. Ich hatte einen Bruder, der älter war. Er war 1922 geboren. Er war beim italienischen Heer in Italien unten stationiert. Wir hätten sollen gegen unseren Bruder kämpfen. Das haben wir nicht getan und auch nie wollen. Der Bruder kam gerade auch in Urlaub als wir nach Hause kamen. Wir haben uns bei einer unserer Schwestern getroffen. Er sagte: “Was? Ihr seid meine Brüder? So dünn? So dürr? So mager? Ihr seid wie eine Laterne, man kann durch euch durchsehen.”
Wir haben ihm gesagt: “Da hättest du uns müssen vor zwei Monaten sehen oder drei. Dann könntest du das sagen, aber jetzt nicht mehr.” Wir hatten uns ziemlich erholt. So sind wir nach Hause gekommen am 23. August 1945.
FRAGE: Noch eine kurze Frage? Können Sie das vergessen oder möchten Sie das vergessen oder wollen Sie das nicht vergessen?
ANTWORT: Ich habe vieles vergessen, aber ich kann unmöglich alles vergessen. Das ist ganz ausgeschlossen. Das ist ein Lebensstück und ein böses Lebensstück. Die Deutschen haben uns sehr gequält und gepeinigt und gestresst und Hunger leiden lassen. Schlafen konnten wir wenig, weil um zehn Uhr durften wir schlafen gehen, aber um elf Uhr-zwölf Uhr war Fliegeralarm, der dauerte durchwegs zwei Stunden. Das war äußerst selten, dass kein Fliegeralarm war. Am Anfang im Dezember noch, wenn aber Februar wurde, dann war fast jede Nacht zweimal Fliegeralarm. Wir mussten immer in den Bunker gehen und im Bunker konnte niemand schlafen. Dann wissen Sie wie viele Stunden uns noch blieben zum Schlafen, wenn wir vier Stunden mussten im Bunker sein, um zehn Uhr abends ins Bett kamen und fünf Uhr morgens aufstehen mussten. Dann gab es Schlaf nicht mehr viel.

Thaler Franz

Nota sulla trascrizione della testimonianza:
L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Franz Thaler, sono nato il 6 marzo 1925. Negli anni Trenta, dal 1931 al 1939, ho frequentato la scuola italiana. Poi quando avevo 14 anni. Mio padre… Ci sono state le opzioni. Mio padre ha scelto di rimanere, ha scelto l’Italia. Dunque io ero italiano.
E poi la gente un pochino… “Tu sei un italiano!” (Walscher!, dispregiativo). Sono stato messo in disparte. Erano tempi brutti. Erano pochi quelli che avevano scelto di restare e sono stati un poco angariati. Dicevano: “L’italiano!” (“Der Walsche!”)
Poi è arrivato un maestro tedesco che doveva insegnare il tedesco ai ragazzi e ai bambini. Una domenica siamo andati tutti a scuola. Il maestro si scriveva i nomi e quando è stato il mio turno anch’io volevo dirgli il mio nome. Però sono intervenuti alcuni ragazzi che hanno urlato “Lui è un Walscher!”
Allora questo maestro mi ha guardato per un po’ e poi mi ha detto che dovevo andarmene, lui voleva insegnare solo ai bambini tedeschi. Questo è stato, per dire, il primo colpo. È andata avanti così. Avevo dei bravi compagni. Se qualche volta non andavamo d’accordo allora mi dicevano “maiale italiano!”.

D: In che paese abitava Lei all’epoca?

R: A Valdurna. È una frazione di Sarentino, proprio in fondo alla valle. Poi vennero tempi in cui molti dei tedeschi dovettero arruolarsi, anche degli italiani. Poi presto si cominciò a sentire che dei soldati erano caduti in guerra. E allora il grande entusiasmo per la Germania cominciò a scemare. C’erano quelli che imprecavano contro Hitler e che prima avevano gridato “Heil Hitler!”. Avevano visto che non andava bene.
Nel 1943 ci fu la capitolazione di Mussolini. Da lì in poi Hitler ha avuto tutto il potere su di noi. Si sono gettati su di noi. Abbiamo dovuto fare la visita di leva, tutti insieme, gente dai 16 ai 50 anni. Ovviamente la maggior parte era abile all’arruolamento. E anch’io lo ero.
Poi ho pensato che presto avrei dovuto arruolarmi. Sono scappato. Poi un accanito nazista del nostro paese ha detto a mio padre: “Se il Franz non si presenta, verranno messi in carcere suo padre e sua madre”. Allora mio padre mi ha cercato. Sapeva più o meno dove mi nascondevo. Stavo in montagna, non potevo farmi vedere da nessuno.
Quando volevo prendere qualcosa da mangiare dovevo muovermi di notte, senza luce. Avevo un fratello dall’altra parte (della montagna), andavo da lui. Mi dava burro e formaggio, lassù faceva il malgaro … la notte potevo andare a prendere qualcosa. C’erano anche un paio di altri compagni, da cui potevo andare.
Così la vita è andata avanti. Era estate. Mi sembrava di essere un animale selvatico. Appena sentivo un rumore mi spaventavo molto, volevo scappare
Un giorno passavo per il bosco, ho visto due uomini dietro un albero e volevo già scappare. Poi uno mi ha chiamato: “Fermati Franz! Non ti facciamo nulla!” Allora ho subito riconosciuto la voce. Era un collega di Vilandro. Ci conoscevamo da tanto tempo. Mi sono fermato, mi sono avvicinato un po’ a loro, abbiamo parlato e poi loro sono andati per la loro strada. Non è successo nulla..
Dovevo spostare continuamente il campo. Una volta sono stato forse tre settimane in una distilleria di pino mugo, ma me ne sono dovuto andare. Sono stato in un fienile, forse per due-tre settimane, e poi di nuovo in un altro fienile. Avevo tre fienili e la distilleria. Lì trascorrevo le notti.
Non era bello, tuttavia più bello di quello che è venuto dopo. Poi mio padre mi ha cercato e mi ha pregato: “Ti prego Franz, consegnati, altrimenti rinchiudono me e la mamma”. E tu cosa fai, allora? Volevo risparmiare un dolore ai miei genitori e mi sono consegnato. Sembrava che se mi fossi consegnato non sarebbe successo niente a me e ai miei genitori.
Io non ci credevo, ma la sera sono andato a casa. Poi è arrivato il comandante del posto (Ortsleiter), il nazista, e ha detto: “È bello, Franz, che tu adesso ti arruoli. Aiuti a combattere per Hitler.” Il giorno dopo sarei dovuto andare a Bolzano. Poi hanno chiesto un po’ e quindi mi hanno dato un foglio, una convocazione a Silandro per il servizio militare.
Sono arrivato là. C’erano molti conoscenti delle mie parti. “Come mai sei venuto qui?” Ho raccontato loro come era andata. Ho fatto due mesi di addestramento.

D: Quando sono stati questi due mesi?

R: Dal 21 settembre fino a due mesi dopo, in novembre. Terminato l’addestramento gli altri sono stati mandati giù in Italia, a Belluno ed io sono stato messo in prigione. Sono dovuto andare dal comandante del battaglione e lui mi ha letto una lettera: “Dovevi arruolarti a giugno e sei rimasto a gironzolare in montagna”. Mi ha chiesto se era vero. Ho pensato che ormai non potevo più negare.
Poi mi ha detto: “Domani andrai a Bolzano al Tribunale di Guerra!”. Il sergente (Wachtmeister) della mia compagnia mi ha portato a Bolzano. Sono entrato in una grande sala. C’era un tavolo. Dietro al tavolo sedevano otto/dieci SS. Erano i giudici. Uno di loro ha letto un foglio, il codice penale: “Per coloro che rifiutano il servizio militare c’è la pena di morte”. Ho pensato “In nome di Dio, qui mi fucilano.”
Le cose sono andate in modo diverso. Hanno guardato un po’. Pensavano che sarei svenuto, ma non l’ho fatto. Ho sorriso loro. Poi un SS ha preso un altro foglio e ha letto la sentenza: “Poiché l’imputato è minorenne”, perché allora si diventava maggiorenni a 21 anni ed io ne avevo solo diciannove, “e poiché si è presentato volontariamente, egli non viene condannato a morte, ma a 10 anni nel campo di concentramento di Dachau“.
In un primo momento ho pensato che mi fosse andata di nuovo bene, visto che non venivo fucilato. La parola Dachau non mi diceva nulla, non l’avevo mai sentita prima.
Sono rimasto altre tre settimane in prigione a Silandro. Quindi mi hanno portato a Dachau. Già il viaggio è stato un po’ duro, in viaggio verso Dachau, ho visto e vissuto tante cose. Quando siamo arrivati a Dachau un gruppo di lavoratori usciva proprio in quel momento dal portone, tutti magri, pallidi. Ho pensato a cosa si dovesse vivere in quel posto per avere quell’aspetto. L’ho capito più tardi.
Mi sono dovuto togliere i vestiti. Mi hanno chiesto perché ero lì, qual era la mia pena e la mia religione. Io ho detto: “Sono cattolico!” L’uomo delle SS allora mi ha risposto: “Qui da noi imparerà a pregare in modo diverso”.
Sono stato fotografato da tutti i lati. Ho ricevuto una camicia logora e un paio di mutande. Poi un SS mi ha portato nel bunker. È un edificio lungo, a destra e sinistra lungo il corridoio si aprono le celle, l’SS ha aperto una porta nel mezzo, mi ha dato uno spintone e buttato dentro. Mi sono guardato intorno. In alto c’era una finestra a bilico. Era stata verniciata di bianco, poi un castello, due letti. Non c’erano letti, solo… Non c’erano coperte, non c’era proprio niente.
Volevo sedermi. Era pressoché impossibile. Mi sono seduto sul coperchio del gabinetto e ho pensato: “Cosa mi succederà adesso?”. Erano già un paio di giorni che non mangiavo nulla. Mi sembrava che mi succedesse quello che accadeva alle bestie dei contadini, forse ai maiali, anche i maiali non venivano più nutriti al mattino. Mi sembrava di essere così: Oggi mi affamano e domani mi fanno fuori. Poi ho sentito dei passi nel corridoio. Ho sentito che veniva aperta la cella accanto alla mia e ho sentito urlare: “Fuori subito”. Ho sentito un uomo che usciva in corridoio. Poi è stata aperto la mia cella: “Fuori subito!”. Abbiamo dovuto pulire il lungo corridoio. All’ingresso c’era un lavatoio. Dovevamo prendere le pezze, un secchio con l’acqua, la paletta e la scopa. Ho pensato che la cosa più semplice era lavorare con la scopa e la paletta.
Allora l’uomo delle SS mi ha subito urlato addosso: “Fannullone! Imparerà con cosa si inizia!”, perché si doveva sempre iniziare dalle cose più pesanti, poi si passava a quelle più leggere. Quando vedevano che tu iniziavi dalle cose più facili, per loro eri il fannullone che voleva cavarsela.

Mi ha preso a ceffoni. Io avevo la paletta e la scopa, l’altro un secchio con l’acqua e le pezze. Mi sono dovuto accucciare e ho dovuto dare la paletta e la scopa all’altro. Poi mi ha dato una scopa. Accucciato ho dovuto saltellare due volte su e giù per tutto il corridoio. Alla fine ero stremato. E poi pulire in fretta il corridoio. Tutto doveva avvenire a passo di corsa.
Finito il lavoro abbiamo riportato indietro le cose e siamo rientrati nelle celle. Ho avuto tempo di pensare a quello che avevo fatto di sbagliato. È andata avanti così. Per cena mi hanno versato in una ciotola di alluminio un po’ di zuppa di cavolo. Sulla porta della cella c’era uno sportello che si poteva aprire e formava una specie di tavolino. Lì bisognava appoggiare la ciotola che veniva riempita. Ho mangiato quello che mi hanno dato, ma era troppo poco. Col dito ho pulito bene tutto.
Era ora di dormire. Non sapevo dove mettermi. Sulla cosa di legno, che era lunga ma nel mezzo aveva una trave, non ci si poteva quasi sdraiare. Quando hanno spento la luce mi sono messo sul pavimento. C’era un termosifone con due elementi ma sicuramente non scaldava. Io gelavo.
Al mattino presto ho sentivo che veniva distribuito il caffè. Si è aperto lo sportello, ci ho messo la ciotola e ho pensato: Mi daranno ben del pane. Sono rimasto così. Allora l’altro mi ha chiesto urlando che cosa aspettavo, mica il pane, vero? Io ho detto “Si.” “No, non c’è pane”. Allora ho bevuto il caffè, era solo acqua sporca. Sono rimasto tre giorni nella cella.
Una volta, finito di pulire il corridoio, dovevamo consegnare le cose e abbiamo sentito urla provenire dal bunker. Poi si è aperta la porta e sono entrate 8-10 persone, rasate a zero, in camicia e mutande. Abbiamo sentito: “Mamma mia!” e abbiamo capito che erano italiani. Li hanno rinchiusi tutti insieme nella stessa cella.
E di nuovo si doveva pulire il corridoio. Sono passati davanti alla mia cella e hanno aperto quella dopo. E l’SS ha urlato “Due uomini subito fuori!”, ma loro non capivano che cosa aveva detto. Così l’SS è entrato nella cella, ha buttato due ragazzi in corridoio e li ha picchiati duramente. Loro hanno dovuto pulire il corridoio.
Da quel giorno la pulizia del corridoio la facevano gli italiani. Dopo tre giorni ho ricevuto dei vestiti. Non era un abito a righe, era un’uniforme dell’esercito italiano. Mi hanno messo in una baracca. C’erano quattro/cinque diversi …Come si dice? Francesi, svizzeri, russi, appunto diversi.
È arrivato il Natale. Abbiamo detto, forse potevamo suonare qualcosa per Natale. Abbiamo persino fatto un alberello con appesi un paio di pezzi di carta colorata.

D: Ha ricevuto un numero di matricola a Dachau?

R: No. Eravamo un pochino separati dal campo principale. Per noi era previsto che andassimo in un campo esterno e avevamo “Frontbewährung”, cioè se avevano bisogno di noi potevano mandarci al fronte. Noi non abbiamo ricevuto l’abito a righe.

D: La sua baracca aveva un numero?

R: No, era separata, ma annessa all’edificio del bunker

D: Accanto al grande muro del campo di concentramento?

R: Ben dentro, dietro il muro. Ho visto come era fatta la recinzione. Prima c’era un fossato con l’acqua dentro. Poi c’era il filo spinato, in rotoli. Poi c’era anche il muro, con filo spinato sulla sommità. Tutto aveva la corrente ad alta tensione, perché non si poteva scappare, non c’era possibilità.
Ci hanno detto che il 27 saremmo andati in un campo esterno, a Hersbruck. Al mattino presto ci hanno detto “Preparate tutto per il trasporto“. Non avevamo tanto da preparare: la ciotola e il cucchiaio e una coperta, no, nessuna coperta. Poi ci hanno stipati in un carro bestiame, hanno chiuso le porte. Sulla parte alta c’era una finestrella con una grata.
Siamo partiti. Quando c’era l’allarme aereo il treno si fermava. In qualche modo ci mettevano al riparo. Stavamo fermi anche una mezza giornata, una mezza nottata o una notte intera. Poi si proseguiva. Penso che ci abbiamo messo due giorni ed una notte per arrivare a Hersbruck. Siamo arrivati di sera. Nevicava.
Le SS ci stavano aspettando. Siamo scesi dal treno. In fila per tre ci siamo avviati per un sentiero ripido e dovevamo camminare svelti, le SS ci davano addosso con i manganelli ed i calci dei fucili. Abbiamo camminato un bel po’ sotto la pioggia e la neve. Eravamo stremati. La notte non avevamo dormito e non avevamo mangiato. Ci avevano dato un pochino di rancio, che ognuno di noi aveva divorato subito. Abbiamo continuato la salita. Abbiamo visto delle luci. Allora era lì che saremmo andati? E invece no, siamo passati oltre. Poi siamo arrivati in un avvallamento. C’era un grande edificio. C’era un torrente. Abbiamo attraversato un ponte. Poi hanno distribuito delle fettine di pane che dovevano essere suddivise tra quattro persone: dovevamo stare attenti a dove andava l’uomo che aveva ricevuto il pane, altrimenti saremmo rimasti senza… Siamo arrivati.
Nel grande edificio, mi hanno mandato al secondo piano. Erano già passate le tre di notte. Hanno acceso le luci. C’erano dei tavolati a tre piani. Con la luce qualcuno ha guardato giù dalle cuccette e ha urlato. “Franz, sei qui anche tu adesso?” Con lui ero stato in prigione a Silandro. Mi ha fatto piacere trovare persone conosciute.
Mi hanno assegnato un giaciglio e mi sono potuto sdraiare. C’erano un pagliericcio sottilissimo ed una coperta. Ho preso la coperta, mi sono sdraiato, mi sono infilato sotto la coperta, mi sono tolto i vestiti e li ho messi sopra la coperta. Ero così stanco. Mi sono addormentato subito.
Al mattino ci svegliavano i fischietti. Tutti fuori in fretta dalle cuccette per andare a lavarsi. Bisognava togliersi la camicia e scendere al lavatoio al piano di sotto. Era andato tutto bene. Il giorno dopo lo stesso. C’era un italiano, era più giovane di me di un anno, che nella fretta dimenticò di togliersi la camicia. Arrivò al lavatoio con la camicia addosso. Le SS non aspettavano altro che arrivasse qualcuno con la camicia addosso. L’italiano ha dovuto spogliarsi completamente. Con un tubo gli hanno gettato addosso acqua gelata ed un altro con uno spazzolone lo ha spazzolato fino a che non era tutto rosso di sangue. Non lo abbiamo più rivisto. Abbiamo pensato che fosse morto …
Il giorno dopo ancora una visita. Ho dovuto raccontare perché ero lì e per quanto tempo. Poi siamo stati pesati. Pesavo ancora 45 chili. Prima di costituirmi ne pesavo 69.

D: Ho capito bene? Lei è stato pesato a Hersbruck?

R: Si.

D: Dalle SS?

R: Si. No, c’erano anche dei prigionieri. Ho pensato: Più giù di così non può andare. E invece è andato ancora tanto più giù. Per il lavoro pesante, il cibo scadente, al mattino l’acqua sporca senza pane, senza zucchero, a mezzogiorno la zuppa di cavolo o forse una volta la zuppa di piselli o se tutto era andato davvero bene, a Pasqua abbiamo ricevuto due patate lessate, se erano piccole tre patate, se erano grandi due. Non si toglieva la buccia. Si riceveva anche un cucchiaio. Si mangiava tutto insieme. Questo era il cibo buono.
Oggi non riesco più a immaginarmi com’era con quel cibo, quel lavoro. Si faceva il possibile per sopravvivere…
Ero contento che ci fossero tanti italiani con me, italiani, croati, la maggior parte erano però italiani, ho imparato un po’ di italiano. Il mio miglior compagno era uno che veniva dal Trentino. Si chiamava Filzi, credo, Giovanni Filzi.
Più di tanto non potevamo parlare durante il lavoro. Solo quando tornavamo alle baracche avevamo forse una mezz’ora libera. Allora potevamo parlare. Di cosa volete che si parlasse? Di cosa sarebbe successo? Si parlava del cibo. Era sempre il primo pensiero. Avevamo tutti una tale fame.

D: Che lavoro faceva?

R: Ero alla cava.

D: Andava a piedi alla cava?

R: A piedi. Fino alla cava ci si metteva circa 10 minuti. Abbiamo costruito noi un Lager vicino. Era mezzo finito quando siamo arrivati. Dovevamo sistemare le pietre.
Un prigioniero francese con una slitta ed un cavallo trasportava le pietre al Lager. Era un lavoro tremendo senza guanti. Le pietre coperte di neve… Era duro. Avevamo pessime scarpe, senza calze. Stavamo tutto il giorno nella neve.
Era tremendo alzarsi al mattino e infilare i piedi nudi nelle scarpe gelate. Non era piacevole. Così è andata avanti.
Poi mi è venuta la scabbia. È una malattia che comincia tra le dita. A me è venuta su tutto il corpo, ero tutto ulcerato. Se si faceva pressione, dalle ulcerazioni uscivano sangue e pus. Stavo sempre peggio, e la scabbia è una malattia contagiosa. I miei migliori compagni mi evitavano. Questo non l’ho più sopportato.
Ho detto al kapò: “Per favore, domani mi dia malato.” Non ci si dava malati volentieri, perché se si era malati troppo poco la si sarebbe pagata cara. Io non ce la facevo più. C’era anche un italiano, quasi con la stessa malattia. Il giorno dopo ci siamo presentati. Dietro la scrivania sedeva un SS. Ci siamo spogliati. Mi ha guardato. Cosa c’era che non andava? “Guardi lei stesso!”
Allora mi ha guardato da capo a piedi: “Porco! Perché non l’ha detto prima?”. E così sono stato mandato via. Poi si è presentato il prossimo. Gli ha subito gridato addosso. Ci hanno cosparso tutto il corpo con un liquido. Sembrava olio da cucina.
Poi dovevamo tornare al lavoro. Dopo una settimana eravamo quasi guariti. Ho trovato di nuovo il coraggio per vivere ancora. Si andava avanti così. Un mattino avevo brividi tremendi. Ho pensato che non potevo più darmi malato. Poi ho pensato che se avessi ricevuto un caffè caldo e acqua calda mi sarei scaldato. Sono andato al lavoro. Dovevo continuamente andare di corpo. Avevo la dissenteria. Cioè, dovevo andare sempre alla toilette. Lo stomaco, tutto andava fuori.
Il kapò della squadra di lavoro se ne accorse. Dovevo sempre chiedere. Uno delle SS mi ha urlato “Vuoi forse scansare il lavoro?” Il kapò mi ha detto che non dovevo più lavorare, mi potevo sedere. Dovevo comunque svuotarmi continuamente.
A mezzogiorno tornavamo sempre alla baracca per mangiare.
Ho detto al kapò che non c’era niente da fare, doveva darmi malato. Allora qualcuno mi ha portato un termometro. Avevo la febbre ben oltre i 39°. Ero idoneo all’infermeria. Ci sono andato. Nella cuccetta c’erano già tre uomini. Non sapevo se erano ancora vivi o no. Erano pallidi. I vivi si distinguevano dai morti per il respiro e per gli occhi che si muovevano.
Alla sera stavo malissimo. Ci hanno portato una zuppa. Ero talmente debole che non ero neppure in grado di mangiarla. Il mio vicino si era già un pochino ripreso e continuava a guardare la mia zuppa. Ho detto “La puoi mangiare. Io non ce la faccio.”
Era il giorno del mio compleanno, il 6 marzo. Ho pensato che fosse la fine, in nome di Dio, adesso mi addormento e non mi sveglio più. Poi ho perso conoscenza. Il giorno dopo quando mi sono svegliato stavo un pochino meglio. Ho mangiato metà della zuppa. lentamente ho cominciato a stare meglio. È venuta un’infermiera e ci ha dato un cucchiaio pieno di carbone macinato. Questa era la medicina per la dissenteria. Poi ci ha prelevato il sangue, per cosa poi non sono ancora riuscito a capirlo.
La volta dopo è venuta un’infermiera della Croce Rossa. Non so se era un’infermiera della Croce Rossa o meno. Doveva farci un prelievo di sangue. Quattro, cinque volte ha mancato la vena, non l’ha trovata. Allora è andata da un altro. È successa la stessa cosa. È un po’ arrossita e se ne è andata. È tornata allora l’altra infermiera. Era vecchia, non ha detto assolutamente niente. Lei ce l’ha fatta.
Ho dimenticato qualcosa. Abbiamo pregato l’infermiera… Io dovevo ancora svuotarmi. Ho pensato “Come faccio?” Non ero in grado. In quello stesso momento me la sono fatta addosso. Non si poteva chiamare nessuno per fare pulire. Sono rimasto nei miei escrementi.
Il giorno dopo abbiamo chiesto all’altra infermiera se ci portava un vaso da notte. Si, ce l’ha portato. Però non l’abbiamo usato. Dovevamo restare nei nostri escrementi.
Miglioravo. Il terzo giorno al mattino ho visto che due uomini non c’erano più. Ho chiesto al mio vicino cosa fosse loro successo. Non sapeva se erano morti o se li avevano solo portati via, probabilmente erano morti. Siamo rimasti 16 giorni all’infermeria. Poi siamo tornati al lavoro.
Con la coperta sotto il braccio, il cucchiaio e la ciotola in mano… Da una parte tornavamo volentieri dai nostri compagni, dall’altra avevamo già di nuovo paura della vita del Lager, di quanto accadeva. Eravamo così deboli che potevamo stare appena in piedi e fare qualche passo.
Non siamo più andati al lavoro fuori nella cava, nel Lager c’erano diversi lavori da fare. C’erano un francese ed un tedesco. Non avevano alcun interesse a maltrattarci. Se solo avessimo ricevuto cibo a sufficienza ci saremmo ripresi più in fretta. I tempo era bello, il sole splendeva. Eravamo alla fine di marzo.
Se solo avessimo ricevuto cibo a sufficienza ci saremmo ripresi più in fretta, purtroppo il cibo era scadente. Poi ci hanno detto che tornavamo a Dachau. Il fronte si avvicinava sempre più, arrivavano gli americani. Hanno sgomberato il Lager. Non so più con precisione se il 4 o il 5 aprile ci hanno detto: “Prepararsi per il trasporto a Dachau”. Anche quello fu un brutto viaggio.
Arrivavano gli aerei americani a bassa quota. Quando vedevano un treno sparavano. So che una volta dovevamo andare al bagno, abbiamo bussato alla parete. Ci hanno urlato dentro: “Fatela come la fanno tutti i maiali!”. Ognuno l’ha fatta nel posto dove si trovava. C’era una puzza tremenda.
Una volta stavamo mangiando, siamo potuti scendere e abbiamo ricevuto da mangiare. Mentre eravamo fuori sono arrivati gli aerei americani, sono passati oltre ma hanno visto che c’era qualcosa. Allora sono tornati indietro. Su una strada c’erano 5-6 uomini delle SS. Gli hanno sparato…
Due erano feriti in modo grave, abbiamo visto, ed un paio feriti in modo più leggero li hanno caricati nel vagone, noi ci hanno chiusi di nuovo nel carro bestiame. Siamo ripartiti.

D: Purtroppo il tempo passa molto in fretta. Abbiamo ancora cinque minuti. Può raccontarci dove è stato liberato? Quando? Cosa Le accadde dopo la liberazione ufficiale?

R: Giunse il 29 aprile. Avevamo sempre il fronte … sentivamo gli spari e vedevamo tutto. Eravamo contenti che arrivavano gli americani, ma avevamo anche paura, cosa avrebbero fatto di noi prima di lasciarci liberi?
Giunse il 29 aprile. La guardia era un po’ sparita. Abbiamo pensato, io e due della Val Passiria e diversi italiani, adesso guardiamo in cucina. Non c’erano guardie da nessuna parte.
Uno ha detto: “Guardiamo se la porta del Lager è aperta”. Siamo andati e era aperta. Siamo usciti dal Lager e siamo arrivati agli alloggiamenti delle SS. È stato uno sbaglio. Ho pensato di cercare qualcosa da mangiare. Non abbiamo trovato nulla.
Siamo entrati in una baracca. C’erano divise delle SS. Uno ha detto: “Cambiamo le nostre camicie sporche e piene di pidocchi”. Detto fatto. Dopo che ci siamo cambiati sono arrivati due americani e ci hanno fatto segno di seguirli. Siamo andati. Abbiamo sorriso loro. Erano i nostri liberatori! Abbiamo camminato un po’, c’era un grande cortile, un grande portone. Abbiamo visto che avevano fucilato un gran numero di SS, gli americani.
Abbiamo pensato: “Giusto che vi succeda questo!”. Siamo andati avanti ancora per 25 m. Poi ci hanno messo al muro, con la faccia verso il muro e le mani sopra la testa. Abbiamo pensato, adesso fanno a noi quello che abbiamo visto hanno fatto agli altri. Siamo rimasti lì un bel po’.
C’erano due o tre ufficiali americani ed un paio di soldati. Ci hanno detto: “Abbassate le mani e giratevi!” Discutevano su cosa fare di noi. Eravamo vestiti per metà da SS e per metà da prigionieri. Ne siamo usciti vivi. Non ci hanno rimandato nel Lager, bensì con i soldati tedeschi prigionieri. Il sesto giorno abbiamo ricevuto per la prima volta da mangiare.
Ancora una volta mi sono lasciato andare. Avevo perso i miei compagni della Val Passiria. Pioveva e nevicava. “Così” alto era il sudiciume. Non ci si poteva sdraiare. Il quinto giorno ho pensato: non ce la faccio più, mi lascio cadere, mi addormento e non mi sveglio più. Quelli della Val Passiria mi hanno visto, hanno detto: “Franz, alzati! Così muori!” Io ho detto: “Non ce la faccio più”.
Mi hanno aiutato ad alzarmi: “Si, ce la farai!” Ho pensato che a casa sarei tornato volentieri. ma non ci credevo proprio tanto. Gli altri: “Certo. Ce la faremo. Ora siamo pronti”. Poi ci è stato detto che il giorno dopo avremmo ricevuto di sicuro qualcosa da mangiare. Ero contento, forse era vero che avremmo ricevuto qualcosa da mangiare.
Si, è successo. Il giorno dopo abbiamo visto dei furgoni davanti al Lager, era tutto all’aperto, hanno scaricato delle scatole di cartone, hanno cominciato a distribuire, due piccole scatolette. In una c’erano fagioli, un po’ d’olio e nell’altra un paio di biscotti e delle caramelle. Io ero l’ultimo. Guardavo continuamente. Chissà, forse non ce n’era abbastanza anche per me.
E invece ce n’era abbastanza! Mi sono seduto con le gambe incrociate, ho cominciato a mangiare, ho pianto. Poi è andato tutto meglio. Sono rimasto quattro mesi prigioniero degli americani. Ci davano poco da mangiare, ma quello che ci davano era buono.

D: In quali Lager, in quali città ha trascorso questi quattro mesi?

R: Dapprima un mese in Germania in diversi Lager, sempre all’aperto, e poi in Francia, in un grande campo di prigionia. Lì i malati o i deboli avevano una tenda separata… C’erano grandi tende. Io sono finito in una tenda per malati. Poi è andata un pochino meglio.

D: L’ultima domanda. Quando è arrivato finalmente a casa?

R: Il 19 agosto.

D: Di che anno?

R: 1945.

D: Si è pesato?

R: Poco dopo essere uscito dal Lager mi sono pesato. Pesavo poco più di 30 kg, forse 31.

D: Grazie infinite, signor Thaler.

(traduzione dall’originale tedesco dell’Ufficio Traduzioni del Comune di Bolzano)

Ich heiße Franz Thaler, bin geboren am 6. März 1925.
Dann bin ich den 30er Jahren, von 1931 bis 1939 in die italienische Schule gegangen. Da war ich dann 14 Jahre alt. Mein Vater… Da kamen die Wahlen. Mein Vater hat sich für das Hierbleiben, für Italien entschlossen. Dann war ich ein Italiener.
Da haben die Leute dann ein bisschen… “Du bist ein Walscher!” Da war ich auf die Seite geschoben worden. Das waren damals schlimme Zeiten. Es waren wenige, die für das Dableiben gewählt haben und die hat man schon ein bisschen schikaniert. Es hat geheißen: “Der Walsche!”
Dann kam ein deutscher Lehrer in die Ortschaft und er sollte die Jugendlichen und die Kinder Deutsch unterrichten. An einem Sonntag gingen die Jugendlichen und die Kinder alle zur Schule. Der Lehrer hat den Namen aufgeschrieben und als er zu mir kam wollte ich auch meinen Namen sagen. Dann kamen schon welche vor und schrieen: “Das ist ein Walscher!”
Da hat mich dieser Lehrer ein bisschen angeschaut und hat gesagt ich soll gehen er möchte nur deutsche Kinder unterrichten. Es war so zu sagen der erste Schlag. Dann ging es so weiter. Ich hatte gute Kollegen. Wenn wir einmal nicht gut auskamen dann war ich “Der walsche Schwein!”.
FRAGE: In welchem Dorf wohnten Sie zu jener Zeit?
ANTWORT: Durnholz. Das ist eine Fraktion von Sarnthein, ganz hinten drein. Dann kamen die Zeiten, es mussten ziemlich viele einrücken von den Deutschen, auch Italiener. Dann hörte man bald einmal, dass Soldaten gefallen sind. Da war dann die große Begeisterung für Deutschland schon ein bisschen gesunken. Da waren schon manche, die über Hitler geschimpft haben, die vorher “Heil Hitler!” geschrieen haben. Sie haben dann gesehen es geht nicht gut.
Im Jahre 1943 hat Mussolini kapituliert. Dann hat Hitler die Macht gehabt über uns. Dann ging es auf uns los. Da wurden wir gemustert, von 16 Jahre bis 50 Jahre alte Leute, alle zusammen. Natürlich waren die meisten tauglich zum Einrücken. Ich eben auch.
Dann habe ich mir gedacht ich werde müssen bald einmal einrücken. Ich bin geflüchtet. Dann hat ein großer Nazi von unserem Dorf zum Vater gesagt: “Wenn sich der Franz nicht stellt, wird der Vater und die Mutter eingesperrt.” Dann hat mich mein Vater gesucht. Er hat ungefähr gewusst wo ich mich aufhalte. Ich war am Berg droben, durfte mich von niemandem sehen lassen.
Wenn ich etwas zum Essen holen wollte oder so, habe ich immer nachts gehen müssen ohne Licht. Ich hatte einen Bruder auf der anderen Seite, bin zu dem hingegangen. Er hat mich mit Butter und Käse, er war Senner droben… habe ich können nachts hingehen ein bisschen etwas holen. Es waren noch ein paar Kollegen, zu denen ich konnte hingehen.
So ist das Leben weiter gegangen. Es war Sommer. Ich bin mir irgendwie vorgekommen wie ein wildes Tier. Wenn ich ein Geräusch hörte, bin ich immer aufgeschreckt, wollte davonlaufen.
Einmal bin ich durch den Wald gegangen, da sah ich zwei Männer hinter einem Baum stehen und ich wollte schon die Flucht ergreifen. Dann hat mir einer nachgerufen: “Halt Franz! Wir tun dir nichts!” Dann habe ich gleich die Stimme erkannt. Es war ein Kollege aus Villanders. Wir hatten uns vorher schon lange gekannt. Da habe ich gehalten, bin ein bisschen näher zu ihnen gegangen, haben ein bisschen gesprochen und sie sind ihre Wege gegangen, ich meine. Es ist nichts passiert.
Ich musste immer das Lager wechseln. Einmal war ich in einer Latschen Brennerei, war vielleicht drei Wochen, musste wieder gehen. Ich war in einem Heuschuppen, vielleicht zwei-drei Wochen, dann wieder zum nächsten Heuschuppen. Ich hatte drei Heuschuppen und die Latschen Brennerei. Das war mein Nachtlager.
Es war nicht schön, aber trotzdem schöner als nachher. Dann hat mich mein Vater gesucht und hat mich gefunden und hat mich gebeten: “Bitte Franz, stell dich, sonst sperren sie mich und die Mutter ein!” Was machst du dann? Ich wollte den Eltern ein Leid ersparen, dann habe ich mich gestellt. Dann hat es noch geheißen wenn ich mich stelle passiert mir nichts und auch den Eltern nichts.
Geglaubt habe ich es nicht, aber ich bin abends nach Hause. Dann kam der Ortsleiter, der Nazi, hat gesagt: “Das ist schön Franz, dass du jetzt einrückst. Hilf für den Hitler kämpfen.” Am nächsten Tag hätte ich sollen nach Bozen gehen. Da haben sie ein bisschen gefragt und nachher einen Zettel gegeben, eine Einberufung nach Schlanders zum Militär.
Dann bin ich da hingekommen. Da waren viele Bekannte aus meiner Ortschaft. “Wieso kommst du da her?” Ich habe ihnen erzählt wie es gegangen ist. Dann habe ich zwei Monate Ausbildung gemacht.
FRAGE: Wann waren diese zwei Monate?
ANTWORT: Das war vom 21. September, zwei Monate weiter dann war November. Als die Ausbildung fertig war, die anderen kamen in Einsatz in Italien unten, Belluno und mich haben sie ins Gefängnis getan. Da musste ich dann zum Bataillonskommandeur gehen und der hat mir dann einen Brief vorgelesen: “Du solltest im Juni einrücken und hast dich im Berg herumgetrieben.” Er hat gefragt ob das stimmt. Ich habe mir gedacht jetzt kann ich auch nicht mehr leugnen.
Dann sagt er: “Morgen kommst du nach Bozen auf das Kriegsgericht!” Da hat mich dann mein Wachmeister von meiner Kompanie, wo ich vorher war, nach Bozen gebracht. Da kam ich in einen großen Raum hinein. Da war ein Tisch. Dahinter saßen 8-10 SS-Männer. Das waren die Richter. Dann hat einer einen Zettel herunter gelesen, das Strafgesetz: “Für diejenigen, die den Kriegsdienst verweigern ist die Todesstrafe.” Ich habe mir gedacht: “In Gottesnamen, werde ich eben erschossen.”
Da kam es ein bisschen anders. Sie haben ein bisschen geschaut. Sie haben gemeint ich werde in Ohnmacht fallen, aber das bin ich nicht. Ich habe ihnen entgegen gelächelt. Dann hat einer einen anderen Zettel aufgeklaubt, hat das Urteil herunter gelesen. Da hat es geheißen: “Weil der Angeklagte minderjährig ist”, weil damals warst du mit 21 Jahren volljährig und ich war erst 19, “und, weil er sich freiwillig gestellt hat, wird er nicht zum Tode verurteilt, sondern zu 10 Jahren KZ Dachau.”
Im ersten Moment habe ich mir gedacht es ist noch einmal gut gegangen, dass ich nicht erschossen werde. Mit Dachau wusste ich nicht was anfangen, habe ich noch nie gehört davor.
Dann war ich wieder in Schlanders im Gefängnis drei Wochen. Nachher haben sie mich nach Dachau geführt. Das war schon ein bisschen ein harter Weg, schon der Weg nach Dachau, habe ich viel gesehen und erlebt. Als wir in Dachau ankamen, da ging gerade eine Gruppe Arbeiter heraus beim Tor, alle mager, blass. Ich habe mir gedacht was wird man da erleben müssen damit man so aussieht? Das bin ich später draufgekommen.
Ich habe müssen die Kleider ausziehen. Sie haben mich gefragt warum ich hier bin und welche Strafe ich habe, welchen Glauben ich habe. Ich habe gesagt: “Einen katholischen.” Dann sagt der SS-Mann: “Hier bei uns werden Sie einmal anders beten lernen.”
Dann wurde ich fotografiert von allen Seiten. Dann bekam ich so ein abgenutztes Hemd und Unterhose. Dann hat mich ein SS-Mann in den Bunker geführt. Das ist ein ganz langes Gebäude, links und rechts die Zellen und mitten drinnen hat er aufgesperrt und hat mir einen Schubs gegeben und hinein. Ich habe einmal geschaut. Dann war oben ein Klappfenster. Es war mit weiß überstrichen gewesen, dann ein Stockbett, zwei Betten. Es waren keine Betten da, nur… Keine Decke und gar nichts war da.
Dann wollte ich mich niedersetzen. Das war fast nicht möglich. Dann habe ich mich auf den Klosettdeckel hingesetzt und nachgedacht: “Was wird jetzt gehen mit mir?” Ich hatte schon ein paar Tage nichts mehr gegessen gehabt. Ich kam mir vor wie früher beim Bauern, vielleicht ein Schwein, den hat man auch nicht mehr gefüttert am Vormittag. Ich bin mir so vorgekommen: Heute werden sie mich aushungern und morgen wird es drüber gehen.
Dann hörte ich auf dem Gang draußen Tritte. Ich habe gehört neben meiner Zelle hat er aufgesperrt. Dann hat er geschrieen: “Sofort heraus!” Ich habe gehört, dass ein Mann auf den Gang hinausgeht. Dann hat er bei meiner Zelle aufgesperrt: “Sofort heraus!” Dann sollten wir den langen Gang putzen. Beim Eingang war ein Waschraum. Wir sollten Waschlappen, einen Eimer mit Wasser, Kehrschaufel und Besen nehmen. Ich habe mir gedacht leichter ist es mit dem Besen und der Kehrschaufel.
Da schrie mich der SS-Mann an: “Sie Faulpelz! Sie werden schon noch lehren was man zuerst anfängt!”, weil man musste immer auf das Schwerere hingehen, dann kamst du eher auf das Leichtere. Wenn sie sahen, dass du auf das Leichte gehst, bist du der Faulpelz, wolltest dich sträuben.
Dann haut er mir schon links und rechts eine herunter. Ich hatte die Kehrschaufel und den Besen und der andere einen Eimer mit Wasser und einen Waschlappen. Ich musste in die Hocke gehen und den Besen und die Kehrschaufel dem anderen lassen. Dann gab er mir einen Besen. Dann musste ich zweimal den ganzen Gang in der Hocke abhüpfen. Da war ich total fertig. Danach schnell den Gang putzen. Da musste alles im Laufschritt gehen.
Als wir fertig hatten haben wir die Sachen zurückgetragen, dann wieder in die Zelle hinein. Da hatte ich Zeit nachzudenken was ich falsch gemacht hatte. Da ging es so weiter. Zum Essen kam am Abend so eine Aluminiumschale, ein bisschen eine Krautsuppe bekommen. In der Tür war eine Luke aufzuklappen. Sie hat einen Tisch gebildet. Da hat man müssen die Schale hinstellen. Da haben sie reingeschöpft. Ich habe dies gegessen. Es war viel zu wenig. Ich strich mit dem Finger sauber aus.
Dann kam es zum Schlafen. Ich wusste nicht wo hinlegen. Auf der Holzding, der war recht lang, aber inzwischen war ein Balken durchgezogen, dass man fast nicht liegen konnte. Als das Licht ausging, habe ich mich am Boden hingelegt. Da war eine Zentralheizung mit zwei Streifen, aber bestimmt nicht zum Verbrennen. Ich habe gefroren da.
In der Früh habe ich gehört, dass man Kaffee austeilt. Dann ist das Ding aufgegangen, habe die Schale hingestellt und habe mir gedacht: Da wird schon noch ein Brot kommen. Ich stand da. Dann schrie der andere auf was ich warte, etwa nicht auf Brot? Ich habe gesagt: “Ja.” “Nein, da gibt es kein Brot.” Ich habe dann den Kaffee getrunken, es war nur ein trübes Wasser. Dann war ich da drei Tage drein in der Zelle.
Einmal nach dem Putzen des Ganges als wir fertig hatten, haben wir müssen die Sachen abgeben, dann haben wir schreien hören aus dem Bunker. Dann ging die Tür auf. Dann kamen so 8-10 Leute herein, kahl geschoren, Hemd und Unterhose. Dann haben wir gehört: “Mamma mia!” Dann haben wir gewusst es sind Italiener. Die haben sie alle zusammen in der gleichen Zelle hinein getan.
Dann kam wieder das Putzen des Ganges. Dann gingen sie bei meiner Zelle vorbei und in der nächsten aufgesperrt. Dann schrie der SS-Mann: “Sofort zwei Mann heraus!” und die verstanden nicht was er gesagt hatte. Dann ging er hinein, warf zwei Bursche auf den Gang hinaus, hat sie richtig hin- und hergeschlagen. Dann haben sie den Gang putzen müssen.
Von nun an haben dann müssen die Italiener den Gang putzen. Nach drei Tagen habe ich Kleider bekommen. Das wird nicht ein gestreiftes Kleid, sondern ein italienisches Militärgewandt. Dann kam ich in eine Baracke hin. Da waren für vier-fünf verschiedene… Wie sagt man? Franzosen, Schweizer, Russen, eben verschiedene.
Dann kam Weihnachten. Wir haben gesagt ob wir vielleicht etwas spielen für Weihnachten. Ja, da wurde sogar ein kleines Bäumchen aufgestellt und ein paar farbige Papierfetzen drangehängt.
FRAGE: Hatten Sie eine Matrikelnummer bekommen in Dachau?
ANTWORT: Nein. Wir waren vom großen Lager ein bisschen abgeschlossen. Für uns war vorgesehen wir kommen in ein Außenlager und wir hatten Frontbewährung, d.h. wenn es uns braucht kann man uns auch an die Front schicken. Wir bekamen nicht das gestreifte Gewandt.
FRAGE: Hatte Ihre Baracke eine Nummer?
ANTWORT: Nein, das war ganz separat im Bunkerbau angebaut.
FRAGE: Neben der großen Mauer des KZ?
ANTWORT: Schon drinnen, hinter der Mauer. Da sah ich wie die Umzäunung ausgeschaut hat. Zuerst war ein Wassergraben und Wasser drinnen. Dann war ein Stacheldraht, Rollen. Dann ist die Mauer gewesen und mit oben hinauf auch Stacheldraht. Das war mit Starkstrom alles, weil da abhauen das gab es nicht, keine Möglichkeit.
Dann hat es geheißen am 27. kommen wir in ein Außenlager nach Hersbruck. In der Früh hat es geheißen: “Alles packen zum Abtransport.” Wir hatten nicht viel zu packen, die Essschale und den Löffel und eine Decke, nein, keine Decke. Da haben sie uns in einen Viehwagon hinein gepfercht, haben die Türen geschlossen. Auf der Seite oben war ein ganz kleines Fenster vergittert.
Dann fuhren wir los. Wenn einmal Fliegeralarm war hat der Zug gehalten. Uns haben sie irgendwie auf die Seite geschoben. Wir haben manchmal einen halben Tag gewartet, eine halbe Nacht oder eine ganze Nacht. Dann ging es wieder weiter. Ich glaube, wir haben zwei Tage und eine Nacht gebraucht nach Hersbruck zu kommen. Da kamen wir abends an. Es hat geschneit.
Dort haben sie schon auf uns gewartet, die SS-Leute. Wir sind ausgestiegen. In 3er Reihen mussten wir steil über einen Weg hinauf und es sollte immer schnell gehen, die SS-Männer hinter uns mit den Gummiknüppeln oder Gewährkolben. Wir sind eine Zeit lang gegangen, geregnet, geschneit. Wir waren ein bisschen fertig schon. Wir haben eine Nacht nicht mehr geschlafen, kein Essen. Wir haben schon Marschverpflegung bekommen, ganz wenig. Das hat jeder schon gleich aufgegessen. Wir sind hinauf. Dann sahen wir auf der Seite Lichter. Dann werden wir da hinkommen.
Nein, da sind wir vorbei. Dann kamen wir in einen Graben. Da war ein großes Haus. Da war ein kleiner Bach. Wir mussten über eine Brücke gehen. Da hat dann jeder vierte einen kleinen Laib Brot bekommen. Das war zu teilen gewesen für vier Mann. Da hat man müssen aufpassen wo der Mann mit dem Brot hingeht, sonst wärst du leer ausgegangen. Wir sind da hingekommen.
Ich bin dann in dem großen Haus da, mich hat man in den zweiten Stock hinauf. Es war schon nach drei Uhr. Dann haben sie Licht gemacht. Da waren dreistöckige Bridgen. Die anderen, als wieder Licht war, hat der eine und der andere ein bisschen herunter geschaut, und schreit: “Franz, bist du jetzt auch hier?” Ich war mit dem in Schlanders im Gefängnis. Mich hat es gefreut, dass da auch Bekannte sind.
Dann haben sie mir eine Bridge gegeben, habe mich können reinlegen. Es war ein ganz dünner Strohsack und eine Decke zum Übernehmen. Ich habe die Decke genommen, habe mich nieder gelegt, habe die Decke übergenommen, habe das Kleid ausgezogen, auch über die Decke gelegt. Da war ich so müde. Ich habe gleich geschlafen.
In der Früh gingen große Pfeifen. Da musste alles schnell heraus aus den Bridgen zum Abwaschen. Man hat müssen das Hemd ausziehen und in den Waschraum hinunter. Alles gut gegangen. Am nächsten Tag wieder dasselbe. Da war ein Italiener, er war um ein Jahr jünger als ich, der in der Eile vergaß das Hemd auszuziehen. Dann kam er mit dem Hemd im Waschraum unten an. Da haben schon SS-Männer gewartet sollte jemand mit dem Hemd an kommen, dann fehlt es.
Der Italiener hat müssen die Hose und alles ausziehen. Sie haben ihn mit einem Schlauch und eiskaltem Wasser abgespritzt und ein anderer mit einer groben Bürste abgerieben bis er blutig rot war. Dann haben wir den nie mehr gesehen. Wir haben uns gedacht er wird zu Grunde gegangen sein.
Am nächsten Tag wieder einmal Visite. Ich habe müssen erzählen warum ich hier bin und wie lange. Dann wurden wir noch gewogen. Ich hatte noch 45 Kg. Bevor ich mich gestellt habe, habe ich 69 Kg gewogen.
FRAGE: Habe ich richtig verstanden? In Hersbruck wurden Sie gewogen?
ANTWORT: Ja.
FRAGE: Von der SS?
ANTWORT: Ja. Nein, da waren schon auch Häftlinge. Ich habe mir gedacht: Weiter runter kann es nicht mehr gehen. Es ging aber noch viel weiter hinunter. Durch die schwere Arbeit, das schlechte Essen, in der Früh das trübe Wasser ohne Brot, ohne Zucker, zu Mittag Krautsuppe oder vielleicht einmal eine Erbsensuppe oder wenn es ganz gut gegangen ist zu Ostern hat man drei Pellkartoffeln bekommen, wenn es kleinere waren drei, wenn es größere waren zwei. Da hat man nicht die Schale herunter getan. Man bekam noch einen Löffel. Das hat man alles zusammen gegessen. Das war das gute Essen.
Ich kann mir das heute nicht mehr vorstellen mit dem Essen und die Arbeit noch. Man hat getan was möglich war um zu überleben.
Mich hat es gefreut, es waren ziemlich viele Italiener bei mir, Italiener, Kroaten, meistens Italiener, da habe ich ein bisschen Italiener gelernt. Mein bester Kollege war einer von der Trientner Gegend. Er schrieb sich Filz, Filzi, glaube ich, Giovanni Filzi.
Mehrer reden durften wir nicht bei der Arbeit. Nur als wir in das Lager der Baracken kamen, hatten wir vielleicht eine halbe Stunde frei. Da durften wir zusammen reden. Was redest du dann? Wie wird das weiter gehen? Man hat über das Essen gesprochen. Das war das Erste immer. Alle haben so einen Hunger gehabt.
FRAGE: Was für eine Arbeit machten Sie?
ANTWORT: Ich war im Steinbruch.
FRAGE: Kamen Sie zu Fuß zum Steinbruch?
ANTWORT: Zu Fuß. Ungefähr 10 Minuten zu Fuß zum Steinbruch. Da haben wir uns selber ein nahes Lager gebaut. Es war halb fertig als wir da ankamen. Wir mussten die Steine herrichten.
Ein gefangener Franzose hat mit einem Pferd und einem Schlitten die Steine zum Lager hingefahren. Das war eine harte Arbeit ohne Handschuhe. Die schneeigen Steine… Es war hart. Wir hatten schlechte Schuhe, ohne Socken. Man hat den ganzen Tag im Schnee herum müssen.
Ganz schlimm war in der Früh als man aufstand, da musste man in die gefrorenen Schuhe barfuß hineinschlüpfen. Es war kein Vergnügen. So ist es weiter gegangen.
Dann bekam ich die Krätze. Das ist eine Krankheit. Das fängt zwischen den Fingern an. Das habe ich auf dem ganzen Körper bekommen, alles ein Geschwür, der ganze Körper. Wenn man gedrückt hat ging Blut und Eiter heraus. Ich wurde immer schlechter und das war eine ansteckende Krankheit. Da haben mich die besten Kollegen gemieden. Das habe ich dann nicht mehr vertragen.
Ich habe zum Capo gesagt: “Bitte, möchten Sie mich morgen krank melden.” Man hat sich nicht gerne krank gemeldet, weil wenn man zu wenig krank war, der hat drauf gezahlt. Ich habe es nicht mehr ausgehalten. Es war noch ein Italiener, fast mit derselben Krankheit. Wir sind hingekommen am nächsten Tag. Da war ein SS-Mann hinter dem Tisch. Wir haben ausgezogen gehabt. Dann schaut er mich an. Was mir fehlt? “Das sehen Sie doch.”
Dann hat er mich von unten bis oben angeschaut: “Sie Schwein! Warum haben Sie es nicht früher gemeldet?” Dann war ich entlassen. Dann kam der nächste dran. Den hat er gleich angeschrieen. Dann hat man uns mit einer Flüssigkeit bestrichen, den ganzen Körper. Man hat ausgesehen wie ein Kochöl ungefähr.
Wir mussten dann wieder zur Arbeit gehen. Nach einer Woche waren wir fast heil. Da habe ich wieder Mut bekommen zum Weiterleben. Da ging es so weiter. Einmal in der Früh habe ich so einen Schüttelfrost bekommen. Ich habe mir gedacht krank melden kann ich mich nicht. Dann habe ich mir gedacht wenn ich einen warmen Kaffe bekomme und warmes Wasser werde ich schon wieder warm bekommen. Dann bin ich zur Arbeit hin. Ich musste dann immer wieder austreten. Ich hatte die Ruhr. Das ist, eben immer auf die Toilette gehen. Der Magen, ging alles nach außen.
Das hat der Arbeitskapo gesehen. Ich habe immer fragen müssen. Dann war ein SS-Mann, der schrie mich an: “Willst du dich vielleicht von der Arbeit drücken?” Der Capo von der Arbeit hat gesagt ich brauche nicht mehr arbeiten, darf mich hinsetzen. Ich habe trotzdem immer wieder müssen austreten. Zu Mittag haben wir immer zur Baracke zurück müssen um zu essen.
Da habe ich zum Capo gesagt es geht nicht mehr, er soll mich krank melden. Dann brachte mir einer einen Fiebermesser. Ich hatte ein Stück über 39 Grad Fieber. Dann war ich für das Krankenrevier tauglich. Dann kam ich dahin. Es waren schon drei Männer in der Bridge. Ich habe nicht gekannt: Leben sie noch oder nicht mehr. Sie haben ausgeschaut blass. Da hat man nur von Lebenden und Toten den Unterschied gekannt durch das Atmen und die suchenden Augen tief drein.
Dann am Abend war ich ganz schlecht beisammen. Man hat uns eine Suppe gebracht. Ich war so schwach. Ich war nicht mehr im Stande die Suppe zu essen. Mein Nachbar hat es schon ein bisschen überstanden gehabt, hat immer auf meine Suppe geschaut. Ich habe gesagt: “Die kannst du essen. Ich schaffe es nicht.”
Das war mein Geburtstag. Der 6. März. Ich habe mir gedacht jetzt wird es am Ende sein, in Gottesnamen, schlafe ich ein und wache nicht mehr auf. Dann verlor ich das Bewusstsein. Am nächsten Tag als ich aufwachte ging es ein bisschen besser. Dann habe ich die Hälfte von der Suppe gegessen dann. Da ging es langsam aufwärts. Dann kam eine Krankenschwester. Sie hat uns einen Löffel voll gemahlene Kohle gegeben. Das war die Medizin gegen den Durchfall. Dann hat sie uns Blut abgenommen, für was weiß ich heute noch nicht.
Das nächste Mal kam eine andere Schwester vom Roten Kreuz. Ich weiß nicht war es eine Schwester vom Roten Kreuz oder nicht. Sie sollte uns Blut abnehmen. Sie hat vier-, fünfmal die Ader abgefehlt, nicht getroffen. Dann ging sie zum nächsten. Da war dasselbe. Dann bekam sie ein bisschen einen roten Kopf und ging fort. Dann kam wieder die andere. Es war eine alte, die hat überhaupt nicht gesprochen. Die hat es schon gemacht.
Ich habe vorher etwas vergessen. Da haben wir die Krankenschwester gebeten… Ich musste wieder austreten. Ich habe mir gedacht: Wie mache ich das? Ich bin nicht im Stande. In dem Moment ging es schon in die Hose. Man konnte niemanden rufen um vielleicht auszuräumen. Dann lag ich im eigenen Kot.
Am nächsten Tag haben wir die andere Krankenschwester gefragt ob sie uns einen Nachttopf bringt. Ja, hat sie uns gebracht. Wir sind trotzdem nicht raus gegangen. Im eigenen Kot haben wir liegen müssen.
Dann ging es ein bisschen aufwärts. Am dritten Tag in der Früh habe ich gesehen, dass zwei Männer weg sind. Ich habe meinen Nachbar gefragt was mit denen los gewesen ist. Er weiß nicht waren sie tot oder haben sie sie sonst weg, wahrscheinlich waren sie tot. Dann waren wir 16 Tage im Krankenrevier. Dann hat es geheißen wir müssen wieder zu den Arbeitern zurück.
Mit der Decke unter dem Arm, dem Löffel und der Essschale in der Hand sind wir… Einerseits sind wir gerne zu den Kollegen zurück gegangen, aber andererseits hatten wir schon wieder Angst vom normalen Lagerleben was alles passiert ist. Wir waren so schwach, gerade so, dass wir stehen haben können und ein bisschen gehen.
Dann haben wir nicht mehr zur Arbeit gebraucht hinaus in den Steinbruch, aber im Lager waren so verschiedene Arbeiten zu tun. Es war ein Franzose und ein Deutscher. Sie hatten auch kein Interesse uns zu sekkieren. Wenn wir genug zum Essen hätten bekommen, hätten wir uns schneller erholen können. Es war damals schönes Wetter, die Sonne hat geschienen. Es war so Ende März.
Wenn wir genug zu essen bekommen hätten, hätten wir uns können erholen, aber leider war das Essen schlecht. Dann hieß es wir kommen wieder nach Dachau zurück. Da kam die Front immer näher, die Amerikaner. Da haben sie die Lager geräumt. Ich weiß nicht mehr genau, am 4., 5. April hat es geheißen: “Packen zum Abtransport nach Dachau zurück.” Das war auch eine schlimme Fahrt.
Es kamen immer wieder die Tiefflieger, die Amerikaner. Wenn sie einen Zug gesehen haben, haben sie meistens herunter geschossen. Ich weiß einmal, da haben wir austreten müssen, haben an die Wand geklopft. Da haben sie herein geschrieen: “Scheißt hin wie ein normales Schwein!” Jeder wo er gestanden ist hat er hingemacht. Es war ein Gestank.
Einmal waren wir beim Essen, haben wir können aussteigen, haben wir ein Essen bekommen. Während wir raus sind kommen wieder die Tiefflieger, sind sie vorbei gewesen, haben aber gerade gesehen, dass da etwas los ist. Dann haben sie umgedreht und sind die gleiche Richtung her. Da auf einer Straße standen vielleicht 5-6 SS-Männer. Dann haben sie auf die hingeschossen.
Zwei waren schwer verletzt, haben wir gesehen, und ein paar weniger verletzte haben sie in den Wagon hinein getan und wir schnell wieder in den Viehwagon hinein. Dann ging es wieder weiter.
FRAGE: Leider geht die Zeit sehr schnell weg. Wir haben noch fünf Minuten. Können Sie uns erzählen wo Sie befreit wurden? Wann? Was geschah nach der offiziellen Befreiung für Sie?
ANTWORT: Es kam der 29. April. Wir haben schon immer die Front… schießen gehört und alles gesehen. Wir hatten uns gefreut, dass die Amerikaner jetzt kommen, aber wir hatten noch Angst was würden sie mit uns machen bevor sie uns frei lassen?
Da kam der 29. April. Der Wachmann ist ein bisschen verschwunden. Dann haben wir uns gedacht, ich und zwei Passeirer und etliche Italiener, jetzt schauen wir in der Küche. Es war nirgends eine Wache.
Es hat einer geschaut: “Schauen wir ob das Lagertor offen ist.” Wir sind hin, ja es war offen. Wir sind beim Lagertor hinaus, da kamen wir ins SS-Lager hinaus. Das war ganz falsch. Ich denke mir da herum auch etwas zum Essen suchen. Wir haben nichts gefunden.
Da sind wir in eine Baracke hinein. Da war SS-Bekleidung. Da hat einer gesagt: “Tauschen wir unsere verlausten und schmutzigen Hemden aus.” Gesagt getan. Während wir das gemacht haben kamen zwei Amerikaner bei der Tür herein, haben uns gewunken wir sollen mitgehen. Dann sind wir mitgegangen. Wir haben ihnen entgegen gelächelt. Das sind ja unsere Befreier! Wir gingen ein Stück hinaus. Da war ein großer Hof, ein großes Tor. Wir haben gesehen da haben sie eine menge SS-Leute erschossen gehabt, die Amerikaner.
Wir haben uns gedacht: Recht geschieht euch! Dann ging es vielleicht noch 25 Meter weiter. Da haben sie uns an die Mauer hingestellt, mit dem Gesicht zur Mauer, den Händen über dem Kopf zusammen. Wir haben uns gedacht jetzt machen sie es gleich wie wir die anderen vorher gesehen haben. Wir sind eine Zeit lang gestanden.
Da sind zwei-drei amerikanische Offiziere gewesen und ein paar Soldaten. Es hat geheißen: “Hände herunter und umdrehen!” Sie haben beraten was sie mit uns machen. Wir sind halb SS-bekleidet gewesen und halb Sträfling. Wir sind dann davon gekommen mit dem Leben. Dann haben sie uns nicht ins Lager zurück, sondern zu den Gefangenen, den deutschen Soldaten. Da haben wir am sechsten Tag das erste Essen bekommen.
Da habe ich noch einmal aufgegeben. Ich habe meine Kollegen verloren, die Passeirer. Da hat es geregnet und geschneit. “So” tief war Kot gewesen. Man hat sich nicht können hinlegen. Am 5. Tag habe ich mir gedacht ich packe es nicht mehr, ich lasse mich fallen, einschlafen und nicht mehr aufwachen. Die Passeirer haben mich gesehen, haben gesagt: “Franz, steh auf! Da gehst du zu Grund!” Ich habe gesagt: “Es geht nicht mehr.”
Sie haben mir aufgeholfen: “Doch, es wird schon gehen!” Ich habe mir gedacht nach Hause käme ich gern wieder. Ich glaube nicht mehr recht. Die anderen: “Doch. Das werden wir schon. Jetzt sind wir soweit.” Dann hat es geheißen morgen bekommen wir bestimmt etwas zum Essen. Ich habe mich gefreut: Vielleicht stimmt es, dass wir etwas zu essen bekommen.
Ja, es ist dann gegangen. Am nächsten Tag haben wir gesehen Lastwagen vor dem Lager herum, es war alles im Freien, haben Kartons abgeladen, haben angefangen auszuteilen, zwei kleine Dosen. In einer waren Bohnen, ein bisschen Öl und in der anderen Dose waren ein paar Kekse, ein paar Bonbons. Ich war der Letzte. Ich habe immer geschaut. Vielleicht reicht es für mich nicht mehr?
Doch! Es hat gereicht. Ich habe mich hingesetzt im Schneidersitz, angefangen zu essen, geweint. Dann ist es wieder aufwärts gegangen. Ich bin noch vier Monate in amerikanischer Gefangenschaft gewesen. Wir haben wenig zu essen bekommen, aber was wir bekommen haben war gut.
FRAGE: In welchen Lagern, in welchen Städten wurden Sie in diesen vier Monaten…
ANTWORT: Zuerst ein Monat in Deutschland in verschiedenen Lagern, immer im Freien, nachher in Frankreich in einem großen Gefangenenlager. Dort haben sie diejenigen, die krank oder schwach waren, separat ein Zelt… Dort waren große Zelte. Ich kam dort in ein Krankenzelt hinein.
Da ging es ein bisschen besser dann.
FRAGE: Die letzte Frage. Wann kamen Sie endlich nach Hause?
ANTWORT: Am 19. August.
FRAGE: Des Jahres?
ANTWORT: 1945.
FRAGE: Haben Sie sich gewogen?
ANTWORT: Als ich vom Lager herauskam habe ich mich bald einmal gewogen. Da wog ich noch ganz wenig über 30 Kg, vielleicht 31 Kg ungefähr.

Bocchetta Vittore

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Nato a Sassari il 15.11.1918. Sono stato arrestato il 4 luglio del 1944, a Verona, dai fascisti. Sono stato portato alle casermette di Montorio, vicino a Verona, dove sono stato interrogato e torturato. Poi, insieme ai compagni del secondo CLN provinciale di Verona, sono stato trasferito alle Carceri degli Scalzi di Verona, dove sono rimasto per un certo tempo, e dove ho subìto altri interrogatori dalle SS. Da lì, insieme ai miei compagni, sono stato portato al Palazzo delle Assicurazioni in Corso allora Vittorio Emanuele, a Verona, dove c’era il Comando Generale della SD. Dalle celle di quel sotterraneo, insieme ad altri prigionieri che ho trovato già lì, e che erano stati torturati, sono stato condotto al Campo di concentramento di Bolzano; insieme con questi compagni, considerati pericolosi, siamo stati chiusi nel blocco E. Dal blocco uscivamo solo per un’ora al giorno, a prendere aria; vi siamo rimasti pochi giorni. In questi pochi giorni una parte di noi è stata fucilata. Un’altra parte, ad un certo momento, è stata fatta uscire dal blocco: insieme ad altri circa 450 detenuti a Bolzano siamo stati caricati su un vagone, su cui eravamo in circa 130/150 ed era uno di quei famosi carri bestiame delle ferrovie tedesche che ci ha condotti in Germania, al Campo di Flossenbürg. Alla stazione di Flossenürg siamo usciti e ci siamo incamminati verso questo famoso campo, di circa 75.000 prigionieri; siamo stati consegnati alle torture e alle note sevizie dei campi di sterminio nazisti, a Flossenbürg.

D: Lungo il tuo tragitto sul vagone piombato è successo qualcosa di particolare a te e ai tuoi compagni?

R: Sì, nel pavimento del vagone io ed un compagno siamo riusciti ad aprire un piccolo varco per poter scappare, ma siamo stati trattenuti dagli altri prigionieri, dagli anziani, che ci hanno impedito la fuga, o meglio il tentativo di fuga, perché si poteva anche morire, visto che si doveva scendere in mezzo alle ruote del convoglio. Quindi abbiamo dovuto tacere, molto a malincuore, ed accettare le sorti imposte adesso non dalle SS ma dagli stessi compagni. Da lì, dopo un paio di giorni, il treno si è fermato: noi non avevamo niente, specialmente il nostro gruppo non aveva niente, eravamo stati prelevati dalle carceri, non eravamo neanche preparati alla deportazione, e non avevamo scorte di nessun genere, eravamo con i vestiti che avevamo addosso. Il treno si è fermato un paio di giorni dopo la partenza, si sono aperte le porte e ci hanno dato dell’acqua, l’unica cosa che abbiamo visto. Dopo non so quanto tempo, dopo 2 o 3 giorni, siamo arrivati a Flossenbürg. Siamo scesi alla stazione di Flossenbürg, abbiamo camminato in fila per 5 fino al piazzale del Campo, dove abbiamo visto la grande caserma della SS, tuttora esistente, e dove si apriva il Campo di concentramento che noi credevamo fosse un campo di lavoro, non un campo di sterminio. Infatti sul pilone sinistro del cancello d’entrata, c’era una placca con scritto “Arbeit macht frei”. Sapevo il significato di queste parole, e ho pensato che forse andavamo a lavorare. Noi non sapevamo del nostro destino ma siccome il nostro gruppo era già stato condannato a morte, il nostro destino sembrava migliorare con queste parole; andare a lavorare voleva dire ancora vivere. Per la maggior parte del mio gruppo sarebbe stata meglio la morte perché sono morti ugualmente di stenti e di percosse e di sevizie nei primi 2 mesi. Io mi sono salvato con un altro, per la mia età e anche per una serie di circostanze. La delusione della speranza dell’Arbeit macht frei viene stroncata subito, perché alla sinistra del campo ho visto una colonna di sciagurati vestiti malamente, erano di stracci quei vestiti, se si vogliono chiamare vestiti, questi indumenti zebrati, a righe; caricavano delle grosse pietre. La scena è stata forte, anche se poi abbiamo visto molto di peggio. Siamo arrivati, abbiamo varcato il cancello che ci ha portato in questa grande piazza. Da lì siamo stati radunati vicino ad una specie di cantina, con una scala di ferro che scendeva. Prima di scendere queste scale, che portavano alle docce, ci hanno fatto spogliare nudi, tutti. Con me c’erano persone che stimavo molto: c’era Francesco Viviani, c’erano dei preti, c’erano dei professori, c’erano delle persone insigni e molto austere, e questa austerità è stata, credo, eliminata con un colpo di spugna, solamente con la spoliazione e con la rasatura di tutti i nostri peli, in tutte le parti del corpo, e con l’ispezione fisica. E poi, una volta nudi e puliti, siamo stati spinti lungo queste scalette e siamo entrati nella cantina, che era uno scantinato grande, dove c’erano le famose docce. Qui siamo stati ricevuti da una squadra di dèmoni, che avevano dei pezzi di gomma, Schläger o Gummi si chiamavano e li usavano come scudiscio, come arma, senza nessuna ragione, senza nessuna provocazione. Così, di colpo, sono cominciate le grida furibonde di questa gente che non diceva parole ma urlava, urlava in una maniera sconnessa, ci terrorizzava. Siamo stati spinti come anime dell’inferno, e questo provocò panico e caos tra di noi.

Ecco già tra di noi il primo istinto di sopravvivenza: l’uno contro l’altro, una grande confusione, le grida che continuavano finché non si sono aperte le docce; le percosse sono continuate, completamente irrazionali, senza nessuna logica in apparenza, perché in realtà la ragione c’era, il fine era molto preciso: quello di cominciare a farci scrollare di dosso la nostra personalità e la comunione tra di noi, quello di disorganizzarci, e soprattutto di spaventarci e di annullare la nostra volontà. Cosa che è avvenuta puntualmente. Finalmente chiusa l’acqua, siamo stati spinti in un altro capannone dove abbiamo avuto il primo silenzio dopo queste grida, questa cosa terribile tra l’acqua e le nostre stesse grida. Nel secondo capannone ci siamo rivestiti e ci siamo spogliati dell’ultimo possesso che avevamo e che erano la nostra persona, il nostro nome, la nostra personalità. Ci hanno dato degli indumenti a righe, zebrati, ci hanno dato un maglione verde dell’esercito italiano, una cuffia di lana verde dei nostri alpini, cosa molto strana perché era roba italiana, poi un paio di zoccoli che non erano veramente zoccoli: erano una specie di ciabatte con la suola di legno. Abbiamo avuto la nuova personalità, abbiamo perso il nome, abbiamo acquisito un numero che veniva applicato sulla giacca con un triangolo. Eravamo circa in 450 dal Campo di Bolzano. Siamo partiti anche con le donne, ma siamo stati separati appena arrivati al campo, quindi non sappiamo che sorte loro abbiano avuto. Con la perdita della nostra persona abbiamo cominciato ad avere anche i primi soprusi, cioè i capricci del kapò, che era un caporale. Il primo kapo che abbiamo avuto era un caporale, non so se era delle SS; aveva l’uniforme militare tedesca, ed era, credo, un caso patetico di pazzo, perché ci ha torturato per una ventina di giorni in una baracca chiamata baracca di quarantena. E’ una cosa molto strana che si faccia la quarantena in un campo dove tutti sono destinati a morire in breve tempo; credo che la morte violenta arrivasse molto prima della morte per epidemia. Questo forsennato non ci diede possibilità per giorni e giorni di dormire. Noi venivamo spinti in una baracca dove c’erano dei castelli e dove eravamo circa 400/450, adesso il numero non lo so, ma eravamo in soprannumero. I posti nella baracca saranno stati un centinaio, intendo i posti per dormire, cioè questi castelli a tre cassoni, e dovevamo metterci insieme al primo che capitava. Anche il fatto di non destinarci con ordine, anche questo era studiato perché serviva proprio alla lotta tra di noi, all’istinto di occupare il posto non si sa contro chi o per chi. In queste cuccette poi, una volta riempite e pochi minuti dopo che noi si cominciava a trovare non dico riposo ma quiete, tornava dopo qualche minuto il caporale: “Raus!” e ci faceva uscire. Poi restavamo fuori, faceva molto freddo, ed eravamo appena in settembre. Abbiamo avuto anche delle bufere di neve in quei giorni, stavamo fuori mezz’ora, un’ora, al freddo, poi ci faceva rientrare per qualche minuto e ci faceva uscire. Così per diversi giorni.

Una delle vicende che sono rimaste scolpite nella mia memoria è stata la spoliazione ultima, quella dei denti d’oro: un paio di giorni dopo il nostro arrivo, il caporale ci ha fatto uscire, ci ha fatto mettere in fila, e con una tenaglia ha tolto a tutti quanti quelli che li avevano il dente o i denti d’oro, poi raccolti in una latta. In quelle occasioni c’è stata un’altra vicenda interessante e nuova per me, quella che poi si chiamò, non so come si chiamava allora, la “stufa umana”. Avevamo avuto una bufera di neve, un freddo intenso, e non so se per istinto, visto che eravamo tutti “nuovi”, o perché qualcuno lo abbia indicato o che altro, ma quando ci buttavano fuori dalla baracca, e dovevamo correre e formare un circolo, intorno a questo circolo dal centro ancora ancora e ancora, formavamo tutti un circolo – come di buoi muschiati – per ripararci dal freddo. Quindi “stufe umane” in quanto quelli che stavano nel centro si proteggevano dal freddo. E lì ho visto i primi morti, morti di freddo; i più anziani sono caduti lì. In questa quarantena, che è durata poi solo 20 giorni, ho visto la peggiore delle esperienze che si possa avere nell’anima, diciamo così, perché mi sono reso conto dell’assuefazione alla morte della gente del campo, e parlo non solo dei kapò e del caporale, ma di tutti. La baracca di quarantena era su una specie di altopiano, chiusa su tre lati, mentre il quarto lato dava su una scarpata: sotto la scarpata c’era quello che sapevamo chiamarsi il crematorio. Nella nostra cultura il crematorio allora non era concepito, e ci sono voluti molti anni, ed anche questioni religiose, per capirlo, ma non è stato tanto il crematorio di per sé a spaventarci quanto l’odore costante, il fumo che ci entrava nelle narici e che a me è rimasto per moltissimi anni, questo odore di carne bruciata. Queste sono state le prime emozioni.

Ma il concetto della morte è arrivato presto, perché dal cancello che ci divideva dal resto del campo, entravano di continuo degli “zebrati puliti”: così chiamavamo quelli che erano addetti a lavori non sporchi, ed erano coloro che abbiamo poi chiamato “monatti” ovvero 2 che portavano delle barelle. Entravano con delle barelle vuote, accompagnati da questi spettri, figure indescrivibili di uomini non più uomini, senza più carne, scheletri coperti di pelle, teschi non morti ma ancora vivi, però non vivi, con questi occhi che mi sono rimasti infissi nella memoria, occhi senza vista, che guardavano, puntavano nel vuoto, ma non vedevano, erano ciechi e nello stesso tempo erano aperti, ed erano impressionanti. Camminavano barcollando, probabilmente – anzi quasi sicuramente – incoscienti, spinti pacificamente da questi monatti e barcollando andavano a cadere in quella che hanno voluto chiamare latrina. E’ un eufemismo per quello che era considerata una latrina: era una buca scavata per una decina di metri, sotto una tettoia di lamiera. Nel mezzo di questa buca c’era un sostegno, e bisognava appoggiarvisi per non caderci dentro; qui si gettavano le nostre viscere. Vicino a questa latrina venivano accumulati questi personaggi non più vivi e ancora vivi, queste figure surreali, questi esseri non più umani che avevano perduto la loro anima, la loro coscienza; cadevano lì, alcuni seduti, alcuni distesi. Poi veniva un monatto specializzato. Nei primi giorni non avevamo il concetto di quella che era la gerarchia del campo: c’erano “i puliti” e “gli sporchi”. Pigliavano una manichetta di acqua gelata e irroravano di continuo questi corpi. Insomma molti morivano lì, anche se la morte cerebrale era già sopravvenuta in precedenza. Poi, quando dovevamo fare i nostri bisogni, dovevamo camminare su questi corpi e, per evacuare, dovevamo attaccarci a questa trave. E’ lì che ci siamo abituati alla morte, perché abbiamo cominciato ad ancorarci, per non cascare nella buca, ai piedi o sulle mani di questi poveretti. Poi tornavano questi monatti, sempre con le lettighe vuote, le riempivano di 2/3 corpi e vedevamo che li portavano lungo questa specie di sentiero serpeggiante dall’orlo della scarpata verso il crematorio. Qualcuno l’ho visto che aveva ancora dei movimenti, però non credo che fosse vivo; forse erano le ultime contrazioni, o forse erano davvero ancora vivi. Una volta arrivati nel crematorio, venivano buttati sul pavimento del crematorio; c’erano delle vasche in cui venivano preparati, spogliati, quelli che non erano già spogliati, e poi messi nel forno. Di forno ce n’era uno solo, e lavorava continuamente, notte e giorno, con esalazioni terribili; serviva per bruciare i morti di questo terribile campo di 75.000 anime, se anime si possono chiamare. Questo è stato il battesimo del KZ tedesco, nazista. La quarantena si ridusse ad una ventina di giorni. Dopo una ventina di giorni di tortura – perché questo “Raus, weg, raus” – dentro fuori dentro fuori – è continuato per 20 giorni, abbiamo perduto i primi compagni.

Finalmente, un giorno siamo chiamati all’appello e portati nella piazza dell’appello con una nuova, chiamiamola se vogliamo, vita. Ora, mi domando: che cosa c’entra la quarantena in una città di morti, in una città di gente destinata a morire il più presto possibile? Non solo la gente è destinata a morire ma la stessa morte è calcolata in maniera scientifica perché la vita duri 3 mesi. A noi era dato cibo corrispondente a 180 calorie giornaliere, calcolato esattamente per 90 giorni, 90 giorni di vita e di lavoro d’inferno; quindi non era più una questione né di punizione né di condanna, era già tutto un calcolo di eliminazione.

Ecco la parola “sterminio”.

Io mi sono domandato molte volte: questa che noi chiamiamo morte, e che ancora costituisce la principale ragione del nostro muoverci e del nostro pensare, questa paura della morte cosa era arrivata a costituire – non dico per il popolo tedesco che vedeva la morte tutti i giorni dagli aerei dai bombardamenti, dai figli che morivano su tutti i fronti – ma per i nazisti che custodivano questo campo? Arriviamo all’assuefazione alla morte; il concetto della morte è stato superato così da arrivare a concepire qualcosa che potesse compensare questo concetto della morte; mancava un brivido, mancava un’emozione. Questa gente era veramente senza anima, e questa emozione veniva probabilmente ricreata con la tortura, con questi 3 mesi di vita. Infatti noi sapevamo che eravamo stati condannati a morte e che la morte era il nostro destino: perché allora non ucciderci subito? Perché quei 3 mesi erano il concetto massimo della punizione: dovevamo essere non eliminati ma puniti, perché eravamo i loro nemici. Questo è stato il programma dei campi di concentramento nazisti.

D: Vittore, dopo la quarantena a Flossenbürg, cosa succede?

R: La mattina di cui ho parlato siamo usciti dalla quarantena, siamo entrati in questo piazzale, dove ci hanno radunato; ci hanno chiesto chi sapeva usare il calibro, visto che si sarebbe dovuto andare a lavorare nelle fabbriche di guerra – cioè sembrava che ci venisse offerta una via di scampo. Sono stato io – ed anche qui avrei un peso sulla coscienza – a suggerire al nostro gruppo del CLN di Verona di non piegarci, di non andare a costruire le bombe che bombardavano e le munizioni che uccidevano i nostri concittadini e i nostri paesi. Abbiamo rifiutato. Fra di noi c’erano degli ingegneri, gente che conosceva benissimo quel lavoro. Tra questi c’era Guglielmo Bravo, un geniale meccanico che poi mi morì tra le braccia un paio di mesi dopo. In quel momento poteva essere un atto di protesta, che però pian pianino svanì, perché l’eliminazione totale della nostra coscienza era veramente arrivata al punto di superare le persone e le amicizie; l’amicizia ad un certo momento veniva tolta. Comunque, su questa piazza ci hanno denudato e ci hanno attribuito, a seconda del nostro fisico, ad una di 3 categorie (1, 2, 3), scrivendo i numeri sul petto, con un inchiostro rosso. Da lì hanno portato noi che avevamo il numero 3 – tra cui io ed un paio di compagni del CLN che sono rimasti con me fino alla loro morte – a Hersbruck. Hersbruck era un qualche cosa che la stessa Germania sta scoprendo ora. Hersbruck era un campo di lavoro. Hersbruck era un campo aperto nell’agosto del 1944 che ha avuto 8 mesi di vita perché è stato chiuso nel marzo del 1945; era un campo fatto per ospitare – diciamo ospitare – 5.000 individui. La forza del campo non ha mai raggiunto il numero di 4.000. Nel giro di 8 mesi sono morti circa 20 mila uomini: 10 mila sono morti a Hersbruck, e altri 10 mila, se non di più, moribondi non ancora morti, venivano portati al crematorio di Flossenbürg, poiché Hersbruck non aveva crematorio. Quindi i corpi che avevamo visto, quegli spettri ancora vivi, erano parte di questo programma. I morti di Hersbruck venivano denudati e accumulati in una baracca, che io ho visto; rimasero congelati per l’intenso freddo dell’inverno, e vennero poi tolti nella primavera, ai primi di marzo, cioè poco prima dell’evacuazione del campo: vennero bruciati nei boschi di Happurg, vicino a Hersbruck. A Happurg c’era appunto il lavoro, che consisteva nello scavo di enormi gallerie, che non sappiamo a cosa sarebbero servite; perlomeno certamente noi non potevamo saperlo. L’inferno di Hersbruck non è indicato solo dalla morte di 10 mila persone, da questo avvicendarsi continuo, da questa morte costante che era come una mitragliatrice di morti. Anche lì l’assuefazione era totale, non c’era più differenza tra vita e morte; anche fra noi, quando moriva un nostro compagno, una volta morto non esisteva più. Forse qualcuno rimaneva oggetto anche utilitario di scambio di speranze, di cose fra di noi. La grande imperatrice, la grande torturatrice era la fame, una fame che non si può descrivere, una fame, come una malattia. La fame era diventata padrona assoluta di tutte le parti del nostro corpo, anche del pensiero: la fame era fisiologica, il desiderio di vivere era psicologico, se si può chiamare desiderio perché c’era addirittura indifferenza; però non ho mai assistito a dei suicidi. Si vede che la spes ultima dea fa parte del processo biologico della nostra vitalità. Qui ho visto morire ad uno ad uno i miei compagni: per la maggior parte mi sono morti nelle braccia. La fame con le torture, ma più che le torture l’inimicizia fra di noi, la mancanza totale di solidarietà, mors tua vita mea, le torture fatte da questi che erano in maggioranza polacchi, ucraini, da questi kapo, il cui bisogno di sopravvivere arrivava ad estremi di crudeltà inenarrabili; poi ognuno di loro a sua volta soccombeva davanti a uno più crudele. Come dico e come ho detto, ho visto morire personaggi meravigliosi, e ho visto morire migliaia, migliaia di persone.

Appena arrivati al campo di Hersbruck, subito siamo stati messi in colonna; ci hanno dato la baracca 14, quella degli italiani; poche ore dopo ci hanno fatto mettere in colonna, uscire dal campo, attraversare con gli zoccoli – con questa specie di zoccoli – seminudi come eravamo, con questi vestiti insufficienti a coprirci, la cittadina di Hersbruck, quella che io ricordo come due file di case. I tedeschi, gli abitanti di Hersbruck, ci vedevano molto bene. Ci accompagnavano dei Posten, soldati che abitavano fuori del campo, e insieme a loro c’erano delle SS che avevano il cane, uno, due, tre cani. I cani venivano allenati con queste marce; lo posso dire con certezza perché venivano aizzati sulle nostre caviglie, sulle nostre carni. Attraversavamo il paese per circa 6/7 chilometri, accompagnati da questi cani che erano delle bestie feroci, ed arrivavamo in un luogo in cui ci aspettava un altro dei soliti treni. Salivamo su questi vagoni; ci stipavano in maniera che non si poteva mettere un capello fra di noi, tant’è vero che ho imparato a dormire in piedi nel corso di quei circa 40 minuti del tragitto del treno, per 7/8 km. Questa era la distanza – una quindicina di chilometri tra Hersbruck e Happurg. A Happurg c’era il lavoro. Bisognava scendere dal vagone, salire o meglio inerpicarsi su questa collina molto ripida, con dei boschi; si arrivava su spiazzi, su specie di terrazze, dove c’erano gli ingressi delle gallerie. In questi spiazzi ricordo molto bene le grandi marche dell’industria meccanica tedesca: BMW, Siemens, Junker ed altre marche che ora non ricordo, scritte sulle gru, macchine enormi. E lì c’erano ingegneri tedeschi; ricordo bene uno di loro che mi chiamò “Badoglio! Arbeit, sempre manciare niente lavorare”, secondo il concetto che avevano dell’Italia. Infatti ci riconoscevano appunto dalla “I” che avevamo sopra il triangolo rosso.

Qui ho cominciato a lavorare. Il primo giorno che sono entrato ho avuto l’opportunità di scegliere tra prendere picco e pala oppure il Transport; stupidamente ho scelto il Transport. Non mi ero reso conto che ero un po’ troppo alto per quel lavoro: dovevamo trasportare enormi pesi sulle spalle. Ricordo che il primo peso è stato un’enorme bombola di gas. A 3 di noi hanno ordinato di portare questa bombola; io, che ero il più alto, dovevo camminare con le ginocchia piegate perché gli altri si abbassavano a loro volta, e così il peso ricadeva su di me; era una cosa atroce. Però in qualche modo sono riuscito a passare al picco e pala e ho lavorato lì per qualche tempo. Passavamo davanti ai cittadini di Hersbruck. C’è un particolare molto interessante: nessuno – che io abbia visto – dal campo di Hersbruck è riuscito a scappare, perché veniva ripreso dai villici. In testa avevamo la Lagerstrasse, ci rasavano una volta alla settimana, ogni 10 giorni ci levavano la barba, i peli ecc., ma ci lasciavano qualche millimetro di capelli con una striscia in mezzo alla testa che noi chiamammo Lagerstrasse. Serviva ad identificarci nel caso ci fossimo coperti o travestiti ed anche in caso di fuga. Tre prigionieri russi tentarono la fuga, furono sorpresi e presi, condannati all’impiccagione nella piazza del Lager di Hersbruck: noi siamo stati obbligati ad assistere per garantire che non saremmo scappati. Tutto il sistema era terrore, e anche questo ne faceva parte. Ho visto morire i 3 russi con un’indifferenza che aveva colpito anche me, che avevo già assorbito cose orribili; tuttavia in questi 3 russi c’era una specie di scherno; pensavo che non fossero spaventati solo per far dispetto ai loro carnefici. Sono stati impiccati e poi hanno fatto diverse altre esecuzioni. Dicevo che i corpi dei morti venivano accatastati in una baracca. Verso la fine di questa odissea, io ricordo che, in un giorno d’inverno, sono riuscito ad avvicinarmi ad una di queste baracche. Ho avuto la malasorte, in questi miei 7/8 mesi nel campo di Hersbruck, di vedere le vicende più importanti di questo campo, tanto è vero che ero diventato un esperto del campo: sono stato uno di quelli che ha resistito di più. Ho visto appunto il trasporto di questi morti, accatastati, levati da questa baracca, messi su dei camion. Coprivano il camion, li portavano nel bosco, proprio vicino ad Happurg, dove c’erano le gallerie. Ho saputo molto tempo dopo – era una cosa completamente segreta – che lì facevano delle fosse comuni e li bruciavano, facevano cioè delle pire, perché non c’era crematorio. Nel corso di un mio viaggio circa un paio di anni fa, mi è stato riferito che due contadini avevano visto l’operazione, e che sono stati scoperti, uccisi e bruciati: erano tedeschi. Questo ce lo hanno detto gli stessi tedeschi, quindi non c’è ragione che non sia vero, perché ci sono i loro nomi.

Questa era l’assuefazione alla morte: per il tedesco di allora era indifferente uccidere o non uccidere, e forse questo più che spiegare giustifica, se giustificare si può, il concetto dello sterminio, il programma di distruzione, e questo odio, calmo e calcolatore.

Sono riuscito a salvarmi appunto perché sono diventato un esperto, e anche grazie all’alma mater, vogliamo chiamarla così? Nel campo infatti si era distinto un italiano, che si chiamava Teresio Olivelli, di cui oggi è in corso il processo di beatificazione, al quale sono stato chiamato per testimoniare. Era un uomo molto intelligente, sapeva parlare benissimo il tedesco ed era stato per caso – l’unico caso di un italiano – che era riuscito a diventare furiere della nostra baracca. Olivelli è stato furiere, cioè ci ha dato un po’ di sollievo per breve tempo: di solito i furieri erano delle persone terribili, erano dei castigatori. Olivelli fu poi ucciso da loro, ma nel breve periodo in cui è vissuto, mi ha presentato al Doktor cioè al medico. Il medico era un gobbetto ucraino, era del Revier, cioè dell’infermeria o quel che sia. Olivelli disse a questo medico ucraino, del quale probabilmente era amico, e che parlava il francese: “Questo è un giovane professore”, e il gobbetto rispose: “Professore di cosa?”, “Di filosofia”. Il gobbetto rispose semplicemente “Ah!” e cominciò a parlare in francese, accennando a qualche teoria filosofica. particolarmente mi chiese se io, che sapevo parlare un po’ di francese, conoscessi Voltaire. Risposi “Naturalmente!”, e poi mi chiese se avevo letto Le Candide di Voltaire. Tutto qui, questa è stata la nostra conversazione. Qualche giorno dopo hanno “sostituito” Olivelli, e io sono stato perseguitato dal nuovo Schreiber, perché mi avevano rubato gli zoccoli e dovevo andare a lavorare scalzo: allora decisi di sfidarli e di darmi ammalato. Senza sapere che in quel Revier dove sono andato a farmi visitare c’era il gobbetto, l’ho trovato, guarda le coincidenze!. Ha fatto finta di trovarmi febbricitante, mi ha regalato un termometro, cioè me lo ha dato e non me lo ha ripreso – quasi fosse un messaggio. E io per 2 mesi e mezzo o 3 sono rimasto ricoverato in questa infermeria truccando il termometro, scaldandolo, quando una volta alla settimana venivamo controllati. Così ho potuto resistere fin a quando non mi hanno scoperto. Questo lo devo forse all’alma mater o alle vicende strane della vita che ti fanno incontrare nei momenti più disperati delle àncore di salvezza. E’ stato il dono che ho avuto da Voltaire. Mi hanno scoperto proprio nel momento in cui qualcuno mi ha visto, ed avrebbe potuto tacere perché non c’era nessun bisogno di dirlo, ma la solidarietà era sparita. La prima cosa era rivelare quello che faceva l’altro, anche per distogliere l’attenzione da sé: un polacco mi vide e mi fece subito la spia, così mi “pescarono” mentre scaldavo il termometro, mi presero, mi diedero la punizione solita – che consisteva in 50 gommate sul sedere, che è una cosa terribile – e mi mandarono allo Strafkommando o Compagnia di punizione. La compagnia di punizione di un campo di sterminio!! E che altro poteva essere? si chiamava Scheissekommando ed era la “compagnia degli escrementi”: si doveva riempire una botte a ruote, prelevando con un bussolotto dai pozzi neri e dai depositi delle latrine. Poi io ed altri due dovevamo spingere la botte sui pendii per concimare: vendevano le nostre feci ai contadini per i loro crauti!

E’ durato poco tempo perché eravamo già al mese di marzo (1945), e un giorno hanno smesso i lavori fuori, hanno sospeso i lavori della galleria, e si è rilassata un po’ la disciplina del campo.

Finalmente si cercava di nasconderci, non si usciva più, ma si cercava la gente da far lavorare nel campo per la pulizia. Sono riuscito ad evitare tutto, ormai ero un esperto, fin quando è venuto il momento dei Transport, cioè dei trasferimenti da un campo all’altro. Praticamente Hersbruck è stato evacuato nel giro di 15 giorni, con le colonne che uscivano dal campo.

Io sono rimasto nel campo perché ero molto malridotto e sono stato spedito con l’ultimo gruppo, non so quanti saremo stati, eravamo quasi tutti molto malandati, e abbiamo cominciato la famosa “marcia della morte“. Io sono riuscito a fuggire insieme con un giovane francese durante uno di questi Transport.

E così sono qui.

Cherchi Anna

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Anna Cherchi, sono nata a Torino il 15 gennaio del 1924.

Ho vissuto nelle Langhe fino all’arresto, eravamo contadini. Sono stata arrestata dai tedeschi e sono stata arrestata il 19 marzo del 1944 nelle Langhe, perché ero partigiana combattente. Perché partigiana combattente?

Prima ero staffetta ma al 7 gennaio del 1944 i tedeschi sono venuti e hanno bruciato la nostra casa, allora sono riuscita a fuggire, malgrado tutto è rimasta mia mamma nelle sue mani, ma le è andata abbastanza bene. Hanno portato via anche lei ad Asti, l’hanno messa a confronto con un capitano degli alpini che abitava a Cassinasco e che lavorava con la resistenza ma da casa, infatti quando c’erano delle riunioni venivano a casa nostra. Tanto è vero che la casa è stata bruciata perché secondo loro – era vero – era il covo dei ribelli; i fascisti del paese hanno insistito coi tedeschi con ben 5 lettere che io poi ho visto e dirò come le ho viste. Nell’ultima di queste lettere c’era scritto che se il comandante della piazza di Asti tedesco non avesse preso provvedimenti si sarebbero rivolti ad altri comandi. Allora questo in un certo senso è stato obbligato a farlo, perché forse, ma magari l’avrebbe fatto, è stato obbligato da queste parole. Sono venuti su accompagnati dai repubblichini e, come ho detto, prima hanno razziato tutto quello che hanno potuto, c’erano 5 camion, li hanno riempiti di tutto, biancheria, grano, mais, le bestie, avevamo i buoi, avevamo una mucca che aveva due vitellini e li allattava, avevamo un cavallo, hanno portato via tutto. Il cavallo non voleva salire sul camion, hanno fatto di tutto e non è salito, e allora un italiano, un repubblichino, ha detto al tedesco che parlava italiano: “Uccidiamolo e lo portiamo via morto.” Mia madre non se l’è sentita di vedere fucilare questa bestia, perché per noi quel cavallo era un emblema, era anziano, gli mancava solo la parola. Allora mia mamma ha detto: “No, non uccidetelo, ci penso io”. E’ salita sul camion, il cavallo si chiamava Torrido, e lei gli dice: “Torrido vieni!” e allora lui adagio è salito sopra con grande stupore dei tedeschi, perché loro avevano fatto di tutto per fallo salire e non è salito; lei è salita con tre parole e il cavallo è salito, poi è andato da lei e col muso come a dire “sono qui”. Questa è la storia del nostro cavallo.

Poi l’hanno portata ad Asti e l’hanno messa a confronto con il capitano degli alpini perché sapevano che faceva le riunioni a casa nostra e che lei doveva riconoscerlo. Quando poi sono tornata dal campo di sterminio il capitano mi ha detto – Novello si chiamava questo capitano: “Credimi che quando ho visto tua mamma entrare in quella camera mi si è raggelato il sangue nelle vene perché conoscendo tua mamma, la sua lealtà, questa dice la verità”. Invece dice che quando è entrata i tedeschi le hanno detto, sempre questo tedesco che parlava italiano: “Allora, questo signore quante volte è venuto a casa sua?” Lei l’ha guardato bene e poi ha detto: “Io a casa mia non l’ho mai visto, perché se viene uno a casa mia, la mia testa è una macchina fotografica, lo ricordo, non lo dimentico, però questo qui non è mai venuto, non l’ho mai visto”. Mi ha detto questo capitano: “Io non so cosa avrei fatto a tua mamma dalla gioia perché non mi sarei aspettato, conoscendola, non mi sarei aspettato questo”. Comunque, fatto questo lei è stata portata ad Alessandria. Ma anziché metterla in prigione l’hanno messa nella caserma dei carabinieri, e i carabinieri le facevano pelare le patate, insomma le facevano fare quei lavoretti della cucina, e quando è venuta a casa ha detto: “Mi trattavano bene, erano bravi, mi chiamavano tutti nonnina”. Sennonché, bruciata la casa, io sono riuscita a fuggire e sono andata a chiamare i partigiani. Quando siamo arrivati su, loro erano a Santo Stefano Belbo; quando c’era necessità di una riunione, per partire suonavano le campane e tutti si trovavano in piazza. Siamo arrivati su, la casa bruciava e i camion erano già partiti, abbiamo visto l’ultimo camion dove c’erano le bestie e c’era mia mamma sopra. Allora il comandante partigiano Poli, lui e il padre, erano in due, ha detto: “Non possiamo sparare, perché se spariamo la prima ad andarci di mezzo è lei”. Così l’hanno portata via e da quel momento io ho cessato di fare la staffetta. Certo, avrei trovato chi mi dava ospitalità, ma voleva dire rovinare anche loro, e allora il comandante partigiano, sia il figlio che il padre, hanno detto: “No, tu adesso vieni con noi”. Là c’era già mio fratello, quello che poi è stato fucilato; mio fratello era a casa in convalescenza, era del ’20, l’avevano richiamato e l’avevano mandato in Albania e lì si è preso la malaria, dopo varie peripezie l’hanno rimpatriato a Civitavecchia, poi l’hanno portato all’Ospedale Militare di Roma e di lì l’hanno poi mandato a casa in convalescenza. Lui doveva presentarsi all’Ospedale Militare di Roma il 12 settembre del 1943; l’8 settembre è venuto fuori quello che è venuto fuori e lui non si è più presentato. Ha fatto tutta la pratica per il viaggio, ha fatto tutto per partire, è partito ma ha preso un’altra strada ed è andato in montagna, per cui era considerato un disertore da quelli che comandavano a loro.

Il comandante partigiano ha detto a me: “Vieni con noi, perdiamo una valida staffetta ma non possiamo fare diversamente, non possiamo abbandonarti”.

Ecco perché sono diventata partigiana combattente: non è stato facile per me perché ho dovuto imparare tutto. Prima di tutto ho dovuto imparare ad operare con le armi – io avevo una paura matta – ma purtroppo quando si è lì bisogna fare anche quello. Ho imparato a fare l’infermiera, non l’avevo mai fatto, bisognava curare anche i feriti perché ogni tanto c’era qualcuno che restava ferito, il dottore veniva ma poi bisognava… e lì ho imparato anche quello ma è durato troppo poco perché il 19 marzo del 1944 c’era un rastrellamento in atto e sono stata arrestata dai tedeschi. Mi hanno messo in una prigione di fortuna.

D: Scusa Anna, dove ti hanno arrestata?

R: Mi hanno arrestata nella Langhe, tra Carrù e Dogliani. Mi hanno tenuta una notte in una prigione di fortuna, un magazzino di pali, dritti, lunghi, penso che fossero pali della luce perché allora i pali erano di legno, non di ferro come sono adesso. C’era un tedesco in questa prigione, l’hanno fatto uscire, lui tutto felice, e sono entrata io. Al mattino presto bussano alla porta: dovevo prepararmi, vestirmi, io non mi ero nemmeno svestita, e andare a Torino, mi dicono. Io ero pronta perché non avevo niente, non mi ero svestita, ho passato tutta la notte seduta su quella branda con una coperta sulle spalle, era marzo e faceva ancora freddo, c’erano due coperte e una me la sono avviluppata intorno alle gambe e sono stata tutta la notte così. Ad un certo punto ho visto su quei pali una bestia, ho detto: guarda, c’è un gatto, ho la compagnia di un gatto. Invece guardando bene non era un gatto, era un topo grosso, e allora avevo paura di quel topo, di grossi così non ne avevo mai visti. Dico: Se a questo gli prende di saltare! Ecco perché sono stata tutta la notte seduta, io guardavo lui, lui guardava me, non si è mosso e io neanche. Il mattino, quando mi hanno bussato alla porta, ho messo le coperte da una parte ed ero pronta; mi portano al treno e non mi ricordo più dove, mi sembra tanto Alba però non sono sicura dove mi hanno portata per prendere il treno. Alba è grande e io so che siamo entrati in una stazione che non era tanto grande, non me lo ricordo più. Siamo entrati in questa stazione, abbiamo preso il treno e siamo arrivati a Torino, alla stazione di Porta Nuova. Prima di portarmi in carcere, le Nuove, in Corso Vittorio 27, mi hanno portato all’Albergo Nazionale. Lì c’era il famoso capitano Schmidt, che a vederlo ti sembrava una persona gentile, per bene, e io ho detto: “Non sono poi tutti come crediamo noi”, ma mi sono ravveduta subito. Mi sono ravveduta subito perché non ho risposto alla domanda che lui mi ha fatto come voleva lui, ha incominciato a diventare burbero, a diventare quello che veramente era.

D: Scusa Anna, all’Albergo Nazionale c’era la sede di che cosa?

R: Della SS. il comando territoriale di Torino della SS. Cosa volevano sapere? Volevano sapere da me dove erano state nascoste delle armi. Noi avevamo ricevuto due paracadute con delle armi, perché con noi c’era un comandante inglese che mio marito ha scortato fino a Cortemilia. Pensare che io ho uno scritto di mio marito a casa che parla di questo comandante inglese che è riuscito a salvare la radiotrasmittente e si è messo in contatto non so con chi e sono arrivati questi due lanci di armi, però questi due lanci sono arrivati che c’era già il rastrellamento in atto, e allora cosa è successo? Queste armi bisognava scartarle, montarle, ci voleva del tempo e tempo non ce n’era e allora con l’aiuto di un contadino … Qui vorrei dire due parole sui contadini: qualcuno ha detto che i contadini erano egoisti e non ci aiutavano, non è vero. I contadini ti aiutavano, certo avevano paura perché vedevano che per un nonnulla bruciavano la casa; chi non aveva paura? Tutti avevano paura, però nel loro piccolo e nella loro possibilità siamo sempre stati aiutati. Un contadino che aveva un cunicolo sotto un terrapieno dove metteva le robe per lavorare la campagna, la zappa, la vanga, il badile, tutte queste cose per non portarle a casa tutte le sere, ha detto: “Se volete possiamo metterle là, c’erano delle fascine di legno, mettiamo quelle fascine davanti, è tanto tempo che sono lì, speriamo di salvarle”, e così hanno fatto.

Loro volevano sapere da me dove erano state messe le armi e io ho detto: “Non lo so, ero lì però ero in un altro gruppo”. Non potevo dire che le armi non erano arrivate perché le avevano portate via, nascoste ma i paracaduti erano rimasti lì, e al contadino hanno detto se voleva prendere i paracaduti perché la stoffa del paracadute era bella. Lui ha detto no: “Se vengono in casa a farmi una perquisizione e mi trovano quello!” e li ha lasciati lì. Loro sono arrivati, hanno trovato i paracadute e io non potevo negare questo; allora dicevo: “Le armi so che sono arrivate però dove le hanno messe non lo so perché ero in un altro gruppo” e ho sempre sostenuto quello. Ma il capitano Schmidt non lo ha digerito tanto, lui voleva sapere dove erano le armi e io dicevo di non saperlo, e lì non è stato tanto gentile, aveva dei metodi abbastanza… più che botte adoperava i suoi mezzi, era ben attrezzato, metteva anche le matite in mezzo alle dita, poi serrava le dita in mezzo alla morsa e la morsa ce l’aveva appesa alla scrivania: stringevano le dita in mezzo a questa morsa con le matite dentro, le unghie sanguinavano, aveva quei metodi. Appunto ho detto che subito sembrava gentile, ma ha messo fuori le sue bravure, e lì sono stata tutto il giorno. A mezzogiorno loro sono andati a mangiare, mi hanno messo in un corridoio, c’era già una persona anziana e un ragazzo. Il ragazzo era tutto euforico perché dovevano misurargli una camicia rossa: se quella camicia rossa gli andava bene lo fucilavano, se non gli andava bene lo lasciavano uscire. Ma lui sapeva che quella camicia non gli andava bene, non era sua, e allora era felice perché diceva: “Mi lasciano uscire, non mi va bene, lo so già”. Gli hanno portato da mangiare, della roba che io non avevo mai mangiato – io a dire la verità fino a quel momento la fame non l’avevo provata, perché in campagna avevamo la farina, la nostra roba, non avevamo la tessera però anche polenta e minestra, il pane lo facevamo noi, la fame non l’avevo ancora provata. Hanno portato un piatto di tutti pezzettini di quel pane nero dei tedeschi, e il signore più anziano si è messo a fare tre parti, io alla fine ho detto: “Quella minestra non lo mangio e quel pane neanche!” Lui mi guarda e mi fa: “Sei sicura?” “No, no io non mangio quella porcheria”. Mi ricordo sempre che questo signore anziano mi ha detto se hai la disgrazia di stare quattro mesi qui dentro come ci sono io, mangerai quello ed altro; dico quando sarà ora mangerò anch’io, però in questo momento non mi va giù quella roba. Sicura? Sì. Allora hanno fatto due parti sia del pane che di quel gries lo chiamavano, lo tiravi su e faceva le bave, solo a vederlo faceva schifo, poi … ne avessimo avuto! Alla sera mi portano in carcere nella cella 22, trovo tre donne: c’erano la De Angeli, Marconi Ines che adesso è mancata, che è la mamma di quel partigiano di cui c’è la lapide vicino al Corso, Mirko De Angeli – era sua mamma ed era con me, padre e figlio erano con me nelle Langhe, poi il padre è stato venduto ai tedeschi dal nostro famoso comandante Davide che ha tradito, cioè ha detto ai tedeschi che era un ebreo, per cento mila lire. Sì, allora cento mila lire erano soldi, ma vendere una persona… noi lo stimavamo, credevamo che fosse un persona… e invece purtroppo abbiamo dovuto constatare che era un traditore. Finita la giornata vado in cella e trovo queste tre donne: la De Angeli, Ines, poi c’era una certa Margot che non hanno mandato in Germania, l’hanno poi lasciata uscire, era una ballerina: avevano fatto la spia dicendo che lei aiutava i partigiani ma diceva che non era vero: “L’avessi fatto ma non l’ho mai fatto!” Solo che una era gelosa perché lei riusciva bene nei suoi balli ma quella no, e allora sempre le solite storie, comunque non l’hanno mandata in Germania. Poi c’era un’ebrea, una certa Levi ma il nome non lo ricordo più, una persona anziana, e verso il 10 o 12 di aprile è arrivata Lidia (Beccaria) Rolfi. Le due più anziane dormivano nelle due brande che c’erano e che al mattino si tiravano su per avere più spazio nella cella e alla sera si tiravano giù, e noi altre dormivamo per terra perché non c’era posto. Adesso si lamentano, anche allora, però nessuno è intervenuto per noi ma non facciamo commenti su questo, è un altro argomento. Io per un mese consecutivo tutti i giorni venivo presa al mattino, portata all’Albergo Nazionale e riportata indietro alla sera. Quel giorno mi hanno dato da mangiare a mezzogiorno perché le carceri non sapevano ancora del mio arrivo, ma quando poi tutti i giorni venivano a prendermi dovevano mettermi via il mangiare; io poi arrivavo ma era tutto freddo perché potete immaginare, là da mangiare non me ne davano, a mezzogiorno loro andavano a mangiare ma io stavo nel corridoio e non mi davano niente. Per un mese la solita storia, entravo dentro e il capitano Schmidt insisteva su quello, e io insistevo sulla mia tesi, ho sempre detto: “Non lo so, non ero lì, non ero presente e non so dove le hanno messe”. Ha adoperato tutti i mezzi, persino la scossa elettrica: c’era una sedia di ferro come una volta negli ospedali, quelle con i braccioli; vicino a una gamba hanno messo una presa, era il mese di marzo e faceva ancora freddo e lui aveva una stufa elettrica nell’ufficio, aveva l’interprete che era un ragazzino ebreo, parlava tedesco e l’hanno tenuto, la famiglia l’hanno mandata via e lui l’hanno tenuto lì, gli facevano fare da interprete e anche quel lavoro: staccava la spina dalla stufa e toccava il gambo della… ma appena toccato già mi dava… finché un bel giorno si vede che l’ha lasciato un attimo di più e io sono svenuta, sono andata per terra. Si vede che ho battuto la testa in qualche posto, perché quando mi sono ripresa ero tutta bagnata, si vede che mi hanno buttato acqua addosso per farmi rinvenire, e avevo già un cerotto sulla testa, sanguinavo. Da quel giorno non sono più venuti a prendermi, ho continuato a stare in carcere, andavo all’ora di aria, perché ci davano un’ora di aria al giorno, e lì ho cominciato a conoscere le mie compagne; prima conoscevo solo quelle che erano in cella con me perché mi portavano all’Albergo Nazionale e lì non vedevo nessuno, arrivavo la sera.

Solo che anche lì è durato poco perché al 30 giugno sempre del 1944 sono arrivati i tedeschi e hanno detto che ci portavano in Germania a lavorare. Noi non avevamo mai sentito parlare dei campi di sterminio, mai nessuno aveva parlato di quelli, perché c’erano solo le persone altolocate che sapevano, gli altri non sapevano niente. Nella notte sono venuti e da quel giorno non mi hanno più portata all’Albergo Nazionale.

Ho fatto la vita con gli altri, la vita del carcere, che certamente era diversa da quella che avevo fatto fino a quel giorno.

Al 29 di giugno i tedeschi ci dicono che ci portano in Germania e la notte sono venuti, ci hanno chiamati sotto, c’era anche lei, eravamo in 14, ci hanno caricate su un camion e ci hanno portate a Porta Nuova, c’era già la tradotta pronta. La chiamavano tradotta ma era poi un treno, un carro bestiame. Noi eravamo solo in 14, ci hanno chiuso dentro questo carro bestiame e siamo state lì tutto il giorno ad aspettare gli avvenimenti. Intanto si sentiva… e non si capiva niente di quello che stava succedendo perché eravamo chiuse dentro, c’era solo quel piccolo sportello là sopra che bisognava fare la scala per salire, e finalmente la sera il treno è partito. Si fermava perché si vede che avevano paura di trovare qualcosa sui binari, sospettavano, chi ha la coscienza sporca sospetta sempre degli altri. Poi finalmente siamo arrivate a Innsbruck. Ci hanno fatto scendere dal treno, gli uomini da una parte perché noi eravamo in 14 donne chiuse in un vagone, ma poi c’erano 280 uomini chiusi in altri vagoni, che loro erano stipati così, certi vagoni dice che non li hanno nemmeno potuti chiudere perché non riuscivano, e allora c’erano i tedeschi sulla porta del vagone che sorvegliavano questi uomini che non scappassero, perché qualcuno era riuscito a scappare. Arriviamo a Innsbruck, ci fanno scendere a tutti, il nostro vagone è stato agganciato a un treno che andava a Berlino, nel frattempo ci hanno dato una scodella di quel gries che faceva le bave che non avevo mangiato in carcere, ma lì l’ho mangiato, era già buono anche se faceva le bave, poi ci hanno fatto di nuovo salire sul nostro vagone, gli uomini li hanno smistati ma noi non c’eravamo più, chi a Dachau chi a Mauthausen, chi negli altri campi, a noi ci hanno fatto salire di nuovo sul nostro vagone bestiame e siamo andate fino a Berlino. A Berlino ci hanno fatto scendere, abbiamo attraversato nei sotterranei tutta la stazione di Berlino che è grandissima, allora non era ancora tutta bombardata come era poi alla fine della guerra, e ci hanno portati in una stazione dove c’era un treno locale. Ci hanno fatto salire su questo treno locale e finalmente non eravamo più in carro bestiame ma eravamo in un vagone normale di terza categoria, o forse era anche di quarta, comunque un vagone normale, c’era la gente che saliva perché era presto e si vede che andavano a lavorare, e ci hanno sistemate, eravamo in 14, in due scompartimenti. Loro erano in due che ci accompagnavano e ci hanno sistemati lì e c’era uno per porta, e ci guardavano, perciò la gente che saliva ci vedeva, doveva capire che eravamo delle prigioniere perché c’era un tedesco sulla porta che ci sorvegliava, poi magari non eravamo le prime, e lì devo dire che abbiamo provato la prima delusione della Germania, dei campi di sterminio, perché questa gente saliva e non ti degnava di uno sguardo, ma se ti degnava di uno sguardo era uno sguardo cattivo, tanto che a noi ci ha obbligati a dire questi sono tedeschi. Questo treno è partito, non abbiamo viaggiato tanto, mezz’ora, di preciso non lo so, siamo arrivati in una piccola stanzioncina che era la stazione di Fürstenberg. Fürstenberg è una bella cittadina, l’ho vista dopo, e la stazione è ancora adesso tale e quale come allora, brutta, tutto arrugginito. Ci hanno fatto scendere e lì a piedi ci hanno portate al campo, c’era una bella strada asfaltata, ad un certo punto abbiamo avuto una visione bellissima, dalla parte destra c’era il lago, alla parte sinistra c’erano tutte villette, una più bella dell’altra, eravamo poi alla fine di giugno, il 1° luglio, piene di fiori, uno più bello dell’altro, sembrava che avessero fatto una gara, chi aveva la finestra e il balcone più bello degli altri, tanto era bello da vedere, tanto che noi ingenue, sapevamo che andavamo a lavorare e abbiamo detto: guarda in che bel posto ci hanno portate! E quella visione dopo un po’ è sparita.

Ci siamo trovate davanti a un muro altissimo, nero, brutto, e abbiamo detto: guarda che fabbrica brutta è questa, non possono dare un po’ di bianco, con tutto il bello che abbiamo avuto fino ad adesso? Lì c’era una sbarra come i passaggi a livello, hanno alzato questa sbarra e ci hanno fatto entrare. I due tedeschi che ci accompagnavano sono entrati negli uffici, hanno consegnato la loro cartella con tutti i nostri documenti, poi sono spariti e non li abbiamo più visti tanto che anche lì siamo state ingenue, perché non sapevamo niente e abbiamo detto: guarda che maleducati quei due, sono andati via e non ci hanno neanche salutate. Durante il tragitto su questa strada asfaltata bellissima, avevamo una compagna, la Carletti Cesarina cosiddetta “nonna Mao”, aveva due valigie, grosse, piene zeppe, perché i tedeschi avevano detto a sua mamma di procurarle tanta roba di lana perché dove andava faceva freddo. Effettivamente era una zona fredda perché il mese di luglio, al mattino alle sette quando si andava all’appello si battevano i denti, faceva freddo, si battevano i denti un po’ per la paura ma si battevano i denti per il freddo, tanto è vero che la chiamano la piccola Siberia perché è proprio una zona fredda. Allora ci hanno fatto entrare; lungo questo percorso lei chiede a questi due tedeschi di aiutarla a portare queste valigie: figuriamoci! Loro che sapevano cosa c’era in quella villette, non lo facevano anche per loro.

Allora lei si è arrabbiata e dice: sì, non mi aiutate, e io le metto qui e non mi muovo più. Ha messo quelle due valigie in mezzo alla strada, si è seduta sopra, noi a cercare di convincerla, dai ti aiutiamo noi; andavamo incontro all’incognito e non sapevamo cosa poteva succederci, lei: nient’affatto, sono loro che mi devono aiutare. Ad un certo punto da una di queste villette si apre una finestra e viene fuori una che si mette a sbraitare in tedesco, quello che diceva per noi era tabù perché non capivamo, e ha sbraitato. Finito lei ha cominciato la nostra compagna, la Carletti, tutto quello che le è venuto in mente, tutto quello che si può dire di brutto a una persona, lei glie l’ha detto. Alla fine le abbiamo strappato quelle valigie, l’abbiamo tirata fino a che l’abbiamo fatta partire e siamo arrivati lì. Loro hanno consegnato i documenti e poi se ne sono andati, ci hanno fatto entrare nel piazzale, quando siamo lì vediamo, a un certo punto, una carabiniera che arriva, vestita in divisa, in mano da una parte aveva la bustina, dall’altra il frustino, entra tutta marzialmente; entra dentro e non si sbaglia, va a beccare la Carletti. Era riconoscibile perché aveva dei bei capelli neri ed era pettinata alla Rita Hayworth, con quell’onda, perciò era riconoscibile, non si è sbagliata, è andata, l’ha presa, l’ha tirata fuori, quelle che non ha voluto gliele ha cambiate, poi l’ha presa subito e l’ha portata dentro, e lì dice che l’hanno di nuovo picchiata e poi le hanno tagliato i capelli. Quando è uscita fuori siamo rimaste stupefatte a vederla, la testa sotto i capelli neri ancora più bianca, quella testa tutta bianca, poi lei aveva gli zigomi grossi, aveva una faccia… era una bella donna però con quella testa pelata. Ed io ho avuto… non so perché mi è venuto quello, glie l’ho detto e non me l’ha mai perdonato, quando era arrabbiata me lo rinfacciava sempre. Lei si chiamava Cesarina ma noi la chiamavamo Cesi per fare più in fretta, le ho detto: Cesi sembri il duce! Non gliel’avessi mai detto! Ho fatto male a dirle questo, lo so, ma mi è venuto così spontaneo, ho visto la testa più grossa del solito, la testa pelata, sarà che poi il giorno dopo l’hanno fatto a noi. Comunque, quando il giorno dopo, perché poi ci hanno fatto fare tutto il giorno lungo quel muro, sotto il sole perché c’era una giornata come fosse oggi, tutto il giorno sotto quel sole cocente, alla sera quando già veniva buio hanno aperto una porta e ci hanno fatto entrare dentro, ma non abbiamo visto cosa c’era là dentro perché era buio, non c’era luce, ci hanno fatto entrare e poi hanno chiuso la porta e ci hanno lasciato lì. Abbiamo capito che era una doccia perché c’erano le pedane ed erano bagnate. Allora ci siamo rannicchiate tutte in un angolo e abbiamo cercato di stare vicine l’una con l’altra piene di paura perché non sapevamo cosa succedeva; durante la notte abbiamo sentito un fracasso della malora, è arrivata altra gente, sono arrivate altre donne, hanno aperto quella porta e le hanno fatte entrare, noi non capivamo una parola, l’unica parola che capivamo (era) quando chiamavano mamma. Mamma è una parola internazionale, poi abbiamo saputo al mattino che erano russe, 540 russe, il giorno dopo tutte in fila lungo quel muro e lì una per una si andava dentro.

Noi l’abbiamo definita l’immatricolazione quella: tagliavano i capelli, guardavano se avevamo i pidocchi, poi ti passavano la visita, una visita schifosa, sputavano per terra, noi non eravamo abituate a quelle cose lì, una volta era tutto diverso, poi anche fosse adesso essere trattate come ci hanno trattato allora sarebbe sempre schifoso. Poi più avanti c’era anche la parrucchiera che tagliava i capelli, poi c’era la disinfezione. Erano sempre deportati che facevano quei lavori, non erano tedeschi, deportati col triangolo rosso anche. Cosa facevano? Avevano un secchio, dentro il secchio c’era un pennello e un liquido che te lo passavano dalla testa ai predi che bruciava, e una delle prime, non so se la .. o Irma di Biella che non lo sapeva, non ha chiuso gli occhi e le è andato negli occhi! Quella era creolina, puzzolente che non finiva mai, le è andata negli occhi e le ha dato problemi per un po’ di giorni perché quello brucia e può anche rovinarti gli occhi, e allora sapendo quello quando si entrava l’unica cosa si cercava di tenere gli occhi e la bocca chiusa.

Finita la disinfezione c’era poi la vestizione. Ho dimenticato di dire che tutto il giorno mentre siamo stati lì lungo quel muro, ci hanno fatto spogliare, togliere tutto quello che avevamo indosso, piegare tutto per bene, mettere tutto ammucchiato vicino a quel muro, per ultimo le scarpe sopra perché questo mucchio non andasse per terra e siamo rimaste nude, allora alla fine ci hanno vestite. Siamo state fortunate che ci hanno dato uno di quei vestiti rigati tipo quella bandiera.

D: Quando sei entrata nel campo hai visto se sul campo c’era una scritta, un nome del campo?

R: Non abbiamo visto niente, scritte non ce n’erano, c’era soltanto quella sbarra come c’è nel passaggio a livello.

D: E il nome del campo quando l’hai scoperto?

R: L’abbiamo scoperto quando già eravamo là in quarantena, che poi non era quarantena, che continuavamo a chiedere “che cosa è questo, è una fabbrica?” e allora c’era una professoressa greca, una bravissima persona, parlava molto bene l’italiano, il tedesco, e questa ci ha salvate tante volte dalle botte, perché quando ti chiamavano ti chiamavano col numero, ma lo chiamavano in tedesco, tu che non capivi il tedesco non uscivi e allora erano botte. Allora lei: hanno chiamato il tuo numero, esci fuori, rispondi! Ma nomi io non ne ricordo, non ho visto nessun nome quando siamo entrate, abbiamo visto solo quella sbarra che si è alzata e ci hanno fatto entrare su quel piazzale, il nome del campo l’abbiamo saputo dopo.

D: E l’hai saputo. Il campo era?

R: Ravensbrück. Allora per noi Ravensbrück aveva un nome insignificante, perché non sapevamo cosa voleva dire, Ravensbrück vuol dire in tedesco “ponte dei corvi”, ma noi non lo sapevamo questo, l’abbiamo saputo in seguito. Abbiamo avuto delle lezioni e abbiamo imparato tante cose, abbiamo passato cose brutte, ma abbiamo avuto anche delle cose belle, soprattutto si è creata in mezzo a noi la solidarietà, io oserei dire, forse dico una cosa di troppo, la solidarietà è stata il 50% di aiuto per la sopravvivenza, chi ti dava solidarietà non è che ti dava un pezzo di pane perché non poteva darcelo, però l’aiuto morale che tu ricevevi da quelle compagne più anziane di te, che noi eravamo giovani, lei aveva 16 anni io quasi 20, ma eravamo giovani e inesperte. Noi credevamo di sapere tutto, io credevo – con la casa bruciata, sono andata nei partigiani, ho imparato a fare questo – credevo di sapere tutto ma quando sono arrivata là ho capito che non sapevo proprio niente, che dovevo incominciare da capo e non era facile perché incominciare a lottare contro queste belve umane non era facile; le nostre compagne più anziane, sua sorella, un giorno Irma, la Beltrando Lucia che erano tutte persone anziane e che avevano un’altra esperienza della vita, vuoi sia familiare che politica, e allora cercavano di insegnare a noi il modo in cui si doveva agire per sopravvivere, perché per loro il capo essenziale era sopravvivere, ritornare, raccontare al mondo quello che succedeva là dentro, perché succedevano delle cose talmente inverosimili che ancora oggi, a parte che quelli che non vogliono capire oggi è perché non vogliono, non che non riescono; ancora oggi mi trovo a domandarmi: ma come facevano delle persone che si dicevano umane a fare quello che facevano ad altre persone umane. Come facevano? Eppure lo facevano. C’erano le kapò, le kapò chi erano? A parte che erano avanzi di galera, erano persone tolte dalla galera a vita, ergastolo, perciò quando uno prende un ergastolo non ha rubato una gallina, ha fatto qualcosa di peggio, ebbene hanno tolto dalle galere tutta questa gente, uomini e donne, e hanno dato loro il potere di fare quello che facevano a noi, questa gente aveva il potere nelle mani di farti vivere, farti morire come e quando volevano loro, e quando ti picchiavano godevano se tu soffrivi; ecco perché le nostre compagne ci dicevano quando ti picchiano non gridare, tanto il male lo senti lo stesso, ma il grido viene spontaneo, perché senti male e gridi. Loro dicevano: non gridare ma non era facile fare quello ed avevano ragione perché se tu non gridavi loro non avevano la soddisfazione di vederti soffrire e allora smettevano prima, invece se tu gridavi voleva dire che soffrivi, loro erano talmente contente di vederti soffrire che continuavano a picchiare a sangue. Io ricordo che sono arrivate un giorno tre suore, erano vestite come noi, noi abbiamo poi saputo che erano suore perché erano francesi queste suore, due erano anziane, avranno avuto circa 80 anni più o meno, là erano tutte così malmesse che a dire l’età era difficile da poter indovinare, arrivano due anziane e una era giovane, avrà avuto 30-32 anni ma era minutina, piccola, magrolina, dice che gestivano un asilo nido e in questo asilo nido c’erano tutti i bambini, in Francia, figli di partigiani, maquis, in Francia si dice machì, che avevano bambini e loro prendevano questi bambini e li guardavano, li gestivano. I tedeschi sono venuti a saperlo, loro hanno avuto una spiata che i tedeschi sarebbero venuti su e avrebbero preso loro e tutti i bambini, hanno fatto in tempo a far sparire i bambini, però loro sono rimaste lì: i tedeschi sono arrivati ma i bambini non c’erano più. Loro hanno chiesto dove erano i bambini, dice li avevamo qui provvisori ma adesso i genitori sono venuti a prenderseli e li hanno portati via, perché dice che andavano via dalla città per i bombardamenti. Loro non ci hanno creduto e allora hanno preso queste tre suore, le hanno deportate e le hanno portate a Ravensbrück. Da Ravensbrück le hanno portate dove lavoravamo noi, perché a Ravensbrück siamo rimaste dal 1° luglio, quando siamo arrivate fino verso il 20 di agosto, poi hanno formato il comando e ci hanno portato a lavorare. Ci hanno portato a lavorare in una fabbrica dove facevamo apparecchi da bombardamento; Volkanblum si chiamava questa fabbrica, e facevamo i Messerschmitt 709, facevamo tutto meno l’impianto elettrico, l’impianto elettrico arrivava già tutto predisposto, era solo da montare ma non era compito nostro, era in un altro reparto.

D: Anna scusa, il tuo numero di Ravensbrück te lo ricordi?

R: Sì, il primo era 44145, poi però quando siamo andate in quella fabbrica, a Schönefeld, vicino al campo d’aviazione e c’è ancora adesso, perché io nel ’70 sono andata con la Regione, abbiamo preso l’aereo e siamo scesi proprio lì e la fabbrica era dietro ma adesso non c’è più perché nel ’79 io sono andata a cercarla e non c’era più e mi ha detto il direttore del museo di Ravensbrück che la fabbrica l’hanno spostata ma che esiste ancora, lavora ancora, però forse non ci ho pensato, non mi sono fatta dire dove l’hanno spostata, adesso la prima volta che vado a Ravensbrück voglio indagare. La Volkanblum era una fabbrica grande, noi quando siamo arrivate lì ci hanno dato un altro numero, che era il numero di lavoro, perché leggendo quel numero loro sapevano qual era il mio posto di lavoro: ho avuto 1721, detto in tedesco siebzehnhunderteinundzwanzig, comunque io ero 1721. Siamo arrivati a 4500, tutte donne e la maggior parte erano francesi; noi italiane eravamo poche e siamo anche state sfortunate, perché essendo poche siamo state un po’ mandate una da una parte una dall’altra, non è che siamo riuscite a stare tutte in gruppo; quello vuol dire volere o no che ti parli assieme, ti consoli l’una con l’altra invece una era da una parte e una dall’altra, questo era già brutto ma quello che era più brutto di tutto è che noi quando siamo entrati in campo, non avevamo solo i tedeschi come nemici ma avevano le prigioniere stesse, perché ce l’avevano con gli italiani, ce l’avevano perché gli italiani erano dei traditori, e allora a noi ci chiamavano sempre “musulinì” e “macaronì”, e noi dicevamo magari ne avessimo un bel piatto, sì che andrebbe bene, ma quel “musulinì” non andava bene perché se eravamo là non eravamo con Mussolini, questa è la verità, eppure soprattutto le più giovani ce l’avevano a morte con noi. Per fortuna che quelle anziane, vuoi anche francesi, che capivano più delle altre, sapevano che se noi eravamo là non eravamo con Mussolini perché fossimo state con Mussolini saremmo state in casa, in Italia perlomeno. Poco per volta sono riuscite a far capire questo e allora la cosa è cambiata, anche noi ci siamo trovate meglio, anche se c’era la difficoltà della lingua perché quella è stato un handicap grossissimo: tu non capivi quello che ti dicevano loro e loro non capivano quello che dicevi tu.

D: Anna, dicevi di quelle tre suore che poi hanno portato…

R: Queste tre suore sono arrivate, il primo giorno sono rimaste lì tutte e tre, noi abbiamo saputo che erano suore perché c’erano le francesi e siscome queste suore erano francesi … bisogna dire che le francesi si aiutavano in un modo stupendo, erano solidali l’una con l’altra, una cosa incredibile. Loro hanno cercato subito di fare qualcosa per queste tre, vuoi perché erano suore, vuoi perché erano francesi, le due anziane però il giorno dopo le hanno portate via subito ed è rimasta la più giovane. Era vestita come noi, l’avevano messa a lavorare, non ricordo che lavoro faceva, fatto sta che questa era una suora, tutte le sere o tutte le mattine, perché noi si lavorava 12 ore al giorno, una settimana di giorno e una di notte, allora questa finito il lavoro, prima di andare nel letto a castello, diceva le preghiere, si inginocchiava ai piedi dei castelli e diceva le sue preghiere, questo non era permesso perché dire le preghiere voleva dire farti animo da sola, metterti nelle mani di Dio, va a sapere cosa pensavano loro, fatto sta che era proibito. Loro, le kapò, le cablò, le stubò, ma soprattutto le kapò cosa facevano? Sapevano che lei era una suora e diceva le preghiere, allora aspettavano che lei fosse in ginocchio a pregare, venivano fuori dal loro harem, perché loro avevano il loro harem, venivano fuori e la pestavano di santa ragione. Queste nostre compagne più anziane, vuoi russe, tutte, non c’era differenza, tutte si prestavano, tutte. C’erano le italiane che si prestavano per noi, tutte si prestavano, e allora tutte a dire a questa suora: vai nel castello, prega tutto il giorno, prega tutta la notte, non metterti lì, queste un giorno o l’altro ti uccidono, e lei diceva: le preghiere vanno dette così, sarà la volontà di Dio e ha continuato, e loro hanno continuato a darle le botte, tanto che un giorno, facevamo la notte, lei era di giorno che stava pregando in ginocchio per terra, sono arrivate e l’hanno caricata di botte, noi eravamo nel castello, dormivamo già in due, ero con la Irma Bianco, si guardava; dice: questa qui la uccidono perché non è possibile, poi lei è caduta per terra, ha incominciato a venirle fuori il sangue dal naso e dalla bocca, allora hanno chiamato le sue compagne, le altre francesi, portatela all’infermeria, e loro l’hanno presa, l’hanno portata là, quando è arrivata lei era già morta. Questa è stata la storia di una suora, e le altre due le hanno portate via. Non hanno detto dove le portavano ma abbiamo capito, sapevamo già dove le portavano. Quella è un po’ la storia di come si viveva, poi c’è la storia del mangiare, il mangiare era una cosa schifosa, un mestolo di zuppa, loro la chiamavano zuppa ma era acqua sporca con qualche pezzo di barbabietola o di rapa che galleggiava sopra; erano rarissime le volte che trovavi un pezzettino di patata e toccavi il cielo con le dita, anche solo bollita, senza sale senza niente ma riempie la bocca ti da quale senso di…..perciò il mangiare era quello. Poi ti davano un filone di pane diviso in otto ma non era mai un chilo quel filone perché le kapo prima di dividerlo se ne tagliavano una bella fetta per loro; perché loro dovevano fare le loro orge perché alla sera o al mattino, ma soprattutto alla notte questo lo facevano perché di giorno potevano arrivare i tedeschi da un momento all’altro.

(Fine prima parte intervista)

D: Nella vita del campo nella vita del Lager cosa vi davano da mangiare?

R: Quello era il problema, però il problema grave anche per noi, soprattutto io parlo per noi giovani era quella che quando siamo arrivati ci hanno tolto il ciclo mensile. No? E in mezzo a tutto quel frastuono riuscivamo ancora a pensare a quello, riuscivamo ancora a dire, ritorneremo come prima? Quella era una incognita, una cosa che non si era mai sentita. Per fortuna che c’erano appunto queste persone più anziane che ci dicevano, non dovete pensare a quello, non dovete pensare a queste cose, queste cose abbiamo tempo a pensarci quando arriviamo a casa. Era facile dirlo. Ma non era facile a metterlo in pratica, perché quando arrivi a casa, intanto non sapevi se arrivavi a casa, prima cosa, seconda cosa, eri ancora in tempo quando arrivavi a casa a metterti a posto? Quella era una incognita che ti tormentava; ogni tanto ti veniva in mente quello e ci pensavi e quello ti dava quel senso di scoraggiamento ti faceva venire di cattivo umore, e quella era la cosa peggiore che potevi avere dentro di te, perché essere di cattivo umore voleva dire tu che eri già debole, fisicamente ecc. voleva dire cadere proprio nell’abisso completo, ecco perché le nostre compagne dicevano non pensate a quello, adesso pensate a vivere, domani penseremo a quello. Ma malgrado che ce lo dicevano loro, sapevamo che avevano ragione, non era facile mettere in pratica quelle cose. E’ stato difficile. Quando siamo riuscite tanto abbiamo capito abbiamo detto: qui non c’è niente da fare, o facciamo come dicono loro sperando che ci vada bene e se non ci va bene loro hanno fatto tutto quello che hanno potuto e non ci sono riuscite e allora abbiamo cercato di dare retta a quello che loro ci dicevano quello che loro ci insegnavano, perché tanto non avevamo altre vie di uscita che quelle e nel medesimo tempo si cercava di girare al largo e cercare di non incontrare pericoli, anche se i pericoli ti venivano a cercare, ovunque tu ti trovavi, tu dovevi sempre cercare di girare l’angolo, cercare di allontanare il pericolo.

D: Anna, ti ricordi a Ravensbrück o in quest’altro sottocampo se c’erano anche dei bambini?

R: A Ravensbrück sì nel sottocampo no, perché nel sottocampo ti passavano la visita prima, e allora prima di mandarti loro già sapevano quelle che arrivavano in stato interessante, perché d’accordo, (nel caso degli) gli ebrei prendevano tutta la famiglia, c’erano bambini anziani ammalati ecc. ma anche (nel caso delle) politiche c’erano donne che erano in stato interessante e le portavano lì e che cosa facevano.

Intanto le obbligavano a lavorare, a fare come facevano tutte le altre, senza nessuna distinzione senza nessun riguardo per quello, poi la obbligavano a partorire, all’inizio non c’eravamo ancora, però questo ce l’hanno raccontato quelle che erano già lì all’inizio facevano partorire la donna, poi la mamma stessa doveva uccidere suo figlio o annegarlo in un secchio, prendere la testolina e metterla nel secchio e farlo annegare o in un altro modo strangolarlo, ma dovevano. Pare che qualcuna si sia rifiutata di fare quello e hanno ucciso prima la madre e poi il bambino.

A Ravensbrück c’erano i bambini; io grazie a quella professoressa greca che come ho detto era una bravissima persona, una volta perché noi a Ravensbrück ci facevano lavorare, ci chiamavano mangiapane a tradimento perché non si faceva un lavoro produttivo, come siamo andati a fare dopo ma finché siamo stati lì al primo di luglio circa al venti di agosto, non è che ci hanno lasciate lì in panciolle a fare niente, ci facevano lavorare, ci facevano pulire i gabinetti, ci facevano pulire la piazza d’Appello, ci facevano pulire le baracche, ci facevano andare a prendere i bidoni della zuppa, quello era l’unico lavoro che facevamo volentieri, perché quando arrivavamo avevamo la speranza di prendere quel mestolo di brodaglia; non sempre ce lo davano, perché dicevano che noi eravamo mangiapane a tradimento, non ci guadagnavamo niente e allora a volte ce lo facevano anche saltare.

Allora un giorno siccome io mi lamentavo sempre, ero quella che borbottavo sempre, non accettavo il sistema che avevano era una cosa talmente brutale, talmente non era facile accettarlo anche se tu eri lì eri obbligata, non avevi nessuna (TOSSE)

E allora un giorno eravamo col carretto e andavamo a prendere i bidoni della zuppa, avevamo sopra (TOSSE) allora un giorno questa professoressa greca che mi vedeva sempre, un giorno dice: la prima volta che ci mandano assieme a prendere i bidoni della zuppa, ti faccio vedere una cosa che tu quando l’hai vista non protesterai più. E io dicevo: mah, chissà cosa mi fa vedere. Un giorno o due dopo ci chiamano e ci mandano col carretto, avevamo quattro bidoni vuoti sopra, due dietro spingevano il carretto e due davanti tiravano e si faceva proprio la strada lì dove, a un certo punto lei ha guardato che non ci fosse pericolo, poi mi fa: vai a quella finestra e guarda dentro cosa c’è. Allora io vado a quella finestra e guardo: c’era una camera grossa il doppio di questa, dentro c’erano tutti bambini, ma piccoli, bambini che avranno avuto dai tre ai cinque anni, ma forse cinque non li avevano, nudi come erano venuti al mondo, quella camera era disadorna non c’era un tavolo, niente, questi bambini erano messi in quella camera da soli. Non è che ho potuto stare tanto a guardare questi bambini però c’era una bambina che piangeva, si era avvicinato un bambino, ho capito che era un bambino perché aveva il suo pistolino, caro va! si è avvicinato, le ha fatto una carezza a questa bambina, le ha detto qualcosa, ma io ero fuori non ho sentito quello che ha detto, si può immaginare le avrà detto di non piangere, adesso arriva la mamma, una cosa del genere, ma vedere quel bambino che poi avrà avuto un anno di più di quella che piangeva non di più, vederlo con quella carezza con quella affettuosità, ecco ho detto, ha ragione; se i bambini così piccoli si comportano in quel modo non è giusto che io debba sempre (lamentarmi), e da quel giorno ho cercato di evitare, ho fatto fatica, ma ho cercato di evitare proprio questo modo di protesta, questo modo di ribellione che non riuscivo ad accettare quello che loro facevano.

Quando non avevano niente da farti fare, fuori, tutti fuori. Eri fuori, cinque minuti dopo tutti dentro, tanto per tenerti, non volevano a nessun costo lasciarti tranquillo. Quella è stata.

Ci saranno stati, io non li ho contati, il tempo era limitato anche dal fatto che bisognava fare attenzione che non arrivasse nessuno, saranno stati una quarantina, non so quanti erano, soli abbandonati, quelli erano i bambini di Ravensbrück, poi ci sono quelli che han dovuto farli morire, che li hanno fatti morire. Un’altra volta sempre con questa professoressa greca, quando si andava a prendere questi bidoni – la cucina era dietro alla piazza dell’appello, e si doveva fare il giro, passare di fianco alla piazza e andare dietro dove c’era la cucina. Arriviamo quasi all’altezza della piazza Appell, lei sempre più esperta di noi perché era più tempo che era lì, poi sapeva parlare il tedesco; ha visto che la piazza Appell era piena di gente, e allora ha detto: rallentiamo il passo, non fermiamoci, perché non possiamo fermarci, ma andiamo piano e vediamo cosa c’è là sopra; la piazza era piena era piena di donne, stavano facendo la selezione, gli uomini da una parte le donne dall’altra. E lì abbiamo visto una donna che aveva un bambino in braccio piccolo piccolissimo, e poi abbiamo poi saputo dopo il comandante tedesco ha dato ordine alla Hauserin di prelevare quel bambino, la mamma naturalmente lo teneva stretto e non voleva darglielo, allora è andato, in quel mentre noi arriviamo proprio all’altezza di dove erano loro; il comandante tedesco va, strappa via il bambino dalle mani della mamma lo butta in aria: a fianco c’era uno con la pistola e ha fatto il tiro a segno. Il bambino è caduto, ed è caduta anche la mamma, ma questo noi l’abbiamo saputo dopo, noi abbiamo solo visto il bambino che cadeva, poi siamo andati via perché lei ha detto: andiamo via perché qui se ci vedono andare piano! Allora abbiamo pedalato un pochino e siamo andate via. Questa greca, questa professoressa greca aveva stretto amicizia con una tedesca prigioniera, perché le prime ad andare nel campo sono state le tedesche, perché non hanno accettato la politica di Hitler; allora i campi non erano di sterminio, ma erano campi di rieducazione, speravano di rieducarle, di riportarle e quando siamo arrivate noi al mese di luglio del ’44 c’erano delle donne tedesche che erano quattro o cinque anni che erano lì. Allora questa greca ha stretto amicizia con una di queste tedesche che essendo le prime ad andare in campo, essendo tedesche, sapendo la lingua, perché era la sua lingua, le hanno messe nei punti chiave a segnare tutti i trasporti che arrivavano, a segnare chi moriva e chi non moriva, insomma tutti quei lavori, loro li chiamavano lavori di fiducia; tramite questa tedesca la professoressa greca era venuta a sapere che il bambino è morto e quando è caduto l’han colpito è morto, la mamma è caduta anche lei è morta sul colpo, come il bambino è venuto giù è caduta anche la madre ed è morta anche lei, l’ha saputo appunto da questa tedesca, ecco perché abbiamo saputo che, il bambino l’abbiamo visto, con i nostri occhi, ma la mamma no, perché poi abbiamo pedalato perché abbiamo detto se, cioè lei ha detto se ci prendono ad andare piano pensano che noi guardiamo lì e ci portiamo le conseguenze, andiamo in fretta, ormai quello che abbiamo visto abbiamo visto.

D: C’erano anche degli uomini?

R: Per gli uomini c’era un campo dietro, io questo l’ho saputo dopo anni che ero a casa, questo non lo sapevo; c’era un campo dietro di uomini, ma da noi non venivano gli uomini; da noi gli unici uomini che vedevamo erano gli ufficiali tedeschi, poi c’erano i Meister, quelli che quando si lavorava in fabbrica avrebbero dovuto insegnarti a lavorare ecc., quelli erano civili; altri noi uomini non ne abbiamo mai visti.

D: Anna, tu quanto tempo hai trascorso nel Lager?

R: Nel Lager ho trascorso dunque dal primo luglio ’44 al 27 aprile del ’45, perciò tredici mesi, più i mesi di prigionia sempre sotto i tedeschi, totale circa 15 mesi.

D: Anna, come è possibile spiegare con parole la vita quotidiana dei lager, cosa era un Lager?

R: Non è facile spiegarlo perché i ricordi sono talmente tanti, talmente tanti che uno non riuscirà mai e poi mai a raccontarli tutti, e questo ti rende già difficoltà, perché salti, da una cosa salti all’altra, perché ti sembra che sia più importante quello di questo, mentre invece se uno potesse fare una didascalia, le cose sono tutte importanti uguali, perché erano tutte brutalità che questi mostri facevano su persone umane. Qualsiasi cosa, anche un pizzicotto era già una brutalità che vale la pena di ricordare. Ma non è facile dire tutto.

D: La fame, le malattie.

R: Ma noi ti dirò.. Almeno io l’unica cosa che ho avuto (è stata) la pleurite secca bilaterale, però non lo sapevo, la pleurite non è che ti da una febbre alta; tu non potevi andare all’infermeria se non avevi quaranta di febbre e tutti si cercava di non andare all’infermeria, chi andava era perché proprio era obbligato altrimenti si cercava di non andare. Io ho fatto questa pleurite ma non lo sapevo perché mi sentivo stanca, mi sentivo fiacca, mi sentivo molle, ma si dava la colpa a tutto meno che a quello, si dava la colpa al mangiare niente e male, lavorare 12 ore, ma lavorare sodo, e quello era un logorio giorno dopo giorno della tua vita, del tuo corpo, e davi la colpa a tutto questo; io ho saputo poi che ho fatto la pleurite secca bilaterale quando sono tornata a casa. Avere qualche cosa per essere aiutata ho dovuto fare un mucchio di visite e la prima cosa mi hanno fatto i raggi: ma tu hai fatto la pleurite secca bilaterale! Ma che ne so io; ma non sei mai andata all’ospedale?; no, mai! Perché? Perché uno attribuiva tutte queste cose al modo in cui ti facevano vivere, ma non andavo a pensare. Invece chi gli venivano il tifo, chi aveva il tifo petecchiale, ad esempio c’era una francese, ecco questa era una cosa, c’era una francese aveva la mia età, Audette, si chiamava, e all’inizio era una accanita contro di noi “Mussolinien maccaronian”, non ci accapigliavamo perché ci avevano tagliato i capelli, altrimenti tutti i giorni ci saremmo accapigliate. Poi come ho detto sono riusciti a far capire che se noi eravamo lì non eravamo con Mussolini e siamo diventate amiche. Lei mi raccontava quello che faceva quando era a casa, che amava le pietre, andava in giro cercava quelle pietruzze belle colorate. Quando andiamo a casa, era di Parigi, quando andiamo a casa, se andiamo, vieni a trovarmi, ti faccio vedere, mia mamma non mi butta niente, mia mamma lascerà la mia camera come è adesso e si parlava di questo. A questa viene la dissenteria, non riusciva a farla cessare e dalla dissenteria le è venuta la tubercolosi intestinale. E le sue compagne, perché l’ho detto all’inizio, le francesi si aiutavano in un modo stupendo, queste compagne la portavano di peso all’appello, poi di peso la portavano sul posto di lavoro, le facevano loro il lavoro bastava solo che lei restasse in piedi quando c’era pericolo, restasse in piedi; loro magari una era lì che le faceva il lavoro faceva finta che era andata a prendere un martello o qualche cosa per fare il suo lavoro, le facevano il lavoro, le facevano tutto. Finché hanno potuto l’hanno portata lì, ma un giorno le gambe non la tenevano più in piedi, e sono state costrette a portarla all’infermeria. Caso strano, caso strano, quando c’era qualcuna che moriva, o c’era qualcuna che stava male che non guariva più tipo questa, allora arrivava quando c’era un numero tot di persone da prendere, sia morte che vive, arrivava – noi lo chiamavamo il carro funebre – era un camion coperto da un tendone nero, arriva lì: caricava le morte, c’era uno sgabuzzino, era una camera come fosse quella con le piastrelle bianche, e allora quando moriva una la portavano lì, quando c’erano circa dieci, meno di dieci no, quando c’erano circa dieci persone da prendere, sia morte che vive, vive parlo di quelle ammalate che non c’era più niente da fare, perché finché riuscivano a sfruttarti ti sfruttavano, allora arrivavano caricavano, tutte morte vive, mettevano tutto su quel camion, e le portavano via, caso strano questa non l’hanno mai portata via, non si sa il perché. Dentro l’infermeria c’era una dottoressa francese, che era una prigioniera anche lei e l’hanno presa perché portava avanti un ospedale da campo dei maquis, dei partigiani francesi, e l’hanno arrestata, l’hanno portata a Ravensbrück, poi siccome quando arrivavi ti chiedevano cosa facevi, da civile, a lei hanno chiesto e ha detto: dottoressa. Si vede che avevano bisogno e l’hanno mandata all’infermeria, lì dove eravamo noi. Bravissima era. Io tramite il suo aiuto andavo a trovare questa compagna francese, andavo sovente a trovarla, anche perché avevo il permesso di andare all’infermeria a medicarmi, non aveva niente da darmi, mi dava un bicchiere d’acqua e basta per sciacquarmi la bocca che mi avevano tolto i denti e avevo tutta la bocca, e mi avevano dato il permesso a fine lavoro, vuoi quando si faceva la notte che quando si faceva il giorno potevo andare all’infermeria a sciacquarmi la bocca, andavo lì e mi dava quel bicchiere d’acqua. Sembra una stupidaggine, mi dava quel bicchiere d’acqua mi sciacquavo la bocca e mi passava il male, avevo tutte le gengive rovinate, perché poi quello che mi ha tolto i denti non era un dentista; avevo le gengive brutte, io mi sciacquavo con quel bicchiere d’acqua mi passava il male, poi tornava, perché il male c’era, però mi passava il male. Ora vuoi perché l’acqua era fresca, vuoi anche perché era il modo in cui ti veniva dato quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza con affetto, cosa che noi là non conoscevamo più da nessuna parte, perché da nessuna parte tu trovavi il rispetto, da nessuna parte tu trovavi, niente, trovavi soltanto brutture, soltanto persone che facevano di tutto per poterti picchiare, tutto quello che noi si trovava in giro, ed arrivare lì e avere una persona che ti dà quel bicchiere d’acqua con garbo con gentilezza, per me era anche quello il motivo che mi sciacquavo la bocca e mi passava il male.

D: Anna, quando eri lì nel sottocampo nella fabbrica, fino a quando siete rimasti lì?

R: Dunque la fabbrica ha funzionato fino verso i primi di febbraio (1945), poi cominciava a mancare i pezzi; il materiale arrivava ma non arrivava tutto, e allora ai primi di febbraio la fabbrica praticamente ha chiuso, non si lavorava più in fabbrica.

Allora ci portavano a tagliare le piante, c’è ancora adesso, una grossa pineta tra dove c’era la fabbrica e il campo e il campo d’aviazione. Allora ci portavano lì, ci facevano tagliare le piante, loro dicevano, per me era una balla quella, che si tagliava le piante per fare la strada, che così loro gli apparecchi che c’erano sul campo, gli apparecchi che venivano finiti in questa fabbrica, poi li collaudavano su quel campo di aviazione; allora dice che gli apparecchi che venivano finiti venivano collaudati, potevano portarli via dal campo per evitare il bombardamento del campo d’aviazione. Ma se noi tagliavamo le piante la strada che si faceva per portare questi aerei era allo scoperto lo stesso. Quello era un modo come un altro per farti lavorare, per non lasciarti in ozio, secondo me poi posso anche sbagliarmi perché magari era..

D: E questo lavoro è continuato fino a quando?

R: Noi abbiamo fatto quello e poi ci hanno portato a fare le trincee, per i militari tedeschi che indietreggiavano, trincee che non servivano a niente, perché quando avevi fatto mezzo metro di profondità, la terra dai lati franava, perciò non servivano a niente quelle trincee. Mi ricordo che era Pasqua, stavamo andando giusto in uno di quei campi dove ci facevano fare le trincee, c’erano delle baracche di legno, e abbiamo visto che dalle finestre, avevano le finestre aperte, perché eravamo già a Pasqua, abbiamo visto dalle finestre aperte, c’erano dei militari dentro. Questi militari hanno sentito, noi abbiamo cercato di parlare italiano per farci sentire, loro hanno capito che c’erano degli italiani, e allora ci hanno gridato: va a pochi! Allora noi quello ci rallegrava, perché se ci dicono loro che va a pochi vuol dire che la guerra finirà presto, e allora anche quella era una medicina per tirarti su il morale perché ti facevano girare come delle ciotole. Da quando non hanno più potuto lavorare in fabbrica perché non arrivava più il materiale ci faceva girare come delle stupide e ci facevano fare dei lavori inutili, inutili erano quei lavori, pur di non lasciarci lì a non far niente, finché un giorno hanno deciso di riportarci a Ravensbrück per la soluzione finale, come loro avevano stabilito. Noi abbiamo viaggiato per tre giorni e tre notti ma non avevamo mai viaggiato, non sto a dire quanti chilometri abbiamo fatto, ma pochissimi, perché ormai c’erano i bombardamenti su Berlino. Era una cosa! Gli aerei erano così, facevano il setaccio proprio. E ogni volta che, specialmente di giorno, ci facevano buttare per terra nei fossi ecc. mi ricordo che siamo partiti di lì erano, dicevano eravamo in 550, quando siamo arrivati che i russi ci hanno liberati eravamo ancora 250, le altre le abbiamo perse per la strada in pochissimi chilometri perché era più quello che stavamo ferme buttate giù nei fossi in prati che quello che si camminava, solo che tante buttarsi giù si buttavano, poi non riuscivano più ad alzarsi e quando loro ordinavano di alzarsi se tu non ti alzavi più che in fretta ti sparavano, ecco perché abbiamo perso tutte quelle compagne.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: Eh, eh, devo dire una cosa, la ricordo strana perché ci hanno chiusi in un locale e noi avevamo anche delle russe con noi, e ci hanno liberato i russi, siamo state liberate dai russi noi, e in quel locale non sapevamo, le russe però che parlavano il russo e sentivano fuori a parlare, hanno capito che c’erano i russi fuori e allora si sono messe a gridare in russo, chiamare ecc. Han fatto la scala, perché c’erano tutte finestre però che si aprivano così, han fatto la scala sono andati da quella finestra e poi hanno chiamato questi militari russi che erano fuori dicendo: siamo chiuse qui dentro! Loro sono venuti per entrare ma non potevano perché c’erano quelle porte che sembravano porte blindate di alluminio ma spesse così, tanto è vero che hanno gridato di toglierci davanti alla porta di andare in un angolo e loro hanno sparato contro la serratura e hanno aperto questa porta, poi ci hanno prese e ci hanno portato in un magazzino, ci hanno detto di stare lì e di non muoverci, perché c’era ancora pericolo, c’erano i cecchini che sparavano e c’era pericolo. E noi siamo rimaste lì, però lì è successo un fatto gravissimo. E’ successo un fatto gravissimo, perché là c’era la camera dove ci han messi loro, poi in un angolo c’era una porta, questa porta era chiusa; per noi ormai vedere le porte chiuse era un dilemma, e siamo state talmente tanto chiuse in mezzo insomma quella porta doveva venire aperta, perché non si poteva lasciare quella porta chiusa, e allora le russe che erano più robuste, perché le russe avevano un temperamento diverso dal nostro erano più robuste resistevano di più, anche loro si aiutavano molto erano tante, si aiutavano molto, ma avevano un temperamento molto più forte del nostro, noi eravamo… vicino a loro, a dirla proprio, allora con le spallate hanno aperto quella porta, dietro quella porta cosa c’era? Un magazzino di patate. Si sono buttate tutte su quelle patate, patate sporche con la terra vicino, era tanta la fame che uno non la vedeva la terra e tante lì sono morte proprio per aver mangiato quelle patate. E ci ho provato anche io, c’era la Irma quella di Biella, mi diceva (fermati)…. E’ una parola, fai presto a dirlo ma quando uno ha fame, e sono andato ho provato anche io, per fortuna da una disgrazia è stata una fortuna: a me mancavano i denti, avevo solo questi pochi davanti, però avevo tutto male alle gengive ancora, anche se era dal mese di gennaio che mi avevano fatto quello, e allora non ho potuto mangiare quelle patate, ho tentato ma non riuscivo. Allora mi ha preso anche la rabbia perché vedevo le altre che mangiavano volente o nolente, terra o no, si tolgono la fame ma io non potevo; allora con un po’ di rabbia, allora poi sono arrivati i russi, ci hanno preso, ci hanno portate in una casa, di lì i tedeschi erano scappati tutti, erano scappati tutti i tedeschi.

D: Ecco questo quando è avvenuto e dove se te lo ricordi.

R: Il nome del paese non lo ricordo, non lo ricordo affatto.

D: E quando?

R: Il 28 di aprile (1945) e questo sarà successo il 29 o il 30 di aprile, quando i russi ci hanno preso e ci hanno portato lì in questa casa disabitata abbandonata dai tedeschi perché avevano paura dei russi, e allora sono scappati tutti e hanno abbandonato le case, e i russi quando ci hanno liberati non avevano niente da darci, perché loro hanno combattuto da Stalingrado fin a Berlino, ma han fatto veramente la guerra, non erano come gli americani, gli americani sono arrivati in Germania con gli aerei, con tutto ogni ben di Dio dietro, giacché gli americani avevano tutto da darti, ma i russi non avevano niente, erano laceri, non dico come noi, però loro l’acqua l’hanno sempre trovata e si sono sempre lavati, invece noi neanche quello. Però ci prendevano, ci portavano nelle case, se gli armadi erano chiusi li spaccavano con i fucili, prendetevi la roba, cambiatevi, toglietevi ‘sta puzzolenza da dosso e tutto finiva lì.

Allora ci hanno sistemate in questa casa, e da quel momento siamo state un po’ sotto controllo, c’era un ufficiale russo anziano, te lo ricordi? Una bravissima persona, ci aveva fatto un documento che era intestato a tutte e due, è andato a finire nelle mani di un fiorentino che si interessava di un gruppo di italiani e questo documento è rimasto, io l’ho cercato questo fiorentino, non sono più riuscita a trovarlo e così questo documento è sparito, era un documento che era, allora non si pensava …

Allora lì i primi due o tre giorni quasi quasi non credevi di essere libero, io mi ricordo che avevo freddo e sono andata a sedermi ai piedi di una pianta al sole, e poi ho chiuso gli occhi, questo sole mi scaldava le ossa. Dicevo: Ah sì sto bene, questa volta sento proprio il caldo. A un certo punto sento parlare straniero, c’era un russo che passava, ha visto che io ero lì appoggiata la testa contro la pianta con gli occhi chiusi, non sapeva se ero viva o se ero morta, allora è venuto lì per vedere se ero viva o se ero morta, quando l’ho sentito mi sono … Subito ho detto: Ah, ma è stato un sogno, sono di nuovo qui. Mi ci sono voluti due o tre giorni, poi poco per volta ci siamo rese conto che effettivamente eravamo libere e dovevamo poi pensare a ritornare, a ritornare a casa, e l’avevamo fatto. Eravamo arrivati fin lì, speravamo anche se avevamo tutta la Germania da attraversare, perché noi eravamo a 80 chilometri dal Mar Baltico, oltre 80 chilometri sopra Berlino, avevamo tutta la Germania da attraversare. C’è voluto del tempo ma ce l’abbiamo fatta.

D: Come è stato il ritorno Anna?

R: Il ritorno è stato bello, perché ho trovato mia mamma viva, pensavo di non trovarla più viva, questo è stato bello, però ho saputo poi di mio fratello che l’avevano preso e l’hanno fucilato e poi…

D: Partendo da Berlino…

R: Proprio da Berlino non siamo più passate, però a distanza abbiamo visto Berlino era distrutta, ma non solo Berlino Dresda, noi che l’avevamo visto prima e l’abbiamo vista dopo era una cosa spaventosa, era rasa al suolo, Berlino era rasa al suolo. Quegli aerei che facevano il setaccio che andavano e venivano …

D: Con cosa sei ritornata, con che cosa siete ritornate.

R: Ah, ah abbiamo fatta più strada a piedi che con tutti i mezzi che abbiamo trovato, ma i mezzi più grandi erano le nostre gambe.

D: E siete rientrati in Italia da dove?

R: Da Bolzano. Poi ci hanno detto: Quando entrate in Italia vi danno un pacco, noi tute contente, oh meno male, siamo arrivati a Bolzano una domenica mattina, piovigginava, c’era la nebbia, ma faceva un freddo! Eravamo ad agosto, faceva un freddo cane, e il pacco sa cos’era? Era tre rosette di pane, quelle rosette dure così, e cinque mele, quelle mele che cadono da sole dalle piante. Poi a noi donne ci hanno dato un mestolo di latte caldo e agli uomini cinque sigarette. Lei assaggia il latte prima di me e poi mi fa. “E’ andata a male, l’è acido” l’abbiamo bevuto lo stesso, eh?

D: Ma questo dove?

R: A Bolzano alla stazione, sotto la tettoia della stazione.

D: E chi c’era a distribuire lì?

R: C’erano degli uomini, delle donne, però non erano crocerossine, erano gente del posto, tre rosette grosse così dure come non so cosa, e cinque mele di quelle lì tarate, perché poi dentro erano guaste, quello è stato il pacco che ci hanno dato. Poi ci hanno portato a Pescantina, lei è stata fortunata, perché ha trovato subito un treno che veniva a Torino e allora con degli internati militari ha preso il treno con loro ed è arrivata a Torino. Io invece purtroppo mi sono fermata più di una settimana lì a Pescantina, perché poi mi ero gonfiata tutta, non ci vedevo più, ero gonfiata, allora non mi hanno fatto partire. A Pescantina dalla provincia di Asti venivano su coi camion a caricarci e lì ero in quelle condizioni, volevano ricoverarmi all’ospedale e io ho detto: vado a casa a piedi ma all’ospedale non ci vado. Fossi andata in ospedale forse avrei preso la pensione, invece io volevo andare a casa e allora ho sentito che il dottore ha detto alla suora: facciamo queste iniezioni poi se non le passa la portiamo di brutto all’ospedale. Eh beh dobbiamo fare i conti assieme, gli ho detto. Non vedevo ma la lingua parlava. Invece mi ha fatto quelle iniezioni e dopo tre o quattro iniezioni ho cominciato a vedere il buio che si diradava, ho cominciato a vedere delle ombre che passavano: Ma io vedo già le ombre” “Eh beh allora andiamo bene, continuiamo le iniezioni”. Finita la scatola di iniezioni io non è che proprio ci vedessi chiaro, ma comunque vedevo, vedevo cosa avevo davanti a me cosa avevo nel piatto ecc,ecc,

D: Ma Pescantina dentro l’ospedale?

R: No, era un asilo nido quello dove raggruppavano tutti gli internati che arrivavano dalla Germania passavano di lì e poi ognuno andava per la sua direzione; quello che andava nella bassa Italia prendeva il treno per la bassa Italia, loro che venivano a Torino prendevano il treno che andava a Torino ed io che andavo ad Asti c’erano i camion della Curia di Asti che venivano a caricarci che ci portavano ad Asti, solo che io ho dovuto stare una settimana.

D: Allora una settimana dopo finite le iniezioni …

R: Ho cominciato a vederci e allora sono andata a casa.

D: Anna tu parlavi dei denti

R: I denti è stata una storia quella! Il mattino facevamo la notte, siamo alla piazza Appell: chiamano il mio numero e io che non sono mai riuscita a imparare il mio numero di Ravensbrück a memoria, come il solito, quella greca, quella professoressa, mi tocca: chiamano te! E allora esco fuori, quando ti chiamavano dovevi uscire fuori, in un angolo c’era un angolo apposta, eravamo in cinque. Ci hanno portate davanti all’infermeria, ci hanno fatto entrare una per una, io quando sono entrata mi hanno guardata in bocca ma io i denti li avevo tutti sani, non avevo male in bocca male ai denti. Loro dicono krank e lì c’era la signora Berna, non so se te la ricordi, quella che faceva da interprete che aveva la fascia rossa, e loro dicono “krank”, voleva dire che eri ammalata in bocca; io dico all’interprete: io non ho male in bocca, i denti sono sani cosa dicono che sono ammalata? E lei si vede che sapeva e mi ha detto: bisogna aver tanta pazienza! Parlava bene l’italiano, era di Lubiana la signora Berna, bisognava avere tanta pazienza.

Usciamo fuori, quando arrivano anche le altre quattro ci caricano su un camioncino e partiamo.

Ci hanno portato a Sachsenhausen. Siamo arrivate davanti a una casetta, una casetta fatta di pietra non di legno, che c’è ancora adesso con scritto sopra “Patologia” e dentro ci sono ancora tutti i ferri nelle vetrine come allora, entro dentro c’era un signore grande e grosso che ungeva da dentista ma non sapeva nemmeno come tenere le pinze in mano, si vede che voleva imparare. Loro erano convinti di vincere la guerra, voleva imparare per aprire uno studio dentistico alla fine della guerra, non so, e allora mi fissa le braccia su questi braccioli delle poltrone, mi fissa la testa, mi fa mettere i piedi dietro la traversa della sedia perché non gli dia calci, e poi va alla vetrina: vedo che viene avanti con le pinze per togliere i denti e incomincia, e incomincia dai molari, resto dietro, di sopra non ne ho più. Solo che è quello che mi ha rovinato tutte le gengive; fatto sta che da quel giorno dal mattino verso le dieci, dieci e mezza, fino alle quattro e mezza del pomeriggio ne ha tolti sette, poi ha smesso mi ha dato un pezzo di carta per pulirmi la faccia, e poi fuori c’era di nuovo il camioncino che ci aveva portate, ma non c’era nessuno, c’ero solo io, le altre non sono più tornate. Ero tutta frastornata: togliere sette denti senza iniezione e senza niente, non so se mi spiego; poi ero tutta sporca qui davanti per la bava, tutto quello che veniva fuori dalla bocca, non è che mi hanno messo qualcosa qui davanti.

Fatto sta che arrivo fuori lì c’era quello lì del camioncino e mi fa segno di salire su quel camioncino, ma io non ero capace a salire, non ero capace perché non gliela facevo, ero distrutta, allora lui mi ha presa, ora pesavo poco mi ha presa così mi ha buttata sul camion, come si fa a un sacco di patate, il camioncino è partito e mi ha riportato.

Vado lì, loro si stavano già alzando perché siamo arrivati lì erano le cinque cinque e un quarto, vado a fare un’altra notte, era già la seconda notte che facevo senza dormire, vado a fare un’altra notte, il mattino dopo mi chiamano di nuovo, questa volta mi chiamano da sola, mi caricano un’altra volta su quel camioncino e mi riportano a Sachsenhausen. Allora mi è venuto in mente che il giorno prima quel famoso dentista, nel mandarmi fuori, mi aveva detto “Auf Wiedersehen” che vuol dire arrivederci, e io subito non ci avevo fatto caso, mi è venuto in mente il giorno dopo quando mi hanno riportata lì. Ecco perché mi ha detto “Auf Wiedersehen”! Lui sapeva che io il giorno dopo dovevo ritornare. Allora sono tornata, la medesima cosa: mi ha fermato le braccia, la testa e tutto mi ha tolto altri otto denti, in tutto quindici denti, infatti io i molari non li ho più.

Nel ’79 quando sono andata per la prima volta in Germania con mio marito, abbiamo visitato tanti campi, tra i quali anche Sachsenhausen, adesso no, c’è solo l’emblema, ma allora c’era un tavolo che era più lungo di questo, pieno di denti, perciò non è che, ce n’erano d’oro, certo se li prendevano subito, ma i denti non d’oro non gli servivano a niente, perché erano tutti lì, ce ne erano una montagna, tanto che io scherzando ho detto a mio marito, guarda bene perché lì dentro ci sono anche i miei! Perciò toglievano questi denti ma non si sa il perché, lo sanno solo loro; forse per vedere quanto una persona resiste, per vedere, non lo so, non lo so! I denti erano tutti lì, adesso c’è ancora nel museo poca roba, non c’è più tutta quella quantità di denti come c’era allora. Ma nel ’79 c’era un tavolo pieno, l’abbiamo visto noi, perciò perché l’hanno fatto non l’ho mai saputo, e non lo saprò mai.

D: E’ difficile raccontare il Lager.

R: E’ difficile perché non si racconta bene, si salta da una parte e dall’altra perché comunque, io ho fatto del mio meglio…

D: No, sto dicendo tu sei brava, ma spiegare.

R: Rivivi quello che hai passato, rivivi.

D: La vita di un giorno nel Lager come si può sintetizzare, come si può…

R: Non è facile dirlo.

D: Perché non sai quale giorno prendere.

R: Ecco, bravo. Perché tutti i giorni erano brutti poi c’era quello più brutto ancora, c’era quello che magari avevi un momento, hai avuto un momento di solidarietà, hai avuto un momento che ti ha dato un po’ di forza e non sai quale prendere.

D: Parlavi delle francesi, con le francesi cantavate?

R: Loro cantavano, fra di loro facevano tante cose. Poi c’è un fatto: loro ricevevano i pacchi, cosa che noi non avevamo mai ricevuto, loro scrivevano, noi non avevamo mai scritto.

D: Tu non hai mai scritto?

R: Mai, mai, mai.

D: Loro invece sì.

R: Loro ricevevano dei pacchi, scrivevano e diciamo che dai pacchi che ricevevano qualcosa saltava sempre fuori. Ho mangiato tanto di quell’aglio, ricevevano delle teste di aglio così, e allora … Quella compagna che poi è morta, l’ultima volta che sono andata a trovarla grazie a questa dottoressa che io andavo con la scusa dei denti, poi andavo a trovare lei, lei stava sulla porta, se vedeva che c’era pericolo, allora eravamo già d’accordo, lei diceva: Achtung, e io venivo lì.

C’era già il mio bicchiere di acqua, prendevo il mio bicchiere, mi sciacquavo i denti, avevo il permesso di fare quello … Sono andata a trovarla lei mi ha detto con un fil di voce, perché non riusciva nemmeno più a parlare mi ha detto: Io sono alla fine, la mia liberazione arriva prima della tua.

Ecco, questa è una cosa molto importante, queste persone sapevano di morire…..

Desandrè Ida

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Ida Desandrè, sono nata ad Aosta il 10 ottobre 1922.

Sono stata arrestata nel mese di luglio del 1944 dai fascisti, e in seguito deportata in Germania. Prima di essere deportata sono stata rinchiusa nelle caserme militari di Aosta, poi nella prigione di Aosta. In seguito sono stata a Torino nelle carceri nuove, di passaggio al carcere di San Vittore a Milano, e poi sono stata trasferita a Bolzano. A Bolzano sono rimasta circa una ventina di giorni.

D: Ida, dove sei stata portata a Bolzano?

R: Nel campo di concentramento di Bolzano, e in seguito da Bolzano sono partita per la Germania. Il primo posto in cui sono stata è il campo di Ravensbrück. Nel campo di Ravensbrück ho fatto la quarantena; in seguito sono stata trasferita in un campo di lavoro, sempre alle dipendenze del campo di Ravensbrück. Questo campo era situato nella località di Salzgitter e vi sono rimasta sino verso la metà di aprile (1945): dalla metà di aprile sono stata trasferita un’altra volta e sono finita nel campo di Bergen Belsen.

D: Questo è stato il tuo percorso di deportazioni; iniziamo col campo di Bolzano.  Quando sei arrivata nel campo di Bolzano dove ti hanno messo, te lo ricordi? 

R: Sì, ricordo perfettamente l’ingresso nel campo di Bolzano: ricordo un grande capannone

modo da una rete metallica. Ricordo perfettamente dove erano situate le cucine, le toilettes.

La mia permanenza a Bolzano non è stata troppo malvagia perché ci portavano a lavorare dentro a caserme, dove c’erano diverse mansioni, non per tutti uguali. Con il mio gruppo attaccavamo bottoni ai telo-tenda dei militari. Poi alla sera si rientrava nel campo.

D: Con te c’erano molte altre donne?

R: Sì tante, tante donne. Con il gruppo con cui sono partita dalle carceri di Torino e anche da Milano siamo quasi sempre rimaste unite. Erano donne che provenivano da diverse località, c’era anche una compagna di deportazione della Valle d’Aosta, e operaie delle fabbriche di Torino, donne di Milano, di Cremona, di Imperia; insomma, da parecchie zone del Piemonte, della Liguria …

D: Poi da Bolzano sei partita; tu ricordi in maniera precisa il giorno della tua partenza.

R: Sì, ricordo in modo perfetto il giorno della mia partenza perché era il 10 di ottobre (1944), il giorno del mio compleanno.

D: Ti ricordi da dove siete partite? 

R: Siamo partite appunto dal campo, adesso non so ricordarmi con precisione, se siamo state caricate su dei camion oppure se abbiamo fatto la strada a piedi verso il binario dal quale partivano tutti i treni che ci portavano in Germania. Questo binario esiste tuttora, sono tornata tempo fa a rivederlo.

D: In quanti eravate più o meno sul tuo vagone?

R: Il mio vagone poteva al massimo contenere 40 persone: eravamo invece più di 100.

D: Tutte donne?

R: Tutte donne, anche anziane, chi più chi meno.

D: Avevate dei vettovagliamenti, del cibo?

R: Aveva dei vettovagliamenti chi aveva avuto la possibilità di ricevere ancora qualcosa nel campo di Bolzano. Io per esempio sono stata tra una di quelle che aveva anche ricevuto dei soldi dai familiari e dagli amici che mi avevano anche fatto arrivare dei pacchi. Siamo partite per la Germania con un po’ di mele, un po’ di zucchero, qualche tavoletta di cioccolato, qualche pezzo di pane, non tanta roba.

D: Il trasporto ha fatto qualche fermata?

R: Il trasporto si è fermato alla stazione di Innsbruck verso sera, al calar del sole: ricordo perfettamente i raggi di sole che sparivano dietro la montagna. A Innsbruck ci hanno fatto scendere più che altro per mandarci alla toilette, poi immediatamente ci hanno fatto risalire sul treno.

D: Il treno si è più fermato?

R: Il treno non si è più fermato, almeno che io ricordi, e sono passati tanti anni. Dopo 5 giorni e 5 notti di viaggio siamo arrivate a Ravensbrück.

D: Come avete provveduto ai vostri bisogni fisiologici, se il treno non si è più fermato?

R: Questa è stata veramente una cosa molto penosa, non soltanto per me, ma certamente anche per

tutte quelle che erano sul vagone. Abbiamo dovuto in qualche modo risolvere questo problema facendo un buco tra le tavole del vagone. Queste cose si svolgevano così, con grande umiliazione … trovarsi così di fronte anche a persone sconosciute. Questa è stata, posso dire, la prima grande umiliazione che abbiamo subìto.

D: Poi siete arrivate a Ravensbrück. Cosa è successo quando hanno aperto il vostro vagone?

R: Arrivammo a Ravensbrück su un binario morto, cioè il binario arrivava sino lì. Ci hanno fatte scendere e ci hanno incolonnate 5 per 5. Ci hanno contate ed era un grosso problema per le guardie che ci accompagnavano questo contare: non doveva mai mancare nessuno in rapporto alle cifre che loro avevano. Purtroppo anche durante il viaggio qualcuna è morta.

Ricordo in modo particolare la presenza del lago (nel campo di Ravensbrück); non so di averlo visto con precisione, comunque sentivo la presenza del lago e soprattutto ho il ricordo dolcissimo del suono di una campana. Quando si arriva in questi luoghi anche soltanto il suono della campana ti dà la sensazione di non essere in un posto sperduto, cioè ti fa sperare che ci sia la presenza di qualcuno vicino a te.

D: Come ricordi l’arrivo al campo?

R: Dopo che ci hanno contate e ricontate ci siamo avviate lungo un viale circondato da aiuole ben curate, con casette in stile tirolese, molto belle, con i gerani fioriti alle finestre nonostante che fossimo già nel mese di ottobre. Più che altro guardavo le tendine. Quando siamo partite per la Germania eravamo convinte di andare in Germania a lavorare, anzi in un certo senso era come una liberazione partire per la Germania, perché non sapevamo nulla di ciò che ci aspettava. Pensavamo di andare a lavorare; e questo era il nostro pensiero vedendo queste aiuole, tutte queste casette, che poi erano le case dei nostri aguzzini. Dicevamo: “Qui ci faranno lavorare”, speravamo che la nostra vita si sarebbe svolta in questo modo sino alla fine della guerra. Invece purtroppo le cose poi si sono presentate in un altro modo: finito il viale, ci siamo trovate di fronte un grande ingresso, un grande portone, abbiamo cominciato a vedere le torrette con le guardie sopra, con le armi puntate, il filo spinato, si è spalancato il grande ingresso.

Cosa abbiamo visto entrando nel campo? Abbiamo visto le prime prigioniere incolonnate. C’erano colonne di donne vestite a righe, qualcuna coi capelli rasati e con gli attrezzi agricoli, e le facevano sfilare cantando, le facevano anche cantare. Altre invece trascinavano misere carrette su cui erano andate a raccogliere le morte nel campo, destinate al forno crematorio. A Ravensbrück funzionava giorno e notte il forno crematorio.

D: E l’ingresso nel campo?

R: Per prima cosa non siamo state guardate subito perché siamo state due giorni fuori, dormendo all’addiaccio sul piazzale del campo. Fortunatamente avevamo ancora con noi i nostri indumenti e quel poco da mangiare che era rimasto nei nostri fagotti; li tenevamo ben cari questi fagotti perché le poverine, le prigioniere che erano già lì prima di noi anche di notte cercavano di rubare quel poco che noi ci eravamo portate appresso. Fortunatamente io avevo con me il cappotto, mi ci sono coperta e non ho sofferto

eccessivamente il freddo. Dopo due giorni siamo state chiamate dentro la baracca adibita alla vestizione; ci hanno fatto spogliare nude e abbiamo dovuto lasciare tutto; tutto ciò che avevamo con noi ci è stato preso, non ci è rimasto neanche un ago per cucire né uno spazzolino da denti, niente. Tutto ci è stato portato via, tutti gli oggetti cari, le fotografie, tutto tutto tutto, siamo rimaste nude. E poi siamo state anche notevolmente depilate, visitate nelle parti più intime del nostro corpo: pensavano che qualche oggetto avrebbe potuto essere nascosto. Dicendo oggetto intendo una catenina d’oro, un anellino che sarebbe servito come merce di  scambio nel campo per qualche miska di zuppa.

D: Dopo la spoliazione, la depilazione, la rasatura e le visite corporali, è la volta delle docce.

R: Sì, la doccia e poi la vestizione, cioè dopo la doccia ci hanno consegnato i vestiti. Allora c’era chi otteneva il vestito zebrato e chi no, ed è ciò che per esempio è successo a me: mi è stato dato un vestito nero con una croce di stoffa di diverso colore cucita davanti e dietro. Sul braccio era cucito il triangolo già col mio numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Il mio era rosso; il triangolo rosso era per le deportate politiche. C’erano anche altri colori: il triangolo giallo per gli ebrei, il triangolo verde non ricordo … insomma, c’erano parecchi colori.

D: Poi il blocco di quarantena.

R: Ci hanno assegnato il posto nelle baracche. C’è da precisare che il campo di Ravensbrück era stato costruito per, non so, 9.000 / 10.000 persone circa, ma purtroppo verso la fine della guerra eravamo già più di 50.000, e il campo non si è ingrandito nel frattempo. Il campo è rimasto quello che era, le baracche sono rimaste quelle, perciò  eravamo pigiate dentro queste baracche. Mi è stato dato un posto per dormire, c’erano i letti a castello, chiamiamoli letti ma erano semplicemente dei tavolacci con un po’ di paglia e una coperta. Il mio posto è stato assegnato al quarto castello, ma questo posticino era occupato da 3 prigioniere polacche; le poverine erano già da un po’ di tempo nel campo; vedendosi arrivare un’intrusa ad occupare una parte di questo piccolo posticino mi riempirono di botte. Io non capivo perché mi picchiassero così; non avevo colpa se mi avevano rifilata in questo angolino.

Voglio raccontare un particolare: entrando nella baracca in attesa appunto che ci venisse assegnato il posto, io mi sono appoggiata sul primo lettino del castello, che era ricoperto da una copertina a quadretti bianchi e blu, tutta diversa dagli altri letti. Era il letto di una kapo: non pensavo di fare qualcosa di male, ma lei senza dirmi niente mi allungò un ceffone. E mentre mi picchiava mi chiamava “Badoglio”. Tutte noi italiane eravamo chiamate “Badoglio”. Perché? Perché in fondo in fondo la considerazione che i tedeschi avevano delle prigioniere italiane era doppiamente terribile: noi non eravamo il nemico, noi eravamo i traditori, e questo certamente ha influito molto sulle punizioni e sul comportamento che loro avevano nei nostri riguardi.

D: Quanto tempo sei rimasta a Ravensbrück?

R: Io penso grossomodo di avervi fatto la quarantena, adesso dire con precisione non lo so, ricordo

vagamente. Nei giorni in cui siamo rimaste a Ravensbrück – io parlo sempre al plurale perché siamo quasi sempre rimaste assieme noi del gruppo partito da Torino e da Milano, noi che provenivamo dal Piemonte e dalla Liguria – ci portavano a lavorare. Andavamo a lavorare dalle parti in cui c’era il laghetto; ci facevano caricare sabbia su grandi carrelli sistemati su rotaie: dovevamo caricare, riempire questi carrelli, spingerli e svuotarli. Certamente era un lavoro inutile ma era un modo anche questo per toglierci le forze, per debilitarci e per farci capire che eravamo là per soffrire, ecco.

D: Lo specifico di Ravensbrück è quello di essere un campo tutto femminile.

R: Sì, nel campo di Ravensbrück c’erano tutte donne.

D: Solo donne.

R: Giovani, vecchie, anziane, insomma c’era un po’ di tutto.

D: Tu hai subìto esperimenti in questo campo?

R: Sì, in questo campo sono stati fatti degli esperimenti sulle prigioniere. Esperimenti anche terribili. Quello che è stato fatto a me, come a tante altre, consisteva nel toglierci il ciclo mestruale: a qualcuna mettevano qualcosa nel mangiare, invece tante altre venivano messe su un tavolo e veniva iniettato direttamente nella salpinge un liquido molto irritante; questo liquido ci ha tolto le mestruazioni. Da quel momento sino a quando non sono tornata a casa, anzi anche per un periodo di tempo successivo al mio rientro a casa, non ho più avuto le mestruazioni.

D: E il vostro corpo si è riempito di che cosa?

R: Togliere il ciclo mestruale era un problema molto grave per la donna, ma i nazisti sapevano benissimo le conseguenze di tutto questo: loro dicevano che noi eravamo degli schiavi e che gli schiavi si riproducono troppo in fretta, come i topi. Certamente anche in questo senso cercavano il modo di eliminare il più possibile le persone, e così anche con noi, che non avremmo potuto magari più avere figli. Questo penso sia stato lo scopo di questo esperimento, e forse anche vedere l’effetto che poteva fare sulla donna togliere il ciclo mestruale. L’effetto è stato che i nostri corpi si sono riempiti di grossi foruncoli sempre pieni di pus, e i  pidocchi  si accompagnavano benissimo coi foruncoli ….

D: Durante il periodo che tu sei rimasta a Ravensbrück hai subìto anche una selezione. Te la ricordi?

R: La selezione è stata quando ci hanno scelte per portarci fuori dal campo di Ravensbrück, perché il campo aveva dei campi satellite, dei campi di lavoro. Sono arrivati degli industriali tedeschi e ci hanno scelte, cioè individuavano tra le prigioniere quelle che più o meno avrebbero potuto rendere nella loro fabbrica e nel lavoro. Ci guardavano soprattutto, mi ricordo, le mani: chi aveva anche le mani callose era evidente che fosse una persona già abituata a lavorare e senz’altro avrebbe reso in fabbrica. Io fortunatamente avevo già i calli alle mani perché abituata a lavorare, ho lavorato sin da piccola.

Prima di tutto questo però diciamo dell’appello al mattino a Ravensbrück. Alle 5 dovevamo uscire fuori dalle baracche per l’appello, qualunque fosse stato il tempo, qualunque fosse stato il modo in cui potevamo uscire; tante volte dovevamo uscire anche nude, e l’appello durava tante ore, a seconda se durante la notte qualcuna era morta oppure se qualcuna era assente per qualche altra cosa. Contavano, contavano e ricontavano; l’appello durava fin a quando i conti non tornavano. A Ravensbrück succedeva anche questo. Cosa posso dire? Tra tante altre sempre del mio gruppo, siamo state scelte per andare a lavorare in una fabbrica in un campo di lavoro che si chiama Salzgitter. Ci hanno caricati su dei treni un’altra volta e ci hanno portato in questo posto. Non abbiamo viaggiato tanto perché Salzgitter non era tanto lontano da Ravensbrück. In questo campo di lavoro c’erano parecchie baracche, adesso ricordo vagamente quante baracche c’erano, ma c’erano donne di tutte le nazionalità: greche, polacche, russe, francesi, italiane.

D: E lì a Salzgitter cosa facevate?

R: A Salzgitter ci portavano a lavorare dentro delle fabbriche. Noi andavamo a lavorare in una fabbrica in cui si costruivano i cerchi di rivestimenti per le bombe. Ci davano della polvere tipo polvere di alluminio, non so bene di che cosa fosse composta questa polvere, e si cominciava a costruire dal piccolo cerchio via via sempre più in grande, fino a quando la forma della bomba veniva data da tutti questi cerchi l’uno sopra l’altro. Questo era il lavoro che si svolgeva nella nostra fabbrica; si facevano i 3 turni, si lavorava dalle 6 del mattino alle 2, o dalle 2 alle 10 di sera; poi c’era il turno di notte. Questo è stato il lavoro di Salzgitter.

D: Poi anche da Salzgitter sei stata trasferita.

R: Sì, da Salzgitter siamo state trasferite perché il fronte stava avanzando. In una notte tremenda ci hanno fatto uscire dalle baracche, con urla tremende, e bastonandoci ci hanno caricate su dei camion e ci hanno portate via: la nostra destinazione era nuovamente Ravensbrück. Purtroppo durante il viaggio il nostro convoglio è stato bombardato, e naturalmente il treno non ha più potuto proseguire per Ravensbrück. Allora abbiamo camminato, ma non quella notte, che abbiamo passato nel bosco. Il giorno dopo abbiamo camminato, e dopo tanti chilometri siamo arrivate nel campo di Bergen Belsen.

D: Quando siete state trasportate da Salzgitter a Bergen Belsen siete state bombardate nella stazione di Celle, te lo ricordi?

R: Siamo state bombardate nella stazione di Celle presso Hannover; abbiamo subìto un bombardamento terribile, e in seguito a questo bombardamento abbiamo dovuto proseguire sulla strada a piedi. Facendo tutti questi chilometri a piedi per arrivare nel campo di Bergen Belsen avevamo tanta sete, tantissima sete, e soffrire la sete è una cosa molto brutta. E poi anche fame, perché non ci è stato distribuito più niente da mangiare. Io avevo con me un pezzo di pane, un piccolo pezzo del pane che ci veniva distribuito nel campo. Non so con che farina fosse fatto, se ci fosse almeno un po’ di farina ma forse non c’era neppure. Questo pezzo di pane me l’aveva dato una compagna di deportazione che era riuscita a rubarne un po’ e che aveva distribuito tra noi compagne; io, per non mangiarlo e perché mi durasse di più, ho continuato a leccarlo tutto il tempo che abbiamo camminato; tra l’altro eravamo anche mitragliate. Quando arrivavano gli apparecchi aerei si lasciava la strada e si correva a ripararsi nei boschi. Dopo tanti chilometri finalmente arrivammo a Bergen Belsen. Io avevo sempre in mano questo pane che si era ridotto ormai ad una palla a furia di leccarlo, era una piccola palla. E non appena sono entrata nel campo di Bergen Belsen, sono stata avvicinata da una prigioniera che aveva un po’ d’acqua dentro il recipiente che chiamavamo miska: mi ha fatto segno che se le avessi dato il pezzo di pane lei mi avrebbe lasciato bere un sorso d’acqua: ecco, ho rinunciato al pane per bere un po’ d’acqua, perché la sete era stata talmente grande.

Del campo di Bergen Belsen cosa possiamo dire? La nostra prima impressione nel vedere tutto ciò che c’era attorno a noi, un inferno dantesco, è stata: “Qui è finito, qui loro hanno vinto, noi abbiamo senz’altro perso”, vedendo tutto il disastro che c’era. Nel campo non c’era più nulla che funzionasse, non c’era acqua, non davano più da mangiare. I cadaveri erano tutti sparsi nel campo, erano cadaveri accatastati, mucchi e mucchi di cadaveri che la notte buttavano fuori dalle baracche. Vedere questi cadaveri così, con le membra tutte storte, con gli occhi aperti, le bocche aperte, con le piaghe da decubito, è stata una cosa terribile, una cosa che ancora io non ho dimenticato, nonostante siano passati tantissimi anni. Il mio pensiero va sempre a questa povera gente che è morta in un modo così terribile.

D: Ida, perché sei stata portata nei campi di concentramento?

R: Io sono stata portata nel campo di concentramento perché mio marito era militare ad Aosta; l’8 settembre (1943) c’è stata la disfatta dell’esercito italiano, e anche lui, come tutti gli altri, dopo 8 anni di servizio militare è scappato assieme agli altri. Ha fatto parte della Resistenza in un modo abbastanza blando, ma non ci voleva tanto per essere arrestati; anche se non si partecipava alla Resistenza, in quel periodo bastava una frase fuori luogo, oppure un’imprecazione per il pane che non ci davano o per la fame che si pativa e si poteva benissimo essere arrestati.

Io ho visto persone arrestate perché trovandosi in un luogo pubblico, in un bar o in una cantina, con la radio che trasmetteva il giornale radio, non si alzavano in piedi e non si toglievano il cappello, come invece si doveva fare. Ebbene, bastava che ci fosse un fascista dentro al locale, e potevano arrestarti per questo.

Essere arrestati non significava aver fatto qualche cosa, essere arrestati significava questo: il governo italiano doveva consegnare al governo tedesco un certo numero di prigionieri, e per raggiungere la cifra tutto andava bene: quelli presi nel rastrellamento e quelli presi per delle sciocchezze.

Ripeto, mio marito ha lasciato l’esercito e siamo stati arrestati tutti e due, lui è finito in Germania prima di me, perché ha fatto tutto il mio viaggio sino a Bolzano, e poi è partito per la Germania qualche giorno prima di me, inviato in un campo di lavoro vicino a Lipsia, non in un campo di sterminio, ed è rientrato in Italia nel mese di agosto (1945), mentre io sono rientrata in Italia nel mese di settembre del 1945.

D: Ritorniamo ancora a Bergen Belsen, che è l’ultimo campo in cui sei stata deportata e dove sei stata liberata. Ci stavi descrivendo le immagini del tuo arrivo; quanto tempo vi sei rimasta?

R: Noi siamo stati liberati dalle truppe inglesi il 5 di maggio (1945), non mi vorrei sbagliare ma mi sembra tanto che fosse il 5 di maggio. E poi siamo rimasti ancora parecchi giorni dentro a questo campo, perché la situazione era caotica e doveva essere organizzata anche l’evacuazione del campo. Le prime persone che sono state portate fuori dal campo sono stati i prigionieri che quasi quasi erano all’ultimo stadio. Sono stati portati via i bambini, perché c’erano anche bambini e delle giovanette, lì dentro. Non bisogna dimenticare che nel campo di Bergen Belsen è morta Anne Frank e tantissime ragazzine.

Quando hanno potuto, gli inglesi ci hanno portate via, ci hanno fatto fare la doccia e ci hanno disinfettate tutte con il DDT, spargendo sui nostri corpi nudi, un’altra volta nudi, tutta la polvere di DDT. Siamo state portate via e ci hanno di nuovo, non tutti, sparsi in questa regione; noi siamo ritornate a Celle dove eravamo state bombardate, e siamo state messe dentro delle caserme, precisamente nella scuderia delle caserme, a dormire un’altra volta per terra sulla paglia. Così per un paio di giorni; io ero già abbastanza malata, avevo sempre la febbre. Fortuna volle che incontrassimo dei prigionieri militari che avevano requisito una casa tedesca, dove forse c’era un laboratorio perché c’erano dei letti a castello. In attesa del rimpatrio l’avevano requisita e ci diedero una camera, per tutte tranne la mia carissima compagna di deportazione di Imperia, che purtroppo è stata portata in ospedale perché era gravemente ammalata; gli inglesi infatti l’avevano portata via dal campo di Bergen Belsen, quasi subito.

D: A Celle fino a quando sei rimasta?

R: Lì siamo rimaste fino a settembre, quando ci hanno rimpatriate. Tante volte ci chiamavano, ci radunavano perché si doveva partire, e poi invece il convoglio non c’era. Ci sono stati dei grossi problemi in quel momento, perché eravamo talmente tanti e le ferrovie funzionavano non in modo tanto buono. La Germania era anche distrutta nelle ferrovie, nei ponti, nei treni e tutte queste cose. Per organizzare il rimpatrio c’è voluto tanto tempo. Primo Levi nel suo libro “La tregua” descrive molto bene le fasi del rimpatrio. Non tutti siamo stati fortunati da avere subito un convoglio che ci portasse a casa. E poi, ripeto, io ero già ammalata; sono stata poi ricoverata in una clinica tedesca, dove bene o male sono stata curata dalla febbre, diciamo, intestinale; avevo anche la scabbia in tutto il corpo, soprattutto sulle mani, dove si vedeva un po’ di più e questo mi tormentava un po’ di più.

D: Quando sei rientrata in Italia?

R: Sono rientrata in Italia verso la fine di settembre (1945).

D: Attraverso quale percorso?

R: Sono passata di nuovo dal Brennero, come quando sono partita, e sono ritornata a Bolzano. Siamo arrivati a Bolzano quando spuntava l’alba; bellissimo questo ingresso a Bolzano, dove la Croce Rossa ci ha accolti. La prima cosa che ci è stata data è stato un pezzo di pane, un panino bello grande, molto bianco, che forse era fatto anche con farina di riso. Eravamo talmente commosse, in modo particolare, nel ricevere questo pezzo di pane dopo tanto tempo che non riuscivo neanche a mangiarlo, me lo baciavo.

Paganini Bianca

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Bianca Paganini, sono nata a La Spezia il 1. febbraio del 1922. Appartengo ad una famiglia molto religiosa, perciò babbo e mamma avevano aderito al movimento del Partito Popolare prima dell’ascesa al potere di Mussolini.

Erano persone molto generose, però nello stesso tempo erano persone che amavano tanto la loro libertà; eravamo cinque fratelli, tre maschi e due femmine, ed eravamo vissuti in una famiglia veramente felice. Babbo e mamma assecondavano, quando era possibile, i nostri desideri anche però con una certa quale rigidità. Ci avevano insegnato poco per volta che si poteva vivere felici anche senza la dittatura fascista. A casa mia infatti non vedemmo mai una divisa fascista, né i miei fratelli ebbero mai le divise da balilla o da figli della lupa, né io e mia sorella potemmo mai avere una vera divisa da giovani italiane. Papà aveva posto il veto a mia madre: “Se devono andare vestite in divisa, che si accontentino di quello che la casa può offrire”. Eravamo studenti nelle scuole spezzine, io frequentavo il liceo, mia sorella frequentava l’istituto tecnico, i miei fratelli mio padre aveva preferito metterli in collegi salesiani, affinché non assorbissero la teoria fascista.

A scuola assorbivamo però tutta la teoria fascista; a scuola dovevamo andare in divisa, determinati giorni dovevamo frequentare le adunate, e con un certo distacco la famiglia ci permetteva di farlo. Mio padre morì nel 1938 e noi restammo soli con la mamma, che però seguì in tutto e per tutto il modo di educarci di papà.

Scoppiò la guerra e noi dal centro della città, a causa dei continui bombardamenti ed a causa anche della salute malferma di mamma, dovemmo trasferirci in una piccola casetta ai margini della città, a San Benedetto, che si trova al di là della foce, dove avevamo già preparato una casa per i momenti del pericolo.

Là ci colse l’8 settembre (1943). Mio fratello più grande era ufficiale degli alpini e si trovava sul confine precisamente nella zona fra Vipiteno e Fortezza. L’8 settembre abbandonò il suo posto e si diresse verso casa. Ci raggiunse ai primi di ottobre, e immediatamente cominciò insieme ad altri ad organizzare i primi raduni dei partigiani. Mamma non si oppose a questo intendimento dei suoi figlioli, anzi li appoggiò, anche se evidentemente l’aiuto che essa poteva dare era veramente poco. Poteva soltanto accettarli in casa quando venivano dalla montagna, e soprattutto ospitare gli amici che poco per volta trovavano nella nostra casa l’appoggio per poi salire la montagna.

Ben presto a mio fratello Alberto si associò anche il secondo, Alfredo, che faceva il quinto anno di medicina e che in montagna cominciò ad organizzare un piccolo ospedale, viste le sue cognizioni di medicina, per poter accogliere partigiani feriti durante i rastrellamenti. Noi restammo in casa, io, mia madre, mia sorella ed il fratello più piccolo che aveva soltanto 16 anni.

Quando cominciarono le prime avvisaglie, mamma cercò di avvisare i miei fratelli che si trovavano in montagna di essere leggermente più prudenti, perché non si poteva mettere in pericolo non solo la nostra sicurezza ma anche quella degli altri che avrebbero raggiunto la nostra casa.

La mattina del primo di luglio (1944) mio fratello Alfredo scese in città insieme alla moglie di Vero del Carpio che era allora il capo della formazione partigiana. Alfredo era venuto in città per prendere delle medicine in una delle farmacie spezzine che avevano accettato di dare aiuti farmaceutici alla zona partigiana. Nello stesso tempo molto probabilmente avevano anche intenzione di prendere una piccola radiotrasmittente che sarebbe servita per le formazioni in montagna. Quando arrivarono in città, e precisamente in piazza Garibaldi, vennero accerchiati da ufficiali della SS e da fascisti, arrestati e portati nelle carceri di Villa Andreini. Noi sapemmo subito quello che stava succedendo: mamma cominciò con grande spirito e grande coraggio a cercare in casa tutto quello che vi poteva essere di pericoloso, ma in casa c’era poco o niente. E allontanò il più piccolo affinché potesse essere sottratto a qualsiasi rivendicazione da parte dei fascisti. Poi cercò di avvisare il maggior numero possibile di persone di non avvicinarsi alla casa perché era estremamente pericoloso. Noi attendemmo, sicure che nulla sarebbe successo ad una donna di 63 anni e a due ragazze, di cui una aveva 21 anni l’altra ne aveva soltanto 18.

Aspettammo. Durante tutta la notte e durante tutto il giorno le notizie arrivavano ma erano incomplete, non si sapeva nulla di quello che stava succedendo in città. Poco per volta però venimmo a sapere che altri erano stati arrestati, fino a che giunse la sera. Ci coricammo e circa verso mezzanotte cominciammo a sentire arrivare sotto la nostra casa parecchie persone. Ci affacciammo, cominciammo a vedere la casa circondata da soldati fascisti che con il moschetto cercavano di impedire, semmai ce ne fosse stata necessità, a chiunque di entrare e di uscire. Bussarono alla porta: mamma con molto coraggio andò alla porta, dicendo a noi ragazze di restare a letto perché così avremmo dato ad intendere con maggior sicurezza di non sapere nulla.

Si affacciarono alla porta Gallo ed altri due fascisti; dietro di loro c’erano due ufficiali della SS e 4 / 5 soldati tedeschi della SS. Entrarono in malo modo, ci fecero alzare, e per cinque ore rovistarono in casa, che era ben misera, perché era un rifugio dai bombardamenti; tutte le cose erano state messe in salvo in altre case dove c’era maggior sicurezza. Frugarono, non trovarono nulla all’infuori di libri; uno, lo ricordo come se fosse adesso, era intitolato “Disobbedisco”, ed era stato dedicato a mio padre dallo stesso autore. La cosa suscitò profondo interesse e profondo sdegno da parte dei fascisti, così come suscitarono sdegno le figure della Divina Commedia del Dorè che erano proprio nella nostra biblioteca. Vuoi che durante la perquisizione venne trovata dai fascisti la lettera con cui un amico svizzero in cui ringraziava mio padre (e notate che mio padre era morto nel 1938) per dello Sciacchetrà che gli aveva inviato affinché potesse brindare con il vino spezzino al suo matrimonio? Era una lettera molto cara, molto gentile da parte di questo amico. Non so per quale motivo la lettera venne presa, messa agli atti come se fosse una lettera capace di suscitare segnali di spionaggio da parte di persone svizzere. Alle cinque del mattino ci fecero vestire, prendere i gioielli che mamma teneva in casa e ci portarono in città.

In città immediatamente ci schedarono nelle carceri di Villa Andreini. I gioielli che erano in mano di mamma vennero consegnati per fortuna direttamente al direttore delle carceri. Questo non successe con la mamma di un altro detenuto, l’avvocato Vironi, la quale ingenuamente aveva affidato i gioielli agli ufficiali fascisti. Quando giunse in carcere questa signora invitò il fascista a dare i gioielli al direttore delle carceri, ma il fascista negò di averli mai avuti. Tanto per descrivere il clima che vigeva allora tra i fascisti spezzini.

Fummo messe in carcere in isolamento, tre celle per tre persone. In carcere trovammo altre due persone che poi divennero per noi molto care, la signora Stanzione con la figlia – mamma e figlia erano state arrestate insieme al figlio – e Italo Geloni; anche loro erano stati arrestati da fascisti e tedeschi. Trovammo anche Dora Carpanese, arrestata con mio fratello, e pochi giorni dopo ci raggiunse un’altra donna, mamma di un partigiano amico dei miei fratelli, arrestata poiché non avevano trovato il figlio, insieme al marito. Il marito morì poi a Dachau. Lei tornò a casa soltanto alla fine della guerra, dopo essere stata per tutto il tempo deportata nel campo di Bolzano.

Arrivati nelle carceri, il giorno dopo cominciarono l’interrogatorio; noi non subimmo interrogatori da parte dei fascisti, cosa che invece subì mio fratello. Immediatamente fummo messe sotto il controllo della SS e ci cominciò ad interrogare un ufficiale della SS con l’interprete spezzino, che però conosceva molto bene il tedesco, lingua che parlava quasi fosse la sua seconda lingua madre.

Il colonnello non alzò mai la mano né contro la sorella e me né contro mia madre. E’ vero che la pistola era sempre nelle sue mani, è vero che le parole talvolta erano accompagnate da movimenti piuttosto bruschi, è vero anche che la voce molto spesso si alzava durante l’interrogatorio, però non venne mai meno a quelli che erano perlomeno i princìpi di una sensibilità che qualsiasi uomo ha verso le donne, soprattutto verso una persona anziana. Mia madre però era continuamente interrogata perché da lei si voleva sapere chi erano, cosa facevano quei banditi, quei disgraziati, quei delinquenti dei suoi figlioli, chi erano gli amici, quali amici frequentavano la nostra casa. Malgrado mia madre si ostinasse a dire che lei non sapeva nulla, che aveva dei figli di cui però non sapeva neanche dove fossero, gli interrogatori erano sempre sempre più pressanti e sempre più pesanti, e a questi interrogatori poi anche io e mia sorella, anche se molto meno, venimmo sottoposte. Fino al 20 di luglio, quando successe l’attentato a Hitler. Mia madre, che era una persona molto calma, molto equilibrata, con un cipiglio che io mai avevo conosciuto, obbligò suor Teresina, che era allora la madre superiore che teneva in mano le carceri femminili, a chiedere un’udienza immediata al comandante tedesco.

Il comandante tedesco dapprima tergiversò, e mia madre lo obbligò in un certo qual senso a sentirla, e quando gli fu davanti disse: “Io vorrei sapere come tu chiami la tua gente, quella che ha attentato al tuo capo? io ti do del tu perché tu dai del tu a me, ma io ti do del tu anche perché ad un certo momento tu appartieni ad un popolo in cui ci sono anche delle persone che, come i miei figli, amano la libertà, e non osare più chiedermi nulla perché tanto non so nulla ma non ti dirò mai nulla”.

La cosa mi venne poi raccontata dalla madre superiora, suor Teresina, che cercava di aiutarci quanto più possibile nelle carceri. Quest’uomo un po’interdetto guardò mia madre, si alzò, le fece il saluto militare, e poi le disse: “Mille donne come te e io qua non ci sarei”. Da quel giorno non fummo mai più interrogate. Perciò il soggiorno in carcere continuò tra alti e bassi; alcune sere dovevamo aspettare i partigiani che ci avrebbero liberato, altre sere invece dovevamo accettare di poter salutare qualcuno che forse poi non avremmo mai più rivisto. Nel frattempo ci fecero anche vedere mio fratello. Mio fratello era ridotto in condizioni pietose, sorretto da due amici che lo avevano accompagnato a salutare mia madre. Io penso che per mia madre questo fu l’inizio della morte, era mamma e fino a quel momento ci aveva sempre protetto, ci aveva sempre salvato. Da quel momento cominciò ad accorgersi che come madre nulla poteva più fare, non poteva più aiutare i suoi figli; il suo ruolo di madre perciò era completamente finito. Il suo cuore non reggeva molto a questo stato di cose. L’8 settembre, ricordo sempre, sentimmo aprire la porta della cella e suor Domitilla, una suora gentile, buona, che sempre aveva cercato di aiutarci, anche con le parole, venne piangendo e ci disse: “Preparatevi perché dovete andar via”. Era tardi, ci fecero uscire dalle carceri, ci imbarcarono ammanettati sul cassone di un camion e così partimmo. Eravamo circa una ventina, eravamo insieme io, mia madre e mia sorella e le due Stanzione, come donne, e un’altra donna di cui adesso mi sfugge il nome, che poi seguì con noi la trafila della Germania. Fummo assaliti dai partigiani durante il cammino e noi sperammo in una prossima liberazione. In realtà i tedeschi puntarono i fucili contro di noi e impedirono perciò la nostra liberazione.

D: Ricordi il luogo?

R: Sì, era un rettilineo fra Riccò e Pian di Barca.

D: Nella zona di Caresano?

R: Nella zona di Caresano, sì.

D: La tua mamma quanti anni aveva?

R: Mamma aveva 63 anni ma era gravemente ammalata di cuore. Soffriva di uno scompenso cardiaco che più di una volta ci aveva fatto temere per la sua salute e anche per la sua vita.

Arrivammo a Genova, fummo perquisite come se, provenendo dalle carceri avessimo mai potuto nascondere qualcosa, e poi avviate al IV raggio del carcere di Marassi. Fu un salto brutto perché a Spezia avevamo amici, a Spezia avevamo le suore che ci proteggevano, a Spezia avevamo i parenti, soprattutto una zia, che ci portava il mangiare a mezzogiorno, e ci faceva sentire ancora legati alla nostra terra e alla nostra casa.

Invece a Marassi cominciammo a capire una nuova dimensione della prigionia. Ci sbatterono in una cella dove non c’erano neanche letti ma soltanto materassi, sporca, piena di animali che camminavano nei muri, ci cominciarono a dare da mangiare in maniera sporca, tanto è vero che prima di mangiare dovevamo pulire il cibo di tutto quello che c’era sopra. Il mangiare era poco. Ecco lo spirito che animava i nostri carcerieri: quando mia madre chiese qualcosa da leggere, le portarono un libro stupendo “Le ultime ore di un condannato a morte”, e mia madre disse: “Capisco che sono utili anche queste pagine però evidentemente non è il momento che io legga queste cose” e lo restituì.

Marassi: una prigionia dura, pesante, anche perché durante la notte si viveva male, erano urla continue di gente che urlava sotto tortura, e noi le sentivamo; la notte era piena di incubi per noi.

Alla fine di settembre, verso il 20, di mattina fummo imbarcati su due pullman e diretti a Bolzano.

Cominciammo ad avere il primo sentore di quello che sarebbe stata la nostra prigionia. Il viaggio era lungo e ad un certo momento fummo costretti a fermarci e, davanti a tutti, a fare i nostri bisogni. La cosa colpì profondamente specialmente noi donne, che non avevamo certamente avuto l’abitudine di fare certe cose di fronte a tutti; era una cosa molto privata. Alla fine giungemmo a Bolzano.

D: Vi siete fermati anche a Milano?

R: No, però a Milano ci fermarono in una piccola strada, vicino a piazza del Duomo. Mamma aveva sete; una persona si affacciò e disse: “Ho sete, portatemi qualcosa da bere”. Immediatamente i due pullman vennero circondati da molte persone che portarono tutto quello che potevano portarci: acqua minerale, pane, salame, di tutto. Però ad un certo momento, vista la ressa, forse per paura che noi potessimo essere liberati, le SS cominciarono a sparare. La gente scappò e noi restammo con la nostra sete, la nostra fame, mentre tutto quello che poteva soddisfare il nostro desiderio di allora era rimasto sopra la strada, senza che nessuno potesse usufruirne.

Dopo Milano raggiungemmo Bolzano. E a Bolzano, lo ricordo come se fosse ora in questo momento, cominciammo a sentire le prime rigide forme della prigionia sotto le SS. Fummo spogliate di tutte le nostre cose, però i nostri vestiti furono messi in un sacco, e ci dettero una tuta. Quando entrammo nel campo io ebbi la ventura di trovare tra i deportati il mio professore di matematica del primo e secondo anno di liceo, Vittorio Sturlese, che era stato arrestato per motivi politici. Il professore mi venne incontro, mi abbracciò, pianse perché non si sapeva capacitare del fatto che anche delle ragazze potessero essere arrestate e soprattutto messe in deportazione. Lì cominciammo ad avere il primo numero, che veniva segnato su una grande striscia bianca sulla tuta che ci avevano dato.

Per noi però Bolzano fu una specie di oasi: da tre mesi stavamo chiuse dentro una cella senza poter vedere la luce del giorno; nove, dieci persone in una sala che poteva essere 5 m x 6, non di più, dove non avevamo neanche il letto per dormire, dove era molto sporco. L’aria frizzante della montagna ci veniva incontro ogni volta che uscivamo dalla baracca. C’erano dei letti a castello, è vero, però ognuno aveva il proprio letto, e avevamo la possibilità di poter conoscere altre donne con le quali condividere la prigionia. Non stavamo tutto il giorno nel campo perché alla mattina venivamo portate nella caserma dei carabinieri (alpini) ad attaccare i bottoni nelle tende da campo. Anche lì trovammo persone amiche, chi lungo le scale ci faceva trovare del cioccolato, chi ci faceva trovare una caramella, chi ci faceva trovare una sigaretta, addirittura una volta trovammo un piatto di pastasciutta, per noi a 20 anni la pastasciutta era una cosa veramente …

D: Scusa Bianca, che caserma era?

R: La caserma degli alpini, proprio vicina al campo. Ho forse detto carabinieri prima?

Il capo del campo era Titho, poi c’era un certo Hans che la mattina in cui fummo convocate per poi farci partire noi mandammo veramente all’inferno, e lui disse: “Non vi preoccupate, ben presto sarete voi all’inferno!” Conosceva evidentemente il campo in cui saremmo dovute andare. La mattina dell’8 ottobre fummo fatte uscire dalla baracca incolonnate, e la maggior parte delle donne e degli uomini venne portata alla stazione. Riempirono due carri bestiame di 113 donne; altri 4 carri bestiame vennero occupati da altrettanti prigionieri che da Bolzano venivano trasportati in Germania. Il viaggio si presentava terribile, nel vagone non c’erano servizi igienici e con noi c’erano donne incinte o già di una certa età. Noi 60 donne ci preoccupammo immediatamente di fare un buco che potesse in un certo qual senso darci la possibilità di …., perché non sapevamo quanto dovevamo stare. Nessuna di noi aveva cibo con sé, soltanto qualche biscotto, e neanche da bere: soltanto qualche biscotto c’era stato dato dal CLN di Bolzano che ci era venuto in aiuto portandoci abiti e, mi hanno detto anche soldi, io questo non lo posso dire, posso dire dei biscotti.

Ci mettemmo in viaggio, ci fermammo a Dachau dove lasciammo gli uomini, e noi proseguimmo, chiuse, senza aria praticamente, senza neanche poter sederci per terra.

Facevamo a turno, lasciando alle più anziane ed alle più deboli il posto per sedersi, per cercare di riposarsi; a turno cercavamo di andare a respirare un po’ d’aria da quei piccoli finestrini che sono nei carri bestiame.

Cinque giorni fummo così, poi al quinto ci fermarono a Lipsia. A Lipsia aprirono i vagoni; eravamo quasi al centro della stazione, ci fecero scendere, ci circondarono militari con il fucile spianato e ci obbligarono davanti a tutti a fare le nostre necessità. Poi ci diedero una piccola scodella, una gamella che ognuna di noi aveva come dotazione, di roba calda.

Richiusero di nuovo i vagoni e finalmente la mattina del 13 ottobre arrivammo a Ravensbrück.

Ravensbrück era il campo femminile in cui venivano raccolte tutte le donne arrestate per motivi politici da tutta quanta l’Europa. Quando scendemmo dal vagone ci guardammo intorno: eravamo sfatte, sfinite, la discesa dai vagoni era stata fatta in maniera quasi bestiale, venimmo spinte, venimmo anche con le parole in un certo qual senso esortate a far presto. Cominciarono anche le prime difficoltà, gli ordini venivano dati in tedesco, e noi il tedesco non lo capivamo. Perciò proprio questa mancanza di conoscenza della lingua ci provocò subito botte e calci a non finire. Malgrado tutto questo ci misero per cinque e ci portarono verso una destinazione che noi ancora non conoscevamo. La strada che ci fecero seguire era una strada che costellava un lago e dall’altra parte della strada c’erano delle ville ben tenute, piene di fiori, tanto è vero che parecchie di noi dissero: “Va bene, siamo state male fino adesso, siamo state finora chiuse in carcere, ma se ci hanno portato qua, tutt’al più aiuteremo le donne tedesche nella direzione della casa, faremo le donne di servizio”.

Qualsiasi cosa e il nostro cuore quasi si allargava, anche perché l’aria del lago che si respirava era molto corroborante. Fino al momento in cui non arrivammo davanti ad un cancello. Era un cancello sopra il quale c’era scritta una frase che noi allora non sapevamo cosa volesse dire, però c’era scritto Arbeit macht frei.

Era sul tardi, ci fecero entrare e poi misero alcune di noi dentro una baracca, altre invece ci lasciarono all’addiaccio. Durante la notte noi sentivamo delle ombre intorno che ci dicevano: “Se avete da mangiare datecelo, se avete oro datecelo”. Mangiare ne avevamo poco e oro evidentemente, anche se qualcheduna l’avesse avuto, mai più si sarebbe fidata a darlo alla voce che proveniva da un posto a noi ignoto.

Venne il giorno, fummo destate dal suono di una sirena e poi vedemmo uscire dalle baracche delle donne, che non erano donne, erano figure magre, macilente, vestite a righe: noi le guardammo, un po’ stupefatte, non riuscivamo a capire, tutte le donne avevano però un triangolo e un numero che noi non riuscivamo a capire bene cosa fosse, né sapevamo perché avessero questo numero.

Fintanto che ad un certo momento cominciammo a vedere arrivare davanti a noi un carro, e ai fianchi di questo carro, due donne con un forcone ogni tanto prendevano quello che cascava e lo rimettevano su.

Una disse: “Mi sembrano stracci”, quell’altra disse: “Ma figurati, è legna, non vedi come sono legnosi? chissà dove la porteranno?”, fino al momento in cui questo carro ci passò davanti. Vedemmo che erano cadaveri, nudi, e sul petto vedemmo i numeri. La paura ci prese, sapevamo che ormai eravamo in un posto dove la nostra vita era soltanto in balia degli altri. Ci portarono dentro delle baracche, ci obbligarono a spogliarci nude. E questa nudità per noi donne di allora era dura, non eravamo abituate alla mancanza del pudore, noi eravamo abituate al nostro privato. Quello che maggiormente ci fece star male era il fatto che vecchie e giovani, ma soprattutto mamme e figlie, potessero vedersi sin nella loro completa nudità. Capii che mia madre aveva vergogna, capii che anche altre donne avevano vergogna, e allora cominciammo soltanto a guardarci in volto. Capii anche che per mia madre sarebbe stato molto duro poter continuare a sperare in una vita migliore. Ci fecero fare la doccia, ci portarono in un luogo dove fummo depilate di tutto, molte di noi fummo anche visitate in maniera tale da poter scoprire se qualcheduna avesse nascosto qualcosa di oro e di gioielli. Ci portarono via tutto l’oro che potevamo avere, cioè la catenina d’oro, il braccialetto, e devo dire la verità tutto fu messo in una forma quantomai precisa. Poi tirarono fuori per ognuna di noi una piccola busta, segnarono quello che avevano portato via a ognuna di noi, chiusero la busta e su ogni busta c’era un nome: Era una catenina, un anellino, cose che dopo 4 mesi di prigionia qualcheduna aveva ancora tenuto ma in realtà era ben poca cosa. Però portarono via anche quelle poche cose, e portarono via le fotografie dei nostri cari, tutto, ci lasciarono soltanto, a chi ancora l’aveva, un po’ di sapone e il dentifricio con lo spazzolino da denti. Però in mano, perché eravamo completamente nude. Dopo averci fatto fare la doccia e dopo averci depilato ci gettarono degli stracci. Noi non sapevamo cosa fare, alla fine capimmo che dovevamo scegliere tra gli stracci quelli che maggiormente potevamo usare per la nostra taglia. Evidentemente non avevano misurato le taglie di quelle alle quali offrivano questi vestiti, perciò chi aveva un cappotto che arrivava ai piedi, a chi invece una gonnellina leggera leggera che arrivava sì e no alle anche, chi aveva, niente, sabò ai piedi, scarpe spaiate, scarpe che non corrispondevano al nostro numero, un paio di mutande di tutte le misure possibili e immaginabili e non certamente quelle adatte a noi. E dopo ci diedero il numero e ci dissero anche che dovevamo impararlo subito a memoria, in tedesco, perché se mai fossimo state chiamate non ci avrebbero chiamato col nostro nome ma col numero con il quale eravamo state contrassegnate.

D: Il tuo numero, Bianca?

R: Il numero era 77.399 siebenundsiebzigdreihundertneunundneunzig come vedi lo ricordo ancora. E poi il triangolo rosso, simbolo della deportazione politica. Questo contrassegno doveva essere messo sul petto del cappotto o della casacca che avevamo, e sul braccio affinché fosse ben chiaro e ben leggibile a chiunque ci avesse incontrato. Di lì fummo portate nella baracca. Cominciò un’odissea terribile. Avevano diviso noi italiane in 2 o 3 baracche; avevamo conoscenza soltanto della lingua italiana e molte di noi neanche di quella perché parlavano soltanto dialetto. C’era tra di noi una che parlava soltanto il bergamasco, Antonia, che poverina capiva poco anche noi, figurarsi sentire parlare tedesco! Noi non capivamo niente, c’era vicino a noi una babele di lingue, perché nelle baracche le deportate appartenevano a tutte le nazionalità presenti nel campo: francesi, olandesi, polacche, russe. Noi non capivamo niente, tra l’altro avevamo anche subito capito che noi italiane non eravamo ben accette: eravamo le donne che avevano contribuito alla Germania, che aveva distrutto con i loro aerei le case dei polacchi, dei russi, degli olandesi, dei belgi; noi eravamo considerate nemiche dai tedeschi ed anche nemiche dagli altri. Fummo perciò isolate, difficilmente i primi giorni fummo aiutate dalle nostre amiche.

D: Quale era la tua baracca?

R: La mia baracca era la numero 17. Capobaracca, capostube e capocamerata era una francese, Madame Shup, me la ricordo ancora: non era cattiva ma non era neanche buona, faceva quello che poteva fare, gridava tanto ma non picchiava mai. Questa era già una cosa molto positiva. Ad ogni modo, entrate in questa baracca non sapevamo cosa fare, capimmo che dovevamo cercarci un letto, ma di letti non ce n’erano perché ormai la baracca era sovrappopolata. Alla fine, grazie ad una francese, perché io parlavo francese e cercavo di contattare qualcheduna che parlasse francese, che capì la nostra situazione, ad altre donne si strinsero e noi trovammo posto, due o tre letti in cui ci accucciammo per la notte.

Chi dormì quella notte? nessuno, anche perché non sapendo che cosa ci aspettava, avevamo paura di quello che ci sarebbe successo il giorno dopo. Il giorno dopo per la prima volta cominciammo a conoscere anche gli appelli. La sirena cominciò a suonare molto prima dell’alba, fummo fatte scendere immediatamente, capimmo che bisognava lasciare il letto nel migliore dei modi possibili, questo ce lo avevano fatto capire.

Poi bisognava andare di corsa al gabinetto, ma erano pochissimi i gabinetti con tante tante donne che cercavano disperatamente perlomeno di lavarsi gli occhi. Poi ci misero per 10, e l’attesa fu lunga, dovemmo restare ferme sull’attenti per ore. Cominciammo anche, io e mia sorella, a capire la tragedia che ci aveva colpite: se tu sei solo soffri per te, ma se tu hai vicino tre persone tu soffri per te, soffri per la sorella che ti è vicino e che vedi più debole di te, che vorresti aiutare ma che non puoi, e soffri tremendamente per quella donna che è tua madre e che tu non puoi aiutare. La vedi cascare ma la devi lasciar per terra. La vedi soffrire e non puoi nulla per aiutarla. Perciò la sofferenza era moltiplicata per tre. Ad ogni modo, finito l’appello fummo di nuovo riprese per altre visite, questo successe per due o tre giorni, visite assurde, sciocche: ti facevano visite alle mani, gli occhi, guardavano se eri forte, visite che poi capivi che non sarebbero servite a nulla perché non avevano senso. Nello stesso tempo, alla mattina dopo l’appello io e mia sorella, mamma no perché non poteva muoversi, fummo prese per essere avviate al lavoro. Anche lì il lavoro più assurdo. Ti davano una pala in cinque, cantando, con a fianco i cani che ti avrebbero azzannato le gambe se tu ti fossi mai allontanata dalla fila di due millimetri, ma sarebbero stati anche troppi due millimetri; i soldati ci portavano su un’altura, e con questa pala noi dovevamo smucchiare la sabbia da una parte e fare un altro mucchio, avanti in circolo di modo che non servisse a niente. Il lavoro però serviva a debilitarti, a fare sì che le tue mani si spaccassero per l’uso continuo per 12 ore di questa pala, e anche, in un certo qual senso, a metterti subito alla prova con le tue compagne. Se tu avevi davanti a te una donna robusta che in due minuti spalava e tu invece non ce la facevi, prendevi delle botte perché il tuo lavoro era lento ed erano necessarie delle botte per farlo accelerare. Se invece ne avevi una dietro di te che faceva presto a fare il cumulo alto, e tu non ce la facevi a smucchiarlo tutto, anche lì erano botte. Alla fine questo lavoro durò per circa dieci giorni, e ogni volta che tornavamo in baracca, dopo 12 ore di lavoro, trovavamo mia mamma sempre più debole, sempre più affilata, sempre presente a se stessa però, tanto presente che malgrado tutto riusciva ancora a spingerci a sperare, a pregare, a chiedere la cessazione di questo terribile avvenimento che ci stava vicino.

Questo per dieci giorni, fino al giorno in cui io e mia sorella fummo convocate e venimmo portate a lavorare alla Siemens. I primi giorni ritornavamo sempre in baracca alla sera; ci insegnavano a fare delle saldature, a piegare il filo di ferro in modo particolare, ad usare una lampada particolare che serviva per illuminare bene gli apparecchi che dovevamo fare. Però ritornavamo sempre in baracca.

D: Dal campo principale di Ravensbrück uscivate per andare alla Siemens?

R: Lasciavamo il campo; il campo Siemens era a 500 metri, non di più. Andavamo verso una piccola montagnola che, come abbiamo saputo in seguito, era stata fatta dalle prigioniere. Su questo campo, su questa piccola piazzola, era stata installata la fabbrica della Siemens, che aveva circa 20 capannoni; lì fu costruito un piccolo campo composto da sette baracche, dentro il quale noi prendemmo posto.

D: La tua baracca quale era?

R: La mia baracca era la 3, Stube 1; eravamo in camerata insieme alle tedesche, quasi tutte triangolo verde. La capobaracca infatti si chiamava Maria ed era un triangolo verde. Molto probabilmente aveva avuto qualche allacciamento con qualche italiano perché ogni tanto si ricordava di canzoni italiane.

D: Lì siete rimaste a lavorare tu e tua sorella?

R: Al primo di novembre ci hanno chiamato e abbiamo dovuto lasciare mamma. L’abbiamo lasciata che era in condizioni pietose, capivamo che la salutavamo forse per l’ultima volta, ed anche lei lo aveva capito. Cercava disperatamente di aiutarci ancora, ma la cosa le fu impossibile. Non la vedemmo più. Sapemmo soltanto in seguito che era morta, poi dirò come e perché.

Noi fummo trasferite alla Siemens e da quel giorno questa visione di mamma è sempre dentro di me.

Ci sono giorni felici che potrei ricordare ma sempre questa immagine è presente. Alla Siemens ci misero nella baracca insieme ad altre sette italiane. C’erano le due Stanzione, io e mia sorella, Ginet Portalupi di Milano, Maria Fasano di Torino, Albertina Radaelli di Ivrea, Carlotta Villa di Lecco e Maria Rossi di Melegnano. E così cominciava la nostra vita in fabbrica. Il lavoro non era molto pesante, avevamo avuto la fortuna di avere mani piccole e occhi buoni, perciò fummo destinate all’equilibrage dei manometri e dei voltometri. Un lavoro che ci teneva ferme in baracca al caldo per 12 ore, che era duro perché alla fine delle 12 ore le ossa facevano male, perché eri costretta a stare su un piccolo sgabello, senza neanche spalliera per 12 ore a lavorare continuamente, il più delle volte con la lente d’ingrandimento. Però non avevamo molta dispersione di calorie e di energie, stando ferme. Dopo le 12 ore rientravamo di nuovo con le SS; lì c’erano la violenza, la fame, la cattiveria più inaudita. Non era difficile che al sabato sera fossi convocata per fare la domenica mattina un lavoro extra, per esempio andare a togliere l’acqua con dei secchi mezzi bucati dai bunker delle SS o andare a fare una nuova fognatura o ripulire tutta la baracca; era un lavoro continuo. Oppure ti inventavano qualche cosa e tu dovevi stare allo Strafappell, cioè appello di punizione, magari per tutto il giorno. Stare all’appello di punizione per tutto il giorno era terribilmente duro perché lì si raggiungevano temperature di 10, 12 gradi sotto zero. Ci fossero neve o acqua o vento, noi non eravamo vestite perché avevamo sì e no un cappottino, senza calze e nient’altro. Ti annientavano, alla fine dell’appello eri talmente sfinita che non ce la facevi più. Poi bisognava lavorare o 12 ore di giorno o 12 ore di notte; se lavoravi di notte arrivavi alla fine della settimana che non ragionavi più, perché dopo 12 ore di lavoro dovevi andare a pulire la baracca, a vuotare i secchi riempiti durante la notte, ad una certa ora della giornata andare a prendere il mangiare, il pane, distribuire tutta la roba in cucina, riandare a prendere tutto alle quattro del pomeriggio. Perciò tu facevi le 12 ore di notte e durante il giorno non si riusciva a dormire nella maniera più assoluta, in una baracca tra l’altro dove, siccome solo noi italiane lavoravamo di notte, di giorno era fredda. E il più delle volte per arieggiare lasciavano pure le finestre aperte, sicché noi dormivamo con una sola copertina e i ghiaccioli che venivano fuori dai tetti della baracca.

D: Alla Siemens c’erano anche dei civili?

R: C’erano i civili, c’erano i Meister, che ci aiutavano nello svolgimento del lavoro perché vi erano momenti in cui gli apparecchi erano talmente difficili che noi non riuscivamo, non avendo conoscenza operaia a questo livello. E allora ci aiutavano. Non infierirono mai né mai nessuno ci denunciò se non avevamo fatto ciò che ci veniva assegnato. Questo è da dire. Erano un tedesco e un alsaziano; l’alsaziano qualche volta riusciva persino a darci qualche notizia.

D: Cosa ti ricorda il natale del 1944?

R: Natale del 1944. Fu un giorno molto particolare. Eravamo in baracca; una notte noi italiane brontolavamo perché un gruppo di donne si era messo intorno alla stufa e stava chiacchierando. Alla fine ci siamo alzate e siamo andate a vedere cosa facessero. Facevano delle strane figure in carta argentata. La cosa ci stupì, anche perché non ricordavamo neanche più che fosse natale. Poi la sera un soldato portò un abete in baracca, le donne cominciarono subito a infiocchettarlo, di doni non ce n’era evidentemente, c’erano soltanto questi bei fiocchetti di carta stagnola. La capobaracca venne da noi italiane a chiederci se potevamo cantare la canzone di natale. Fra di noi c’era Maria Fasano di Torino che aveva una voce discreta, e cominciò a cantare Tu scendi dalle stelle, e per la prima volta sentii quella bellissima canzone tedesca, Stille Nacht, cioè notte silenziosa, cantata da queste donne. Fu una cosa tutta strana, tutta particolare: la baracca si allargò, si dilatò, anziché l’abete noi ricordammo i nostri natali fatti nelle nostre case, dove non c’era l’odore dell’abete ma il profumo del pino, perché da noi è il pino il simbolo del natale. E poi il fuoco, i mandarini attaccati all’albero, altri profumi, altre cose che però avevano lo stesso profumo di amore, era natale anche per loro.

Fino alla sera, perché poi tutto ritornò come prima. Quel giorno avemmo un pranzo particolare: polpette o hamburger col contorno di rape rosse. Io da quel giorno le rape rosse non le posso più vedere e gli hamburger li mangio proprio malvolentieri. Ad ogni modo ci venne dato questo. La sera però tutto ritornò come prima, la capobaracca ci diede il solito caffè, cercò di fare la cresta sopra la divisione del burro, e il giorno dopo ancora, il secondo giorno dovemmo far presto a ritirare la ciotola perché lei non gettasse dentro il suo cucchiaio tirando fuori dalla nostra zuppa quel piccolissimo filamento che dicevano fosse carne, ma che in realtà non so cosa fosse, per darla al suo gatto. Allora bisognava far presto, quando si vedeva che lei armeggiava col cucchiaio, a ritirare subito la nostra zuppa onde evitare un furto del genere.

Poi venne il primo di gennaio (1945). Ricordo che era nevicato la sera prima, e la neve si era subito ghiacciata. Ci chiamarono all’appello, ad un certo momento fu chiamato il mio numero: essere chiamati dal comandante del campo era una cosa terribile, perché da questa chiamata solo male ci si poteva aspettare. Io lì per lì quasi non capii, poi il capobaracca mi disse: “Guarda che ti chiamano”, e io mi avviai verso il centro del campo dove c’era il comandante che mi aveva mandato a chiamare. Ricordo in quei momenti il silenzio assoluto che si era venuto a creare nel campo: ognuna di noi sapeva che essere chiamato significavano botte, quando addirittura non significava camera a gas, perché come minimo potevi essere accusata di sabotaggio, il che comportava la morte.

Io nel tratto che feci non sapevo che cosa pensare, spaventatissima mi chiedevo che cosa mai avessi potuto fare, con chi avevo parlato, non riuscivo a capire. Non riuscivo capire, non avevo mia sorella CHE era in infermeria e non stava bene, perciò pensavo anche a lei. Ad un certo momento mi trovai davanti al comandante del campo, il quale mi guardò e mi disse: “Tua mamma è morta, e stai zitta, perché tua sorella è grave in infermeria”. Non capii subito quello che mi disse, me lo disse in tedesco, me lo ripeté in una forma più lenta allora io capii. Fui annientata, evidentemente, però capivo anche che dovevo star zitta, sì, perché quell’altra era grave in infermeria. Poi cominciai a piangere, mi riportarono a lavorare, perché evidentemente la morte della madre non doveva essere fonte di festa per un lavoratore.

Ricordo che mi si avvicinò quella soldatessa alla quale più di una volta io, mia sorella e un’altra ragazza francese, che aveva a sua volta la mamma in campo, avevamo chiesto di portarci a vedere la mamma: in fondo in fondo erano sì e no 5/600 metri da fare, non di più. Le promesse erano sempre state fatte ma mai mantenute. Perciò quando sentii questa donna che mi toccò quasi con un senso di condoglianza e di affetto, mi ribellai. Mi ribellai in malo modo perché mi venne da sputare, e lei era già pronta a qualche cosa di grave se non si fosse interposto il direttore della fabbrica, o perlomeno il capo della hall in cui lavoravamo; io non capii quello che si dissero, poi lei se ne andò e lui indifferente se ne ritornò al suo posto. Da quel giorno io dovetti lottare, lottare per mia sorella, e ad un certo momento una dottoressa polacca la rimandò in campo a lavorare, anche se non stava ancora bene. Ogni tanto lei mi diceva: “Ho sognato la mamma”, alla fine glielo dissi: quando la vidi un po’ più sulle gambe glielo dissi e accettammo.

Fu un dolore grande, che però non percepimmo subito, perché la morte lassù era una cosa normale, era una cosa, come posso dire, alla portata. Noi sapevamo come ci alzavamo la mattina ma non sapevamo neanche se saremmo andate a dormire la sera. Tutto potevamo aspettarci per noi stesse, era ormai diventata un’abitudine prendere le donne morte per i piedi e per le mani e metterle sotto la vasca del gabinetto, in maniera tale che la mattina fossero presenti all’appello. Era diventata un’abitudine scavalcare un cadavere, per noi era diventata una cosa normale. La morte stessa era diventata una cosa normale. E poi forse il fatto che non soffrivo più per lei, lei era morta, non mi dovevo più preoccupare per lei. Quando tornammo a casa, allora capimmo che cosa volesse dire essere senza mamma.

D: Nel marzo del 1945 il comandante cosa vi ha fatto fare?

R: Nel marzo del 1945 noi eravamo ancora alla Siemens, continuavamo a lavorare in condizioni precarie, anche perché non si poteva più lavorare, notte e giorno i bombardamenti erano continui; durante la notte bisognava stare anche con le luci spente, perciò il lavoro era nullo, o perlomeno molto ma molto lento. In quel momento vennero fuori dei manometri completamente diversi, molto grossi, molto difficili anche da equilibrare: avevano una sensibilità enorme, tanto che non riuscivamo neanche a metterli a punto perché non si riusciva. Avevamo avuto delle pinzette particolari per sistemare la lancetta, e delle macchine particolari per misurarne la forza. E non solo, guarda caso i pochi apparecchi che c’erano all’equilibrage non erano stati fatti in baracca. Avevamo intorno due o tre Meister i quali seguivano il nostro lavoro e cercavano anche loro forse di capire quello che stava succedendo. Durò poco questo lavoro, due o tre giorni, poi tutto scomparve. Il guaio è che alla fine di marzo / primi di aprile in baracca c’era poco da mangiare, anche alla Siemens c’era poco da mangiare, il lavoro stava finendo. Capivamo che la baracca cominciava a smantellarsi perché man mano in alcuni grandi capannoni le macchine venivano imballate e portate via.

Noi stessi dovevamo talvolta andare a prenderci dalla ferrovia i carri bestiame per portarli nel campo, vuotarli, il tutto a spinta perché la ferrovia non arrivava più, si vede che era stata interrotta dai grandi bombardamenti che giorno e notte si stavano susseguendo.

Ad un certo momento vedemmo scomparire anche i Meister.

Il primo di aprile entrò la Croce Rossa svedese, si limitò a stare ai margini del campo. Di questo ne parla anche Russell, dice che alla Croce Rossa non fu permesso di entrare in campo, però ci mandò un sacco divisibile per dieci, poca cosa, ma che ti dava una spinta. Capivi che qualche cosa si stava muovendo intorno a te, che non eravamo lasciate completamente sole e che quello che ventilavano i tedeschi, cioè di farci fuori prima della fine, forse non sarebbe successo.

Ai primi di aprile però ci ripresero e ci riportarono in campo, perché ormai la fabbrica si stava chiudendo.

D: Prima di ritornare al campo grande: quando eravate nella fabbrica Siemens, c’era qualche scritta con questo nome?

R: No, però sapevamo che era la Siemens. Scritte non ce n’erano, però sapevi di andare alla Siemens. Era il campo Siemens.

D: Ad un certo punto hanno distribuito dei marchi a voi deportati, te lo ricordi?

R: Sì sì, lo ricordo perfettamente, anche se non tutte se lo ricordano, e la cosa mi sembra strana. Una mattina ci fecero passare una per una davanti ad un grande tavolo, dietro al quale erano seduti il direttore ed altri funzionari della fabbrica. Guarda caso prima arrivarono le polacche, e io mi trovavo purtroppo tra le prime, perché ero tra le prime a lavorare lì nella baracca. Mi diedero questi marchi, ma non erano proprio marchi bensì dei cartoncini con sopra scritto “Buono” in tedesco; figurati se sapevo cosa volesse dire! Chiesi a che cosa servissero e mi risposero che con quei marchi potevo andare allo spaccio e prendere rossetto e borotalco. Lo spaccio non l’avevo mai visto in quei mesi perciò non esisteva; non avevo sapone, non avevo neanche asciugamano, avevo, scusate, le mutande che mi avevano lasciato ad ottobre ed erano sempre quelle: era inutile che mettessi il rossetto! Rifiutai perché mi sentii presa in giro. Rifiutai e dietro di me tutte le altre rifiutarono perché era una cosa assurda dare questi marchi.

D: Sei mai stata sottoposta alle selezioni?

R: Le selezioni, sì, erano una cosa proprio terribile. La prima selezione la subimmo proprio prima di partire da Siemens. Al momento del rientro dalla fabbrica in baracca ci trovammo davanti, fermi, alcuni infermieri, dottori, il camice bianco ce l’avevano, e una specie di camion contrassegnato di bianco. Ci fecero passare una per una e cominciammo a vedere destra e sinistra. Una francese dal campo mi vide; era un periodo in cui io avevo un paio di scarpe l’una col tacco alto l’altra col tacco basso, l’una piccola e l’altra grande, perciò camminavo zoppa; la francese mi disse: “Bianca, attention, selection“. Capii che sarebbe andata male per me se mi fossi presentata nelle condizioni in cui ero: mi tolsi le scarpe, mi tirai su i vestiti, in maniera tale che potessero vedere che camminavo bene, e mi avviai, col cuore stretto perché davanti a me c’era mia sorella. Fintanto che lei non passò e non passò dalla parte giusta, la cosa mi colpì, ero proprio in ansia. Alla fine arrivai con le mie scarpe in mano, mi guardarono, mi diedero una bella sberla sopra la testa e mi avviarono verso mia sorella.

La seconda selezione la avemmo dopo che dalla Siemens fummo portate nel campo grande, e io e mia sorella andammo ancora a lavorare nella fabbrica di sartoria che era lì attaccata alla Siemens. Lì subimmo una seconda selezione. Anche lì andò bene. Ci scoprirono tutte, eravamo coperte di piaghe, ma per fortuna a questo non posero mente, guardarono soltanto se eravamo ancora capaci di camminare, poi capimmo il perché. Ci misero nella parte giusta.

Le selezioni distruggono proprio la personalità dell’uomo, ti fanno avere delle reazioni terribili poi dopo.

D: Ravensbrück era un campo tutto femminile.

R: Il campo di Ravensbrück era un campo esclusivamente femminile, gli uomini non li abbiamo mai visti. Abbiamo saputo dopo che c’era anche un piccolo campo che molto probabilmente serviva da supporto per i lavori che le donne non sarebbero state capaci di fare. Ma noi non sapevamo che ci fossero uomini.

D: In tutto il tuo periodo di deportazione tu, tua sorella e le altre donne, come faceste con il ciclo mestruale?

R: Non esisteva più. Appena entrate ci tolsero tutto quello che ci poteva essere necessario. Loro sapevano che non ci sarebbero stati problemi in questo senso, e basta, finì. Ricomparve 3 o 4 mesi dopo la liberazione, senza problemi anche dopo perché io, mia sorella ed altre amiche abbiamo avuto figlioli in maniera regolare.

D: Pasqua nel campo.

R: Pasqua fu in campo, sì. Per pasqua con le francesi riuscimmo ancora a riunirci e a dire una preghiera, perché l’uomo spera sempre con un miracolo di cambiare la propria vita, di indirizzarla con l’aiuto di Dio verso un qualche cosa di più giusto. Chiedevamo l’aiuto di Dio per migliorare la situazione, e poi anche perché la fede che ci aveva sempre accompagnato non si era mai affievolita. Con le francesi riuscimmo a fare una piccola cerimonia, nascosta evidentemente, perché sarebbe stata oggetto di una terribile punizione; non si poteva nella maniera più assoluta, però ce l’abbiamo fatta.

D: Ritornate al campo grande …

R: … ritornate al campo grande, ritrovammo il caos. Il campo era sovrappopolato, erano arrivate deportate da tutte le parti dell’est perché i campi erano stati evacuati, non arrivava più nulla da mangiare perché tutto intorno la ferrovia era stata distrutta, e molto probabilmente non c’era più niente neanche da mangiare nella stessa Germania. Le donne si accalcavano l’una contro l’altra, bisognava lavorare senza mangiare, ma le donne ormai erano debilitate da mesi di fame, di paura, di malattia; e morivano. Io ricordo mucchi di cadaveri davanti al forno crematorio, io ricordo la debolezza di queste donne che si trascinavano per cercare di continuare a lavorare, per cercare di sopravvivere; capivamo che ormai potevamo essere liberate da un giorno all’altro e la fine della tortura sarebbe venuta in poco tempo; volevamo continuare a vivere forse proprio per questo. Sentivamo già in un certo qual senso i rumori del fronte che si stava avvicinando, però la vita era diventata impossibile, nella maniera più assoluta. Eravamo ridotte al lumicino, nessuna riusciva più a sorreggersi, tant’è che io e mia sorella in queste condizioni fummo mandate ancora a lavorare nella fabbrica di divise, ci stemmo un giorno e poi fummo chiuse nella baracca.

Restammo chiuse in baracca per circa una settimana, e quando ne uscimmo non sapevamo neanche più camminare, non potevamo più reggerci in piedi perché, come ci mettevano all’appello, le gambe si gonfiavano e si cascava. In queste condizioni fummo di nuovo messe all’appello tra la sera del 26 e del 27 aprile, quando ormai si cominciava già a sentire i cannoni russi avvicinarsi. Capimmo subito che gli ordini erano contraddittori, chi urlava da una parte e chi urlava dall’altra. La maggior parte delle donne SS non esisteva più, erano venuti dei soldati SS prima e Wehrmacht dopo. Mentre eravamo lì cominciammo a vedere del fumo che saliva dalla parte alta del campo, avemmo paura, perché pensavamo che coi lanciafiamme avrebbero messo in atto quello che avevano sempre detto di fare, cioè la completa uccisione di tutte. Perciò avemmo una paura enorme, poi alla fine lasciammo nel campo quelle che non potevano più camminare. Noi fummo messe in strada per cinque. Scortate dai soldati della SS e dai cani. Chiunque si fermasse, ce l’avevano già detto, sarebbe stata uccisa con un colpo alla nuca. In queste condizioni, camminammo praticamente tutto il giorno, la sera cominciò a sparare la contraerea prima di tutto, cioè i mosquitos cominciarono ad arrivare a mitragliare. Dietro avevamo i cannoni russi che sparavano a misura d’uomo, ne avevamo visti uccisi di tedeschi. Io, mia sorella e altre donne, di cui tre slave e una ungherese, ci tenemmo insieme e camminando raggiungemmo un posto per noi quantomai sicuro, in mezzo ad una foresta.

Ci mettemmo sfinite ai piedi di un albero e con una coperta sotto e una sopra cercammo di dormire.

La mattina sentii un colpo alla spalla e un russo mi offrì una gamella di caffè. Io felice e contenta gridai: “Sono arrivati i russi!”, e lui mi disse: “No, son prigioniero anch’io, però i tedeschi mi hanno detto di portarvi questo”, e diede a tutte un po’ di caffè caldo. Durante la notte eravamo state circondate letteralmente dai carri armati e non ce ne eravamo accorte; sembrava di aver camminato per delle ore, ed in realtà ci eravamo allontanate dalla strada solo qualche centinaio di metri, tanto che la mattina dopo i cani e i Posten (sentinelle) ci rimisero in marcia e per sette giorni camminammo. Alla fine ci fecero riposare su una piccola altura. Posten e cani con noi. Ad un certo momento vedemmo passare lungo la strada una macchina che non avevamo mai visto, contrassegnata da un disegno che non avevamo mai visto. Era una grande stella bianca, con sopra una scritta che abbiamo letto in buon italiano mibabi. Lì per lì non riuscivamo a capire, perché, è vero che qualcheduna di noi sapeva anche l’inglese, mia sorella per esempio, eravamo talmente stanche e sfinite da non riuscire neanche a connettere veramente quello che ci stava succedendo.

Alla fine mia sorella disse: “My baby ma sono americani!” Infatti li guardammo ben bene, la divisa era diversa, l’elmetto era diverso. Ci precipitammo tutte giù, sperando di trovare qualcosa da mangiare perché era da sette giorni che non si mangiava, e si beveva l’acqua che trovavamo per strada.

Chi ci vide era un ufficiale, ci guardò esterrefatto, ci chiese che cosa volessimo, e l’unica cosa che gli chiedemmo “pane”. Da mangiare non poteva darcene, erano ancora in formazione per l’occupazione del territorio e per ricongiungersi ai russi che distavano poche centinaia di metri. Ci diede delle sigarette, e noi ci accontentammo di quelle, però poi abbiamo aspettato gli eventi. Ad un certo momento vedemmo gli americani retrocedere e avanzare invece una colonna di russi.

Ci trovavamo nel punto di contatto tra americani e russi. Poi gli americani lasciarono il posto ai russi.

A questo punto eravamo talmente stanche, vedemmo un fienile; strano a dirsi, ma entrammo tutte lì dentro e dormimmo.

Non so cosa sia liberazione; per me era finito l’incubo della stanchezza, della paura, della fame, di tutto; la libertà è cominciata con un gran sonno liberatore, dentro un fienile insieme a tanti altri. Abbiamo scoperto dopo che dentro quel fienile eravamo più di un centinaio, tutti addormentati, tutti a riposarci delle fatiche che avevamo dovuto affrontare. Dopo di che io e mia sorella quando ci risvegliammo ci rimettemmo in strada, con una fame …. Mia sorella non stava bene, ci fermammo, io vidi passare un camion di francesi che stava radunando tutti i connazionali per portarli in zona americana. Mi sono fatta passare per francese: “Je suis française!”, feci salire mia sorella, sali anch’io, arrivammo in zona americana.

Dopo di che mi affidai ai compagni di prigionia italiani, e con loro poco per volta ritornammo a casa.

D: E’ stato allora che hai potuto scrivere a casa che eravate salve?

R: Lì era passata la Pia Opera Pontificia, ce l’ho ancora quel documento in cui si diceva che le due sorelle erano sane e si trovavano nella zona di …

D: Da lì siete arrivate a casa?

R: Da lì siamo arrivate a casa. Poi è cominciato veramente un muro di silenzio.

Avevamo capito che c’era un qualche cosa che non quadrava: come arrivammo, trovai una strana telefonata che mi diceva: “Io sono il tale e ti sposo”. Non capii lì per lì, la presi per una telefonata sciocca, non sapevo.

Poi capii. Quando sei giovane e sei fuori, se ritorni qualche cosa devi aver fatto per ritornare.

Siccome questo non era vero, e siccome addirittura si pensava che io e mia sorella fossimo incinte, cosa che mai più immaginavamo, si alzò proprio un muro tra noi e gli altri, gli altri che hanno pensato ma che non hanno cercato di sapere quello che hai sofferto. Per farsi quasi come una specie di … coscienza dicono: “Si sono salvate così”

No, io e mia sorella abbiamo chiuso.

E’ stato poi difficile tornare a vivere e a parlare, però ce l’abbiamo fatta, anche perché c’era da lavorare, eravamo rimasti 4 ragazzi soli, in una casa completamente svaligiata dai fascisti, completamente distrutta dalle bombe americane, non avevamo neanche gli abiti per cambiarci: tutto era stato portato via.

Bisognava ricostruire, secondo quello che ci avevano insegnato mio padre e mia madre, con onestà, con serietà, con dignità soprattutto, la vita che loro ci avevano insegnato a fare. Il compito è stato mio e di mia sorella, perché i due ragazzi che avevamo lasciato avevano subito anche loro degli shock tali per cui non avevano trovato dentro di loro, come invece noi, la forza di ricostruire. Dopo ci riuscirono anche loro, evidentemente. Poco per volta ci ricostruimmo la casa, finimmo i nostri studi, ritornammo a vivere, ma è stato dopo anni.

Devo dire grazie a una mia carissima amica, Lidia, che mi ha imposto di ricominciare a parlare altrimenti non avrei mai parlato, perché se tu parli, parli a chi ti vuole ascoltare, non a chi ti vuole ascoltare avendo orecchie già tese verso altre cose.

D: Poi hai scoperto chi ti aveva telefonato?

R: Sì, era uno slavo scappato in montagna dopo essere stato soldato tedesco, ed era stato compagno dei miei fratelli, anzi lo consideravo quasi come un altro fratello, tanto è vero che dopo la liberazione mio fratello lo aveva portato a casa nostra.

D: Quale fu il destino del fratello arrestato?

R: Del fratello arrestato non sapemmo più nulla. L’abbiamo atteso, atteso, atteso, atteso, ma nessuno voleva darci notizie. Alla fine Italo Geloni, che aveva condiviso con lui tutti i giorni della deportazione, con lui nel Lager di Flossenbürg, mi disse: “E’ inutile che lo aspetti, mi è morto tra le braccia”.

Sapemmo anche la sua tragica fine: venne ucciso a suon di botte da un soldato tedesco al quale inavvertitamente aveva pestato un piede.

D: Scusa Bianca, ancora una cosa che riguarda il campo di Ravensbrück: ricordi come era il Wascheraum, come erano i servizi?

R: Il Waschraum nel campo grande era una grande baracca divisa in due grandi camerate: al centro c’erano una decina di lavandini e una decina di gabinetti. Ogni baracca conteneva 500 donne, perciò 1000 donne alla mattina dovevano gravare su 10 lavandini e i lavandini erano piccolissimi, e 10 gabinetti. Bisognava farlo.

Invece nel campo Siemens era una grande stanza al centro della quale c’era una buca con intorno un muretto di cemento. Alla sera era il ritrovo di tutte: c’erano le russe che facevano le danze, le polacche che cantavano, le slave che si muovevano al suono di una canzone slava. E noi trascorrevamo venti minuti in questo soggiorno che però era anche in un certo qual senso un centro di raccolta.

D: E’ lì che andavi con nelle tasche del cappotto …

R: No no, quello che non riuscivo a fare perché era troppo difficile e che nascondevo nelle tasche, gettavo nel Waschraum, cioè nel gabinetto, della fabbrica: consisteva in due cubicoli di legno con un buco al centro. Speravo che nessuno avrebbe mai trovato niente.

D: Cosa gettavi?

R: Ci gettavo quegli apparecchi che non mi venivano. Se non ne facevo 30 ero punita, ma gli apparecchi erano molto difficoltosi, io dietro ad uno sono stata anche due ore. Come facevo a farne 30? Allora

quelli che non mi riuscivano …

D: Ricordi se a Ravensbrück, oltre alle baracche, c’era anche campo tende o una tenda?

R: Io ricordo una tenda dentro la quale erano state messe delle zingare, però il ricordo è molto vago. Noi siamo uscite da Ravensbrück ai primi di novembre del 1944, per quanto posso capire la tenda nera venne messa dopo. Io ricordo una tenda bianca, anche perché vi fui portata, anche mia sorella.

Fui fotografata di profilo e davanti, con il numero. Io me lo ricordo, anche mia sorella, ma non tutte lo ricordano. Io, mia madre e mia sorella di sicuro.

D: Il tuo numero di Bolzano lo ricordi?

R: Non me lo ricordo, mi pare che sia sul quattromila ma direi una bugia, perché proprio non me lo ricordo. A Bolzano non bisognava mai rispondere col numero, perciò era inutile impararlo a memoria, e poi era un numero che praticamente ho portato soltanto per dieci giorni.

D: Nel marzo del 1945 in fabbrica avevate combinato qualcosa per cui il comandante vi ha mandato fuori?

R: No, non nella fabbrica; eravamo nel campo. Era domenica, e siccome era già 3 o 4 domeniche che ci facevano andare a togliere l’acqua dai bunker della SS, la cosa era pesante. Anche perché, guarda caso, tutti i buglioli con i quali dovevamo togliere l’acqua erano un po’ difettosi, o spruzzavano acqua da una parte, perciò quella mattina cosa avevamo fatto? ce ne eravamo andate nel Waschraum per le pulizie e c’eravamo spogliate nude per cercare di lavarci. Il comandante del campo aveva capito tutto, allora venne dentro con la frusta e ci fece uscire, facendoci stare in appello per 4 ore di fila.

La cosa fu un po’ pesantina.

Tedeschi Natalia

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Natalia Tedeschi, sono nata a Genova il 19 giugno 1922.

Sono di famiglia ebrea. Una famiglia della media borghesia piemontese, perché dal 1925 ci siamo trasferiti a Torino. I miei fratelli quando è il momento delle leggi razziali erano tutti e tre all’università e io nel 1938 – avevo 16 anni – ho dovuto interrompere gli studi. Poi con tutte le varie vicissitudini della guerra siamo sfollati con la mia mamma e la mia nonna a Saluzzo, in provincia di Cuneo, sempre in Piemonte.

Lì abitava una sorella di mia nonna e allora pensavamo di essere abbastanza tranquilli e anche di evitare i bombardamenti sulla città.

Dei miei fratelli uno era andato con i partigiani al momento delle leggi razziali, uno era nascosto a Torino e l’altro era andato in Svizzera. Io sono rimasta sola con mia mamma e con mia nonna, convinte però di essere abbastanza in una botte di ferro in quanto mio fratello che era nei partigiani, e che era venuto pochi giorni prima del nostro arresto a trovarci, aveva detto: “Non preoccupatevi: qualsiasi cosa dovesse capitare, noi veniamo a prendervi!” Non è potuta succedere e non è successa.

E un giorno che eravamo a Saluzzo in albergo io sono scesa nella hall di questo piccolissimo albergo e sono arrivate due SS italiane. Sento che dicono: “Siamo venuti ad arrestare quella famiglia di ebrei”. Io sono corsa immediatamente a avvisare mia mamma e mia nonna, e ancora adesso penso che forse, sapendo che eravamo lì, penso ma con molto ottimismo solo adesso, che forse han voluto darci tempo di metterci in salvo: forse, perché essendo un alberghetto piccolissimo avevano solo da salire una piccola rampa di scala e ci avrebbero preso. In questo albergo proprio minuscolo c’era una seconda uscita che dava sulle scale: abbiamo raccolto le nostre poche cose e siamo salite fin su al quarto piano occupato dalla gente del posto che ci aveva dato ospitalità, però solo per certe ore, non potevano darci ospitalità per sempre. Allora si sono poi convinti, compreso l’albergatore che era venuto in aiuto, a chiamarci un taxi e a farci accompagnare a Sampeyre, in Valle Varaita, sempre in Piemonte. Solo che, non sapendo che cosa sarebbe successo di noi dopo, ci hanno messo un po’ nella trappola dei topi, perché essendo in valle si poteva eventualmente andare su ma non si poteva più scendere.

D: Quando è successo?

R: Questo è successo nel febbraio del 1944. Noi siamo stati a Sampeyre con mia mamma e mia nonna – anche lì in un piccolo alberghetto – per un periodo di tempo, poi sono arrivati i partigiani e noi più che mai ci sentivamo tranquilli, perché ce n’erano anche tanti ben armati e ben attrezzati; eravamo tranquillissimi. Solo che purtroppo invece da valle sono arrivati i tedeschi e hanno cominciato a salire nella vallata. Cosa potevamo fare? Ci siamo portati, sempre con i partigiani, ancora un po’ più verso il confine con la Francia, ma lì c’è stata una carissima persona, un certo Flaminio Gazzano, che era guardia di finanza, che ci aveva visti a Saluzzo e ci ha denunciati. Ci ha denunciati per la somma di lire 5.000, ci ha denunciati ai tedeschi che erano saliti su in vallata. Avevamo carte false, ma appena fatte, e poi non avevamo mica niente da nascondere noi; siamo stati un po’ presi anche alla sprovvista perché appena arrivato il comando tedesco, ha detto: “Tenetevi a disposizione ché all’una di questa notte veniamo a prendervi.”

Allora sono venuti a prenderci; eravamo a Casteldelfino, sopra, vicino al confine, e avevano anche detto che io facevo parte dei partigiani. Allora sarebbe stato ancora più grave per me, perché forse mi avrebbero potuto passare alle armi subito. Lì ci hanno caricati e portati sotto a valle a Venasca dove siamo stati per 3 o 4 giorni, non ricordo esattamente, ospiti delle scuole di Venasca; di notte dormivamo sui tavolacci.

Abbiamo dormito sui tavolacci delle celle di sicurezza, in promiscuità con tutti quelli che avevano rastrellato nella vallata. Poi una mattina ci hanno caricati in treno e ci hanno portati all’Albergo Nazionale di Torino, dove ci hanno spogliato di quelle poche cose preziose che avevamo – ben poco – e dopo ci hanno trasferito alle carceri, alle Nuove di Torino.

D: L’Albergo Nazionale era sede di qualcosa?

R: Era sede del comando delle SS. Lì ci han fatto un brevissimo interrogatorio, perché c’era poco da chiedere: eravamo ebree, mica ci eravamo nascoste sotto altri nomi, eravamo ebree e non sapevamo, per fortuna forse, cosa il destino ci avrebbe ancora procurato. Siamo poi passate alle Carceri Nuove di Torino, dove siamo state per 20 giorni; io ero in cella con mia mamma e mia nonna – io sottoscritta e due altre persone – in quelle celle tremende, tremende perché eravamo proprio in carcere stretto e con solo la compagnia delle cimici: ce n’erano a profusione, specialmente di notte. Avevamo un’ora di aria, e io, tanto per togliermi dalla cella, la sera andavo a sentire la messa, anche se a me la messa non è che interessasse molto, era tanto per togliermi dalla cella. Nella chiesa delle carceri c’erano piccolissime cellette, come fosse stato un alveare, con piccole finestrelle ovali dove tu potevi stare unicamente inginocchiata su un’asse di legno. Così sono passati 20 giorni sino a quando un mattino ci hanno caricato su un pullman, non era un pullman era un camion, ci hanno portate a Porta Nuova, a Porta Nuova su un treno e siamo scesi a Fossoli, nel campo di raccolta di Fossoli.

D: Questo quando è avvenuto?

R: Questo è avvenuto, io penso, ai primissimi di marzo (1944). A Fossoli siano stati 20 giorni, senza naturalmente sapere assolutamente – con un’incoscienza unica – cosa sarebbe stato di noi, senza avere notizie dei miei fratelli, assolutamente non sapevo niente. Non sapevamo niente. Vivevamo proprio in una specie di torpore, di incoscienza, ma non solo noi tre, la mia mamma e la mia nonna, ma tutti, senza sapere cosa ci aspettava domani, così: non dico neanche con filosofia ma proprio con incoscienza.

D: A Fossoli vi hanno messo nel reparto delle baracche o nel reparto tende?

R: No no, nelle baracche, eravamo nelle baracche.

D: Vi hanno immatricolato a Fossoli?

R: No no, nessuna immatricolazione. So che c’erano campi dei politici, noi eravamo nel campo dei razziali, e siamo stati lì 20 giorni. Se si pensa adesso, a distanza di tempo, naturalmente era non dico proprio un paradiso ma, in confronto a quello che ci aspettava dopo, poteva essere non so, una pensione, una buona pensioncina. Siamo stati lì altri 25 giorni, con un certo trattamento; non si lavorava, da mangiare ce n’era a sufficienza, avevamo ancora i nostri vestiti, le nostre cose; una mattina ci hanno caricati sui carri bestiame, partenza con destinazione ignota: non si sapeva assolutamente. Però da quel poco che avevamo saputo si pensava di andare in Germania in un campo di lavoro, perché tutti dicevano che la nostra fine sarebbe stata quella.

D: Dal campo di Fossoli vi hanno portato alla stazione di Carpi?

R: Io penso di sì, perché lì non c’erano mica le rotaie, ci hanno portato alla stazione di Carpi e lì è stata l’ultima volta che ho visto mia nonna. Mia nonna da sposata faceva Sacerdote, noi invece Tedeschi: è salita nel vagone prima e non l’ho più vista, io ero con la mia mamma.

D: Cioè, venivate divise?

R: Per ordine alfabetico. Ci chiamavano per ordine alfabetico.

D: E questo “Transport” quando è avvenuto?

R: Il 16 maggio (1944), ed è stato il “Transport” più lungo che c’è stato: io sono arrivata a Birkenau il 23 maggio, è stato il più lungo di tutti, non so per quale motivo. Ad Innsbruck è stato diviso il convoglio, e noi abbiamo impiegato ben 8 notti e 7 giorni.

D: In quanti eravate sul tuo vagone, se ti ricordi?

R: Più o meno saremmo stati una ottantina, tutti stipati.

D: Tutte donne?

R: Io penso di sì, di quello ho un ricordo un po’ vago. Quello che rimpiango molto è che tutte queste cose, se avessimo potuto dirle appena tornate, con la memoria più fresca, e con tutti i ricordi più freschi, sarebbero state diverse. Io rimpiango moltissimo che questo interessamento per noi sia arrivato quando noi siamo proprio ormai al lumicino. Saranno stati motivi politici, saranno stati motivi che noi non sappiamo. Anche per il viaggio che ho fatto ad Auschwitz, le carissime insegnanti di Moncalieri ed i loro allievi han dovuto documentarsi, perché a loro volta non sapevano assolutamente niente; sono stati bravissimi perché hanno fatto delle dispense, cose eccezionali, ma a loro volta non sapevano niente, perché a scuola finiva tutto alla prima guerra mondiale. Della seconda guerra mondiale assolutamente niente.

D: Allora il tuo “Transport” dopo 8 giorni.

R: 8 notti e 7 giorni; sono arrivata a Birkenau di notte.

D: Il vagone è entrato dentro?

R: Io direi che è entrato dentro, sulla banchina, e siamo arrivati di notte. Siamo stati nei vagoni fino al mattino dopo, quando poi hanno aperto il portellone del carro bestiame. Siamo scesi, tutti questi ordini in tedesco che non si capivano, abbiamo solo capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli perché qualcuno, forse qualche interprete o qualcuno dei prigionieri che sapeva il tedesco, aveva capito che le nostre cose ci sarebbero poi state restituite in un secondo tempo. E noi anche lì abbiamo creduto. Poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, le persone meno giovani, gli uomini dalle donne, quelli che potevano entrare in campo o meno. Io sono sotto braccio a mia mamma, la mia mamma che non aveva ancora 50 anni, ne aveva 49, mi è proprio stata strappata dal braccio: è una sensazione che ho ancora adesso, sento il suo braccio che trema. Mi è stata staccata e io sono andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza che io me ne rendessi conto, è stata divisa.

Quando poi sono entrata in campo, dopo che ci hanno tolto completamente tutto, anche i vestiti che avevamo addosso, tutto completamente, quel poco che c’era rimasto … ci hanno tatuato il numero sul braccio, il mio numero è: A 5404, e siamo entrati in campo.

Io appena entrata in campo, dopo pochissimo, forse il giorno dopo, no il giorno stesso, vedo mia cugina Giuliana Tedeschi. Era stata deportata con mio fratello Vittorio; mio fratello era nei partigiani ed era stato denunciato da un amico suo che era nei partigiani con lui: e l’ha denunciato come ebreo. Poi il destino ha voluto che lui sia morto il 25 aprile, il giorno della liberazione, a Mauthausen e questo amico che l’ha denunciato, non so per quali motivi, non l’ho mai voluto sapere, è morto a sua volta a Mauthausen: evidentemente qualcuno ha denunciato anche lui.

Ad ogni modo, entrando in campo vedo mia cugina che era venuta a Birkenau col marito e a Fossoli si era trovata anche con mio fratello, mio fratello che oltretutto aveva anche un braccio ingessato al collo. E mia cugina entrando mi dice: “Ma sei sola?” io ho detto: “No, sono arrivata con mia mamma e mia nonna, ma la mamma e la nonna sono andate in un altro campo”. E lei mi ha detto subito: “Toglitelo dalla testa perché di altri campi non ce ne sono”. Allora sono entrata in campo.

D: Quando tu dici che sei entrata nel campo, era il campo femminile?

R: Il campo femminile di Birkenau.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: Io penso che sia la baracca numero 10, che c’è tuttora. Però tu capisci che a distanza di tanti anni, di tanti anni, tante immagini si sovrappongono, e poi dei ricordi che ti sembrano nitidissimi, per me qualcuno lo è senz’altro, invece non lo sono. Appunto perché sono passati troppi anni.

D: Natalia, l’immatricolazione: ti ricordi come ti hanno tatuato il numero?

R: Sì, me lo ricordo benissimo. C’era una addetta a questo lavoro che aveva una piccola penna in mano con un pennino che finiva con uno spillo, e questo spillo era intinto in un inchiostro speciale; veniva tatuato il braccio in quel modo.

D: Lo facevate in piedi o sedute?

R: In piedi, non c’erano mica sedie, eravamo messe così su questa specie di scrivania, di tavolo che c’era, figurati se sedute! Le sedie in campo non sapevamo cosa fossero.

D: E veniva registrato il vostro numero?

R: Io penso di sì, però non ne sono sicurissima. Penso che se la Croce Rossa di Arolsen riporta il numero del tatuaggio è perché ha trovato dei registri, qualcosa con segnalate e registrate queste numerazioni.

D: Quando ti hanno tatuato c’era qualcuno che aveva in mano un elenco? vi chiamavano per nome? te lo ricordi?

R: Non ricordo; io credo che entrassimo così, perché i nomi lì non esistevano mica, li abbiamo dimenticati, almeno loro li hanno dimenticati completamente. No, io credo che siccome eravamo tutti incolonnati, man mano che si passava davanti a questa che faceva i tatuaggi poi si andava alle docce.

D: E dopo, la vestizione?

R: La vestizione è stata una cosa tragica per i vestiti stracci; noi non avevamo divise, assolutamente niente. Io per tutto il tempo che sono stata a Birkenau ho sempre avuto una scarpa e uno zoccolo, non ho mai avuto un paio di scarpe uguali. Poi dirò dopo. Poi degli stracci addosso, proprio stracci; siccome ci veniva tolta tutta la roba che arrivava con noi, veniva tutta mandata in Germania, proprio gli stracci, quelli che erano inservibili, servivano per coprire noi. Io mi ricordo una mia amica – si finiva persino a ridere in quella tragedia – che, poveretta era del mio trasporto mi pare, no no l’ho trovata lì, aveva un abito da sera. Quello era proprio il massimo spregio.

I capelli li han poi tagliati dopo, perché come sono entrata in campo mi aveva detto tutte: ricordati di morire in campo se devi morire ma non passare al Revier, perché se vai al Revier non esci più. E io disgraziatamente ho avuto un’infezione alla gamba, e non camminavo più, ho dovuto andare al Revier per forza, perché dico: “Tanto, per morire qui vado a morire nel Revier.” Ho cominciato con una piccola vescichetta sulla caviglia e nel giro di 24 ore è diventata una cosa enorme, la gamba è diventata enorme, avevo un’infezione terribile, dico: “Camminare non posso camminare, vado in Revier“. Dopo pochissimo che ero arrivata a Birkenau, proprio due o tre giorni, il nostro lavoro era stato quello di trasportare pietre. Trasportavamo le pietre da un mucchio lontano su un altro mucchio, poi viceversa. Ad ogni modo io entrata in Revier ho detto: “Se è la mia ora …”. A parte il fatto che l’idea della morte non c’era mai, forse perché eravamo molto giovani, forse sarà stato pure quello, ho detto: “Sì, per morire vado a morire in Revier“. Non è che avessi la convinzione di morire, era tanto per dire qualcosa. Allora sono entrata in Revier, sono stata seduta su una specie di sedia, io con la gamba alzata, e ho fatto per terra una pozza di sangue, di pus, di tutto quanto, e mi hanno messo intorno alla caviglia della carta igienica, poi mi hanno mandato nuda come un verme in quei castelli di legno con una che aveva il tifo. E noi tutte e due nude per 10 giorni, nude completamente, con questa che aveva il tifo che naturalmente si sporcava in continuazione, e con un’unica coperta. Quando ho chiesto, mi son fatta capire, di poter cambiare questa medicazione – chiamiamola pomposamente medicazione – era venerdì quando sono entrata in Revier, mi han detto: “Fino a martedì non si cambia”. Puoi immaginare quella carta cosa era diventata; se l’infezione c’era prima, dopo pensa cosa poteva capitare. E tu pensa che sono stata in Revier immobile per 40 giorni, e per 40 giorni tutte le mattine è entrato Mengele, tutte le mattine. Sai chi era Mengele? era l’angelo della morte, elegantissimo, un bellissimo uomo, elegantissimo col frustino in mano che segnava così nei vari castelli chi doveva andare alla selezione. Non penso se dietro qualche segnalazione dei più gravi, però andavano, le selezioni avvenivano così. Poi tu sai benissimo che chi doveva andare alla selezione, che doveva morire, era messo in un blocco particolare per 3 giorni, e per 3 giorni aveva un supplemento di viveri. Uno dice, perché? In campo c’erano tanti perché ma non c’era nessuna risposta a questi perché.

Quando sono uscita dopo 40 giorni miracolosamente dal Revier naturalmente non riuscivo a camminare, per via dei 40 giorni di immobilità; sono uscita ancora con una cicatrice lunga 5-6 centimetri, una ferita aperta, e mi hanno messo in un blocco di francesi dove c’erano anche delle italiane. C’era un’italiana di Venezia, Enrichetta Polacco, non so se l’avete sentita, solo che poverina adesso non può più testimoniare; era un tipo in gambissima, con una grinta, era arrivata già 2 mesi prima, sapeva come si svolgeva la vita in campo. Io mi era lasciata andare perché, uscendo dal Revier, non avevo più forze, non potevo stare in piedi, quando mi sedevo per terra e quando mi alzavo tutte le ossa scricchiolavano come se fossero state senza lubrificazione. E questa ha parlato con una certa Rosi, una polacca che lavorava alle cucine, l’ha impietosita, era una deportata, e le ha detto: “Senta, faccia venire anche la mia amica a lavorare con me”, così mi ha lasciato andare. Lei da buona veneta mi diceva: “Vergognati, guardati, con tutta quella ciccia che ti gà, se ti devi far questo, muoviti, lavati”. Le devo molto perché proprio mi ha dato una scossa. Dopo entrata in campo ho saputo che mia mamma e mia nonna erano passate per il camino; quando l’ho saputo ero in Revier, non l’ho saputo subito: ho pianto un giorno e una notte consecutiva. Da allora non so più piangere, assolutamente. Mi posso commuovere, ma le lacrime niente, assolutamente non piango più.

E allora sono andata a lavorare nelle cucine. Il lavoro era un lavoro anche abbastanza fortunato, perché prendevamo i bidoni di zuppa quelle lamiere per infilare i bastoni dentro. Portavamo da mangiare al Revier. Io non sono mai uscita dal campo a lavorare, e quella è stata una fortuna perché poi oltretutto non è che fosse un lavoro continuativo, si portava nelle ore dei pasti. Qualche volta, ma molto molto raramente, ci restava qualcosa sul fondo del barile, ma proprio pochissimo.

Andando in Revier, una delle cose, un ricordo molto terribile, è che c’erano le donne che avevano partorito la notte e che c’erano tutti questi esserini messi in fila su una specie di – neanche davanzale, come si può dire? – un ripiano, erano tutti lì che si muovevano, non erano ancora morti, si vede che qualcuno o era nato dopo o era più forte degli altri e stentava a morire. C’erano tutti quei cadaverini di bambini lì davanti al Revier, diciamo.

Io sono stata lì facendo quel lavoro fino a quando un mattino c’è stato un appello particolare.

D: Un attimo Natalia, tu prima dicevi: “andare alla selezione”. Esattamente cosa vuol dire “andare alla selezione”?

R: Andare alla selezione vuol dire che tu eri segnata, eri predestinata ad andare ai forni crematori. Cioè ti mettevano in un blocco particolare, come ti ho detto ti davano il supplemento di vitto, e poi dopo c’era un … particolarmente di notte; sentivi tutte queste creature caricate sul camion che urlavano perché sapevano che andavano a morire. Di Torino c’era stata una certa Vanda Maestro, non so se l’avete sentita nominare, che era ebrea e credo fosse anche partigiana, e che è morta in quel modo. La cosa tremenda è che tu sai quando sei in quel blocco per 3 giorni che devi andare ai forni crematori.

C’era questo Block… particolare, non potevi uscire, assolutamente neanche a fare pipì fuori, perché fuori dalle baracche c’erano i contenitori e guai a te se arrivavi come ultima: dovevi prendertela e andarla poi a svuotare nel Waschraum.

D: Dicevi di quell’appello …

R: Questo appello, questa cosa particolare. Io avevo la febbre, avevo la febbre altissima, ma tu capisci che lì né si aveva radio, né si aveva l’orario, un orologio che fosse un orologio non c’era, non ricevevi posta da nessuno, non avevi notizie, c’era solo una simpaticissima ungherese che era Pagni Margaret, la zia Margaret la chiamavamo, l’avete conosciuta questa Pagni Margaret ungherese? Veniva sempre a raccontarci, diceva: “Non chiedetemi come, ma io ho sentito la radio. Fra una settimana tutto è finito, state tranquille.” Inventava tutto tanto per tirarci su il morale, ma ci ha aiutato molto. Ad ogni modo quella mattina erano i primissimi di novembre, i Santi, e dal 23 maggio ero in campo a Birkenau.

D: Nel tuo blocco, dopo che sei uscita dal Revier, oltre al numero ti hanno dato …

R: Sì, il numero da mettere sul vestito.

D: E il triangolo, ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sai che non me lo ricordo il triangolo, io ricordo il numero.

D: O la stella.

R: No, né la stella né il triangolo, però non prenderlo come oro colato perché son cose che a distanza di mezzo secolo si possono anche dimenticare.

D: Nel blocco, nel tuo blocco, dopo che sei uscita dal Revier, con te c’erano solo le razziali?

R: Razziali; le capoblocco erano tutte polacche terribili, terribili le capoblocco, erano tutte razziali, c’erano francesi, c’erano italiane; sono andata dove si dormiva con le francesi, ho imparato il francese anche, e combinazione, la mia vicina posso dire di letto, quella che dormiva vicino a me, era nata lo stesso giorno e lo stesso anno mio, era la mia gemella; era una certa Susanne, pensa che combinazione, avevamo la stessa età, precisa identica. Ad ogni modo sono stata lì e poi mi pare che mi abbiano cambiato di blocco: dopo eravamo – non so neanche come si dice in italiano – nelle koje, castelli dove si dormiva in 12 con un’unica coperta, dove si stava naturalmente di fianco perché non potevi star di schiena di sicuro; poi a metà notte ci si girava tutte. Con quella mia amica di Venezia di cui ti ho parlato prima eravamo sempre state vicine, sempre assieme; io le dicevo: “Guarda, ti ho portato nel mio ventre per tanti mesi, sei come mia figlia!” perché eravamo tutte naturalmente con le ginocchia piegate infilate una dentro all’altra, poi a metà notte ci si girava; con quei pochi stracci che avevamo la sera quando si andava a letto, ci facevamo un fagottino e lo mettevamo sotto alla testa. Una volta me l’hanno rubato, una notte; la mia disperazione era terribile, dico: “Come faccio domattina, non posso mica presentarmi nuda all’appello!” Non so in quale modo l’ho recuperato, qualcuno poi me l’ha ridato.

D: Visto che stavi accennando ancora agli abiti, biancheria intima ne avevate?

R: Ah figurati! Pensa che – tanto fa parte della storia, lo posso dire – mi avevano rubato le mutande, e sono stata credo per 3 mesi senza mutande. Avevamo tutte una specie di camiciola sotto e un vestito, e basta, e queste scarpe spaiate e basta. Non avevamo altro, e poi … Quando ero in Revier mi sono caricata di pidocchi, ma proprio da togliere a manciate, pidocchi da tutte le parti, tra le braccia, sulla testa: allora mi hanno rapata a zero. Non quando sono entrata ma dopo, perché ero piena di pidocchi.

D: Scusa Natalia, il ciclo mestruale?

R: Niente, quando ti dicevo che mi è venuta quell’infezione alla gamba, io do una versione un po’ semplicistica ma può darsi che fosse così. Quando sono entrata in campo t’ho detto era il 23 maggio, avrei dovuto avere il ciclo il 24: cessato completamente di colpo! Può darsi che questa infezione che mi è venuta alla gamba fosse, come si può dire? conseguenza di quello.

D: Anche per lo shock, probabilmente …

R: Io penso più che altro per quello, perché han cessato di colpo, io penso che sia stata una conseguenza.

D: Arriviamo a novembre.

R: Arriviamo a novembre: c’è stato un appello particolare. Naturalmente al mattino eravamo tutte inquadrate davanti alla baracca, che ora fosse non so perché era quasi chiaro, ma a novembre viene chiaro un po’ più tardi, dunque non so, non ho idea di che ora potesse essere; fatto sta che siamo stati in appello fino a notte, fino a notte. E non solo, ma io avevo la febbre, un febbrone, non ti so dire quanto ma avevo la febbre. Poi quando ci hanno avviate e ci han detto che potevamo camminare incolonnate, non sapevamo dove saremmo andate, se ai forni crematori, se in un altro campo, perché noi in campo si parlava sempre di un eventuale trasporto come di un miraggio, dato che non era mai avvenuto, miraggio, il miraggio è quel trasporto. E’ arrivato quel momento, però non sapevamo assolutamente dove ci avrebbero portate. Ci hanno di nuovo messo in un carro bestiame, io mi ricordo che ero proprio vicino al portellone del carro bestiame, e non ho potuto muovermi di lì perché avevo una febbre che non potevo neanche alzare un braccio, sono sempre stata sdraiata lì senza mangiare per, mi pare, 3 giorni e 4 notti, e ci hanno portato a Bergen Belsen.

A Bergen Belsen siamo arrivati, mi ricordo, che pioveva; non c’era la baracca per noi, e ci siamo buttate per terra a dormire sotto la pioggia, abbiamo dormito lì. Poi ci è stata assegnata la baracca, ma a Bergen Belsen non abbiamo lavorato, sono stata poco a Bergen Belsen. Cercavano del personale per andare a lavorare in fabbrica a Dessau, che è un sottocampo di Buchenwald. Io sono passata davanti a questa Aufseherin, mi hanno scartata perché ero troppo magra, e sempre quella mia amica veneziana – la Aufseherin forse aveva un momento di, chi lo sa, non dico di bontà o di tenerezza, forse di comprensione non so – le ha detto: “Lascia venire mia sorella con me”. Allora mi han tolto dal gruppo e sono andata con loro. Dovete pensare che da Auschwitz-Birkenau è stato il primo trasporto ad andar via, e si parlava solo e sempre di questo miraggio, di questi trasporti che non sarebbero mai avvenuti, perché noi non si sapeva.

Siamo arrivati a Bergen Belsen. A Bergen Belsen anche lì eravamo sistemati in baracche, soliti castelli, solite cose, poi ci hanno scelto per andare a lavorare in fabbrica. In fabbrica si faceva del materiale, dei pezzi di ricambio per aerei, bulloni, e si lavorava in 25, c’erano dei gruppi di 25. 25 di giorno e 25 di notte, dalle 6 del mattino alle 6 di sera o viceversa. Però lì non c’erano i forni crematori, se non altro. Pensate che noi andavamo a lavorare con 5 SS e i cani lupi. Immaginate in quelle condizioni cosa potevamo fare? Non potevamo mica né scappare né fare niente!

D: Scusami Natalia, a Bergen Belsen ti hanno immatricolata ancora o no?

R: Niente.

D: E neanche in questo sottocampo di Buchenwald?

R: No niente, almeno, se loro avevano dei registri quello non lo so ma io ho solo avuto un’immatricolazione.

D: Un’altra cosa: il campo di concentramento era vicino o distante dalla fabbrica?

R: No, non era lontano, noi andavamo inquadrati 5 per 5, eravamo in 25; potevamo camminare 10 minuti, un quarto d’ora a piedi; era piuttosto vicino.

D: Tutte donne eravate?

R: Tutte donne sì sì, e lì ti dico si stava già leggermente meglio, appunto perché c’era poca gente e non c’erano i forni crematori. Pensa che noi si lavorava 24 ore su 24 con un intervallo di 10 minuti ogni 6 ore, no lavoravamo 12 ore non 24, 12 ore con questi turni, una settimana dalle 6 del mattino alle 6 di sera, e l’altra dalle 6 di sera alle 6 del mattino. … tutto e per tutto, ci portavano da mangiare, avevamo, quando andava bene, 5 patatine, ma grosse così, e se no 4, e quello era tutto. Tu pensa che quando c’erano questi intervalli eravamo talmente sfinite che avevamo vicino a noi delle cassettine, che non so a cosa servissero, forse per del materiale, ma ci mettevamo a sedere e ci si addormentava di colpo, fino a quando non suonava il campanello: erano 10 minuti, 10 minuti solo.

D: Scusa Natalia, parlaci di questo campo. Era solamente un campo femminile?

R: C’erano pochissime baracche, saranno state 5, era una cosa molto piccolina, non era proprio un campo di concentramento come poteva essere Bergen Belsen o Auschwitz-Birkenau, era più piccolo, non era così esteso. Il trattamento era leggermente più umano benché noi si parlasse solo e sempre di mangiare; avevamo un unico argomento e un unico sogno, sempre quello. Però ti dico una cosa: la fame è terribile e chi non ha provato qualsiasi cosa non può rendersene conto, è inutile che uno dica. Ma la sete è peggio. La sete ti fa impazzire. La fame è terribile; noi sempre e solo a raccontarci e scambiarci le ricette di cosa faceva la mamma, di cosa faceva la nonna, di cosa facevamo noi. Era solo quello, c’era un discorso unico, solo quello. Io l’ho già raccontato in varie occasioni: una mia carissima compagna di sventura, che era Anna Cassuto, la moglie del rabbino Cassuto di Firenze, ha lasciato a Firenze, quando l’hanno arrestata col marito, 4 bambini. L’ultima bimba aveva 40 giorni, non l’ha più trovata. I nonni sono riusciti a portare i 3 bambini più grandi in Israele, lei è stata deportata col marito, il marito poi non è più tornato, lui era oculista ed anche rabbino di Firenze, naturalmente una delazione anche lì. Quando io le ho chiesto: “Anna, ma cosa preferisci: un piatto di pastasciutta o vedere i tuoi bambini?” Disse: “Un piatto di pastasciutta”. Guardate che colmo! Questa è una cosa che mi è proprio sempre rimasta. Racconto questo, non riguarda me ma è una cosa tragica: Anna è poi riuscita ad andare in Israele, allora era ancora Palestina credo, e ha ritrovato i suoi bambini. Lavorava nell’ospedale ad Hassa, un attentato arabo nel pullman ed è saltata per aria. Pensi, portare a casa la pelle dopo quel popo’ di tragedia che c’è stata ed è morta così, poverina!

Ad ogni modo di Dessau dirò una cosa: i pezzi che facevo credo che sono serviti molto poco, proprio perché non riuscivo a capire ed ero ben contenta che non potessero funzionare. In tutto il periodo del campo l’unico aiuto che ho avuto è stato uno di questo piccolo reparto che mi ha messo dentro a una specie di casco, come quelli che hanno le pettinatrici, un pezzettino così di sapone, ma quel sapone era tutta pietra pomice. E’ l’unica cosa che ho avuto; no, anche un’altra cosa, che poi vi dirò. Ad ogni modo lì una mattina che dovevamo finire il turno, c’era già il cannoneggiamento russo, come è successo anche ad Auschwitz ci hanno spostati, perché c’era già l’avanzata russa. Si sentiva da lontano il cannoneggiamento, però sapevamo sì e no cos’era. A me è venuto sul fianco un foruncolo di quelli terribili, e naturalmente quel camicino che avevo sotto il vestito era tutto appiccicato, perché non potevo staccarlo. Ci hanno caricato, uscendo dalla fabbrica, su un camion, e anche lì abbiamo detto: “Dove andremo a finire?” Ci hanno caricato e il foruncolo, dopo un po’ che eravamo tutti in piedi su questo camion, è scoppiato: sono rimasta con quel popo’ di roba attaccata alle carni e non mi è venuta l’infezione. Ci hanno portato a Terezin, a Theresienstadt, dove sono stata liberata.

D: Quando c’è stato questo trasferimento?

R: Dunque: io sono stata liberata il 6 maggio (1945), poi mi sono ammalata subito di tifo petecchiale. Poteva essere aprile, metà aprile, perché non abbiamo lavorato tanto in fabbrica, praticamente 15 giorni; proprio le date adesso precise non le so, solo approssimativamente. E’ per quello che rimpiango adesso che ci facciate tutti questi interrogatori. Quando sono tornata due anni fa a Terezin, perché avevo piacere di tornare – sei stato tu a Terezin? E’ una fortezza che hanno mantenuto così – ma nei miei ricordi era tutto diverso.

D: Parlaci di Terezin.

R: Posso dirvi poco di Terezin perché quando sono andata non ho trovato niente di quello che pensavo di trovare. Ma su questo insisto perché Terezin è rimasto così com’era; indubbiamente, siccome io ero malatissima lì, avevo il tifo petecchiale e mi è successo di tutto, i ricordi si sono sovrapposti, si sono accavallati. Tu pensa che ho avuto il tifo petecchiale e un ricordo terribile di quella febbre che ho avuto: sono arrivata proprio al delirio, nel mio piccolo castello non c’ero solo io ma c’era un’altra, e quell’altra ero sempre io, uno sdoppiamento c’è stato. Io parlavo con quell’altra, l’altra mi rispondeva, ma ero sempre io, la stessa persona. Dunque puoi immaginare la febbre a quanti gradi sarà arrivata, non lo so perché lì era proprio delirio. E poi diceva, io questo non lo ricordo, chi era stato con me, che quando pregavo che mi portassero al Waschraum perché avevo bisogno di buttarmi dell’acqua addosso, han detto che ero cieca. Io questo particolare non lo ricordo, io ricordo di essermi alzata e di aver visto nero ad un certo momento, ma proprio di esser stata cieca per dei giorni è una cosa che non ricordo, non ricordo assolutamente. E poi lì al 6 di maggio è avvenuta la liberazione.

Io ho detto: “Ce l’ho fatta fino adesso, adesso non ce la faccio più”. Allora mi sono imposta quando stavo leggermente meglio di fare 2 passi tutti i giorni, il terzo giorno farne 3, farne 4 … sono arrivata alla liberazione, perché mi avevano detto: “Ci sono i russi, siamo liberi, ci sono i russi e siamo liberi.” Poi quando eravamo lì nessuno veniva a prenderci, nessuno sapeva della nostra esistenza. I francesi erano venuti a prendere i francesi, i belgi, ma gli italiani niente.

Allora appena stavo un pochino meglio in 4 siamo partite e siamo andate fino a Praga, con mezzi di fortuna, a piedi, siamo andati alla Casa d’Italia. Alla Casa d’Italia a Praga dove ci hanno accolte, dove ci han dato anche credo qualche soldo – abbiamo girato un po’ per Praga – è venuta fuori tutta la nostra femminilità perché con quei due soldi che avevamo siamo andate a comprare il rossetto. Puoi immaginare in quelle condizioni, magre, brutte, smunte, senza capelli, abbiamo comprato il rossetto! Guardi, l’ho raccontato alle ragazze di Moncalieri: nelle cose tragiche c’è persino una nota comica, perché è comica sì in quelle condizioni.

Poi anche di lì abbiamo lanciato degli appelli tramite radio, però non abbiamo mai avuto nessuna risposta. Un giorno abbiamo detto: “Cosa facciamo? andiamo via. Ci siamo – ho detto – andiamo fino a Vienna? Da Vienna ci sarà qualche mezzo, qualcosa che ci porti in Italia.” Allora siamo arrivati fino a Vienna, anche lì con mezzi di fortuna, a piedi, tutto quello che capitava, abbiamo preso un treno che andava al Brennero, solo che arrivati a Wiener Neustadt ci hanno fatti scendere dicendoci che non potevamo rientrare così alla spicciolata. Altri 40 giorni lì siamo stati, sistemate in case che erano state devastate; mangiavamo quelli che chiamavamo i “ceci imbottiti”, tutti pieni di vermi, però allora andava tutto bene. Pensi che – era estate, era maggio – cadevano le mosche nel piatto, ma con disinvoltura mica buttavo la mosca, no! continuavo a mangiare. Adesso se capita una mosca nel piatto butto via anche il piatto, allora niente, tutto così. A Wiener Neustadt, anche lì, nessuno veniva a prenderci; c’erano i russi, allora noi eravamo anche molto giovani, e i russi volevano farci andare a lavorare di notte. A noi quello non piaceva molto, perché non sapevamo come sarebbe finita. Allora abbiamo deciso: una mattina abbiamo preso la strada e ce ne siamo andate. Siamo arrivate a piedi fino a Sopron, che è in Ungheria. Ho avuto un lasciapassare che non serviva a niente, c’era solo scritto che eravamo andate a … con nome e cognome; però a quell’epoca il lasciapassare non serviva a molto.

Di lì siamo arrivati poi con un treno dei partigiani fino al confine con la Jugoslavia; arrivati ad un certo punto il treno si è fermato, non andava più avanti, e noi abbiamo chiesto perché: avevano inaugurato un ponte e i macchinisti erano andati a pranzo con chi li aveva invitati! Il treno era fermo, noi sul treno, allora abbiamo detto: “E noi?” “Venite anche voi!” E siamo andate anche noi lì, però quelli poi tornavano indietro. Sempre con mezzi di fortuna che non le so dire, con camion, a piedi, siamo arrivati a, mi aiuti a dire la capitale della Jugoslavia, a Tirana, a Lubiana siamo arrivati. A Lubiana siamo andate a cercare qualcuno che ci potesse aiutare, c’erano dei campi di accoglienza, che allora non si chiamavano così, dei campi di raccolta, ma lì c’era effettivamente un altro campo di raccolta e non avremmo saputo quando ci avrebbero liberati, allora abbiamo lasciato gli zaini alla stazione, siamo andate fino alla stazione, siamo arrivate a Trieste. Su quel treno di Trieste un capotreno mica ci ha chiesto i biglietti, no, ci ha regalato un pomodoro! Quello è stato il secondo regalo che abbiamo avuto.

Io mi ricordo che avevamo trovato una patata, piccolissima, e l’abbiamo mangiata così, cruda, con la terra, e abbiamo detto: “Che meraviglia!” I bignè non sono mai stati buoni così. Ad ogni modo siamo arrivate a Trieste e siamo andate alla comunità ebraica, dove ci hanno accolte, ci hanno messo a disposizione delle brande: noi non eravamo più abituate a dormire sulle brande. Allora abbiamo dormito per terra.

Abbiamo dormito alla stazione di Lubiana, poi di Trieste, poi siamo andate appunto alla comunità. E poi con tutti i mezzi di fortuna che ho trovato ho impiegato 8 giorni e sono arrivata a Torino. 8 giorni. E quando sono arrivata fino a Milano, allora mio fratello era fidanzato con una ragazza di Milano e mi ricordavo l’indirizzo, mi ricordavo il nome, sono andata a presentarmi. Noti che mio fratello si era sposato nel frattempo in Svizzera a Bellinzona ed erano a Torino. Io da Trieste avevo fatto mandare un telegramma a Torino dicendo che ero viva, e i miei fratelli volevano venirmi incontro. Ma dove? Non sapevano mica dove. E allora nel mio peregrinare sono arrivata a Milano, sono andata a casa di mia cognata, e quando mi sono presentata alla porta non mi ha riconosciuto! Mi hanno preso per una donna di servizio che era stata lì anni addietro, non mi hanno assolutamente riconosciuto.

Poi il fratello di mia cognata la sera mi ha accompagnato ad una tradotta militare che partiva da Milano alle 10, sono arrivata a Torino a mezzogiorno. I militari non volevano farmi salire, poi quando ho detto: “Ma io sono stata deportata!” “Per carità, hai più diritto tu di un altro”. E poi è arrivata Porta Susa, qui alla stazione di Torino, ho preso un tram, non chiedetemi con quali soldi, non lo so, non mi ricordo, e sono scesa proprio alla fermata sotto casa. Qualcuno che mi ha visto in quelle condizioni mi ha detto: “Ma lei arriva da lontano!”, si vede che qualche notizia era già giunta nel frattempo. Dico: “Ma io arrivo dalla Polonia! Sono scesi tutti dal tram per farmi gli auguri, e poi sono arrivata alla porta della mia casa senza sapere chi avrei trovato. Ho trovato mio fratello che si era sposato in Svizzera con mia cognata di Milano, mia cognata era incinta di 3 mesi e aspettava un bambino, e mio fratello Cesare, che era nascosto in una soffitta qui a Torino. Ho saputo lì che mio fratello Vittorio era mancato il 25 aprile del 1945, il giorno della liberazione. Poi è nato il bambino che abbiamo chiamato col nome di mio fratello, e la vita ha ripreso, per forza.

D: Il sottocampo di Buchenwald, Dessau, era un campo solo per razziali quello o no?

R: Io me lo ricordo come un campo piccolino, c’erano poche baracche, io non so se dall’altra parte ce ne fossero delle altre; forni crematori lì non ne ho visti, però sono sempre stata con i miei compagni razziali, tutti ebrei: francesi, italiani o cosa ma sempre ebrei.

Quando poi sono venuta a Torino non abbiamo mai parlato per tanto tempo, perché quando si cercava di parlare gli altri dicevano: “Basta con queste cose, sono cose passate, son superate, la guerra è finita, basta!”. Ho trovato una persona che mi dice: “Ma cosa hai fatto? perché ti sei scritta il numero del telefono sul braccio?” E poi tutti in generale: “Ma basta, queste cose sono finite, sono passate, non parliamone più!” E quella è stata proprio una cosa che ha … completamente. Perché ci siamo chiusi tutti in un mutismo assoluto. Proprio per queste frasi che ci venivano dette, che ci ferivano da morire.

D: Questo è durato fino a quando?

R: Sempre. Fino a pochi anni fa quando dal CDEC mi han proprio presa alle strette, mi han detto: “Devi fare queste interviste” “No” “Tu le devi fare”. E allora, come succede sempre, fatta la prima poi le altre mi son venute leggermente più leggere.

Anche se ripeto queste cose, sono convinta che nessuno potrà mai capire fino in fondo questa tragedia cosa è stata, se non quando se ne parla con i compagni di deportazione. Allora con i compagni di deportazione si parla la stessa lingua, e si è convinti di essere capiti. Invece con gli altri senti che, con tutta la buona volontà che ci mettono per capirti, non arriveranno mai sul fondo.

D: E’ difficile testimoniare la fame, il freddo, la sete, le violenze, non solamente quelle fisiche ma anche quelle psicologiche?

R: Certo, perché hai sempre l’impressione di non essere capita appieno, anche se qualcuno ti dice: “No, noi capiamo queste cose, noi ci immedesimiamo” non è possibile se uno non le ha vissute. Questa della deportazione è una cosa terribile, però qualsiasi cosa della vita se non l’hai vissuta tu gli altri non la possono capire, se hanno vissuto la stessa cosa sì ma altrimenti no.

Per esempio c’è stata anche un’altra persona, quando sono tornata – sono tutte frasi che feriscono, come quella del numero del telefono – che m’ha detto: “Sai, anche noi in fondo abbiamo patito tanto; mia mamma quando ha aperto un armadio, mancavano 2 lenzuola”.

Io arrivata a quel punto lì, ecco, io dico: “Sì, lei avrà sofferto perché le sono mancate 2 lenzuola, ma quando a me sono mancati, nel modo in cui sono mancati, 3 componenti della famiglia, la nonna la mamma e un fratello, mio fratello non aveva ancora 30 anni quando è mancato, qual è stato il nostro destino, solo perché siamo nati ebrei, tutto lì?!”

Varini Valter

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Varini Walter, nato a La Spezia il 4.12.1926, residente a La Spezia.

Il 21 novembre 1944 è stata rastrellata Migliarina dalle Brigate Nere, portato alla Caserma XXI a La Spezia, stetti un giorno alla Caserma e all’indomani ci hanno portato con i camion a San Bartolomeo dove ci hanno imbarcati sulle motozattere e via mare siamo arrivati a Varazze, siamo arrivati il 22 notte.

Ci hanno messo nelle celle cubicole in attesa del processo. Dopo quindici giorni ci hanno chiamati al processo in ordine alfabetico, mi dicono questa è la condanna, ventuno, “Lei deve dire la verità, altrimenti, la portiamo su un quattro”. Io sapevo tutto, essendo nei cubicoli avevo spaccato il cancelletto ed ero andato giù a parlare con i rastrellati del 21 novembre 1944 e mi avevano detto: “Le accuse sono così e così, non devi dire sempre sì o no, un po’ sì e un po’ no, altrimenti, vi ammazzano di botte”, infatti, loro erano tutti rovinati.

Quando sono andato su l’ho detto e anche Borrelli ha sentito. Vado all’interrogatorio e vi era il Brigadiere Morelli e mi chiede “Come ti chiami?”, rispondo “Varini Valter”. Mi dice “Saresti quel partigiano che era in Garfagnana?”, chiedo “Come fate a saperlo?”, risponde “Abbiamo catturato i nomi del Comitato”. Ero giovane e potevo anche sfottere; ho risposto “Siete stati in gamba, come avete fatto?”, mi ha risposto “Non ci pensare!”

In quel mentre entra Batisti, un altro Capitano delle Brigate Nere. Aveva un braccio al collo e all’attaccapanni vi era una pistola fuori ordinanza e chiede “Cosa c’è Morelli che non vuole parlare?” “Non vuole dire chi lo ha iscritto al Comitato Liberazione“. “Lo faccio parlare io!”, ha preso la pistola e gli ho detto “Mi ammazzi pure”. “No, no, troppo onore ammazzarti, devi dire chi ti ha iscritto al Comitato di Liberazione”. “Ho tirato fuori dei nomi … Non quelli che mi hanno portato ai monti”

“Le accuse sono 21 e le leggiamo: ha partecipato all’attacco in Val Durasca contro le Brigate Nere e i tedeschi e ha ammazzato questo …” Rispondevo “No” …”Ha ammazzato questo …” Rispondevo “Sì” , non era vero. “Ero armato con un boschetto” “Chi te lo ha dato?”

Vi era gente catturata e seviziata, accusatori e ho risposto “Me l’ha dato il Tizio” “Guarda che lo vado a chiamare” “Vada pure, se lo dico è la verità”.

Lo va a chiamare e chiede “Ivano conosci questo?” “No, non, non lo conosco!” “Ma come non mi conosci, tuo padre lavorava con il mio, come fai a non conoscermi?”

“Questo dice che tu gli hai dato il moschetto, ha fatto l’attacco in Val Durasca” “Non lo conosco!”

Allora mi chiede ancora dove l’ho preso, non rispondo e ordina “Picchialo”. Questo mi ha messo contro il muro e mi ha conciato ai fianchi a pugni.

Ho risposto “L’ho preso l’8 settembre” “Dove lo nascondi?” “In cantina”, dove l’avevo davvero, a casa ero armato.

Finito quello viene fuori chi mi ha iscritto al Comitato Liberazione che era il prete, don Streti, e ho risposto “E’ stato don Streti” “Sei sicuro, guarda che vado a chiamarlo, che non succeda come prima”

Va a chiamare don Streti e chiede “Lo conosci questo” “No” “Come don Streti, non mi conosce” “Dice che lo hai iscritto tu al Comitato Liberazione” “Non lo conosco, non ricordo, dove ti ho iscritto al Comitato Liberazione?” “Da Ilinari, il forno” “Sei un bugiardo, non è vero perché io iscrivevo al Comitato Liberazione in cantina sotto al Cavallo Bianco, il bar”.

A questo punto Batisti ha messo il suo piede sopra il mio e mi ha dato quattro ceffoni sulla bocca.

Le accuse erano quelle, ho ammazzato un altro maresciallo sopra La Spezia, tutte cose che non erano vere … li avessi ammazzate davvero!

Me la sono cavata con quattro pugni e quattro schiaffi.

Non ci hanno portati, finito l’interrogatorio, nei cubicoli ma ci hanno portati in seconda sezione dove siamo stati un giorno.

All’indomani ci hanno chiamati e ci hanno preso in una sessantina e ci portano in quarta sezione dove abbiamo fatto un mese, pronti per andare alla morte.

Un giorno viene l’ufficiale tedesco con l’interprete che era un ebreo e il brigadiere delle prigioni. “Ieri sera fuori dalle mura del carcere hanno ammazzato un camerata, eravamo in sei, e ci siamo guardati senza muovere gli occhi”, dicono “il Comando tedesco ordina a questa rete 48 ore senza mangiare”. Ci siamo ripresi, si mangiava un panino a mezzogiorno e una minestra alla sera.

Siamo stati in sei in quella cella, avevano messo uno di Arma di Taggia e uno di Imperia ed erano due spie, uno aveva ancora la divisa di Brigata Nera, i miei sapevano che ero un partigiano … ho scelto al mia strada …

Abbiamo fatto un mese, il 2 febbraio ci chiamano per partire per andare a Bolzano, ci ammanettano insieme e ci imbarcano sui pullman, Genova-Imperia-Milano, un giorno a San Vittore sempre ammanettati. All’indomani siamo partiti, si camminava di notte, alla mattina alle 3 siamo arrivati a Bolzano, appena scesi dal pullman con le scarpe senza lacci, senza cintola, e ci mandano poi agli uffici dove vi erano due donne tedesche che parlavano italiano.

Nella via dove abitavo a Migliarina eravamo diversi, Sarzana, tutti ragazzi che non sono più tornati.

Hanno detto “In quella via siete tutti dei delinquenti” “Con questo?”. Ho risposto perché ormai la nostra sorte era quella. Ci danno il numero, il mio era 9053, e il triangolo rosso e ci portavano nel blocco E in attesa.

E’ stato un bel giorno che i tedeschi erano in ritirata, il fronte era a Verona, i russi avanzavano e cercavano di prendere la gente per mandarli a lavorare, prendere le macerie e altro.

Come oggi hanno fatto il bombardamento a Bolzano; all’indomani ci hanno chiesto di andare a levare le bombe!

Morte per morte era per mangiare un pezzo di pane in più, volontari, quando siamo stati in mezzo ai binari suona l’allarme e i tedeschi sono spaccati prima di noi. Ci siamo buttati, c’era il fiume, di là la galleria, gli operai, il triangolo rosa, noi avevamo la gavetta con il cucchiaio di legno, ci davano da mangiare, nella gavetta un cucchiaio a me e uno a te e alla fine abbiamo bevuto l’acqua. Alla sera siamo rientrati …

D: Valter, come ti ricordi il campo di Bolzano?

R: L’ingresso me lo ricordo benissimo, c’era l’entrata con il cartellone in lamiera che poi hanno spostato di là … Sapete come è il campo? Vi era l’insegna in lamiera sopra i due pilastri nel campo ma l’hanno spostato vicino all’officina, appena entrati vi era un ufficio, una baracca, poi il capannone, in fondo le donne, noi blocco E e andava fino in fondo all’alfabeto A-B-C. In centro vi era la mensa dei tedeschi, la cambusa dei tedeschi che spalancavano, pane, mortadella … avevamo una fame …

D: I tuoi vestiti te li hanno tolti?

R: Mi hanno dato una tuta intera con il contrassegno, una striscia di traverso e una nella gamba e poi la testa pelata, hanno rasato fino a qua e poi hanno fatto i disegni in testa, a loro faceva piacere!

Hanno fatto l’assemblea come a dire che il fronte era a Verona, “Come sapete il comando tedesco vi lascerà andare perché il fronte è a Verona, i russi avanzano, noi vi lasciamo andare pochi alla volta ma i primi che vanno fuori li teniamo come ostaggi, voi siete come ostaggi”

D: Scusa, Valter, prima di arrivare alla liberazione, quanto tempo sei rimasto a Bolzano?

R: Sono rimasto da febbraio fino al 1 maggio.

D: Come lavoro sei andato a raccogliere macerie e bombe?

R: Sono andato solo a togliere le bombe, poi ho lavorato …. Siccome gli americani erano a Verona, vi era da fare il trasloco a un avvocato bolzanino, abitava in una bella villa sottoposta alle bombe, i tedeschi hanno detto “Vai là” e abbiamo fatto il trasloco, sua moglie ci ha dato un panino con burro e marmellata, una tazzina di latte e caffè e anche dei soldi, 250 lire.

D: Quando uscivi dal campo trovavi dei civili, avevi contatto con la popolazione civile?

R: L’ho avuta ma i tedeschi non volevano, ci volevano dare delle mele poi alla fine ho fatto attaccato al muro del campo un basamento per una parata militare, comandava un maggiore dell’esercito, un carrista che era prigioniero, italiano, vi era la strada che arrivava dove c’era il monumento, la strada convogliava verso Verona e verso le officine Lancia e a tutti quelli che passavano gli si cedeva del pane. E’ passata una donna “Signora ha del pane?”, sul muro vi erano le garitte e i russi, questa donna non risponde e l’abbiamo chiesto in tedesco …

E’ passato poi un vigile del fuoco e avevamo chiesto del fumo, ci ha risposto che sarebbe andato a prenderlo, è partito in biciclette ed è andato a prendere delle sigarette che ci ha lanciato ma a noi non sono arrivate, sono rimaste in mezzo, tra la strada e noi e vi erano lì gli ucraini, ma abbiamo fatto una volata e siamo andati a prenderle e ce le siamo divise.

Hanno poi lanciato i panini ed è successa la stessa cosa.

D: A proposito del campo ti ricordi del blocco celle?

R: Il blocco celle era in fondo, qua vi era l’ospedale con la mensa dei tedeschi, dietro l’altro capannone dove vi erano gli uomini ebrei, i prigionieri di guerra, i piloti inglesi e in fondo la cucina. Al blocco celle la famosa tigre che picchiava. Vi era anche una donna che aveva preso delle patate, l’hanno picchiata e le hanno buttato secchi d’acqua fredda addosso.

Tornando indietro a quando mi hanno preso, a Genova quando è venuta mia sorella a portare i vestiti e qualche soldo ha detto “Dammi i soldi che li faccio avere”, invece non me li ha fatti avere, è arrivato a Bolzano anche lui, non l’hanno messo con noi ma subito dalla parte dove vi erano gli uomini ebrei e hanno fatto una farsa alla notte. Si sono passati la voce di notte, hanno preso un paio di scarponi di uno e l’hanno messo alla sua testa, questo si è alzato dicendo che gli avevano portato via le scarpe.

Gira gira sono andati a finire all’asta del capitano e lì botte!

Il capo blocco ha parlato poi con i tedeschi e l’hanno messo in cella di punizione, prendeva un’ora d’aria al giorno, mi vedeva e diceva “Quando passiamo da Milano ti do i soldi … prima non me li hai rubati, adesso me li hai rubati” … Non potevo farci niente.

Arriva la liberazione l’hanno lasciato andare il 28 aprile e a me il 1 maggio, alla mattina alle 9,15 ero con altri miei amici, Ferrato, Costa, Rossetti Gino che non è venuto qua, abbiamo fatto la strada insieme e ci siamo fermati a Trento e ho detto “Ragazzi, se il Capitani è a Trento o lo faccio fuori, anche se ci sono i tedeschi, in qualche modo lo faccio fuori”, ero deciso!

Vi era Montefiori a Trento, vi era il posto di ristoro dal prete, davano … vi è anche una canzone “Quattro fagioli nel pugnatino, brodoleo, brodoleo” e ci ha dato 250 lire.

Vi era anche il dottor Campodonico che è stato picchiato forte a Genova e dico “Dove è il Capitani?” “Non farti vedere che ha paura di te!”. “Paura o no lo voglio far fuori” “Lascialo stare lo portiamo a casa”

Mi ha convinto e ho chiesto a Montefiori, “Lo porti a casa te? Lo mettiamo a Migliarina davanti alla Chiesa dentro una gabbia e la festa la devono fare le madri o le spose dei detenuti” “Sì, sì, io qua non rimango, voglio passare il fronte, tedesco o non tedesco voglio passare”.

Passo il fronte, abbiamo trovato tedeschi e non hanno detto niente, una brigata di fascisti ci ha chiesto i documenti, in quel mentre è passato un aereo inglese e questi scappano.

Dopo un po’ capitiamo in un rastrellamento tedesco, avevano sentito sparare e abbiamo detto: “Adesso come facciamo?”

Andare indietro non si può, andare avanti non si sa ….. andiamo avanti!

Non ci dicono niente e montano sul monte per il rastrellamento.

Dopo un po’ troviamo un battaglione di Brigate Nere, italiani.

D: Quando eri nel campo di Bolzano ricordi se deportati con voi vi erano anche sacerdoti?

R: Sì, c’erano!

D: Ricordi anche i loro nomi?

R: Non li ricordo, anche a Bolzano ho fatto la Comunione per Pasqua, da ragazzo andavo in chiesa a servire la Messa e da quella volta ho detto non ci vado più, mi hanno insegnato di essere a digiuno a fare la Comunione, fare la Comunione senza essere a digiuno, poi ho avuto episodi ai monti… per la fame chiedere al sacerdote, al prete qualche cosa da mangiare, siamo in 12 e siamo senza soldi, dove andiamo a mangiare?

Chiama la sorella, tira fuori una formaggetta di pecora e una pagnotta.

“Dammi il coltello” dice la sorella, prende il coltello, taglia una fetta di pane e due fettine di formaggio … non ci ho più visto, avevo le mani sulle bombe, ho detto “Siamo in 12, come facciamo?” Siamo tornati indietro e glielo ho buttata in faccia, “Grazie lo stesso”, se volevo con le armi potevo prendere quello che volevo invece non l’ho fatto.

D: Ricordi se vi erano bambini nel campo di Bolzano?

R: I piccoli non li ho visti, avevamo un’ora d’aria al giorno, al mattino vi era la conta poi mandavano fuori a lavorare e gli altri erano fuori a prendere l’aria e noi avevamo un’ora d’aria al giorno.

D: Ricordi se hai visto azioni di violenza nel campo di Bolzano?

R: Ho visto la tigre che snervava bene, picchiava!

D: E’ successo un episodio, quello pugnalato, dove è successo?

R: A Bolzano vi è quel castello in alto che si vede, lo avevano anche fatto saltare, era un deposito di munizioni e i partigiani l’hanno fatto saltare, credo che sia stato su quelle montagne, questo preparava la legna con il tedesco di guardia, dai oggi dai domani, con la confidenza, lo ha disarmato, il tedesco è andato …è stato pugnalato, l’hanno portato dentro al campo di concentramento con un telo da tenda, hanno fatto l’assemblea, tutti quanti a vedere, ha spiegato che questo andava a tagliare la legna, con la confidenza con il tedesco ha avuto la meglio e lo ha pugnalato.

“Dovete stare attenti, a chi va fuori succede qualche cosa, la stessa cosa succede a voi, come questo!” Noi non potevamo nemmeno scappare perché avevamo una taglia di 500 lire.

D: Quando è successo questo, te lo ricordi?

R: A marzo o aprile.

D: Parlavi prima della Pasqua, che cosa è successo?

R: Non ho preso la Comunione, sono stato dentro con questo Opicini, eravamo liberi, si poteva camminare, vi era un frate di Belluno, sono andato dalla parte delle donne e ci hanno dato quattro pagnottine e abbiamo detto “Bruno, questa è una bella Comunione, non quella là” …

D: Valter, ricordi quando eri nel campo di Bolzano se potevate scrivere o ricevere posta o pacchi?

R: Io no non ho saputo niente.

D: Ricordi se era entrata la Croce Rossa nel campo di Bolzano prima della liberazione?

R: Vi era un prete che faceva parte del Comitato di Liberazione e mandava dei pacchi, anche le donne, la Cicci, la Marta riceveva i pacchi da casa e i pacchi che ci dava la Croce Rossa li passava a me.

D: Chi era questa Marta, una deportata?

R: Una deportata, suo padre era uno del Comitato di Liberazione, un partigiano, lei mi ha detto che era di Merano e poi ho chiesto alle donne “Di che parti era Marta, di Merano?” “No, verso Belluno!”

D: Hai nominato prima la Cicci, chi era?

R: La Cicci faceva la Kapò nel campo delle donne, era milanese, alla mattina era sempre fuori a fare ginnastica.

D: Ti ricordi degli ucraini?

R: Erano due che facevano sempre la guardia sulle garitte, erano fetenti perché chi comandava lì dentro era Colonia che era di Verona, delle SS, Lanz di Trento, era una SS alpina, aveva il cappello con tutte le stelle alpine, non era cattivo. Colonia era cattivo.

D: Non hai mai avuto bisogno di andare in infermeria?

R: Sono andato perché c’era uno, quando davano il rancio, che era stato nelle Brigate Nere, nella Repubblica di Salò, quello lo avevo come fumo negli occhi, questo mi passa avanti e ci siamo presi, lui si è girato con la gavetta di ferro e me l’ha data in testa e sono andato in infermeria. Lì ho trovato l’avvocato Duci, mi hanno messo la benda, non il cerotto, per quello che quella donna ebrea voleva la marmellata, mi davano da mangiare per quello.

D: Quando parlavi di Trento, la liberazione, siete arrivati a Trento, siete andati da un sacerdote, ricordi chi era questo prete?

R: Non chiedermelo, alla sera il problema era andare nella case bombardate, dove andiamo, in galleria, abbiamo visto un vigile del fuoco, un ragazzo, e ho detto “Domandiamo dove è la caserma dei pompieri”. Infatti ci ha detto di andare dal comandante e ci hanno ospitato lì, ha detto: “Non abbiamo letti ma vi do delle coperte e dormite sul pavimento di legno”. Alla sera ci hanno dato da mangiare e siamo stati abbastanza bene. Vi era il problema di fare la scorta per il viaggio, facciamo la conta ed è toccato a me e ad un altro. “Ora c’è la tessera, chi va a prendere la roba?” Andiamo ai forni e chiediamo da mangiare, qualche soldo lo avevamo, 250 lire, allora erano qualche cosa, chiediamo del pane, e diciamo che veniamo dal campo di concentramento e le donne quando sentivano così pagavano e ci davano i bollini e abbiamo fatto la scorta per la strada.

D: Ricordi dove era il posto di ristoro a Trento?

R: Me lo ricordo …

D: Quasi vicino alla stazione?

R: Quasi vicino alla stazione, vi è un anfiteatro, un portico, dietro vi era la stazione, era lì vicino.

D: Non era un frate …

R: No, no, era un prete, tanti sono ritornati due volte a prendere la razione e anche i soldi, da buoni italiani.

D: L’ultima cosa del campo di Bolzano. Ricordi quando eri nel campo di Bolzano se vi era un Comitato di Liberazione interna?

R: C’era, tanti hanno avuto lo scontrino che non erano partigiani, io che lo ero non l’avevo.

D: Valter, grazie!

R: Prego!

Loredan Onesimo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Allora io sono Onesimo Loredan, sono nato nel Comune di Muggia provincia di Trieste, ho sempre lavorato nei cantieri, sono stato nei partigiani.

D: Ma quando sei nato?

R: Nato il 20 luglio del 1921.

D: Ecco, poi quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato nel marzo 1944.

D: Dove?

R: A Kocevje, passato Lubiana.

D: Chi ti ha arrestato e perché?

R: Perché eravamo dei partigiani. Eravamo in trasferta, da un luogo per andare in un altro ed una mattina ci hanno aspettato, si vede che qualcuno ha fatto la spia, perché la sera sono scappati due di noi, e alla mattina tutto un fuoco e ci hanno arrestati.

D: Chi vi ha arrestato?

R: Ci ha arrestato prima erano i famosi domobranzi, come si chiamano? Quelli che difendevano, gli sloveni, sarebbero i partigiani del Governo.

Loro. Poi ventiquattro tedeschi con delle tute bianche con croce rossa davanti e croce dietro, noi eravamo già contro il muro, con le mani alzate. Vengono loro, ci prendono in consegna loro, eravamo circa un battaglione, circa 110, ed un terzo sono riusciti a scappare, un altro terzo feriti, morti là ed un altro terzo come noi che siamo rimasti fuori e di lì erano un cinque chilometri per andare, perché era sotto un monte. Lì la segretaria del comandante che era una piccola grossetta, è stata ferita qua sul petto, come quando si ammazza il porco. Dovevamo noi portare i feriti, tutti quanti, lei l’abbiamo messa su di una carriola, ed un po’ ognuno, brutto, bruttissimo da vedere.

Siamo arrivati a Kocevje, ci hanno messo in una scuola, in un’aula grande con tutti questi affari qua, con le mani su così, per terra, le gambe incrociate e bon. Poi interrogatori con i tedeschi. Mamma mia. Come siamo andati su, perché siamo andati, chi ci ha mandato. Noi abbiamo detto che non sapevamo niente, che ci hanno presi e bon. Loro volevano che andassimo con loro perché avevano quei cappotti lunghi di pelle, perché si stava bene, si mangiava bene, quello e quell’altro. Oppure, visto che, allora andrete a lavorare in Germania. Noi siamo operai, andiamo a lavorare, piuttosto che nel bosco.

Prima dei partigiani sono stato ferito, ho quattro buchi, una palla sola qua dentro e qua fuori, qua dentro e qua fuori. Una. Una e cadi per terra. Il comandante mi ha preso e mi ha portato di dietro e bon.

Poi otto giorni in un, loro dicevano, ospedale militare, erano tre baite, senza porte e senza finestre, con un po’ di paglia per terra, e lì. All’ottavo giorno ci hanno dato il permesso di montare di guardia a queste quattro baite che erano e portare il fucile mitragliatore sulla sinistra perché sulla destra era ancora la ferita fresca. Niente, un po’ di alcol e via, non c’era nessuna altra cosa.

Poi di lì da Kocevje, andate a lavorare in Germania, con un trasporto ci hanno portato a Lubiana, in prigione. Allora appena siamo arrivati chi aveva la febbre andava in infermeria al quarto piano e ci davano il termometro, io un po’ più furbo degli altri, ho fatto così è andato su e sono andato su. Un dieci giorni ho fatto su, perché abbiamo fatto la quarantena.

Dopo ci hanno mandato, allora non potevano fare perché c’era il binario rotto, non potevano fare il trasporto da Lubiana e ci hanno portato a Begunie. Begunie sarebbe su là, brutto posto. Di là abbiamo fatto cinque giorni là, su ancora, eravamo a visitare con la famiglia, guardi là, lei si chiama così e così, tal mese,il tal giorno. Dice è da pagare No, no, lei e famiglia non pagano niente” e la stessa cosa quando siamo entrati in campo in Germania.

Allora di là dopo il quinto giorno ci portano giù e giù al treno e ci mettono su questi vagoni piombati sopra, con il filo spinato, uomini, donne, bambini, tutti assieme. Due giorni siamo stati là dentro, in quello là. Perché siamo andati su, su fino a Mauthausen. Per fare i bisogni che cosa abbiamo fatto? Abbiamo preso una tavola su dal pianale e lì facevamo i bisogni tutti, uomini e donne, tutti. Come niente fosse. E ci hanno portato a Mauthausen, giù in stazione e ci aspettavano quelli del campo, ci hanno preso in consegna loro. Quelli erano bestie. Quelli erano veramente bestie.

Ci portano su, sulla prima cosa, quando siamo entrati ci registrano e dopo, spogliarsi nudi, rasati tutti, sopra e sotto, non dovevi avere un pelo addosso. Niente. Tagliavano e poi rasavano. Lì ci hanno dato un piccolo pezzettino di sapone e ci hanno messo dentro questo grande stanzone con delle serpentine sopra, con dei buchi, hanno chiuso le porte e tutto e mollano l’acqua. L’acqua era tiepida. Ci siamo insaponati, mollano l’acqua fredda e nessuno poteva scappare, tutto chiuso. Perché dopo lo stesso locale lo hanno adoperato per gasare, lo stesso locale. Adesso è ancora là.

Eravamo adesso in settembre con il Professor Sarti, il famoso registra di Strelher, eravamo su ed abbiamo visitato tutto, ero io a Mauthausen perché ero là dentro.

Là ci hanno vestito, zoccoli. Tutti vestiti, che cosa hanno fatto. Quei sacchi grossi di cemento, ma sono alti, alti, tutto dentro, cappotto, scarpe, tutto là, hanno chiuso ed hanno messo il nome, che dopo ci daranno indietro. Ecco là.

Là ci hanno portato ed abbiamo fatto la quarantena.

D: Ti hanno immatricolato là a Mauthausen?

R: Sì.

D: Che numero ti hanno dato?

R: Lo dico in tedesco o in italiano?

D: Tutte e due.

R: In tedesco è …. 65807.

D: Assieme al numero ti hanno dato un’altra cosa?

R: Sì, il triangolo con la punta in giù. Il triangolo rosso. Che noi eravamo considerati politici. Perché gli ebrei avevano tutta un’altra cosa, loro avevano la stella di Davide, e gli ultimi neanche quello là. Una pennellata gialla, con un pennello largo, uno sulla schiena, non avevano né numero né niente.

D: Poi ti hanno portato al blocco di quarantena?

R: Sì, al blocco 14, poi eravamo al blocco 16, mi pare, non lo so. Al 14 di sicuro e là dentro si stava tutti per terra. Non si poteva stare con la schiena giù, bisognava stare così e lui era sulla porta con il fucile mitragliatore e qualcuno voleva fare il furbo e si metteva giù. Lui ha camminato sopra tutti e quello lì era finito. Sul viso, sul corpo, basta quello, era finito, rimaneva là. Basta.

D: Lì nella quarantena che cosa hai fatto?

R: Nella quarantena ci hanno anche portato fuori là, dove allargavano il campo, su questo binario, lavorare, spianare e bon.

Poi finito là ci hanno portato davanti, davanti all’entrata e facevamo la massicciata per la strada che viene su, eccolo. Lì ho fatto quaranta giorni, sarebbe come dire quarantena, in agosto.

Di là ci hanno fatto il trasporto, mandavano di qua e di là, a me hanno mandato a Gusen che è subito sotto un paio di chilometri.

D: Quale Gusen?

R: Gusen 2.

D: Che cosa facevi a Gusen 2?

R: A Gusen 2 siccome io ero dei cantieri, operaio specializzato, allora mi hanno mandato nella fabbrica di apparecchi. Tutto quanto in galleria. Ogni mattina venivano con il treno dentro, ci caricavano sui vagoni aperti, non chiusi, e lì come bestie andare su e ci portavano dentro in galleria. Dentro addirittura dentro, non fuori. Niente, dal campo dentro. Lì si lavorava. Ero nel reparto carlinghe, dovevamo fare in 12 ore che si lavorava tredici fianchi di carlinga del caccia bombardiere monoposto. Caccia bombardiere quel famoso che il pilota faceva tutto lui. Allora l’asse dell’elica era la mitraglia, poi davanti due mitraglie sincronizzate con le pale dell’elica, una cosa enorme. Però la cabina non veniva fatta. Veniva fatta in un altro reparto fuori. Lì era il reparto ali, reparto carlinga, e così.

D: Tutto nelle gallerie?

R: Tutto dentro, tutto, tutto dentro. Dentro che cosa facevamo. Noi dovevamo prendere la lamiera di alluminio, metterla già su quello pronto, fermarla, bucare, mettere di dietro l’ossatura e ribattere. Ribattere con le brocche di alluminio, però duravano due ore, dopo due ore bisognava portarle al bagno galvanico perché, se era vero non lo so, dopo non si strozzava più. Quando si sbagliava passava la SS, il capo reparto, che era un lavoratore civile italiano, in quel reparto là, un lavoratore civile italiano, era lui il responsabile del reparto carlinghe e quando passava questo SS lui doveva fargli il rapporto, che cosa hanno fatto e lì erano botte.

D: Ma non è un deportato questo lavoratore?

R: No, no, era un lavoratore civile che lavorava in Germania, come era non lo so. Ma dopo viene il bello.

Allora io ho sbagliato qualche cosa e ne ho prese cinque con il nerbo e mi ha dato anche un pugno, io avevo qui un dente d’oro con la capsula, mi è caduto per terra. E cosa succede? Il tedesco mi ha dato la sua punizione, io mi sono preso il dente, viene questo lavoratore civile e mi dice: “Se me lo dai ti do un pane, questo e quell’altro”. Insomma, mi ha dato un pane di un chilo, io gli ho dato quello là. Ma poi viene il bello. Perché adesso bisogna riportarsi direttamente a quando siamo usciti dal campo.

Quando siamo usciti dal campo ci hanno liberato gli americani, poi torneremo indietro. Lì, strada facendo, prima di Linz, c’era il campo dei lavoratori civili, e lì c’erano già gli americani e li prendevano in consegna e lì ci hanno dato una piccola puntura con una piccola siringa qua, per la scabbia, orticaria. Facevi così e tutta una materia. E la scabbia è bruttissima perché ti penetra sotto, e dentro, mamma mia.

Adesso dovrei finire questo qua. Finisco perché finisco? Lì si parlava, io parlavo con uno e con l’altro, com’è, come non era, dico è lui, il capo del mio reparto come lavoratore civile, così e così. Loro hanno rapportato al comando del campo e mi hanno chiamato così ed io sì, è così e così. Vanno nella baracca sua, lui aveva quelle valigie di legno ed aveva un sacchetto così pieno di oro, denti, quello e quell’altro, su e giù e mi dice, prende questo lo mette sul tavolo e mi dice, cercati il tuo dente. A me, quelli là del comitato. Fatto sta che l’ho trovato, me lo hanno presentato e tutto. Alla sera hanno fatto la riunione in campo. E spiegano a tutti cosa è successo, questo e questo. Sa cosa hanno fatto di lui? Una cosa che ancora adesso mi vengono i brividi, lo hanno legato sul cofano di una doge vecchia che era là, lo hanno legato, lo hanno bagnato di benzina e gli hanno dato fuoco perché tutti si sono messi a gridare “Dagli fuoco, dagli fuoco”. Io non volevo fare queste cose qua. Questa è una testimonianza, e basta. Possiamo tornare indietro.

D: Gli hanno dato fuoco?

R: Fuoco, sì. Per noi era una cosa normale, perché a Mauthausen dentro là, si passeggia, quello grida “Due uomini con me, due uomini con me”, bisogna andare perché lì non si poteva scappare o dire di no. E ci hanno portato giù ai forni crematori, giù ad aprire questo portellone di questa stanza, come una cella frigorifera, c’erano tutti questi cadaveri e lì a prendere le pale, aprire il forno, il portello di ghisa, prendere il carrello, dargli una scassata che vada la cenere di quelli di prima giù, poi con la pala si metteva di fuori, da parte, era pronto per metterne su altri. Ma noi non abbiamo visto, abbiamo solo pulito il forno e ci hanno dato anche due sigarette, cosa rarissima e bon.

Quella l’unica volta che sono stato là. Poi si caricava. Questa è bella. Quando si rientrava dal lavoro si faceva la decimazione. Sai cos’è la decimazione? Tutti in fila. Il dieci fuori. Qui avevamo il numero, levavano tutto via, con la matita copiativa scrivevano il numero così in grande, un colpo in testa e se non andavi ti facevano, e restavi là. Finito tutto quei cinquanta, sessanta di loro, col carro, metti sul carro e porta sul mucchio.

Quando io sono entrato nel campo non c’erano ancora i forni crematori, c’erano le fosse comuni e sono proprio di dietro, al fianco del campo, un’enorme fossa con uno strato di cadaveri ed uno strato di calcina viva, uno strato di cadaveri ed uno strato di calcina viva, quella lì non era ancora riempita bene, già era pronta quell’altra là. Così erano quattro fosse. E poi hanno fatto il primo forno, il secondo, il terzo ed il quarto.

Adesso a Gusen dopo che ci hanno mandato in quell’altro campo sono rimasti solo i forni crematori perché i proprietari dei terreni ci hanno fatto le case sopra a migliaia e migliaia e migliaia di morti.

D: Ascolta, quando andavate al lavoro, vi chiamavano a Gusen 2, dal campo di Gusen 2, vi facevano salire su un trenino.

R: Un treno a scartamento ridotto, praticamente.

D: E vi portavano direttamente alla galleria.

R: Dentro. Facciamo conto come qua sarebbe il monte Pantaleone, tutto traforato di gallerie dentro. Tutto. Tutto dentro, tutto. Il lavoro si svolgeva tutto dentro. Verso l’ultimo tutte le imboccature erano già pronte per farle saltare per aria, poi non lo hanno fatto e non so perché.

Tre giorni prima non ci hanno portato sul lavoro, ci hanno lasciato in campo e basta, poi sono venuti gli americani.

D: Quando tornavate al campo, il treno veniva dentro?

R: Dentro, dentro. Tutto dentro, in campo.

D: Dentro nelle gallerie?

R: Sì, per andare sul lavoro dentro le gallerie, e dalle gallerie si andava direttamente in campo, a passo d’uomo. Non scappava nessuno.

D: Ti ricordi che baracca avevi tu a Gusen 2?

R: No, no, troppo.

D: Ti ricordi degli altri compagni tuoi che c’erano a Gusen 2?

R: Mi ricordo che alla sera ci si trovava anche del paese mio e si faceva qualche cosa, con il tabacco, perché si dava via il pane per una presa di tabacco.

La sera ci si trovava, il giorno dopo non c’era più. Dov’è? Lo hanno portato in Revier. Là sul mucchio.

D: Tu al Revier non sei mai andato?

R: Sì. Sì sono andato. Per questa scabbia, orticaria, ho marcato visita, che sarebbe meglio di no, perché lì se marcavi visita andavi dentro e bon. Allora che cosa ci hanno dato? Sulla mano un po’ di quella pomata, se non fai il bagno a cosa serve mettersi quella pomata. Invece dopo gli americani ci hanno fatto bagni nelle vasche di zolfo, è andato tutto via. Mi è solo rimasto una cosa, è brutto da parlare, sono rimaste le creste di gallo. Sai cosa sono le creste di gallo? La sporcizia. Chi si lavava? Dov’era l’acqua?

Poi il dottore nostro a casa ci bruciava quelle, mamma mia che male, quello era il peggio di tutto il resto, a parte le piaghe, una cosa e l’altra.

D: Alla liberazione tu eri a Gusen 2?

R: Sì.

D: Alla liberazione eri a Gusen 2. Come te la ricordi tu la liberazione?

R: La liberazione. Siccome la strada era un po’ più sopra elevata ed il campo era più basso sotto due metri. Sono venuti gli americani con due carri armati grossi e basta. E lì hanno preso via tutti, le guardie, i comandanti del campo e tutto.

D: Allora sono arrivati gli americani; tu dov’eri?

R: Dentro in campo. Là. E basta. Quando loro hanno preso tutti quelli là, non comandava nessuno. Chi andava in cerca di amici, chi andava in cerca per fare giustizia con i capi blocco e lì hanno messo un carro armato davanti, e tutti in fila in mezzo agli altri, tutti quanti ed un altro carro armato di dietro e sono andati via e noi basta, alla mercé. Chi andava via subito alla sera, perché questa cosa alle quattro di pomeriggio, al 10 di maggio.

Strada facendo che si andava giù verso Linz, venivano su gli americani con questi carri armati e ci buttavano fuori quei pacchetti conforto, dentro tre sigarette, tre carte igieniche, tutto a tre, perché non lo so, tre cioccolate e questi qua mangiavano, e poi li trovavi nel canale. Perché lo stomaco non era così. Ci davano un litro di brodaglia. Un litro di brodaglia con le rape. Le rape dieci minuti dopo non c’erano più. Allora cosa bisognava fare, legarsi qua i pantaloni perché se loro ti vedevano che con la dissenteria perdevi, ti portavano anche in pieno inverno e con la manica dei pompieri ti lavavano e rimanevi perché non eri più niente. Eravamo ossa e pelle. Da non potersi sedere, perché non ci si può sedere sull’osso, noi vediamo ancora qua, quando ci appoggiamo sull’osso, di dietro non era così, era così.

Quando si rientrava dal lavoro, levarsi la camicia e fare così, anche niente, guardare ed anche via, qua sotto era così, fare così e niente altro, ed una volta al mese, circa, ti portavano a disinfettare, quindi tutti quanti a levarsi la giacca, metterla per terra, tutto il resto dentro, che resti fuori il numero, il nome non esisteva, perché la prima cosa che facevano, ti spersonificavano, tu non sei più tu, con il terrore, è un terrore continuo, nessuno reagiva, niente, niente.

D: Quindi alla liberazione tu sei uscito subito dal campo?

R: No, no, siamo andati in cucina, io ed altri, non so chi, perché eravamo degli automi, non eravamo più noi, noi eravamo niente, non so. Si camminava così. In cucina abbiamo trovato quei piccoli pacchetti di cipolla secca, abbiamo fatto un po’ di polpette. Con questo stomachino che non era niente. Abbiamo dormito là in cucina. E la mattina ci siamo incamminati verso Linz che è a circa 27 chilometri da Gusen.

D: Sei andato a Linz?

R: Sì, verso Linz e strada facendo prima di arrivare a Linz ci hanno intercettato gli americani. E ci portano dentro in quel campo, nel campo dei lavoratori civili, dove è successa quella cosa.

D: Lì quanto tempo sei rimasto?

R: Una quarantena. Praticamente. Hanno incominciato con una zuppetta, praticamente niente, poi sempre di più, un po’ di riso, sempre più, fino a che negli ultimi giorni ci stava il cucchiaio con pasta e fagioli, così ci hanno proprio rimesso a posto, ci facevano il bagno nelle vasche di zolfo, dieci minuti dentro in questo zolfo, poi fuori, poi la doccia, è scappato tutto, scabbia, orticaria. Sono rimaste solo quelle là. Dolori.

D: Per il rientro in Italia?

R: Il rientro in Italia, il ponte di Linz, la stazione di Linz non era più niente. Il ponte di Linz lo hanno fatto provvisorio. Si vede per il treno e siamo passati con il treno, vagoni normali di terza classe e bon, giù, in mezzo alla campagna, ci si fermava, perché non lo so. E lì si andava giù, si andava in cerca di rape o qualche cosa da mangiare, non c’era niente, non ci hanno dato niente.

Siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano ci hanno messo nelle baracche. Lì eravamo quattro, cinque giorni, non so, e lì venivano da Milano, da Torino, da Genova, a prendersi ognuno i suoi, allora era sempre l’auto parlante che gracchiava, un trasporto per il rientro.

Noi per Trieste, ma Trieste non si può, perché c’era Tito. Allora niente. Allora siamo andati giù per Trento, ci hanno fermati a Verona, e a Verona non si può andare, si rimane là. Invece poi è arrivato l’ordine che Tito si è ritirato e bon, a casa.

Veniamo a casa e a Bolzano ci vengono a prendere i pompieri di Muggia, con il loro camion e bon, ci hanno portato giù a Muggia. Lì in piazza ci hanno fatto la piazza piena così, hanno fatto un paio di tavoli, hanno spiegato qualche cosa, ma noi non eravamo noi. A parte che oggi siamo diversi, ma quella volta eravamo proprio niente.

D: Dei tuoi amici, del tuo Transport, vi siete salvati in tanti?

R: Non lo so, perché non mi ricordo quelle cose. Anche del campo non ci si ricorda mica tutto. Allora che cosa era il campo, che cosa mi ha colpito? La baracca che avevano loro i tedeschi che erano prigionieri come i nostri, solo che per fare quei servizi, andavano dentro e si vedevano che andavano su e giù e quando non avevano lavoro si vedeva che erano appoggiati alla finestra. Poi si vedeva il comandante del campo vicino al portone, un soldato, un piccolo bambino, di pochi mesi, forse, a buttarlo per aria e lui si allenava con la pistola. Quello mi è rimasto, si rimaneva colpiti perché erano cose. Il terrore e basta. Allora dormire, specialmente negli ultimi giorni in quattro su di un posto, non era una branda, era solo legno, due con la testa in su e gambe in giù e gli altri due con la testa in giù e le gambe in bocca. Era quasi una cosa normale, però ci si ricorda poco di queste cose.

D: Quando sei rimasto a Mauthausen e poi a Gusen 2, ti ricordi se potevi scrivere o ricevere pacchi?

R: Niente, niente, che scrivere. No, niente, pacchi, niente, niente, non riceveva nessuno. Noi eravamo completamente isolati dal mondo, niente, niente, giornali, neanche roba vecchia, niente. Niente.

D: Ti ricordi se assieme a te c’erano anche dei religiosi?

R: Come no. C’erano anche i Geova. C’erano gli omosessuali. Ognuno aveva il suo triangolo, il suo colore. Però noi più di tanto. Che cosa sapevo io.

D: Hai visto anche sacerdoti?

R: Come no, sacerdoti, professori, ingegneri, ma tutti, di tutto, trattamento unico. Tutti uguali. Solo che agli ebrei gli davano gli ultimi giorni un pane in ventiquattro.

Cattarossi Guido

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Cattarossi Guido, nato a Tarcento il 30 maggio 1925.

D: Guido, quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato l’8 dicembre 1944.

D: Perché?

R: Per un rastrellamento; ero armato, eravamo di pattuglia. Pioveva che Dio la mandava e c’era nebbia che non si vedeva, quando abbiamo individuato la postazione eravamo già in trappola. Una raffica, una pallottola mi è entrata e due sono andate nel cappotto.

D: Tu eri partigiano?

R: Io ero partigiano armato.

D: In quale formazione eri?

R:Nella Garibaldi, Battaglione Manin, Brigata Bozzi, non so, me l’hanno cambiata da un po’.

D: Chi ti ha arrestato?

R: I tedeschi assieme ai fascisti.

D: Dove ti hanno portato?

R: Subito dopo mi hanno portato da Monte Fosca a Rividischia, mentre facevano il rastrellamento. Abbiamo fatto un giorno e mezzo in un paesetto in montagna.

D: Che è dove?

R: È sopra Canebola.

D: Guido, è lì che ti hanno arrestato?

R: Sì. Sopra Canebola, dietro la buchetta di Sant’Antonio.

D: E ti hanno portato?

R: Dopo mi hanno portato a Ribilisi mentre facevano il rastrelamento, un giorno e mezzo siamo stati fermi lì. Io non potevo camminare, ma poi siamo partiti e siamo andati su a Monte Fosca per andare giù a Pulfero. Io che non potevo camminare avevo due compagni, a destra e a sinistra, che mi tiravano per il braccio. Ad un certo punto si fermano i due comandanti, due tedeschi, un sergente e un tenente; mi guardano e l’uno parla all’altro, io non capivo un bel corno e mi parla; quando siamo arrivati al Pulfero ho saputo tutto. Siamo ripartiti e via siamo arrivati fino al Pulfero; è lunga la strada, eppure siamo arrivati. A quel punto il tenente ha detto al capitano: “A quel ferito non è meglio sparare un altro colpo?” Quello che era con me sapeva il tedesco e l’altro ha risposto: “No, sono i suoi colleghi che lo tirano”. Una volta è passata bene.

Arrivati al Pulfero, il primo degli otto presi nel rastrellamento ero io e sono stato portato al Comando e interrogato, visitato. Due mesi di lazzaretto, l’ospedale. E invece dopo aver finito l’interrogatorio ci hanno caricati e giù in Via Spalato.

D: Scusa Guido, a quale Comando ti hanno portato? Comando di dove?

R: Il comando tedesco che era al Pulfero. Era in un distaccamento che avevano loro; lì mi hanno visitato, hanno interrogato tutti gli altri e poi siamo andati in Via Spalato.

D: Il Pulfero che cos’è?

R: Un paesetto prima di arrivare al confine con Stupiza, più in su, il confine di Stato con la Jugoslavia.

D: Poi ti hanno portato a Cividale?

R: A Cividale al Comando, ma non siamo scesi, andammo diritti per Udine.

D: Quindi ti hanno portato alle carceri.

R: In Via Spalato. L’unico degli otto ferito ero io, perciò mi hanno portato in infermeria, gli altri nelle celle. Due giorni dopo, sono stato catturato il 9 dicembre, l’11 dicembre sono entrato in Via Spalato; il 13 o il 14 dicembre non ricordo bene, o il 12, viene l’impiegato in infermeria e dice: “Cattarossi!” “Comandi!” “Alzarsi, andare al processo”. Io non ho risposto. Avevo l’infermiere vicino, rispose lui. “Scherziamo, dice, orina sangue”. Difatti per sette giorni ho orinato sangue.

Parte, fa un segno sulla sua carta e dopopranzo l’infermiere mi dice, visto che poteva girare a fare iniezioni e punture a destra e a sinistra, dice: “Molini, mi chiamava col nome del paese, vuoi sapere l’ultima? I tuoi colleghi, i tuoi sette, non tu, sono stati al processo”. “E allora com’è andata?” “Quattordici condannati a morte e uno graziato”. “Chi è graziato?” “Quello che ti ha fatto la puntura in montagna, un infermiere”. Quello che mi aveva accompagnato fino a Pulfero. Adesso mi curano e dopo avrò la mia sorte. Difatti il giorno 13 o 14, il 18 dicembre al mattino ci sono due camion che attendono: partono questi poveri condannati che sarebbero i miei compagni, anche un paesano. Otto sono partiti per Cividale, abbiamo saputo dopo anche dal giornale, e sei per Gemona, fucilati. Il mio paesano è stato fucilato a Gemona.

D: Tu invece sei rimasto lì…

R: Invece io sono rimasto lì. Finito l’anno, ci hanno mandato al gennaio del ’45. Vengono chiamati altri 26 al processo. Mi dice l’infermiere: “Basta che non tocchi a te!” “Boh, dico, se è destino accettiamolo, ormai siamo qua”. Sono fortunato un’altra volta, non sono chiamato. Processo: 23 condannati a morte e 3 graziati.

D: Il processo dei 23, dicevi?

R: Di questi non so niente, che fine abbiano fatto, com’è andata.

D: E tu al processo non hai partecipato?

R: No, al processo non ho partecipato. Io ero in infermeria fino al 15-20 gennaio. Agli ultimi di gennaio l’infermiere dice: “Penso che ci sia una partenza per la Germania”. “Perché?” “Perché il maresciallo che comanda mi ha chiesto di te e come stai”. “Io dico: sta abbastanza bene”. Allora mi prende e mi manda in cella. Vado in cella e faccio tre giorni in cella. Il terzo giorno alle 11 di sera dormo. “Cattarossi, Cattarossi!” mi svegliano gli amici con me. “Alzarsi, domani c’è la partenza per la Germania”. Si immagini, trattando di uscire di lì ho fatto un salto di contentezza. Andavo nelle celle per vedere chi parte e chi non parte. Di lì è avvenuta la partenza per la Germania, due o tre giorni dopo siamo partiti.

D: Da dove siete partiti?

R: Da Via Spalato.

D: E vi hanno portato?

R: Alla stazione.

D: Eravate in tanti?

R: Non so, abbiamo fatto la notte in un vagone a Udine per aspettare il treno che veniva da Trieste, ammassati, ammucchiati. All’indomani ci hanno divisi quando è arrivato il treno e siamo partiti. L’1 febbraio o il 2 siamo partiti.

D: Eravate tutti uomini o c’erano anche donne?

R: Che sappia io eravamo tutti uomini, dopo sul treno che veniva da Trieste…

D: Vi hanno agganciato al treno in arrivo da Trieste; erano carri bestiame?

R: Si immagini, si pensava di scappare per strada come tanti sono scappati, ma c’era la scorta perfino nel vagone, con noialtri, i tedeschi nel vagone.

D: Quanto avete viaggiato in treno?

R: Abbiamo viaggiato … siamo partiti il 2 e arrivati il 7 a Mauthausen. Sono tanti chilometri, lo sa dov’è Mauthausen in Austria? Perciò…

D: Siete arrivati alla stazione di Mauthausen.

R: Cinque chilometri fatti a piedi, dopo. Ho preso anche il tango per strada, mi hanno battuto perché non potevo camminare, dico la verità, mi faceva male la schiena. Io non ero ben inquadrato secondo i tedeschi, anzi non i tedeschi ma gli italiani perché c’era la scorta fino al campo. Non ero ben inquadrato allora mi hanno dato col calcio del fucile sulla schiena e sono cascato per terra. I miei compagni mi hanno preso, tirato su. Hanno portato lo zaino e siamo arrivati al campo. Alle sei, alle cinque di sera ci siamo ammassati, siamo arrivati e dopo ci hanno messo da parte e abbiamo aspettato prima di andare al bagno la bellezza di cinque o sei ore.

Tornando un momento indietro: quando siamo passati per Tarcento, io quella volta a 19 anni avevo già una fidanzatina sul lavoro. La serva del padrone che era a Tarcento, il padrone della fornace, è venuta a darci qualcosa. Sapeva che io passavo, alle quattro del mattino il capostazione ha dato un falso allarme, ha rallentato, hanno caricato la ragazza e la serva sul treno. Le hanno portate a Gemona perché sapevano che Gemona era in allarme, dovevano bombardare il ponte di … tutto il giorno fermi a Gemona.

E di lì quando si era fermato treno, sento: “Cattarossi, Cattarossi Guido”. Battevano nel vagone e allora i tedeschi hanno capito, le hanno fatte girare dall’altra parte dove hanno aperto la porta e volevano che scendessi. “Io non posso scendere!” Ci siamo baciati sulla porta e mi ha consegnato un cesto di roba che abbiamo mangiato per strada: pane, robe che si cercava di tenere, salame, formaggio. “Andremo a lavorare, teniamo qualcosa”. Invece la roba fece un’altra fine; prima di andare al bagno, quelle cinque o sei ore che stiamo stati fuori, ci hanno detto che dal bagno non si portava fuori niente. “Se avete qualcosa mangiatelo, se avete orologi, gioielli, dateci i nomi che alla fine vi torna tutto. Cominciate a tirarle fuori.”

Io ho detto: “Ragazzi, mangiamo tutto!” e mentre si parlava l’uno con l’altro ho trovato il mio amico con cui eravamo di pattuglia; uno è stato fucilato a Gemona, quello lì è riuscito a scappare. Lo hanno preso un mese dopo per andare in Jugoslavia. Quando siamo arrivati al campo l’ho trovato!. Mi diceva: “Guido, come sei qui, sei ancora vivo?” “Sì. Mi hanno preso così e così”. Ci siamo abbracciati e allora mi ha detto: “Io pensavo che fossi morto come il povero Aldo”. “No, ancora sono qua”.

Lì ci siamo lasciati, abbiamo mangiato. Dico la verità, abbiamo mangiato. Sono entrato verso mezzanotte al bagno, ma ero pieno. Avevo 20 anni! Dopo è partito tutto. Di lì abbiamo iniziato il bagno di disinfezione, attraversato tutto il campo, nudi completamente, senza un pelo addosso! Si immagini, era il 7 febbraio, era freddo. Ci siamo schierati. Nei blocchi di quarantena dove ho fatto una buona parte non ho dormito mai né sui materassi né sul castello, ma per terra: svestirsi sulla porta, fare il cuscino coi vestiti e dormire sempre di fianco. Io non mi sono mai buttato diritto così, ci si metteva l’uno di fianco all’altro, uno, due, tre, quattro, cinque, dovevamo stare in dieci metri, in quindici, quindici da una parte e quindici dall’altra e dopo diceva: “Giù, testa e piedi in fianco”. Io ho dormito tanto così e mi è capitata tre volte la dissenteria: allora toccava prendere il cuscino fatto di vestiti, andare fuori e passare quelle due ore, tre, cosa rimaneva per arrivare all’alba sulla porta. L’ho fatta due, tre, quattro volte, poi tornando il mio posto era perso, non c’era più.

Fare attenzione a non camminare, nell’uscire per andare fuori, sopra la pancia di qualcun altro! Capitava una rivoluzione e ti facevano rotolare fuori.

D: Quando ti hanno immatricolato?

R: All’indomani. La mia matricola era il numero 126.670.

D: E assieme al numero cosa ti hanno dato?

R: Il triangolo.

D: Di che colore?

R: Rosso, italiano.

D: Dopo il blocco di quarantena dove ti hanno portato?

R: Sempre lì. Una buona parte della mia vita l’ho fatta lì. Andavamo fuori e venivano a prenderci, dovevamo fare dei lavori e ci portavano via col camion lontano, altrimenti si andava a piedi e si tornava lì. Io non ho avuto un posto fisso mai; solo una volta verso i primi di aprile, a metà aprile, ad Amstetten, una stazione a 60 chilometri fuori che era proprio distrutta. Là eravamo 7.000 prigionieri, era un putiferio.

D: Sei stato lì a un Kommando?

R: No, siamo stati al lavoro alla stazione per riattivare un binario per i treni e sistemarla, visto che era bombardata. Abbiamo subito dopo tre giorni che eravamo lì un altro bombardamento di quattro ore, senza un colpo di contraerea; era un disastro.

D: Vi portavano fuori dal campo al mattino e tornavate alla sera?

R: Per lavorare a Mauthausen ma poche volte, il più siamo stati fermi a Mauthausen. Fermi a Mauthausen, non lavorare; si preferiva lavorare piuttosto che star dentro là fermi. Pioveva, fermi, stretti l’uno con l’altro in mezzo al cortile, perché era freddo. Se pioveva c’era umidità, eravamo bagnati. Ci si ammucchiava in 300/400, quanti eravamo, ci si metteva schiena contro schiena per stare caldi. Ogni tanto capitava il capoblocco, uno della SS col nerbo e allora si cercava di non andare in mezzo al mucchio: tanti di loro sono stati morti calpestati.

D: Quindi sei rimasto sempre nel blocco di quarantena?

R: Sì.

D: Fino a quando?

R: Fino alla Liberazione. Perché dopo che sono ritornato da Amstetten sono tornato a Mauthausen.

D: Ma ad Amstetten tu stavi a dormire?

R:Sì, siamo stati lì otto o dieci giorni e ho dormito lì. Anche lì le ho prese. C’erano due russi vicino a me che non lavoravano Vedo un tedesco che con un pezzo di traversina di legno li picchia sulla schiena e a me che avevo un carico di mattoni sul braccio non va per traverso? Ho mollato i mattoni e hanno preso questo dito che è stato frantumato. Alle dieci di mezza di sera, pioveva, e alle undici smontava, a quelle ore lì le ho prese. In pochi giorni il dito è divenuto così. Mi pare che dopo tre quattro giorni dopo il secondo bombardamento ci hanno detto di rientrare. Siamo rientrati a Mauthausen di nuovo, passato al bagno, la stessa cosa che abbiamo fatto alla partenza. Sono andato dal medico per il dito che era così. E mi dice di cavare l’unghia. “No, qua tagliare”. E lui: “No”. Io il mio e lui il suo, l’ha vinta lui, perciò ha preso l’unghia e mi ha fatto male. Sono svenuto. Sono andato fuori, non ho neanche preso la disinfezione, sono andato fuori, ho tirato quel dito, ci ho orinato sopra, ho mandato un compagno a prendere un pezzo di carta igienica e l’ho fasciato.

All’indomani ho cambiato la benda e negli ultimi giorni avevo ancora il dito gonfio e cotto; è guarito nelle cucine quando sono stato liberato, perché andavo a cercare da mangiare. Non mi vergogno a dirlo, ero là.

D: Guido, scusa un attimo. Quando sei arrivato nel campo di Amstetten …

R: Non era un campo ad Amstetten, era una stazione di smistamento.

D: Ma dopo, quando andavate a dormire, dove vi portavano?

R: In un capannone con la paglia, là c’era la paglia e dormivi. Lavorare di giorno e di notte quasi all’aperto.

D: Eravate in tanti?

R: Sì, eravamo in tanti. Non eravamo solamente quelli partiti da Mauthausen, ce n’erano da tante parti, da tutte le parti. Siamo a migliaia, degli altri non posso dire, so dei nostri in quanti eravamo.

D: E poi ti hanno riportato ancora a Mauthausen?

R: Sì.

D: Sempre nel blocco di quarantena?

R: Sempre nel blocco di quarantena.

D: Ti ricordi che numero era il blocco di quarantena tuo?

R: Io avevo la terza baracca, entrando dal campo libero, in fondo a sinistra c’erano i blocchi di quarantena e la terza baracca era la mia.

Vorrei raccontare un altro episodio. Non vorrei ma lo racconto perché un povero disgraziato ha lasciato la vita a tre metri di distanza da me.

Mentre eravamo incolonnati per l’appello nella nostra baracca ne mancava uno. Un tenente va su e giù per tutti i blocchi, controlla le baracche e non lo trova. Il capoblocco è partito a cercarlo nel campo libero, dietro le cucine. L’ha trovato che cercava di tirar fuori qualcosa; io ero proprio all’entrata del cancello in testa alle baracche, vicino. Veniva avanti. Il tedesco non era lì, era nella baracca dietro. Il tenente viene giù, lo trova, a tre metri distanti da me parlano i due tedeschi, il capoblocco e il tenente: “Dov’era?” “Nelle cucine, dietro le cucine, nelle immondizie a cercare”.

Gli va vicino, gli dà un pugno nella testa, è cascato per terra; gli salta sulla pancia. Quella volta mi sono voltato dall’altra parte. Dopo cosa ha fatto? E’ rimasto lì, gli ha tirato giù il numero di matricola, l’ha registrato sul suo libro.

Crematorio , sa cosa vuol dire? “Auf Wiedersehen!”, ha fatto una risata e via. Rotte le file, non so se l’ha portato nel crematorio direttamente oppure all’infermeria, ma di lì non si è alzato più e lo hanno portato via. Posso dirlo perché l’ho visto io, era a tre metri.

D: Guido, al momento della Liberazione tu dov’eri?

R: Nei blocchi di quarantena.

D: Come te la ricordi la Liberazione?

R: Me la ricordo perché il giorno prima non si aveva pace; i tedeschi venivano dentro e toccavano quelli che non riuscivano a stare in piedi, sfiniti, alzarsi in piedi, reggere il berretto e fare il saluto. Le ho prese anche lì. Sono stato fortunato perché sono qua a raccontarla, ma quante botte!

Ho avuto la fortuna della ferita che mi ha salvato, ma sono rimasto lì, quando venivano loro mi toccava alzarmi per fare il saluto e via. “Speriamo che oggi sia l’ultimo giorno, che domani venga qualcuno a liberarci”, si sentivano i colpi vicino. L’indomani alle 7 di mattino andiamo fuori, comandi non ce n’erano più, viene innalzata la bandiera sui crematori. La SS era partita, quell’altro comando era già indifferente, è entrato il carro armato!

E’ entrato il carro armato, si è presentato a tutta quella gente che c’era, ha cominciato con l’altoparlante a dire di stare fermi e calmi: loro sapevano tutto quel che era stato e quello che non era stato, dovevamo portare pazienza, piano piano avrebbero sistemano tutto.

Subito ho cercato di uscire a cercare da mangiare; fuori del campo c’erano le cucine delle SS. Siamo andati a prendere da mangiare.

Un altro particolare, fa senso ma era normale, erano le caldaie dove facevano da mangiare, come trattavano il formaggio in latteria. Una di qua una là erano in questa cucina, dentro la minestra che bolliva c’era l’uomo che girava. Una persona per andare a mangiare l’ha spinto, è andato dentro, vestito. Ma non si guardava questo, si cercava di prenderci qualcosa da mangiare.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Il 5 maggio, non potrei dire l’ora, dopo pranzo, no, al mattino, al mattino sono entrati verso le 11 mi pare.

D: E poi cosa è successo, poi cosa hai fatto?

R: Non ho fatto niente. Piano piano ho cominciato. In due notti c’erano 500/1.000 morti perché erano nei forni crematori, erano accatastati. Poi hanno cominciato a far venire le casse. Prima di arrivare al campo, per la strada venendo su, dove adesso mettono le corriere, da quelle parti lì hanno fatto una fossa comune e li hanno messi lì. Non so se li hanno tolti da lì e portati non so dove o se sono rimasti lì. Dopo ci siamo divisi per nazionalità: io con gli italiani, gli altri coi francesi e via. Abbiamo preso la baracca e lì abbiamo fatto un mese. Ci hanno liberati il 5 maggio e io sono rimpatriato il 2 giugno. Il 30 maggio ho terminato vent’anni. Se non vado errato mi pare così, ’25 e ’45.

D: Ascolta, sei rimpatriato dove, come sei rimpatriato?

R: Con la Croce Rossa Internazionale. Abbiamo fatto il permesso della Svizzera per passare ed è passato un convoglio di militari italiani prigionieri; il nostro comando ha chiesto se potevamo salire. Sì, siamo saliti. Eravamo sfiniti, depressi, siamo andati persino dove frenano, al posto di quello che frena, pur di arrivare a Innsbruck. A Innsbruck ci hanno detto che chi non si fosse sentito di camminare coi suoi mezzi sarebbe stato portato al campo. Dico al mio compagno: “La facciamo a piedi. Quanti chilometri sono?” “Due”. “Tentiamo di farla a piedi”. Pentiti dopo perché non si andava avanti. Non erano due chilometri, erano più di quattro per arrivare al Lager. Nel campo troviamo 10.000 italiani espatriati.

D: A Innsbruck?

R: A Innsbruck, al campo di Innsbruck. Ci hanno avvertito che noi altri saremmo stati i primi a partire e infatti quella sera siamo andati a dormire; ci hanno messo nei castelli io e il mio amico. Accendi la luce: c’era il cuscino pieno zeppo di quelle bestie, allora qua non si dorme! Siamo andati a prendere un mucchio di fieno nei campi, quello fresco, siamo venuti su, c’era un armadio, un guardaroba, l’abbiamo steso a terra, ci abbiamo buttato il fieno e abbiamo dormito lì. Al mattino ci chiamano: quelli in arrivo da Mauthausen dovevano presentarsi al cancello, lì ci hanno chiamati, di lì siamo partiti verso Bolzano. Siamo arrivati a Bolzano, ce n’erano provenienti da tutte le parti d’Italia tranne che da Udine: noi eravamo i più vicini ed eravamo gli ultimi a prendere le corriere. Abbiamo aspettato, è arrivata all’indomani, un giorno è stata a Bolzano. Anzi ero salito su un’altra corriera. Mi hanno detto: “Lei non deve salire”. “Ma perché?” “E’ di Pordenone”. “Ma arrivo fino a Pordenone!”. “No”. Sono tornato a prendere da mangiare, ho mangiato un altro piatto di riso. E così fino a quando è arrivata quella di Udine, siamo partiti dopo per Udine.

Volevo anche raccontarle che, tornando indietro, prima di partire da Mauthausen hanno dato anche i nomi degli altri per radio. Quando una missione è arrivata a Milano ci hanno detto: “Il tal giorno vi avvertiremo che i vostri nomi saranno letti per radio. Ascoltate alle sette del mattino”. E’ stato vero. Di notte io andavo a pelare patate, perché si trovava da lavorare per noi altri dopo. Al mattino, prima di andare a dormire, passato di lì alle sette, mi metto davanti alla radio e sento: “Tizio, Caio, Sempronio, Cattarossi Guido”. Presente! Qualcuno avrà sentito … difatti è stato vero.

D: A Bolzano sei rimasto fermo un giorno?

R: Sì, un giorno, un giorno e mezzo. Due giorni.

D: Ti ricordi dov’eri, dove vi avevano alloggiati?

R: Alle caserme mi pare, alle caserme di Bolzano. Un altro particolare. Una signora viene vicino e dice, eravamo in mezzo alla strada, per passare la strada come i bambini ci davamo la mano: “Da dove venite?” “Da Mauthausen”.

E’ andata a prendere le ciliegie.

D: Questo a Bolzano.

R: A Bolzano. E di lì siamo partiti con la corriera e siamo arrivati a casa, a Udine.

D: E sei arrivato a Udine quando?

R: Il 9 giugno.