Paganini Bianca

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Bianca Paganini, sono nata a La Spezia il 1. febbraio del 1922. Appartengo ad una famiglia molto religiosa, perciò babbo e mamma avevano aderito al movimento del Partito Popolare prima dell’ascesa al potere di Mussolini.

Erano persone molto generose, però nello stesso tempo erano persone che amavano tanto la loro libertà; eravamo cinque fratelli, tre maschi e due femmine, ed eravamo vissuti in una famiglia veramente felice. Babbo e mamma assecondavano, quando era possibile, i nostri desideri anche però con una certa quale rigidità. Ci avevano insegnato poco per volta che si poteva vivere felici anche senza la dittatura fascista. A casa mia infatti non vedemmo mai una divisa fascista, né i miei fratelli ebbero mai le divise da balilla o da figli della lupa, né io e mia sorella potemmo mai avere una vera divisa da giovani italiane. Papà aveva posto il veto a mia madre: “Se devono andare vestite in divisa, che si accontentino di quello che la casa può offrire”. Eravamo studenti nelle scuole spezzine, io frequentavo il liceo, mia sorella frequentava l’istituto tecnico, i miei fratelli mio padre aveva preferito metterli in collegi salesiani, affinché non assorbissero la teoria fascista.

A scuola assorbivamo però tutta la teoria fascista; a scuola dovevamo andare in divisa, determinati giorni dovevamo frequentare le adunate, e con un certo distacco la famiglia ci permetteva di farlo. Mio padre morì nel 1938 e noi restammo soli con la mamma, che però seguì in tutto e per tutto il modo di educarci di papà.

Scoppiò la guerra e noi dal centro della città, a causa dei continui bombardamenti ed a causa anche della salute malferma di mamma, dovemmo trasferirci in una piccola casetta ai margini della città, a San Benedetto, che si trova al di là della foce, dove avevamo già preparato una casa per i momenti del pericolo.

Là ci colse l’8 settembre (1943). Mio fratello più grande era ufficiale degli alpini e si trovava sul confine precisamente nella zona fra Vipiteno e Fortezza. L’8 settembre abbandonò il suo posto e si diresse verso casa. Ci raggiunse ai primi di ottobre, e immediatamente cominciò insieme ad altri ad organizzare i primi raduni dei partigiani. Mamma non si oppose a questo intendimento dei suoi figlioli, anzi li appoggiò, anche se evidentemente l’aiuto che essa poteva dare era veramente poco. Poteva soltanto accettarli in casa quando venivano dalla montagna, e soprattutto ospitare gli amici che poco per volta trovavano nella nostra casa l’appoggio per poi salire la montagna.

Ben presto a mio fratello Alberto si associò anche il secondo, Alfredo, che faceva il quinto anno di medicina e che in montagna cominciò ad organizzare un piccolo ospedale, viste le sue cognizioni di medicina, per poter accogliere partigiani feriti durante i rastrellamenti. Noi restammo in casa, io, mia madre, mia sorella ed il fratello più piccolo che aveva soltanto 16 anni.

Quando cominciarono le prime avvisaglie, mamma cercò di avvisare i miei fratelli che si trovavano in montagna di essere leggermente più prudenti, perché non si poteva mettere in pericolo non solo la nostra sicurezza ma anche quella degli altri che avrebbero raggiunto la nostra casa.

La mattina del primo di luglio (1944) mio fratello Alfredo scese in città insieme alla moglie di Vero del Carpio che era allora il capo della formazione partigiana. Alfredo era venuto in città per prendere delle medicine in una delle farmacie spezzine che avevano accettato di dare aiuti farmaceutici alla zona partigiana. Nello stesso tempo molto probabilmente avevano anche intenzione di prendere una piccola radiotrasmittente che sarebbe servita per le formazioni in montagna. Quando arrivarono in città, e precisamente in piazza Garibaldi, vennero accerchiati da ufficiali della SS e da fascisti, arrestati e portati nelle carceri di Villa Andreini. Noi sapemmo subito quello che stava succedendo: mamma cominciò con grande spirito e grande coraggio a cercare in casa tutto quello che vi poteva essere di pericoloso, ma in casa c’era poco o niente. E allontanò il più piccolo affinché potesse essere sottratto a qualsiasi rivendicazione da parte dei fascisti. Poi cercò di avvisare il maggior numero possibile di persone di non avvicinarsi alla casa perché era estremamente pericoloso. Noi attendemmo, sicure che nulla sarebbe successo ad una donna di 63 anni e a due ragazze, di cui una aveva 21 anni l’altra ne aveva soltanto 18.

Aspettammo. Durante tutta la notte e durante tutto il giorno le notizie arrivavano ma erano incomplete, non si sapeva nulla di quello che stava succedendo in città. Poco per volta però venimmo a sapere che altri erano stati arrestati, fino a che giunse la sera. Ci coricammo e circa verso mezzanotte cominciammo a sentire arrivare sotto la nostra casa parecchie persone. Ci affacciammo, cominciammo a vedere la casa circondata da soldati fascisti che con il moschetto cercavano di impedire, semmai ce ne fosse stata necessità, a chiunque di entrare e di uscire. Bussarono alla porta: mamma con molto coraggio andò alla porta, dicendo a noi ragazze di restare a letto perché così avremmo dato ad intendere con maggior sicurezza di non sapere nulla.

Si affacciarono alla porta Gallo ed altri due fascisti; dietro di loro c’erano due ufficiali della SS e 4 / 5 soldati tedeschi della SS. Entrarono in malo modo, ci fecero alzare, e per cinque ore rovistarono in casa, che era ben misera, perché era un rifugio dai bombardamenti; tutte le cose erano state messe in salvo in altre case dove c’era maggior sicurezza. Frugarono, non trovarono nulla all’infuori di libri; uno, lo ricordo come se fosse adesso, era intitolato “Disobbedisco”, ed era stato dedicato a mio padre dallo stesso autore. La cosa suscitò profondo interesse e profondo sdegno da parte dei fascisti, così come suscitarono sdegno le figure della Divina Commedia del Dorè che erano proprio nella nostra biblioteca. Vuoi che durante la perquisizione venne trovata dai fascisti la lettera con cui un amico svizzero in cui ringraziava mio padre (e notate che mio padre era morto nel 1938) per dello Sciacchetrà che gli aveva inviato affinché potesse brindare con il vino spezzino al suo matrimonio? Era una lettera molto cara, molto gentile da parte di questo amico. Non so per quale motivo la lettera venne presa, messa agli atti come se fosse una lettera capace di suscitare segnali di spionaggio da parte di persone svizzere. Alle cinque del mattino ci fecero vestire, prendere i gioielli che mamma teneva in casa e ci portarono in città.

In città immediatamente ci schedarono nelle carceri di Villa Andreini. I gioielli che erano in mano di mamma vennero consegnati per fortuna direttamente al direttore delle carceri. Questo non successe con la mamma di un altro detenuto, l’avvocato Vironi, la quale ingenuamente aveva affidato i gioielli agli ufficiali fascisti. Quando giunse in carcere questa signora invitò il fascista a dare i gioielli al direttore delle carceri, ma il fascista negò di averli mai avuti. Tanto per descrivere il clima che vigeva allora tra i fascisti spezzini.

Fummo messe in carcere in isolamento, tre celle per tre persone. In carcere trovammo altre due persone che poi divennero per noi molto care, la signora Stanzione con la figlia – mamma e figlia erano state arrestate insieme al figlio – e Italo Geloni; anche loro erano stati arrestati da fascisti e tedeschi. Trovammo anche Dora Carpanese, arrestata con mio fratello, e pochi giorni dopo ci raggiunse un’altra donna, mamma di un partigiano amico dei miei fratelli, arrestata poiché non avevano trovato il figlio, insieme al marito. Il marito morì poi a Dachau. Lei tornò a casa soltanto alla fine della guerra, dopo essere stata per tutto il tempo deportata nel campo di Bolzano.

Arrivati nelle carceri, il giorno dopo cominciarono l’interrogatorio; noi non subimmo interrogatori da parte dei fascisti, cosa che invece subì mio fratello. Immediatamente fummo messe sotto il controllo della SS e ci cominciò ad interrogare un ufficiale della SS con l’interprete spezzino, che però conosceva molto bene il tedesco, lingua che parlava quasi fosse la sua seconda lingua madre.

Il colonnello non alzò mai la mano né contro la sorella e me né contro mia madre. E’ vero che la pistola era sempre nelle sue mani, è vero che le parole talvolta erano accompagnate da movimenti piuttosto bruschi, è vero anche che la voce molto spesso si alzava durante l’interrogatorio, però non venne mai meno a quelli che erano perlomeno i princìpi di una sensibilità che qualsiasi uomo ha verso le donne, soprattutto verso una persona anziana. Mia madre però era continuamente interrogata perché da lei si voleva sapere chi erano, cosa facevano quei banditi, quei disgraziati, quei delinquenti dei suoi figlioli, chi erano gli amici, quali amici frequentavano la nostra casa. Malgrado mia madre si ostinasse a dire che lei non sapeva nulla, che aveva dei figli di cui però non sapeva neanche dove fossero, gli interrogatori erano sempre sempre più pressanti e sempre più pesanti, e a questi interrogatori poi anche io e mia sorella, anche se molto meno, venimmo sottoposte. Fino al 20 di luglio, quando successe l’attentato a Hitler. Mia madre, che era una persona molto calma, molto equilibrata, con un cipiglio che io mai avevo conosciuto, obbligò suor Teresina, che era allora la madre superiore che teneva in mano le carceri femminili, a chiedere un’udienza immediata al comandante tedesco.

Il comandante tedesco dapprima tergiversò, e mia madre lo obbligò in un certo qual senso a sentirla, e quando gli fu davanti disse: “Io vorrei sapere come tu chiami la tua gente, quella che ha attentato al tuo capo? io ti do del tu perché tu dai del tu a me, ma io ti do del tu anche perché ad un certo momento tu appartieni ad un popolo in cui ci sono anche delle persone che, come i miei figli, amano la libertà, e non osare più chiedermi nulla perché tanto non so nulla ma non ti dirò mai nulla”.

La cosa mi venne poi raccontata dalla madre superiora, suor Teresina, che cercava di aiutarci quanto più possibile nelle carceri. Quest’uomo un po’interdetto guardò mia madre, si alzò, le fece il saluto militare, e poi le disse: “Mille donne come te e io qua non ci sarei”. Da quel giorno non fummo mai più interrogate. Perciò il soggiorno in carcere continuò tra alti e bassi; alcune sere dovevamo aspettare i partigiani che ci avrebbero liberato, altre sere invece dovevamo accettare di poter salutare qualcuno che forse poi non avremmo mai più rivisto. Nel frattempo ci fecero anche vedere mio fratello. Mio fratello era ridotto in condizioni pietose, sorretto da due amici che lo avevano accompagnato a salutare mia madre. Io penso che per mia madre questo fu l’inizio della morte, era mamma e fino a quel momento ci aveva sempre protetto, ci aveva sempre salvato. Da quel momento cominciò ad accorgersi che come madre nulla poteva più fare, non poteva più aiutare i suoi figli; il suo ruolo di madre perciò era completamente finito. Il suo cuore non reggeva molto a questo stato di cose. L’8 settembre, ricordo sempre, sentimmo aprire la porta della cella e suor Domitilla, una suora gentile, buona, che sempre aveva cercato di aiutarci, anche con le parole, venne piangendo e ci disse: “Preparatevi perché dovete andar via”. Era tardi, ci fecero uscire dalle carceri, ci imbarcarono ammanettati sul cassone di un camion e così partimmo. Eravamo circa una ventina, eravamo insieme io, mia madre e mia sorella e le due Stanzione, come donne, e un’altra donna di cui adesso mi sfugge il nome, che poi seguì con noi la trafila della Germania. Fummo assaliti dai partigiani durante il cammino e noi sperammo in una prossima liberazione. In realtà i tedeschi puntarono i fucili contro di noi e impedirono perciò la nostra liberazione.

D: Ricordi il luogo?

R: Sì, era un rettilineo fra Riccò e Pian di Barca.

D: Nella zona di Caresano?

R: Nella zona di Caresano, sì.

D: La tua mamma quanti anni aveva?

R: Mamma aveva 63 anni ma era gravemente ammalata di cuore. Soffriva di uno scompenso cardiaco che più di una volta ci aveva fatto temere per la sua salute e anche per la sua vita.

Arrivammo a Genova, fummo perquisite come se, provenendo dalle carceri avessimo mai potuto nascondere qualcosa, e poi avviate al IV raggio del carcere di Marassi. Fu un salto brutto perché a Spezia avevamo amici, a Spezia avevamo le suore che ci proteggevano, a Spezia avevamo i parenti, soprattutto una zia, che ci portava il mangiare a mezzogiorno, e ci faceva sentire ancora legati alla nostra terra e alla nostra casa.

Invece a Marassi cominciammo a capire una nuova dimensione della prigionia. Ci sbatterono in una cella dove non c’erano neanche letti ma soltanto materassi, sporca, piena di animali che camminavano nei muri, ci cominciarono a dare da mangiare in maniera sporca, tanto è vero che prima di mangiare dovevamo pulire il cibo di tutto quello che c’era sopra. Il mangiare era poco. Ecco lo spirito che animava i nostri carcerieri: quando mia madre chiese qualcosa da leggere, le portarono un libro stupendo “Le ultime ore di un condannato a morte”, e mia madre disse: “Capisco che sono utili anche queste pagine però evidentemente non è il momento che io legga queste cose” e lo restituì.

Marassi: una prigionia dura, pesante, anche perché durante la notte si viveva male, erano urla continue di gente che urlava sotto tortura, e noi le sentivamo; la notte era piena di incubi per noi.

Alla fine di settembre, verso il 20, di mattina fummo imbarcati su due pullman e diretti a Bolzano.

Cominciammo ad avere il primo sentore di quello che sarebbe stata la nostra prigionia. Il viaggio era lungo e ad un certo momento fummo costretti a fermarci e, davanti a tutti, a fare i nostri bisogni. La cosa colpì profondamente specialmente noi donne, che non avevamo certamente avuto l’abitudine di fare certe cose di fronte a tutti; era una cosa molto privata. Alla fine giungemmo a Bolzano.

D: Vi siete fermati anche a Milano?

R: No, però a Milano ci fermarono in una piccola strada, vicino a piazza del Duomo. Mamma aveva sete; una persona si affacciò e disse: “Ho sete, portatemi qualcosa da bere”. Immediatamente i due pullman vennero circondati da molte persone che portarono tutto quello che potevano portarci: acqua minerale, pane, salame, di tutto. Però ad un certo momento, vista la ressa, forse per paura che noi potessimo essere liberati, le SS cominciarono a sparare. La gente scappò e noi restammo con la nostra sete, la nostra fame, mentre tutto quello che poteva soddisfare il nostro desiderio di allora era rimasto sopra la strada, senza che nessuno potesse usufruirne.

Dopo Milano raggiungemmo Bolzano. E a Bolzano, lo ricordo come se fosse ora in questo momento, cominciammo a sentire le prime rigide forme della prigionia sotto le SS. Fummo spogliate di tutte le nostre cose, però i nostri vestiti furono messi in un sacco, e ci dettero una tuta. Quando entrammo nel campo io ebbi la ventura di trovare tra i deportati il mio professore di matematica del primo e secondo anno di liceo, Vittorio Sturlese, che era stato arrestato per motivi politici. Il professore mi venne incontro, mi abbracciò, pianse perché non si sapeva capacitare del fatto che anche delle ragazze potessero essere arrestate e soprattutto messe in deportazione. Lì cominciammo ad avere il primo numero, che veniva segnato su una grande striscia bianca sulla tuta che ci avevano dato.

Per noi però Bolzano fu una specie di oasi: da tre mesi stavamo chiuse dentro una cella senza poter vedere la luce del giorno; nove, dieci persone in una sala che poteva essere 5 m x 6, non di più, dove non avevamo neanche il letto per dormire, dove era molto sporco. L’aria frizzante della montagna ci veniva incontro ogni volta che uscivamo dalla baracca. C’erano dei letti a castello, è vero, però ognuno aveva il proprio letto, e avevamo la possibilità di poter conoscere altre donne con le quali condividere la prigionia. Non stavamo tutto il giorno nel campo perché alla mattina venivamo portate nella caserma dei carabinieri (alpini) ad attaccare i bottoni nelle tende da campo. Anche lì trovammo persone amiche, chi lungo le scale ci faceva trovare del cioccolato, chi ci faceva trovare una caramella, chi ci faceva trovare una sigaretta, addirittura una volta trovammo un piatto di pastasciutta, per noi a 20 anni la pastasciutta era una cosa veramente …

D: Scusa Bianca, che caserma era?

R: La caserma degli alpini, proprio vicina al campo. Ho forse detto carabinieri prima?

Il capo del campo era Titho, poi c’era un certo Hans che la mattina in cui fummo convocate per poi farci partire noi mandammo veramente all’inferno, e lui disse: “Non vi preoccupate, ben presto sarete voi all’inferno!” Conosceva evidentemente il campo in cui saremmo dovute andare. La mattina dell’8 ottobre fummo fatte uscire dalla baracca incolonnate, e la maggior parte delle donne e degli uomini venne portata alla stazione. Riempirono due carri bestiame di 113 donne; altri 4 carri bestiame vennero occupati da altrettanti prigionieri che da Bolzano venivano trasportati in Germania. Il viaggio si presentava terribile, nel vagone non c’erano servizi igienici e con noi c’erano donne incinte o già di una certa età. Noi 60 donne ci preoccupammo immediatamente di fare un buco che potesse in un certo qual senso darci la possibilità di …., perché non sapevamo quanto dovevamo stare. Nessuna di noi aveva cibo con sé, soltanto qualche biscotto, e neanche da bere: soltanto qualche biscotto c’era stato dato dal CLN di Bolzano che ci era venuto in aiuto portandoci abiti e, mi hanno detto anche soldi, io questo non lo posso dire, posso dire dei biscotti.

Ci mettemmo in viaggio, ci fermammo a Dachau dove lasciammo gli uomini, e noi proseguimmo, chiuse, senza aria praticamente, senza neanche poter sederci per terra.

Facevamo a turno, lasciando alle più anziane ed alle più deboli il posto per sedersi, per cercare di riposarsi; a turno cercavamo di andare a respirare un po’ d’aria da quei piccoli finestrini che sono nei carri bestiame.

Cinque giorni fummo così, poi al quinto ci fermarono a Lipsia. A Lipsia aprirono i vagoni; eravamo quasi al centro della stazione, ci fecero scendere, ci circondarono militari con il fucile spianato e ci obbligarono davanti a tutti a fare le nostre necessità. Poi ci diedero una piccola scodella, una gamella che ognuna di noi aveva come dotazione, di roba calda.

Richiusero di nuovo i vagoni e finalmente la mattina del 13 ottobre arrivammo a Ravensbrück.

Ravensbrück era il campo femminile in cui venivano raccolte tutte le donne arrestate per motivi politici da tutta quanta l’Europa. Quando scendemmo dal vagone ci guardammo intorno: eravamo sfatte, sfinite, la discesa dai vagoni era stata fatta in maniera quasi bestiale, venimmo spinte, venimmo anche con le parole in un certo qual senso esortate a far presto. Cominciarono anche le prime difficoltà, gli ordini venivano dati in tedesco, e noi il tedesco non lo capivamo. Perciò proprio questa mancanza di conoscenza della lingua ci provocò subito botte e calci a non finire. Malgrado tutto questo ci misero per cinque e ci portarono verso una destinazione che noi ancora non conoscevamo. La strada che ci fecero seguire era una strada che costellava un lago e dall’altra parte della strada c’erano delle ville ben tenute, piene di fiori, tanto è vero che parecchie di noi dissero: “Va bene, siamo state male fino adesso, siamo state finora chiuse in carcere, ma se ci hanno portato qua, tutt’al più aiuteremo le donne tedesche nella direzione della casa, faremo le donne di servizio”.

Qualsiasi cosa e il nostro cuore quasi si allargava, anche perché l’aria del lago che si respirava era molto corroborante. Fino al momento in cui non arrivammo davanti ad un cancello. Era un cancello sopra il quale c’era scritta una frase che noi allora non sapevamo cosa volesse dire, però c’era scritto Arbeit macht frei.

Era sul tardi, ci fecero entrare e poi misero alcune di noi dentro una baracca, altre invece ci lasciarono all’addiaccio. Durante la notte noi sentivamo delle ombre intorno che ci dicevano: “Se avete da mangiare datecelo, se avete oro datecelo”. Mangiare ne avevamo poco e oro evidentemente, anche se qualcheduna l’avesse avuto, mai più si sarebbe fidata a darlo alla voce che proveniva da un posto a noi ignoto.

Venne il giorno, fummo destate dal suono di una sirena e poi vedemmo uscire dalle baracche delle donne, che non erano donne, erano figure magre, macilente, vestite a righe: noi le guardammo, un po’ stupefatte, non riuscivamo a capire, tutte le donne avevano però un triangolo e un numero che noi non riuscivamo a capire bene cosa fosse, né sapevamo perché avessero questo numero.

Fintanto che ad un certo momento cominciammo a vedere arrivare davanti a noi un carro, e ai fianchi di questo carro, due donne con un forcone ogni tanto prendevano quello che cascava e lo rimettevano su.

Una disse: “Mi sembrano stracci”, quell’altra disse: “Ma figurati, è legna, non vedi come sono legnosi? chissà dove la porteranno?”, fino al momento in cui questo carro ci passò davanti. Vedemmo che erano cadaveri, nudi, e sul petto vedemmo i numeri. La paura ci prese, sapevamo che ormai eravamo in un posto dove la nostra vita era soltanto in balia degli altri. Ci portarono dentro delle baracche, ci obbligarono a spogliarci nude. E questa nudità per noi donne di allora era dura, non eravamo abituate alla mancanza del pudore, noi eravamo abituate al nostro privato. Quello che maggiormente ci fece star male era il fatto che vecchie e giovani, ma soprattutto mamme e figlie, potessero vedersi sin nella loro completa nudità. Capii che mia madre aveva vergogna, capii che anche altre donne avevano vergogna, e allora cominciammo soltanto a guardarci in volto. Capii anche che per mia madre sarebbe stato molto duro poter continuare a sperare in una vita migliore. Ci fecero fare la doccia, ci portarono in un luogo dove fummo depilate di tutto, molte di noi fummo anche visitate in maniera tale da poter scoprire se qualcheduna avesse nascosto qualcosa di oro e di gioielli. Ci portarono via tutto l’oro che potevamo avere, cioè la catenina d’oro, il braccialetto, e devo dire la verità tutto fu messo in una forma quantomai precisa. Poi tirarono fuori per ognuna di noi una piccola busta, segnarono quello che avevano portato via a ognuna di noi, chiusero la busta e su ogni busta c’era un nome: Era una catenina, un anellino, cose che dopo 4 mesi di prigionia qualcheduna aveva ancora tenuto ma in realtà era ben poca cosa. Però portarono via anche quelle poche cose, e portarono via le fotografie dei nostri cari, tutto, ci lasciarono soltanto, a chi ancora l’aveva, un po’ di sapone e il dentifricio con lo spazzolino da denti. Però in mano, perché eravamo completamente nude. Dopo averci fatto fare la doccia e dopo averci depilato ci gettarono degli stracci. Noi non sapevamo cosa fare, alla fine capimmo che dovevamo scegliere tra gli stracci quelli che maggiormente potevamo usare per la nostra taglia. Evidentemente non avevano misurato le taglie di quelle alle quali offrivano questi vestiti, perciò chi aveva un cappotto che arrivava ai piedi, a chi invece una gonnellina leggera leggera che arrivava sì e no alle anche, chi aveva, niente, sabò ai piedi, scarpe spaiate, scarpe che non corrispondevano al nostro numero, un paio di mutande di tutte le misure possibili e immaginabili e non certamente quelle adatte a noi. E dopo ci diedero il numero e ci dissero anche che dovevamo impararlo subito a memoria, in tedesco, perché se mai fossimo state chiamate non ci avrebbero chiamato col nostro nome ma col numero con il quale eravamo state contrassegnate.

D: Il tuo numero, Bianca?

R: Il numero era 77.399 siebenundsiebzigdreihundertneunundneunzig come vedi lo ricordo ancora. E poi il triangolo rosso, simbolo della deportazione politica. Questo contrassegno doveva essere messo sul petto del cappotto o della casacca che avevamo, e sul braccio affinché fosse ben chiaro e ben leggibile a chiunque ci avesse incontrato. Di lì fummo portate nella baracca. Cominciò un’odissea terribile. Avevano diviso noi italiane in 2 o 3 baracche; avevamo conoscenza soltanto della lingua italiana e molte di noi neanche di quella perché parlavano soltanto dialetto. C’era tra di noi una che parlava soltanto il bergamasco, Antonia, che poverina capiva poco anche noi, figurarsi sentire parlare tedesco! Noi non capivamo niente, c’era vicino a noi una babele di lingue, perché nelle baracche le deportate appartenevano a tutte le nazionalità presenti nel campo: francesi, olandesi, polacche, russe. Noi non capivamo niente, tra l’altro avevamo anche subito capito che noi italiane non eravamo ben accette: eravamo le donne che avevano contribuito alla Germania, che aveva distrutto con i loro aerei le case dei polacchi, dei russi, degli olandesi, dei belgi; noi eravamo considerate nemiche dai tedeschi ed anche nemiche dagli altri. Fummo perciò isolate, difficilmente i primi giorni fummo aiutate dalle nostre amiche.

D: Quale era la tua baracca?

R: La mia baracca era la numero 17. Capobaracca, capostube e capocamerata era una francese, Madame Shup, me la ricordo ancora: non era cattiva ma non era neanche buona, faceva quello che poteva fare, gridava tanto ma non picchiava mai. Questa era già una cosa molto positiva. Ad ogni modo, entrate in questa baracca non sapevamo cosa fare, capimmo che dovevamo cercarci un letto, ma di letti non ce n’erano perché ormai la baracca era sovrappopolata. Alla fine, grazie ad una francese, perché io parlavo francese e cercavo di contattare qualcheduna che parlasse francese, che capì la nostra situazione, ad altre donne si strinsero e noi trovammo posto, due o tre letti in cui ci accucciammo per la notte.

Chi dormì quella notte? nessuno, anche perché non sapendo che cosa ci aspettava, avevamo paura di quello che ci sarebbe successo il giorno dopo. Il giorno dopo per la prima volta cominciammo a conoscere anche gli appelli. La sirena cominciò a suonare molto prima dell’alba, fummo fatte scendere immediatamente, capimmo che bisognava lasciare il letto nel migliore dei modi possibili, questo ce lo avevano fatto capire.

Poi bisognava andare di corsa al gabinetto, ma erano pochissimi i gabinetti con tante tante donne che cercavano disperatamente perlomeno di lavarsi gli occhi. Poi ci misero per 10, e l’attesa fu lunga, dovemmo restare ferme sull’attenti per ore. Cominciammo anche, io e mia sorella, a capire la tragedia che ci aveva colpite: se tu sei solo soffri per te, ma se tu hai vicino tre persone tu soffri per te, soffri per la sorella che ti è vicino e che vedi più debole di te, che vorresti aiutare ma che non puoi, e soffri tremendamente per quella donna che è tua madre e che tu non puoi aiutare. La vedi cascare ma la devi lasciar per terra. La vedi soffrire e non puoi nulla per aiutarla. Perciò la sofferenza era moltiplicata per tre. Ad ogni modo, finito l’appello fummo di nuovo riprese per altre visite, questo successe per due o tre giorni, visite assurde, sciocche: ti facevano visite alle mani, gli occhi, guardavano se eri forte, visite che poi capivi che non sarebbero servite a nulla perché non avevano senso. Nello stesso tempo, alla mattina dopo l’appello io e mia sorella, mamma no perché non poteva muoversi, fummo prese per essere avviate al lavoro. Anche lì il lavoro più assurdo. Ti davano una pala in cinque, cantando, con a fianco i cani che ti avrebbero azzannato le gambe se tu ti fossi mai allontanata dalla fila di due millimetri, ma sarebbero stati anche troppi due millimetri; i soldati ci portavano su un’altura, e con questa pala noi dovevamo smucchiare la sabbia da una parte e fare un altro mucchio, avanti in circolo di modo che non servisse a niente. Il lavoro però serviva a debilitarti, a fare sì che le tue mani si spaccassero per l’uso continuo per 12 ore di questa pala, e anche, in un certo qual senso, a metterti subito alla prova con le tue compagne. Se tu avevi davanti a te una donna robusta che in due minuti spalava e tu invece non ce la facevi, prendevi delle botte perché il tuo lavoro era lento ed erano necessarie delle botte per farlo accelerare. Se invece ne avevi una dietro di te che faceva presto a fare il cumulo alto, e tu non ce la facevi a smucchiarlo tutto, anche lì erano botte. Alla fine questo lavoro durò per circa dieci giorni, e ogni volta che tornavamo in baracca, dopo 12 ore di lavoro, trovavamo mia mamma sempre più debole, sempre più affilata, sempre presente a se stessa però, tanto presente che malgrado tutto riusciva ancora a spingerci a sperare, a pregare, a chiedere la cessazione di questo terribile avvenimento che ci stava vicino.

Questo per dieci giorni, fino al giorno in cui io e mia sorella fummo convocate e venimmo portate a lavorare alla Siemens. I primi giorni ritornavamo sempre in baracca alla sera; ci insegnavano a fare delle saldature, a piegare il filo di ferro in modo particolare, ad usare una lampada particolare che serviva per illuminare bene gli apparecchi che dovevamo fare. Però ritornavamo sempre in baracca.

D: Dal campo principale di Ravensbrück uscivate per andare alla Siemens?

R: Lasciavamo il campo; il campo Siemens era a 500 metri, non di più. Andavamo verso una piccola montagnola che, come abbiamo saputo in seguito, era stata fatta dalle prigioniere. Su questo campo, su questa piccola piazzola, era stata installata la fabbrica della Siemens, che aveva circa 20 capannoni; lì fu costruito un piccolo campo composto da sette baracche, dentro il quale noi prendemmo posto.

D: La tua baracca quale era?

R: La mia baracca era la 3, Stube 1; eravamo in camerata insieme alle tedesche, quasi tutte triangolo verde. La capobaracca infatti si chiamava Maria ed era un triangolo verde. Molto probabilmente aveva avuto qualche allacciamento con qualche italiano perché ogni tanto si ricordava di canzoni italiane.

D: Lì siete rimaste a lavorare tu e tua sorella?

R: Al primo di novembre ci hanno chiamato e abbiamo dovuto lasciare mamma. L’abbiamo lasciata che era in condizioni pietose, capivamo che la salutavamo forse per l’ultima volta, ed anche lei lo aveva capito. Cercava disperatamente di aiutarci ancora, ma la cosa le fu impossibile. Non la vedemmo più. Sapemmo soltanto in seguito che era morta, poi dirò come e perché.

Noi fummo trasferite alla Siemens e da quel giorno questa visione di mamma è sempre dentro di me.

Ci sono giorni felici che potrei ricordare ma sempre questa immagine è presente. Alla Siemens ci misero nella baracca insieme ad altre sette italiane. C’erano le due Stanzione, io e mia sorella, Ginet Portalupi di Milano, Maria Fasano di Torino, Albertina Radaelli di Ivrea, Carlotta Villa di Lecco e Maria Rossi di Melegnano. E così cominciava la nostra vita in fabbrica. Il lavoro non era molto pesante, avevamo avuto la fortuna di avere mani piccole e occhi buoni, perciò fummo destinate all’equilibrage dei manometri e dei voltometri. Un lavoro che ci teneva ferme in baracca al caldo per 12 ore, che era duro perché alla fine delle 12 ore le ossa facevano male, perché eri costretta a stare su un piccolo sgabello, senza neanche spalliera per 12 ore a lavorare continuamente, il più delle volte con la lente d’ingrandimento. Però non avevamo molta dispersione di calorie e di energie, stando ferme. Dopo le 12 ore rientravamo di nuovo con le SS; lì c’erano la violenza, la fame, la cattiveria più inaudita. Non era difficile che al sabato sera fossi convocata per fare la domenica mattina un lavoro extra, per esempio andare a togliere l’acqua con dei secchi mezzi bucati dai bunker delle SS o andare a fare una nuova fognatura o ripulire tutta la baracca; era un lavoro continuo. Oppure ti inventavano qualche cosa e tu dovevi stare allo Strafappell, cioè appello di punizione, magari per tutto il giorno. Stare all’appello di punizione per tutto il giorno era terribilmente duro perché lì si raggiungevano temperature di 10, 12 gradi sotto zero. Ci fossero neve o acqua o vento, noi non eravamo vestite perché avevamo sì e no un cappottino, senza calze e nient’altro. Ti annientavano, alla fine dell’appello eri talmente sfinita che non ce la facevi più. Poi bisognava lavorare o 12 ore di giorno o 12 ore di notte; se lavoravi di notte arrivavi alla fine della settimana che non ragionavi più, perché dopo 12 ore di lavoro dovevi andare a pulire la baracca, a vuotare i secchi riempiti durante la notte, ad una certa ora della giornata andare a prendere il mangiare, il pane, distribuire tutta la roba in cucina, riandare a prendere tutto alle quattro del pomeriggio. Perciò tu facevi le 12 ore di notte e durante il giorno non si riusciva a dormire nella maniera più assoluta, in una baracca tra l’altro dove, siccome solo noi italiane lavoravamo di notte, di giorno era fredda. E il più delle volte per arieggiare lasciavano pure le finestre aperte, sicché noi dormivamo con una sola copertina e i ghiaccioli che venivano fuori dai tetti della baracca.

D: Alla Siemens c’erano anche dei civili?

R: C’erano i civili, c’erano i Meister, che ci aiutavano nello svolgimento del lavoro perché vi erano momenti in cui gli apparecchi erano talmente difficili che noi non riuscivamo, non avendo conoscenza operaia a questo livello. E allora ci aiutavano. Non infierirono mai né mai nessuno ci denunciò se non avevamo fatto ciò che ci veniva assegnato. Questo è da dire. Erano un tedesco e un alsaziano; l’alsaziano qualche volta riusciva persino a darci qualche notizia.

D: Cosa ti ricorda il natale del 1944?

R: Natale del 1944. Fu un giorno molto particolare. Eravamo in baracca; una notte noi italiane brontolavamo perché un gruppo di donne si era messo intorno alla stufa e stava chiacchierando. Alla fine ci siamo alzate e siamo andate a vedere cosa facessero. Facevano delle strane figure in carta argentata. La cosa ci stupì, anche perché non ricordavamo neanche più che fosse natale. Poi la sera un soldato portò un abete in baracca, le donne cominciarono subito a infiocchettarlo, di doni non ce n’era evidentemente, c’erano soltanto questi bei fiocchetti di carta stagnola. La capobaracca venne da noi italiane a chiederci se potevamo cantare la canzone di natale. Fra di noi c’era Maria Fasano di Torino che aveva una voce discreta, e cominciò a cantare Tu scendi dalle stelle, e per la prima volta sentii quella bellissima canzone tedesca, Stille Nacht, cioè notte silenziosa, cantata da queste donne. Fu una cosa tutta strana, tutta particolare: la baracca si allargò, si dilatò, anziché l’abete noi ricordammo i nostri natali fatti nelle nostre case, dove non c’era l’odore dell’abete ma il profumo del pino, perché da noi è il pino il simbolo del natale. E poi il fuoco, i mandarini attaccati all’albero, altri profumi, altre cose che però avevano lo stesso profumo di amore, era natale anche per loro.

Fino alla sera, perché poi tutto ritornò come prima. Quel giorno avemmo un pranzo particolare: polpette o hamburger col contorno di rape rosse. Io da quel giorno le rape rosse non le posso più vedere e gli hamburger li mangio proprio malvolentieri. Ad ogni modo ci venne dato questo. La sera però tutto ritornò come prima, la capobaracca ci diede il solito caffè, cercò di fare la cresta sopra la divisione del burro, e il giorno dopo ancora, il secondo giorno dovemmo far presto a ritirare la ciotola perché lei non gettasse dentro il suo cucchiaio tirando fuori dalla nostra zuppa quel piccolissimo filamento che dicevano fosse carne, ma che in realtà non so cosa fosse, per darla al suo gatto. Allora bisognava far presto, quando si vedeva che lei armeggiava col cucchiaio, a ritirare subito la nostra zuppa onde evitare un furto del genere.

Poi venne il primo di gennaio (1945). Ricordo che era nevicato la sera prima, e la neve si era subito ghiacciata. Ci chiamarono all’appello, ad un certo momento fu chiamato il mio numero: essere chiamati dal comandante del campo era una cosa terribile, perché da questa chiamata solo male ci si poteva aspettare. Io lì per lì quasi non capii, poi il capobaracca mi disse: “Guarda che ti chiamano”, e io mi avviai verso il centro del campo dove c’era il comandante che mi aveva mandato a chiamare. Ricordo in quei momenti il silenzio assoluto che si era venuto a creare nel campo: ognuna di noi sapeva che essere chiamato significavano botte, quando addirittura non significava camera a gas, perché come minimo potevi essere accusata di sabotaggio, il che comportava la morte.

Io nel tratto che feci non sapevo che cosa pensare, spaventatissima mi chiedevo che cosa mai avessi potuto fare, con chi avevo parlato, non riuscivo a capire. Non riuscivo capire, non avevo mia sorella CHE era in infermeria e non stava bene, perciò pensavo anche a lei. Ad un certo momento mi trovai davanti al comandante del campo, il quale mi guardò e mi disse: “Tua mamma è morta, e stai zitta, perché tua sorella è grave in infermeria”. Non capii subito quello che mi disse, me lo disse in tedesco, me lo ripeté in una forma più lenta allora io capii. Fui annientata, evidentemente, però capivo anche che dovevo star zitta, sì, perché quell’altra era grave in infermeria. Poi cominciai a piangere, mi riportarono a lavorare, perché evidentemente la morte della madre non doveva essere fonte di festa per un lavoratore.

Ricordo che mi si avvicinò quella soldatessa alla quale più di una volta io, mia sorella e un’altra ragazza francese, che aveva a sua volta la mamma in campo, avevamo chiesto di portarci a vedere la mamma: in fondo in fondo erano sì e no 5/600 metri da fare, non di più. Le promesse erano sempre state fatte ma mai mantenute. Perciò quando sentii questa donna che mi toccò quasi con un senso di condoglianza e di affetto, mi ribellai. Mi ribellai in malo modo perché mi venne da sputare, e lei era già pronta a qualche cosa di grave se non si fosse interposto il direttore della fabbrica, o perlomeno il capo della hall in cui lavoravamo; io non capii quello che si dissero, poi lei se ne andò e lui indifferente se ne ritornò al suo posto. Da quel giorno io dovetti lottare, lottare per mia sorella, e ad un certo momento una dottoressa polacca la rimandò in campo a lavorare, anche se non stava ancora bene. Ogni tanto lei mi diceva: “Ho sognato la mamma”, alla fine glielo dissi: quando la vidi un po’ più sulle gambe glielo dissi e accettammo.

Fu un dolore grande, che però non percepimmo subito, perché la morte lassù era una cosa normale, era una cosa, come posso dire, alla portata. Noi sapevamo come ci alzavamo la mattina ma non sapevamo neanche se saremmo andate a dormire la sera. Tutto potevamo aspettarci per noi stesse, era ormai diventata un’abitudine prendere le donne morte per i piedi e per le mani e metterle sotto la vasca del gabinetto, in maniera tale che la mattina fossero presenti all’appello. Era diventata un’abitudine scavalcare un cadavere, per noi era diventata una cosa normale. La morte stessa era diventata una cosa normale. E poi forse il fatto che non soffrivo più per lei, lei era morta, non mi dovevo più preoccupare per lei. Quando tornammo a casa, allora capimmo che cosa volesse dire essere senza mamma.

D: Nel marzo del 1945 il comandante cosa vi ha fatto fare?

R: Nel marzo del 1945 noi eravamo ancora alla Siemens, continuavamo a lavorare in condizioni precarie, anche perché non si poteva più lavorare, notte e giorno i bombardamenti erano continui; durante la notte bisognava stare anche con le luci spente, perciò il lavoro era nullo, o perlomeno molto ma molto lento. In quel momento vennero fuori dei manometri completamente diversi, molto grossi, molto difficili anche da equilibrare: avevano una sensibilità enorme, tanto che non riuscivamo neanche a metterli a punto perché non si riusciva. Avevamo avuto delle pinzette particolari per sistemare la lancetta, e delle macchine particolari per misurarne la forza. E non solo, guarda caso i pochi apparecchi che c’erano all’equilibrage non erano stati fatti in baracca. Avevamo intorno due o tre Meister i quali seguivano il nostro lavoro e cercavano anche loro forse di capire quello che stava succedendo. Durò poco questo lavoro, due o tre giorni, poi tutto scomparve. Il guaio è che alla fine di marzo / primi di aprile in baracca c’era poco da mangiare, anche alla Siemens c’era poco da mangiare, il lavoro stava finendo. Capivamo che la baracca cominciava a smantellarsi perché man mano in alcuni grandi capannoni le macchine venivano imballate e portate via.

Noi stessi dovevamo talvolta andare a prenderci dalla ferrovia i carri bestiame per portarli nel campo, vuotarli, il tutto a spinta perché la ferrovia non arrivava più, si vede che era stata interrotta dai grandi bombardamenti che giorno e notte si stavano susseguendo.

Ad un certo momento vedemmo scomparire anche i Meister.

Il primo di aprile entrò la Croce Rossa svedese, si limitò a stare ai margini del campo. Di questo ne parla anche Russell, dice che alla Croce Rossa non fu permesso di entrare in campo, però ci mandò un sacco divisibile per dieci, poca cosa, ma che ti dava una spinta. Capivi che qualche cosa si stava muovendo intorno a te, che non eravamo lasciate completamente sole e che quello che ventilavano i tedeschi, cioè di farci fuori prima della fine, forse non sarebbe successo.

Ai primi di aprile però ci ripresero e ci riportarono in campo, perché ormai la fabbrica si stava chiudendo.

D: Prima di ritornare al campo grande: quando eravate nella fabbrica Siemens, c’era qualche scritta con questo nome?

R: No, però sapevamo che era la Siemens. Scritte non ce n’erano, però sapevi di andare alla Siemens. Era il campo Siemens.

D: Ad un certo punto hanno distribuito dei marchi a voi deportati, te lo ricordi?

R: Sì sì, lo ricordo perfettamente, anche se non tutte se lo ricordano, e la cosa mi sembra strana. Una mattina ci fecero passare una per una davanti ad un grande tavolo, dietro al quale erano seduti il direttore ed altri funzionari della fabbrica. Guarda caso prima arrivarono le polacche, e io mi trovavo purtroppo tra le prime, perché ero tra le prime a lavorare lì nella baracca. Mi diedero questi marchi, ma non erano proprio marchi bensì dei cartoncini con sopra scritto “Buono” in tedesco; figurati se sapevo cosa volesse dire! Chiesi a che cosa servissero e mi risposero che con quei marchi potevo andare allo spaccio e prendere rossetto e borotalco. Lo spaccio non l’avevo mai visto in quei mesi perciò non esisteva; non avevo sapone, non avevo neanche asciugamano, avevo, scusate, le mutande che mi avevano lasciato ad ottobre ed erano sempre quelle: era inutile che mettessi il rossetto! Rifiutai perché mi sentii presa in giro. Rifiutai e dietro di me tutte le altre rifiutarono perché era una cosa assurda dare questi marchi.

D: Sei mai stata sottoposta alle selezioni?

R: Le selezioni, sì, erano una cosa proprio terribile. La prima selezione la subimmo proprio prima di partire da Siemens. Al momento del rientro dalla fabbrica in baracca ci trovammo davanti, fermi, alcuni infermieri, dottori, il camice bianco ce l’avevano, e una specie di camion contrassegnato di bianco. Ci fecero passare una per una e cominciammo a vedere destra e sinistra. Una francese dal campo mi vide; era un periodo in cui io avevo un paio di scarpe l’una col tacco alto l’altra col tacco basso, l’una piccola e l’altra grande, perciò camminavo zoppa; la francese mi disse: “Bianca, attention, selection“. Capii che sarebbe andata male per me se mi fossi presentata nelle condizioni in cui ero: mi tolsi le scarpe, mi tirai su i vestiti, in maniera tale che potessero vedere che camminavo bene, e mi avviai, col cuore stretto perché davanti a me c’era mia sorella. Fintanto che lei non passò e non passò dalla parte giusta, la cosa mi colpì, ero proprio in ansia. Alla fine arrivai con le mie scarpe in mano, mi guardarono, mi diedero una bella sberla sopra la testa e mi avviarono verso mia sorella.

La seconda selezione la avemmo dopo che dalla Siemens fummo portate nel campo grande, e io e mia sorella andammo ancora a lavorare nella fabbrica di sartoria che era lì attaccata alla Siemens. Lì subimmo una seconda selezione. Anche lì andò bene. Ci scoprirono tutte, eravamo coperte di piaghe, ma per fortuna a questo non posero mente, guardarono soltanto se eravamo ancora capaci di camminare, poi capimmo il perché. Ci misero nella parte giusta.

Le selezioni distruggono proprio la personalità dell’uomo, ti fanno avere delle reazioni terribili poi dopo.

D: Ravensbrück era un campo tutto femminile.

R: Il campo di Ravensbrück era un campo esclusivamente femminile, gli uomini non li abbiamo mai visti. Abbiamo saputo dopo che c’era anche un piccolo campo che molto probabilmente serviva da supporto per i lavori che le donne non sarebbero state capaci di fare. Ma noi non sapevamo che ci fossero uomini.

D: In tutto il tuo periodo di deportazione tu, tua sorella e le altre donne, come faceste con il ciclo mestruale?

R: Non esisteva più. Appena entrate ci tolsero tutto quello che ci poteva essere necessario. Loro sapevano che non ci sarebbero stati problemi in questo senso, e basta, finì. Ricomparve 3 o 4 mesi dopo la liberazione, senza problemi anche dopo perché io, mia sorella ed altre amiche abbiamo avuto figlioli in maniera regolare.

D: Pasqua nel campo.

R: Pasqua fu in campo, sì. Per pasqua con le francesi riuscimmo ancora a riunirci e a dire una preghiera, perché l’uomo spera sempre con un miracolo di cambiare la propria vita, di indirizzarla con l’aiuto di Dio verso un qualche cosa di più giusto. Chiedevamo l’aiuto di Dio per migliorare la situazione, e poi anche perché la fede che ci aveva sempre accompagnato non si era mai affievolita. Con le francesi riuscimmo a fare una piccola cerimonia, nascosta evidentemente, perché sarebbe stata oggetto di una terribile punizione; non si poteva nella maniera più assoluta, però ce l’abbiamo fatta.

D: Ritornate al campo grande …

R: … ritornate al campo grande, ritrovammo il caos. Il campo era sovrappopolato, erano arrivate deportate da tutte le parti dell’est perché i campi erano stati evacuati, non arrivava più nulla da mangiare perché tutto intorno la ferrovia era stata distrutta, e molto probabilmente non c’era più niente neanche da mangiare nella stessa Germania. Le donne si accalcavano l’una contro l’altra, bisognava lavorare senza mangiare, ma le donne ormai erano debilitate da mesi di fame, di paura, di malattia; e morivano. Io ricordo mucchi di cadaveri davanti al forno crematorio, io ricordo la debolezza di queste donne che si trascinavano per cercare di continuare a lavorare, per cercare di sopravvivere; capivamo che ormai potevamo essere liberate da un giorno all’altro e la fine della tortura sarebbe venuta in poco tempo; volevamo continuare a vivere forse proprio per questo. Sentivamo già in un certo qual senso i rumori del fronte che si stava avvicinando, però la vita era diventata impossibile, nella maniera più assoluta. Eravamo ridotte al lumicino, nessuna riusciva più a sorreggersi, tant’è che io e mia sorella in queste condizioni fummo mandate ancora a lavorare nella fabbrica di divise, ci stemmo un giorno e poi fummo chiuse nella baracca.

Restammo chiuse in baracca per circa una settimana, e quando ne uscimmo non sapevamo neanche più camminare, non potevamo più reggerci in piedi perché, come ci mettevano all’appello, le gambe si gonfiavano e si cascava. In queste condizioni fummo di nuovo messe all’appello tra la sera del 26 e del 27 aprile, quando ormai si cominciava già a sentire i cannoni russi avvicinarsi. Capimmo subito che gli ordini erano contraddittori, chi urlava da una parte e chi urlava dall’altra. La maggior parte delle donne SS non esisteva più, erano venuti dei soldati SS prima e Wehrmacht dopo. Mentre eravamo lì cominciammo a vedere del fumo che saliva dalla parte alta del campo, avemmo paura, perché pensavamo che coi lanciafiamme avrebbero messo in atto quello che avevano sempre detto di fare, cioè la completa uccisione di tutte. Perciò avemmo una paura enorme, poi alla fine lasciammo nel campo quelle che non potevano più camminare. Noi fummo messe in strada per cinque. Scortate dai soldati della SS e dai cani. Chiunque si fermasse, ce l’avevano già detto, sarebbe stata uccisa con un colpo alla nuca. In queste condizioni, camminammo praticamente tutto il giorno, la sera cominciò a sparare la contraerea prima di tutto, cioè i mosquitos cominciarono ad arrivare a mitragliare. Dietro avevamo i cannoni russi che sparavano a misura d’uomo, ne avevamo visti uccisi di tedeschi. Io, mia sorella e altre donne, di cui tre slave e una ungherese, ci tenemmo insieme e camminando raggiungemmo un posto per noi quantomai sicuro, in mezzo ad una foresta.

Ci mettemmo sfinite ai piedi di un albero e con una coperta sotto e una sopra cercammo di dormire.

La mattina sentii un colpo alla spalla e un russo mi offrì una gamella di caffè. Io felice e contenta gridai: “Sono arrivati i russi!”, e lui mi disse: “No, son prigioniero anch’io, però i tedeschi mi hanno detto di portarvi questo”, e diede a tutte un po’ di caffè caldo. Durante la notte eravamo state circondate letteralmente dai carri armati e non ce ne eravamo accorte; sembrava di aver camminato per delle ore, ed in realtà ci eravamo allontanate dalla strada solo qualche centinaio di metri, tanto che la mattina dopo i cani e i Posten (sentinelle) ci rimisero in marcia e per sette giorni camminammo. Alla fine ci fecero riposare su una piccola altura. Posten e cani con noi. Ad un certo momento vedemmo passare lungo la strada una macchina che non avevamo mai visto, contrassegnata da un disegno che non avevamo mai visto. Era una grande stella bianca, con sopra una scritta che abbiamo letto in buon italiano mibabi. Lì per lì non riuscivamo a capire, perché, è vero che qualcheduna di noi sapeva anche l’inglese, mia sorella per esempio, eravamo talmente stanche e sfinite da non riuscire neanche a connettere veramente quello che ci stava succedendo.

Alla fine mia sorella disse: “My baby ma sono americani!” Infatti li guardammo ben bene, la divisa era diversa, l’elmetto era diverso. Ci precipitammo tutte giù, sperando di trovare qualcosa da mangiare perché era da sette giorni che non si mangiava, e si beveva l’acqua che trovavamo per strada.

Chi ci vide era un ufficiale, ci guardò esterrefatto, ci chiese che cosa volessimo, e l’unica cosa che gli chiedemmo “pane”. Da mangiare non poteva darcene, erano ancora in formazione per l’occupazione del territorio e per ricongiungersi ai russi che distavano poche centinaia di metri. Ci diede delle sigarette, e noi ci accontentammo di quelle, però poi abbiamo aspettato gli eventi. Ad un certo momento vedemmo gli americani retrocedere e avanzare invece una colonna di russi.

Ci trovavamo nel punto di contatto tra americani e russi. Poi gli americani lasciarono il posto ai russi.

A questo punto eravamo talmente stanche, vedemmo un fienile; strano a dirsi, ma entrammo tutte lì dentro e dormimmo.

Non so cosa sia liberazione; per me era finito l’incubo della stanchezza, della paura, della fame, di tutto; la libertà è cominciata con un gran sonno liberatore, dentro un fienile insieme a tanti altri. Abbiamo scoperto dopo che dentro quel fienile eravamo più di un centinaio, tutti addormentati, tutti a riposarci delle fatiche che avevamo dovuto affrontare. Dopo di che io e mia sorella quando ci risvegliammo ci rimettemmo in strada, con una fame …. Mia sorella non stava bene, ci fermammo, io vidi passare un camion di francesi che stava radunando tutti i connazionali per portarli in zona americana. Mi sono fatta passare per francese: “Je suis française!”, feci salire mia sorella, sali anch’io, arrivammo in zona americana.

Dopo di che mi affidai ai compagni di prigionia italiani, e con loro poco per volta ritornammo a casa.

D: E’ stato allora che hai potuto scrivere a casa che eravate salve?

R: Lì era passata la Pia Opera Pontificia, ce l’ho ancora quel documento in cui si diceva che le due sorelle erano sane e si trovavano nella zona di …

D: Da lì siete arrivate a casa?

R: Da lì siamo arrivate a casa. Poi è cominciato veramente un muro di silenzio.

Avevamo capito che c’era un qualche cosa che non quadrava: come arrivammo, trovai una strana telefonata che mi diceva: “Io sono il tale e ti sposo”. Non capii lì per lì, la presi per una telefonata sciocca, non sapevo.

Poi capii. Quando sei giovane e sei fuori, se ritorni qualche cosa devi aver fatto per ritornare.

Siccome questo non era vero, e siccome addirittura si pensava che io e mia sorella fossimo incinte, cosa che mai più immaginavamo, si alzò proprio un muro tra noi e gli altri, gli altri che hanno pensato ma che non hanno cercato di sapere quello che hai sofferto. Per farsi quasi come una specie di … coscienza dicono: “Si sono salvate così”

No, io e mia sorella abbiamo chiuso.

E’ stato poi difficile tornare a vivere e a parlare, però ce l’abbiamo fatta, anche perché c’era da lavorare, eravamo rimasti 4 ragazzi soli, in una casa completamente svaligiata dai fascisti, completamente distrutta dalle bombe americane, non avevamo neanche gli abiti per cambiarci: tutto era stato portato via.

Bisognava ricostruire, secondo quello che ci avevano insegnato mio padre e mia madre, con onestà, con serietà, con dignità soprattutto, la vita che loro ci avevano insegnato a fare. Il compito è stato mio e di mia sorella, perché i due ragazzi che avevamo lasciato avevano subito anche loro degli shock tali per cui non avevano trovato dentro di loro, come invece noi, la forza di ricostruire. Dopo ci riuscirono anche loro, evidentemente. Poco per volta ci ricostruimmo la casa, finimmo i nostri studi, ritornammo a vivere, ma è stato dopo anni.

Devo dire grazie a una mia carissima amica, Lidia, che mi ha imposto di ricominciare a parlare altrimenti non avrei mai parlato, perché se tu parli, parli a chi ti vuole ascoltare, non a chi ti vuole ascoltare avendo orecchie già tese verso altre cose.

D: Poi hai scoperto chi ti aveva telefonato?

R: Sì, era uno slavo scappato in montagna dopo essere stato soldato tedesco, ed era stato compagno dei miei fratelli, anzi lo consideravo quasi come un altro fratello, tanto è vero che dopo la liberazione mio fratello lo aveva portato a casa nostra.

D: Quale fu il destino del fratello arrestato?

R: Del fratello arrestato non sapemmo più nulla. L’abbiamo atteso, atteso, atteso, atteso, ma nessuno voleva darci notizie. Alla fine Italo Geloni, che aveva condiviso con lui tutti i giorni della deportazione, con lui nel Lager di Flossenbürg, mi disse: “E’ inutile che lo aspetti, mi è morto tra le braccia”.

Sapemmo anche la sua tragica fine: venne ucciso a suon di botte da un soldato tedesco al quale inavvertitamente aveva pestato un piede.

D: Scusa Bianca, ancora una cosa che riguarda il campo di Ravensbrück: ricordi come era il Wascheraum, come erano i servizi?

R: Il Waschraum nel campo grande era una grande baracca divisa in due grandi camerate: al centro c’erano una decina di lavandini e una decina di gabinetti. Ogni baracca conteneva 500 donne, perciò 1000 donne alla mattina dovevano gravare su 10 lavandini e i lavandini erano piccolissimi, e 10 gabinetti. Bisognava farlo.

Invece nel campo Siemens era una grande stanza al centro della quale c’era una buca con intorno un muretto di cemento. Alla sera era il ritrovo di tutte: c’erano le russe che facevano le danze, le polacche che cantavano, le slave che si muovevano al suono di una canzone slava. E noi trascorrevamo venti minuti in questo soggiorno che però era anche in un certo qual senso un centro di raccolta.

D: E’ lì che andavi con nelle tasche del cappotto …

R: No no, quello che non riuscivo a fare perché era troppo difficile e che nascondevo nelle tasche, gettavo nel Waschraum, cioè nel gabinetto, della fabbrica: consisteva in due cubicoli di legno con un buco al centro. Speravo che nessuno avrebbe mai trovato niente.

D: Cosa gettavi?

R: Ci gettavo quegli apparecchi che non mi venivano. Se non ne facevo 30 ero punita, ma gli apparecchi erano molto difficoltosi, io dietro ad uno sono stata anche due ore. Come facevo a farne 30? Allora

quelli che non mi riuscivano …

D: Ricordi se a Ravensbrück, oltre alle baracche, c’era anche campo tende o una tenda?

R: Io ricordo una tenda dentro la quale erano state messe delle zingare, però il ricordo è molto vago. Noi siamo uscite da Ravensbrück ai primi di novembre del 1944, per quanto posso capire la tenda nera venne messa dopo. Io ricordo una tenda bianca, anche perché vi fui portata, anche mia sorella.

Fui fotografata di profilo e davanti, con il numero. Io me lo ricordo, anche mia sorella, ma non tutte lo ricordano. Io, mia madre e mia sorella di sicuro.

D: Il tuo numero di Bolzano lo ricordi?

R: Non me lo ricordo, mi pare che sia sul quattromila ma direi una bugia, perché proprio non me lo ricordo. A Bolzano non bisognava mai rispondere col numero, perciò era inutile impararlo a memoria, e poi era un numero che praticamente ho portato soltanto per dieci giorni.

D: Nel marzo del 1945 in fabbrica avevate combinato qualcosa per cui il comandante vi ha mandato fuori?

R: No, non nella fabbrica; eravamo nel campo. Era domenica, e siccome era già 3 o 4 domeniche che ci facevano andare a togliere l’acqua dai bunker della SS, la cosa era pesante. Anche perché, guarda caso, tutti i buglioli con i quali dovevamo togliere l’acqua erano un po’ difettosi, o spruzzavano acqua da una parte, perciò quella mattina cosa avevamo fatto? ce ne eravamo andate nel Waschraum per le pulizie e c’eravamo spogliate nude per cercare di lavarci. Il comandante del campo aveva capito tutto, allora venne dentro con la frusta e ci fece uscire, facendoci stare in appello per 4 ore di fila.

La cosa fu un po’ pesantina.

Tedeschi Natalia

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Natalia Tedeschi, sono nata a Genova il 19 giugno 1922.

Sono di famiglia ebrea. Una famiglia della media borghesia piemontese, perché dal 1925 ci siamo trasferiti a Torino. I miei fratelli quando è il momento delle leggi razziali erano tutti e tre all’università e io nel 1938 – avevo 16 anni – ho dovuto interrompere gli studi. Poi con tutte le varie vicissitudini della guerra siamo sfollati con la mia mamma e la mia nonna a Saluzzo, in provincia di Cuneo, sempre in Piemonte.

Lì abitava una sorella di mia nonna e allora pensavamo di essere abbastanza tranquilli e anche di evitare i bombardamenti sulla città.

Dei miei fratelli uno era andato con i partigiani al momento delle leggi razziali, uno era nascosto a Torino e l’altro era andato in Svizzera. Io sono rimasta sola con mia mamma e con mia nonna, convinte però di essere abbastanza in una botte di ferro in quanto mio fratello che era nei partigiani, e che era venuto pochi giorni prima del nostro arresto a trovarci, aveva detto: “Non preoccupatevi: qualsiasi cosa dovesse capitare, noi veniamo a prendervi!” Non è potuta succedere e non è successa.

E un giorno che eravamo a Saluzzo in albergo io sono scesa nella hall di questo piccolissimo albergo e sono arrivate due SS italiane. Sento che dicono: “Siamo venuti ad arrestare quella famiglia di ebrei”. Io sono corsa immediatamente a avvisare mia mamma e mia nonna, e ancora adesso penso che forse, sapendo che eravamo lì, penso ma con molto ottimismo solo adesso, che forse han voluto darci tempo di metterci in salvo: forse, perché essendo un alberghetto piccolissimo avevano solo da salire una piccola rampa di scala e ci avrebbero preso. In questo albergo proprio minuscolo c’era una seconda uscita che dava sulle scale: abbiamo raccolto le nostre poche cose e siamo salite fin su al quarto piano occupato dalla gente del posto che ci aveva dato ospitalità, però solo per certe ore, non potevano darci ospitalità per sempre. Allora si sono poi convinti, compreso l’albergatore che era venuto in aiuto, a chiamarci un taxi e a farci accompagnare a Sampeyre, in Valle Varaita, sempre in Piemonte. Solo che, non sapendo che cosa sarebbe successo di noi dopo, ci hanno messo un po’ nella trappola dei topi, perché essendo in valle si poteva eventualmente andare su ma non si poteva più scendere.

D: Quando è successo?

R: Questo è successo nel febbraio del 1944. Noi siamo stati a Sampeyre con mia mamma e mia nonna – anche lì in un piccolo alberghetto – per un periodo di tempo, poi sono arrivati i partigiani e noi più che mai ci sentivamo tranquilli, perché ce n’erano anche tanti ben armati e ben attrezzati; eravamo tranquillissimi. Solo che purtroppo invece da valle sono arrivati i tedeschi e hanno cominciato a salire nella vallata. Cosa potevamo fare? Ci siamo portati, sempre con i partigiani, ancora un po’ più verso il confine con la Francia, ma lì c’è stata una carissima persona, un certo Flaminio Gazzano, che era guardia di finanza, che ci aveva visti a Saluzzo e ci ha denunciati. Ci ha denunciati per la somma di lire 5.000, ci ha denunciati ai tedeschi che erano saliti su in vallata. Avevamo carte false, ma appena fatte, e poi non avevamo mica niente da nascondere noi; siamo stati un po’ presi anche alla sprovvista perché appena arrivato il comando tedesco, ha detto: “Tenetevi a disposizione ché all’una di questa notte veniamo a prendervi.”

Allora sono venuti a prenderci; eravamo a Casteldelfino, sopra, vicino al confine, e avevano anche detto che io facevo parte dei partigiani. Allora sarebbe stato ancora più grave per me, perché forse mi avrebbero potuto passare alle armi subito. Lì ci hanno caricati e portati sotto a valle a Venasca dove siamo stati per 3 o 4 giorni, non ricordo esattamente, ospiti delle scuole di Venasca; di notte dormivamo sui tavolacci.

Abbiamo dormito sui tavolacci delle celle di sicurezza, in promiscuità con tutti quelli che avevano rastrellato nella vallata. Poi una mattina ci hanno caricati in treno e ci hanno portati all’Albergo Nazionale di Torino, dove ci hanno spogliato di quelle poche cose preziose che avevamo – ben poco – e dopo ci hanno trasferito alle carceri, alle Nuove di Torino.

D: L’Albergo Nazionale era sede di qualcosa?

R: Era sede del comando delle SS. Lì ci han fatto un brevissimo interrogatorio, perché c’era poco da chiedere: eravamo ebree, mica ci eravamo nascoste sotto altri nomi, eravamo ebree e non sapevamo, per fortuna forse, cosa il destino ci avrebbe ancora procurato. Siamo poi passate alle Carceri Nuove di Torino, dove siamo state per 20 giorni; io ero in cella con mia mamma e mia nonna – io sottoscritta e due altre persone – in quelle celle tremende, tremende perché eravamo proprio in carcere stretto e con solo la compagnia delle cimici: ce n’erano a profusione, specialmente di notte. Avevamo un’ora di aria, e io, tanto per togliermi dalla cella, la sera andavo a sentire la messa, anche se a me la messa non è che interessasse molto, era tanto per togliermi dalla cella. Nella chiesa delle carceri c’erano piccolissime cellette, come fosse stato un alveare, con piccole finestrelle ovali dove tu potevi stare unicamente inginocchiata su un’asse di legno. Così sono passati 20 giorni sino a quando un mattino ci hanno caricato su un pullman, non era un pullman era un camion, ci hanno portate a Porta Nuova, a Porta Nuova su un treno e siamo scesi a Fossoli, nel campo di raccolta di Fossoli.

D: Questo quando è avvenuto?

R: Questo è avvenuto, io penso, ai primissimi di marzo (1944). A Fossoli siano stati 20 giorni, senza naturalmente sapere assolutamente – con un’incoscienza unica – cosa sarebbe stato di noi, senza avere notizie dei miei fratelli, assolutamente non sapevo niente. Non sapevamo niente. Vivevamo proprio in una specie di torpore, di incoscienza, ma non solo noi tre, la mia mamma e la mia nonna, ma tutti, senza sapere cosa ci aspettava domani, così: non dico neanche con filosofia ma proprio con incoscienza.

D: A Fossoli vi hanno messo nel reparto delle baracche o nel reparto tende?

R: No no, nelle baracche, eravamo nelle baracche.

D: Vi hanno immatricolato a Fossoli?

R: No no, nessuna immatricolazione. So che c’erano campi dei politici, noi eravamo nel campo dei razziali, e siamo stati lì 20 giorni. Se si pensa adesso, a distanza di tempo, naturalmente era non dico proprio un paradiso ma, in confronto a quello che ci aspettava dopo, poteva essere non so, una pensione, una buona pensioncina. Siamo stati lì altri 25 giorni, con un certo trattamento; non si lavorava, da mangiare ce n’era a sufficienza, avevamo ancora i nostri vestiti, le nostre cose; una mattina ci hanno caricati sui carri bestiame, partenza con destinazione ignota: non si sapeva assolutamente. Però da quel poco che avevamo saputo si pensava di andare in Germania in un campo di lavoro, perché tutti dicevano che la nostra fine sarebbe stata quella.

D: Dal campo di Fossoli vi hanno portato alla stazione di Carpi?

R: Io penso di sì, perché lì non c’erano mica le rotaie, ci hanno portato alla stazione di Carpi e lì è stata l’ultima volta che ho visto mia nonna. Mia nonna da sposata faceva Sacerdote, noi invece Tedeschi: è salita nel vagone prima e non l’ho più vista, io ero con la mia mamma.

D: Cioè, venivate divise?

R: Per ordine alfabetico. Ci chiamavano per ordine alfabetico.

D: E questo “Transport” quando è avvenuto?

R: Il 16 maggio (1944), ed è stato il “Transport” più lungo che c’è stato: io sono arrivata a Birkenau il 23 maggio, è stato il più lungo di tutti, non so per quale motivo. Ad Innsbruck è stato diviso il convoglio, e noi abbiamo impiegato ben 8 notti e 7 giorni.

D: In quanti eravate sul tuo vagone, se ti ricordi?

R: Più o meno saremmo stati una ottantina, tutti stipati.

D: Tutte donne?

R: Io penso di sì, di quello ho un ricordo un po’ vago. Quello che rimpiango molto è che tutte queste cose, se avessimo potuto dirle appena tornate, con la memoria più fresca, e con tutti i ricordi più freschi, sarebbero state diverse. Io rimpiango moltissimo che questo interessamento per noi sia arrivato quando noi siamo proprio ormai al lumicino. Saranno stati motivi politici, saranno stati motivi che noi non sappiamo. Anche per il viaggio che ho fatto ad Auschwitz, le carissime insegnanti di Moncalieri ed i loro allievi han dovuto documentarsi, perché a loro volta non sapevano assolutamente niente; sono stati bravissimi perché hanno fatto delle dispense, cose eccezionali, ma a loro volta non sapevano niente, perché a scuola finiva tutto alla prima guerra mondiale. Della seconda guerra mondiale assolutamente niente.

D: Allora il tuo “Transport” dopo 8 giorni.

R: 8 notti e 7 giorni; sono arrivata a Birkenau di notte.

D: Il vagone è entrato dentro?

R: Io direi che è entrato dentro, sulla banchina, e siamo arrivati di notte. Siamo stati nei vagoni fino al mattino dopo, quando poi hanno aperto il portellone del carro bestiame. Siamo scesi, tutti questi ordini in tedesco che non si capivano, abbiamo solo capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli perché qualcuno, forse qualche interprete o qualcuno dei prigionieri che sapeva il tedesco, aveva capito che le nostre cose ci sarebbero poi state restituite in un secondo tempo. E noi anche lì abbiamo creduto. Poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, le persone meno giovani, gli uomini dalle donne, quelli che potevano entrare in campo o meno. Io sono sotto braccio a mia mamma, la mia mamma che non aveva ancora 50 anni, ne aveva 49, mi è proprio stata strappata dal braccio: è una sensazione che ho ancora adesso, sento il suo braccio che trema. Mi è stata staccata e io sono andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza che io me ne rendessi conto, è stata divisa.

Quando poi sono entrata in campo, dopo che ci hanno tolto completamente tutto, anche i vestiti che avevamo addosso, tutto completamente, quel poco che c’era rimasto … ci hanno tatuato il numero sul braccio, il mio numero è: A 5404, e siamo entrati in campo.

Io appena entrata in campo, dopo pochissimo, forse il giorno dopo, no il giorno stesso, vedo mia cugina Giuliana Tedeschi. Era stata deportata con mio fratello Vittorio; mio fratello era nei partigiani ed era stato denunciato da un amico suo che era nei partigiani con lui: e l’ha denunciato come ebreo. Poi il destino ha voluto che lui sia morto il 25 aprile, il giorno della liberazione, a Mauthausen e questo amico che l’ha denunciato, non so per quali motivi, non l’ho mai voluto sapere, è morto a sua volta a Mauthausen: evidentemente qualcuno ha denunciato anche lui.

Ad ogni modo, entrando in campo vedo mia cugina che era venuta a Birkenau col marito e a Fossoli si era trovata anche con mio fratello, mio fratello che oltretutto aveva anche un braccio ingessato al collo. E mia cugina entrando mi dice: “Ma sei sola?” io ho detto: “No, sono arrivata con mia mamma e mia nonna, ma la mamma e la nonna sono andate in un altro campo”. E lei mi ha detto subito: “Toglitelo dalla testa perché di altri campi non ce ne sono”. Allora sono entrata in campo.

D: Quando tu dici che sei entrata nel campo, era il campo femminile?

R: Il campo femminile di Birkenau.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: Io penso che sia la baracca numero 10, che c’è tuttora. Però tu capisci che a distanza di tanti anni, di tanti anni, tante immagini si sovrappongono, e poi dei ricordi che ti sembrano nitidissimi, per me qualcuno lo è senz’altro, invece non lo sono. Appunto perché sono passati troppi anni.

D: Natalia, l’immatricolazione: ti ricordi come ti hanno tatuato il numero?

R: Sì, me lo ricordo benissimo. C’era una addetta a questo lavoro che aveva una piccola penna in mano con un pennino che finiva con uno spillo, e questo spillo era intinto in un inchiostro speciale; veniva tatuato il braccio in quel modo.

D: Lo facevate in piedi o sedute?

R: In piedi, non c’erano mica sedie, eravamo messe così su questa specie di scrivania, di tavolo che c’era, figurati se sedute! Le sedie in campo non sapevamo cosa fossero.

D: E veniva registrato il vostro numero?

R: Io penso di sì, però non ne sono sicurissima. Penso che se la Croce Rossa di Arolsen riporta il numero del tatuaggio è perché ha trovato dei registri, qualcosa con segnalate e registrate queste numerazioni.

D: Quando ti hanno tatuato c’era qualcuno che aveva in mano un elenco? vi chiamavano per nome? te lo ricordi?

R: Non ricordo; io credo che entrassimo così, perché i nomi lì non esistevano mica, li abbiamo dimenticati, almeno loro li hanno dimenticati completamente. No, io credo che siccome eravamo tutti incolonnati, man mano che si passava davanti a questa che faceva i tatuaggi poi si andava alle docce.

D: E dopo, la vestizione?

R: La vestizione è stata una cosa tragica per i vestiti stracci; noi non avevamo divise, assolutamente niente. Io per tutto il tempo che sono stata a Birkenau ho sempre avuto una scarpa e uno zoccolo, non ho mai avuto un paio di scarpe uguali. Poi dirò dopo. Poi degli stracci addosso, proprio stracci; siccome ci veniva tolta tutta la roba che arrivava con noi, veniva tutta mandata in Germania, proprio gli stracci, quelli che erano inservibili, servivano per coprire noi. Io mi ricordo una mia amica – si finiva persino a ridere in quella tragedia – che, poveretta era del mio trasporto mi pare, no no l’ho trovata lì, aveva un abito da sera. Quello era proprio il massimo spregio.

I capelli li han poi tagliati dopo, perché come sono entrata in campo mi aveva detto tutte: ricordati di morire in campo se devi morire ma non passare al Revier, perché se vai al Revier non esci più. E io disgraziatamente ho avuto un’infezione alla gamba, e non camminavo più, ho dovuto andare al Revier per forza, perché dico: “Tanto, per morire qui vado a morire nel Revier.” Ho cominciato con una piccola vescichetta sulla caviglia e nel giro di 24 ore è diventata una cosa enorme, la gamba è diventata enorme, avevo un’infezione terribile, dico: “Camminare non posso camminare, vado in Revier“. Dopo pochissimo che ero arrivata a Birkenau, proprio due o tre giorni, il nostro lavoro era stato quello di trasportare pietre. Trasportavamo le pietre da un mucchio lontano su un altro mucchio, poi viceversa. Ad ogni modo io entrata in Revier ho detto: “Se è la mia ora …”. A parte il fatto che l’idea della morte non c’era mai, forse perché eravamo molto giovani, forse sarà stato pure quello, ho detto: “Sì, per morire vado a morire in Revier“. Non è che avessi la convinzione di morire, era tanto per dire qualcosa. Allora sono entrata in Revier, sono stata seduta su una specie di sedia, io con la gamba alzata, e ho fatto per terra una pozza di sangue, di pus, di tutto quanto, e mi hanno messo intorno alla caviglia della carta igienica, poi mi hanno mandato nuda come un verme in quei castelli di legno con una che aveva il tifo. E noi tutte e due nude per 10 giorni, nude completamente, con questa che aveva il tifo che naturalmente si sporcava in continuazione, e con un’unica coperta. Quando ho chiesto, mi son fatta capire, di poter cambiare questa medicazione – chiamiamola pomposamente medicazione – era venerdì quando sono entrata in Revier, mi han detto: “Fino a martedì non si cambia”. Puoi immaginare quella carta cosa era diventata; se l’infezione c’era prima, dopo pensa cosa poteva capitare. E tu pensa che sono stata in Revier immobile per 40 giorni, e per 40 giorni tutte le mattine è entrato Mengele, tutte le mattine. Sai chi era Mengele? era l’angelo della morte, elegantissimo, un bellissimo uomo, elegantissimo col frustino in mano che segnava così nei vari castelli chi doveva andare alla selezione. Non penso se dietro qualche segnalazione dei più gravi, però andavano, le selezioni avvenivano così. Poi tu sai benissimo che chi doveva andare alla selezione, che doveva morire, era messo in un blocco particolare per 3 giorni, e per 3 giorni aveva un supplemento di viveri. Uno dice, perché? In campo c’erano tanti perché ma non c’era nessuna risposta a questi perché.

Quando sono uscita dopo 40 giorni miracolosamente dal Revier naturalmente non riuscivo a camminare, per via dei 40 giorni di immobilità; sono uscita ancora con una cicatrice lunga 5-6 centimetri, una ferita aperta, e mi hanno messo in un blocco di francesi dove c’erano anche delle italiane. C’era un’italiana di Venezia, Enrichetta Polacco, non so se l’avete sentita, solo che poverina adesso non può più testimoniare; era un tipo in gambissima, con una grinta, era arrivata già 2 mesi prima, sapeva come si svolgeva la vita in campo. Io mi era lasciata andare perché, uscendo dal Revier, non avevo più forze, non potevo stare in piedi, quando mi sedevo per terra e quando mi alzavo tutte le ossa scricchiolavano come se fossero state senza lubrificazione. E questa ha parlato con una certa Rosi, una polacca che lavorava alle cucine, l’ha impietosita, era una deportata, e le ha detto: “Senta, faccia venire anche la mia amica a lavorare con me”, così mi ha lasciato andare. Lei da buona veneta mi diceva: “Vergognati, guardati, con tutta quella ciccia che ti gà, se ti devi far questo, muoviti, lavati”. Le devo molto perché proprio mi ha dato una scossa. Dopo entrata in campo ho saputo che mia mamma e mia nonna erano passate per il camino; quando l’ho saputo ero in Revier, non l’ho saputo subito: ho pianto un giorno e una notte consecutiva. Da allora non so più piangere, assolutamente. Mi posso commuovere, ma le lacrime niente, assolutamente non piango più.

E allora sono andata a lavorare nelle cucine. Il lavoro era un lavoro anche abbastanza fortunato, perché prendevamo i bidoni di zuppa quelle lamiere per infilare i bastoni dentro. Portavamo da mangiare al Revier. Io non sono mai uscita dal campo a lavorare, e quella è stata una fortuna perché poi oltretutto non è che fosse un lavoro continuativo, si portava nelle ore dei pasti. Qualche volta, ma molto molto raramente, ci restava qualcosa sul fondo del barile, ma proprio pochissimo.

Andando in Revier, una delle cose, un ricordo molto terribile, è che c’erano le donne che avevano partorito la notte e che c’erano tutti questi esserini messi in fila su una specie di – neanche davanzale, come si può dire? – un ripiano, erano tutti lì che si muovevano, non erano ancora morti, si vede che qualcuno o era nato dopo o era più forte degli altri e stentava a morire. C’erano tutti quei cadaverini di bambini lì davanti al Revier, diciamo.

Io sono stata lì facendo quel lavoro fino a quando un mattino c’è stato un appello particolare.

D: Un attimo Natalia, tu prima dicevi: “andare alla selezione”. Esattamente cosa vuol dire “andare alla selezione”?

R: Andare alla selezione vuol dire che tu eri segnata, eri predestinata ad andare ai forni crematori. Cioè ti mettevano in un blocco particolare, come ti ho detto ti davano il supplemento di vitto, e poi dopo c’era un … particolarmente di notte; sentivi tutte queste creature caricate sul camion che urlavano perché sapevano che andavano a morire. Di Torino c’era stata una certa Vanda Maestro, non so se l’avete sentita nominare, che era ebrea e credo fosse anche partigiana, e che è morta in quel modo. La cosa tremenda è che tu sai quando sei in quel blocco per 3 giorni che devi andare ai forni crematori.

C’era questo Block… particolare, non potevi uscire, assolutamente neanche a fare pipì fuori, perché fuori dalle baracche c’erano i contenitori e guai a te se arrivavi come ultima: dovevi prendertela e andarla poi a svuotare nel Waschraum.

D: Dicevi di quell’appello …

R: Questo appello, questa cosa particolare. Io avevo la febbre, avevo la febbre altissima, ma tu capisci che lì né si aveva radio, né si aveva l’orario, un orologio che fosse un orologio non c’era, non ricevevi posta da nessuno, non avevi notizie, c’era solo una simpaticissima ungherese che era Pagni Margaret, la zia Margaret la chiamavamo, l’avete conosciuta questa Pagni Margaret ungherese? Veniva sempre a raccontarci, diceva: “Non chiedetemi come, ma io ho sentito la radio. Fra una settimana tutto è finito, state tranquille.” Inventava tutto tanto per tirarci su il morale, ma ci ha aiutato molto. Ad ogni modo quella mattina erano i primissimi di novembre, i Santi, e dal 23 maggio ero in campo a Birkenau.

D: Nel tuo blocco, dopo che sei uscita dal Revier, oltre al numero ti hanno dato …

R: Sì, il numero da mettere sul vestito.

D: E il triangolo, ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sai che non me lo ricordo il triangolo, io ricordo il numero.

D: O la stella.

R: No, né la stella né il triangolo, però non prenderlo come oro colato perché son cose che a distanza di mezzo secolo si possono anche dimenticare.

D: Nel blocco, nel tuo blocco, dopo che sei uscita dal Revier, con te c’erano solo le razziali?

R: Razziali; le capoblocco erano tutte polacche terribili, terribili le capoblocco, erano tutte razziali, c’erano francesi, c’erano italiane; sono andata dove si dormiva con le francesi, ho imparato il francese anche, e combinazione, la mia vicina posso dire di letto, quella che dormiva vicino a me, era nata lo stesso giorno e lo stesso anno mio, era la mia gemella; era una certa Susanne, pensa che combinazione, avevamo la stessa età, precisa identica. Ad ogni modo sono stata lì e poi mi pare che mi abbiano cambiato di blocco: dopo eravamo – non so neanche come si dice in italiano – nelle koje, castelli dove si dormiva in 12 con un’unica coperta, dove si stava naturalmente di fianco perché non potevi star di schiena di sicuro; poi a metà notte ci si girava tutte. Con quella mia amica di Venezia di cui ti ho parlato prima eravamo sempre state vicine, sempre assieme; io le dicevo: “Guarda, ti ho portato nel mio ventre per tanti mesi, sei come mia figlia!” perché eravamo tutte naturalmente con le ginocchia piegate infilate una dentro all’altra, poi a metà notte ci si girava; con quei pochi stracci che avevamo la sera quando si andava a letto, ci facevamo un fagottino e lo mettevamo sotto alla testa. Una volta me l’hanno rubato, una notte; la mia disperazione era terribile, dico: “Come faccio domattina, non posso mica presentarmi nuda all’appello!” Non so in quale modo l’ho recuperato, qualcuno poi me l’ha ridato.

D: Visto che stavi accennando ancora agli abiti, biancheria intima ne avevate?

R: Ah figurati! Pensa che – tanto fa parte della storia, lo posso dire – mi avevano rubato le mutande, e sono stata credo per 3 mesi senza mutande. Avevamo tutte una specie di camiciola sotto e un vestito, e basta, e queste scarpe spaiate e basta. Non avevamo altro, e poi … Quando ero in Revier mi sono caricata di pidocchi, ma proprio da togliere a manciate, pidocchi da tutte le parti, tra le braccia, sulla testa: allora mi hanno rapata a zero. Non quando sono entrata ma dopo, perché ero piena di pidocchi.

D: Scusa Natalia, il ciclo mestruale?

R: Niente, quando ti dicevo che mi è venuta quell’infezione alla gamba, io do una versione un po’ semplicistica ma può darsi che fosse così. Quando sono entrata in campo t’ho detto era il 23 maggio, avrei dovuto avere il ciclo il 24: cessato completamente di colpo! Può darsi che questa infezione che mi è venuta alla gamba fosse, come si può dire? conseguenza di quello.

D: Anche per lo shock, probabilmente …

R: Io penso più che altro per quello, perché han cessato di colpo, io penso che sia stata una conseguenza.

D: Arriviamo a novembre.

R: Arriviamo a novembre: c’è stato un appello particolare. Naturalmente al mattino eravamo tutte inquadrate davanti alla baracca, che ora fosse non so perché era quasi chiaro, ma a novembre viene chiaro un po’ più tardi, dunque non so, non ho idea di che ora potesse essere; fatto sta che siamo stati in appello fino a notte, fino a notte. E non solo, ma io avevo la febbre, un febbrone, non ti so dire quanto ma avevo la febbre. Poi quando ci hanno avviate e ci han detto che potevamo camminare incolonnate, non sapevamo dove saremmo andate, se ai forni crematori, se in un altro campo, perché noi in campo si parlava sempre di un eventuale trasporto come di un miraggio, dato che non era mai avvenuto, miraggio, il miraggio è quel trasporto. E’ arrivato quel momento, però non sapevamo assolutamente dove ci avrebbero portate. Ci hanno di nuovo messo in un carro bestiame, io mi ricordo che ero proprio vicino al portellone del carro bestiame, e non ho potuto muovermi di lì perché avevo una febbre che non potevo neanche alzare un braccio, sono sempre stata sdraiata lì senza mangiare per, mi pare, 3 giorni e 4 notti, e ci hanno portato a Bergen Belsen.

A Bergen Belsen siamo arrivati, mi ricordo, che pioveva; non c’era la baracca per noi, e ci siamo buttate per terra a dormire sotto la pioggia, abbiamo dormito lì. Poi ci è stata assegnata la baracca, ma a Bergen Belsen non abbiamo lavorato, sono stata poco a Bergen Belsen. Cercavano del personale per andare a lavorare in fabbrica a Dessau, che è un sottocampo di Buchenwald. Io sono passata davanti a questa Aufseherin, mi hanno scartata perché ero troppo magra, e sempre quella mia amica veneziana – la Aufseherin forse aveva un momento di, chi lo sa, non dico di bontà o di tenerezza, forse di comprensione non so – le ha detto: “Lascia venire mia sorella con me”. Allora mi han tolto dal gruppo e sono andata con loro. Dovete pensare che da Auschwitz-Birkenau è stato il primo trasporto ad andar via, e si parlava solo e sempre di questo miraggio, di questi trasporti che non sarebbero mai avvenuti, perché noi non si sapeva.

Siamo arrivati a Bergen Belsen. A Bergen Belsen anche lì eravamo sistemati in baracche, soliti castelli, solite cose, poi ci hanno scelto per andare a lavorare in fabbrica. In fabbrica si faceva del materiale, dei pezzi di ricambio per aerei, bulloni, e si lavorava in 25, c’erano dei gruppi di 25. 25 di giorno e 25 di notte, dalle 6 del mattino alle 6 di sera o viceversa. Però lì non c’erano i forni crematori, se non altro. Pensate che noi andavamo a lavorare con 5 SS e i cani lupi. Immaginate in quelle condizioni cosa potevamo fare? Non potevamo mica né scappare né fare niente!

D: Scusami Natalia, a Bergen Belsen ti hanno immatricolata ancora o no?

R: Niente.

D: E neanche in questo sottocampo di Buchenwald?

R: No niente, almeno, se loro avevano dei registri quello non lo so ma io ho solo avuto un’immatricolazione.

D: Un’altra cosa: il campo di concentramento era vicino o distante dalla fabbrica?

R: No, non era lontano, noi andavamo inquadrati 5 per 5, eravamo in 25; potevamo camminare 10 minuti, un quarto d’ora a piedi; era piuttosto vicino.

D: Tutte donne eravate?

R: Tutte donne sì sì, e lì ti dico si stava già leggermente meglio, appunto perché c’era poca gente e non c’erano i forni crematori. Pensa che noi si lavorava 24 ore su 24 con un intervallo di 10 minuti ogni 6 ore, no lavoravamo 12 ore non 24, 12 ore con questi turni, una settimana dalle 6 del mattino alle 6 di sera, e l’altra dalle 6 di sera alle 6 del mattino. … tutto e per tutto, ci portavano da mangiare, avevamo, quando andava bene, 5 patatine, ma grosse così, e se no 4, e quello era tutto. Tu pensa che quando c’erano questi intervalli eravamo talmente sfinite che avevamo vicino a noi delle cassettine, che non so a cosa servissero, forse per del materiale, ma ci mettevamo a sedere e ci si addormentava di colpo, fino a quando non suonava il campanello: erano 10 minuti, 10 minuti solo.

D: Scusa Natalia, parlaci di questo campo. Era solamente un campo femminile?

R: C’erano pochissime baracche, saranno state 5, era una cosa molto piccolina, non era proprio un campo di concentramento come poteva essere Bergen Belsen o Auschwitz-Birkenau, era più piccolo, non era così esteso. Il trattamento era leggermente più umano benché noi si parlasse solo e sempre di mangiare; avevamo un unico argomento e un unico sogno, sempre quello. Però ti dico una cosa: la fame è terribile e chi non ha provato qualsiasi cosa non può rendersene conto, è inutile che uno dica. Ma la sete è peggio. La sete ti fa impazzire. La fame è terribile; noi sempre e solo a raccontarci e scambiarci le ricette di cosa faceva la mamma, di cosa faceva la nonna, di cosa facevamo noi. Era solo quello, c’era un discorso unico, solo quello. Io l’ho già raccontato in varie occasioni: una mia carissima compagna di sventura, che era Anna Cassuto, la moglie del rabbino Cassuto di Firenze, ha lasciato a Firenze, quando l’hanno arrestata col marito, 4 bambini. L’ultima bimba aveva 40 giorni, non l’ha più trovata. I nonni sono riusciti a portare i 3 bambini più grandi in Israele, lei è stata deportata col marito, il marito poi non è più tornato, lui era oculista ed anche rabbino di Firenze, naturalmente una delazione anche lì. Quando io le ho chiesto: “Anna, ma cosa preferisci: un piatto di pastasciutta o vedere i tuoi bambini?” Disse: “Un piatto di pastasciutta”. Guardate che colmo! Questa è una cosa che mi è proprio sempre rimasta. Racconto questo, non riguarda me ma è una cosa tragica: Anna è poi riuscita ad andare in Israele, allora era ancora Palestina credo, e ha ritrovato i suoi bambini. Lavorava nell’ospedale ad Hassa, un attentato arabo nel pullman ed è saltata per aria. Pensi, portare a casa la pelle dopo quel popo’ di tragedia che c’è stata ed è morta così, poverina!

Ad ogni modo di Dessau dirò una cosa: i pezzi che facevo credo che sono serviti molto poco, proprio perché non riuscivo a capire ed ero ben contenta che non potessero funzionare. In tutto il periodo del campo l’unico aiuto che ho avuto è stato uno di questo piccolo reparto che mi ha messo dentro a una specie di casco, come quelli che hanno le pettinatrici, un pezzettino così di sapone, ma quel sapone era tutta pietra pomice. E’ l’unica cosa che ho avuto; no, anche un’altra cosa, che poi vi dirò. Ad ogni modo lì una mattina che dovevamo finire il turno, c’era già il cannoneggiamento russo, come è successo anche ad Auschwitz ci hanno spostati, perché c’era già l’avanzata russa. Si sentiva da lontano il cannoneggiamento, però sapevamo sì e no cos’era. A me è venuto sul fianco un foruncolo di quelli terribili, e naturalmente quel camicino che avevo sotto il vestito era tutto appiccicato, perché non potevo staccarlo. Ci hanno caricato, uscendo dalla fabbrica, su un camion, e anche lì abbiamo detto: “Dove andremo a finire?” Ci hanno caricato e il foruncolo, dopo un po’ che eravamo tutti in piedi su questo camion, è scoppiato: sono rimasta con quel popo’ di roba attaccata alle carni e non mi è venuta l’infezione. Ci hanno portato a Terezin, a Theresienstadt, dove sono stata liberata.

D: Quando c’è stato questo trasferimento?

R: Dunque: io sono stata liberata il 6 maggio (1945), poi mi sono ammalata subito di tifo petecchiale. Poteva essere aprile, metà aprile, perché non abbiamo lavorato tanto in fabbrica, praticamente 15 giorni; proprio le date adesso precise non le so, solo approssimativamente. E’ per quello che rimpiango adesso che ci facciate tutti questi interrogatori. Quando sono tornata due anni fa a Terezin, perché avevo piacere di tornare – sei stato tu a Terezin? E’ una fortezza che hanno mantenuto così – ma nei miei ricordi era tutto diverso.

D: Parlaci di Terezin.

R: Posso dirvi poco di Terezin perché quando sono andata non ho trovato niente di quello che pensavo di trovare. Ma su questo insisto perché Terezin è rimasto così com’era; indubbiamente, siccome io ero malatissima lì, avevo il tifo petecchiale e mi è successo di tutto, i ricordi si sono sovrapposti, si sono accavallati. Tu pensa che ho avuto il tifo petecchiale e un ricordo terribile di quella febbre che ho avuto: sono arrivata proprio al delirio, nel mio piccolo castello non c’ero solo io ma c’era un’altra, e quell’altra ero sempre io, uno sdoppiamento c’è stato. Io parlavo con quell’altra, l’altra mi rispondeva, ma ero sempre io, la stessa persona. Dunque puoi immaginare la febbre a quanti gradi sarà arrivata, non lo so perché lì era proprio delirio. E poi diceva, io questo non lo ricordo, chi era stato con me, che quando pregavo che mi portassero al Waschraum perché avevo bisogno di buttarmi dell’acqua addosso, han detto che ero cieca. Io questo particolare non lo ricordo, io ricordo di essermi alzata e di aver visto nero ad un certo momento, ma proprio di esser stata cieca per dei giorni è una cosa che non ricordo, non ricordo assolutamente. E poi lì al 6 di maggio è avvenuta la liberazione.

Io ho detto: “Ce l’ho fatta fino adesso, adesso non ce la faccio più”. Allora mi sono imposta quando stavo leggermente meglio di fare 2 passi tutti i giorni, il terzo giorno farne 3, farne 4 … sono arrivata alla liberazione, perché mi avevano detto: “Ci sono i russi, siamo liberi, ci sono i russi e siamo liberi.” Poi quando eravamo lì nessuno veniva a prenderci, nessuno sapeva della nostra esistenza. I francesi erano venuti a prendere i francesi, i belgi, ma gli italiani niente.

Allora appena stavo un pochino meglio in 4 siamo partite e siamo andate fino a Praga, con mezzi di fortuna, a piedi, siamo andati alla Casa d’Italia. Alla Casa d’Italia a Praga dove ci hanno accolte, dove ci han dato anche credo qualche soldo – abbiamo girato un po’ per Praga – è venuta fuori tutta la nostra femminilità perché con quei due soldi che avevamo siamo andate a comprare il rossetto. Puoi immaginare in quelle condizioni, magre, brutte, smunte, senza capelli, abbiamo comprato il rossetto! Guardi, l’ho raccontato alle ragazze di Moncalieri: nelle cose tragiche c’è persino una nota comica, perché è comica sì in quelle condizioni.

Poi anche di lì abbiamo lanciato degli appelli tramite radio, però non abbiamo mai avuto nessuna risposta. Un giorno abbiamo detto: “Cosa facciamo? andiamo via. Ci siamo – ho detto – andiamo fino a Vienna? Da Vienna ci sarà qualche mezzo, qualcosa che ci porti in Italia.” Allora siamo arrivati fino a Vienna, anche lì con mezzi di fortuna, a piedi, tutto quello che capitava, abbiamo preso un treno che andava al Brennero, solo che arrivati a Wiener Neustadt ci hanno fatti scendere dicendoci che non potevamo rientrare così alla spicciolata. Altri 40 giorni lì siamo stati, sistemate in case che erano state devastate; mangiavamo quelli che chiamavamo i “ceci imbottiti”, tutti pieni di vermi, però allora andava tutto bene. Pensi che – era estate, era maggio – cadevano le mosche nel piatto, ma con disinvoltura mica buttavo la mosca, no! continuavo a mangiare. Adesso se capita una mosca nel piatto butto via anche il piatto, allora niente, tutto così. A Wiener Neustadt, anche lì, nessuno veniva a prenderci; c’erano i russi, allora noi eravamo anche molto giovani, e i russi volevano farci andare a lavorare di notte. A noi quello non piaceva molto, perché non sapevamo come sarebbe finita. Allora abbiamo deciso: una mattina abbiamo preso la strada e ce ne siamo andate. Siamo arrivate a piedi fino a Sopron, che è in Ungheria. Ho avuto un lasciapassare che non serviva a niente, c’era solo scritto che eravamo andate a … con nome e cognome; però a quell’epoca il lasciapassare non serviva a molto.

Di lì siamo arrivati poi con un treno dei partigiani fino al confine con la Jugoslavia; arrivati ad un certo punto il treno si è fermato, non andava più avanti, e noi abbiamo chiesto perché: avevano inaugurato un ponte e i macchinisti erano andati a pranzo con chi li aveva invitati! Il treno era fermo, noi sul treno, allora abbiamo detto: “E noi?” “Venite anche voi!” E siamo andate anche noi lì, però quelli poi tornavano indietro. Sempre con mezzi di fortuna che non le so dire, con camion, a piedi, siamo arrivati a, mi aiuti a dire la capitale della Jugoslavia, a Tirana, a Lubiana siamo arrivati. A Lubiana siamo andate a cercare qualcuno che ci potesse aiutare, c’erano dei campi di accoglienza, che allora non si chiamavano così, dei campi di raccolta, ma lì c’era effettivamente un altro campo di raccolta e non avremmo saputo quando ci avrebbero liberati, allora abbiamo lasciato gli zaini alla stazione, siamo andate fino alla stazione, siamo arrivate a Trieste. Su quel treno di Trieste un capotreno mica ci ha chiesto i biglietti, no, ci ha regalato un pomodoro! Quello è stato il secondo regalo che abbiamo avuto.

Io mi ricordo che avevamo trovato una patata, piccolissima, e l’abbiamo mangiata così, cruda, con la terra, e abbiamo detto: “Che meraviglia!” I bignè non sono mai stati buoni così. Ad ogni modo siamo arrivate a Trieste e siamo andate alla comunità ebraica, dove ci hanno accolte, ci hanno messo a disposizione delle brande: noi non eravamo più abituate a dormire sulle brande. Allora abbiamo dormito per terra.

Abbiamo dormito alla stazione di Lubiana, poi di Trieste, poi siamo andate appunto alla comunità. E poi con tutti i mezzi di fortuna che ho trovato ho impiegato 8 giorni e sono arrivata a Torino. 8 giorni. E quando sono arrivata fino a Milano, allora mio fratello era fidanzato con una ragazza di Milano e mi ricordavo l’indirizzo, mi ricordavo il nome, sono andata a presentarmi. Noti che mio fratello si era sposato nel frattempo in Svizzera a Bellinzona ed erano a Torino. Io da Trieste avevo fatto mandare un telegramma a Torino dicendo che ero viva, e i miei fratelli volevano venirmi incontro. Ma dove? Non sapevano mica dove. E allora nel mio peregrinare sono arrivata a Milano, sono andata a casa di mia cognata, e quando mi sono presentata alla porta non mi ha riconosciuto! Mi hanno preso per una donna di servizio che era stata lì anni addietro, non mi hanno assolutamente riconosciuto.

Poi il fratello di mia cognata la sera mi ha accompagnato ad una tradotta militare che partiva da Milano alle 10, sono arrivata a Torino a mezzogiorno. I militari non volevano farmi salire, poi quando ho detto: “Ma io sono stata deportata!” “Per carità, hai più diritto tu di un altro”. E poi è arrivata Porta Susa, qui alla stazione di Torino, ho preso un tram, non chiedetemi con quali soldi, non lo so, non mi ricordo, e sono scesa proprio alla fermata sotto casa. Qualcuno che mi ha visto in quelle condizioni mi ha detto: “Ma lei arriva da lontano!”, si vede che qualche notizia era già giunta nel frattempo. Dico: “Ma io arrivo dalla Polonia! Sono scesi tutti dal tram per farmi gli auguri, e poi sono arrivata alla porta della mia casa senza sapere chi avrei trovato. Ho trovato mio fratello che si era sposato in Svizzera con mia cognata di Milano, mia cognata era incinta di 3 mesi e aspettava un bambino, e mio fratello Cesare, che era nascosto in una soffitta qui a Torino. Ho saputo lì che mio fratello Vittorio era mancato il 25 aprile del 1945, il giorno della liberazione. Poi è nato il bambino che abbiamo chiamato col nome di mio fratello, e la vita ha ripreso, per forza.

D: Il sottocampo di Buchenwald, Dessau, era un campo solo per razziali quello o no?

R: Io me lo ricordo come un campo piccolino, c’erano poche baracche, io non so se dall’altra parte ce ne fossero delle altre; forni crematori lì non ne ho visti, però sono sempre stata con i miei compagni razziali, tutti ebrei: francesi, italiani o cosa ma sempre ebrei.

Quando poi sono venuta a Torino non abbiamo mai parlato per tanto tempo, perché quando si cercava di parlare gli altri dicevano: “Basta con queste cose, sono cose passate, son superate, la guerra è finita, basta!”. Ho trovato una persona che mi dice: “Ma cosa hai fatto? perché ti sei scritta il numero del telefono sul braccio?” E poi tutti in generale: “Ma basta, queste cose sono finite, sono passate, non parliamone più!” E quella è stata proprio una cosa che ha … completamente. Perché ci siamo chiusi tutti in un mutismo assoluto. Proprio per queste frasi che ci venivano dette, che ci ferivano da morire.

D: Questo è durato fino a quando?

R: Sempre. Fino a pochi anni fa quando dal CDEC mi han proprio presa alle strette, mi han detto: “Devi fare queste interviste” “No” “Tu le devi fare”. E allora, come succede sempre, fatta la prima poi le altre mi son venute leggermente più leggere.

Anche se ripeto queste cose, sono convinta che nessuno potrà mai capire fino in fondo questa tragedia cosa è stata, se non quando se ne parla con i compagni di deportazione. Allora con i compagni di deportazione si parla la stessa lingua, e si è convinti di essere capiti. Invece con gli altri senti che, con tutta la buona volontà che ci mettono per capirti, non arriveranno mai sul fondo.

D: E’ difficile testimoniare la fame, il freddo, la sete, le violenze, non solamente quelle fisiche ma anche quelle psicologiche?

R: Certo, perché hai sempre l’impressione di non essere capita appieno, anche se qualcuno ti dice: “No, noi capiamo queste cose, noi ci immedesimiamo” non è possibile se uno non le ha vissute. Questa della deportazione è una cosa terribile, però qualsiasi cosa della vita se non l’hai vissuta tu gli altri non la possono capire, se hanno vissuto la stessa cosa sì ma altrimenti no.

Per esempio c’è stata anche un’altra persona, quando sono tornata – sono tutte frasi che feriscono, come quella del numero del telefono – che m’ha detto: “Sai, anche noi in fondo abbiamo patito tanto; mia mamma quando ha aperto un armadio, mancavano 2 lenzuola”.

Io arrivata a quel punto lì, ecco, io dico: “Sì, lei avrà sofferto perché le sono mancate 2 lenzuola, ma quando a me sono mancati, nel modo in cui sono mancati, 3 componenti della famiglia, la nonna la mamma e un fratello, mio fratello non aveva ancora 30 anni quando è mancato, qual è stato il nostro destino, solo perché siamo nati ebrei, tutto lì?!”

Varini Valter

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Varini Walter, nato a La Spezia il 4.12.1926, residente a La Spezia.

Il 21 novembre 1944 è stata rastrellata Migliarina dalle Brigate Nere, portato alla Caserma XXI a La Spezia, stetti un giorno alla Caserma e all’indomani ci hanno portato con i camion a San Bartolomeo dove ci hanno imbarcati sulle motozattere e via mare siamo arrivati a Varazze, siamo arrivati il 22 notte.

Ci hanno messo nelle celle cubicole in attesa del processo. Dopo quindici giorni ci hanno chiamati al processo in ordine alfabetico, mi dicono questa è la condanna, ventuno, “Lei deve dire la verità, altrimenti, la portiamo su un quattro”. Io sapevo tutto, essendo nei cubicoli avevo spaccato il cancelletto ed ero andato giù a parlare con i rastrellati del 21 novembre 1944 e mi avevano detto: “Le accuse sono così e così, non devi dire sempre sì o no, un po’ sì e un po’ no, altrimenti, vi ammazzano di botte”, infatti, loro erano tutti rovinati.

Quando sono andato su l’ho detto e anche Borrelli ha sentito. Vado all’interrogatorio e vi era il Brigadiere Morelli e mi chiede “Come ti chiami?”, rispondo “Varini Valter”. Mi dice “Saresti quel partigiano che era in Garfagnana?”, chiedo “Come fate a saperlo?”, risponde “Abbiamo catturato i nomi del Comitato”. Ero giovane e potevo anche sfottere; ho risposto “Siete stati in gamba, come avete fatto?”, mi ha risposto “Non ci pensare!”

In quel mentre entra Batisti, un altro Capitano delle Brigate Nere. Aveva un braccio al collo e all’attaccapanni vi era una pistola fuori ordinanza e chiede “Cosa c’è Morelli che non vuole parlare?” “Non vuole dire chi lo ha iscritto al Comitato Liberazione“. “Lo faccio parlare io!”, ha preso la pistola e gli ho detto “Mi ammazzi pure”. “No, no, troppo onore ammazzarti, devi dire chi ti ha iscritto al Comitato di Liberazione”. “Ho tirato fuori dei nomi … Non quelli che mi hanno portato ai monti”

“Le accuse sono 21 e le leggiamo: ha partecipato all’attacco in Val Durasca contro le Brigate Nere e i tedeschi e ha ammazzato questo …” Rispondevo “No” …”Ha ammazzato questo …” Rispondevo “Sì” , non era vero. “Ero armato con un boschetto” “Chi te lo ha dato?”

Vi era gente catturata e seviziata, accusatori e ho risposto “Me l’ha dato il Tizio” “Guarda che lo vado a chiamare” “Vada pure, se lo dico è la verità”.

Lo va a chiamare e chiede “Ivano conosci questo?” “No, non, non lo conosco!” “Ma come non mi conosci, tuo padre lavorava con il mio, come fai a non conoscermi?”

“Questo dice che tu gli hai dato il moschetto, ha fatto l’attacco in Val Durasca” “Non lo conosco!”

Allora mi chiede ancora dove l’ho preso, non rispondo e ordina “Picchialo”. Questo mi ha messo contro il muro e mi ha conciato ai fianchi a pugni.

Ho risposto “L’ho preso l’8 settembre” “Dove lo nascondi?” “In cantina”, dove l’avevo davvero, a casa ero armato.

Finito quello viene fuori chi mi ha iscritto al Comitato Liberazione che era il prete, don Streti, e ho risposto “E’ stato don Streti” “Sei sicuro, guarda che vado a chiamarlo, che non succeda come prima”

Va a chiamare don Streti e chiede “Lo conosci questo” “No” “Come don Streti, non mi conosce” “Dice che lo hai iscritto tu al Comitato Liberazione” “Non lo conosco, non ricordo, dove ti ho iscritto al Comitato Liberazione?” “Da Ilinari, il forno” “Sei un bugiardo, non è vero perché io iscrivevo al Comitato Liberazione in cantina sotto al Cavallo Bianco, il bar”.

A questo punto Batisti ha messo il suo piede sopra il mio e mi ha dato quattro ceffoni sulla bocca.

Le accuse erano quelle, ho ammazzato un altro maresciallo sopra La Spezia, tutte cose che non erano vere … li avessi ammazzate davvero!

Me la sono cavata con quattro pugni e quattro schiaffi.

Non ci hanno portati, finito l’interrogatorio, nei cubicoli ma ci hanno portati in seconda sezione dove siamo stati un giorno.

All’indomani ci hanno chiamati e ci hanno preso in una sessantina e ci portano in quarta sezione dove abbiamo fatto un mese, pronti per andare alla morte.

Un giorno viene l’ufficiale tedesco con l’interprete che era un ebreo e il brigadiere delle prigioni. “Ieri sera fuori dalle mura del carcere hanno ammazzato un camerata, eravamo in sei, e ci siamo guardati senza muovere gli occhi”, dicono “il Comando tedesco ordina a questa rete 48 ore senza mangiare”. Ci siamo ripresi, si mangiava un panino a mezzogiorno e una minestra alla sera.

Siamo stati in sei in quella cella, avevano messo uno di Arma di Taggia e uno di Imperia ed erano due spie, uno aveva ancora la divisa di Brigata Nera, i miei sapevano che ero un partigiano … ho scelto al mia strada …

Abbiamo fatto un mese, il 2 febbraio ci chiamano per partire per andare a Bolzano, ci ammanettano insieme e ci imbarcano sui pullman, Genova-Imperia-Milano, un giorno a San Vittore sempre ammanettati. All’indomani siamo partiti, si camminava di notte, alla mattina alle 3 siamo arrivati a Bolzano, appena scesi dal pullman con le scarpe senza lacci, senza cintola, e ci mandano poi agli uffici dove vi erano due donne tedesche che parlavano italiano.

Nella via dove abitavo a Migliarina eravamo diversi, Sarzana, tutti ragazzi che non sono più tornati.

Hanno detto “In quella via siete tutti dei delinquenti” “Con questo?”. Ho risposto perché ormai la nostra sorte era quella. Ci danno il numero, il mio era 9053, e il triangolo rosso e ci portavano nel blocco E in attesa.

E’ stato un bel giorno che i tedeschi erano in ritirata, il fronte era a Verona, i russi avanzavano e cercavano di prendere la gente per mandarli a lavorare, prendere le macerie e altro.

Come oggi hanno fatto il bombardamento a Bolzano; all’indomani ci hanno chiesto di andare a levare le bombe!

Morte per morte era per mangiare un pezzo di pane in più, volontari, quando siamo stati in mezzo ai binari suona l’allarme e i tedeschi sono spaccati prima di noi. Ci siamo buttati, c’era il fiume, di là la galleria, gli operai, il triangolo rosa, noi avevamo la gavetta con il cucchiaio di legno, ci davano da mangiare, nella gavetta un cucchiaio a me e uno a te e alla fine abbiamo bevuto l’acqua. Alla sera siamo rientrati …

D: Valter, come ti ricordi il campo di Bolzano?

R: L’ingresso me lo ricordo benissimo, c’era l’entrata con il cartellone in lamiera che poi hanno spostato di là … Sapete come è il campo? Vi era l’insegna in lamiera sopra i due pilastri nel campo ma l’hanno spostato vicino all’officina, appena entrati vi era un ufficio, una baracca, poi il capannone, in fondo le donne, noi blocco E e andava fino in fondo all’alfabeto A-B-C. In centro vi era la mensa dei tedeschi, la cambusa dei tedeschi che spalancavano, pane, mortadella … avevamo una fame …

D: I tuoi vestiti te li hanno tolti?

R: Mi hanno dato una tuta intera con il contrassegno, una striscia di traverso e una nella gamba e poi la testa pelata, hanno rasato fino a qua e poi hanno fatto i disegni in testa, a loro faceva piacere!

Hanno fatto l’assemblea come a dire che il fronte era a Verona, “Come sapete il comando tedesco vi lascerà andare perché il fronte è a Verona, i russi avanzano, noi vi lasciamo andare pochi alla volta ma i primi che vanno fuori li teniamo come ostaggi, voi siete come ostaggi”

D: Scusa, Valter, prima di arrivare alla liberazione, quanto tempo sei rimasto a Bolzano?

R: Sono rimasto da febbraio fino al 1 maggio.

D: Come lavoro sei andato a raccogliere macerie e bombe?

R: Sono andato solo a togliere le bombe, poi ho lavorato …. Siccome gli americani erano a Verona, vi era da fare il trasloco a un avvocato bolzanino, abitava in una bella villa sottoposta alle bombe, i tedeschi hanno detto “Vai là” e abbiamo fatto il trasloco, sua moglie ci ha dato un panino con burro e marmellata, una tazzina di latte e caffè e anche dei soldi, 250 lire.

D: Quando uscivi dal campo trovavi dei civili, avevi contatto con la popolazione civile?

R: L’ho avuta ma i tedeschi non volevano, ci volevano dare delle mele poi alla fine ho fatto attaccato al muro del campo un basamento per una parata militare, comandava un maggiore dell’esercito, un carrista che era prigioniero, italiano, vi era la strada che arrivava dove c’era il monumento, la strada convogliava verso Verona e verso le officine Lancia e a tutti quelli che passavano gli si cedeva del pane. E’ passata una donna “Signora ha del pane?”, sul muro vi erano le garitte e i russi, questa donna non risponde e l’abbiamo chiesto in tedesco …

E’ passato poi un vigile del fuoco e avevamo chiesto del fumo, ci ha risposto che sarebbe andato a prenderlo, è partito in biciclette ed è andato a prendere delle sigarette che ci ha lanciato ma a noi non sono arrivate, sono rimaste in mezzo, tra la strada e noi e vi erano lì gli ucraini, ma abbiamo fatto una volata e siamo andati a prenderle e ce le siamo divise.

Hanno poi lanciato i panini ed è successa la stessa cosa.

D: A proposito del campo ti ricordi del blocco celle?

R: Il blocco celle era in fondo, qua vi era l’ospedale con la mensa dei tedeschi, dietro l’altro capannone dove vi erano gli uomini ebrei, i prigionieri di guerra, i piloti inglesi e in fondo la cucina. Al blocco celle la famosa tigre che picchiava. Vi era anche una donna che aveva preso delle patate, l’hanno picchiata e le hanno buttato secchi d’acqua fredda addosso.

Tornando indietro a quando mi hanno preso, a Genova quando è venuta mia sorella a portare i vestiti e qualche soldo ha detto “Dammi i soldi che li faccio avere”, invece non me li ha fatti avere, è arrivato a Bolzano anche lui, non l’hanno messo con noi ma subito dalla parte dove vi erano gli uomini ebrei e hanno fatto una farsa alla notte. Si sono passati la voce di notte, hanno preso un paio di scarponi di uno e l’hanno messo alla sua testa, questo si è alzato dicendo che gli avevano portato via le scarpe.

Gira gira sono andati a finire all’asta del capitano e lì botte!

Il capo blocco ha parlato poi con i tedeschi e l’hanno messo in cella di punizione, prendeva un’ora d’aria al giorno, mi vedeva e diceva “Quando passiamo da Milano ti do i soldi … prima non me li hai rubati, adesso me li hai rubati” … Non potevo farci niente.

Arriva la liberazione l’hanno lasciato andare il 28 aprile e a me il 1 maggio, alla mattina alle 9,15 ero con altri miei amici, Ferrato, Costa, Rossetti Gino che non è venuto qua, abbiamo fatto la strada insieme e ci siamo fermati a Trento e ho detto “Ragazzi, se il Capitani è a Trento o lo faccio fuori, anche se ci sono i tedeschi, in qualche modo lo faccio fuori”, ero deciso!

Vi era Montefiori a Trento, vi era il posto di ristoro dal prete, davano … vi è anche una canzone “Quattro fagioli nel pugnatino, brodoleo, brodoleo” e ci ha dato 250 lire.

Vi era anche il dottor Campodonico che è stato picchiato forte a Genova e dico “Dove è il Capitani?” “Non farti vedere che ha paura di te!”. “Paura o no lo voglio far fuori” “Lascialo stare lo portiamo a casa”

Mi ha convinto e ho chiesto a Montefiori, “Lo porti a casa te? Lo mettiamo a Migliarina davanti alla Chiesa dentro una gabbia e la festa la devono fare le madri o le spose dei detenuti” “Sì, sì, io qua non rimango, voglio passare il fronte, tedesco o non tedesco voglio passare”.

Passo il fronte, abbiamo trovato tedeschi e non hanno detto niente, una brigata di fascisti ci ha chiesto i documenti, in quel mentre è passato un aereo inglese e questi scappano.

Dopo un po’ capitiamo in un rastrellamento tedesco, avevano sentito sparare e abbiamo detto: “Adesso come facciamo?”

Andare indietro non si può, andare avanti non si sa ….. andiamo avanti!

Non ci dicono niente e montano sul monte per il rastrellamento.

Dopo un po’ troviamo un battaglione di Brigate Nere, italiani.

D: Quando eri nel campo di Bolzano ricordi se deportati con voi vi erano anche sacerdoti?

R: Sì, c’erano!

D: Ricordi anche i loro nomi?

R: Non li ricordo, anche a Bolzano ho fatto la Comunione per Pasqua, da ragazzo andavo in chiesa a servire la Messa e da quella volta ho detto non ci vado più, mi hanno insegnato di essere a digiuno a fare la Comunione, fare la Comunione senza essere a digiuno, poi ho avuto episodi ai monti… per la fame chiedere al sacerdote, al prete qualche cosa da mangiare, siamo in 12 e siamo senza soldi, dove andiamo a mangiare?

Chiama la sorella, tira fuori una formaggetta di pecora e una pagnotta.

“Dammi il coltello” dice la sorella, prende il coltello, taglia una fetta di pane e due fettine di formaggio … non ci ho più visto, avevo le mani sulle bombe, ho detto “Siamo in 12, come facciamo?” Siamo tornati indietro e glielo ho buttata in faccia, “Grazie lo stesso”, se volevo con le armi potevo prendere quello che volevo invece non l’ho fatto.

D: Ricordi se vi erano bambini nel campo di Bolzano?

R: I piccoli non li ho visti, avevamo un’ora d’aria al giorno, al mattino vi era la conta poi mandavano fuori a lavorare e gli altri erano fuori a prendere l’aria e noi avevamo un’ora d’aria al giorno.

D: Ricordi se hai visto azioni di violenza nel campo di Bolzano?

R: Ho visto la tigre che snervava bene, picchiava!

D: E’ successo un episodio, quello pugnalato, dove è successo?

R: A Bolzano vi è quel castello in alto che si vede, lo avevano anche fatto saltare, era un deposito di munizioni e i partigiani l’hanno fatto saltare, credo che sia stato su quelle montagne, questo preparava la legna con il tedesco di guardia, dai oggi dai domani, con la confidenza, lo ha disarmato, il tedesco è andato …è stato pugnalato, l’hanno portato dentro al campo di concentramento con un telo da tenda, hanno fatto l’assemblea, tutti quanti a vedere, ha spiegato che questo andava a tagliare la legna, con la confidenza con il tedesco ha avuto la meglio e lo ha pugnalato.

“Dovete stare attenti, a chi va fuori succede qualche cosa, la stessa cosa succede a voi, come questo!” Noi non potevamo nemmeno scappare perché avevamo una taglia di 500 lire.

D: Quando è successo questo, te lo ricordi?

R: A marzo o aprile.

D: Parlavi prima della Pasqua, che cosa è successo?

R: Non ho preso la Comunione, sono stato dentro con questo Opicini, eravamo liberi, si poteva camminare, vi era un frate di Belluno, sono andato dalla parte delle donne e ci hanno dato quattro pagnottine e abbiamo detto “Bruno, questa è una bella Comunione, non quella là” …

D: Valter, ricordi quando eri nel campo di Bolzano se potevate scrivere o ricevere posta o pacchi?

R: Io no non ho saputo niente.

D: Ricordi se era entrata la Croce Rossa nel campo di Bolzano prima della liberazione?

R: Vi era un prete che faceva parte del Comitato di Liberazione e mandava dei pacchi, anche le donne, la Cicci, la Marta riceveva i pacchi da casa e i pacchi che ci dava la Croce Rossa li passava a me.

D: Chi era questa Marta, una deportata?

R: Una deportata, suo padre era uno del Comitato di Liberazione, un partigiano, lei mi ha detto che era di Merano e poi ho chiesto alle donne “Di che parti era Marta, di Merano?” “No, verso Belluno!”

D: Hai nominato prima la Cicci, chi era?

R: La Cicci faceva la Kapò nel campo delle donne, era milanese, alla mattina era sempre fuori a fare ginnastica.

D: Ti ricordi degli ucraini?

R: Erano due che facevano sempre la guardia sulle garitte, erano fetenti perché chi comandava lì dentro era Colonia che era di Verona, delle SS, Lanz di Trento, era una SS alpina, aveva il cappello con tutte le stelle alpine, non era cattivo. Colonia era cattivo.

D: Non hai mai avuto bisogno di andare in infermeria?

R: Sono andato perché c’era uno, quando davano il rancio, che era stato nelle Brigate Nere, nella Repubblica di Salò, quello lo avevo come fumo negli occhi, questo mi passa avanti e ci siamo presi, lui si è girato con la gavetta di ferro e me l’ha data in testa e sono andato in infermeria. Lì ho trovato l’avvocato Duci, mi hanno messo la benda, non il cerotto, per quello che quella donna ebrea voleva la marmellata, mi davano da mangiare per quello.

D: Quando parlavi di Trento, la liberazione, siete arrivati a Trento, siete andati da un sacerdote, ricordi chi era questo prete?

R: Non chiedermelo, alla sera il problema era andare nella case bombardate, dove andiamo, in galleria, abbiamo visto un vigile del fuoco, un ragazzo, e ho detto “Domandiamo dove è la caserma dei pompieri”. Infatti ci ha detto di andare dal comandante e ci hanno ospitato lì, ha detto: “Non abbiamo letti ma vi do delle coperte e dormite sul pavimento di legno”. Alla sera ci hanno dato da mangiare e siamo stati abbastanza bene. Vi era il problema di fare la scorta per il viaggio, facciamo la conta ed è toccato a me e ad un altro. “Ora c’è la tessera, chi va a prendere la roba?” Andiamo ai forni e chiediamo da mangiare, qualche soldo lo avevamo, 250 lire, allora erano qualche cosa, chiediamo del pane, e diciamo che veniamo dal campo di concentramento e le donne quando sentivano così pagavano e ci davano i bollini e abbiamo fatto la scorta per la strada.

D: Ricordi dove era il posto di ristoro a Trento?

R: Me lo ricordo …

D: Quasi vicino alla stazione?

R: Quasi vicino alla stazione, vi è un anfiteatro, un portico, dietro vi era la stazione, era lì vicino.

D: Non era un frate …

R: No, no, era un prete, tanti sono ritornati due volte a prendere la razione e anche i soldi, da buoni italiani.

D: L’ultima cosa del campo di Bolzano. Ricordi quando eri nel campo di Bolzano se vi era un Comitato di Liberazione interna?

R: C’era, tanti hanno avuto lo scontrino che non erano partigiani, io che lo ero non l’avevo.

D: Valter, grazie!

R: Prego!

Loredan Onesimo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Allora io sono Onesimo Loredan, sono nato nel Comune di Muggia provincia di Trieste, ho sempre lavorato nei cantieri, sono stato nei partigiani.

D: Ma quando sei nato?

R: Nato il 20 luglio del 1921.

D: Ecco, poi quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato nel marzo 1944.

D: Dove?

R: A Kocevje, passato Lubiana.

D: Chi ti ha arrestato e perché?

R: Perché eravamo dei partigiani. Eravamo in trasferta, da un luogo per andare in un altro ed una mattina ci hanno aspettato, si vede che qualcuno ha fatto la spia, perché la sera sono scappati due di noi, e alla mattina tutto un fuoco e ci hanno arrestati.

D: Chi vi ha arrestato?

R: Ci ha arrestato prima erano i famosi domobranzi, come si chiamano? Quelli che difendevano, gli sloveni, sarebbero i partigiani del Governo.

Loro. Poi ventiquattro tedeschi con delle tute bianche con croce rossa davanti e croce dietro, noi eravamo già contro il muro, con le mani alzate. Vengono loro, ci prendono in consegna loro, eravamo circa un battaglione, circa 110, ed un terzo sono riusciti a scappare, un altro terzo feriti, morti là ed un altro terzo come noi che siamo rimasti fuori e di lì erano un cinque chilometri per andare, perché era sotto un monte. Lì la segretaria del comandante che era una piccola grossetta, è stata ferita qua sul petto, come quando si ammazza il porco. Dovevamo noi portare i feriti, tutti quanti, lei l’abbiamo messa su di una carriola, ed un po’ ognuno, brutto, bruttissimo da vedere.

Siamo arrivati a Kocevje, ci hanno messo in una scuola, in un’aula grande con tutti questi affari qua, con le mani su così, per terra, le gambe incrociate e bon. Poi interrogatori con i tedeschi. Mamma mia. Come siamo andati su, perché siamo andati, chi ci ha mandato. Noi abbiamo detto che non sapevamo niente, che ci hanno presi e bon. Loro volevano che andassimo con loro perché avevano quei cappotti lunghi di pelle, perché si stava bene, si mangiava bene, quello e quell’altro. Oppure, visto che, allora andrete a lavorare in Germania. Noi siamo operai, andiamo a lavorare, piuttosto che nel bosco.

Prima dei partigiani sono stato ferito, ho quattro buchi, una palla sola qua dentro e qua fuori, qua dentro e qua fuori. Una. Una e cadi per terra. Il comandante mi ha preso e mi ha portato di dietro e bon.

Poi otto giorni in un, loro dicevano, ospedale militare, erano tre baite, senza porte e senza finestre, con un po’ di paglia per terra, e lì. All’ottavo giorno ci hanno dato il permesso di montare di guardia a queste quattro baite che erano e portare il fucile mitragliatore sulla sinistra perché sulla destra era ancora la ferita fresca. Niente, un po’ di alcol e via, non c’era nessuna altra cosa.

Poi di lì da Kocevje, andate a lavorare in Germania, con un trasporto ci hanno portato a Lubiana, in prigione. Allora appena siamo arrivati chi aveva la febbre andava in infermeria al quarto piano e ci davano il termometro, io un po’ più furbo degli altri, ho fatto così è andato su e sono andato su. Un dieci giorni ho fatto su, perché abbiamo fatto la quarantena.

Dopo ci hanno mandato, allora non potevano fare perché c’era il binario rotto, non potevano fare il trasporto da Lubiana e ci hanno portato a Begunie. Begunie sarebbe su là, brutto posto. Di là abbiamo fatto cinque giorni là, su ancora, eravamo a visitare con la famiglia, guardi là, lei si chiama così e così, tal mese,il tal giorno. Dice è da pagare No, no, lei e famiglia non pagano niente” e la stessa cosa quando siamo entrati in campo in Germania.

Allora di là dopo il quinto giorno ci portano giù e giù al treno e ci mettono su questi vagoni piombati sopra, con il filo spinato, uomini, donne, bambini, tutti assieme. Due giorni siamo stati là dentro, in quello là. Perché siamo andati su, su fino a Mauthausen. Per fare i bisogni che cosa abbiamo fatto? Abbiamo preso una tavola su dal pianale e lì facevamo i bisogni tutti, uomini e donne, tutti. Come niente fosse. E ci hanno portato a Mauthausen, giù in stazione e ci aspettavano quelli del campo, ci hanno preso in consegna loro. Quelli erano bestie. Quelli erano veramente bestie.

Ci portano su, sulla prima cosa, quando siamo entrati ci registrano e dopo, spogliarsi nudi, rasati tutti, sopra e sotto, non dovevi avere un pelo addosso. Niente. Tagliavano e poi rasavano. Lì ci hanno dato un piccolo pezzettino di sapone e ci hanno messo dentro questo grande stanzone con delle serpentine sopra, con dei buchi, hanno chiuso le porte e tutto e mollano l’acqua. L’acqua era tiepida. Ci siamo insaponati, mollano l’acqua fredda e nessuno poteva scappare, tutto chiuso. Perché dopo lo stesso locale lo hanno adoperato per gasare, lo stesso locale. Adesso è ancora là.

Eravamo adesso in settembre con il Professor Sarti, il famoso registra di Strelher, eravamo su ed abbiamo visitato tutto, ero io a Mauthausen perché ero là dentro.

Là ci hanno vestito, zoccoli. Tutti vestiti, che cosa hanno fatto. Quei sacchi grossi di cemento, ma sono alti, alti, tutto dentro, cappotto, scarpe, tutto là, hanno chiuso ed hanno messo il nome, che dopo ci daranno indietro. Ecco là.

Là ci hanno portato ed abbiamo fatto la quarantena.

D: Ti hanno immatricolato là a Mauthausen?

R: Sì.

D: Che numero ti hanno dato?

R: Lo dico in tedesco o in italiano?

D: Tutte e due.

R: In tedesco è …. 65807.

D: Assieme al numero ti hanno dato un’altra cosa?

R: Sì, il triangolo con la punta in giù. Il triangolo rosso. Che noi eravamo considerati politici. Perché gli ebrei avevano tutta un’altra cosa, loro avevano la stella di Davide, e gli ultimi neanche quello là. Una pennellata gialla, con un pennello largo, uno sulla schiena, non avevano né numero né niente.

D: Poi ti hanno portato al blocco di quarantena?

R: Sì, al blocco 14, poi eravamo al blocco 16, mi pare, non lo so. Al 14 di sicuro e là dentro si stava tutti per terra. Non si poteva stare con la schiena giù, bisognava stare così e lui era sulla porta con il fucile mitragliatore e qualcuno voleva fare il furbo e si metteva giù. Lui ha camminato sopra tutti e quello lì era finito. Sul viso, sul corpo, basta quello, era finito, rimaneva là. Basta.

D: Lì nella quarantena che cosa hai fatto?

R: Nella quarantena ci hanno anche portato fuori là, dove allargavano il campo, su questo binario, lavorare, spianare e bon.

Poi finito là ci hanno portato davanti, davanti all’entrata e facevamo la massicciata per la strada che viene su, eccolo. Lì ho fatto quaranta giorni, sarebbe come dire quarantena, in agosto.

Di là ci hanno fatto il trasporto, mandavano di qua e di là, a me hanno mandato a Gusen che è subito sotto un paio di chilometri.

D: Quale Gusen?

R: Gusen 2.

D: Che cosa facevi a Gusen 2?

R: A Gusen 2 siccome io ero dei cantieri, operaio specializzato, allora mi hanno mandato nella fabbrica di apparecchi. Tutto quanto in galleria. Ogni mattina venivano con il treno dentro, ci caricavano sui vagoni aperti, non chiusi, e lì come bestie andare su e ci portavano dentro in galleria. Dentro addirittura dentro, non fuori. Niente, dal campo dentro. Lì si lavorava. Ero nel reparto carlinghe, dovevamo fare in 12 ore che si lavorava tredici fianchi di carlinga del caccia bombardiere monoposto. Caccia bombardiere quel famoso che il pilota faceva tutto lui. Allora l’asse dell’elica era la mitraglia, poi davanti due mitraglie sincronizzate con le pale dell’elica, una cosa enorme. Però la cabina non veniva fatta. Veniva fatta in un altro reparto fuori. Lì era il reparto ali, reparto carlinga, e così.

D: Tutto nelle gallerie?

R: Tutto dentro, tutto, tutto dentro. Dentro che cosa facevamo. Noi dovevamo prendere la lamiera di alluminio, metterla già su quello pronto, fermarla, bucare, mettere di dietro l’ossatura e ribattere. Ribattere con le brocche di alluminio, però duravano due ore, dopo due ore bisognava portarle al bagno galvanico perché, se era vero non lo so, dopo non si strozzava più. Quando si sbagliava passava la SS, il capo reparto, che era un lavoratore civile italiano, in quel reparto là, un lavoratore civile italiano, era lui il responsabile del reparto carlinghe e quando passava questo SS lui doveva fargli il rapporto, che cosa hanno fatto e lì erano botte.

D: Ma non è un deportato questo lavoratore?

R: No, no, era un lavoratore civile che lavorava in Germania, come era non lo so. Ma dopo viene il bello.

Allora io ho sbagliato qualche cosa e ne ho prese cinque con il nerbo e mi ha dato anche un pugno, io avevo qui un dente d’oro con la capsula, mi è caduto per terra. E cosa succede? Il tedesco mi ha dato la sua punizione, io mi sono preso il dente, viene questo lavoratore civile e mi dice: “Se me lo dai ti do un pane, questo e quell’altro”. Insomma, mi ha dato un pane di un chilo, io gli ho dato quello là. Ma poi viene il bello. Perché adesso bisogna riportarsi direttamente a quando siamo usciti dal campo.

Quando siamo usciti dal campo ci hanno liberato gli americani, poi torneremo indietro. Lì, strada facendo, prima di Linz, c’era il campo dei lavoratori civili, e lì c’erano già gli americani e li prendevano in consegna e lì ci hanno dato una piccola puntura con una piccola siringa qua, per la scabbia, orticaria. Facevi così e tutta una materia. E la scabbia è bruttissima perché ti penetra sotto, e dentro, mamma mia.

Adesso dovrei finire questo qua. Finisco perché finisco? Lì si parlava, io parlavo con uno e con l’altro, com’è, come non era, dico è lui, il capo del mio reparto come lavoratore civile, così e così. Loro hanno rapportato al comando del campo e mi hanno chiamato così ed io sì, è così e così. Vanno nella baracca sua, lui aveva quelle valigie di legno ed aveva un sacchetto così pieno di oro, denti, quello e quell’altro, su e giù e mi dice, prende questo lo mette sul tavolo e mi dice, cercati il tuo dente. A me, quelli là del comitato. Fatto sta che l’ho trovato, me lo hanno presentato e tutto. Alla sera hanno fatto la riunione in campo. E spiegano a tutti cosa è successo, questo e questo. Sa cosa hanno fatto di lui? Una cosa che ancora adesso mi vengono i brividi, lo hanno legato sul cofano di una doge vecchia che era là, lo hanno legato, lo hanno bagnato di benzina e gli hanno dato fuoco perché tutti si sono messi a gridare “Dagli fuoco, dagli fuoco”. Io non volevo fare queste cose qua. Questa è una testimonianza, e basta. Possiamo tornare indietro.

D: Gli hanno dato fuoco?

R: Fuoco, sì. Per noi era una cosa normale, perché a Mauthausen dentro là, si passeggia, quello grida “Due uomini con me, due uomini con me”, bisogna andare perché lì non si poteva scappare o dire di no. E ci hanno portato giù ai forni crematori, giù ad aprire questo portellone di questa stanza, come una cella frigorifera, c’erano tutti questi cadaveri e lì a prendere le pale, aprire il forno, il portello di ghisa, prendere il carrello, dargli una scassata che vada la cenere di quelli di prima giù, poi con la pala si metteva di fuori, da parte, era pronto per metterne su altri. Ma noi non abbiamo visto, abbiamo solo pulito il forno e ci hanno dato anche due sigarette, cosa rarissima e bon.

Quella l’unica volta che sono stato là. Poi si caricava. Questa è bella. Quando si rientrava dal lavoro si faceva la decimazione. Sai cos’è la decimazione? Tutti in fila. Il dieci fuori. Qui avevamo il numero, levavano tutto via, con la matita copiativa scrivevano il numero così in grande, un colpo in testa e se non andavi ti facevano, e restavi là. Finito tutto quei cinquanta, sessanta di loro, col carro, metti sul carro e porta sul mucchio.

Quando io sono entrato nel campo non c’erano ancora i forni crematori, c’erano le fosse comuni e sono proprio di dietro, al fianco del campo, un’enorme fossa con uno strato di cadaveri ed uno strato di calcina viva, uno strato di cadaveri ed uno strato di calcina viva, quella lì non era ancora riempita bene, già era pronta quell’altra là. Così erano quattro fosse. E poi hanno fatto il primo forno, il secondo, il terzo ed il quarto.

Adesso a Gusen dopo che ci hanno mandato in quell’altro campo sono rimasti solo i forni crematori perché i proprietari dei terreni ci hanno fatto le case sopra a migliaia e migliaia e migliaia di morti.

D: Ascolta, quando andavate al lavoro, vi chiamavano a Gusen 2, dal campo di Gusen 2, vi facevano salire su un trenino.

R: Un treno a scartamento ridotto, praticamente.

D: E vi portavano direttamente alla galleria.

R: Dentro. Facciamo conto come qua sarebbe il monte Pantaleone, tutto traforato di gallerie dentro. Tutto. Tutto dentro, tutto. Il lavoro si svolgeva tutto dentro. Verso l’ultimo tutte le imboccature erano già pronte per farle saltare per aria, poi non lo hanno fatto e non so perché.

Tre giorni prima non ci hanno portato sul lavoro, ci hanno lasciato in campo e basta, poi sono venuti gli americani.

D: Quando tornavate al campo, il treno veniva dentro?

R: Dentro, dentro. Tutto dentro, in campo.

D: Dentro nelle gallerie?

R: Sì, per andare sul lavoro dentro le gallerie, e dalle gallerie si andava direttamente in campo, a passo d’uomo. Non scappava nessuno.

D: Ti ricordi che baracca avevi tu a Gusen 2?

R: No, no, troppo.

D: Ti ricordi degli altri compagni tuoi che c’erano a Gusen 2?

R: Mi ricordo che alla sera ci si trovava anche del paese mio e si faceva qualche cosa, con il tabacco, perché si dava via il pane per una presa di tabacco.

La sera ci si trovava, il giorno dopo non c’era più. Dov’è? Lo hanno portato in Revier. Là sul mucchio.

D: Tu al Revier non sei mai andato?

R: Sì. Sì sono andato. Per questa scabbia, orticaria, ho marcato visita, che sarebbe meglio di no, perché lì se marcavi visita andavi dentro e bon. Allora che cosa ci hanno dato? Sulla mano un po’ di quella pomata, se non fai il bagno a cosa serve mettersi quella pomata. Invece dopo gli americani ci hanno fatto bagni nelle vasche di zolfo, è andato tutto via. Mi è solo rimasto una cosa, è brutto da parlare, sono rimaste le creste di gallo. Sai cosa sono le creste di gallo? La sporcizia. Chi si lavava? Dov’era l’acqua?

Poi il dottore nostro a casa ci bruciava quelle, mamma mia che male, quello era il peggio di tutto il resto, a parte le piaghe, una cosa e l’altra.

D: Alla liberazione tu eri a Gusen 2?

R: Sì.

D: Alla liberazione eri a Gusen 2. Come te la ricordi tu la liberazione?

R: La liberazione. Siccome la strada era un po’ più sopra elevata ed il campo era più basso sotto due metri. Sono venuti gli americani con due carri armati grossi e basta. E lì hanno preso via tutti, le guardie, i comandanti del campo e tutto.

D: Allora sono arrivati gli americani; tu dov’eri?

R: Dentro in campo. Là. E basta. Quando loro hanno preso tutti quelli là, non comandava nessuno. Chi andava in cerca di amici, chi andava in cerca per fare giustizia con i capi blocco e lì hanno messo un carro armato davanti, e tutti in fila in mezzo agli altri, tutti quanti ed un altro carro armato di dietro e sono andati via e noi basta, alla mercé. Chi andava via subito alla sera, perché questa cosa alle quattro di pomeriggio, al 10 di maggio.

Strada facendo che si andava giù verso Linz, venivano su gli americani con questi carri armati e ci buttavano fuori quei pacchetti conforto, dentro tre sigarette, tre carte igieniche, tutto a tre, perché non lo so, tre cioccolate e questi qua mangiavano, e poi li trovavi nel canale. Perché lo stomaco non era così. Ci davano un litro di brodaglia. Un litro di brodaglia con le rape. Le rape dieci minuti dopo non c’erano più. Allora cosa bisognava fare, legarsi qua i pantaloni perché se loro ti vedevano che con la dissenteria perdevi, ti portavano anche in pieno inverno e con la manica dei pompieri ti lavavano e rimanevi perché non eri più niente. Eravamo ossa e pelle. Da non potersi sedere, perché non ci si può sedere sull’osso, noi vediamo ancora qua, quando ci appoggiamo sull’osso, di dietro non era così, era così.

Quando si rientrava dal lavoro, levarsi la camicia e fare così, anche niente, guardare ed anche via, qua sotto era così, fare così e niente altro, ed una volta al mese, circa, ti portavano a disinfettare, quindi tutti quanti a levarsi la giacca, metterla per terra, tutto il resto dentro, che resti fuori il numero, il nome non esisteva, perché la prima cosa che facevano, ti spersonificavano, tu non sei più tu, con il terrore, è un terrore continuo, nessuno reagiva, niente, niente.

D: Quindi alla liberazione tu sei uscito subito dal campo?

R: No, no, siamo andati in cucina, io ed altri, non so chi, perché eravamo degli automi, non eravamo più noi, noi eravamo niente, non so. Si camminava così. In cucina abbiamo trovato quei piccoli pacchetti di cipolla secca, abbiamo fatto un po’ di polpette. Con questo stomachino che non era niente. Abbiamo dormito là in cucina. E la mattina ci siamo incamminati verso Linz che è a circa 27 chilometri da Gusen.

D: Sei andato a Linz?

R: Sì, verso Linz e strada facendo prima di arrivare a Linz ci hanno intercettato gli americani. E ci portano dentro in quel campo, nel campo dei lavoratori civili, dove è successa quella cosa.

D: Lì quanto tempo sei rimasto?

R: Una quarantena. Praticamente. Hanno incominciato con una zuppetta, praticamente niente, poi sempre di più, un po’ di riso, sempre più, fino a che negli ultimi giorni ci stava il cucchiaio con pasta e fagioli, così ci hanno proprio rimesso a posto, ci facevano il bagno nelle vasche di zolfo, dieci minuti dentro in questo zolfo, poi fuori, poi la doccia, è scappato tutto, scabbia, orticaria. Sono rimaste solo quelle là. Dolori.

D: Per il rientro in Italia?

R: Il rientro in Italia, il ponte di Linz, la stazione di Linz non era più niente. Il ponte di Linz lo hanno fatto provvisorio. Si vede per il treno e siamo passati con il treno, vagoni normali di terza classe e bon, giù, in mezzo alla campagna, ci si fermava, perché non lo so. E lì si andava giù, si andava in cerca di rape o qualche cosa da mangiare, non c’era niente, non ci hanno dato niente.

Siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano ci hanno messo nelle baracche. Lì eravamo quattro, cinque giorni, non so, e lì venivano da Milano, da Torino, da Genova, a prendersi ognuno i suoi, allora era sempre l’auto parlante che gracchiava, un trasporto per il rientro.

Noi per Trieste, ma Trieste non si può, perché c’era Tito. Allora niente. Allora siamo andati giù per Trento, ci hanno fermati a Verona, e a Verona non si può andare, si rimane là. Invece poi è arrivato l’ordine che Tito si è ritirato e bon, a casa.

Veniamo a casa e a Bolzano ci vengono a prendere i pompieri di Muggia, con il loro camion e bon, ci hanno portato giù a Muggia. Lì in piazza ci hanno fatto la piazza piena così, hanno fatto un paio di tavoli, hanno spiegato qualche cosa, ma noi non eravamo noi. A parte che oggi siamo diversi, ma quella volta eravamo proprio niente.

D: Dei tuoi amici, del tuo Transport, vi siete salvati in tanti?

R: Non lo so, perché non mi ricordo quelle cose. Anche del campo non ci si ricorda mica tutto. Allora che cosa era il campo, che cosa mi ha colpito? La baracca che avevano loro i tedeschi che erano prigionieri come i nostri, solo che per fare quei servizi, andavano dentro e si vedevano che andavano su e giù e quando non avevano lavoro si vedeva che erano appoggiati alla finestra. Poi si vedeva il comandante del campo vicino al portone, un soldato, un piccolo bambino, di pochi mesi, forse, a buttarlo per aria e lui si allenava con la pistola. Quello mi è rimasto, si rimaneva colpiti perché erano cose. Il terrore e basta. Allora dormire, specialmente negli ultimi giorni in quattro su di un posto, non era una branda, era solo legno, due con la testa in su e gambe in giù e gli altri due con la testa in giù e le gambe in bocca. Era quasi una cosa normale, però ci si ricorda poco di queste cose.

D: Quando sei rimasto a Mauthausen e poi a Gusen 2, ti ricordi se potevi scrivere o ricevere pacchi?

R: Niente, niente, che scrivere. No, niente, pacchi, niente, niente, non riceveva nessuno. Noi eravamo completamente isolati dal mondo, niente, niente, giornali, neanche roba vecchia, niente. Niente.

D: Ti ricordi se assieme a te c’erano anche dei religiosi?

R: Come no. C’erano anche i Geova. C’erano gli omosessuali. Ognuno aveva il suo triangolo, il suo colore. Però noi più di tanto. Che cosa sapevo io.

D: Hai visto anche sacerdoti?

R: Come no, sacerdoti, professori, ingegneri, ma tutti, di tutto, trattamento unico. Tutti uguali. Solo che agli ebrei gli davano gli ultimi giorni un pane in ventiquattro.

Cattarossi Guido

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Cattarossi Guido, nato a Tarcento il 30 maggio 1925.

D: Guido, quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato l’8 dicembre 1944.

D: Perché?

R: Per un rastrellamento; ero armato, eravamo di pattuglia. Pioveva che Dio la mandava e c’era nebbia che non si vedeva, quando abbiamo individuato la postazione eravamo già in trappola. Una raffica, una pallottola mi è entrata e due sono andate nel cappotto.

D: Tu eri partigiano?

R: Io ero partigiano armato.

D: In quale formazione eri?

R:Nella Garibaldi, Battaglione Manin, Brigata Bozzi, non so, me l’hanno cambiata da un po’.

D: Chi ti ha arrestato?

R: I tedeschi assieme ai fascisti.

D: Dove ti hanno portato?

R: Subito dopo mi hanno portato da Monte Fosca a Rividischia, mentre facevano il rastrellamento. Abbiamo fatto un giorno e mezzo in un paesetto in montagna.

D: Che è dove?

R: È sopra Canebola.

D: Guido, è lì che ti hanno arrestato?

R: Sì. Sopra Canebola, dietro la buchetta di Sant’Antonio.

D: E ti hanno portato?

R: Dopo mi hanno portato a Ribilisi mentre facevano il rastrelamento, un giorno e mezzo siamo stati fermi lì. Io non potevo camminare, ma poi siamo partiti e siamo andati su a Monte Fosca per andare giù a Pulfero. Io che non potevo camminare avevo due compagni, a destra e a sinistra, che mi tiravano per il braccio. Ad un certo punto si fermano i due comandanti, due tedeschi, un sergente e un tenente; mi guardano e l’uno parla all’altro, io non capivo un bel corno e mi parla; quando siamo arrivati al Pulfero ho saputo tutto. Siamo ripartiti e via siamo arrivati fino al Pulfero; è lunga la strada, eppure siamo arrivati. A quel punto il tenente ha detto al capitano: “A quel ferito non è meglio sparare un altro colpo?” Quello che era con me sapeva il tedesco e l’altro ha risposto: “No, sono i suoi colleghi che lo tirano”. Una volta è passata bene.

Arrivati al Pulfero, il primo degli otto presi nel rastrellamento ero io e sono stato portato al Comando e interrogato, visitato. Due mesi di lazzaretto, l’ospedale. E invece dopo aver finito l’interrogatorio ci hanno caricati e giù in Via Spalato.

D: Scusa Guido, a quale Comando ti hanno portato? Comando di dove?

R: Il comando tedesco che era al Pulfero. Era in un distaccamento che avevano loro; lì mi hanno visitato, hanno interrogato tutti gli altri e poi siamo andati in Via Spalato.

D: Il Pulfero che cos’è?

R: Un paesetto prima di arrivare al confine con Stupiza, più in su, il confine di Stato con la Jugoslavia.

D: Poi ti hanno portato a Cividale?

R: A Cividale al Comando, ma non siamo scesi, andammo diritti per Udine.

D: Quindi ti hanno portato alle carceri.

R: In Via Spalato. L’unico degli otto ferito ero io, perciò mi hanno portato in infermeria, gli altri nelle celle. Due giorni dopo, sono stato catturato il 9 dicembre, l’11 dicembre sono entrato in Via Spalato; il 13 o il 14 dicembre non ricordo bene, o il 12, viene l’impiegato in infermeria e dice: “Cattarossi!” “Comandi!” “Alzarsi, andare al processo”. Io non ho risposto. Avevo l’infermiere vicino, rispose lui. “Scherziamo, dice, orina sangue”. Difatti per sette giorni ho orinato sangue.

Parte, fa un segno sulla sua carta e dopopranzo l’infermiere mi dice, visto che poteva girare a fare iniezioni e punture a destra e a sinistra, dice: “Molini, mi chiamava col nome del paese, vuoi sapere l’ultima? I tuoi colleghi, i tuoi sette, non tu, sono stati al processo”. “E allora com’è andata?” “Quattordici condannati a morte e uno graziato”. “Chi è graziato?” “Quello che ti ha fatto la puntura in montagna, un infermiere”. Quello che mi aveva accompagnato fino a Pulfero. Adesso mi curano e dopo avrò la mia sorte. Difatti il giorno 13 o 14, il 18 dicembre al mattino ci sono due camion che attendono: partono questi poveri condannati che sarebbero i miei compagni, anche un paesano. Otto sono partiti per Cividale, abbiamo saputo dopo anche dal giornale, e sei per Gemona, fucilati. Il mio paesano è stato fucilato a Gemona.

D: Tu invece sei rimasto lì…

R: Invece io sono rimasto lì. Finito l’anno, ci hanno mandato al gennaio del ’45. Vengono chiamati altri 26 al processo. Mi dice l’infermiere: “Basta che non tocchi a te!” “Boh, dico, se è destino accettiamolo, ormai siamo qua”. Sono fortunato un’altra volta, non sono chiamato. Processo: 23 condannati a morte e 3 graziati.

D: Il processo dei 23, dicevi?

R: Di questi non so niente, che fine abbiano fatto, com’è andata.

D: E tu al processo non hai partecipato?

R: No, al processo non ho partecipato. Io ero in infermeria fino al 15-20 gennaio. Agli ultimi di gennaio l’infermiere dice: “Penso che ci sia una partenza per la Germania”. “Perché?” “Perché il maresciallo che comanda mi ha chiesto di te e come stai”. “Io dico: sta abbastanza bene”. Allora mi prende e mi manda in cella. Vado in cella e faccio tre giorni in cella. Il terzo giorno alle 11 di sera dormo. “Cattarossi, Cattarossi!” mi svegliano gli amici con me. “Alzarsi, domani c’è la partenza per la Germania”. Si immagini, trattando di uscire di lì ho fatto un salto di contentezza. Andavo nelle celle per vedere chi parte e chi non parte. Di lì è avvenuta la partenza per la Germania, due o tre giorni dopo siamo partiti.

D: Da dove siete partiti?

R: Da Via Spalato.

D: E vi hanno portato?

R: Alla stazione.

D: Eravate in tanti?

R: Non so, abbiamo fatto la notte in un vagone a Udine per aspettare il treno che veniva da Trieste, ammassati, ammucchiati. All’indomani ci hanno divisi quando è arrivato il treno e siamo partiti. L’1 febbraio o il 2 siamo partiti.

D: Eravate tutti uomini o c’erano anche donne?

R: Che sappia io eravamo tutti uomini, dopo sul treno che veniva da Trieste…

D: Vi hanno agganciato al treno in arrivo da Trieste; erano carri bestiame?

R: Si immagini, si pensava di scappare per strada come tanti sono scappati, ma c’era la scorta perfino nel vagone, con noialtri, i tedeschi nel vagone.

D: Quanto avete viaggiato in treno?

R: Abbiamo viaggiato … siamo partiti il 2 e arrivati il 7 a Mauthausen. Sono tanti chilometri, lo sa dov’è Mauthausen in Austria? Perciò…

D: Siete arrivati alla stazione di Mauthausen.

R: Cinque chilometri fatti a piedi, dopo. Ho preso anche il tango per strada, mi hanno battuto perché non potevo camminare, dico la verità, mi faceva male la schiena. Io non ero ben inquadrato secondo i tedeschi, anzi non i tedeschi ma gli italiani perché c’era la scorta fino al campo. Non ero ben inquadrato allora mi hanno dato col calcio del fucile sulla schiena e sono cascato per terra. I miei compagni mi hanno preso, tirato su. Hanno portato lo zaino e siamo arrivati al campo. Alle sei, alle cinque di sera ci siamo ammassati, siamo arrivati e dopo ci hanno messo da parte e abbiamo aspettato prima di andare al bagno la bellezza di cinque o sei ore.

Tornando un momento indietro: quando siamo passati per Tarcento, io quella volta a 19 anni avevo già una fidanzatina sul lavoro. La serva del padrone che era a Tarcento, il padrone della fornace, è venuta a darci qualcosa. Sapeva che io passavo, alle quattro del mattino il capostazione ha dato un falso allarme, ha rallentato, hanno caricato la ragazza e la serva sul treno. Le hanno portate a Gemona perché sapevano che Gemona era in allarme, dovevano bombardare il ponte di … tutto il giorno fermi a Gemona.

E di lì quando si era fermato treno, sento: “Cattarossi, Cattarossi Guido”. Battevano nel vagone e allora i tedeschi hanno capito, le hanno fatte girare dall’altra parte dove hanno aperto la porta e volevano che scendessi. “Io non posso scendere!” Ci siamo baciati sulla porta e mi ha consegnato un cesto di roba che abbiamo mangiato per strada: pane, robe che si cercava di tenere, salame, formaggio. “Andremo a lavorare, teniamo qualcosa”. Invece la roba fece un’altra fine; prima di andare al bagno, quelle cinque o sei ore che stiamo stati fuori, ci hanno detto che dal bagno non si portava fuori niente. “Se avete qualcosa mangiatelo, se avete orologi, gioielli, dateci i nomi che alla fine vi torna tutto. Cominciate a tirarle fuori.”

Io ho detto: “Ragazzi, mangiamo tutto!” e mentre si parlava l’uno con l’altro ho trovato il mio amico con cui eravamo di pattuglia; uno è stato fucilato a Gemona, quello lì è riuscito a scappare. Lo hanno preso un mese dopo per andare in Jugoslavia. Quando siamo arrivati al campo l’ho trovato!. Mi diceva: “Guido, come sei qui, sei ancora vivo?” “Sì. Mi hanno preso così e così”. Ci siamo abbracciati e allora mi ha detto: “Io pensavo che fossi morto come il povero Aldo”. “No, ancora sono qua”.

Lì ci siamo lasciati, abbiamo mangiato. Dico la verità, abbiamo mangiato. Sono entrato verso mezzanotte al bagno, ma ero pieno. Avevo 20 anni! Dopo è partito tutto. Di lì abbiamo iniziato il bagno di disinfezione, attraversato tutto il campo, nudi completamente, senza un pelo addosso! Si immagini, era il 7 febbraio, era freddo. Ci siamo schierati. Nei blocchi di quarantena dove ho fatto una buona parte non ho dormito mai né sui materassi né sul castello, ma per terra: svestirsi sulla porta, fare il cuscino coi vestiti e dormire sempre di fianco. Io non mi sono mai buttato diritto così, ci si metteva l’uno di fianco all’altro, uno, due, tre, quattro, cinque, dovevamo stare in dieci metri, in quindici, quindici da una parte e quindici dall’altra e dopo diceva: “Giù, testa e piedi in fianco”. Io ho dormito tanto così e mi è capitata tre volte la dissenteria: allora toccava prendere il cuscino fatto di vestiti, andare fuori e passare quelle due ore, tre, cosa rimaneva per arrivare all’alba sulla porta. L’ho fatta due, tre, quattro volte, poi tornando il mio posto era perso, non c’era più.

Fare attenzione a non camminare, nell’uscire per andare fuori, sopra la pancia di qualcun altro! Capitava una rivoluzione e ti facevano rotolare fuori.

D: Quando ti hanno immatricolato?

R: All’indomani. La mia matricola era il numero 126.670.

D: E assieme al numero cosa ti hanno dato?

R: Il triangolo.

D: Di che colore?

R: Rosso, italiano.

D: Dopo il blocco di quarantena dove ti hanno portato?

R: Sempre lì. Una buona parte della mia vita l’ho fatta lì. Andavamo fuori e venivano a prenderci, dovevamo fare dei lavori e ci portavano via col camion lontano, altrimenti si andava a piedi e si tornava lì. Io non ho avuto un posto fisso mai; solo una volta verso i primi di aprile, a metà aprile, ad Amstetten, una stazione a 60 chilometri fuori che era proprio distrutta. Là eravamo 7.000 prigionieri, era un putiferio.

D: Sei stato lì a un Kommando?

R: No, siamo stati al lavoro alla stazione per riattivare un binario per i treni e sistemarla, visto che era bombardata. Abbiamo subito dopo tre giorni che eravamo lì un altro bombardamento di quattro ore, senza un colpo di contraerea; era un disastro.

D: Vi portavano fuori dal campo al mattino e tornavate alla sera?

R: Per lavorare a Mauthausen ma poche volte, il più siamo stati fermi a Mauthausen. Fermi a Mauthausen, non lavorare; si preferiva lavorare piuttosto che star dentro là fermi. Pioveva, fermi, stretti l’uno con l’altro in mezzo al cortile, perché era freddo. Se pioveva c’era umidità, eravamo bagnati. Ci si ammucchiava in 300/400, quanti eravamo, ci si metteva schiena contro schiena per stare caldi. Ogni tanto capitava il capoblocco, uno della SS col nerbo e allora si cercava di non andare in mezzo al mucchio: tanti di loro sono stati morti calpestati.

D: Quindi sei rimasto sempre nel blocco di quarantena?

R: Sì.

D: Fino a quando?

R: Fino alla Liberazione. Perché dopo che sono ritornato da Amstetten sono tornato a Mauthausen.

D: Ma ad Amstetten tu stavi a dormire?

R:Sì, siamo stati lì otto o dieci giorni e ho dormito lì. Anche lì le ho prese. C’erano due russi vicino a me che non lavoravano Vedo un tedesco che con un pezzo di traversina di legno li picchia sulla schiena e a me che avevo un carico di mattoni sul braccio non va per traverso? Ho mollato i mattoni e hanno preso questo dito che è stato frantumato. Alle dieci di mezza di sera, pioveva, e alle undici smontava, a quelle ore lì le ho prese. In pochi giorni il dito è divenuto così. Mi pare che dopo tre quattro giorni dopo il secondo bombardamento ci hanno detto di rientrare. Siamo rientrati a Mauthausen di nuovo, passato al bagno, la stessa cosa che abbiamo fatto alla partenza. Sono andato dal medico per il dito che era così. E mi dice di cavare l’unghia. “No, qua tagliare”. E lui: “No”. Io il mio e lui il suo, l’ha vinta lui, perciò ha preso l’unghia e mi ha fatto male. Sono svenuto. Sono andato fuori, non ho neanche preso la disinfezione, sono andato fuori, ho tirato quel dito, ci ho orinato sopra, ho mandato un compagno a prendere un pezzo di carta igienica e l’ho fasciato.

All’indomani ho cambiato la benda e negli ultimi giorni avevo ancora il dito gonfio e cotto; è guarito nelle cucine quando sono stato liberato, perché andavo a cercare da mangiare. Non mi vergogno a dirlo, ero là.

D: Guido, scusa un attimo. Quando sei arrivato nel campo di Amstetten …

R: Non era un campo ad Amstetten, era una stazione di smistamento.

D: Ma dopo, quando andavate a dormire, dove vi portavano?

R: In un capannone con la paglia, là c’era la paglia e dormivi. Lavorare di giorno e di notte quasi all’aperto.

D: Eravate in tanti?

R: Sì, eravamo in tanti. Non eravamo solamente quelli partiti da Mauthausen, ce n’erano da tante parti, da tutte le parti. Siamo a migliaia, degli altri non posso dire, so dei nostri in quanti eravamo.

D: E poi ti hanno riportato ancora a Mauthausen?

R: Sì.

D: Sempre nel blocco di quarantena?

R: Sempre nel blocco di quarantena.

D: Ti ricordi che numero era il blocco di quarantena tuo?

R: Io avevo la terza baracca, entrando dal campo libero, in fondo a sinistra c’erano i blocchi di quarantena e la terza baracca era la mia.

Vorrei raccontare un altro episodio. Non vorrei ma lo racconto perché un povero disgraziato ha lasciato la vita a tre metri di distanza da me.

Mentre eravamo incolonnati per l’appello nella nostra baracca ne mancava uno. Un tenente va su e giù per tutti i blocchi, controlla le baracche e non lo trova. Il capoblocco è partito a cercarlo nel campo libero, dietro le cucine. L’ha trovato che cercava di tirar fuori qualcosa; io ero proprio all’entrata del cancello in testa alle baracche, vicino. Veniva avanti. Il tedesco non era lì, era nella baracca dietro. Il tenente viene giù, lo trova, a tre metri distanti da me parlano i due tedeschi, il capoblocco e il tenente: “Dov’era?” “Nelle cucine, dietro le cucine, nelle immondizie a cercare”.

Gli va vicino, gli dà un pugno nella testa, è cascato per terra; gli salta sulla pancia. Quella volta mi sono voltato dall’altra parte. Dopo cosa ha fatto? E’ rimasto lì, gli ha tirato giù il numero di matricola, l’ha registrato sul suo libro.

Crematorio , sa cosa vuol dire? “Auf Wiedersehen!”, ha fatto una risata e via. Rotte le file, non so se l’ha portato nel crematorio direttamente oppure all’infermeria, ma di lì non si è alzato più e lo hanno portato via. Posso dirlo perché l’ho visto io, era a tre metri.

D: Guido, al momento della Liberazione tu dov’eri?

R: Nei blocchi di quarantena.

D: Come te la ricordi la Liberazione?

R: Me la ricordo perché il giorno prima non si aveva pace; i tedeschi venivano dentro e toccavano quelli che non riuscivano a stare in piedi, sfiniti, alzarsi in piedi, reggere il berretto e fare il saluto. Le ho prese anche lì. Sono stato fortunato perché sono qua a raccontarla, ma quante botte!

Ho avuto la fortuna della ferita che mi ha salvato, ma sono rimasto lì, quando venivano loro mi toccava alzarmi per fare il saluto e via. “Speriamo che oggi sia l’ultimo giorno, che domani venga qualcuno a liberarci”, si sentivano i colpi vicino. L’indomani alle 7 di mattino andiamo fuori, comandi non ce n’erano più, viene innalzata la bandiera sui crematori. La SS era partita, quell’altro comando era già indifferente, è entrato il carro armato!

E’ entrato il carro armato, si è presentato a tutta quella gente che c’era, ha cominciato con l’altoparlante a dire di stare fermi e calmi: loro sapevano tutto quel che era stato e quello che non era stato, dovevamo portare pazienza, piano piano avrebbero sistemano tutto.

Subito ho cercato di uscire a cercare da mangiare; fuori del campo c’erano le cucine delle SS. Siamo andati a prendere da mangiare.

Un altro particolare, fa senso ma era normale, erano le caldaie dove facevano da mangiare, come trattavano il formaggio in latteria. Una di qua una là erano in questa cucina, dentro la minestra che bolliva c’era l’uomo che girava. Una persona per andare a mangiare l’ha spinto, è andato dentro, vestito. Ma non si guardava questo, si cercava di prenderci qualcosa da mangiare.

D: Ti ricordi che giorno era?

R: Il 5 maggio, non potrei dire l’ora, dopo pranzo, no, al mattino, al mattino sono entrati verso le 11 mi pare.

D: E poi cosa è successo, poi cosa hai fatto?

R: Non ho fatto niente. Piano piano ho cominciato. In due notti c’erano 500/1.000 morti perché erano nei forni crematori, erano accatastati. Poi hanno cominciato a far venire le casse. Prima di arrivare al campo, per la strada venendo su, dove adesso mettono le corriere, da quelle parti lì hanno fatto una fossa comune e li hanno messi lì. Non so se li hanno tolti da lì e portati non so dove o se sono rimasti lì. Dopo ci siamo divisi per nazionalità: io con gli italiani, gli altri coi francesi e via. Abbiamo preso la baracca e lì abbiamo fatto un mese. Ci hanno liberati il 5 maggio e io sono rimpatriato il 2 giugno. Il 30 maggio ho terminato vent’anni. Se non vado errato mi pare così, ’25 e ’45.

D: Ascolta, sei rimpatriato dove, come sei rimpatriato?

R: Con la Croce Rossa Internazionale. Abbiamo fatto il permesso della Svizzera per passare ed è passato un convoglio di militari italiani prigionieri; il nostro comando ha chiesto se potevamo salire. Sì, siamo saliti. Eravamo sfiniti, depressi, siamo andati persino dove frenano, al posto di quello che frena, pur di arrivare a Innsbruck. A Innsbruck ci hanno detto che chi non si fosse sentito di camminare coi suoi mezzi sarebbe stato portato al campo. Dico al mio compagno: “La facciamo a piedi. Quanti chilometri sono?” “Due”. “Tentiamo di farla a piedi”. Pentiti dopo perché non si andava avanti. Non erano due chilometri, erano più di quattro per arrivare al Lager. Nel campo troviamo 10.000 italiani espatriati.

D: A Innsbruck?

R: A Innsbruck, al campo di Innsbruck. Ci hanno avvertito che noi altri saremmo stati i primi a partire e infatti quella sera siamo andati a dormire; ci hanno messo nei castelli io e il mio amico. Accendi la luce: c’era il cuscino pieno zeppo di quelle bestie, allora qua non si dorme! Siamo andati a prendere un mucchio di fieno nei campi, quello fresco, siamo venuti su, c’era un armadio, un guardaroba, l’abbiamo steso a terra, ci abbiamo buttato il fieno e abbiamo dormito lì. Al mattino ci chiamano: quelli in arrivo da Mauthausen dovevano presentarsi al cancello, lì ci hanno chiamati, di lì siamo partiti verso Bolzano. Siamo arrivati a Bolzano, ce n’erano provenienti da tutte le parti d’Italia tranne che da Udine: noi eravamo i più vicini ed eravamo gli ultimi a prendere le corriere. Abbiamo aspettato, è arrivata all’indomani, un giorno è stata a Bolzano. Anzi ero salito su un’altra corriera. Mi hanno detto: “Lei non deve salire”. “Ma perché?” “E’ di Pordenone”. “Ma arrivo fino a Pordenone!”. “No”. Sono tornato a prendere da mangiare, ho mangiato un altro piatto di riso. E così fino a quando è arrivata quella di Udine, siamo partiti dopo per Udine.

Volevo anche raccontarle che, tornando indietro, prima di partire da Mauthausen hanno dato anche i nomi degli altri per radio. Quando una missione è arrivata a Milano ci hanno detto: “Il tal giorno vi avvertiremo che i vostri nomi saranno letti per radio. Ascoltate alle sette del mattino”. E’ stato vero. Di notte io andavo a pelare patate, perché si trovava da lavorare per noi altri dopo. Al mattino, prima di andare a dormire, passato di lì alle sette, mi metto davanti alla radio e sento: “Tizio, Caio, Sempronio, Cattarossi Guido”. Presente! Qualcuno avrà sentito … difatti è stato vero.

D: A Bolzano sei rimasto fermo un giorno?

R: Sì, un giorno, un giorno e mezzo. Due giorni.

D: Ti ricordi dov’eri, dove vi avevano alloggiati?

R: Alle caserme mi pare, alle caserme di Bolzano. Un altro particolare. Una signora viene vicino e dice, eravamo in mezzo alla strada, per passare la strada come i bambini ci davamo la mano: “Da dove venite?” “Da Mauthausen”.

E’ andata a prendere le ciliegie.

D: Questo a Bolzano.

R: A Bolzano. E di lì siamo partiti con la corriera e siamo arrivati a casa, a Udine.

D: E sei arrivato a Udine quando?

R: Il 9 giugno.

Bergamasco Elvia

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Bergamasco Elvia, sono nata a Manzano nel 1927, il 18 agosto in provincia di Udine. All’età di 18 anni sono andata a lavorare in un campo di munizioni. Dopo un paio di mesi che stavo lavorando là, c’era già nella provincia di Udine la formazione di partigiani, una sera lì è venuto un signore che mia madre conosceva e ha chiesto se per piacere consegnavo una lettera a un capitano dell’aeronautica che stava lavorando in questo deposito di munizioni insieme con me.

Io lo conoscevo, ho detto di sì. Mia madre ha chiesto: Vediamo che cos’è” perché allora avevo 18 anni, e ai nostri tempi c’era molta severità. Mia madre ha letto, ha visto che era una lettera d’amore più che altro, era scritto: “Amor mio, ci troviamo alle cinque, alle sei si parte…” e tutte queste cose.

Era invece una lettera scritta in codice, l’ho scoperto dopo quando mi hanno detto che cos’era. Io sono andata al lavoro, ho consegnato queste lettere; un paio di volte l’ho fatto. Ho scoperto che c’erano i partigiani che consegnavano. Laggiù c’era questo capitano dell’aeronautica che lavorava lì e un maresciallo della Wehrmacht, un nobile di Vienna, non ricordo come si chiamasse questo maresciallo.

Queste lettere erano scritte in codice, nel momento in cui venivano trasportate nei camion delle munizioni, invece di caricare questi camion con delle bombe di cannone, si caricavano questi signori, anch’io delle volte, si caricavano munizioni piccole, bombe a mano, cartucce, queste cose.

Questi camion dovevano attraversare dei boschi, venivano trasportati in un altro deposito. Questi boschi erano quasi vicini al confine jugoslavo. Così c’era l’appuntamento. Queste lettere non so come poi venivano trasferite, fatte arrivare ai partigiani sloveni, loro scendevano, quando si trovavano tra questi boschi, lì prendevano le munizioni, si armavano.

Così abbiamo fatto un paio di volte dal mese di gennaio al mese di giugno. Un giorno i primi di giugno sono capitati con il camion delle SS e si erano spaventati un po’. Ho detto in Friulano: “Sono arrivate le cagne”, vuol dire è arrivato un macello, davano il nome alle SS. Cercavano soltanto me, erano tutti spaventati gli operai che erano lì naturalmente.

Invece sono arrivati nel capannone dove lavoravo io, sono venuti vicino a me, mi hanno chiesto se mi chiamavo Bergamasco Elvia, ho risposto di sì. Loro avevano una foto in mano. Mi hanno ordinato di seguirli. Mi hanno scortato, io lavoravo in fondo a questo campo, mi hanno scortato con un mitra davanti e uno di dietro. Mi hanno fatto salire su una specie di jeep tedesca, mi hanno portato a Cormons, una cittadina in provincia di Gorizia.

Lì ho trovato i miei compagni, chiamiamoli compagni, delle persone di una certa età che io conoscevo soltanto di vista praticamente.

Eravamo in sette/otto di noi, ci hanno messo in fila, hanno chiamato fuori il comandante. Difatti era il commissario della zona, del battaglione Garibaldi.

L’hanno chiamato fuori. L’avevano già percosso quando l’avevano arrestato. Sono andati a prelevarlo a casa durante la notte perché gli hanno detto: “Senti, sta per morire tua madre. Vai a trovarla”.

Lui è sceso dalle montagne, era su dalle parti di Castelmonte, nelle colline di Cividale. Lui è sceso a trovare sua madre, invece c’era la spia, c’erano già i nazisti e i fascisti lì ad aspettarlo.

Per salire su un camion bisognava appoggiare le mani perché il portellone non era stato tirato giù. Mentre saliva gli hanno picchiato con il manico del fucile sulle mani.

Poi lì ritornando a Cormons lui è uscito fuori quando lo hanno chiamato per nome, lì ho avuto il primo impatto con le cose che dovevano succedere.

Davanti a noi gli hanno tolto le unghie con le tenaglie. Però dalla sua bocca non è uscito un grido. S’è trasformato dal dolore, ben s’intende.

Poi finito il loro lavoro, ci hanno caricato su una corriera, ci hanno portati a Gorizia, nelle carceri di Gorizia. Nelle carceri di Gorizia siamo rimasti quaranta giorni. In una cella eravamo venticinque donne.

Si dormiva per terra. Gli animali che c’erano lì ci facevano compagnia durante la notte. Abbiamo subito cinque processi. Io fra tutte noi che eravamo sette, soltanto io non sono stata picchiata o torturata. Le altre donne le hanno anche psicologicamente tartassate anche negli interrogatori. Nell’interrogatorio non era che si continuasse a parlare come un libro aperto, perché magari quello che mi avevano chiesto il primo giorno me l’hanno richiesto il quinto giorno.

Poi abbiamo avuto la condanna a morte. Poi è intervenuto il Vescovo di Udine e una Baronessa austriaca che abitava nel paese dove abitavo io, a Manzano. L’hanno tramutata nei lavori forzati.

Poi dopo quaranta giorni, un giorno è venuta una chiamata di prepararci che si andava a lavorare in Germania. Il nostro trasporto è un po’ anomalo anche perché veniva dall’Ungheria, avevano caricato sloveni, ungheresi, tutta la gente dell’est, ragazzi, donne, bambini.

Ma hanno bombardato, stavano bombardando in Ungheria, il nostro treno lo hanno dirottato verso Trieste, così hanno fatto i carichi prima a San Sabba, poi a Gorizia, poi alla volta di Udine. Poi siamo partiti alla volta di Tarvisio. Siamo partiti.

D: Eravate in tanti sul tuo Transport?

R: Sì. Quando ci hanno fatto salire sui carri bestiame, ci siamo guardate in giro. Eravamo tutte in piedi, ammucchiate. Quando abbiamo avuto il tempo di contarci eravamo in centoventi donne. Ce n’erano anche che venivano da Trieste sul nostro carro bestiame.

C’erano delle donne, ragazze anche, che le avevano torturate a San Sabba. Abbiamo chiesto loro cosa avevano fatto. Loro ci hanno raccontato che avevano messo loro l’elettricità nei capezzoli e nel di dietro e poi delle torture psicologiche.

Abbiamo viaggiato dodici giorni. Su questo carro bestiame c’era un po’ di paglia e due mastelli. Uno pieno di acqua e uno per i servizi igienici.

Potete immaginare, dodici giorni di viaggio senza mai aprire. Gli odori, le cose che erano lì. Il mese di agosto. L’acqua si spartiva un po’ per ciascuno, pianino.

Il mastello si svuotava soltanto durante la notte, quando il treno si fermava. Il nostro viaggio è stato lungo dodici giorni perché? Perché durante la notte fermavano la tradotta. Caricavano e scaricavano carne umana, delle persone.

Io penso che si siano fermati negli altri campi, a Mauthausen, a Buchenwald, Dachau, negli altri sottocampi. Si sentiva nel treno quando attaccavano e quando staccavano gli spintoni.

Finalmente dopo dodici giorni siamo arrivati dove si doveva arrivare. Mi ricordo una cosa. La stazione che ho visto, era scritto in una lingua che non capivo, ora lo so che si chiama Oswiecim, siamo scesi allo scalo merci. E’ stato il nostro l’ultimo trasporto che è sceso a Oswiecim.

Dopo dodici giorni si sono aperti questi vagoni. Ci hanno investito con un gran fascio di luce. Si sono sentite molte urla in lingue che non si capivano e un grande abbaiare di cani.

Gridavano: “Schnell, Los, Los, Los”. Abbiamo capito che si parlava polacco e tedesco. Poi altre lingue forse. Gridavano di scendere in fretta, in fretta, di scendere in fretta. Lì siamo scese, ci siamo girate, ma quante persone sono rimaste su quei carri, non si sa il numero.

So che eravamo una marea di gente. Il treno era talmente lungo tra bambini, donne, anziani, uomini; chi gridava, chi cercava la madre, chi cercava il figlio, la moglie, “Dov’è mia moglie…” Però con le urla dei nazisti s’è fatto tutto un silenzio, questo abbaiare di cani anche.

Poi hanno cominciato con l’ordine secco di metterci in fila per cinque. Poi mentre si passava dicevano: “Questo sì, questo no”. In più l’hanno detto nelle lingue in modo da farci capire che chi era stanco, non poteva camminare o era anziano, poteva salire su quei camion che erano a disposizione lì.

Molta gente che era stanca ha detto, vado col camion, faccio più presto. “Ma è qui vicino”, dicevano. Poi hanno cominciato a fare due file, una a destra e una a sinistra. A sinistra venivano gli anziani, i bambini che venivano strappati dalle braccia delle madri. Dovevano andare con la fila degli anziani o con quelli che non stavano bene.

Poi ci siamo incolonnati e a piedi ci siamo camminati. Non potrei dire quanto tempo abbiamo camminato perché io non sapevo quanti chilometri… Siamo arrivati davanti ad un cancello con la famosa scritta: “Arbeit Macht Frei, “Il lavoro rende liberi”.

Ci hanno detto che eravamo arrivati ad Auschwitz, nelle lingue, ognuno ha capito che eravamo ad Auschwitz. Eravamo stanchi, sfiniti, senza valigie, senza niente. In più ci scortavano lo stesso. C’è sembrato un po’ strano.

So di essere arrivata ad Auschwitz e di essere entrata in un gran capannone, lungo, fatto in mattoni. Lì dopo che erano entrate tutte le donne separate dagli uomini senz’altro, ci hanno dato l’ordine di spogliarci immediatamente.

Io non lo so, oggi come oggi di spogliarsi davanti a una bambina, a una ragazzina, una nonna, una madre, non lo so se riesce a capire la gente che cos’era a quel tempo. Poi qualcuna ha tenuto le mutandine, le sono state strappate in un modo talmente violento, cattivo. E’ difficile spiegare, dire che senso era.

Poi sempre in fila per cinque, nude, ci hanno fatto la prima cosa, ci hanno fatto un numero al braccio sinistro, il tatuaggio. Il mio numero al braccio sinistro è 88653. Poi sempre in fila per cinque, non era uno solo, erano in tanti, tante persone che facevano il numero, si andava in fila, poi si passava in un’altra stanza. C’era una vasca, si doveva mettere i piedi dentro.

C’era un’acqua bianca. In quest’acqua io credo c’era un disinfettante, un odore, come quello con cui si disinfettava una volta gli animali, la creolina si chiamava. Non so se si chiama anche adesso così.

Poi siamo passate alla doccia finalmente. Abbiamo detto: “Finalmente ci laviamo dopo dodici giorni”. C’e’ stata anche la rasatura. Ritorno indietro. Dopo il numero ci hanno fatto salire su degli sgabelli in fila, c’era una fila di sgabelli, anche lì una cosa realmente brutta è stata per noi.

Perché quando ci hanno detto di toglierci il vestito, di piegarlo, di metterlo bene, di toglierci gli ori, gli orecchini, le collane, quello che si aveva e di appoggiarlo lì perché ce lo avrebbero dato dopo, dopo aver fatto le docce, tutto.

Loro ci hanno fatto salire su questo sgabello, ci hanno guardato anche nei posti che non andava bene per vedere se si era nascosto qualche gioiello. E’ stato il primo impatto della vista schifosa della mia vita, chiamiamola così, è una brutta parola dire schifosa, ma era oltre lo schifoso questa cosa.

Poi ci hanno rasate dappertutto, ci hanno fatto alzare le mani, gambe al largo, ci hanno rasato i capelli e per tutto il corpo. Poi finalmente ci hanno portato alle docce.

Alle docce abbiamo detto, “Finalmente ci rinfreschiamo, ci laviamo”. Cos’è successo? Che ci hanno aperto l’acqua bollente, poi tutto in un momento, quando eravamo sotto che si gridava hanno aperto quella ghiacciata.

Poi tutto finito. Siamo uscite fuori nude com’eravamo. Intanto sono passate le ore, è venuta mattina, ci hanno consegnato il vestito, ci hanno dato il vestito zebrato.

Poi ci hanno incolonnate. Ci hanno dato la targhetta, da attaccare il numero sul vestito, il numero del braccio sul vestito ci hanno fatto mettere.

Poi inquadrate per cinque, ci siamo incolonnate, siamo partite alla volta di Birkenau.

D: Scusa, Elvia, con l’immatricolazione oltre al numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: No, no.

D: Vi hanno dato per caso anche un triangolo?

R: Ah, sì, il numero, si capisce, da mettere sul vestito e il triangolo rosso con la I e D. Voleva dire italiano, il triangolo rosso era segno di politico, che ero una deportata politica.

D: Parlavi di vestito. Oltre alla zebrata vi hanno dato biancheria intima?

R: No, solo il vestito e basta, senza biancheria. Niente, né mutandine, né camicia. Ci hanno dato le scarpe. Chiamiamole scarpe. Ci hanno dato gli zoccoli olandesi, quelli in legno, sopra e sotto tutti in legno. Di lì ci siamo incolonnate e siamo partite a piedi verso il campo di sterminio di Birkenau. Si trova a quattro/cinque chilometri di distanza da Auschwitz.

Siamo arrivate là. Era intanto mattina presto. Ci hanno messo in fila, ci hanno assegnato le baracche, ma non siamo entrate subito. E’ giunta l’ora di pranzo.

Ci hanno dato una qualità di minestra bianca, era come un gries, una cosa così. Ci hanno consegnato la Miska, la famosa Miska, la scodella. Non era nuova, era color mattone, erano in smalto, però erano vecchie, già tutte ammaccate.

Noi abbiamo detto: “In queste cose dobbiamo mangiare?” Eravamo un po’ schifate. Delle persone che erano lì già da un po’ di mesi, italiane anche, ci hanno detto: “Pregate Iddio che le avete voi, noi ce la siamo dovuta procurare”. Hanno risposto così passando: “Vi accorgerete presto quello che c’è”.

Ci hanno dato in queste scodelle, questo gries bianco l’ordine, in tutte le lingue l’hanno detto, che dobbiamo berlo, hanno gridato molto forte, di berlo senza mai lamentarci e tutto in un fiato, che se lo rifiutavamo, dovevamo pentirci molto, rimpiangerlo.

Infatti è stato proprio così, l’abbiamo rimpianto quel gries famoso, era un dolciastro schifoso, era cattivo da mandar giù. Poi s’è scoperto cos’era col tempo.

D: Che cos’era Elvia? Che cos’era?

R: Nel gries c’era bromuro. Il bromuro a cosa serve? A non far venire le mestruazioni alle donne. A quel punto, dalla rasatura al numero e avendo tolto anche questo, hanno tolto proprio la femminilità completamente a una donna.

Io dico sempre che la donna è stata molto più umiliata dell’uomo. Nel senso che… Io non so se era soltanto a Birkenau, le cose che sono successe a Birkenau in sei mesi, se ne sono viste moltissime.

D: Dopo ti hanno messo in baracca?

R: No, siamo state tutto il giorno in piedi fuori per cinque. Eravamo giovani, ragazze donne giovani, quarant’anni, cinquant’anni la più anziana del nostro gruppo.

Siamo state tutto il giorno. Verso le sei alla sera ci hanno fatto entrare in baracca. Le baracche sono fatte in mattone. Dentro nel muro delle baracche sono fatti i castelli. I castelli, non i letti che si vedono a castello, erano fatti di semimuratura anche quelli, con delle assi, a tre piani ben s’intende. Si doveva stare in otto per ogni piano.

Quando si girava una, si dovevano girare tutte le altre. Non si dovevano mai tenere fuori i piedi. L’ordine era che si dovevano avere i piedi interni nel posto da dormire.

Io ero al secondo piano, le nobili, le laureate le mettevano nel sotto, nella terra nuda a dormire. Per quello erano a tre piani, perché mettevano anche sulla terra nuda. Forse per farle umiliare ancora di più.

Quando si girava una, si dovevano girare tutte. Noi avevamo anche una ragazza incinta tra le nostre otto. Non si poteva stare nemmeno sedute, si doveva stare sempre distese o scendere giù. Erano talmente basse, c’era come un buco da infilarsi, nient’altro. Poi abbiamo scoperto che la sveglia era alle quattro la mattina, poi si usciva. Grida in polacco, in tedesco “Schnell, schnell, schnell”…

Si doveva in fretta e furia scendere da questi letti. Poi abbiamo fatto la scoperta del famoso Gummi. Il Gummi che cos’era? C’era un tubo di gomma con un filo dentro in rame e questo lo facevano girare tutto il santo giorno.

Siamo uscite fuori per cinque allappello, alla distanza delle braccia allungate una dall’altra si doveva stare. Lì siamo state dalle quattro di mattina, ci si alzava alle quattro.

Poi ci hanno portato ai famosi bagni, chiamiamoli bagni. Era una baracca con settantadue buche doppie. Si facevano i bisogni schiena con schiena. Fare in fretta, tutta la baracca doveva fare in fretta perché subentrava l’altra.

Col tempo, coi mesi che sono passati, dovete pensare che la dissenteria era facile e non si aveva il tempo per lavarsi. Non c’era l’acqua perché a Birkenau, se Birkenau è come adesso, era tutta una palude.

Queste strade, questi fossi sono stati fatti da noi prigioniere stesse, non solo io, centinaia e migliaia. Dico tante volte mentre penso ai ricordi, se ci fosse stato un elicottero a sorvolare, quando eravamo tutte all’appello, tutte rasate, con questo vestito zebrato, io non lo so quello che veniva, queste teste rapate di tutte le età. Una cosa…

Io a Birkenau non ho mai visto i bambini. Li ho incontrati solo una volta. Per tre giorni hanno fatto nella fila… Io non lo so. E’ stata una scelta proprio di questi bimbi che hanno portato lì. Nella nostra fila delle baracche c’era una distanza che vi si faceva anche l’appello.

Hanno fatto un serraglio con una rete. Hanno messo un trenta e più bambini, non lo so, praticamente. Però sapevano che questi bimbi erano figli di queste donne che erano in quella baracca.

Hanno detto alle madri, fatto capire che questi bimbi sarebbero stati trasportati a Cracovia, abbiamo scoperto di essere in Polonia, che li avrebbero portati a Cracovia dove sarebbero stati molto bene.

Queste madri… Ritorniamo indietro, il pranzo. Parliamo del mangiare. Di mattina ci davano un caffè, chiamiamolo caffè nero, da bere. A Birkenau era proibito bere l’acqua, assolutamente, perché veniva fuori l’acqua color marrone essendo una palude. Era proibito bere l’acqua.

La mattina ci davano un mestolo di questo caffè. A mezzogiorno ci davano un mestolo di rape grattugiate e bollite non so con quale acqua. Nemmeno le lavavano. Dopo col tempo abbiamo detto, la terra e la sabbia che si trovavano sotto erano la vitamina B, abbiamo detto fra noi.

La sera ci davano un altro mestolo di minestra. In più ci davano il pane. C’era un pezzo di pane. Loro lo chiamavano la strunza. Questo serviva per dodici persone. Veniva segnato con un dito mignolo, si facevano i piccoli segnetti, poi si tagliava a pezzettini.

Serviva per dodici persone, si segnava col dito mignolo, si facevano dei segnetti, poi si tagliava. Loro portavano il tavolino fuori le Kapò. Questo non ho detto. Cosa abbiamo trovato lì.

In questa baracca non so quante eravamo, non ci siamo contate, ma penso che eravamo in quante… Abbiamo fatto i conti tempo fa, eravamo quasi in quattromila. Hanno fatto i conti i ragazzi tempo fa quando eravamo ad Auschwitz calcolando in quante eravamo.

Avevamo le Kapò, le comandanti. Le Kapò erano tutte donne polacche. Erano delle persone della feccia più cattiva che poteva esistere in Polonia. Gli uomini uguali, i polacchi.

Non sentirete mai un deportato parlare bene dei Kapò, delle donne e degli uomini polacchi. Quelli che erano dentro come Kapò. Dovete pensare che la nostra comandante, la nostra Kapò aveva ucciso il marito e i due figli a coltellate.

D: Scusa Elvia, a proposito di figli, prima stavi parlando del recinto dei bambini.

R: Sì, giusto, scusa. Ritorniamo. Hanno portato i bambini in questo recinto. Hanno fatto capire alle madri che li hanno scelti realmente perché le madri ogni sera non mangiavano il loro pane. Il terzo giorno hanno detto che all’indomani i bambini partivano verso Cracovia.

Sono sgusciate fuori queste madri come dei serpenti, come delle bisce. La sera non si poteva uscire dalle baracche, era proibito. Loro sono scivolate fuori. Hanno consegnato a ogni bambino un pacchettino col pane che non avevano mangiato. Se questi bambini vanno là, così hanno per qualche giorno un pezzettino di pane in più.

All’indomani, il quarto giorno, la mattina presto… La mia baracca era nella terza fila delle baracche, la terza baracca. Sono venuti tutti tirati a lucido i capi delle SS, in nazisti, il comandante a capo del campo. Tutti sorridenti, tutti tirati a lucido, dei visi cattivi, quella mattina andando fuori all’appello non abbiamo trovato i bambini.

Si sapeva che erano partiti per Cracovia. Allora arrivano lì a fare la conta nella nostra fila, non c’entrava di venire nella nostra fila a far la conta, sono venuti lì realmente. Allora le madri hanno chiesto con l’interprete.

Hanno detto: “Madri, ricordatevi che i vostri bambini stanno bene, sono usciti per i camini”. Io non ho visto una lacrima sui volti di quelle donne, però ho visto i loro volti trasformati. Ho visto il dolore, realmente cosa vuol dire il volto di una persona che ha un dolore enorme.

Erano contraffatti. Hanno cambiato sembianze. E’ difficile capire, si sono scurite, gli occhi… E’ difficile spiegare come sono diventati i volti di queste donne. Non so se sono tornate o se sono rimaste lassù a Birkenau.

Raccontare quello che succedeva a Birkenau… Io purtroppo ho avuto la sfortuna di essermi ammalata due volte. Una volta mi sono ammalata, la seconda volta sono stata scelta. A Birkenau c’era il dottor Mengele, non solo lui, tutta l’equipe insieme, però lui era il capo di tutti, Mengele

La domenica dovete pensare che ci facevano spogliare nude con la scusa che portavano il vestito alla disinfezione e ci facevano passeggiare per cinque tutta la lunghezza del nostro percorso che avevamo da una baracca all’altra, nude tutto il giorno perché portavano alla disinfezione. Non so se è vero.

C’era il tavolino in fondo alla strada, c’era Mengele e tutti gli altri. Si marciava davanti a lui. Diceva: “Questa, questa, questa no, questa sì”.

Purtroppo un giorno sono stata scelta anch’io con l’ordine di darmi il vestito e di trasportarmi al campo B. Io ero al campo A appena all’entrata di Birkenau, c’è il campo A, poi c’è il campo B.

Sono andata al campo B. Al campo B c’era il blocco delle Krezze chiamato. Era il blocco delle malattie infettive. Era il blocco dove Mengele faceva i suoi esperimenti.

Lì io ho visto con i miei occhi le donne su cui lui ha fatto gli esperimenti. Col gran dolore, tutte le cose che lui faceva non le faceva con l’anestesia, assolutamente. Così queste donne erano anche impazzite, camminavano in giro su se stesse, nude completamente, facevano il giro.

Dentro nel campo B c’era un altro campo con una grande muraglia e un gran cancello in legno. Mi ricorderò sempre questo cancello enorme, non si doveva sentire né vedere niente.

Lì mi hanno fatto entrare in un’infermeria, chiamiamola così, Revier. In questo Revier mi hanno fatto spogliare, mi hanno dato su con un pennello delle qualità di colore. Uno verde, una pomata bianca col pennello che bruciava da morire.

Sono stata quattordici giorni, ogni giorno cambiavano colore e bruciava da morire. Stando lì questi quattordici giorni ho visto le donne, di cui altre compagne lì mie parlavano e raccontavano. Io chiedevo cos’è successo a quelle donne? Io ho visto delle donne bruciate davanti alla pancia e alla schiena.

Mi hanno detto che erano le donne che mettevano incinte, poi lui le faceva abortire con una piastra. Metteva una piastra davanti e una di dietro, poi attaccava l’elettricità, non lo so a quanti volt, so che queste donne erano bruciate. Per il gran dolore, le ho viste nude che giravano in giro per questo piccolo campo.

Poi ho visto le donne con gli sfregi nelle gambe, nei piedi, in altri posti, nel viso. Lì penso che sia stata… Io la lebbra non l’avevo mai sentita nemmeno nominare, ma credo che lì dentro ci sia stata anche quella.

Quando portavano da mangiare a mezzogiorno soltanto, portavano una volta al giorno, quel mastello non veniva portato, veniva gettato dentro e queste povere donne si buttavano sul mastello come degli animali.

Infatti eravamo diventati degli animali. Si buttavano, si picchiavano l’un l’altra. Con questa gamella che avevano, Miska, si davano giù per la testa, così si vedeva magari saltare un pezzo di naso, un orecchio, perché erano talmente piene di croste dappertutto per il corpo, perché avevano fatto degli esperimenti, delle cose che le avevano infettate tutte.

Lì sono stata quattordici giorni. Poi si vede che non hanno fatto effetto su di me, mi ha rispedita al campo A. Prima di uscire da questo grande cancello mi hanno detto in italiano di non raccontare mai a nessuno quello che avevo visto e sentito lì dentro.

Poi mi hanno accompagnata alla mia baracca. La mia Kapò quando sono arrivata quasi non mi voleva più. Invece si sono parlate con quella che mi ha scortata e ha detto che si vede che non avevo preso malattie infettive assolutamente, perché noi a Birkenau abbiamo fatto gli anticorpi grandi come il mondo.

Poi mi sono riammalata un’altra volta, credo che mi sia venuta la bronchite. Avevo un febbrone talmente alto. Io mi ricordo di essermi alzata, di essere andata fuori all’appello in fila e poi di aver gridato molto forte e di essere caduta.

Sono stata quattro giorni al Revier, mi hanno dato delle pastiglie. Sono rientrata dopo quattro giorni la sera dopo l’appello. Entrando nella baracca si doveva passare davanti alla Kapò.

Io ho fatto l’inchino perché bisognava inchinarsi e rispettarla questa Kapò. Non avevo fatto in tempo ad inchinarmi che mi ha dato, aveva un randello in mano come una mazza da baseball, mi ha dato tre randellate per la schiena che io non ho avuto il tempo di gridare. Hanno gridato le mie compagne che mi hanno sentito.

Il lavoro a Birkenau in cosa consisteva. Come ho detto prima, la sveglia alle quattro. Alle sei si partiva per il lavoro. Il lavoro. Veniva consegnato a chi il badile… C’era una carriola. Su questa carriola c’era il badile, il piccone e poi nel posto dove ci hanno accompagnato abbiamo trovato anche il rullo, quello con cui si batte la terra, la strada.

Questo a turno, quelle che facevano il fosso, questo fango che si faceva mentre l’acqua scolava, in questi fossi il fango che si toglieva con il badile si buttava per fare la strada. Poi col rullo passavano sopra.

Dieci spingevano e cinque tiravano. Lì si doveva tirare, per forza perché il Gummi volava a tutta forza sulle schiene. Quando c’era il turno invece dei nazisti, allora loro avevano un altro tipo di frusta. Avevano il frustino. C’era un manico in cuoio lungo, poi c’era un mucchio di cordoni in cuoio e loro quando passavano così senza dire niente davano giù. Non andava quella persona, le davano giù una frustata.

Poi le punizioni. Abbiamo subito noi delle punizioni che non avevano niente a che fare, che siano state comandate dai nazisti. Erano le Kapò stesse che ci facevano delle punizioni, loro proprio non c’entravano niente.

A Birkenau essendo una palude c’era il fango, quegli zoccoli famosi di cui ho detto prima ci sono durati tre giorni. Il quarto giorno sono rimasti lassù. Mi è venuto il turno di andare a prendere il caffè di mattina, sono andata. Mentre sono ritornata dalle cucine a prendere il caffè, lo zoccolo è rimasto là, si è aperto e poi ho camminato sempre scalza.

Lì a Birkenau ci facevano accovacciare con due mattoni o un pezzo di pietra con le mani alzate su così, oppure nel braccio ci facevano rotolare nel fango. Non c’era il posto per lavarsi. A Birkenau non abbiamo mai fatto una doccia, mai, non ci siamo mai lavate in nessun posto.

Forse l’acqua era proibita, noi abbiamo bevuto più di qualche volta essendo il mese di agosto/settembre. Bevuto anche quell’acqua che era nei fossi, non si badava a tante sottigliezze. La Nerina ha detto che lei non ha mai bevuto.

Io invece, noi con la mano si prendeva su. Si diceva una preghiera. Ai miei tempi si diceva: “Beve il serpente, beve Iddio, che berrò anch’io”. Si dicevano queste parole e si beveva l’acqua.

Purtroppo qualcuno ci ha chiesto quando si va nelle scuole se si pregava là. Io ho detto che abbiamo imparato le preghiere più belle che non esistono in nessun vocabolario. In meno di otto giorni abbiamo imparato le più belle che possono esistere su questa terra, tutto al contrario.

Queste funzionavano. Non so perché scattavano. Se una mia compagna mi toccava che cosa si diceva… Queste preghiere venivano a sfilza, una dietro l’altra e in tutte le lingue, queste parole si capivano in tutte le lingue, italiano, tedesco, ci sono centoventun lingue, però quelle lì si capivano in tutte le lingue.

Cosa devo dire? Birkenau cos’era? A Birkenau ci avevano tolto la parola. Il ricordo di Birkenau è come una nebbia. La nebbia a Birkenau si toccava con le mani, se la prendevi in mano la sentivi. Dovete pensare che a Birkenau c’erano dodici forni crematori, erano ventiquattro bocche, ne cremavano ventiduemila al giorno. Funzionavamo ventiquattro ore al giorno.

A Birkenau avendo fatto sei mesi, essendo al campo A, si vedevano tutti gli arrivi di quei carri bestiame che arrivavano di carne umana.

Si sentivano le grida, le urla ogni giorno e ogni notte. Durante il giorno scaricavano nella parte dove c’erano le baracche dei cavalli. A Birkenau avevano fatto i binari ed entravano direttamente fino vicino ai forni crematori. Di notte scaricavano dalla parte dove erano le nostre baracche.

Durante la notte si sentivano i pianti, le urla, le grida, chiamare mamma, chiamare la sposa. Quello che era successo a noi, così succedeva o di giorno, o di notte, arrivavano a tutte le ore questi treni.

A Birkenau c’erano più campi. C’era il campo A, il campo B, poi c’era la casa rossa, chiamata così. Che cos’era la casa rossa: Canada in principio serviva come primi esperimenti per le camere a gas. Poi hanno fatto i forni, le camere ingrandite servivano per deposito, dove venivano depositati tutti i vestiti e gli ori, la selezione.

In più c’era il parcheggio il Canada. C’è ancora un boschetto di betulle, venivano parcheggiati quelli che non riuscivano a portarli a forni crematori.

Quelli servivano per quando bombardavano, i treni non arrivavano. Allora andavano a prendere quelli, li chiamavano e venivano eliminati quelli che erano lì in attesa in questo boschetto, seduti lì aspettavano due o tre giorni.

Oppure durante la notte succedeva quando non avevano al parcheggio più nessuno, c’erano degli ebrei purtroppo, delle donne, loro sapevano che dovevano andare là ai forni, era il modo che chiamavano, perché dicendo io non dice quasi niente.

Chiamavano durante la notte: “Le Jude, le Jude”. Loro sapevano, si alzavano, toglievano il vestito, andavano davanti alla Kapò sulla porta della baracca, glielo consegnavano piegato, loro nude queste donne si mettevano in fila e andavano su al campo B dove c’erano i forni.

Loro sapevano di andare. Un’altra cosa. Siccome era tolta la parola, era tolto un po’ tutto, completamente la femminilità, non esistevi e basta, infatti in sei mesi si riesce a diventare come volevano loro. Si camminava, si sentivano gli ordini, secchi, imperiosi come si sentivano e si andava avanti.

Forse un animale si rivolta, invece ci hanno fatto diventare realmente… Forse era la vita stessa che lottava da sola, forse il tuo cervello o che non funzionava più, non lo so quello che ci avevano tolto, anche quello.

Si andava avanti come dei robot realmente. Il robot va con il clic, noi con le loro urla. Si andava avanti al lavoro, si ascoltava, ci si guardava in giro. Andando, facendo questi lavori di scavo, di fossi, è capitato che io sono andata tra la fine del campo A al campo B, adesso non c’è più lì a Birkenau, c’era più bosco.

Abbiamo visto le pire chiamate, le cataste delle donne morte, perché non riuscivano i forni a smaltirle, allora quelle che erano morte lì, le mettevano, ma le mettevano a regola d’arte una sopra l’altra. Questa catasta era ben fatta. Poi davano fuoco.

Noi abbiamo detto: “Oddio, ecco perché nevica a Birkenau fuori stagione”. Ci sono tante cose…

D: Quanto tempo sei rimasta tu a Birkenau?

R: Sei mesi. Dopo sei mesi nel mese di dicembre è venuto un gruppo d’ingegneri tedeschi a chiedere dei pezzi. Mi occorrono cinquemila pezzi.

Allora un giorno di mattina ci hanno fatto spogliare nude cinquemila donne, è stata fatta una selezione, ci hanno selezionate, ci hanno messo su una scalinata e ci hanno lasciato tutto il giorno lì. Era il mese di dicembre.

Noi siamo partite il 2 gennaio. Il 31 dicembre ci hanno messo su questa scalinata, siamo state tutto il giorno. Mi ricordo che c’era un termometro in fondo sul muro dell’entrata di Birkenau, grande era, rosso, mi ricordo di questo, che segnava dai 20 gradi in su, poi non si riusciva a vedere, sotto zero, eravamo già agli ultimi di dicembre.

Quando siamo scese la sera alle sei, quando ci siamo girate ne abbiamo lasciate molte là. Poi ci hanno dato il vestito, fatto rientrare in baracca. Credo che sia stata la minestra più buona, più calda che io abbia mangiato in un anno di campo di sterminio quella sera.

Abbiamo detto: “Siamo ancora vive”, abbiamo sentito il caldo della Miska. Una cosa, il dottor Mengele di domenica… Noi abbiamo calcolato che c’era la domenica, perché ogni quei tanti giorni, li abbiamo contati, si contava sette giorni e il settimo si riposava, si diceva, perché ci facevano spogliare e camminare nude.

Era il fatto che si doveva passare davanti al dottor Mengele, era il modo in cui lui ti toccava. Poi sceglieva lui le donne. A me purtroppo mi hanno tolto non solo la donna, il mio io, il mio essere, mi hanno tolto tutto, il modo con cui toccava.

Dovete pensare che quando si andava nel suo ambulatorio, era enorme. Quando ti metteva là, prendeva una ragazzina che non sapeva cosa vuol dire nemmeno il ginecologo, quelle cose lì, ti metteva là, lui si sedeva davanti e guardava. Io penso che, porca miseria, a me sembra che le donne siano fatte tutte uguali più o meno. Non so che cosa guardava.

Prendeva una ragazzina di quindici anni per vedere la differenza, la grandezza forse di quella di quindici e di quella di venti. Poi un’altra cosa schifosa anche. Quando eravamo nude, non sempre, ogni quel tanto tempo, io non so cosa gli serviva, la temperatura corporea. Ci facevano piegare nude, c’erano le donne addette e c’infilavano di dietro un termometro. Non il termometro con cui si misura la febbre, era molto più grande.

Avevano un modo per infilarlo, zum zum. Lo toglievano ad una e lo infilavano all’altra e via così. Queste erano le cose schifose, brutte che è difficile far capire alla gente raccontando queste cose.

Non solo io, tutta la baracca, tutte le donne che erano lì di tutte le età. Un altro fatto a Birkenau. Un giorno è venuto lì Mengele e ha scelto una ragazzina di Gorizia, si chiamava Gabriella, mentre eravamo in fila, non eravamo nude, eravamo vestite, è venuto lì, ha guardato in giro, questa no, questa no, ha scelto questa ragazza.

Era insieme a sua zia. La zia ha detto: “No, no, non lei”, gridava questa donna perché avevamo scoperto che a Birkenau c’era la casa delle bambole. Si sapeva che sceglievano le ragazzine vergini di quindici, sedici anni e le portavano in questa baracca che serviva per i loro piaceri.

Ha preso tante di quelle botte quella donna, tante di quelle botte quel giorno. L’hanno portata via la mattina, è ritornata alla sera. Siamo andate vicino a chiederle, pianino, non si poteva parlare durante la notte. “Cosa ti è successo? Cosa ti hanno fatto?” Lei tutta vergognosa ha detto: “Mi hanno fatto un’iniezione là”. Puoi immaginare a quei tempi, una ragazzina di quindici/sedici anni.

Poi finito così. Soltanto che noi con i mesi che passavano si dimagriva, si diventava così. C’erano tre ragazze, una di Firenze, si chiamava Wanda, una di Venezia, poi un’altra milanese anche. Loro dicevano, perché si era, non credo ormai disperate, non si ragionava, non penso alla disperazione, chi era disperata andava nel filo spinato.

Invece noi eravamo ridotte che non eravamo nemmeno disperate, eravamo lì e basta. E’ un po’ difficile spiegare come ci si sentiva, pensando anche adesso, una nullità realmente, completa, noi eravamo una nullità anche dentro di noi.

Queste che avevano un venticinque e più anni, anche trenta credo quella di Venezia, andavano fuori quando erano nude, ragazze, “Cosa vi disperate, siamo ritornate delle ragazzine”, dicevano.

Soltanto questa Gabriella abbiamo scoperto che i suoi seni, i nostri invece erano spariti, i suoi si arrotondavano. Poi è stata scelta anche lei tra le cinquemila, dopo l’esperimento ci hanno detto che dovevamo partire per un altro trasporto, per un altro posto di lavoro.

A questi ingegneri occorrevano cinquemila pezzi. Noi eravamo diventati dei pezzi, non eravamo più né dei numeri, né delle persone. Eravamo dei pezzi e basta. Siamo il 2 gennaio, siamo partiti alla volta di Buchenwald.

Anche lì abbiamo fatto un po’ a piedi fra i boschi della Polonia finché abbiamo trovato un binario morto dove c’era il carro bestiame, ci hanno fatto salire su questi carri bestiame e siamo partiti verso la Germania, chiamiamola così.

Dopo sei giorni abbiamo incontrato una stazione che si chiamava Dresda. Abbiamo detto, allora siamo in Germania. Poi siamo finalmente arrivati… Poichè bombardavano hanno deviato un po’ i treni. Siamo arrivati a Buchenwald. Veramente siamo arrivate a Weimar, nella stazione di Weimar, nello scalo merci di Weimar, passando col treno abbiamo letto Weimar.

Ci hanno fatto scendere allo scalo merci di Weimar, ci hanno incolonnate per cinque. Lì mi hanno dato un paio di zoccoli da infilare finalmente, zoccoli che erano chiusi, non aperti e mi hanno dato quelli più piccoli. Mi hanno fatto infilare col tedesco vicino, nazista, che dovevo infilare questi zoccoli.

Infatti ho messo dentro i piedi. Se io non avessi avuto due mie compagne che mi hanno trascinata su, perché andando a Buchenwald c’era una salita, adesso c’è la strada asfaltata, ma quella volta non c’era la strada asfaltata. Quelle che non riuscivano a fare la salita, c’era il fosso, un colpo di pistola e finito.

Così non so in quante siamo arrivate lassù a Buchenwald. Io so soltanto di essere entrata una volta sola per il cancello normale di Buchenwald e di aver trovato un albero, di averlo abbracciato che è ancora là secco nel mezzo.

Ho detto: “Oddio”, quando sono ritornata dopo un dieci/dodici anni, ho trovato il mio albero. “Che tuo albero?” diceva la gente che era insieme a me.

Ci hanno portato in fondo a Buchenwald. Lì l’indomani siamo andati, la sveglia sempre la solita, sempre i soliti Kapò, sempre le solite Stubowe,Blockowe. Sempre la sveglia alle quattro. Dopo due giorni ci hanno detto che eravamo pronte per andare a un altro lavoro.

Siamo uscite, fatta la scelta, ci siamo trovate… Perché sulla scalinata a Birkenau quando siamo scese non eravamo più in cinquemila, però alla partenza ci siamo trovate sempre in cinquemila. A Buchenwald però non so in quante siamo arrivate. Siamo morte un po’ camminando, un po’ sulla salita.

Ci siamo alzate. Hanno fatto i comandi, unite tante persone scelte. Poi ci hanno portato, fatto scendere in un sentiero da Buchenwald giù a basso, ci hanno fatto salire su un camion, ci hanno portato… Non so quanta strada, quanti chilometri distante. Mi ricordo di essere arrivata in questo posto che c’era una gran scalinata dove si scendeva, poi c’era la galleria.

Un ricordo che non dimenticherò mai. Eravamo nella galleria a Dora dove facevano la V2. Dice qualcuno che non hanno visto le donne, però ci sono dei signori invece che ci vedevano ogni giorno entrare.

Io mi ricordo a Dora che nell’entrata della nostra galleria davanti c’era una grande bomba, enorme, a noi sembrava enorme enorme, era grande, immensa, nera con una fascia rossa sotto.

Ci hanno fatte entrare in questa galleria, noi donne eravamo addette alle cariche. Si lavorava negli esplosivi, nel tritolo, balestrite, tutte queste cose. C’era come una specie di mulino, veniva macinata e mischiata la miscela di esplosivi.

C’era una qualità che bruciava anche le mani. Eravamo diventate tutte gialle. Ci facevano delle iniezioni ai seni. Si era lì nude completamente, loro passavano, avevano talmente ormai la praticità, passavano di corsa a fare queste iniezioni. Non so in cosa consistevano, per il fatto che eravamo diventate gialle forse.

Non era cambiato. Era cambiato qualcosa per noi che a Buchenwald abbiamo ricominciato a riprendere la vita, a cercare di sopravvivere Lì si capiva che si doveva lottare per sopravvivere. Poiché la domenica gli ingegneri non lavoravano, abbiamo riscoperto la domenica, si rimaneva in baracca.

Si poteva parlare. Quante cose ci siamo raccontate, quante ricette abbiamo scritto solo col cervello. Io quando vado a casa faccio così, quando vado io, allora eravamo di tutte le nazioni e di tutte le regioni del nord: Milano, Torino, ognuna aveva le sue ricette.

Lì ci si scambiava solo idealmente, solo si parlava. Forse questo ci ha aiutato molto anche per il ritorno. In più ci ha aiutato molto schivare tutte le punizioni possibili. Si cercava sempre di schivare ogni cosa.

Quando siamo andati a Kamnitz, abbiamo lavorato due mesi lì, facevamo pezzi di aerei, prima di arrivare a Buchenwald. C’è stato il bombardamento, allora ci hanno riportato un po’ in blocco. Un po’ ne hanno scelte, siamo andate a sbucciare patate, a pelare, non a sbucciare, a pelare, perché la buccia si poteva mangiare, invece pelarle era solo grattarle.

Eravamo lì che si parlava fra noi, ci siamo girate, abbiamo visto in vetro dei filoni di pane, non il nostro, un’altra qualità di pane. Come faremo? Lì si parlava di questo pane che era là. Ci sembrava già di mangiarlo, di averlo mangiato.

Lì abbiamo avuto la fortuna grande che c’era uno di Milano che si chiamava Marcello, un bellissimo ragazzo, non so di cognome, mi ricordo solo il nome, so che era un bel ragazzo, era un militare italiano. C’era quella di Firenze la Wanda. C’era solo una tedesca con noi di guardia. Ha fatto in modo di portarsela via. Si vede che sapeva il tedesco. Quando lei è ritornata era talmente svampita, talmente sognante, ha fatto un lavoro formidabile il nostro italiano, è stato bravissimo e noi abbiamo preso il pane, l’abbiamo nascosto sotto un braccio.

Quella sera quando siamo entrate in blocco si doveva alzare le braccia, ne abbiamo alzato uno solo. Non so com’è stato che ci siamo passate. Abbiamo mangiato tutta la notte. Ognuno un pezzo per ciascuno, si sono buttate su di noi quando hanno visto questi filoni di pane lì.

L’indomani sono venuti a cercare il pane. In una notte. Venire a cercare il pane l’indomani mattina? Abbiamo goduto noi quella notte, mamma mia. Non abbiamo fatto la spia.

“Guardate che avete mangiato quel pane. Il pane serve per i tedeschi, era per i nazisti, per i comandanti”, ci hanno detto. Nessuna ha parlato perché ognuno ha avuto il suo pezzo. Loro sapevano quelle che eravamo, ma loro dovevano punire tutte assieme.

Sono venuti a cercarci, hanno rovesciato i letti, non hanno trovato nemmeno le briciole. L’indomani mattina hanno cercato il pane. Non l’hanno trovato, ci hanno detto che se avessimo raccontato non ci avrebbero fatto niente, ci dicevano che dovevamo avvertire perché ci sarebbe venuta la dissenteria per aver mangiato questo pane.

Invece è successo che quelle che avevano la dissenteria sono guarite avendo mangiato questo pane. E’ successo che è venuta punita questa tedesca, cosa strana. Non so cos’è scattato. Noi ci abbiamo goduto se è stata punita questa tedesca. Realmente.

Un’altra cosa a Buchenwald. Abbiamo cantato. A noi è sembrata festa. Non abbiamo capito a cosa si andava incontro. In fila ci hanno fatto scendere da Buchenwald, ci hanno portato all’ospedale a Weimar a fare i raggi.

Mentre si passava, abbiamo attraversato il centro di Weimar. La gente ci sputava vedendo queste donne sporche, rasate, ci hanno fatto uguale a Buchenwald come ci hanno fatto ad Auschwitz, c’erano sempre i soliti dottori, altri dottori, altri nomi, però sempre le solite visite schifose, sempre le solite cose.

Noi quel giorno che siamo andate a fare i raggi abbiamo cantato per la strada per il fatto che non abbiamo lavorato. Questo fatto è stato bellissimo per noi. Per forza che i tedeschi uscivano nella città di Weimar a guardare chi era che cantava. Come si faceva a cantare? Non ci si rendeva conto che facendo i raggi si poteva… non abbiamo mai pensato di essere ammalate, assolutamente. Nemmeno l’idea lontanamente di ammalarsi. Nemmeno quando eravamo tutte gialle, non si pensava che si fosse malate, ci sembrava che era normale essere così. Questo è il fatto. Giusto per ritornare a quando ero al Revier, quando sono stata dimessa dal Revier, passando per uscire sono passata davanti a un bagno.

Dio, c’era un bagno. Ho guardato così mentre passavo, ho visto una persona nello specchio. Quando sono rientrata in baracca ho detto: “Dio, ragazze, che brutta donna che ho visto. Ho visto una ragazza talmente brutta”. E una signora: “Ti sei mai guardata allo specchio? Dove lo hai per guardarti?”.

Ero io quella che ho detto che era brutta. Dopo ritornando a Birkenau dopo tre mesi, tanto quella che aveva sessanta anni e quella che ne aveva venti eravamo tutte uguali. Una cosa a Birkenau, ritornando indietro a Birkenau, quando veniva gridata: “Oggi selezione, oggi selezione”, le donne, quelle che avevano una certa età o per la paura anche i capelli diventavano bianchi prima del tempo prendevano del fango e se lo davano su nella testa.

Quando si passava nude davanti, nel viso anche, quando si passava davanti al tavolo dei dottori molte riuscivano a passare senza venire scartate, perché purtroppo chi veniva scartato si sapeva dove si andava direttamente, ormai non era un mistero per noi. Poi un’altra cosa a Birkenau che non ho detto prima che mi è rimasta molto nella memoria. C’era una ragazzina a dormire sopra di me che avrà avuto quindici o sedici anni, era di Firenze, non lo so come si chiamava. So quello soltanto. Anche quella signora, Wanda, che era di Firenze non la conosceva, però sapeva che era di Firenze, l’ha detto lei che era di Firenze. Cantava, aveva composto una piccola canzone su “Dorme Auschwitz” e la cantava sull’aria di “Dorme Firenze”. Diceva: “Dorme Auschwitz sotto un cielo di cenere, dorme Auschwitz, si vedono tante fiammelle. Sono le anime dei bambini che escono per i camini. Dorme Auschwitz, non si vedono le stelle, soltanto cenere”. Poi ci sono altre parole, ma non mi ricordo. Solo la prima strofa mi è rimasta un po’ in testa. Anche la canzone “Mamma”, la Vittoria Gargianti la sa tutta lei, se la ricorda tutta. Io mi ricordo un pezzo, ma soltanto… Ad Auschwitz c’era l’orchestra delle donne, c’è lo spiazzo ancora dove suonavano, dove tenevano i concerti. Quest’orchestra ci accompagnava sempre nel lavoro, nel rientro e quando si usciva, uguale, sempre. In più se avveniva un’impiccagione era accompagnata dall’orchestra sempre. C’erano donne che suonavano, c’era una baracca dove andavano a fare le prove anche per loro. Di fatti stavano un pochettino meglio, non andavano al lavoro, non erano nel freddo e non avevano il vestito zebrato. Quelle che venivano scelte nel gruppo, chiedevano se sapevano suonare e andavano in questa baracca a fare le prove. Loro gli davano gli strumenti e suonavano sempre, anche per loro dopo, anche per i nazisti. Dovete sapere che la Kapò non dormiva mai nella nostra baracca, c’era la Stubowa, la Blockowa non dormiva mai.

C’era la Stubowe, le Kapò andavano a fare la bella vita. C’erano due di guardia, erano di una cattiveria incredibile, veramente.

D: E questa ragazzina di Firenze?

R: No, è rimasta ad Auschwitz. Allora ritornando a Buchenwald, mentre un giorno eravamo in galleria che si stava lavorando, perché la galleria era lunga non so quanti chilometri, mi avevano detto quanti gli uomini, adesso… Ma c’erano tante deviazioni. C’erano dei reparti, i laboratori c’erano in queste gallerie. Un giorno lì nel nostro laboratorio dove eravamo noi le è preso male a questa ragazzina di Gorizia, questa Gabriella, che ho detto che si arrotondava i seni, così. Era arrotondata anche lei. L’hanno portata via, le è venuta un’emorragia, l’hanno portata via. Dopo quattro giorni è ritornata, la ragazzina ha detto: “Mi hanno operata”. Dopo ha avuto la forza di ritornare, però abbiamo saputo che le avevano fatto la totale. Questa sperimentazione della fecondazione artificiale credo che l’abbiano messa insieme il dottor Mengele e tutta la sua equipe. Non era perfetta come è adesso, ben si intende, però credo che sia partita da lì e che veramente gli esperimenti siano stati fatti a Birkenau.

D: Eleonora chi era?

R: Eleonora era una ragazza, una sposina di Cormons, in provincia di Gorizia. Adesso vive a Belgrado. Lei quando è salita sul nostro trasporto era incinta. A Birkenau ha partorito durante una notte, dopo tre mesi che eravamo lì. Lì è stata coperta un po’, le grida, le urla, questo bimbetto che era nato lì. Si vede che l’indomani mattina la cosa… O la Kapò o la Blockowa, è stata avvertita. So che è arrivato il dottor Mengele e ha dato l’ordine di non allattarlo. Ma io non lo so dove il latte sarà stato dopo tre mesi che eravamo già lì. Noi abbiamo detto: “Se non hai il latte tu, noi metteremo un po’ di pane bagnato”. Ci avevano già tolto un po’ le cose proprio essenziali, come fa a vivere un bambino col pane bagnato in quell’acqua marrone che c’era? Dopo quattro giorni credo che un pulcino pigolasse molto più forte di quel bimbino . Mi ricordo qui una cosa, che si dormiva in otto, come ho detto prima, si cercava di lasciare il posto a lei col bambino sopra sulla pancia. L’avevano avvolto in una specie di coperta color nocciola, non lo so dov’è che è stata trovato questo pezzo di coperta. L’aveva avvolto lì questo bambino. Durante la notte sul quarto giorno, andando al quinto, è arrivata una dottoressa polacca, per forza doveva lavorare là. E’ venuta lì e ha detto il nome finalmente, perché dovevamo dimenticare anche i nomi. Difatti eravamo ridotte a chiamarci per numero, realmente. O 53 o 52, secondo il numero, non i primi due, 88.000, si chiamavano i due ultimi. Ci si capiva. E’ stata chiamata Eleonora, “Bisogna sopprimere il bambino”. Ci siamo un po’ rivoltate tutte, anche quelle nobili che dormivano sotto di noi, realmente sono saltate su, parlando austriaco, tedesco dicevano: “Far morire un bambino?”. Lei ha detto: “Queste cose le faccio per salvare la madre, perché domani mattina verrà il dottor Mengele e porterà via la madre e il bambino”. Allora lei ha messo una mano sopra e un minuto dopo il bambino non piangeva più. Lo ha preso, lo ha portato nello stanzino dove si mettevano le donne che morivano di notte. C’era uno stanzino in fondo alla baracca apposta in cui si mettevano le morte. Quel giorno nell’insieme abbiamo avuto una fortuna che il carretto della morte è arrivato molto prima, il bambino è stato caricato. Il dottor Mengele e la sua equipe sono arrivati dopo l’appello. Essendo arrivato dopo l’appello la dottoressa ha detto che il bambino era morto, e che era stato portato nel mucchio dei morti. Sapete che è andato a cercarlo tra quelle due o tre che erano morte dopo morto il bambino, è andato a vedere se c’era lì. Questa Eleonora ha avuto la forza, è ritornata, il figlio forse se lo sarà ricordato dopo, quando è ritornata forse. Non l’ho incontrata più perché essendo sposata con uno sloveno è andata a vivere là e non ci siamo più incontrate. Non lo so se è viva ancora, so che era andata là sposa a Belgrado. Dopo non lo so.

D: Elvia, la liberazione, dov’eri tu alla liberazione?

R: Alla liberazione? Dice qualcuno che hanno gridato di gioia, così, anche nei film che vedo si vede così. Io non posso dire… Non ho avuto il tempo di godermela. Perché? Perché quel giorno, il 7 maggio, che era già finita, ci hanno portato in galleria. In galleria eravamo tutti, uomini, tutti. Questo perché la loro idea era di far saltare la galleria, è questo il fatto. Se non che si vede che il fronte è avanzato molto prima della preparazione per fare queste cose. Mi ricordo che è entrato un altro gruppo di uomini, lì abbiamo avuto molto aiuto dai militari italiani.Poi le cose che si facevano per loro erano tutte sabotaggio, se mentre eri all’appello ti scappava la pipì, poiché per farla c’erano gli orari, c’era la mattina e basta per andare ai bagni, Se facevi la pipì magari lì, perché non si avevano né mutande né niente, era sabotaggio. Prendevi tante di quelle botte, prendevi dalle dodici alle venticinque frustate anche. Chi le prendeva? Io non le ho prese queste, io ho preso solo le tre legnate della Kapò, però chi le prendeva doveva anche contarle. C’era un seggiolino, le piegavano e le davano giù lì.

Poi se ci sono le russe, mettiamo quelle due che hanno cercato di fuggire a Buchenwald… Perché noi avevamo un momento quando si scendeva dal camion, sulla strada in cui ci mettevano c’era un ponte che si doveva attraversare. Non so se c’era un fiume perché durante la notte e il giorno non si aveva tempo di guardare. C’era un momento che ci si mischiava con le persone civili e queste russe devono aver fatto amicizia con delle russe lavoratrici che erano prese dalla Russia e portate a lavorare. Hanno tentato la fuga. Dopo tre giorni le hanno riprese, le hanno portate in blocco. Quando siamo ritornate dal lavoro le abbiamo trovate lì, distese per terra che le avevano bastonate, si può, all’infinito. Noi eravamo lì in piedi in fila, e il comandante ha camminato sopra. Non so il comandante di Buchenwald come si chiamasse. Ha camminato con gli stivali sopra queste due ragazze. Erano due sorelle. Le hanno prese. Dentro nella baracca c’era un Bunker, una botola in cemento armato con una porticina più un buco rotondo. Le hanno prese e le hanno messe lì dentro con l’ordine a noi di non andare a guardare né niente. Una cosa strana, fra tutte le nazionalità che eravamo, noi italiane avevamo legato con le russe, non lo so come mai c’era questo legame fra noi. Dovete pensare, mettiamo, io sono di Udine e quelle sono di Gorizia, siamo a venticinque chilometri di distanza, ma parlavano sloveno e loro si spacciavano per slovene, non si sentivano più italiane. Non si riusciva ad andare d’accordo.

Pensandoci anche adesso ci si chiede il perché di questa cosa, che abbiamo legato con queste russe. Allora a turno si montava di guardia in modo che le Kapò o le comandanti non ci vedessero. Noi si toglieva un pezzettino del nostro pane, si bagnava nell’acqua e si buttava dentro per questo buchetto. Dopo sei giorni hanno aperto il Bunker e hanno tirato fuori una viva. Io dopo cinquant’anni l’ho rincontrata questa russa a Mosca. Lei mi ha riconosciuta, io non l’ho riconosciuta, perché poi abbiamo seguito tutta la trafila insieme fino alla liberazione. Per ritornare e raccontare il giorno della liberazione…. Per noi è venuto dentro questo con un Ape che si guidava allora, quella volta, in piedi gridando: “I russi alle porte, i russi alle porte!”. Perché c’era il corridoio della galleria enorme. Noi non c’eravamo nemmeno messe al lavoro, si diceva: “Non c’è nessuno qui”, non hanno acceso il motore del mulino. Piano piano sentendo questo siamo uscite, ci siamo trovate in un grande spiazzo e c’erano… Allora quando si era in baracca si diceva sempre: “Quando andrò a casa, mi toccherà incominciare a mangiare col cucchiaino, non si potrà mangiare tanto perché il nostro stomaco si è ristretto”. Questi erano i discorsi quando eravamo su in baracca. Ma al momento che eravamo fuori e abbiamo visto le case dei comandanti cosa si è fatto? All’assalto alle case a cercare da mangiare, non si è ragionato più. Lì si aprivano tutti i sacchi, si assaggiava cos’era. Questo l’ho trovato io, sono stata molto brava. Io ho aperto, era di carta questo sacco, sono arrivata a strapparlo e ho assaggiato questa polvere, era color verdolino. Ho assaggiato, mamma mia, sapeva di fagiolo. “Sono fagioli macinati”, tutte queste ragazze che non ci siamo contate mai dopo, ci siamo buttate sopra. Lì abbiamo acceso dei fuochi in queste gamelle che avevamo, ognuno faceva la crema. “Che buono, che buono, mamma mia, che buono”. Quando abbiamo finito di mangiare tutto abbiamo scoperto che era colla. E adesso? Cosa facciamo? Ci ha fatto bene, ci sentivamo sazie, se anche era colla noi abbiamo pensato: “Ci ha fatto bene”. Adesso da che parte si va? Dove si va adesso? Dove siamo? Non si sapeva dove si era, non si vedeva dove si andava. Abbiamo cominciato a ragionarci sopra, abbiamo detto: “La strada sarà sempre in alto, mai sotto, perché qui è la collina, le strade sono sopra. Non possono essere qui dove hanno fatto le gallerie. Se venivano coi camion e con le macchine…”. Abbiamo attraversato questo bosco e difatti fuori da questo bosco sempre in salita abbiamo trovato la strada. Non ci si rendeva conto che le Katiusce sparavano sopra le nostre teste, non si sentiva. Si sentiva di andare, finito. Quando siamo arrivate in questa strada abbiamo trovato dei furgoncini rovesciati nei fossi. Via a cercare anche quello che c’è lì. Lì abbiamo trovato dei maiali già puliti, già tagliati, dei pezzi di lardo. Io non lo so se avete visto i leoni nei deserti quando prendono la preda, così è stato per noi. Tutti assieme, tutto un mucchio, lì eravamo di tutte le razze, eravamo tutte sorelle.

Coi denti si strappava. Questo purtroppo ci ha salvato, questo lardo ci ha salvato. Poi abbiamo detto: “Da che parte andiamo?”, le russe e le polacche hanno detto: “Noi andiamo verso dove sparano che là ci sono i russi”. “Noi andiamo giù di qua. Dove andiamo da questa parte? Si andrà in Italia, noi italiane”.

Anche le altre, le greche, quelle delle altre nazioni, anche le ungheresi ci avevano detto: “Andiamo da questa parte, si andrà in Ungheria”. Difatti loro indovinavano giusto, ma noi italiane si andrà in Italia di qua, loro vanno dalla parte dei russi. La Russia è la via, si diceva, vieni da quella parte.

Ci siamo incamminate e siamo arrivate in una cittadina chiamata Erfurt. Lì ci hanno visto arrivare, queste donne in quelle condizioni che eravamo, si camminava ormai che si trascinavano così i piedi, non si camminava normalmente. Ci hanno detto che stavano arrivando i russi, ci hanno fatto capire che ci avrebbero ucciso tutte.

Allora noi che eravamo rimaste ci siamo riunite anche se non ci si capiva, anche quel piccolo gruppo di italiane. Abbiamo detto: “Andiamo là dove mettono il fieno ad asciugare, andiamo a dormire in un fienile, vediamo domani”, perché erano già venute le sette di sera ormai.

Quando ci siamo avviate nei campi finalmente vediamo arrivare due carri armati con la stella rossa che era l’Armata Rossa. Sono scesi, mi ricordo che c’erano un capitano e un colonnello. Il capitano russo parlava l’italiano.

Prima ci hanno chiesto nella loro lingua di che nazioni fossimo, chi eravamo. Noi abbiamo detto, il nostro gruppetto di poche italiane che eravamo, abbiamo detto: “Siamo italiane”. Allora è sceso questo capitano, parlava l’italiano e ha detto di ritornare a Erfurt che là c’era la truppa che ci avrebbe dato di cui mangiare, lavarci, vestirci.

Difatti siamo ritornate indietro e lì ci hanno separate, le italiane da una parte, le greche, le cecoslovacche… Ci hanno messe in tante case sequestrate che avevano loro, ci hanno messo lì.

Non saprei nemmeno oggi come oggi dire cos’è stata la liberazione per me, non è che abbiamo alzato le braccia, niente. Perché abbiamo dovuto lottare ancora, perché poi si viveva sempre quei quattro o cinque giorni che siamo rimaste lì… Perché?

Perché ogni giorno di mattina presto eravamo talmente ormai abituate ad alzarci a quell’ora, si era sempre in strada. A ogni gruppo che passava si chiedeva: “Sei italiano? Sei italiana?”, alle donne e agli uomini. Erano già quattro giorni, cinque che eravamo lì.

Un giorno è arrivato un gruppo e ci hanno detto che erano italiani, mamma. Forse lì abbiamo conosciuto un po’, non nel senso di essere liberati, no, di avere trovato delle persone che erano uguali a noi, italiane insomma. Non per razza, perché hanno detto che erano italiani.

Forse questo nome ci ha dato… Allora hanno detto: “Dove andate?”. “Andiamo in Italia”, abbiamo detto. “Unitevi a noi che andiamo”. Erano un gruppo di ragazzi, c’era il corridore Monti anche.

Hanno detto: “Unitevi a noi che andiamo verso l’Italia”. Invece viene lì vicino un colonnello russo che aveva visto un po’ di gente raggrumata lì, c’erano anche altre prigioniere che chiedevano, è venuto, ha detto: “No, voi lasciate le biciclette qui, vi diamo un carro e un cavallo e tutti i viveri. Andate sempre dritti per questa strada fin quando arrivate a Praga, dovete arrivare a Praga” ci ha detto.

Ci siamo incamminati, abbiamo dormito all’albergo delle stelle, abbiamo camminato per altri cinque o sei giorni. Mi ricordo di essere arrivata entrando dalla Germania a Praga, mi ricordo di essere arrivata sul ponte di San Stanislao e poi di essere caduta lì. Poi non mi ricordo nulla per due o tre mesi, li ho persi completamente, cancellati completamente.

D: Però lì sul ponte a Praga cos’è successo?

R: E’ successo che mentre io ero caduta e avevo perso i sensi passava il Console italiano, sua moglie e una contessa cecoslovacca che faceva la crocerossina, andavano in cerca di queste persone coi vestiti zebrati.

Lei è scesa dalla macchina: “Fermati” ha detto “che c’è una ragazzina per terra”. “E’ viva ancora, questa non è morta”. Mi hanno caricata in macchina, mi hanno portato alla Casa d’Italia.

Dopo due mesi, tre che ero lì mi ricordo di essermi svegliata e quando ho guardato ho visto un viso talmente bello, talmente sorridente, come una visione. Ho detto: “Oddio, sarò in paradiso, questo è un angelo”.

Mi hanno raccontato che ho avuto il tifo, che ho avuto la malaria, poi mi è ritornata la malaria, che pesavo 25 chili, che mi hanno pesata in un lenzuolo, mi hanno legata e messa nel lenzuolo che ridevano tutti quando mi hanno pesata.

Lei non mi ha abbandonato né giorno né notte, mai mai mai. Allora si vede che avevo la febbre talmente alta, lei bagnava le lenzuola, mi avvolgeva dentro nell’acqua fredda perché ghiaccio dove? Avendo il figlio dottore forse ha…

In più mi ha curato la pelle della schiena, perché con gli esperimenti che mi ha fatto il dottor Mengele la mia pelle era come un cartoccio di carta, quella carta di una volta. I pidocchi difatti non stavano vicino a me assolutamente, perché se ti trovavano un pidocchio c’era anche la punizione.

Tanti parlano che erano mangiati dai pidocchi, dalle cimici. Non solo io, il nostro gruppo non aveva queste bestie, realmente non le abbiamo mai avute. Anzi, c’era una punizione.

D: Dopo questi tre mesi di Praga cos’è successo?

R: E’ arrivato un altro gruppo di italiani e hanno detto: “Dove andate?”. “Andiamo in Italia coi camion, andremo in Italia. C’è un treno che parte dalla stazione di Praga che va verso l’Italia”.

Invece siamo partiti coi camion, abbiamo attraversato un ponte di barche che avevano fatto i russi perché i ponti erano distrutti e ci hanno bloccati a Bratislava. A Bratislava ci siamo trovati in una caserma militare, eravamo in 17.000 persone italiane tra donne, bambini e militari, ufficiali.

Erano tutti ufficiali italiani che erano prigionieri del ’43. Quelle donne e quei bambini non erano prigionieri, loro erano delle persone che erano andate emigranti in Germania. Si sono trovati nel giro di tutte queste cose. Lì siamo stati altri tre mesi, fino al mese di ottobre.

I russi, io devo dire solo bene di loro, ci hanno dato i generi alimentari che ci si doveva fare da mangiare da soli, sbrigarsi da soli. C’era l’ordine però, si viveva come in caserma, uguale. Non c’era il permesso di uscire, perché si potevano fare dei brutti incontri, perché si ubriacavano come tutti, come gli americani, come gli inglesi e tutti, anche i russi uguale agli altri.

Allora poteva succedere, cercavano di evitare queste cose. Siamo stati fino al 30 ottobre. Un giorno è arrivato mentre eravamo lì il generale da Vienna russo, è entrato lì. Ci hanno fatto schierare gli ufficiali, i nostri italiani bravissimi, lui ha camminato in mezzo, è andato fino in fondo, si è girato.

“Italiani fascisti” ci ha detto. Me lo ricorderò sempre per il modo in cui l’ha detto. “Questa volta”, ha detto, “vi abbiamo perdonato. Se per caso ritornate in guerra un’altra volta non vivrà nessuno”. Ma in un modo ce l’ha detto, veramente.

Poi un’altra cosa: “Io non posso mantenervi più, perché non siete soltanto voi”, ha detto, “non siete solo voi 17.000. Ne ho altre migliaia a cui dare da mangiare, da vivere. Se entro tre giorni l’Italia o qualcuno non viene a cercarvi… Impossibile che in Italia non ci sia nessuno che non sappia che mancano 17.000 persone, non è una”, ha detto.

Ricordo realmente, era proprio anche un po’ incavolato questo generale. Ha detto: “Mi dispiace, se entro i tre giorni non viene nessuno a chiedervi, sono costretto a mandarvi via a Odessa”. Gli ufficiali, i militari che erano tanti anni ormai che erano lì hanno detto: “Ci mandano in Russia, se andiamo via a Odessa andiamo in Russia e non ritorniamo più”.

Invece alla quarta giornata la mattina presto abbiamo visto dei camion inglesi arrivare. Su quei camion chi c’era? C’erano gli inglesi, ma chi c’era a cercarci? C’erano i frati di Padova. In ogni camion c’era un frate, erano i frati di Padova che cercavano i deportati in giro. Non lo so come abbiano scoperto, o i russi hanno fatto sapere agli inglesi, hanno trasmesso così.

L’indomani siamo partiti finalmente con questi, ci hanno caricati nei camion abbastanza, eravamo un po’ strettini, ma il fatto di andare a casa… Invece ci hanno fermato a Vienna Noistar.

Io l’impatto l’ho avuto brutto con gli inglesi, non per me, un po’ per tutti. Abbiamo detto: “Siamo ritornati indietro”, perché ci hanno accolto in questo campo di smistamento a Vienna Noistar, a quaranta chilometri venendo sempre dalla Cecoslovacchia prima di Vienna.

Ci hanno accolti come degli appestati, ci hanno disinfettati con del flit, con delle cose che bruciavano. Siamo stati due giorni lì, poi siamo partiti finalmente. Ci hanno messi su una tradotta e siamo partiti finalmente verso l’Italia.

Mi ricordo che quando abbiamo attraversato il Brennero la gente, gli ufficiali più di tutti, sono scesi e hanno baciato il suolo italiano. Siamo arrivati a Pescantina e lì c’erano i frati di Padova ad aspettarci, c’era un campo con delle tende. Lì ci hanno dato i viveri.

Ho dormito lì, l’indomani ci hanno chiamati e hanno detto: “Guarda, c’è un treno che parte alla volta di Udine. Non so quando arriverete a Udine”. Io so di essere partita sola, perché dopo quindici mesi che ero via ci hanno arrestati assieme, una mia compagna del mio paese, siamo andate ad Auschwitz insieme, poi ci siamo perse ad Auschwitz.

Poi non l’ho vista più, l’ho incontrata a Pescantina dopo quindici mesi. Ha detto: “Elvia, andiamo a Udine, andiamo a Udine, andiamo a casa dalla mamma”. “Aspetta”, ha detto, perché lei era ritornata con un altro gruppo di italiani, “che vado a salutare quegli amici che mi hanno aiutata”, perché lei è stata liberata a Melk. “Vado a salutare”.

Il treno è partito e io sono andata, per la fretta di andare a casa non l’ho aspettata. A Udine ci hanno accolto tanto bene, mamma mia, l’impatto, il ritorno in Italia, in patria, mamma mia, il tuo paese, favoloso, da piangere anche oggi come oggi dopo cinquantacinque anni. E’ da piangere anche adesso.

Hanno detto che avevamo avuto un figlio coi tedeschi e lo abbiamo lasciato a Udine nell’orfanotrofio, non sapeva nessuno che noi siamo ritornate, dove eravamo, se eravamo vive o morte, però avevamo fatto un figlio. In più quando siamo arrivate le donne cosa ci hanno chiesto? “Vi hanno violentate?”.

Non come eravamo, già pesavo un trentacinque chili, per la mia altezza ero ancora magra. Non mi hanno detto… I capelli erano appena così, non erano ricresciuti in tre mesi, quattro della liberazione. No, queste cose.

Poi avevamo bisogno di cure ancora, di tante cose. No, niente, non si è fatto avanti nessuno, nessuno ci ha chiesto. E’ stato un professore che era amico del ragazzo che avevo che mi ha curato, mi ha fatto delle iniezioni, delle punture lombari per togliermi delle infezioni, delle cose così.

Avrà provato anche lui, non lo so, so che mi ha fatto delle iniezioni lombari contro la tubercolosi, perché quelli che sono ritornati prima di me erano tutti nei sanatori. Questo è il mio ritorno.

D: Quando sei ritornata?

R: Il 30 ottobre del ’45.

Mocai Ugo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Ugo Mocai, nato a Bologna il 3 marzo 1915.

D: Ugo, tu quando sei stato arrestato?

R: Io sono stato arrestato nel ’44.

D: Nel ’44?

R: Sì, di preciso il…

D: Forse il 10 luglio?

R: Penso di sì, luglio, insomma, non era ancora agosto. O la fine di luglio o metà.

D: Del ’44?

R: ’44.

D: Chi ti ha arrestato?

R: Mi ha arrestato la GNR, che era la Guardia Nazionale Repubblicana, fascisti.

D: Perché ti hanno arrestato, Ugo?

R: Perché io facevo parte della brigata Matteotti di città, c’era quella di città e quella di montagna. Io facevo parte della brigata Matteotti di città.

D: Il vostro compito come brigata partigiana qual era?

R: Prima di tutto reclutare dei ragazzi, dei giovani. Poi tutto, cominciare a fare qualche sabotaggio, poi c’era volantinaggio, il giornale, era “La squilla”, mi pare, il giornale. Tutto quello che riguardava la lotta clandestina.

D: Sei stato arrestato dove?

R: A casa, a Bologna proprio dove abitavo. Sulla porta di casa, proprio lì.

D: Erano in due?

R: Erano in due, sì.

D: Oltre a te hanno arrestato altri tuoi compagni?

R: Quella sera hanno arrestato quasi tutto il gruppo. Hanno arrestato i due fratelli Boschetti, tutti e due, Gabriele e Luigi. Poi hanno arrestato tanti altri che non conoscevo nemmeno, perché i nomi non si facevano.

D: A proposito di nomi, il tuo nome di battaglia, Ugo, qual era?

R: Non l’ho mai avuto il nome di battaglia.

D: Come scelta?

R: Sì, come scelta.

D: Vi hanno arrestati e vi hanno portati dove?

R: Ci hanno arrestati e ci hanno portati agli uffici della GNR, della Guardia Nazionale Repubblicana a Bologna, vicino a casa fra l’altro, perché avevano requisito una villa in Via Laldini e lì interrogavano, tenevano prigionieri, ecc.

Poi lì mi hanno fatto il primo interrogatorio, a schiaffoni anche, oltretutto schiaffoni. Però ad un certo momento è venuto dentro un ufficiale mentre mi menava, mi pareva almeno un ufficiale, che ha detto: “No, questi metodi non li dovete usare”.

Allora hanno smesso di picchiarci, non so chi era, se mi conosceva, non lo so. Lì siamo rimasti una notte. La mattina dopo, invece, ci hanno portati alla caserma, come si chiamava… Dove adesso c’è una chiesa.

Ci hanno portati lì. Però io ero rimasto praticamente da solo, perché gli altri che erano con me non li conoscevano perché venivano da altri gruppi. Poi c’era qualcuno di Giustizia e Libertà, c’era qualche comunista, pochi.

Lì siamo rimasti due giorni mi pare in questa prigione di questa caserma della Milizia. Dopo ci hanno portato a San Giovanni in Monte, dove c’erano le prigioni normali. Lì mi sono trovato con un altro che era già stato arrestato prima di me ed era il dottor Didomizio, che io avevo conosciuto perché nuotavo ed eravamo della stessa società di nuoto, Rarinantez.

Ci siamo rivisti lì, ma lui era stato arrestato per un’altra ragione. Non come noi, era stato arrestato perché faceva parte di Giustizia e Libertà, non so cosa facesse di preciso, perché poi nessuno diceva niente. Non si parlava quasi mai, anzi molte volte si faceva finta di non conoscersi.

Tant’è vero che veniva dentro uno nuovo, diceva: “Guarda chi si vede”. Lì rimasti a San Giovanni in Monte, mi hanno interrogato un’altra volta o due portandomi questa volta non nella stessa villa, ma in una via fuori Mazzini, adesso non mi ricordo, fuori Porta Mazzini.

C’era un altro nucleo loro, una specie d’ufficio anche quello, ufficio investigativo, non so come lo chiamassero.

D: L’UPI, quello dell’UPI?

R: UPI mi pare, sì. Era ufficio… Non so cosa volesse dire, investigativo. Lì mi ha interrogato sempre prima il colonnello, si chiamava Bucci, credo che sia morto. Mi ha interrogato sempre lui, mi chiedeva dove avevamo le radiotrasmittenti, le riceventi, ecc… Io dicevo: “Non so niente”. Diceva: “Lei però stia attento perché ha i genitori, quindi noi li teniamo d’occhio”. Dico: “Non c’entrano niente”. Infatti non c’entravano niente. Dopo parecchi interrogatori mi disse un giorno: “Va bene, noi ti denunciamo al Tribunale Speciale per la difesa dello stato”. E basta. Poi mi riportarono a San Giovanni in Monte. C’è stato un altro episodio, c’è stato il fatto che è arrivato dentro un gruppo di partigiani che ha liberato tutti quanti. Una notte da San Giovanni in Monte ci hanno liberati tutti quanti, però ci siamo trovati in mezzo alla strada, perché la nostra cella l’hanno aperta per ultima. Io e un altro che avevo conosciuto lì, Balboni, che è ancora vivo, poi un altro che veniva dalla Puglia, un certo, aveva il nome di battaglia, Maggio, però lui veniva dalla Puglia. Non so cosa facesse, lui si era arruolato con gli inglesi perché doveva sposarsi, voleva sposare quella donna. Comunque era arrivato fina a qui, San Giovanni in Monte. Siamo venuti fuori, però questo è un episodio così. Siamo usciti dal carcere, sono andato a casa, dove dovevo andare? Sono rimasto a casa un giorno. Poi hanno cominciato a telefonare e a venire a casa, a dire: “Guardi che se lei non si riconsegna noi mettiamo in galera i suoi genitori”. Mia madre dice: “Allora tu riconsegnati” e io tornai in carcere. Ma non mi volevano. Io bussai a San Giovanni, io e un altro. “Cosa volete?”. “Siamo due evasi che rientriamo”. Hanno detto: “Non si può, perché se non c’è un mandato di cattura o lei non è accompagnato da qualcheduno, anche un cittadino qualsiasi, non possiamo ricevere nessuno”. E ci chiuse fuori. Io con quell’altro lì sui gradini della chiesa diciamo: “Che cosa facciamo?”. Non sappiamo dove andare, la città, Bologna, era piena di fascisti, poi avevano saputo di questa irruzione dei partigiani nel carcere, quindi erano tutti lì. Vedemmo passare uno, un cittadino qualsiasi, che si fermò e noi dicemmo: “Per favore, guardi, ci vuole portare dentro?”. E’ così, se lo fai in un film uno non ci crede. “Ci vuole portare dentro, perché sennò non ci ricevono”. “Come non vi ricevono?”. “Perché non siamo accompagnati”. Quello bussò, poi scappò. Si fece vedere e disse: “Questi due vogliono rientrare”, allora la guardia aprì la porta e andammo dentro. Tornai in prigione. Non mi ricordo più quando, i tedeschi, chissà per quali loro problemi che non ho mai capito, un bel giorno arrivarono lì in prigione, un ufficiale delle SS e disse: “Questi, questi, questi”, faceva leggere i nomi all’interprete, “Questi e questi fuori, via con noi”. Ci portarono fuori, ci portarono lì in carcere, aspettammo un bel po’, perché non avevano il mezzo dove metterci, dove caricarci. Ci fecero salire su questi camion, un camion veramente. Poi ci portarono via, passando naturalmente tra due file di parenti piangenti. Passammo e ci caricarono su questi mezzi, poi andammo, almeno mi pareva, perché ci avevano chiuso, che ci portassero verso Modena. Assieme a quegli altri, soprattutto con Didomizio, che era stato nuotatore con me, dissi: “E’ una buona giornata perché se passiamo il Po’ ad un certo punto saltiamo fuori, saltiamo in acqua e andiamo”.

D: Questo più o meno quando è stato?

R: Ottobre, era ottobre. Metà di ottobre.

D: Sempre del ’44?

R: No, era già il ’45. No, è vero, ’44.

D: Scusami, Ugo.

R: Dimmi.

D: Tu sei stato accusato di cosa?

R: Di un sacco di roba. Di intelligenza col nemico prima di tutto. Poi di formazione di un gruppo partigiano, comunista dicevano allora, per loro erano tutti comunisti. Invece erano socialisti.

Poi di aver fatto attività di spionaggio, un attentato facemmo noi, uno solo. Qui c’è una birreria, non so se l’avete vista, è qui vicino, “Da Mamma”, dove tutte le sere i tedeschi si radunavano. C’erano delle finestre a pian terreno come questa con le inferriate.

Noi mettemmo delle bombe carta che ci avevano regalato, ne mettemmo due o tre e le facemmo scoppiare. Non successe niente, purtroppo non ammazzarono nessun tedesco. Però bloccarono la strada e fecero un rastrellamento lì.

Però io fui arrestato più che altro perché uno dei nostri, che era Luciano Proni, che poi è morto durante un rastrellamento in montagna, Luciano Proni faceva l’amore con una ragazza bellissima, molto bella, che contemporaneamente però faceva l’amore anche con un dirigente fascista.

Noi gli avevamo detto, gli dicevamo: “Guarda che se fossimo i comunisti ti avremmo già fatto fuori oppure ti avremmo allontanato”. “No, è una ragazza fidatissima che non dice niente”. Lui le aveva fatto i nomi di tutti e lei ha fatto i nomi di tutti, persino di mio fratello che era in Sardegna. Infatti mi chiedevano di mio fratello. Dico: “Andatelo a prendere in Sardegna, è prigioniero là, è rimasto là”. La causa fu lei che si chiamava Laura, non mi ricordo, Anna no, Laura mi pare.

D: Scusami, ti hanno portato alla GNR, no?

R: Sì, prima.

D: Sì, dopo…

R: Dopo i tedeschi mi hanno prelevato, eravamo tutti politici quelli che prelevarono i tedeschi. Lungo la strada, mentre ci portavano a Bolzano, eravamo un gruppo di quattro o cinque tutti pigiati in questo camioncino più due prostitute, due di quelle che avevano rastrellato.

Io ero rimasto indietro nel camioncino, quindi ad un certo momento passava un aereo che bombardava e mitragliava la strada. Dietro noi avevamo la scorta, c’era una specie di jeep con sopra dei tedeschi. Il camionista nostro si è fermato quando ha sentito l’aereo, poi è sceso.

Allora noi abbiamo approfittato, abbiamo tentato di scappare. Solo che io sono stato bloccato in fondo al camioncino e non sono riuscito a scendere, né io né Balboni né Maggio, mentre Didomizio e un altro, che è morto adesso, scapparono attraverso la campagna e i tedeschi della camionetta dietro gli spararono. Poi non l’hanno preso volontariamente, perché a sparare coi mitragliatori che avevano loro ci potevano benissimo fare fuori, erano lì. Si vede che sparavano in alto per vedere se si fermavano. Invece non si sono fermati. Da lì ci hanno portati, dopo siamo stati fermi, ci hanno portati ancora e siamo scesi a Verona. A Verona ci hanno portato in un altro posto che non so cosa fosse, era anche quella una caserma, ma non so come si chiamasse. Ci hanno portati dentro…

D: Ma era una caserma in città o in periferia?

R: Penso che fosse in città da quel poco che ho visto.

D: Germanica però? Era gestita da tedeschi?

R: Loro?

D: No, la caserma. Le guardie erano tedesche o italiane?

R: No, erano italiane.

D: Italiane?

R: Erano tutte italiane. Infatti poi venne dentro un prete. Lì ho avuto un po’ paura, ad un certo momento alla mattina prima ci diedero da mangiare benissimo, cosa strana, poi venne dentro questo prete, che era uno di quei preti che erano passati dall’altra parte, era un prete loro.

Disse: “Voi siete partigiani, avete ammazzato, avete fatto un sacco di peccati. State tranquilli perché vi assolvo da tutti i vostri peccati”. E buonanotte, ci ha assolto. Allora io ho detto a quell’altro: “Qui ci fanno fuori, perché ci danno da mangiare bene, ci mandano il prete, cosa vuoi di più?”.

Invece no. Alla mattina ci misero su un camion e ci hanno portato a Bolzano. Prima ci hanno portato vicino a Innsbruck, a Bolzano. Non so cosa fosse. C’era un campetto anche lì.

Però lì ci hanno lasciato pochi giorni. Poi da lì ci hanno portato a Bolzano, a Gries, che adesso non c’è più.

D: Scusa, Ugo. Ma sempre il vostro gruppetto, quelli partiti da Bologna o hanno aggregato altre persone?

R: A Verona hanno aggregato qualcuno, c’erano altri che non conoscevo. Fra l’altro erano veneti, con noi non c’entravano. Poi li ho rivisti a Bolzano anche questi.

D: Quindi sosta ad Iseo hai detto?

R: No.

D: Dopo Verona?

R: Dopo Verona direttamente a Bolzano.

D: No, dopo Verona?

R: Prima ad Innsbruck.

D: Ad Innsbruck?

R: Sì, c’era un piccolo campo lì, si vede che era di smistamento, non so. Poi siamo tornati indietro, da Innsbruck siamo tornati a Bolzano.

D: Come ti ricordi il tuo ingresso nell’area di Bolzano?

R: Nel campo? Prima di tutto pioveva e nevicava già, veniva giù nevischio così. Lì erano tutti tedeschi, erano SS tutti quanti. Ci hanno lasciati tutti in fila lì, poi ci hanno contato, ricontato, i soliti conteggi.

Poi ci hanno tosati tutti a zero, un freddo alla testa. Poi ci hanno fatto togliere il cappotto, ci hanno lasciato la maglia, se uno aveva la maglia sotto teneva la maglia. Ci hanno dato una tuta tutta blu, io ce l’avevo a casa, l’ho data per una mostra e non l’ho più riavuta. C’era un triangolo rosso con scritto 5855, che era il mio numero.

5855 ed è rimasto sempre quello. A Bolzano la vita del campo…

D: Ti ricordi il tuo blocco?

R: Non mi ricordo più. Balboni se lo ricorda di sicuro, io non me lo ricordo. Erano parecchi i blocchi lì. C’erano le donne da un’altra parte. C’erano gli ebrei da un’altra parte.

Lì era una questione, non so neanche io l’impressione, come dicevi, che mi ha fatto, brutta impressione. Fra l’altro non sapevamo lì niente dei campi in Germania, Mauthausen ecc. Eravamo lì, dopo un po’ di tempo che eravamo lì, un mese, abbiamo fatto varie esperienze.

Hanno provato a farci lavorare, io non me la sentivo di lavorare per loro. Il primo lavoro che ci hanno fatto fare, lì stavano scavando una galleria che adesso credo che sia autostrada, lì hanno poi portato una fabbrica di cuscinetti a sfere.

Noi dovevamo preparare tutto, c’era chi scavava, chi… Ci mettevano in quadrati alla mattina, ci portavano su un camion e da lì ci portavano dove era la galleria. Tunnel, come dicevano loro. Alla galleria si scendeva, ti mettevano in fila un’altra volta, ti ricontavano un’altra volta con un freddo cane, perché ai piedi ci avevano dato degli zoccoli di legno da portare.

Un freddo cane. Lì chiedevano cinque falegnami. Andavano fuori cinque che volevano fare i falegnami. Io, Maggio, che era stato invece studente di medicina, Balboni, ecc… alzammo la mano e dicemmo: “Veniamo noi”.

Ci presero, ci portarono lì in un reparto sotto le gallerie, ci diede, mi ricordo sempre, un mazzo di cavicchi di legno così da fargli la punta. Però non ci ha mai più richiamato, segno che le punte non erano venute bene a mio parere. Non ci ha più richiesti quello lì.

Poi lui ci mandò via alla sera quando suonava il fischio per partire, ci disse con disprezzo proprio: “Raus, Scheisemann, Italiener Scheisemann”, uomini di merda, qualcosa del genere.

“Questo non ci vuole più, cosa facciamo?” Io feci per lo meno la domanda per un gruppo di elettricisti. Ho imparato a fare qualche cosina, ma credo che da quelle gallerie non sia mai uscito un cuscinetto a sfera, mai sicuramente. Perché il lavoro dei prigionieri, poi soprattutto eravamo quasi tutti politici, in più c’erano parecchie donne, non era possibile che…

Visto che non avevamo voglia di fare niente o quasi, c’è stata una parentesi che mi hanno messo ai martelli pneumatici. Ci sono stato una mattina poi basta.

D: Questo sempre nella galleria? Questi lavori sempre in galleria?

R: Sempre in galleria, sempre in tunnel, sì.

D: Ascolta…

R: Dimmi.

D: Quando tu andavi dal campo alla galleria ti portavano in macchina?

R: In camion. Anche a piedi molte volte.

D: A piedi?

R: Non è lontano il campo.

D: Alla sera tornavate indietro?

R: Indietro, sì.

D: Sempre?

R: Sempre, si dormiva al campo.

D: Al campo dormivi?

R: Sì.

D: Quindi tu nel campo sei rimasto per tanto tempo?

R: Sono rimasto finché non è finita la guerra.

D: Oltre, accennavi, alle donne c’erano gli uomini nel campo.

R: Sì.

D: Di provenienze e di regioni diverse?

R: Sì, molti, in maggioranza erano veneti però. Friulani, di Belluno, quei posti insomma.

D: C’erano donne?

R: Insieme a noi no.

D: Ma c’era la baracca delle donne?

R: Sì, molte venete anche lì.

D: Tu le hai viste?

R: Sì.

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini nel campo?

R: No, bambini non ne ho mai visti. Donne ed ebrei, quelli sì. Però se ti prendevano vicino agli ebrei erano calci nel sedere e botte, non volevano che comunicassimo con gli ebrei. Erano in un campo per conto loro e in maggioranza erano donne ebree.

D: Tra gli uomini ti ricordi se c’erano dei religiosi, dei sacerdoti?

R: C’è stato anche uno che chiamavano “il vescovo”, non so se poi fosse vescovo veramente. Dicevano: “Adesso vado dal vescovo”, ma non era nel mio blocco. Era un altro blocco.

D: Nel periodo che tu sei rimasto lì nel campo di Bolzano sei stato testimone d’atti di violenza?

R: Tanti, anche per delle sciocchezze. Soprattutto per quelli che non lavoravano. Io ho provato a non lavorare, a stare circa una settimana, un mese in giro per il campo. Prima di tutto tutte le volte che dovevi incontrare… Avevano dei berretti fatti di stoffa, tutte le volte che incontravi un soldato ed erano così, dovevi alzare e vedere.

Se non lo facevi, io ho provato una volta perché ho detto: “Voglio provare a vedere cosa succede”, ho preso tanti di quei calci nel sedere, quei piedi così.

D: Ti sei fatto un giro d’amicizie lì nel campo?

R: Sì. Prima di tutto Balboni, perché quello era lì. Poi questo nostro amico delle Puglie, pugliese.

D: Quel pugliese famoso?

R: Quel pugliese, sì. E’ stato sempre con noi, anche perché era un ragazzo simpaticissimo. Degli altri che adesso non ricordo neanche.

D: Ti ricordi l’episodio che ti ha legato a dei russi?

R: Sì, quello dei russi. Sono stati loro che ci hanno convinti a lavorare. C’erano due russi che dormivano nel castello sopra di me. A un certo momento dicevano anche loro: “Ma perché non volete lavorare? Noi lavoriamo, mangiamo di più”.

Infatti, una fetta di pane in più si poteva mangiare. Hanno detto: “Provate, provate”. Ci hanno spinto ad andare appunto fra quelli che dovevano lavorare, a alzare la mano. Sono stati loro a convincerci, a spingerci.

Ho tenuto rapporti coi russi poi, ho tenuto rapporti con i russi fino a dopo, tornato a casa. Mi scrivevano da Modena, perché loro erano due ufficiali dell’esercito sovietico. Li avevano tutti internati, messi a Modena per poi mandarli in Russia.

D: Ritornando invece alla galleria, al tunnel, che tu lavoravi là, eravate in tanti a lavorare?

R: Eravamo parecchi. Il mio blocco c’era quasi tutto, quindi erano parecchi. Adesso non lo so ogni blocco quanti potevamo essere, quaranta, cinquanta. Venivano poi anche dagli altri blocchi. Eravamo in tanti in galleria. Poi finalmente ad un certo momento in galleria cominciammo a stare bene, perché i tedeschi mandarono lì a lavorare, quando erano già arrivate le macchine, i torni e le frese per i cuscinetti, mandarono gli operai della IMI, che erano industrie meccaniche italiane, di Ferrara.

Li mandarono ed erano tutti borghesi quelli, erano normali e lavoravano lì. Ognuno di loro prendeva uno di noi.

D: Quindi tu come gli altri avete avuto rapporti con i civili anche?

R: Solo con quelli.

D: Sì, ma avete avuto rapporto anche con questi?

R: Sì, con quelli che venivano in galleria.

D: Sì, sì. C’erano anche le donne, dicevi, a lavorare in galleria?

R: Sì. Non so cosa facessero, però c’erano. Più che altro erano addette a pulire, le pulizie. Poi con le donne era utile fare amicizia, perché lavoravano quasi tutte per gli ufficiali tedeschi. Si fregavano la roba da mangiare e allora ce la portavano. Era importantissimo.

D: Scusami, Ugo.

R: Dimmi.

D: Una volta finito il turno di lavoro in galleria, voi tornavate nel campo?

R: Nel campo, alle sei di sera.

D: Tutti tornavano nel campo o restava qualcuno a lavorare, a fare il turno di notte?

R: No, almeno dei miei compagni.

D: O lì vicino c’era un posto dove stavano, delle baracche dove stavano lì a dormire?

R: No.

D: Non ti risulta?

R: Non mi risulta per niente, no. Noi tornavamo tutti al campo, tutti. O a piedi o in macchina.

D: Col camion?

R: Col camion, sì.

D: Sei mai stato a Bolzano in città a raccogliere macerie, a spostare macerie?

R: No. Siamo stati varie volte alla ferrovia di Bolzano, perché l’avevano bombardata e ci portarono a mettere a posto, sistemare.

D: Sgombero di macerie?

R: Sì, sgombero di macerie, mettere a posto i binari, che è fatica, le traversine, ecc… Sempre guardati da loro naturalmente. Guai a fermarsi, bisognava sempre fare in modo di far vedere che si lavorava.

D: Sia quando tu eri in carcere a San Giovanni in Monte che lì a Bolzano sei riuscito a metterti in contatto con i tuoi familiari, con la tua famiglia?

R: Sì, venivano una volta o due al mese qui. A Bolzano no, a Bolzano niente scrivere e niente. Davano una sigaretta a quelli che fumavano. Io la scambiavo con le patate, perché m’interessavano di più.

D: Né hai mai ricevuto dei pacchi di generi alimentari?

R: Mai. In San Giovanni in Monte sì, qui.

D: Mentre a Bolzano?

R: A Bolzano niente. A proposito di civili, c’era una signora di Bolzano, la moglie di un ferroviere, la quale faceva della beneficenza. Ci portava qualche cosa ogni tanto dentro il campo, la lasciava lì e la guardia ce la dava. Tutto lì.

D: Scusami, una giornata tipo del campo come ce la descrivi?

R: Quando si lavorava o quando non si lavorava?

D: Sia l’una che l’altra.

R: Perché sono stato un mese quasi che non ho lavorato. Non ho voluto.

D: Quindi cosa facevate?

R: Niente, il giro per il cortile stando attenti che i cani non ti annusassero. Poi o ti facevano pulire i gabinetti, quei lavori lì, oppure ti prendevano così. Dicevano: “Tu, vieni qua”.

Era pieno, c’erano tutte le guardie che in genere purtroppo erano quasi tutte sud-tirolesi, erano state arruolate nelle SS tedesche. Erano piuttosto cattive.

Il tempo passava abbastanza bene, insomma, senza fatica. Poi ci sono state delle evasioni dal campo, diverse evasioni.

D: Anche dal tunnel qualcuno è riuscito a scappare?

R: Due donne sono riuscite a scappare dal tunnel, attraverso i gabinetti.

D: Ma c’era un collegamento con qualche gruppo esterno?

R: Io credo di sì. Non dicevano niente, però per forza. Se uscivi vestito in quel modo dove andavi? Probabilmente a Bolzano c’era un Comitato di Liberazione, qualche cosa del genere che aiutava.

Noi non l’abbiamo mai cercato, ma c’era. Molti sono riusciti, queste due donne sono riuscite ad andarsene.

D: Lì non è successa nessuna rappresaglia quando si sono accorti i germanici?

R: La rappresaglia era già abbastanza, perché facevano la conta subito dopo. Anche se erano le due di notte dovevi stare lì in piedi e aspettare che finissero. Conta e riconta.

D: Il tuo regalo del Natale ’44 cos’è stato?

R: Regalo di Natale ’44? Regalo in campo di concentramento? Una cosa brutta, che a me faceva una certa impressione era che avevano fatto l’albero di Natale.

D: Dove?

R: In mezzo al campo nel cortile, nel campo. Era una cosa tristissima. Non per l’albero di Natale, non m’importava niente, però era tutto questo ambiente.

D: Allora, due russi vi hanno convinti a lavorare, ma erano due russi deportati, no?

R: Sì.

D: Però nel campo c’erano anche degli ucraini che non erano dei deportati. Te li ricordi tu?

R: Erano soldati quelli. Ucraini, sì. Ma credo che fossero ucraini, non sono sicuro, ma credo che lo fosse anche il comandante del campo, non lo so. Si chiamava Titho. Mi ricordo la firma, Titho.

Era un maresciallo credo. I marescialli erano, non è come da noi che erano marescialli. Il loro maresciallo era importante. Ogni tanto facevano l’appello come sempre i tedeschi. Anche lì non era un bel momento, chiamavano fuori 5856, il mio era 5855, oppure 5854.

Quelli li mandavano tutti o a Mauthausen o Buchenwald o quell’altro, cos’era? Dachau. Li mandavano tutti lì.

D: Però voi non lo sapevate?

R: Non lo sapevamo, è vero.

D: Non sapevate la destinazione?

R: No, no.

D: Appunto.

R: Però siccome sono morti tutti… Dopo abbiamo realizzato.

D: Questi partivano senza sapere quale destinazione….

R: No, no. Nessuno sapeva la destinazione, neanche noi partendo da qui sapevamo. Io non sapevo che c’era il campo di concentramento a Bolzano, né io né gli altri.

D: Ugo, qui a Bologna a quei tempi in un giardino c’era un comando germanico. Ti ricordi come si chiamano i giardini? Come si chiamano quelli lì?

R: Giardini Margherita.

D: C’era mica il comando germanico lì? Il comando della SS?

R: Mi pare di sì. Lei c’era, sì. Sì.

D: Te lo ricordi, Giardini Margherita?

R: Sì, non proprio dentro ai giardini. In una strada laterale che fiancheggiava i giardini c’era una villa che avevano occupato questi della SS.

D: Non ti ricordi il nome di quella villa?

R: No.

D: Mentre il nome di villa Paradiso te lo ricordi?

R: Quello è una mia invenzione.

D: Cioè?

R: Forse non l’ho detto perché mi sono dimenticato. A un certo momento, come dicevo, visto che fare gli elettricisti e i falegnami neanche per idea, uno lo misero al tornio, quello se la cavava bene, uno che non mi ricordo come si chiamasse.

Però noialtri, io, Balboni e anche questo pugliese, questi pensarono: “Cosa facciamo?” Allora mi chiesero: “Tu cos’eri? Cosa facevi? Studente?”. “No, studente no”. Ero già laureato, sono laureato in legge. Allora scosse la testa e poi disse: “Vieni con me”. Prese me, Balboni e quell’altro.

Ci portò in un magazzino sempre dentro alla galleria. In questo magazzino c’erano delle gran casse piene di cuscinetti a sfere. Disse: “Qui c’è una cassa, vedete?”. Bisognava togliere le sfere grandi e piccole e metterle nelle altre casse, un bel lavoro quello.

Stavamo lì, ogni tanto spostavamo una cassa, erano sopra degli scaffali. Poi dietro andavamo a dormire per esempio. Alla mattina ci alzavamo alle cinque, alle quattro. Poi lì venivano per esempio tutte le donne, non si sentivano bene allora andavano dentro, chiudevamo dietro. Erano tutte contente.Allora io dissi: “Questa è villa Paradiso” e lo scrissi anche sulle aste di fuori, tanto che venne un ispettore, un ufficiale tedesco tipo Himmler e guardava dappertutto. Arrivò davanti e lesse: villa Paradiso. Si vede che chiese chi l’ha scritto e quello disse: “L’hanno scritto loro”.

Allora lui credeva che stessimo benissimo nel campo. Guardò, era contento.

D: Dicevamo, una giornata tipo del lavoro.

R: Il lavoro?

D: Sveglia al mattino?

R: Sveglia al mattino erano le quattro e mezza, cinque. Poi …., ci facevano uscire dal blocco perché andavi a lavarti, a lavarti la faccia. Poi era sempre gelata perché c’era un freddo cane, era sempre gelata. Di lavarci i denti avevamo smesso ad un certo momento, perché si vede che molti ci facevano la pipì dentro l’acqua.

Allora lavarsi i denti non era una cosa… Poi ci riportavano dentro, c’era l’appello per quelli che andavano a lavorare. “Galleria”, dicevano, “fuori”. Il gruppo, dividevano in vari gruppi e ci portavano in galleria.

Mangiare a mezzogiorno, ti davano una fetta di quel pane, quello nero. Non è cattivo quel pane, adesso l’ho mangiato a Bolzano con le noci, è buonissimo. Una bontà. Una fetta di pane e una specie di brodaglia, di brodo. Facevano queste grandi caldaie di questo brodo con dentro o il miglio o l’avena. Allora dicevo sempre: “Qui ci hanno preso dei canarini”. Ci davano questo miglio che diventa bello grosso e poi sopra ci buttavano della farina cruda in queste caldaie. Faceva una specie di crostina sotto buonissima. Poi basta, non c’era secondo, c’era un piatto, una gavetta di quello e basta. Una volta al giorno, alla sera niente. Tant’è vero che la fetta di pane la tenevamo per la sera.

D: Frutta no? Le mele?

R: Mele sì, non ce le davano loro. Quando ci portarono a chiudere le buche a Bolzano, si vede che con le bombe avevano colpito un carro di mele, un carro ferroviario di mele, allora c’erano tutte queste mele dentro le buche.

Ne mangiammo una quantità, un mal di pancia pauroso, si vede che erano mele, non so, sporche. Allora lì abbuffata di mele. Un’altra volta all’imbocco della galleria bombardarono, bombardavano l’imbocco e l’uscita. Bombardarono e ammazzarono un cavallo attaccato ad un carro.

Ce lo lasciarono il cavallo, morto. Lo aprirono e tutti quanti a prendere pezzi di carne. Però non l’abbiamo cotta, l’abbiamo mangiata cruda. Siamo stati malissimo, un male da morire.

Le uniche due volte che abbiamo visto cibo esterno.

D: Ti ricordi il giorno di Pasqua del ’45 cos’era successo, cos’è successo nel campo?

R: Non mi ricordo. Però qualcosa è successa. C’è stata un’evasione?

D: Una celebrazione di una messa.

R: No, questo non me lo ricordo.

D: Non te lo ricordi?

R: Non mi ricordo. Poi alla fine del ’45, quando oramai… Ci levarono dal campo e ci portarono in una scuola, ex scuola di Bolzano che non ho più rivisto.

D: Questo in che periodo?

R: Era sul finire della guerra oramai, era nel ’45.

D: Aprile, maggio?

R: Sì, non era cattivo tempo quindi doveva essere maggio, penso.

D: Ma tutti voi o solo un gruppo?

R: No, il gruppo che lavorava in galleria. Ci portarono lì e ci portavano da lì in galleria, che era più vicino.

D: Stavate lì a dormire?

R: A dormire, ci avevano messo su, si vede che c’erano già i castelli e si dormiva lì.

D: C’erano anche le donne con voi?

R: No.

D: Lì a fare la guardia chi c’era? Sempre germanici?

R: Sempre, sempre. Sempre SS.

D: Era più una scuola, secondo te, o una caserma?

R: Ma secondo me era più un’area da scuola, almeno dentro, dai colori. Poi forse l’avevano ridotta a caserma.

D: Era molto più vicina alla galleria questa?

R: Era più vicina. Noi ci andavamo a piedi tranquillamente, in quadrati a piedi.

D: Ascolta, Ugo, invece la liberazione come te la ricordi?

R: La liberazione. Siamo usciti una mattina da questa scuola, eravamo io e Balboni. Non ci guardavano più, avevano tolto le guardie, avevano tolto tutto. Si andava lì per dormire come un albergo, si andava dentro e fuori, non si andava più in galleria.

Passeggiavamo lì a Bolzano, no, a Merano o un’altra cosa, c’è un portico a Bolzano. Noi camminavamo lì sotto il portico. A un certo momento abbiamo visto una jeep con sopra tre americani, un negro e due normali.

Si sono fermati, hanno tirato fuori una carta topografica, guardavano. Hanno preso appunti e poi sono andati via. Poi non ho più visto americani.

D: Ma la liberazione? Vi hanno rilasciato un documento?

R: Sì.

D: Dove? Lì in questa scuola?

R: Nel campo.

D: Siete ritornati al campo?

R: Sì, ma per conto nostro. Avevamo saputo che facevano questo documento. Io ce l’ho ancora a casa. E’ un fogliettino stampato. Ci misero in fila anche lì, poi c’era una delle SS che faceva la dattilografa e ci chiese tutto, cosa avevamo fatto ecc, dove volevamo andare.

Siccome conoscevamo questa ragazza di Belluno, noi dicemmo: “Andiamo a Belluno”. No, non siamo andati a Belluno, siamo tornati a Bologna. Un viaggio prima in treno fino a Ora, a Ora finiva la ferrovia. Un po’ a piedi, un po’ così ci siamo fermati a Verona, mi pare. Non sapevamo cosa fare, bisognava avere dei soldi, perché sennò…

D: Avete fatto la strada dell’Adige o quella del lago?

R: Quella del lago. A Gardone c’era mio zio, mi venne in mente che c’era un mio zio che era direttore della banca, non so. Allora dissi: “Andiamo da mio zio”. Andammo su da mia zia Rosa e da mio zio che aveva sposato una sorella di mia madre. Stettimo lì due giorni, ma non avevano da mangiare niente neanche loro, poco. Patate e basta.

D: Quando sei arrivato a Bologna?

R: Io sono sempre arrivato ultimo, come all’8 settembre, lo stesso. Sono arrivato a Bologna che erano già iniziati i bombardamenti credo, no, erano già finiti i bombardamenti da un pezzo. Cos’era? In ottobre? No, non mi ricordo più. Maggio, sì.

Era caldo ancora. Devo essere arrivato in maggio, maggio o giugno a Bologna. La guerra era finita.

D: E a casa tua?

R: A casa mia?

D: Sì, mamma e babbo? Quando ti hanno visto?

R: Mio padre non c’era, era fuori. Quando è tornato… Mia madre.. Le è venuto uno smalvino, uno svenimento.

D: I tuoi compagni del partito, i tuoi compagni di brigata?

R: Quelli non ne ho visti neanche uno lì per lì.

D: Dopo hai ricostituito il gruppo, vi siete ritrovati?

R: Sì, dopo sono tornato al mio partito, che era il partito socialista d’unità proletaria. Lì sono rimasto fino a che il partito si è diviso, allora sono passato al partito comunista, più tardi però.

D: Ugo, cos’è stato per te il segmento dell’esperienza del Lager, per la tua vita dopo, per le tue scelte, le tue amicizie?

R: Ti dirò, essendomela cavata sia prima in guerra come dopo, quella è tutta questione di fortuna, l’esperienza non è brutta, non è una brutta esperienza quella del campo di concentramento.

E’ tutto un mondo a sé, è tutta una repubblica che è per conto suo. Lì il capo blocco comanda, fa quello che vuole.

D: Il capo blocco che è un deportato come te?

R: Sì. Però gradito ai tedeschi. Per quello che io sapevo e so un po’ di tedesco, perché l’ho studiato al liceo, un po’ di tedesco. Non ho mai detto però: “Io so il tedesco”, perché dicevano: “Chi vuole fare l’interprete?”.

L’interprete per i compagni e tutti era una spia sempre, anche se non era vero. Non ho mai voluto farlo. Avevo sempre una paura di rispondere in tedesco.

D: Però stavi dicendo una cosa molto importante, il Lager non è una cosa brutta perché è un mondo a parte…

R: Parlo per me.

D: Certo.

R: Ci sono quelli che ci sono morti.

D: Certo.

R: Però io sapevo già quando ci hanno deportato lì che con noi c’era uno nel camioncino che ci portò a Verona, c’era un certo Canè, che era un allievo ufficiale dell’aeronautica, abituato con la cioccolata alla mattina, quelle cose lì.

Io dicevo: “Quello non torna indietro” e non è tornato. C’erano molti anche che si demoralizzavano, molti, insomma abbastanza. Si buttavano a piangere tutto il giorno.

Io invece mi sono trovato con questi altri due con i quali si scherzava sempre. Abbiamo preso anche delle botte.

D: Ugo, sia durante il periodo del carcere che durante la tua permanenza del campo lì a Bolzano, nella galleria ecc. la tua scelta ideale, la tua scelta politica, i valori per i quali stavi combattendo, stavi lottando ti hanno aiutato, ti hanno dato quella forza?

R: Moltissimo. Però bisogna essere convinti di quello, bisogna che sia vero questo, non che fai finta.

D: Ne parlavi con gli altri tuoi compagni?

R: Certo.

D: Con Balboni per esempio?

R: Sì.

D: Con il pugliese?

R: Sì. Anche con altri friulani che erano quasi tutti comunisti.

D: Vi confrontavate anche su queste scelte importanti di valori, di lotta, del movimento resistenziale?

R: Sì, c’erano di quelli, per esempio Orel, era un friulano, giovane, avrà avuto sedici o diciassette anni, che l’avevano arrestato e messo lì. Lui mi chiedeva: “Tu mi devi spiegare”, siccome sapevano che ero laureato, “tu mi devi spiegare perché Carlo Marx ecc…”. Allora lì tutto…

D: Volevo farti una domanda su Verona. Quando dici che ti hanno portato forse in una caserma in città, poteva essere anche un forte militare o era una caserma?

R: No, non era una scuola quella, per me era una caserma.

D: O un forte? No, una caserma?

R: No, i forti li conosco a Verona.

D: Non era un forte. Invece a Bolzano dentro il tuo blocco avevate i gabinetti oppure i rubinetti?

R: C’erano dei gabinetti appena fuori dal blocco. Quella è la porta del blocco, fuori c’era una specie di baracca piccola con due porte di gabinetto. Lì dovevi chiedere se potevi andare. Una guardia veniva con te e stava lì fuori mentre tu facevi la cacca.

D: Ce li puoi descrivere? Com’erano?

R: I gabinetti com’erano? Erano un buco in terra. Siccome lì vicino c’è l’Isarco mi pare, andava a finire tutto lì.

D: Il tuo capo blocco chi era?

R: Non mi ricordo. Quando sono arrivato era uno che non ho mai più visto, non so.

D: Ti ricordi se nel campo venivano celebrate delle messe?

R: Delle?

D: Messe, da parte di preti, servizi religiosi. Ti ricordi?

R: Oddio, io non te lo posso dire perché siccome io a messa non ci vado non ci sono mai andato neanche lì. Però sapevo che facevano la messa ogni tanto, sentivo.

D: Ascolta, dicevi prima, hai fatto un accenno, volte in cui venivano chiamati dei numeri che potevano essere vicini, prima o dopo il tuo. Erano appelli per le partenze?

R: Sì.

D: Come avvenivano questi appelli per le partenze?

R: Non l’ho mai capito neanche io questo. Avvenivano quando gli pareva, quando si vede che loro avevano bisogno. Allora dicevano: “Facciamo l’appello”, facevano quest’appello e quei numeri che chiamavano andavano in Germania.

D: Ma venivate messi tutti sulla piazza?

R: Tutti, tutti nel cortile.

D: Tutti insieme o blocco per blocco, se ti ricordi?

R: Tutti i blocchi, tutti.

D: Poi venivano letti dei numeri?

R: Sì, i numeri di matricola che avevi qua.

D: Venivano letti in italiano o in tedesco?

R: In italiano, c’era l’interprete.

D: Alla sera quando vi portavano dentro nel blocco, il blocco veniva chiuso dall’esterno?

R: Sì. Non si poteva uscire, finestre non ce n’erano. C’erano dei finestrini in alto.

D: Ascolta, se dovevi andare in bagno di notte come facevi? In bagno di notte ti capitava? C’era un bugliolo dentro?

R: Un bugliolo.

D: Un’ultima domanda sulla galleria, se cerchi di ricordartela, era ad un piano, i macchinari e i posti di lavoro, o c’era anche un piano rialzato?

R: No, tutto un piano diviso in varie parti, magazzini, tornitori, fresatori, uffici, una galleria tutto al piano terra.

Bozzini Luigi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Luigi Bozzini, sono nato a Pavia, il 24 gennaio 1927, allora ero studente, frequentavo l’istituto tecnico Bordoni, per geometri. Dopo il 25 luglio e l’8 settembre, con i miei compagni dell’oratorio, di giochi dell’oratorio, abbiamo costituito questo gruppo, senza avere conoscenze e idee precise sul da farsi.

Abbiamo visto il comportamento dell’esercito italiano l’ 8 settembre, che è stata una cosa tragica ma sotto certi aspetti, anche un po’ comica. Io avevo sedici anni, giravo per la città in bicicletta e mi era capitato di vedere sull’argine del Ticino, appena fuori da un ponte coperto, un camion dell’esercito con una mitragliatrice, cinque militari e un capitano.

Dovevano fronteggiare i tedeschi che arrivavano dalla statale e il camion era posizionato in modo che la mitragliatrice potesse sparare sulla statale dei Giovi e davanti alla mitragliatrice c’era una squadra di ragazzini del borgo curiosi e alcune lavandaie e il capitano impazziva perché diceva: “Se devo sparare voi dovete togliervi da qui”. La cosa, anch’io ero lì ma mi sono spostato subito, era addirittura un po’ buffa, perché pretendere con cinque uomini di far fronte ad un carro armato era una cosa assurda, anche se avevo sedici anni e non avevo cognizioni militari, avevo capito che era una cosa impossibile. Allora abbiamo deciso di costituire questo gruppo e di resistere, in che modo non sapevamo, non avevamo mezzi. Conoscevo Monsignor Luigi Gandini, che abitava vicino casa mia.

Ci ha dato i primi stampati ciclostilati e noi, questi fogli, li appiccicavamo di sera, con l’oscuramento, approfittando dell’oscuramento, sui bandi di chiamata del maresciallo Kesserling e del maresciallo Graziani che invitavano i giovani a costituirsi e a presentarsi alla leva nel nuovo costituendo esercito della Repubblica di Salò.

Più avanti, io ero stato nominato capo del gruppo, in un primo momento Devoti e poi io e come capo dovevo tenere i contatti con gli elementi esterni alla nostra cellula. Don Gandini mi mise in contatto con l’avvocato Marchetti e da questi io ricevevo copie del giornale clandestino ” Il ribelle ” che era stato fondato da Teresio Olivelli. Su “Il ribelle” verso l’estate del ’44 trovammo la notizia che Olivelli era stato arrestato e c’era anche una foto.

Facevamo azioni di sabotaggio, i tedeschi mettevano delle indicazioni stradali per indicare dove c’era il tal reparto e noi approfittando del buio, strappavamo questi cartelli, cercavamo anche di rifornirci di armi.

Nella casa di Devoti, le donne quando andavano nel rifugio, dicevano che lì abitava un carabiniere che era scappato e che avevano paura perché probabilmente nella cantina ci dovevano essere delle armi, allora una volta abbiamo aperto il lucchetto e siamo entrati e c’era una catasta di legna, l’abbiamo smontata, effettivamente c’erano le armi, abbiamo trovato un fucile, un moschetto 91 con diverse scatole di cartucce.

Abbiamo prelevato qualche scatola di cartucce, abbiamo lasciato il fucile in attesa di poterlo usare nei momenti più adatti, perché in città non era certo facile operare in mezzo a tutti i fascisti e i tedeschi

D: Scusi Luigi, il vostro gruppo aveva un nome?

R: Sì, l’abbiamo chiamato Sirio e noi tenevamo un quaderno con un diario delle nostre azioni, in codice. Erano numeri, era un codice semplicissimo, bastava alla A, dare un numero e poi tutti gli altri seguivano.

Era un lavoro compilare anche quelle poche note perché bisognava far riferimento e qualche volta cambiavamo anche il corso, poi dopo il mio arresto, questi documenti sono stati distrutti ma quando sono venuti ad arrestarmi non hanno trovato niente perché erano bene nascosti. Più tardi, al nostro gruppo, eravamo quattro, Devoti, Chiappino, Masara, si è unito Giovanni Tavazzani che veniva da Torino, la mamma era di Pavia e dopo l’8 settembre il papà era generale, è scappato e si è trasferito a Milano. A Milano è stato il primo comandante del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia, è stato catturato a dicembre e internato a Mauthausen dove è morto nella primavera del ’45.

Un giorno, sono stato contattato da un partigiano, era uno studente del Bortoni, più anziano di me che mi disse, mi ha fatto una confidenza, mi disse che era un partigiano che era sceso e che però voleva ritornare e che cercava armi. Io avevo una rivoltella a tamburo, nascosta e temporeggiai perché volevo essere sicuro. Da ottobre sono arrivato a dicembre però non avevo mai rivelato che eravamo un gruppo di resistenza, chi erano i componenti, ero stato sulle difensive, appena prima di Natale gli consegnai questa rivoltella

D: Natale di che anno?

R: Del ’44. La mattina del 3 gennaio, presto, alle sei del mattino, arrivarono a casa mia cinque agenti in borghese delle SS, mi prelevarono, mi perquisirono e mi portarono alla Villa Triste, così chiamata, di Piazza Castello, mi lasciarono lì nell’anticamera un paio d’ore e poi mi chiamarono per un interrogatorio.

C’era un tizio seduto a un tavolo e i quattro altri agenti, ai lati, pronti a battermi. Io avevo intuito che il delatore poteva solo essere quella persona e difatti dissi che, mi dissero chi conoscevo, cosa facevo, dissi che avevo consegnato questa rivoltella a questo tizio. Mi portarono in una stanza vicina dove c’era l’arma sul tavolo e mi fecero fare il riconoscimento dell’arma.

Questo aveva parlato anche di altre persone, ormai sapevano già tutto e poi fui associato al carcere di Pavia, subito nella stessa giornata.

D: Senta, questa Villa Triste, esiste ancora l’edificio della Villa Triste?

R: No, è stata demolita subito dopo la guerra e al suo posto è stato costruito un condominio.

D: E le persone che l’ hanno trattata a Villa Triste, era italiani?

R: Erano italiani, ricordo, c’era un certo Ferrarini che era il capo e tra questi c’era un certo Gemelli.

D: Erano vestiti in divisa militare?

R: In borghese, in borghese, avevano un cappotto scuro, nero, grigio e il cappellaccio nero tutti quanti, il cappellaccio tipo…

D: Erano quelli del GNR?

R: Come?

D: Erano quelli della Guardia Nazionale Repubblicana?

R: No, erano delle SS, dipendevano dal comando SS, infatti io sono stato associato al carcere a disposizione delle SS

D: Al carcere di Pavia?

R: Sì. Mi han messo in una cella, la numero 4, dove c’erano già degli altri prigionieri.

D: Non c’erano le celle di isolamento?

R: Eravamo un po’ sospettosi perché ci potevano essere delle spie, infatti c’era un tizio che chiamavano Maresciallo, in borghese, che era sempre sul letto, io non l’ ho mai visto alzato, un tipo strano e però c’era Bonzanini Mario, Carlo Cuoccini, i più giovani, coi quali ho familiarizzato e poi c’era Zampieri che era un cronista di Pavia che io conoscevo di vista, che era molto più anziano. Gli altri, c’era una guardia di una riserva di Vigevano che portava la divisa della guardia di riserva con tanto di …, era una persona anziana.

Eravamo in 8, 10. La cella era quel che era, piccola, al piano terra, un grande finestrone in alto, davanti alla finestra c’era un paravento e dietro c’era il paiolo di legno.

Per servirsene bisognava salire su due cavalletti, era una cosa un po’ disagevole, comunque a Pavia ci davano un pasto solo, a mezzogiorno, una minestra e una pagnotta.

Durante la mia prigionia ricorderò sempre quel piatto di minestra perché aveva una certa consistenza, c’erano rape, cavoli e riso ed era piuttosto abbondante.

D: Quindi lasciavano portar dentro la roba da fuori?

R: No. Uscivamo al mattino per un’ora d’aria nel cortile, dove scendevano tutti, anche gli altri prigionieri che stavano su nel camerone. Tra questi ho trovato un mio compagno delle scuole elementari, Aurelio Bernuzzi che poi è stato un mio compagno anche a Bolzano e anzi, dormivamo nella stessa cuccetta perché bisognava stare in due per ogni cuccetta.

D: E nel carcere di Pavia siete rimasti?

R: Siamo rimasti fino al 23 gennaio.

D: Dopodiché?

R: Dopodiché una mattina ci hanno trasferito a San Vittore con una corriera, scortati dalla Guardia Nazionale Repubblicana. Molti della mia cella non sono venuti, ricordo che poi era arrivato anche il Dottor Giulio Perri che era un medico e quando siamo arrivati a Bolzano, ci hanno rapato i capelli a zero.

D: Aspetti, prima a San Vittore, a San Vittore siete rimasti per un lungo periodo?

R: Ho sbagliato, ho detto Bolzano, volevo dire San Vittore. Ci hanno rapato i capelli a zero e siamo stati sistemati nelle varie celle e Perri è stato mandato in infermeria, come medico, in aiuto ai medici, civili credo.

D: Si ricorda il raggio di San Vittore?

R: Doveva essere il sesto raggio, io era al terzo piano, in questo momento non ricordo la cella ma l’ ho segnata nelle mie memorie.

D: Lei lì ha ricevuto un numero di matricola a San Vittore?

R: A San Vittore sì, no. Non ho avuto numero di matricola, ho segnato il numero della cella al terzo piano, che era l’ultima verso il finestrone e noi vedevamo una strada di Milano dove passava il tram e sotto c’erano le guardie che non volevano che ci avvicinassimo al finestrone, se uno si avvicinava più di tanto, quando uscivamo per andare all’ora d’aria, sparavano, sparavano

D: E dal giorno del suo arresto alla permanenza San Vittore, era riuscito a comunicare con la sua famiglia?

R: Ho mandato una cartolina, una cartolina prestampata che ci hanno dato

D: A San Vittore?

R: A San Vittore sì

D: E non ha mai ricevuto visite o?

R: No, una mia sorella ha portato una valigia con dentro degli indumenti. Era stata perquisita però nelle calze son riuscito a trovare una coscia di pollo o qualcosa del genere, non hanno spogliato tutto, qualcosa han lasciato

D: Quindi, a San Vittore è rimasto fino?

R: Fino al 15 di febbraio del ’45

D: E poi lì cos’è successo?

R: La mattina ci hanno fatti scendere tutti nel corridoio centrale, siamo stati sottoposti ad uno spoglio accurato e poi rinchiusi in un altro reparto, in celle, celle che erano cieche, non avevano finestre e spoglie, mi son trovato con altri nove prigionieri che non conoscevo.

A metà mattina, attraverso uno spioncino, una suora ci ha dato un filoncino di pane a testa e un poco di soldi che abbiamo diviso fraternamente.

Nel pomeriggio poi la cella si è aperta e ci hanno avviato al piazzale. Il piazzale era fortemente presidiato da forze tedesche e fasciste e c’erano anche delle autoblindo e c’erano quattro autocorriere con rimorchio.

Una di questa faceva il servizio Pavia-Binasco-Milano ed era della Lombarda. Io mi son diretto verso quella corriera insieme a Bernuzzi che avevo trovato di fuori e lì ho trovato gli altri miei compagni di cella, Perri, Bonzanini e Cuoccini e altri ancora di Pavia. Perri mi disse di stargli vicino perché c’era la possibilità di scappare, eravamo in fila per salire sulla corriera.

Sulla corriera c’era l’autista che era di Pavia e fermava la nostra fila mentre lasciava salire un’altra che si era formata accanto alla nostra soltanto che un soldato tedesco si è spazientito del fatto che noi eravamo fermi e ha colpito Bernuzzi alla schiena, esortandolo a salire e allora siccome noi eravamo i primi ci siam sentiti a disagio.

“Questo qui se tira il grilletto ci fa fuori”, allora ci siamo incamminati e siamo saliti, ma lo scopo era quello di prendere la corriera vicino al soffietto, invece noi ci siam trovati, io e Bernuzzi, seduti sul pavimento del corridoio, impossibilitati a muoverci. Gli altri sono riusciti a prendere posizione sul rimorchio ma vicino al soffietto, sempre a terra. E poi quando è venuto buio la corriera si è messa in moto e siamo andati in direzione, non si sapeva allora, era Bolzano ma non lo sapevamo.

Ha fatto la Gardesana Orientale e sulla Gardesana l’autista ha accusato un guasto ai freni e ha rallentato sensibilmente allora la corriera è stata fermata, è seguita una discussione molto animata coi tedeschi, con la scorta e poi il gruppo ha ripreso, le altre corriere sono partite speditamente, la nostra è rimasta staccata in fondo.

Dimenticavo che prima di partire erano salite delle guardie nazionali repubblicane di presidio davanti alla motrice e passando sopra le nostre teste hanno preso posto negli ultimi posti riservati a loro in fondo alla corriera.

La corriera era bloccata, le luci spente, si viaggiava al buio per paura degli attacchi aerei e i mezzi, le macchine, i pullman avevano le luci schermate e c’era una piccola fessura dove passava quel tanto di luce per potere vedere la strada. L’autista d’accordo con Giulio Perri, perché Perri stando in infermeria aveva potuto parlare con membri esterni del Comitato di Liberazione e organizzare questa fuga; facendo dei segnali, diceva che si poteva scappare, aveva detto che la scala della motrice che portava sopra, alla corriera, era sul lato destro, allora loro han tagliato, Perri ha avuto un bisturi della suora dell’infermeria e una spilla da balia, ha tagliato il soffietto e uno alla volta si son gettati giù.

Bonzanini m’ ha detto che la ruota è passata a quattro dita, perché buttandosi giù è caduto sulla strada e la ruota è passata a quattro dita dal suo corpo e poi è rotolato in una cunetta e però dietro dice che c’era ancora un autoblindo. Naturalmente la strada era sterrata e passando la corriera ha sollevato un gran polverone e lui se l’è cavata e poi è scappata, tutti e cinque sono riusciti a fuggire, nessuno si è trovato con l’altro.

E dice che nel punto dove lui è caduto, poco più avanti, ha visto le luci di un posto di blocco, comunque sono rientrati tutti e noi, poi è venuto giorno e non c’è stata più possibilità di fuga. Siamo arrivati a Bolzano alle 14 del pomeriggio e ci hanno portati in una zona del cortile recintata e il maresciallo Haage ha proceduto all’appello della nostra corriera.

Il primo nome era Bonzanini e Bonzanini non c’era più e lui continuava a chiamare Bonzanini e poi chiamò Bozzini, ero il secondo e ho fatto un passo avanti ma lui tornò a chiamare Bonzanini a allora io rientrai poi chiamò nuovamente Bonzanini allora io mi sono spazientito e ho detto quel poco tedesco che sapevo: …”Luigi Bozzini” e allora lui m’ ha fatto segno di spostarmi dall’altra parte del cortile, del recinto e poi continuò con l’elenco e man mano venivano fuori quelli che mancavano.

Dopodiché ci hanno rinchiuso nel blocco H. Il blocco era vuoto e c’erano dei castelli a tre piani, a tre livelli e ammassati lungo le pareti del capannone e una parte in centro.

La porta venne chiusa e noi prendemmo posto e spenta la luce prendemmo posto nei castelli, senza coperte, senza pagliericcio, senza niente.

Il mattino seguente sono arrivati altri viaggi di prigionieri e ormai in questo blocco eravamo in 400, c’ erano anche gli ebrei.

D: Nel Blocco H?

R: Nel Blocco H sì, ci mandarono nel magazzino, ci tolsero i nostri abiti civili e ci diedero delle divise militari grigio-verde di vari eserciti e a me toccò una divisa di tela grezza degli avieri italiani, era una divisa estiva di fatica degli avieri italiani. Mi diedero il numero di matricola con il triangolo rosso, il mio era 9695, un paio di zoccoli di legno, una bustina militare, un bicchiere di bachelite e un cucchiaio, mancavano le gavette, non ce n’erano per tutti.

Quindi quando c’era la distribuzione del caffè al mattino o del brodo a mezzogiorno, e del brodo alla sera, con un panino, dovevo cercare qualcuno che aveva la gavetta e che era disposto a mangiare con me. Una sera ci trovammo in 4 a mangiare nella stessa gavetta e devo dire che è stata una cena bellissima che ricorderò sempre, perché ognuno intingeva il proprio cucchiaio nel brodo, e prendeva quel tanto che gli bastava senza cercare di approfittarne.

D: E questo è durato fino a quando lì a Bolzano?

R: Ecco io ho capito, dopo quando son tornato e ho visto i racconti di quelli che ci hanno preceduto, la razione allora era più abbondante e gli davano anche un po’ di margarina e qualche volta della marmellata ma lì eravamo alla fine, eran proprio gli sgoccioli.

E ho capito che perdevamo un po’ le forze e ho capito che ci avrebbero eliminato molto presto e poi se ci mandavano in Germania la cosa sarebbe stata triste.

Avevo conservato la carta d’identità, l’ avevo nascosta perché essendo del ’27 in caso di fuga, se fossi stato fermato, non avevo obblighi di leva e quindi non ero perseguibile.

Solo che c’erano delle squadre che uscivano al lavoro regolarmente tutte le mattine e anche noi che non eravamo inquadrati in queste squadre ci mandavano nel magazzino posto vicino al campo per operazioni di carico e scarico, oppure in città a caricare del materiale, anche delle munizioni, erano magazzini nascosti nella città.

Allora andai dal capo blocco che era un prigioniero come noi, che teneva l’elenco dei prigionieri e dissi che io volevo uscire per il lavoro perché volevo scappare, e mi mandarono a fare diversi servizi fuori. La prima volta alla Villa Stravinsky, mi sembra di ricordare, che praticamente era una casermetta delle SS, a fare un lavoro di scavo.

Poi, altre volte, mi mandarono sulle colline, dove avevano tagliato un bosco e dovevamo raccogliere i rami in fascine, non avevamo attrezzi, con le mani dovevamo arrangiarci. Un giorno poi fui spostato in un’altra squadra e proprio quel giorno lì, due toscani, due giovani toscani hanno tentato la fuga. Quando la guardia se ne è accorta, radunarono gli altri prigionieri in un anfratto, sotto una roccia, perché il terreno era molto accidentato e l’altro andò a cercare i prigionieri, si trovò faccia a faccia con uno di questi, quello per difendersi imbracciò l’arma e lui sparò e lo uccise.

Alla sera l’ hanno gettato nella piazza dell’appello, per terra, a dimostrare che scappare era pericoloso.

Poi sono andato, mi hanno mandato alla caserma dell’artiglieria di Bolzano dove ero in aiuto a un muratore civile, doveva confezionare la calce, pulire dei mattoni e portarli al primo piano dove facevano dei tavolati perché una camerata veniva divisa in tante celle, poi veniva chiusa la finestra e in alto si mettevano delle inferriate.

Quando bisognava posizionare questi ferri, il muratore si spostava e i ferri li mettevamo noi, li mettevamo in modo che se uno se ne accorgeva, in sommità, sull’alti trave, entrava quel tanto della calce, poteva essere piegato e quindi poteva scappare.

Questo muratore qualche volta mi portava un uovo, un uovo crudo che noi bevevamo, andavo lì con un certo Bolzanini di Lungavilla, un partigiano di Lungavilla.

Poi sono stato mandato in una fabbrichetta in costruzione, sempre lavori di manovalanza e lì alla caserma avevamo la possibilità di acquistare del castagnaccio; veniva un tizio dietro il reticolato e ci vendeva questo castagnaccio.

Ne mangiavamo e io ne portavo un po’ ai miei compagni del campo. Alla sera rientrando, il nostro blocco era completamente vuoto; erano stati spostati tutti in un campo, in un altro blocco che era isolato dalla recinzione, il cortile era isolato dalla recinzione perché quelli erano pronti alla spedizione in Germania e io fui spostato al blocco G con Bonzanini e altri.

D: Come pagavate il castagnaccio?

R: Con i soldi che ci aveva dato la suora, con i soldi che ci aveva dato la suora e con i pochi soldi che avevo io, nel portafoglio quando mi hanno arrestato avevo delle am lire, non erano una gran cifra ma qualcosina c’era.

D: Mentre tu eri a Bolzano, hai potuto comunicare con casa. Scrivere o ricevere?

R: Dunque, quando tornavamo dalla caserma, qualche volta se le guardie erano brave perché le guardie fuori non erano le SS erano della Wermacht. Andavamo allo stabilimento Lancia, che era sulla strada.

Noi eravamo a Gries e la caserma dell’artiglieria era sì alla periferia ma dovevamo passare tangenzialmente al centro di Bolzano, dalle parti della stazione penso, so che percorrevamo un grande viale.

Andavamo alla Lancia dove rientrando dopo le cinque c’era sempre il rancio, una minestra pronta, che mangiavamo. Noi andavamo fuori sempre con la gavetta, dopo abbiamo avuto la gavetta perché a mezzogiorno ci portavano il brodo dal campo di concentramento e la mangiavano anche le guardie perché avevano fame anche loro.

E lì in quell’occasione c’erano degli uomini e anche delle impiegate che venivano, ci chiedevano di dove eravamo, l’indirizzo e dove eravamo nel campo di concentramento.

Io ho dato in due o tre occasioni il mio indirizzo però non ho mai ricevuto posta, i miei avevano saputo che ero a Bolzano, hanno dato a un taxista che doveva venire a Bolzano dei pacchi ma io non ho mai ricevuto niente.

D: Ecco tu nel campo di Bolzano fino a quando sei rimasto?

R: Dunque nel campo di Bolzano sono rimasto fino alla fine di marzo perché i miei compagni che erano stati rinchiusi nel blocco, pronti per la spedizione, sono stati portati sul treno, pronti per la spedizioni, sarà stato un venerdì, o un sabato ma ricordo che la domenica, dalle dei del mattina alla sera, passarono sul cielo di Bolzano formazioni di bombardieri di 18 o 36, erano sempre o 18 o 36 le formazioni, a pochi intervalli l’uno dall’altro.

E si sentivano a distanza, a volte, gli scoppi delle bombe. Hanno bombardato, distrutto la ferrovia, il treno non è più partito e miei compagni sono potuti rientrare in campo. Allora è sorta la necessità di creare dei campi ausiliari perché Bolzano era sovraffollato ormai.

E io fui mandato, anche con altri di quelli che erano stati sul treno, in Val Sarentino, dove c’era un campo con baracche di legno allestite nel greto del torrente Talvera, circondato con filo spinato e torrette e con mitragliatrici.

E al mattino dovevamo salire la strada e raggiungere le gallerie dove c’erano queste macchine che dovevamo scaricare dai camion, a volte, oppure prendere dalle piazzole e portarle sotto le gallerie, la galleria, metà era destinata al transito, l’altra metà avevano fatto dei piani di calcestruzzo dove venivano posizionate queste macchine.

Poi arrivavano dei carri, degli autocarri con lingotti di piombo e fasce di lamiere di ottone perché volevano far una fabbrica di munizioni.

Abbiamo scaricato un maglio, a mano, unto di grasso, qualcuno c’ha lasciato sotto un piede, una volta è arrivato un SILO dalla Germania, un SILO metallico e dietro questo trasporto c’erano due prigionieri politici, stranieri, e uno di questi, lo dico nel mio racconto, si è avvicinato a me, forse perché ero il più giovane della squadra.

Noi lavoravamo in squadre di 15 elementi e ha estratto dalla tasca una scatola di sigarette e mi ha offerto delle piccole patate, quelle che si spigolano… ma io ho fatto capire che non potevo accettare perché non avevo niente da potergli offrire per ricambiare, lui ha insistito, io ho preso due patatine e me le sono mangiate, allora lui ha sorriso e ci siamo abbracciati, doveva essere un ungherese, un polacco, non ho capito anche perché non c’era molto tempo per scambiarci delle parole, la guardia che ci sorvegliava, ci esortava a lavorare.

D: Luigi scusa, come te lo ricordi tu il campo di Sarentino, della Val Sarentino?

R: Dunque lo dico nella mia memoria, in un primo tempo ci hanno ospitato in un campo che era fatto di baracche di legno prefabbricate, costruite abbastanza bene e sul tetto c’era il simbolo della croce rossa, per gli aerei, che avvertivano che era un campo di prigionia. Dopo una settimana, neanche, fummo trasferiti più a monte, qualche chilometro.

Abbiamo preso il nostro pagliericcio con la paglia, questa volta avevamo il pagliericcio, e la nostra coperta e scortati dalle SS abbiamo preso posto nel nuovo campo. Lì, il capo del campo era un maresciallo della Wermacht però ai suoi ordini aveva le SS.

C’era un brigadiere delle SS e poi dei soldati e sulle torrette c’erano tutte le SS, però era una persona abbastanza umana e lo si è capito subito perché quando ha fatto le consegne c’era un altro maresciallo delle SS che doveva essere Titho e c’era un interprete, prigioniero, belga e aveva tenuto un atteggiamento non ostile e il maresciallo, io dico Titho, penso che sia stato lui, lo voleva punire, allora il maresciallo si è opposto, ha detto: “Ormai hai fatto le consegne, sono io il comandante del campo, se è da punire lo punisco io”.

E quello là non ha avuto più niente da fare, m’ ha salvato praticamente.

D: Ecco, ma c’erano molte baracche?

R: Adesso non ricordo il numero, erano baracche dislocate, il terreno era coltivato con le piante di melo, erano mimetizzate sotto questo campo di melo.

D: E come deportati eravate tanti?

R: Saremmo stati un centinaio, 150.

D: E tutti impegnati a scaricare camion?

R: Tutti sulla strada, ma poi, quando sono stato al Congresso a Mauthausen, ho conosciuto un compagno di prigionia attraverso il numero di matricola perché io l’avevo e me lo sono portato, lui l’aveva ormai smarrito ma ricordava il numero e diceva: “C’ero anch’io a Bolzano in quel periodo lì e son stato mandato anch’io a Sarentino”.

Però lui doveva fare l’aiuto del muratore da qualche parte e quindi non veniva nelle gallerie.

D: Ascolta un attimo; tu parlavi di macchine che scaricavate e avevi detto che avevate anche una macchina dalla Germania?

R: Un silo

D: Un silo, le altre invece, il maglio per esempio?

R: Venivano da Torino, da Bologna e da Milano

D: Ecco, come fai a sapere queste cose?

R: Sulle macchine c’erano delle etichette e poi mentre noi le mettevamo su un carro di ferro, la strada era sterrata, il carro aveva delle ruote che avranno avuto 20 centimetri di diametro quindi dovevamo trascinare questi carri in salita con dei fili di ferro e delle sbarre di legno perché come i buoi, a due a due spingevamo il carro fin sotto le gallerie.

Le guardie erano lì però appena giravano l’occhio noi svitavamo un bullone, un volantino o qualcosa che finiva giù dal burrone.

La strada era a mezza costa, c’era la roccia a monte e un precipizio a valle, quindi prima di metterla in funzione ci sarebbero stati dei problemi.

D: Sabotaggio?

R: Sabotaggio

D: E non hanno mai preso nessuno?

R: No

D: Ascolta, lì quando vi hanno portato in Val Sarentino, vi han portato su…

R: A piedi, dal campo di Bolzano a Sarentino, abbiamo attraversato la città per vie secondarie, per delle viette.

D: E siete arrivati in Val Sarentino a piedi?

R: Sì.

D: Ti ricordi qualche particolare del paesaggio, non so la presenza di un castello?

R: Sì, castello Ronco, appena all’imbocco della valle c’è il castello Ronco e anzi una domenica ci hanno fatto scaricare un rimorchio di cemento e abbiamo dovuto portarlo sul al castello per il sentiero nel bosco.

Al mio compagno che stava sul camion, gli ho detto di pulirlo bene prima perché alcuni sacchi si erano rotti e c’era cemento dappertutto e me l’ ha messo bene sulla schiena. Allora, tenendolo e con l’altra mano sotto e salendo tutto curvo, l’ ho portato intatto fin al castello.

D: Ma questo dalla Val Sarentino?

R: Sì, in Val Sarentino

D: Quindi vuol dire che il campo in Val Sarentino era vicino al Castello Ronco?

R: No, siamo andati più giù sulla strada dove c’era il camion e l’abbiamo portato sopra.

D: Ma vicino al campo cosa c’era? C’erano delle case?

R: No, non c’era niente, oltre il Talvera, dall’altra parte del Talvera c’era una batteria contraerea, tedesca, dove c’erano anche dei serventi italiani, che vestivano la mia divisa di tela grezza.

D: Ascolta, quindi di abitazioni non ce ne erano?

R: No, c’erano dei masi alti ma non abitazioni lì vicino. C’era una casa poco più avanti, una villetta poco sopra.

D: E quindi c’era questa galleria qui

R: No, erano 25 le gallerie sulla strada. Poi io sono tornato in Val Sarentino, sono stato una decina di anni fa, forse quindici anni fa e ho visto che hanno fatto delle variazioni della strada, hanno fatto delle opere, dei viadotti e nuove gallerie perché la strada era molto impervia in mezzo a questa zona e hanno eliminato forse delle vecchie gallerie e hanno fatto una rettifica del vecchio tracciato stradale.

D: Sei riuscito però a individuare più o meno il luogo del campo?

R: No, non mi sono fermato lungo la strada, sono arrivato al paese, anche perché c’è stato un episodio.

Noi lavoravamo in una galleria vicino alla piazzola, un magazzino stradale e lì c’era una baracca in legno dove facevano servizio dei giovani della territoriale, di presidio a tutto il materiale, ce n’era prima, c’ era dopo e c’era a metà.

Un giorno, un ragazzo di questi qui mentre noi prendevamo posto sulla piazzola dove poi ci veniva distribuito il nostro brodo dal campo, mi ha offerto con un piatto.

Mi ha detto se volevo mangiare della pastina che avevano sbagliato la quantità di sale, il nostro brodo era assolutamente senza sale e la cosa mi ha un po’ ingolosito e allora ho assaggiato ma ci aveva orinato dentro, non era sale in eccesso allora ho ringraziato e ho rifiutato senza imprecare.

Il giorno successivo, a mezzogiorno è arrivata una guardia della territoriale, un uomo che avrà avuto cinquant’anni, è venuto a cercarmi sotto la galleria e in quel momento lì c’era una guardia che era abbastanza brava, era un viennese, doveva essere un musicista, un violinista e quando c’era aria chiara diceva: ” Non lavorate, passeggiate”; appena sbucava qualcuno si metteva ad urlare. Allora questo qui è venuto lì, mi ha chiamato e dallo zaino ha tirato fuori 15 focaccette, noi eravamo in 15, quindi ci hanno contato, con dentro una pressata di uva e allora sono andato sulla piazzola e abbiamo fatto una per ciascuno.

D: Ho capito, ascolta, lì a lavorare per posizionare queste macchine, macchine utensili, lavoravate durante il giorno e basta?

R: Sì, sì avevamo dei paranchi, paranco è un cavalletto di metallo, è un aggeggio con due catene, una che solleva il peso e un’altra catena che fa da frizione, che gira dei denti e moltiplica lo sforzo.

Quindi giravamo quelle catenelle lì, veloce e il peso che era imbragato si alzava, lo mettevamo sul carro e poi lo portavamo sotto la galleria e lì l’operazione inversa, si metteva sul piano

D: Ecco, lavoravate, dicevi, nell’arco della giornata, di sera dentro nel campo?

R: Tornavamo in campo

D: L’appello?

R: Sì, sì sempre l’appello al mattino e alla sera, anzi l’appello lì, veniva fatto dentro la baracca, ognuno si posizionava davanti al proprio castello a tre piani e veniva un SS a contarci. Di notte succedeva che si apriva la porta con un calcio, accendevano la luce, perché toglievano la luce di notte e ci comandavano per qualche servizio, a volte pioveva a dirotto, un temporale, e così, fuori a caricare la legna, scaricare la legna.

Io ero vicino a Pisani Renzo che era un partigiano della Brigata Giustizia e Libertà ed era di Casteggio e questo qui mi svegliava, io dormivo sodo, non sentivo il calcio alla porta, non sentivo niente, mi svegliava ed eravamo all’ultimo piano, al terzo piano in cima allora ritiravamo i piedi e le coperte e il tedesco metteva la mano, sentiva vuoto, quelli sotto poverini erano sempre alle prese e noi l’abbiamo sempre scampata.

Ognuno cercava di salvarsi come poteva, tra l’altro aveva ricevuto un piccolo pacco, con dentro un pezzo di lardo, l’unica cosa che era rimasta era un pezzo di lardo.

Allora abbiamo scoperto che puntando i piedi sul soffitto che era fatto di pannelli di faesite, si alzava, e al centro della baracca c’era come una trave fatta di tavole, un cunicolo insomma e noi mettevamo lì il pacco, quando toglievano la luce, mi dava una spinta, io puntavo i piedi e con una lima di ferro ormai consumata avevamo fatto dei coltelli, lui tagliava questa fettina di lardo, me la passava e masticava e come sentivano la carta qualcuno diceva: “Mangiano, mangiano”.

D: Ascolti, lì lavoravate sette giorni su sette?

R: No, la domenica eravamo fermi.

D: E cosa facevate?

R: Niente, giravamo per il campo liberamente, non potevamo uscire di sera dalla baracca, anche se avevamo necessità fisiologiche, perché quando era la pipì, aprivano la porta e fuori, usavano la gavetta, sì, sì, per non sporcar la baracca.

D: Ascolta…

R: Perché poi, i servizi, c’era un ramo del Talvera e sopra questo ramo avevano fatto un ponte, coperto, in legno ma fatto bene e dove c’era un vuoto al centro e due panchine laterali e ci sedavamo lì e il bisogno era lì.

Una mattina mi sono sentito male, ho vomitato, dopo aver bevuto il caffè ho vomitato perché non ci davano più il pane ma ci davano delle gallette. Dei crackers integrali che mettevano acidità e bruciore di stomaco era una cosa normale, c’era sempre, i crampi allo stomaco, i bruciori c’erano sempre.

Quella mattina lì ho vomitato e allora c’era un prigioniero che fungeva da medico che mi ha detto, “Bene, stai a casa”. Per mia sfortuna quel giorno lì avevano marcato visita sei o sette prigionieri e allora è venuto il capo campo con il brigadiere e il medico a guardarci e loro hanno detto che era sabotaggio e allora ci hanno mandato a recuperare la giornata la domenica, un lavoro inutile perché mi hanno mandato con un camion su in alta montagna, un freddo della miseria, a caricare delle pietre che poi è andato a scaricare.

D: Scusa una cosa, eravate solo politici?

R: Sì solo politici.

D: Donne non ce ne erano?

R: No, a Bolzano sì, c’era una zona delle donne.

D: No, lì in Val Sarentino.

R: In Val Sarentino solo uomini e solo politici ed ebrei.

D: E la liberazione come te la ricordi?

R: La liberazione è venuta la notte tra il 28 e il 29 di aprile. C’è stata un’incursione area.

Hanno lanciato dei bengala, hanno illuminato la valle a giorno e poi i cacciabombardieri hanno mitragliato e spezzonato, l’indomani non siamo usciti per il lavoro.

C’era una strana atmosfera di quiete e ci chiedevamo cosa poteva essere, c’erano ancora le guardie sulle torrette ma le guardie trentine, i ragazzi di leva della zona di Trento e di Bolzano erano inquadrati nell’esercito tedesco però avevano una divisa tedesca con un colore con un panno leggermente azzurrato e sull’elmetto portavano lo scudo con i tre colori, bianco, rosso e verde.

Questi qui avevano disertato, non c’erano più e verso mezzogiorno è venuto un comandante che aveva una divisa marrone, ci ha fatto cenno di portarci vicino al cancello e ha detto che eravamo liberi di rientrare alle nostre case perché praticamente la guerra era finita, ci ringraziava per la collaborazione e ci ha esortato di passare dal campo di Bolzano a prendere il foglio di licenziamento. Potevamo prendere tutto quel che volevamo.

Allora io e Pisano abbiamo raccolto le coperte e con il pagliericcio abbiamo fatto uno zaino e poi ci siamo incamminati, siamo andati in quella villa dove una donna ci ha dato la polenta, ha fatto la polenta e c’erano dei tedeschi che stavano facendo il ragù.

Noi abbiamo mangiato la polenta a piombo ma non mi sono abbassato a chiedere un cucchiaio di ragù al tedesco.

D: E sei arrivato a Bolzano a piedi?

R: Siamo arrivati a Bolzano a piedi passando vicino al campo più a valle, era distrutto.

Il bombardamento c’era stato perché qualcuno aveva segnalato che quello lì non era un campo ma c’era il comando tedesco per la fabbrica delle armi leggere.

D: Ecco scusa, tutte le macchine che voi avete scaricato sono poi mai entrate in funzione?

R: Ma non credo proprio, no, no, non ha avuto tempo.

D: Ecco, e sei arrivato a Bolzano.

R: Siamo arrivati a Bolzano e siamo andati prima in duomo e il caso vuole che lì c’era il canonico Piola che era l’assistente del campo di concentramento.

Questo canonico veniva la domenica a Bolzano a celebrare la messa.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo. Metteva un tavolo e lì celebrava la messa.

D: Ma all’interno o all’esterno?

R: Nel cortile, nel cortile.

D: Nella piazza dell’appello diciamo…

R: Sì, nella piazza dell’appello o nell’altro cortile perché il campo erano due capannoni e poi in centro c’era una baracca di legno dove inizialmente c’era la mensa dei tedeschi poi c’era la cambusa, poi c’era la doccia.

Qualche volta, quando avanzavano l’acqua, invitavano qualcuno a fare la doccia, io ci sono andato un paio di volte. Era una doccia collettiva, allora prima cosa alzavamo dei graticciati di legno e sotto trovavamo scaglie di sapone perché noi di sapone non ne avevamo e usavamo quelle scaglie di sapone per pulirci alla meglio insomma. Quando finiva l’acqua calda scappavamo fuori.

D: E lui veniva ogni domenica?

R: A celebrare la messa sì.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo.

D: E potevano partecipare tutti i deportati?

R: Quelli che volevano e c’era un tenore ebreo, bravissimo, dicevano che aveva cantato anche alla Scala, che cantava l’Ave Maria di Gunot, non quella di Schubert, Gunot, e cantava molto bene, benissimo.

D: Ecco, allora siete andati in duomo.

R: Siam andati in duomo e il sacrestano ha chiamato questo sacerdote e noi lo abbiamo ringraziato perché a Pasqua ci aveva fatto avere un pacco a tutti i prigionieri, era un pacco così, c’era dentro poco, anche perché forse aveva raccolto tra la popolazione. Ma tutti avevano dei problemi d’alimentazione, d’approvvigionamento e quindi questa gente aveva messo quello che aveva potuto. E allora ci ha ritirato un momento e poi ci ha portato una galletta bianca, di farina bianca e una scatoletta di carne Simmenthal per ciascuno che noi abbiamo messo in serbo per il viaggio.

E poi, proseguendo nel nostro cammino, siamo arrivati a una cascina, lì, proprio dentro Bolzano, una zona un po’ agricola e abbiamo trovato un tizio che ci ha detto: “Se state qui vi do da mangiare stasera”. Nel cortile infatti, ci ha portato fuori un piatto, in piedi in mezzo al cortile con una braciola di maiale, senza pane né niente e poi lì vicino c’era un capannone dove c’era un magazzino e voleva che noi prendessimo delle scarpe.

Erano le scarpe dei militari italiani ma noi abbiamo rifiutato perché se i tedeschi ci trovavano con le scarpe nuove avrebbero detto che le avevamo rubate e magari ci avrebbero fucilato.

Però non siamo andati in campo quella sera lì, volevamo star fuori e saremmo andati l’indomani mattina, lui ci ha detto che se volevamo dormire potevamo dormire nella cascina, nel fienile e così abbiamo fatto, abbiamo dormito nel fienile.

Poi al mattino Pisani mi ha svegliato perché nel fienile c’erano i prigionieri che rientravano dalla Germania o quelli di Sarentino ma c’erano anche i fascisti che scappavano e già erano sorte delle discussioni, solo che i fascisti erano armati e allora lui m’ha svegliato e ha detto: “Luigi andiamo, andiamo perché qui si mette male” e siamo scesi e ci siamo avviati verso il campo.

Durante la strada abbiamo trovato Colomia che era uno di quelli addetti alla disciplina, quello che bastonava quando uscivamo dalla baracca.

Ci ha fermati subito: “Voi da dove venite?” “Noi veniamo dal Sarentino” e allora ci ha lasciati andare e lui scappava con una bici nuova di zecca e uno zaino sulla canna, era a piedi, ricolmo di roba che portava via dal campo.

D: Voi andavate in giro con la divisa?

R: Sì, sì.

D: E col numero?

R: Col numero, sì, sì; non avevamo altri abiti.

D: Siete arrivati nel campo…

R: Siamo arrivati nel campo e siamo entrati, lì davanti all’ufficio matricola, c’era un gruppo di prigionieri che aspettava di ritirare il foglio e allora noi ci siamo accodati.

E in quel mentre lì è arrivato il maresciallo Haage e ha chiesto agli altri: “Voi perché siete qui?” E loro hanno detto: “Noi siamo quelli che hanno scaricato la legna questa notte sotto il temporale”. Erano tutti bagnati, zuppi e a noi non ha detto niente, noi ci siamo infilati, ci siamo messi in fila, ci hanni dato questo foglio di via.

Il foglio era già prefirmato e datato, aveva la data del giorno prima, lo utilizzavano ugualmente.

Dovevamo dare le generalità e a me ha chiesto: “E la carta d’identità?” “L’ ho persa” gli ho detto io, l’avevo in tasca e poi ha scritto il mio nome, me l’ha sbagliato perché ha messo una zeta sola, lasciando lo spazio, forse l’ha fatto di proposito, allora gli ho fatto aggiungere a mano una zeta, “Io sono Bozzini, con lì due zeta”.

C’era lì una donna che non riusciva ad avere il foglio di licenziamento, era vestita di stracci, era una donna di mezza età, molto debilitata e io ho cercato di aiutarla e non riusciva a dire il suo nome, le sue generalità, piangendo così, non si capiva, forse era anche straniera, non lo so, purtroppo è entrata una guardia, perché ormai il camion era pronto per partire, è entrato una SS urlando di far presto e non abbiamo potuto far niente e l’abbiamo lasciata così.

D: Quindi vi hanno messo su un camion dopo?

R: Ci hanno messo su un camion da rimorchio, ci hanno portato fuori da Bolzano un dieci chilometri e ci hanno detto di non tornare a Bolzano ma di andar giù perché temevano una rappresaglia, se tornavamo ci facevano fuori.

D: E sei arrivato a casa quando?

R: Il 6 maggio. Ho fatto in tempo nella piazza del duomo di Milano a vedere la sfilata, era una domenica e sfilava il Comitato di Liberazione Nazionale, in testa.

Minarelli Atos

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Minarelli Atos, nato il 19.2.1923 a Vigarano Mainardo in provincia di Ferrara.

Sono stato arrestato il 15 dicembre 1944 nelle Langhe in Piemonte come partigiano. Avevo una squadra a mia disposizione. Mi ero fermato in una cascina per prendere dell’acqua perché eravamo in ritirata, ci dovevamo ritirare sulle montagne. Mi sono accorto che la mia compagnia era andata avanti, io mi ero fermato in quella cascina per prendere dell’acqua.

Mi sono visto tutto in una volta circondato dagli arditi del Duce che avevano una testa da morto sul berretto. Io potevo difendermi, ma non ho potuto perché in quella famiglia c’erano quattro/cinque donne, cinque o sei bambini, si sono messi a piangere.

Io sapevo che se avessi reagito loro avrebbero distrutto la famiglia e allora mi sono dato prigioniero. Ho consegnato le armi, mi sono dato prigioniero. Dopo lì ne hanno feriti altri sette o otto in quel combattimento in quel momento.

Dopo tutti quei feriti li hanno caricati su un camion con due mucche, li hanno trasportati in un piccolo paese in provincia di Cuneo eravamo, non mi ricordo bene il paese come si chiamasse.

Quei piccoli feriti che si lamentavano su quel carro… Loro dicevano: Senti i tuoi amici come cantano bene”, mi prendevano anche in giro. Arrivati a quel paese c’era un certo Boni, un boxeur, Massimo e allora per dare spettacolo alla compagnia mi ha preso fuori e poi ha cominciato a darmi dei pugni nella faccia, dappertutto, mi ha spaccato tutta la faccia. La compagnia che rideva al mio spettacolo.

Poi dopo ci hanno messi in una piccola stanza, la sera ci hanno comandati alla morte, hanno fatto dei verbali, che ci avevano presi armati e condannati a morte. Eravamo andati in un paesino in provincia di Cuneo, dovevamo essere fucilati di mattino alle sette.

Lì ho trovato due o tre miei paesani anche. Ce n’era uno di Cento, un certo Fiorino del battaglione Mussolini che io volevo che facesse sapere qualcosa alla mia famiglia, invece lui aveva soddisfazione di uccidere un suo paesano con la sua pistola stessa.

Il maggiore non gli ha dato l’ordine, dice: “Dopo fai il palo per l’esecuzione, non puoi ucciderlo da solo”. Siamo stati due ore davanti ad una piccola chiesetta, picchiati, torturati. Infine è arrivato verso le undici, è arrivato un camion di tedeschi. Io credevo che fosse la fine. Me l’aspettavo la fine.

Invece ci hanno portato in un paese che si chiamava Canelli in provincia di Asti che era stato occupato da loro, prima eravamo lì noi. Lì la notte ci hanno ammanettati, caricati su un camion, ci hanno portato alle carceri Nuove di Torino.

Alle Nuove di Torino dopo cinque giorni, tutte le mattine una battutina ci davano, dopo cinque giorni una notte ci siamo cambiati i numeri, il mio numero era 777, dopo mezzanotte, si aveva paura, ci hanno messo lì soltanto per ostaggio, se c’erano dei morti venivamo fucilati. Pensavo fosse la fine.

Invece siamo andati nel salone, c’erano delle suore, ci hanno dato delle sardine, ci hanno caricato su due corriere e ci hanno portato a Bolzano.

Dalla mattina siamo arrivati a Bolzano verso le cinque di sera, era già buio. Arrivati a Bolzano…

D: Scusa, Atos, quando questo, ti ricordi quando?

R: Il 22 dicembre.

D: E ti hanno portato a Bolzano, vi hanno portato con degli autobus?

R: Sì. Con due autobus. Da una parte eravamo ammanettati, quelli che erano segnati in rosso, col triangolo rosso. Invece gli altri erano liberi, anzi si sono fermati, avevamo avuto un bombardamento, invece noi eravamo legati là, sono fuggiti, ma noi eravamo fermi là.

Dopo arrivato a Bolzano il 22 dicembre alla sera, ci hanno tagliato i capelli, ci hanno mandato nelle baracche. Prima di noi erano arrivati quelli di Bologna, che venivano dalle carceri di Bologna quel giorno.

Il giorno dopo ho trovato degli amici, c’era il mio capo Costa qui di Bologna, c’erano degli amici di Milano che conoscevo da qui perché eravamo un po’ parenti, erano del mio paese.

Dopo tre giorni ho fatto la mano ad andare fuori a lavorare perché c’era un Laimi di Ferrara. Io speravo di andare a lavorare nella Imi di Ferrara perché lì avevo degli amici. Invece mi hanno mandato a fare il manovale, a chiudere una caserma. Portavo su dei massi di pietra che chiudevano la finestra per fare una prigione. Era una caserma militare. Lì a Bolzano, sempre vicino Bolzano, andavamo a piedi alla mattina e tornavamo alla sera.

D: Ti hanno immatricolato a Bolzano?

R: Sì, 777 come eravamo là nelle carceri di Torino, portavo lo stesso numero. Ci hanno dato una tuta di tela, poi ci hanno mandato fuori a lavorare.

D: Ti ricordi il numero o la lettera del tuo blocco di Bolzano?

R: Non mi ricordo bene perché era dentro subito lì dietro, adesso il blocco non me lo ricordo più. Davanti nel cortile c’era il blocco E dove c’erano le donne. Noi eravamo dietro, la casermetta, il numero non me lo ricordo.

D: E lì a Bolzano hai fatto solo quel lavoro lì di manovale?

R: Solo quel lavoro lì.

D: E sei rimasto fino a quando a Bolzano?

R: Fino alla partenza per Mauthausen.

D: Cioè quando è avvenuta la partenza?

R: E’ arrivata l’8 gennaio, siamo arrivati l’11 gennaio a Mauthausen. Siamo partiti l’8 gennaio.

D: E hanno chiamato tutto il tuo gruppo?

R: No, io avevo chiesto di andar fuori a lavorare il mattino perché sapevo della partenza. Allora il mio capogruppo era Costa qua di Bologna, l’avvocato Costa. Ho fatto chiedere al capo campo se potevo andare fuori a lavorare, chissà che mi scansa la partenza, ho tentato di scansare la partenza.

Infatti, mi hanno mandato fuori a lavorare. Hanno detto alle due partono, erano già le cinque, ero già contento, alle cinque rientravo, sono già partiti, mi sono salvato la partenza.

Invece mancavano dieci minuti alle cinque, si è fermato un camion lì davanti dove lavoravo, hanno chiamato il mio numero. “Sali sul camion”. “Dove mi portate?” “Ti portiamo alla caserma lì al campo che ti prendiamo la tuta e poi ti portiamo in stazione”.

C’era un tedesco, gli ho chiesto dove mi portavano. “Qui vicino, qui in Austria a Mauthausen ti portiamo”. Io non sapevo cosa voleva dire Mauthausen in quel momento. “Ti portiamo qui vicino a Mauthausen”.

Mi hanno portato in caserma, mi hanno preso la tuta. Io avevo un paio di pantaloni e una maglietta. L’avevo messo su alla braga perché era piena di pidocchi, era nevicato, era sotto la neve. “Io sono nudo”. “Via, fuori nudo come sei”. Allora son corso a prendere i miei pantaloni di tela, le mie magliettine.

D: Allora, sono venuti a prenderti mentre tu eri a lavorare?

R: Ero a lavorare. Mi hanno caricato in fretta, ci hanno portato al campo, ci hanno preso la divisa e poi ci hanno caricato di nuovo e ci hanno portato in stazione. Non era ancora partita la tradotta, ne mancava ancora otto o dieci, ci sono venuti a prendere sul lavoro.

Verso le cinque e mezzo, le sei di sera siamo partiti. Quando sono salito sul treno i miei amici, i miei compagni mi hanno chiesto da dove venivo, cosa facevo. “Io ero un partigiano”. “Allora sei disposto a fuggire?” “Come fuggiamo?”

C’era una dottoressa di Milano, mentre ci ha salutati ci ha messo due scalpelli e martelli in segno dei milanesi. Avevamo uno scalpello e un martello; abbiamo tentato di aprire un buco lì vicino a dove si poteva aprire il vagone.

Abbiamo cominciato a lavorare. Prima di arrivare al Brennero dovevamo rompere il buco. Infatti, abbiamo fatto questo. Una parte cantava, una parte bucava, ma su con noi nel vagone c’erano due slavi.

Un bel momento siamo arrivati in una stazioncina, noi avevamo già fatto il buco, pronti come partiva ad aprire e fuggire prima che prendesse la corsa. Ma questi due slavi si sono affacciati al finestrino e hanno fatto la spia.

Io il tedesco lo capivo perché ero già stato sei mesi in Germania. Ho detto: “Ragazzi, hanno fatto la spia che abbiamo rotto il vagone”. Grandi colpi, i tedeschi urlavano di qua e di là. Sono entrati nel vagone. Io sapevo quello che facevano, mi sono buttato a terra subito, ci uccidono.

Invece un ragazzo di diciassette anni, a lui non importava niente, è andato lì, io non sono un partigiano, mandatemi indietro, mandatemi a casa. Gli hanno spaccato le ossa a forza di botte. Poi hanno voluto sapere chi stava bucando. Erano due ragazzi milanesi. Gli hanno dato tante botte col caricatore del mitra; gli hanno tutti scarnati i nervi delle braccia. “Adesso rompetele”. Ma non avevamo niente, un po’ di carta igienica, li abbiamo impaccati così e abbiamo continuato il nostro viaggio dal giorno 8 gennaio, siamo arrivati l’11 a Mauthausen. Al mattino, siamo arrivati l’11, senza mangiare, senza bere, senza niente.

Quando ci hanno fatto scendere dal vagone alla mattina presto ci hanno dato una pagnotta di pane che era tutta bagnata e due o tre sardine di sale. Ma io avevo ventuno anni e la fame c’era.

Ho spezzato la mia pagnotta sulla ferrovia perché era gelata e poi mi son messo a mangiare. Abbiamo continuato, in poco tempo l’ho mangiata. “Non mangiare, non mangiare, è tutta gelata, ti fa male. Quando saremo al campo.” La fame a ventuno anni è grande. Io mangiavo.

Poi quando abbiamo cominciato a salire il Danubio a me piaceva cantare. Lì c’era anche un vecchietto con una valigia che era il Senator… come si chiama, quello che ha fatto il libro “Si fa presto a dire fame”. Come si chiamava quel senatore lì?

D: Caleffi.

R: Caleffi, c’era il senator Caleffi, io non conoscevo questo vecchietto, aveva una valigia, gli ho dato un aiuto a portare la valigia, gli ho detto, “Cantiamo, ragazzi, cantiamo”. Lui l’ha messo anche su un libro che c’erano quegli alpini che cantavano.

Ma nessuno più ormai aveva voglia di cantare. Quando abbiamo cominciato la salita del Danubio tutti hanno smesso di cantare. Io ho portato la valigia del senator Caleffi per un pezzo fino a là.

Quando siamo arrivati dentro nel campo, ci hanno fatto fare un bel giro davanti a dove c’erano i bagni, ci hanno fatto buttare via le valigie, gli orologi, tutto quello che contenevano, tutto in terra.

Poi ci hanno messi tutti in fila per il bagno. Io ero in fondo. Tutti i miei amici: “Vai giù, vai giù”, perché pioveva. Io senza una maglietta, nudo così, mi facevano compassione gli altri. Il secondo scaglione sono fuggito giù anch’io.

Non l’avessi mai fatto perché quando sono stato là sotto, nessuno se n’era accorto. Ci hanno dato il rasoio dai capelli fino alle unghie dei piedi, tutti col rasoio così che faceva sangue. Tutti col rasoio dalla testa fino alle unghie dei piedi, tutti i peli.

Poi ci hanno dato una pennellata con della roba che bruciava e poi dopo sotto il bagno, acqua bella calda, bollente che si stava bene, poi acqua fredda e noi siamo saltati fuori, fuori, fuori.

Mentre si usciva ci davano due pezzi, un paio di mutande, una camicia, una magliettina, due pezzi, fuori, fuori, vestirsi in mezzo alla neve, fuori perché non c’era tempo da perdere. Siamo andati fuori, ci siamo vestiti un po’ lungo la scala, un po’ mentre uscivamo, un po’ fuori.

Poi abbiamo aspettato che facessero il bagno tutti gli altri, poi siamo andati nelle baracche, là fuori in mezzo alla neve, non so quanti gradi ci fossero, 12, 13, 14, 15 gradi sotto zero. Nevicava, c’era la neve in terra e poi ci hanno portato nelle baracche della quarantena.

Qui abbiamo fatto quaranta giorni di quarantena. Tutte le mattine si andava fuori a lavorare, prendevano cinque, sei, sette di qua e di là, li mandavano fuori a lavorare. Dopo tre giorni sono andato fuori a lavorare, a spalare la neve, no, a portare via dei sassi che portavano, alcuni dalla cava li portavano lì vicino, dietro noi c’era un muro con due baracche, non entrava nessuno, entravano soltanto i tedeschi, l’ufficiale tedesco, SS.

Non si sapeva cosa c’era perché lì delle mattine sono andati a portar via dei morti tutti massacrati, li portavamo davanti al forno crematorio. Ci sono andato per una mattina o due anche.

Quelle mattine lì mi portavano fuori a lavorare con quei sassi lì. Arriva uno. Io avevo un paio di mutande senza cintura, senza niente, mi cadevano sempre giù, ogni sasso mi cadevano sempre giù le mutande. Una botta, una legnata sul sedere. Arriva uno, “Dammi uno”. “Prendi questo maccherone italiano”. Ha preso questo maccherone italiano che ero io. Eravamo chiamati maccheroni noi.

“Vieni con me”. Con una carrettina a due ruote. Siamo partiti. Con una mano portavo la carretta, con l’altra mi tenevo su le mutande. Quando siamo arrivati lì, siamo andati a prendere gli abiti che erano arrivati dei borghesi, perché gli abiti dei borghesi dovevano andare in disinfezione. Siamo andati lì e quello che mi portava era uno spagnolo.

Ha cominciato a parlarmi, a chiedermi da dove venivo. Io gli ho detto che ero italiano; si capiva abbastanza bene lo spagnolo. C’era una cintura, l’ho presa subito. Lui aveva già fatto per darmi le botte. Ho detto: “Guarda, mi cadono i pantaloni”, le mutande allora mi ha lasciato prendere la cintura.

Tutti questi abiti, in quel momento c’era un carico, c’erano degli ebrei, c’erano dei bambini, delle donne e degli uomini, perché eravamo in gennaio, ad Auschwitz non potevano più entrare perché Auschwitz era già stata invasa.

Li hanno fermati lì, poi li hanno divisi, i bambini da una parte. Era una cosa che spezzava il cuore, vedere questi bambini, prenderli dalle madri, le madri che urlavano, i bambini che urlavano e loro gridavano: “Giudei, giudei”, delle botte.

Li hanno portati via. Io poi ho portato via quegli abiti, li ho portati fuori dal campo, Io ero nudo con un freddo.

Poi il giorno dopo si è fotografato il giorno prima, siamo stati fuori tutta la giornata che ci fotografavano uno per uno. Io non so il motivo, uno per uno, ci fotografavano uno per uno. Siamo stati fuori dalla mattina fino alla sera. Alle cinque, siamo rientrati alle cinque, con un freddo, ci ammucchiavamo, ci facevamo i massaggi, qualcuno sveniva in terra. Tutto il giorno così.

D: Quando ti hanno immatricolato lì a Mauthausen?

R: Quasi subito, due giorni dopo.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: Sì: 115.616.

D: E lì a Mauthausen fino a quando sei rimasto?

R: Per una ventina di giorni, venti, ventidue giorni. Qualcosa così, poi siamo andati a Gusen.

D: Quale Gusen?

R: Uno.

D: E da Mauthausen a Gusen con cosa vi hanno portato?

R: A piedi.

D: A Gusen ti ricordi il blocco dove ti hanno messo?

R: Sì.

D: Che blocco era?

R: Il blocco 40, adesso ho un poco dimenticato. Aspetta che mi ricordo…

D: Se te lo ricordi dopo. A Gusen 1 cosa facevi?

R: La Styr.

D: Lavoravi?

R:Alla Styr.

D: Ed era esterna al campo?

R: Sì, esterna, ma si andava a piedi. C’erano circa duecento metri, neanche.

D: E tu cosa facevi?

R: Facevo il tornitore e il fresatore.

D: La Styr costruiva per l’industria bellica?

R: Sì, mitragliatrici e fucili.

D: E tu eri addetto alla costruzione di armi?

R: Sì, la costruzione delle armi.

D: Ci spieghi una giornata di lavoro?

R: Sì. C’erano due turni, dalle sette di mattina alle sette di sera. O dalle sette di sera alle sette di mattina. Noi facevamo i turni. Alle sette di mattina noi uscivamo dal campo per andare al lavoro, gli altri venivano fuori dalla fabbrica e rientravano. Ci davamo il cambio lungo la strada. Si cominciava il lavoro. Mezzogiorno un mestolo di zuppa. Mezz’oretta, un mestolo di zuppa, bisognava partire di nuovo. Alle sette di sera si rientrava.

Lo stesso ci si dava il cambio lungo la scalinata, usciva il turno, noi scendevamo. Sempre così.

D: Ma le officine erano dentro in capannoni?

R: Tutte baracche di legno. C’erano tre, quattro file di macchine. Tre, quattro file di macchine ogni baracca e lavoravamo in settanta, ottanta, cento dentro ogni baracca.

D: Una volta che i pezzi erano finiti… Scusa un attimo. Stavi dicendo?

D: Ah, certo. Quando eravamo in quarantena quelle due baracche che erano dietro noi una notte s’è cominciato a sentire sparare di qua. Allora il Kapò che era spagnolo ha detto: “Guai chi si muove. Guai chi si muove”. Al mattino abbiamo preso, abbiamo portato fuori. Prender su tutti quei morti che avevo visto il gesto che avevano fatto, hanno buttato e che c’era la corrente. Hanno preso i pagliericci li hanno buttati sui fili per poi fuggire. Era una carneficina perché il sangue correva, ne hanno uccisi un mucchio. Poi dicevano che li avevano presi tutti.

Là nel cortile li prendevamo e li portavamo nel forno crematorio, non dentro il forno crematorio. Lì davanti c’era una scaletta, li mettevamo lì davanti, loro li prendevano dietro. Li portavamo lì davanti, tutti insanguinati. Ho visto cosa c’è in quelle baracche. Davano da mangiare come davano da mangiare ai maiali. Gli vuotavano la zuppa lì dentro, loro dovevano mangiare con la bocca così. Ho visto tutto.

Dopo otto, dieci giorni ci siamo vestiti e ci hanno portato a Gusen a piedi. Siamo arrivati a Gusen. Lì al mattino ci hanno dato tre numeri, uno al braccio e due ai pantaloni. Prima ne avevamo soltanto uno al braccio. Invece lì ci hanno dato i tre numeri, uno al pantalone, uno alla giacca e uno al braccio.

D: Ma sempre il tuo numero di Mauthausen?

R: Sempre il numero di Mauthausen 115.616. Ci hanno dato i tre numeri. Lì abbiamo cominciato il lavoro. Io sono stato fortunato, sono andato alla Styr. Una grande paura perché io non avevo visto mai una fabbrica, ero un contadino che lavorava in campagna.

Quando sono arrivato là solo con il rumore io stavo impazzendo. Fortunato che ho trovato un russo che mi ha voluto bene subito, mi ha insegnato il trucco perché se rompeva più frese al giorno, era sabotaggio, mi facevano male. Al mattino lui ha rubato tre frese al campo, ha aperto gli sgabuzzini, poi ha messo sotto il pattume e diceva, quando ne rompo una ne metto su un’altra.

Allora ho preso la mano, andavo bene. Poi lui ha preso la mano e andava abbastanza bene. Quel russo è stato la mia fortuna. Quel ragazzo russo. Lì incominciavamo il lavoro dalle sette del mattino alle sette di sera, c’era il turno, un mestolo di zuppa a mezzogiorno e così.

D: Atos, quando le parti che voi facevate erano finite, chi le portava via? Con cosa venivano portate via?

R: Le portavano fuori, lì c’erano i prigionieri che erano addetti al trasporto. Lì fuori c’è anche il mio amico di Bologna, avvocato Costa. La sera quando faceva buio veniva in baracca, veniva là un po’ a scaldarsi. Se lo vedeva il Kapò erano botte. Alle volte doveva fuggire di corsa perché se arrivava il Kapò lo picchiava. Lui era al trasporto fuori alla pioggia o al vento. Invece noi eravamo coperti almeno.

D: Se tu ricordi Atos, lì a Gusen 1 hai visto dei treni, c’erano dei treni?

R: C’erano i trenini che andavano su alla cava delle pietre e che andavano sotto le gallerie. Quando suonava l’allarme, ci facevano andare tutti dentro una galleria di corsa a piedi. Noi ci andavamo volentieri, perché quando era andata via la neve c’era un prato con l’erbetta. Quello era il nostro mangiare. Tutti correvano volentieri. Ero sempre là davanti perché lavoravo alla quarta baracca, andavo a Styr, c’erano trenta baracche, ero alla quarta, sono stato fortunato, quando suonava l’allarme, fuggivo e potevo mangiare un po’ più d’erba degli altri, ero tra i primi.

D: E quando tu sei rimasto a Gusen 1 hai sempre lavorato lì alla Styr?

R: Sempre lavorato alla Styr.

D: Fino a quando?

R: Fino al giorno della liberazione, al 5 alla sera. Il 5 maggio alle cinque alla sera.

D: Il tuo lavoro esattamente com’era? Cos’era?

R: Il tornitore percussori delle mitragliatrici oppure il mio lavoro è sempre quell’incastro … espulsore della cartuccia. E’ sempre stato quello. Lavoravo su due macchine.

D: E dovevate fare un certo quantitativo?

R: 700 pezzi al giorno. Si facevano sempre continuamente, non si poteva perdere tempo a parlare, discutere. Uno doveva andare sempre avanti a continuare il suo lavoro.

D: C’erano anche dei civili lì nella fabbrica?

R: Civili, c’erano più che altro, io vedevo solo partigiani. Non so se ci fossero dei civili. Il mio capoblocco era un tedesco, triangolo verde, un criminale tedesco, capoblocco.

D: No, dico in fabbrica a lavorare?

R: Lì non si può tanto parlare. Non si poteva parlare in più di tre. Se si parlava, al massimo con quello con cui lavoravi lì perché non si poteva uscire o fermarti nel gruppo a parlare. Anche quando ci si fermava la mezzora per mangiare, tu dovevi mangiare, parlare al massimo col tuo vicino, non si poteva parlare in più di tre.

Era difficile, perché anche al mattino prima di andare al lavoro c’erano due ore dalle cinque, un po’ fuori fino alle sette. Lì stavi in fila un’ora, un’ora e mezza sotto la pioggia. Per andare a lavorare, ci dovevamo mettere in coda, come quando rientravamo che anche i morti dovevano sfilare. Quelli che morivano, li facevi sfilare per la conta, non doveva mancare nessuno. Lì venivano contati tutti. Lì ho avuto tre episodi a Gusen.

Mi sono salvato dalla morte tre volte, il destino è così. Mi sono salvato quando mi hanno condannato gli artefici del Duce alla fucilazione là a Ponti in provincia di Cuneo che sono arrivati i tedeschi, mi hanno portato allo stadio e poi al carcere di Torino. Quella è stata la prima salvezza.

La seconda un giorno, non so se fosse una festa internazionale, dovevano uccidere due per baracca. Quel russo che lavorava con me, lui sapeva tutto quello che doveva succedere nel campo. Io non so chi fosse, lui sapeva sempre tutto.

Dice: “Stai attento quando rientri questa sera, ne devono uccidere due per baracca”. Allora io prima di entrare faccio un giretto. Infatti c’era una baracca alla 35 che era un criminale, era là che uccideva a furia di botte. Io stavo a guardare, dovevo pur rientrare. Se vedono che manco e mi cercano, vado alla finestra, dormivo davanti alla finestra.

Eravamo un gruppo di italiani, eravamo quattordici, quindici italiani. Allora busso nel vetro. “Cosa fai lì fuori? Vieni dentro, non succede niente”. Vado dentro, come rientro c’è il Kapò, mi preleva.

C’era un ragazzo di Asti, ha trovato la scusa che mancava un po’ di rosso dal triangolo rosso. Era una scusa perché avevamo il boccettino, potevamo darlo. Quel ragazzo di Asti viene a prendere le mie difese, “Vai via, vai via che devono ucciderne due, che non ti prendano. Ne devono uccidere due oggi ogni baracca”.

Invece ne hanno preso un altro, un russo e mi hanno portato via. Fuori dalla baracca un russo tutto infangato. Il destino lo manda dietro di me, prende il russo. Mi porta nella baracca dove andavamo a fare il bagno la mattina, dove c’erano i gabinetti.

Li ha legati con una corda dietro le mani, poi ha tirato su le travi, tirati così vivi, lasciati morire così. Si muore lentamente. Alla notte quando sono andato in bagno erano attaccati e guardavo che doveva essere la mia fine, quella doveva essere la mia fine. Anche quella volta lì m’è andata bene.

Il 22 aprile quello russo mi dice: “Stai attento, è arrivato il comandante nuovo. Quegli scheletri che sono in infermeria non vuole lasciarli agli invasori, agli americani”. Allora dico: “La camera d’aria l’abbiamo, si dà una gonfiatina, prendo una pompa si dà una gonfiatina, diventiamo belli grossi”. Si scherzava.

Alla sera quando sono rientrato avevamo cinque, sei, sette amici in infermeria. “Dai che andiamo a vederli”. Le due infermerie erano due baracche, si era formata una sola, tutti cadaveri. Sono andato a vedere tutti questi cadaveri, ma una cosa incredibile, non si può descrivere. Tutti questi scheletri, uno che morsicava l’altro, che era diventato pazzo. Una cosa… Io sono venuto via subito.

Alla notte verso le undici sono uscito a prendere un po’ d’aria. Quando stavo per rientrare davanti all’infermeria c’era tutti i tedeschi con gli elmetti e le maschere a gas davanti alle finestre chiuse, hanno dato il gas a tutti.

La mattina quando sono uscito sono andato a vedere, hanno dato il gas a quattrocento, quattrocentocinquanta, non so, una baracca, nella baracca stessa hanno dato il gas. A più di quattrocento, quattrocentocinquanta hanno dato il gas nella baracca.

Dopo quei giorni i forni crematori, perché a Gusen c’erano due forni crematori, andavano giù la notte per bruciarli; dovevano eliminarli.

Il 27 aprile io monto al mattino, quello che ha montato alla notte si conosce che la morte è il suo lavoro, tutti pezzi sbagliati. Dico col Kapò ci sono tutti i pezzi sbagliati. Meglio, dice, che tu sei un italiano, tu vai al Krematorium.

Quello era un polacco, per lui era una soddisfazione mandare al Krematorium un italiano. Allora non li poteva vedere nessuno gli italiani. Si sfregava le mani, questa volta vai proprio al Krematorium.

Il giorno dopo c’era una SS che quando facevamo l’appello a mezzanotte anche c’era quella SS lì, un ragazzo grande, lui non parlava mai. Una notte s’è rotta la cinghia… è quasi mezzanotte, c’è l’appello, vai, vai, il Kapò, quando diceva vai doveva andare.

Quella notte lì veniva un’acqua, una pioggia, lo fai per baracca. Quando arriva fuori nel cortile, la mia baracca è la quarta, lì c’è già la SS che mi aspetta. Via di corsa.

C’era un Kapò che era un polacco, un uomo che era centoventi chili che ammazzava la gente come niente, ammazzava anche i suoi paesani, non importava niente. Anzi un giorno c’erano due che dicevano: “Quando andiamo a casa te la facciamo pagare”. Li ha uccisi tutti due a colpi di zoccoli, due polacchi suoi amici. Era un criminale.

Quando arriva dentro questo criminale mi salta addosso, botte. Il tedesco dice, “Gut, basta”. Mi ha salvato il tedesco, mi ha salvato dalle botte. Quella notte lì è andata così.

Il 27 aprile come già detto viene questo sabotaggio. La mattina dopo il 27 aprile arriva questo tedesco alle cinque di sera, il Kapò dice: “Guarda”, mi picchia in una spalla, mi dice “Vai, vai che c’è il tedesco che ti aspetta”. C’era quel ragazzo con gli stivaloni sulla porticina che mi aspettava.

Mi porta davanti a quel comandante nuovo che era arrivato sei giorni prima. La paura che io avevo. Quando sono entrato comincio a parlare un po’ in tedesco, un po’ in italiano. “Mi parli italiano che io so bene l’italiano”. Era un italiano di Bolzano, dell’Alto Adige, uno dei nostri italiani.

Ho pensato, per quello forse mi ha salvato quella sera, perché ero italiano anch’io. “Parla con l’italiano”. “Guarda, quando sono rientrato stamattina tutti i pezzi erano sbagliati. Si conosce che quello che lavorava con me è morto, bisogna che sia morto, perché sbagliare tutti i pezzi, ha lasciato un mucchio, c’erano ancora tre pezzi da rifare, bisogna che sia morto. Il Kapò mi ha detto di lasciarmi andare così mi manda al forno crematorio se ci sono i pezzi sbagliati, prendo la colpa io, invece io non ho nessuna colpa, anzi ho lavorato tutto il giorno per disfare il mucchio, anche per fare tutti i pezzi ho lavorato”.

Lo dice al comandante, il comandante dice: “Vai a vedere se è la verità”. Tutti i morti, non scappava un morto, venivano registrati tutti i morti, registrati uno per uno, lì non scappava niente. Se mancava uno si stava fuori finché non veniva ritrovato.

Infatti, è andato a vedere, dice, “Sì, kaputt”. Mi ha detto: “Puoi andare”. Siamo usciti. Mi ha messo la mano sulla spalla. “Di dove sei?” “Di Ferrara”. “Ferrara è stata occupata, liberata dagli americani”. Dico: “Almeno la mia famiglia si fosse salvat!”. “No”, dice, “non c’è stata nessuna resistenza, tutto è andato bene”. Dico: “Lei lo sa che è tanto tempo che lotto per vivere? Ringrazio per quella sera che mi ha salvato dalle botte”. “Lascia stare. Mi raccomando, tra pochi giorni vedrai che ce la fai e andiamo a casa”.

Il 27 aprile ho saputo che Ferrara era già libera, che l’Italia era già stata liberata.

L’Italia è libera, l’Italia è libera, allegria con tutti i miei amici che lavoravano là dentro. Siamo stati liberati il 5 maggio alle cinque di sera. Quelle notti quando uscivo di notte per andare in bagno mi fermavo a guardare quel forno crematorio che buttava fuori quelle lingue di fuoco, un po’ si sentivano delle cannonate, un po’ speravo che arrivassero presto. Sono arrivati il 5 prima delle cinque di sera.

D: E dov’eri tu?

R: A Gusen. No, ero in riposo, non ero a lavorare. Eravamo lì che si doveva fare l’appello che si doveva andare a lavorare. Gli altri stavano lavorando, lavoravano, ma non c’erano più le SS, erano due giorni che erano fuggite. C’erano soltanto quei vecchietti della Wermacht e i Kapò che comandavano.

D: E cos’è successo alla liberazione?

R: Alla liberazione, quando ci hanno detto “Ci sono gli Americani, ci sono gli Americani”, alè, specialmente sono partiti i russi, io mi sono nascosto perché non mi prendessero per sbaglio, mi sono salvato fino adesso, mi sono ritirato nella mia baracca a guardare.

I russi e quegli altri sono corsi al forno crematorio, tutti quei Kapò che hanno trovato li hanno fatti fuori. Dopo un’oretta sono uscito, c’erano morti dappertutto, tutti i Kapò, specialmente i russi, addosso, li hanno massacrati tutti, tutti i Kapò sono stati massacrati. Sono stati massacrati tutti.

Dopo lì con delle carrette li hanno presi tutti, in un’oretta e li hanno portati fuori. Hanno chiuso la porta, non sono potuti rientrare subito gli americani finché non hanno ucciso tutti i Kapò, dopo hanno aperto la porta, sono entrati gli americani a girare. Anzi dopo che è entrato un italo-americano, abbiamo dato l’assalto alla cucina, l’assalto alle patate, chi bolliva di qua, chi cucinava qualcosa di là.

Chi ha mangiato molto è morto il giorno dopo. Ne sono morti un mucchio. Io il giorno dopo sono andato al forno crematori, ce n’era un mucchio, oltre quattrocento, perché c’erano dei miei amici di san Giovanni Persiceto che cercavano i fratelli, perché c’erano delle famiglie intere.

Poi sono andati a vedere questi cadaveri per trovare i loro fratelli, non li hanno trovati. Sono stati bruciati, io sapevo che nell’infermeria erano già stati bruciati.

C’era uno che cercava il fratello, un ragazzo di 18 anni, io pensavo che fossero stati entrambi bruciati quella notte che hanno dato il gas, invece uno s’è salvato dopo che è venuto a casa, non era neanche più normale.

Invece quel ragazzo di 18 anni è morto dopo là. Dopo fuori dal campo hanno fatto un’infermeria gli americani, un capannone per prendere i malati. Dopo che seguivano noi c’erano due dottori, un dottore che non so come si chiama, un dottore di Modena anziano che veniva nelle baracche, perché noi italiani eravamo tutti assieme, eravamo andati insieme ai russi.

Lì i malati venivano a prenderli, venivano nelle baracche quelli che avevano bisogno di essere curati, gli urgenti. Dopo trovai un italo-americano la mattina dopo, voleva vedere tutto il campo. Gli ho fatto vedere il forno crematorio, la ghigliottina dove li attaccavano, dove li mettevano col laccio al collo, ha preso giù le fotografie.

“Venite a trovarmi, sono a Gusen paese, più avanti. Vieni a trovarmi al mattino che ti do tutto quello che vuoi da mangiare”. Io avevo dei buchi così dappertutto, nella schiena, buchi nelle gambe perché dormivo sulle assi, nelle gambe delle piaghe così, dei buchi avevo dappertutto. Sono andato a pesarmi, ero 37 chili vestito, con i vestiti, con due zoccoli, con gli scarponi, tutto. Il mio peso era 35 chili al massimo. Quando mi hanno arrestato ero 102 chili.

Il mattino dopo sono partito, sono andato a trovare quell’italo-americano. Quando sono arrivato era lì che consumava il rancio. Allora mi sono nascosto. Fette di pane, i pezzi di carne in una botte. Come ho visto che non c’era più nessuno, sono andato nella botte per cominciare a mangiare. Mi sono visto circondato.

Allora ho cominciato a dire il nome di quel sergente italiano. Sono andati a chiamarlo. “Cosa fai? Non vedi che sono rifiuti?” “Rifiuti questi! Non mangio da sei mesi, non vedo un pezzo di pane, solo rape bollite”.

“Adesso vieni con me, ti porto fuori io”. Mi porta fuori dove facevano il mangiare loro. Due gavettoni, mi porta fuori della carne, ma per me era porcheria, era salata. Erano sei mesi che mangiavo queste rape. Per me era carne salata che restavo a bocca aperta. Dicevo, “Ma cosa mangiano, così salato?” Invece era normale, era normale, ero io che mi ero abituato a mangiare solo delle rape. Per me un po’ di salato mi sembrava una cosa salata.

Allora mi ha dato del pane, dei salami. Mi ha caricato. Sono andato dentro con cinque chili di zuppa, con lo zainetto di pane, di salame, di tutto. “Vienimi a trovare che ti do tutto quello che vuoi”.

Poi mi ha presentato il suo generale che mi ha dato anche un pacchetto di sigari. Poi ha raccontato tutto quello che aveva visto nel campo al suo colonnello, il colonnello non era ancora venuto a vedere.

Così dopo sono rientrato. Dopo ho messo su il burro, ho messo su un fornellino con un tegamino. Di notte mi svegliavo, mettevo del pane a friggere, la margarina, lo mangiavamo. I due o tre amici uno di Parma che gli ho salvato la vita, era in infermeria. Non era più capace di alzarsi. Se tu lo prendi su tutte le sere e poi lo fai camminare, è tornato a casa. E’ morto per un brutto male a Parma.

Due o tre di Milano, più anziani di me che erano dell’età di mio padre. Lì c’erano tutti quelli di Milano. C’era il professor… quello dei succhi, delle doghe di Milano… Carpi, c’era Carpi, c’erano due avvocati di Milano, c’era un certo Rossi, c’erano tutti quelli lì.

C’era Pedrazzoni che ha fondato il Comitato di Liberazione lì, tutti quei tesserini che abbiamo li hanno firmati loro, avevamo un tesserino noi.

D: Atos, scusa, a proposito di tesserino, al triangolo. Tu dicevi che avevi il triangolo rosso. Avevate dell’inchiostro?

R: Sì, se per caso andava via, nel triangolino rosso in mezzo salta via il triangolo, noi avevamo un pennellino dove c’era il barbiere, perché ogni otto giorni ci davano il rasoio sulla testa, una riga sulla testa, erano obbligati a darla.

Lì c’erano degli spagnoli, c’era quel ragazzo di diciassette anni, … qualche mestolo di zuppa in più, gli spagnoli perché facevano quel lavoro, anche quel ragazzo che gli dava una mano, qualche mestolo di zuppa in più gli davano.

Avevamo un vasettino di rosso se a uno saltava via lo smalto, si doveva dare subito lo smalto che saltava via. Lì saltava via lo smalto soltanto in un angolino. Era stata una scusa quella. Questa è una scusa perché doveva uccidere due per baracca.

D: E tu a Gusen uno dopo la liberazione fino a quando sei rimasto?

R: Siamo rimasti un quattordici, quindici, venti giorni. Poi dopo ci hanno portato a Mauthausen perché lì sono venuti i borghesi. Anzi, noi abbiamo fatto una rivolta. Non volevamo andare a Mauthausen. “Portateci al confine d’Italia e poi portateci a casa. Portateci a Bolzano, quando siamo sui camion portateci a Bolzano.”

Invece no, abbiamo fatto una rivolta perché non volevamo andare. Sono venuti gli americani con l’elmetto in tasca, un maggiore italo-americano che era un maggiore medico, ha fatto un grande discorso. C’era l’avvocato Costa. Dice: “Noi vogliamo andare in Italia perché noi siamo quei partigiani. Dicevate partigiani sabotate le ferrovie, fate sabotare qui, fate sabotare là, c’è andata male, siamo qui per quello”.

“Ma cosa volete voi Italiani? Vent’anni fa avevate bisogno degli americani per liberarvi, adesso dopo vent’anni… Fra vent’anni avrete ancora bisogno degli americani. Fuori”. Ci hanno caricato sui camion, ci hanno mandato a Mauthausen.

Dopo circa un mese che eravamo a Mauthausen il 2 luglio siamo venuti in Italia. Io sono venuto a casa il 2-3 luglio. Il 2 luglio sono arrivato a casa.

D: Ma come sei arrivato? Come hai lasciato Mauthausen?

R: Ci hanno portato col camion e caricati, ci hanno portati alla stazione. Alla stazione ci hanno caricato su un treno, quando è arrivato ad Innsbruck s’è fermato. Poi siamo partiti e siamo andati a Bolzano. Da Bolzano poi c’erano i camion che portavano alle città. C’erano i camion di ogni paese, si saltava su, ci caricavano, ci portavano a casa.

D: E sei arrivato a casa a luglio quindi?

R: In luglio.

D: A Ferrara?

R: A Ferrara, il 2 luglio.

D: Ascolta, durante il tuo periodo di deportazione a Bolzano, a Mauthausen e a Gusen 1 hai visto per caso se c’erano anche dei religiosi?

R: Eh, con me c’era il prete, don Narciso. Ce n’erano due. Don Narciso, quello di Milano, poi ce n’era un altro, non mi ricordo più come si chiamasse. Con don Narciso, eravamo sempre insieme. Anzi, una sera lì a Mauthausen, quando sono andato a Mauthausen il primo giorno ci hanno dato un pezzo di pane e della zuppa a volontà con delle patatine con semolino, non erano proprio rape, semolino.

Io che ero già stato militare in Germania sapevo che quello era un rancio per i militari. Allora dico con l’avvocato Costa e gli altri ragazzi, se ci danno questa roba siamo dei signori, gli ho detto.

Infatti l’avvocato mi dice sempre, avevi ragione. Non abbiamo più mangiato di quel semolino e patate. Si mangiava senza cucchiaio e ci hanno dato un bel pezzo di pane.

Io sono andato a Gusen 1, don Narciso è andato a Gusen 2. Mi sono informato, lui portava gli occhiali. Siccome sapeva il tedesco, si procurava qualche giornale. I Kapò l’hanno visto con un giornale in mano, gli hanno dato tante botte, via gli occhiali, non ci vedeva più. Il mio amico che era lì, partigiano con me, lui l’ha visto, l’ho visto morire, è morto a Gusen 2, è morto.

Tibaldi Italo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Mi chiamo Italo Tibaldi, sono nato il 16 maggio 1927 a Pinerolo in provincia di Torino. Mio padre era ufficiale di Cavalleria alla scuola di Cavalleria di Pinerolo; dopo il disgregamento dell’esercito mio padre si unì alle formazioni della Resistenza sopra la Val Maira nel cuneese. Io sono diventato automaticamente staffetta, andavo su Torino per riferire le attività della Seconda Divisione Alpina Giustizia e Libertà della Valle Maira.

L’impatto che mi ha portato all’arresto e alla deportazione è avvenuto il 9 gennaio 1944 quando scendendo a Torino per riferire a quelli che avevano la gestione anche economica della struttura sono stato fermato su una delazione, di cui sarò poi informato al rientro, pertanto, il mio arresto è stato molto semplice perché a sorpresa la cosa diventa molto semplice.

Devo dire che il fatto che il mio arresto abbia comportato delle conseguenze successive molto pesanti non era assolutamente nei miei ragionamenti; non pensavo assolutamente a quello che poteva avvenire, sapevo che scendendo dalla montagna, avendo questo tipo di discorso potevo essere richiesto e potevo essere approfondito per i compiti che venivano svolti in montagna.

Sono stato trasferito poi all’ufficio della SD dove c’era il capitano Smith che interrogava, era un dipendente delle SS e dopo il suo interrogatorio il giorno 10 sono stato trasferito al carcere Le Nuove di Torino.

D: Italo, scusa, chi ti ha arrestato, erano italiani o germanici?

R: Erano italiani ma in borghese e altra gente in borghese probabilmente germanici.

D: Tu eri armato?

R: Ero armato, avevo una gioiellino che consentiva lo sparo semplice e anche la raffica. Purtroppo non ho mai più trovato una macchinetta del genere, sarebbe stato un simpatico ricordo.

D: Quando dici che sei stato interrogato da Smith, è successo in un posto ben preciso?

R: All’Albergo Nazionale in via Roma a Torino dove ci sono le due fontane, al primo piano. Vi era già un bel gruppo quando sono arrivato, vi erano personaggi di tutte le categorie; questo ha comportato il fatto che per me fosse una grossa novità vedere gente in borghese, mi sembrava che arrivando da una zona di ribelli dovessimo essere tutti pronti, invece, persone molto a modo, così mi sembrava, erano state prese nelle aziende, nelle fabbriche, infatti vedrò poi anche nella deportazione che vi è un mondo sociale molto eterogeneo e tutte le categorie rappresentante.

Il trasferimento dopo l’interrogatorio che avviene alle nove e mezza di sera e che mi lascia abbastanza grondante di sangue perché cazzottamenti vari, mi comporta il trasferimento alle carceri Nuove, verso le nove e mezza, via la cinghia dei pantaloni, la cravatta, le stringhe delle scarpe e vengo inserito al n. 60 del secondo braccio.

Quando entro trovo già altre persone che mi accolgono anche con diffidenza perché così sistemato posso aver fatto pensare che fossi stato buttato dentro come un infiltrato. Quindi, ho vissuto lì tre o quattro giorni, perché sono partito il 13 mattina, in una situazione che era per loro e per me di disagio. Saprò poi che erano due appartenenti al partito comunista, Montrucchio e Porcellana, avevano messo della dinamite sul tratto che viaggiava sulla ferrovia che da Pinerolo portava a Lusello San Giovanni.

A Lusello San Giovanni nella Val Pellice vi era una sezione staccata della Microtecnica, quindi il compito era conseguente.

L’altro era un barbiere il quale dirà: “Non ho fatto niente, magari facendo una barba mi sono espresso in termini negativi e mi sono trovato deportato”.

Il 13 mattina verso le tre e mezza sentiamo aprire le celle, sveglia, alzarsi, scendiamo nell’emiciclo del carcere. Siamo in 45, mancano 5 persone e il fatto che avviene conseguentemente all’attentato fatto da Pesce a un gruppo di ufficiali tedeschi, c’erano stati anche dei morti, hanno calcolato che i cinque ufficiali erano 50 nominativi ed esce un bando dal comando di Torino che dice: “Saranno deportati”. Parlano per la verità di Koncentration Lager, nel senso del concentramento, l’operazione sarà poi un’altra perché diventiamo KZ, un campo di eliminazione, differisco sempre fra eliminazione e sterminio perché considero che l’eliminazione è più quella di Auschwitz che è diretta per nuclei famigliari, Mauthausen è un campo politico per cui il trasferimento ha un significato più pesante, vi è un problema di stare molto attenti nel campo per quanto riguarda le varie nazionalità e dirò anche il perché.

Nel carcere mancano cinque persone e vengono raccolti cinque nominativi che sono cinque ebrei, i due Segre, padre e figlio, Trevese, due fratelli e Diaz che vengono conteggiati quindi abbiamo raggiunto i 50 e il numero è completo.

Si parte per andare alla stazione Porta Nuova dal lato dove sempre vengono caricati i carcerati, sulla via Sacchi. Arriviamo alla stazione e veniamo messi su questo carro bestiame e lì vi era il campo di sorveglianza, la SS di Torino cede alla polizia di frontiera la responsabilità di questo gruppo.

Il gruppo viene messo sul carro bestiame, 25 su un angolo e 25 su un altro angolo, sistemano in mezzo una di quelle panchine che chiamo dei giardini perché hanno la spalliera doppia, due da una parte e due dall’altra con il Machinenpistolen, la voce è che tutti dobbiamo stare seduti, che nessuno si muova perché sono pronti per procedere.

Il treno viene spedito in termini molto veloci perché alle cinque e mezza finisce il coprifuoco, cominciano ad arrivare altri treni, altra gente e questo dà fastidio, questo che parte dal binario 19 è un vagone un po’ strano, ci sono strani destini al binario 19, poi spiegheremo.

Viene agganciato ad una linea per Milano, il percorso lo conosciamo ma lo vediamo quando siamo al Brennero dove arriviamo alla sera, quasi a mezzanotte. Già ci accorgiamo che a destra e a sinistra ci sono le SS che camminano davanti e dietro con i cani, quindi, non è vero che non ci sia stato durante il trasporto qualche tentativo per tentare una fuga.

Vediamo dal trasporto, è composto da gente non giovane, quindi, il ragionamento fatto dal più anziano ha il suo significato, cioè: “Guardate ragazzi che questi hanno i nominativi, le famiglie, fanno rappresaglie per cui è inutile che facciate dei tentativi”.

In questa discussione, “andiamo, non andiamo”, qualcuno dice anche: “Questi quattro ce li mangiamo”. Tenete conto che avevo sedici anni ma avevo lo spirito di chi scendeva dalla valle e avevo questa reazione, io e gli altri anche, quel gruppo di giovani, finisce per accettare questa soluzione e in questo modo passiamo il Brennero ed arriviamo verso le 11,30 del 14 a Mauthausen.

E’ una stazione di confine, una fine corsa, passiamo il ponte sul Danubio e arriviamo a questa stazioncina. Leggere Mauthausen a noi non dice nulla ed io contraddico tutti coloro che dicono “Io ero stato destinato a…” perché non c’è nessuna destinazione in origine, non sai mai dove vai a finire perché possono anche cambiare in corsa, arrivano a Monaco e invece che a Dachau mandano in un altro campo.

Qualche anziano ricorda che nel ’15 – ’18 esisteva già un campo militare, infatti, troveremo poi il campo militare dove ci sono le salme di alcuni militari, le targhette, dove sono stati aggiunti dei deportati che ancora non erano in condizione di essere rintracciati nominativamente.

Penso che l’arrivo a Mauthausen per noi crei non una novità da paese a paese ma crea novità il fatto che dobbiamo attraversarla, cittadina molto bella, oggi lo posso dire perché sono anni che ci ritorno con tanti amici, lungo il Danubio, posizione splendida, noi passiamo in mezzo alla strada centrale e vediamo queste persiane che si chiudono, vediamo questi momenti che ci sembrano strani, noi che siamo scortati stiamo camminando su cinque, questo è il termine che ci porteremo dietro sempre, quando entriamo, quando usciamo siamo sempre per cinque, ed è anche più facile contarci. Il trasferimento avviene partendo dalla stazione per salire su fino al campo, non è molto lontano tuttavia è in salita e qualcuno è in difficoltà, stiamo viaggiando con il sacco, la valigia, siamo a gennaio del 1944, con la neve anche discretamente alta per cui il percorso è difficile, con le scarpine che abbiamo ma sarà altrettanto difficile camminare con gli zoccoli sulla neve perché lo zoccolo in legno si attacca per cui cammini sempre in bilico.

Si arriva a Mauthausen e veniamo dati in consegna alla gendarmeria di Mauthausen. Entriamo nel campo e l’impressione che ho avuto io è quella di essere in difficoltà iniziale che è quella di capire dove sei perché vedi questa fortezza ma non ti rendi conto del significato, non ti rendi conto di queste baracche se non quando vedi venire avanti in mezzo al piazzale dell’appello uno di questi carri da cavalli, con la barra in mezzo tirata da gente che ha la casacca a righe e sopra questo carro sono buttati un mucchio di cadaveri per cui cominci a pensare che la vita sia un’altra cosa. L’impatto che hai iniziale è che potresti anche affrontare in termini di condizioni soggettivamente forti, poi ti trovi in un impatto dove resterai coinvolto, poi lo sarai decisamente e bisogna adattarsi ad imparare la vita del campo, non è più la tua possibilità o la tua soggettività che conta ma sei coinvolto, qui si parla di globalità e in questa globalità ci sono 23 nazionalità, quindi difficoltà di capire, difficoltà di immaginare e attenersi anche a un comportamento che sia consono al campo. Sembrerà strano questo discorso ma se non capisci il campo non ce la fai.

Penso anche che il fatto di avere questo impatto così immediato, così forte crea due momenti, una reazione che è abbastanza naturale, quella di dire ci sono ancora quindi forse reagirò e dall’altra cominci a pensare che devi acconciarti a questa situazione.

Il fatto di arrivare subito a questa scelta è quella che ti dà una motivazione in più per continuare, diversamente, dopo poco tempo ti accorgi che non saresti uscito.

Pertanto, entri, ci siamo messi in queste file da cinque, viene chiamato un interprete, c’è un ragazzo che conosce bene il tedesco, Renato Orniotti, il quale fa da interprete e spiega quello che il comandante riferisce: “Siete in un campo di rieducazione, quindi, saprete che siete entrati da quella porta e quasi sicuramente uscirete di là”. Quando dice uscirete di là istintivamente guardiamo ma forse pensiamo che vi sia un’altra uscita, non ci rendiamo conto di che cosa vuole significare questa cosa, poi ci accorgiamo che in quella direzione c’è il camino dei forni crematori e impariamo dove è l’uscita e per troppi sarà l’uscita. Siamo messi con tutto a terra, tutti puliti, nudi, andiamo sotto, ci fanno la doccia dopo di che passiamo su un banchetto dove c’è il barbiere che, povero Cristo, con questa specie di rasoio che ormai ha tutti i denti, ci toglie tutti i peli davanti e dietro, prende questa cosa lo bagna, poi ci dà una pennellata di creolina poi ti giri e te ne dà una di dietro, in questo modo sei disinfettato perché tutto può esserci ma tutti disinfettati e tutti puliti.

Penso che questo impatto comincia a dirci qualche cosa, comincia a farci capire che il mondo lì è un altro, ci sono altre risposte.

Attraversiamo la piazza dell’appello e arriviamo alla baracca di quarantena.

D: Scusa, Italo, dopo la disinfezione siete andati nelle docce?

R: Prima della disinfezione andiamo alle docce, dal Friseur, poi ci danno la pennellata e andiamo alla baracca e quando adiamo alla baracca di quarantena non ci sono …

D: Siete sempre nudi o …

R: No, la vestizione arriva nella baracca, io ho avuto così …. attraversiamo, siamo subito alla baracca e veniamo immatricolati e registrati perché in quella sede ci chiedono che mestiere facevamo. Lo scrivano della baracca penso che sia polacco e insiste nello scrivere, io dico “Studente” e lui mette studente, così come ho nel certificato, mette vicino “manovale”.

Io dico “Sono studente non sono manovale”, “Vai, vai vai”, mi dice, forse quel “vai” è stata la fortuna perché lo studente non si sarebbe certo salvato, il manovale in qualche modo era utile. Ci viene assegnata la qualifica con il triangolo rosso dei politici e la scritta che viene messa sulla matricola, sopra il triangolo rosso sulla giacca e anche sul pantalone dove abbiamo solo la matricola. Ci viene dato un cinghietto in ferro con una cosina molto leggera in lamiera con il numero di matricola, questo mi sarà tolto poi … mi viene assegnata la matricola, sono il 42307 di Mauthausen e mi porto questo triangolo rosso di politico fino alla fine.

Vi è l’ingresso in questa baracca che non ha i letti a castello, ha solo per terra dei materassini di iuta che sono pieni di segatura, una cosina molto leggera, molto piccola, siamo 50 quindi abbiamo una numerazione che parte da 42.000. Abbiamo prima di noi un trasporto arrivato da Roma, 40.000 di matricola che ha fatto un percorso un po’ strano, è partito da Roma, Valenzano, ecc. due o tre superstiti che sono rimasti, oggi dovrebbero essere cinque o sei e vi è un amico a Roma che sta facendo questa ricerca.

Ne ho contati 257 che sono quelli che da Dachau sono stati mandati a Mauthausen, partiti da Roma il 5 gennaio sono arrivati a Dachau il 7, sono stati mandati al Wäscheraum, senza immatricolazione e poi 257 di questi me li sono trovati nella immatricolazione di Mauthausen quindi li ho inseriti. Li troviamo nella baracca quando arriviamo alla registrazione; erano arrivati il giorno prima, per cui noi arriviamo il 14 e loro erano arrivati il 13, dirò che la registrazione viene poi rilevata dal campo il giorno 15, questo per dirvi che se qualche volta trovate delle date che spostano un giorno non impressionatevi perché basta che siano arrivati alla sera magari li mettono il giorno dopo.

Qualche volta sul problema della numerazione hanno dei dati previsti, prevedono un trasporto di 540 persone, mantengono 500 numeri vuoti per poi inserirli, questo vale per le donne che vanno a Flossenbürg, i 60.000 di matricola.

La vita del campo di Mauthausen: siamo in baracca, non usciamo, non abbiamo compiti esterni, non andiamo in comandi esterni, il 28 viene questo trasporto abbastanza pesante, circa 500 che andiamo a Ebensee, lo sapremo poi. Veniamo chiamati per matricola anche perché siamo dei pezzi ed è più facile contare i pezzi che non nomi e cognomi ed è anche più facile come tempo, vi è un problema sempre di tempo, tempo, dobbiamo sempre correre.

Arriviamo in questa cittadina, posizione stupenda, c’è il lago, una cosa veramente stupisce, che cosa andiamo a fare? Ci sembra una stranezza questo trasporto ma la stranezza è che andiamo verso la parte di montagna e lì costruiamo il campo, ci sono quattro baracche, è arrivato prima di noi un altro trasporto che comprendeva tedeschi, polacchi, jugoslavi. Ci facciamo il campo nel senso che ci costruiamo tutto, mettiamo su le baracche, facciamo la recinzione, facciamo le guardiole per il personale di sorveglianza e qual’é la destinazione di questo campo?

La destinazione è la velocità che bisogna assolutamente adoperare per fare delle grosse gallerie che consentano il trasferimento di materiale utile alla missilistica perché vi è stato il bombardamento di Peenemünde da parte della RAF, è Alto Baltico per cui il senso di studio viene smantellato da questo bombardamento della Royal Force quindi la necessità di trasferire questo materiale rimanente in altri campi.

L’idea viene automatica perché è l’ultimo campo, quello più a sud visto da Peenemünde e si trova quasi al confine con l’Italia perché Salisburgo è a pochi chilometri dal Brennero.

La zona è bellissima, noi siamo lassù in questa zona, ci costruiamo il campo, abbiamo pochi rapporti con la cittadinanza perché non abbiamo un transito continuo se non attraverso due strade che vanno direttamente alle cave e ci vedono andare avanti e indietro e non c’è nessun atteggiamento particolare anche perché in quel momento avevano paura delle SS non di noi che eravamo messi in una condizione di non nuocere.

Arriviamo alle gallerie e cominciamo questo lavoro che farò dopo due lavori esterni, un lavoro al comando legno, dovevamo tagliare le piante per pulire la roccia e iniziare a fare la galleria.

Il secondo lavoro sarà sempre in galleria e la vita in galleria ad un certo punto era fatta su tre turni, mano a mano che si finiva il turno si faceva l’esplosione, c’era il crollo, quando si entrava si puliva con la pala per mettere fuori e liberare la zona. Dovevamo sempre arrivare a fine turno per cui 24 ore e lavoravamo con dei mezzi non ancora automatizzati se non dei perforatori che arrivavano ed erano utilizzati con i fioretti per bucare la roccia e che erano ad aria e potevamo indirizzarli abbastanza e ci aiutavano a perforare.

Devo dire che nei primi tempi i buchi venivano fatti in modo diverso; ci mettevamo questa macchina in spalla in due, spingevamo in su e facevamo il buco oppure siccome lavoravamo a un piano che distava sì e no cinque metri dal piano del suolo e sopra mettevamo una tavola verticale in modo che ci permetteva di essere uno contro l’altro con la schiena appoggiati, quello davanti con i piedi guidava, indirizzava la macchina che faceva il foro, quello dietro spingeva.

Questo contatto creerà quella che chiamo “la globalizzazione della solidarietà” perché se così non fosse stato anche nelle piccole cose, le piccole cose sono grandi cose, teniamo conto che è uno sguardo, un modo di comportarsi, nel comando legno, dico una banalità, ma se vengono destinate quattro persone, due sono 1,80 e due sono 1,50 e quei due di 1,50 si mettono in mezzo non portano niente mentre se c’è una scaletta in qualche modo si cerca di portare un po’ tutti, anche perché parlare non ci capivamo per cui non dovevamo fare lunghi discorsi, potevamo solo indicarci sull’opportunità, normalmente si trovava una soluzione che consentiva a tutti quanti di fare la propria parte.

Avevamo anche dei casi dove la gente non intendeva, il più esposto normalmente era l’italiano perché è una figura che viene discussa … Avremmo dovuto discuterne prima di iniziare l’intervista, la figura dell’italiano è belligerante, gli iugoslavi che ti dicono “Perché siete venuti in Jugoslavia?”, i russi che dicono “Chi te l’ha fatto fare di venire in Russia?”. Vi è poi questa frammistione fra l’internamento generalizzato, sarà poi un internamento militare e poi ci sono i lavoratori militari in Germania che sono altre figure, è difficile per loro cogliere, capire, la domanda che corre è “Come mai ti trovi nel campo?”

Torno una sera in baracca come le altre sere avendo lavorato al comando legno, sono all’interno del campo e vengo destinato dal capo baracca ad andare a lavorare con un gruppo di russi che hanno uno di loro che non ce la fa più e rimane in baracca.

Io li conosco come russi perché loro hanno la “R”, quindi, sono politici, poi ci sono degli “SU” che sono della Repubblica Sovietica; forse non è nemmeno giusto dire repubblica ma chiamiamola così, sono termini impropri ma … pazienza.

Questo impatto mi crea il fatto nuovo di incontrarmi con gente che parla un’altra lingua, sono isolato e studiato, evidentemente hanno questa sensazione di questo individuo nuovo che si inserisce e non riescono a capire perché ma per me è una normale sostituzione, non ho scelto, mi hanno buttato lì e vado, non puoi dire al capo “preferirei andare …”.

L’atteggiamento iniziale è di studio e io che sono il più giovane del gruppo non ho che da ubbidire, quindi, capito con la schiena con uno, un’altra volta sono io a spingere.

Dopo qualche tempo, abbastanza breve, vedevo che quello che avevo di schiena voleva parlare, anch’io ma … dice di essere stato in Italia, di essere stato a Roma, probabilmente, una persona che faceva parte di certi servizi che già avevano anche loro, scatta questo meccanismo strano per cui la domanda loro viene abbastanza immediata “Perché sei qua?”

Subito non ho una risposta perché mi sto chiedendo perché questo chiede “Perché ci sono, loro perché ci sono?”

Se me lo ha chiesto ci sarà una motivazione.

Dopo qualche giorno la domanda ritorna più sostanziosa “Mussolini, Badoglio, che cosa sei, con chi sei?” … “Non sono né con Mussolini né con Badoglio, sono un partigiano …. “

“Partisan” è un temine che impressiona e lascia sorpresi nell’interpretazione, noi li conosciamo i partisan, i russi li avevano avuti, sapevano come si erano battuti, Stalingrado, sapevano molto bene ma questa parola non riuscivano molto a … partigiano dove, quando?

Cercavo di spiegare che non essendo né questo né quello eravamo un’altra cosa, combattevamo il nazismo, loro hanno chiacchierato, è passato di nuovo qualche giorno e ho avuto la sensazione che per me era naturale, potevo dirla subito ma non ho mai pensato che potesse avere un impatto del genere, li ha molto interessati e ho visto un cambiamento di comportamento. Sono diventato il piccolo italiano, sono stato inserito in questo inserto e devo dire che mi sentivo protetto anche perché non dimentichiamo che i russi hanno pagato molto, i russi nel campo erano i russi ma la verità vera è questa, i tedeschi, i Kapò nel campo quando avevano a che fare con i russi avevano dei seri problemi perché avevano la velocità di espressione, tu oggi sei Kapò ma domani …. questi atteggiamenti erano molto pericolosi.

Ho creduto questo che sta avvenendo, a un bel momento non avremmo più parlato e la mia esperienza rimane la mia esperienza, finito e chiuso, ma se parlo noi c’eravamo, ecco il perché del discorso di cercare, approfondire, trovare, perché l’esigenza era di dire che eravamo tutti insieme, vi è stato anche un momento di pressione come succede in quelle condizioni dove ti abbruttisci a un punto tale per cui non ti rendi conto se sei o non sei perché il discorso della sopravvivenza ti pone dei vincoli precisi, cioè dire che puoi anche sopravvivere ma hai il dovere di essere uomo, avere un minimo di dignità e questa ritengo che sia una necessità primaria.

D: Vieni accolto nel gruppo dei russi …

R: Nel gruppo dei russi, cambia l’atteggiamento e durerà fino alla liberazione, il 6 maggio 1945, l’ultimo campo liberato, abbiamo il terzo cavalleria meccanizzata con il Capitano Timothy, con i due sergenti che entrano con l’auto blinda.

I russi mi hanno accompagnato fino alla fine e a loro devo anche un pezzo di pensiero, di ricordo perché la liberazione è una sola, se non è corroborata da tutti non ce la fai, non ti puoi salvare da solo, egoisticamente potresti pensare anche così ma quando ti accorgi che quando il campo è aperto per tutti siamo tutti pronti ad uscire ma non abbiamo la capacità, non abbiamo la forza, perché quando arrivi a 36 kg, tubercolosi polmonare bilaterale non hai nemmeno la forza di stare in piedi ma devi pensare che se sei arrivato fino a lì forse riuscirai ancora ad arrivare più avanti e ad andare a casa.

D: Avete costruito il campo di Ebensee, contestualmente oltre alle baracche avete costruito anche il forno?

R: Sì, il forno giù in fondo, l’ho indicato anche in quella piantina che ho fatto, ho rifatto in assonometria perché originariamente ho fatto anche il geometra, tanti destini in questi mestieri, adesso vi porto indietro poi vado avanti poi ti arrangi tu a collocare i pezzi …. il problema è che quando ho fatto il geometra nel Comune di Torino e mi hanno dato una zona un po’ in periferia, molto bella, ho seguito due scuole, poi mi hanno mandato al teatro Regio che è stato per me il biglietto da visita che mi porto dietro perché di teatro Regio se ne fa uno solo con un pazzo come l’architetto Monlino che è un personaggio eclettico e dice “Posa la macchina che prendo l’elicottero”, sono grato a tutti perché ho imparato sempre qualche cosa.

Vengo destinato in un momento di ferie alla zona centro dove ci sono le carceri, vado in Segreteria dal Direttore che mi dice: “Geometra se ci vediamo perché abbiamo alcuni servizi, la manutenzione ordinaria la fate voi, la straordinaria la facciamo noi, se potete darci una mano”. Dico: “Va bene ma è importante che parli prima con l’ingegnere perché voglio capire bene”. Parlo con l’Ingegnere Brizio e l’Ingegnere Capo Piasco e dico: “Ingegnere non si offenderà, vado dove vuole, faccio anche il giro di tutte le zone ma non mi mandi alle carceri perché è un ricordo troppo sulla pelle”. “Non ci abbiamo pensato!”, “Non potevate pensarci ma siccome ho transitato in quel luogo in condizioni un po’ diverse abbiate la bontà ….”

Per dire il destino, come il binario 19 è il binario che viene da Torino-Ivrea, come il discorso di dove sono stato portato subito quando mi hanno arrestato, alla caserma del genio che è diventato l’ufficio leva, passano gli anni, nel 1980 il Sindaco porta giù i ragazzi della leva e dove vado a finire? Vado a finire lì dove mi hanno portato qualche anno prima, ci sono delle botte di destino …

Primo incarico al Comune di Torino, Ispettore ai mercati generali … ero impiegato giornaliero, mi chiama il capo del personale e dice “Tibaldi lei è nelle condizioni ideali per fare questa funzione, faccia un salto ai mercati generali e dia un’occhiata”. Arrivo ai mercati generali, c’è una tettoia grande e sotto ci sono montagne di patate, e altre patate buttate lì, devo dire che gli impatti nella vita quando non hai più visto le patate, vedevi qualche volta la pelle, arrivi lì e vedi le montagne, allora dico che il mondo mi sta dando tanti di quegli schiaffoni che non finiranno mai, il destino ti porta queste cose.

D: A proposito di patate, nel campo l’alimentazione come era?

R: Il problema è che si tratta di fare la corsa alla gamella che è quella che hai dietro il sedere che hai appesa con il gancio che è questa di ferro smaltato rossa, con questa vai per prendere la zuppa che è un momento interessante e preoccupante per tanti versi perché quando entri e vedi il bidone in fondo cominci a metterti in fila e finisce che i primi non vogliono andare avanti perché prendono l’acqua, gli ultimi non vogliono stare indietro perché non prendono più niente, vedi che questa fila si spancia nel mezzo, a questa altezza tutti che spingono e gli altri che rallentano per cui si forma questa fascia che è feroce nel senso che sono quelli che sperano di beccare metà bidone.

Ti metti in questa cosa e vai avanti lì e ti arriva quello che ti arriva sperando che vada bene. Qualche volta c’è la fettina di pane, la domenica c’è il pezzettino di margarina, c’è questa specie di brodaglia non capisci bene se vuole essere un caffè o che cosa, le calorie sono talmente basse per quel tipo di lavoro, ma se vuoi la gente che lavora devi dagli da mangiare, non puoi pretendere di fare questi lavori pesanti. Cominci ad alleggerirti, ti inventi qualche cosa, mentre becchi il vagoncino che va ad attaccare i vagonetti dentro la galleria a lato hai i ciuffi d’erba, raccogliamo questa erba; lateralmente le locomotive hanno queste come dell’acqua, mettiamo questo batuffolo di erba dentro l’acqua, quando ha fatto due volte il tragitto è cotta per cui siamo dei furbetti, poi prendiamo dei pezzi di roccia che hanno sopra una patina che sembra margarina, la puliamo bene solo che questa ci crea nello stomaco un canale perché siccome è grassa, ha una funzione solo di riempirti la bocca, alla lunga questo sarà quello che creerà le grandi dissenterie per cui diventa un tubo solo, butti giù un bicchiere d’acqua e già va.

La vita del campo di Ebensee è una vita che non vivi perché non ci sei, alla mattina vi è sempre qualche problema perché o la visita dei pidocchi o qualche altra storia, a qualcuno mancano gli zoccoli, comincia che quelli che sono in condizioni così tolgono il nastrino e gli scrivono sulla pelle il numero di matricola e lo mettono fuori così già ci sono i gradi che ci sono e sei sicuro che rimane lì, quindi si alleggerisce il peso.

Alleggerendo il peso delle presenze, parlo di materiale umano in termini molto semplici. Per largo tempo noi subiamo i triangoli verdi che sono i delinquenti comuni, per la maggior parte tedeschi, qualche polacco, sono quelli usciti dalle patrie galere che avevano commesso uxoricidio o parricidio, cose di questo tipo, condannati a trent’anni ai quali è stata data un’ipotesi alternativa. Avevano una baracca con 500 persone, la gestivano, la dovevano mantenere in ordine, puntuale, precisa; la gente mangiava, dormiva, erano fatti del capo blocco, la gestivano come volevano, li legnavano, li ammazzavano, facevano quello che gli pareva ma dovevano tenerli sempre in ordine, funzionali che devono lavorare, soprattutto puliti, la pulizia prima di tutto.

Questo crea quel massacro che succedeva anche nei blocchi. Non si possono ricreare i gruppi nazionali perché sono fraintesi con gli altri, non solo, ma l’esigenza di non aver messo solo un gruppo nazionale nel blocco è dato dal fatto che lì forse si può studiare la fuga mentre se siamo blocchi di nazionalità diverse come dici a un russo “Andiamo via”?, Anzi, devi stare attento che la frase non circoli, ci sono anche questi timori e loro opportunamente fanno in questo modo di frammischiare le lingue per cui nasce il glossario del campo, questo linguaggio interno che è fatto un po’ di tutte le lingue dove abbiamo i termini più strani e dove ci sono poche parole e tanti sguardi.

Un’esigenza era quella di non lavorare, di osservare molto, di stare sempre con gli occhi aperti; purtroppo, tante volte non te ne accorgevi, ti arrivavano dietro e ti legnavano ma ogni minuto che guadagnavi era un minuto guadagnato.

Poi ci si accorgeva che si andava verso la fine; abbiamo lavorato come matti per andare avanti in queste gallerie, quando si usciva dalle gallerie si era distrutti la polvere rimaneva sui polmoni e di qui il fatto che tornando molti di noi sono andati al sanatorio.

L’operazione in galleria ha però un vantaggio, sembra strano, perché lavorando a 5 mt. e di notte quando la SS entra di là, con il cane, tutto bello pulito, gli apri l’aria per la nuvola di fumo e tu vedi la SS e lui non vede sopra, il cane le scale non le sale perché sono a pioli quindi è difficile, è un modo per salvarsi.

Questo per me è un nucleo molto importante, devo dire che ci si rende conto piano, intanto arrivano i pezzi per i missili, la zona dove fanno l’acqua sintetica, cercano di portare laggiù quello che loro hanno perso a Peenemünde. Arriva anche un gruppo che arriva da Sachsenhausen che viene direttamente a Ebensee e vengono poi mandati a Redl Zipf che sono quelli che fanno le monete false, un gruppo di falsari, poi ne conoscerò uno alla fine, l’ho visto ancora due anni fa che dice: “Io non esisto, non mi chiamo, mi chiamano gli altri e io mi chiamo “nessuno”, con delle mani d’oro che fanno queste monete intanto per poterle buttare sugli altri mercati, gli inglesi fanno monete inglesi, il discorso della moneta buttata in un discorso di questo tipo vuol dire falsare anche tutti i problemi economici.

Cominciano a passare come delle rondini sulla testa, apparecchi, le fortezze volanti che cominciano ad andare, vanno avanti e vanno a finire su Vienna, vanno a bombardare un po’ dappertutto. Ad un certo punto ti accorgi che il giro diventa quasi continuo perché si muoveranno con gli americani di giorno, questo è uno studio che ho visto dopo, e con gli inglesi di notte. Difficilmente gli americani viaggiavano di notte,gli americani avevano i grossi bombardamenti, gli Spitfire, i più piccoli giravano di notte perché facevano opera diversa come quella del lancio dei manifestini a firma di Truman, Stalin, Churcill che dicono negli ultimi mesi: “Attenzione perché vi consideriamo criminali di guerra, quindi l’umanità che avete a vostra disposizione salvatela, stati attenti”; cercano di intimorirli anche in questo modo e fanno capire che hanno finito.

Queste cose le recepiamo anche dall’atteggiamento del personale civile che ci segue nelle gallerie perché lì ci sono le ditte che ci hanno affittato, chiaramente il costo nostro non lo ricordo più, la trattativa avviene sempre con la società della SS per questi compiti e noi lavoriamo alla dipendenza di un Meister che ha premura perché viene sollecitato, trasferisce al Kapò questa sua esigenza, le SS invitano il Kapò a reagire e il Kapò mena anche perché deve far vedere alle SS che lui c’è. Qui nasce il discorso del rapporto tra le SS e il Kapò e i deportati; nei processi la SS dice: “Noi non eravamo nel campo, eravamo attorno al campo, facevamo sorveglianza”. Questo è falso primo perché ogni blocco aveva un responsabile delle SS che faceva la conta e parlava con il Kapò. Poi vi era l’appello e quando c’era l’appello c’erano tutti. Loro tentano questo marchingegno che non riesce, il Kapò si trova nella condizione che avendo accettato una soluzione deve comportarsi di conseguenza, non dico che lo giustifico ma dico che se già poteva maltrattarci in un modo, ci maltratta di più perché davanti alle SS doveva far vedere che è uno che osserva quello che gli è stato imposto, quindi, chi prende le legnate è sempre il deportato, non ne prende una ma ne prende 25 per volta che non sono date sul sedere perché forse le avresti anche accettate meglio, ma sul fondo schiena, cioè sui reni; quando le becchi sui reni ti alzi e fai la pipì con il sangue, non vi è altra soluzione perché i reni si sfasciano, le becchi una volta, le becchi due, la terza volta non ti tiri più su.

Il fatto è che ti corichi, ti metti giù e comincia questa legnata,le contano, tu le conti, quando hai finito ti tiri su, dici “Grazie”, atto più distruttivo che puoi dare perché già non ce la fai più e devi anche ringraziarli e da quel momento pensi di essere tranquillo per una qualsiasi stupidaggine. Quando hai il castello a tre piani, dormiamo tre per letto, due se siamo più fortunati, quindi due di piedi e uno con la testa, quello che è sull’ultimo piano quando deve salire mette i piedi sul primo, quindi nel salire schiaccia quel letto che non è a posto, quindi guai a prendere un letto a terra. Prendere un letto sopra: non aspettano tanto, ti chiamano due volte e poi ti tirano giù e vai per terra da due metri e mezzo. Se imbocchi il letto di mezzo sei controllato perché è chiaro che se ti muore uno vicino e sei nel letto di mezzo non puoi non dirlo, se sei lassù mangi anche la sua parte poi cerchi di andare avanti … lo dico onestamente: mi trovo una zuppa in più la mangio, vado a prendere le legnate ma intanto mangio. Queste cose sono quelle che ti fanno pensare che, comunque, forse più umanità si salvava, se ci fosse .. se ci fosse … 63 anni dopo parlarne con disinvoltura vuol dire anche fare a se stessi un grosso impegno perché onestamente la memoria tradisce tutti e tradisce anche te. La prima domanda che ho fatto non più tardi di 15 giorni fa che ero a Saint Vincent e ho incontrato i ragazzi, ho chiesto “Credete alla nostra memoria?”, hanno risposto “Sì” e sono andato avanti, ma è facile dire, “Quando si arriva a 81 anni mi vuoi dire che sei così limpido? Perché ricordi questi particolari?” Perché la scienza, non io, dice che io ricordo quei tempi e non ricordo che cosa ho mangiato ieri, è la meccanica della memoria, quindi, sotto questo aspetto mi sento abbastanza sereno anche perché non voglio mai fare una testimonianza né da protagonista né da vittima, non mi sento né vittima né protagonista, è stata una scelta così, ho creduto in quello che ho fatto, ho pagato per quello che ho fatto, ritengo di non essere un eroe, molti altri ce ne sono stati e non li abbiamo neanche conosciuti, non li abbiamo neanche ricordati, dell’oggi poi parleremo.

La liberazione il 6 maggio del 1945: verso le 14,30 del pomeriggio vediamo grosse nuvole di polvere … c’è il passaggio del giorno prima importante.

Il 4 il Comitato di Resistenza del campo di cui facevo parte con Ferrante, Dragoni e altri, riesce a far capire che siamo allo sbando delle SS per cui dobbiamo regolarci sul comportamento, non sappiamo se entreranno nelle baracche, non sappiamo il comportamento, il comandante del campo ci riunisce tutti, siamo in 18.00 sul campo di Ebensee, arriva con il suo cane, ha insieme le SS schierate con le mitragliette, dalle garrite vediamo gli altri che sono piazzati e noi siamo lì tutti schierati.

Sale su questo sgabello e inizia il discorso, tutto silenzio, e dice “Herren”, vuole dire “Signori”, siamo rimasti tutti, “Per un giorno siamo signori”, poi dice “Siccome noi abbiamo sentore che le truppe alleate arriveranno vogliamo salvaguardarvi, quindi, vi invitiamo ad andare in galleria e noi cercheremo di salvarvi il più possibile, vi garantiamo che faremo quello che dobbiamo fare e ci auguriamo che questo vi porti alla libertà, ecc. ecc.”

Il problema che lì parte l’impostazione del Comitato, tutti quanti rispondono “No”, subito non sanno perché rispondono no, il discorso è che davanti alle gallerie, specialmente all’imboccatura di un paio ci sono le locomotive … queste locomotive che servivano quei vagonetti che andavano avanti e indietro le hanno piazzate davanti all’imboccatura delle gallerie in modo che all’esplosione si chiudeva la galleria e morivano dentro come topi. Solo questo lavoro, far parte del Comitato di Resistenza di un campo era una cosa impossibile, voleva dire avere la pelle sulla corda ogni momento, se per caso si dovesse pensare che hai una funzione diversa. Ho sempre ammirato Franco Ferrante perché il fatto che sia stato spinto da noi a fare lo scrivano del blocco è stata una cosa per lui dolorosa ma per noi importantissima perché è l’unico modo per poter evitare di mandare qualcuno nei comandi più negativi per cui il lavoro che ha fatto questo uomo è stato immenso e gli va riconosciuto. Ricordo anche Morgante, e ce ne sono altri, li ricordo un po’ tutti perché li ho anche citati nella pubblicazione. Quindi, lì rimane fermo sullo sgabello, la cosa non lo ha reso felice più di tanto, poi scende, raccoglie le SS e vanno via.

Questo fatto ci fa pensare: “Perché adesso rientriamo nei blocchi e che cosa succede?”

Siamo tutti quanti in attesa di vedere che cosa succede. Succede che questi si cambiano e se ne vanno, lasciano gli abiti militari, si mettono in abiti borghesi e se ne vanno. Il comandante del campo viene beccato, gli americani arrivano, aprono la porta, le sentinelle non ci sono più ma hanno insieme la gendarmeria, i pompieri, questi ometti anziani con le bande rosse e blu, con dei fucili 91 alti così e ti fanno segno di stare lì, abbiamo tolto corrente ma siamo tutti nel campo, gli americani anche hanno paura perché 18.000 che scendono a Ebensee se la mangiano, non so con la pazzia che c’è in giro che cosa succede per cui il timore è anche questo.

L’arrivo degli americani è prima lo studio, questa punta avanzata che viene e entra, vede l’ambiente e poi spiegheranno, abbiamo avuto paura perché la gente si è avvicinata all’autoblinda e non potevamo sparare, siamo usciti subito, abbiamo rinchiuso la porta. Poi si sono dati da fare, sono stati a Ebensee, hanno requisito le panetterie, arrivano, impiantano il campo della sanità e lì quando arriva il blocco ci sono tanti di colore, entrano e dopo dieci passi che hanno fatto hanno tutti la mascherina perché al fondo del campo, vicino al forno, non hanno più bruciato, devo dire che la maggior parte tornavano a Mauthausen, li mandavano indietro a Mauthausen. Erano più veloci i forni di Mauthausen, a un certo punto non ce la facevano più e hanno fatto le cataste: corpi umani, legna, corpi umani, legna, poi bruci, sono le pire. Chiaramente queste cose creano odori, dalla pelle umana esce un odore che non è sopportabile ed è quello che diciamo quando parliamo con quelli che ci dicono che la gente non sapeva, spieghiamo che quelli dei comuni vicini lo dovevano sapere anche se non volevano perché quegli odori li avevamo noi e li avevano anche loro in casa, il vento non restava lì, si muoveva, sono risposte implicite che ti vengano.

Quando arriva la sanità si preoccupano di vedere che siamo tutti messi come siamo messi e comincia a cercare di salvare il possibile. Commettono anche loro un errore nella bontà, nella volontà di salvare il tutto arrivano con questi carri enormi con sopra dei mastelli in legno, che sono di marmellata, cioccolata. La gente corre e si mette con la testa dentro, dopo di che non avevamo più mangiato nulla … lo stomaco non ha potuto accettare tutto, quando è arrivata la sanità queste cose le hanno subito regolate perché i medici hanno subito detto: “Non si può fare queste cose” Io avevo una palandrana addosso perché era quella che mi andava bene, che poi ho lasciato non so più a chi, a chi era peggio di me.

Sono rientrato alla fine di giugno o a metà luglio e la prima cosa è la disinfezione, quindi, queste tendopoli dove ci mettono sotto doccia e poi viaggiano con i DDT, grandi pompate, poi sotto, poi dicono che fa cadere i capelli, so che me lo hanno dato dappertutto, davanti dietro sopra sotto, poi sono cominciati i ritorni.

Restiamo non dico come, non voglio dire come sempre perché non so altre situazioni, ma restiamo i buoni ultimi, restiamo con gli jugoslavi perché volevano farci rimpatriare insieme, “Vi portiamo a Tarvisio, voi andate di là e loro vanno di là”.

I russi sono partiti allineati e coperti, i francesi sono partiti in aereo, restiamo noi, 283 italiani che siamo così e dico: “Se non ci muoviamo …” ero malmesso perché ero già con il coso scritto qua per cui stare in piedi era dura. Parliamo con l’americano e gli diciamo che anche noi vogliamo rientrare, “Se non viene qualcuno a prendervi come rientrate?” bisogna organizzare questo rientro, possiamo anche accompagnarvi, ma siamo a Linz. Poi vi era una diatriba nel comando americano perché quelli di Mauthausen dipendevano dalla Undicesima Divisione che aveva un comandante e che naturalmente diceva: “Essendo Ebensee un sottocampo di Mauthausen lo dobbiamo gestire noi”.

L’altro di Linz diceva: “Siccome Ebensee si trova a pochi metri dobbiamo gestirlo noi”. Volevano gestirci tutti ma restavamo lì.

Siccome l’ospedale americano era stato fatto in una caserma a Salisburgo, siccome eravamo tutti messi così abbiamo detto: “Liberiamo il campo e li portiamo lì”, per portarci via arriva Monsignor Leonzio Nicolai, cappellano dei civili italiani liberi lavoratori della zona di Linz. Monsignor Leonzio viene con una signora che traduce per parlare con gli americani e i tedeschi perché anche se non ci sono più sei nel loro territorio, devi sapere le strade.

Gli americani come sempre raccolgono tutti e ci imbarchiamo su questi camion con Monsignor Nicolai, andiamo all’ospedale di Salisburgo e lì vediamo il personale della Croce Rossa americana, vediamo le dottoresse che hanno la croce rossa dietro, mi visita un medico cinese o giapponese che ha delle tavolette nere e dice “Qui dobbiamo fermare la diarrea, prendi questo tavolette e avanti, poi aspetta a rientrare perché ti dobbiamo mettere in condizioni …”, “Io vorrei solo andare a casa” … Chiedere di andare a casa non è così facile, poi non sai nemmeno se trovi casa e che cosa trovi, il ritorno è lungo.

Passiamo questo periodo a Salisburgo e rientriamo attraverso il Brennero e troviamo sulle Alpi ancora dei gruppi di SS che sparano sui vagoni per cui è andata bene anche lì.

Arriviamo a Bolzano e ci portano tutti all’ospedale militare, vengo ricoverato con uno che sembravamo Cric e Croc, perché io ero stilizzato e questo era piuttosto corposo, un caro amico, che vive a Trieste, un tenore, qualche volta abbiamo mangiato anche la zuppa perché lui cantava, bisognava fare di tutto, “Italiano cantare”.

Arriviamo a Bolzano, siamo all’ospedale militare di Bolzano, siamo insieme noi due, visita, credo che sia il responsabile dell’ospedale che dice “Ragazzi voi due … “, quello che era così gli facevo così e restava il bollo perché era tutta acqua, aveva conservato l’acqua, una cosa allucinante, io stringatissimo e dice: “Dobbiamo fare degli esami, ecc.”, ci bloccano subito.

Dice: “Non puoi viaggiare”, ma rispondo che vorrei solo andare a casa, perché devo andare in mezzo alla gente, “Vado a casa”.

Un bel giorno arriviamo sotto e vi era del personale utilizzato come autisti con le macchine. Un giorno scendiamo e vediamo uno di questi che si stava facendo una cotoletta sulla pietra, noi due guardavamo pensando: “Noi non abbiamo visto niente, questo che dovrebbe essere un nemico gli danno delle sberle di carne di questo genere, qui è un altro mondo”, e l’idea che questo ci potesse portare via con la macchina mi è venuta subito.

Siamo saliti su questa specie di macchina e abbiamo avuto la fortuna di non trovare nessun gruppo partigiano perché con questa macchina con gli stemmi magari ci sparavano dentro, avrebbero detto che eravamo dei fuggiaschi ed eravamo noi due lì sopra, immaginate che fine triste andavamo a fare, poi si dice “il fuoco amico”.

Arriviamo a Milano alla stazione, poi lui è andato, un mucchio di giri per la ferrovia per i bombardamenti, poi mi chiedo perché prima non hanno mai bombardato le linee del Brennero e di Tarvisio, hanno bombardato a Peenemünde, abbiamo avuto il primo trasporto ebreo che è partito da Merano due mesi dopo, potevano bombardare anche le linee sul Brennero, probabilmente avremmo bloccato il discorso della deportazione, sono considerazioni che fai oggi dopo tanti anni.

Arrivati a Milano messi nella stanza dei reduci e lì sono tutti seduti su carrozzelle, sulla brandina, ci mettono su due carrozzelle e l’altro dice: “Devo andare a Trieste”, e dico: “A Milano ci sei”. Dall’ospedale non potevamo andare a Trieste e poi a Milano.

Comincia il primo impatto, duro, arrivano i famigliari che ci chiedono notizie: “Eri a Mauthausen, hai visto mio figlio?”, ma è già difficile ricordare una persona nella figura originale o vedere una fotografia ma quando devi vedere una persona che non ha capelli, ha tutto quanto rasato è difficile individuarlo, anche gli occhi cambiano, le figure si trasformano, non riesci più a individuarli, qualcuno che ha avuto la fortuna di camminare insieme all’ultimo minuto può dire: “L’ho lasciato a Salisburgo”, ma andare a spiegare …oppure anche il discorso di spiegare a una madre che hai visto il figlio andare al forno crematorio e alla camera a gas, come si fa? Intanto la camera a gas non sapevi che cosa era, poi quando hai cominciato a capire che cosa era fortunatamente eravamo già da un’altra parte ma le cose sono successe, le cose ci sono, la camera a gas è lì, non è che non si vede, certo si vedono altre camere a gas molto più importanti per l’eliminazione diretta che è quella di Auschwitz ma qui quanti ne sono passati a Mauthausen anche all’ultimo minuto che si poteva evitare! Il discorso della falcidia anche sui politici doveva esserci perché era gente che doveva sparire, soprattutto austriaci.

Arrivo a Milano e vi è questo impatto molto difficile. Quando vai su non sai dove vai ma quando torni indietro non sai che cosa trovi, non hai corrispondenza, non hai mezzi di comunicazione. Se hai famiglia magari dopo due anni c’è gente che ha fatto scelte diverse, magari hai perso i figli, hai perso la casa con i bombardamenti, un mucchio di cose che ti portano a dire: “Voglio andare a casa”, sapendo che ci possono essere sorprese ma te le poni come qualche cosa che può succedere, tanto quello che è successo l’hai sulla schiena.

Un giorno fanno un trasporto su Torino-Milano, mi viene a prendere un ragazzone che aveva il vestito di cachi e che aveva la bandiera tricolore, faceva il servizio volontario; mi prende come prendere un sacco, mi prende leggero, ero 36 kg, mi mette sul vagone, siamo io e lui seduti tranquilli e questo vagone parte destinazione Torino.

Arriviamo a Porta Susa a Torino, si ferma e non partiva più. Vi era questo capo stazione che andava avanti e indietro, ad un certo punto dico: “Non parte più questo treno, devo andare a casa”. Non ho fatto partire il treno io ma mi sentivo di arrivare, arrivati a Porta Nuova mi prende in braccio e mi mette lì alla Croce Rossa.

Siccome siamo in estate sulla porta vi sono queste tende fatte di tanti piccoli cosini di lamiera che tintinnano, mi è rimasta impressa questa cosa.

Entro, mi mettono sulla sedia a rotelle, una coperta sulle gambe e sto seduto, poi mi chiedono chi sono, spiego le cose e dico: “Devo fare degli esami… ti mandiamo in sanatorio oppure ti mandiamo dove sono finiti un po’ tutti quelli della Lombardia”.

Questo discorso di andare in sanatorio …Mi chiedono come ti chiami, mi chiedono se ricordo il numero di telefono, mi danno il telefono, faccio il numero e qui arriva una scena un po’ così e dico “Pronto, casa Tibaldi? Ho conosciuto un certo Italo Tibaldi che era in campo di concentramento, sta bene e tornerà quanto prima”, mia sorella prende il telefono e sviene.

Arriva mia madre che era stata fuori e chiede che cosa è successo. “Sai, mamma, ha telefonato uno dicendo che ha conosciuto Italo … “Dove è?” “Non so dove è, non ho capito” “Come non hai capito!” Volano quattro ceffoni sono volati perché non aveva capito, mia sorella me lo ricorda sempre, ho preso quattro schiaffoni per te e dico: “Mettili insieme a quelli che ho preso io”.

Lei era andata al comando da Smith, padre ufficiale, quindi, militare, lei parte e va da Smith e vuole avere notizie di suo figlio. Smith aveva detto: “Non so dove è, ma se torna sarà un uomo”.

Non so se sono tornato uomo, voglio dire che certamente sono tornato vecchio perché otto mesi così ti mettono fuori dalla tua generazione, diventi immediatamente vecchio anche per il campo perché essendo uno dei primi arrivati, pur essendo una matricola bassa nel campo sono già un anziano per cui il campo l’ho conosciuto per tutto il periodo.

E’ un momento difficile, un bel momento vedo muovere le tendine e vedo mia madre: “Allora?” “Sono qua!” “Non hai le gambe?” “Sì, le ho però ho la scabbia” “Cretino! La scabbia cosa vuoi che sia”. Dicono: “Dobbiamo portarlo su perché lei capisce…” e lei risponde: “Io me lo porto a casa, garantisco quello che vuole, ho un medico di fiducia, poi se deve andare da qualche parte, faremo gli esami”.

Per essere sicuri dicono: “Lei deve andare almeno all’ospedale militare”.

D: Scusa, Italo, mamma ti porta a casa come?

R: Siccome non c’era benzina, c’era la carrozzella con il cavallo, mi mettono sopra lì e rivedo Torino, via Sacchi… Ad un certo punto facendo un pezzo di strada vi sono le rotaie del tram che accompagnano per andare verso la zona dove vado io. Vicino alla carrozzella vi è uno dei ragazzi del panettiere che hanno davanti la ruota più piccola con la cesta da mettere e dietro la ruota più alta, questo sta fischiettando, infila la rotaia e il pane per terra. Istintivamente mi sono tirato in piedi e ho trovato la forza, questo tira il cavallo e dice: “Che cosa è successo?” “Non ha visto tutto quel pane?” “Sì c’è pane, ne vedrà” …

Sono arrivato a casa e non c’erano ancor ai condomini, ma c’erano i quartieri, “Italo, Italo”, il medico dice: “Abbiate pazienza ma dobbiamo fare altre cose all’ospedale militare”, tubercolosi polmonare bilaterale, mandano l’ufficio leva e quando chiamano la mia leva mi chiamano e gli mando l’atto di riforma, mi riformano, sono riformato. Poi mi arriva il brevetto, ero comandante di squadra partigiana perché ne avevo 15 con me in montagna; mi arriva l’avviso che sono Sergente Maggiore per cui a 16 anni sono Sergente Maggiore, i casi della vita … riformato … A casa è complessa per me perché mi rendo conto che nessuno ha visto e pensato a cose di questo tipo, spiegare cosa c’era nel campo … un giorno mi giro di colpo e vedo che uno fa all’altro “E’ fuori di testa, cosa vuoi stare lì a fare domande”.

Ho conosciuto parecchie opportunità, ho cominciato a girare con Primo Levi che mi voleva insieme forse perché ero un po’ sbarazzino, non mi piace affrontare questo tema in termini truculenti, non è questa la strada per andare nelle scuole, con i ragazzi. Devi partire con la convinzione che loro sono interessati a capire e che hai il dovere di testimoniare.

Se così è il dovere della testimonianza ti porta quasi naturalmente a essere in mezzo, non credo di essere un caso particolare ma credo che il lavoro che abbiamo fatto l’abbiamo seminato in tanti anni, abbiamo lavorato e mi permetto di dire con qualche serietà abbiamo lavorato, senza erosimi e senza atteggiamenti che sono solo demagogici.

Purtroppo, oggi il numero dei sopravvissuti è molto esiguo perché è una legge naturale. A Mauthausen eravamo circa 8.200, alla liberazione eravamo 856, oggi siamo 200 e poi vi è il problema che non è questo il numero giusto ma il numero giusto è quello di quelli che ancora qualche cosa riescono a dire o a scrivere su questo argomento.

Sono esperienze che vanno collegate una all’altra. Parlare della deportazione in senso stretto si può concludere in tre secondi, parlare di trasporto forse anche, dare una visuale più ampia, neppure suggestiva, neppure emozionale, non mi interessa l’emozione, mi interessa quel poco di emozione che serve ad entrare in argomento dopo di che il giovane deve sapere lui leggere e vedere, capire, se è così lui stesso diventa un testimone perché porta avanti quello che ha visto, non quello che gli ho detto io.

Temo fortemente che l’oblio cerchi di superare un po’ tutto, penso che non ce la farà se sapremo tenere fermi i campi, se li difenderemo per quello che sappiamo. Devo dire che la Resistenza internazionale si è fatta viva anche nella deportazione internazionale. Credo che per alcune situazioni che conosciamo più approfonditamene ci sarà comunque, piaccia o non piaccia, il ricordo, parlo di Marzabotto, parlo della Risiera di San Sabba, parlo di Fossoli, perché no anche di Borgo San Dalmazzo. Sono esperienze legate a te ma se non le trasferisci in tempo… Se abbiamo un torto è quello di aver dovuto cominciare tardi perché prima non siamo stati creduti e forse anche a ragione, forse abbiamo faticato noi a inserirci perché l’umanità camminava, noi siamo rimasti indietro, abbiamo perso due anni e due anni nella vita di una persona contano.

Per me è stata una fetta di gioventù che mi sono bruciato così, non mi rimprovero nulla, un’esperienza che ho vissuto e devo dire che dall’accoglienza che trovo ancora adesso vuol dire che in qualche modo l’abbiamo spiegata con serenità.

Se hai questa tua visuale di globalità, di solidarietà che è stata espressa in tanti sensi, anche religiosi, e hai soprattutto la tranquillità di sapere che non hai fatto nulla per tornare, non so se mi spiego, ma sei tornato, forse il destino ha previsto così, voglio dire che vi è ancora una forza, una capacità di dire che passa ormai da testimone a testimone.