Bergamasco Elvia

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Bergamasco Elvia, sono nata a Manzano nel 1927, il 18 agosto in provincia di Udine. All’età di 18 anni sono andata a lavorare in un campo di munizioni. Dopo un paio di mesi che stavo lavorando là, c’era già nella provincia di Udine la formazione di partigiani, una sera lì è venuto un signore che mia madre conosceva e ha chiesto se per piacere consegnavo una lettera a un capitano dell’aeronautica che stava lavorando in questo deposito di munizioni insieme con me.

Io lo conoscevo, ho detto di sì. Mia madre ha chiesto: Vediamo che cos’è” perché allora avevo 18 anni, e ai nostri tempi c’era molta severità. Mia madre ha letto, ha visto che era una lettera d’amore più che altro, era scritto: “Amor mio, ci troviamo alle cinque, alle sei si parte…” e tutte queste cose.

Era invece una lettera scritta in codice, l’ho scoperto dopo quando mi hanno detto che cos’era. Io sono andata al lavoro, ho consegnato queste lettere; un paio di volte l’ho fatto. Ho scoperto che c’erano i partigiani che consegnavano. Laggiù c’era questo capitano dell’aeronautica che lavorava lì e un maresciallo della Wehrmacht, un nobile di Vienna, non ricordo come si chiamasse questo maresciallo.

Queste lettere erano scritte in codice, nel momento in cui venivano trasportate nei camion delle munizioni, invece di caricare questi camion con delle bombe di cannone, si caricavano questi signori, anch’io delle volte, si caricavano munizioni piccole, bombe a mano, cartucce, queste cose.

Questi camion dovevano attraversare dei boschi, venivano trasportati in un altro deposito. Questi boschi erano quasi vicini al confine jugoslavo. Così c’era l’appuntamento. Queste lettere non so come poi venivano trasferite, fatte arrivare ai partigiani sloveni, loro scendevano, quando si trovavano tra questi boschi, lì prendevano le munizioni, si armavano.

Così abbiamo fatto un paio di volte dal mese di gennaio al mese di giugno. Un giorno i primi di giugno sono capitati con il camion delle SS e si erano spaventati un po’. Ho detto in Friulano: “Sono arrivate le cagne”, vuol dire è arrivato un macello, davano il nome alle SS. Cercavano soltanto me, erano tutti spaventati gli operai che erano lì naturalmente.

Invece sono arrivati nel capannone dove lavoravo io, sono venuti vicino a me, mi hanno chiesto se mi chiamavo Bergamasco Elvia, ho risposto di sì. Loro avevano una foto in mano. Mi hanno ordinato di seguirli. Mi hanno scortato, io lavoravo in fondo a questo campo, mi hanno scortato con un mitra davanti e uno di dietro. Mi hanno fatto salire su una specie di jeep tedesca, mi hanno portato a Cormons, una cittadina in provincia di Gorizia.

Lì ho trovato i miei compagni, chiamiamoli compagni, delle persone di una certa età che io conoscevo soltanto di vista praticamente.

Eravamo in sette/otto di noi, ci hanno messo in fila, hanno chiamato fuori il comandante. Difatti era il commissario della zona, del battaglione Garibaldi.

L’hanno chiamato fuori. L’avevano già percosso quando l’avevano arrestato. Sono andati a prelevarlo a casa durante la notte perché gli hanno detto: “Senti, sta per morire tua madre. Vai a trovarla”.

Lui è sceso dalle montagne, era su dalle parti di Castelmonte, nelle colline di Cividale. Lui è sceso a trovare sua madre, invece c’era la spia, c’erano già i nazisti e i fascisti lì ad aspettarlo.

Per salire su un camion bisognava appoggiare le mani perché il portellone non era stato tirato giù. Mentre saliva gli hanno picchiato con il manico del fucile sulle mani.

Poi lì ritornando a Cormons lui è uscito fuori quando lo hanno chiamato per nome, lì ho avuto il primo impatto con le cose che dovevano succedere.

Davanti a noi gli hanno tolto le unghie con le tenaglie. Però dalla sua bocca non è uscito un grido. S’è trasformato dal dolore, ben s’intende.

Poi finito il loro lavoro, ci hanno caricato su una corriera, ci hanno portati a Gorizia, nelle carceri di Gorizia. Nelle carceri di Gorizia siamo rimasti quaranta giorni. In una cella eravamo venticinque donne.

Si dormiva per terra. Gli animali che c’erano lì ci facevano compagnia durante la notte. Abbiamo subito cinque processi. Io fra tutte noi che eravamo sette, soltanto io non sono stata picchiata o torturata. Le altre donne le hanno anche psicologicamente tartassate anche negli interrogatori. Nell’interrogatorio non era che si continuasse a parlare come un libro aperto, perché magari quello che mi avevano chiesto il primo giorno me l’hanno richiesto il quinto giorno.

Poi abbiamo avuto la condanna a morte. Poi è intervenuto il Vescovo di Udine e una Baronessa austriaca che abitava nel paese dove abitavo io, a Manzano. L’hanno tramutata nei lavori forzati.

Poi dopo quaranta giorni, un giorno è venuta una chiamata di prepararci che si andava a lavorare in Germania. Il nostro trasporto è un po’ anomalo anche perché veniva dall’Ungheria, avevano caricato sloveni, ungheresi, tutta la gente dell’est, ragazzi, donne, bambini.

Ma hanno bombardato, stavano bombardando in Ungheria, il nostro treno lo hanno dirottato verso Trieste, così hanno fatto i carichi prima a San Sabba, poi a Gorizia, poi alla volta di Udine. Poi siamo partiti alla volta di Tarvisio. Siamo partiti.

D: Eravate in tanti sul tuo Transport?

R: Sì. Quando ci hanno fatto salire sui carri bestiame, ci siamo guardate in giro. Eravamo tutte in piedi, ammucchiate. Quando abbiamo avuto il tempo di contarci eravamo in centoventi donne. Ce n’erano anche che venivano da Trieste sul nostro carro bestiame.

C’erano delle donne, ragazze anche, che le avevano torturate a San Sabba. Abbiamo chiesto loro cosa avevano fatto. Loro ci hanno raccontato che avevano messo loro l’elettricità nei capezzoli e nel di dietro e poi delle torture psicologiche.

Abbiamo viaggiato dodici giorni. Su questo carro bestiame c’era un po’ di paglia e due mastelli. Uno pieno di acqua e uno per i servizi igienici.

Potete immaginare, dodici giorni di viaggio senza mai aprire. Gli odori, le cose che erano lì. Il mese di agosto. L’acqua si spartiva un po’ per ciascuno, pianino.

Il mastello si svuotava soltanto durante la notte, quando il treno si fermava. Il nostro viaggio è stato lungo dodici giorni perché? Perché durante la notte fermavano la tradotta. Caricavano e scaricavano carne umana, delle persone.

Io penso che si siano fermati negli altri campi, a Mauthausen, a Buchenwald, Dachau, negli altri sottocampi. Si sentiva nel treno quando attaccavano e quando staccavano gli spintoni.

Finalmente dopo dodici giorni siamo arrivati dove si doveva arrivare. Mi ricordo una cosa. La stazione che ho visto, era scritto in una lingua che non capivo, ora lo so che si chiama Oswiecim, siamo scesi allo scalo merci. E’ stato il nostro l’ultimo trasporto che è sceso a Oswiecim.

Dopo dodici giorni si sono aperti questi vagoni. Ci hanno investito con un gran fascio di luce. Si sono sentite molte urla in lingue che non si capivano e un grande abbaiare di cani.

Gridavano: “Schnell, Los, Los, Los”. Abbiamo capito che si parlava polacco e tedesco. Poi altre lingue forse. Gridavano di scendere in fretta, in fretta, di scendere in fretta. Lì siamo scese, ci siamo girate, ma quante persone sono rimaste su quei carri, non si sa il numero.

So che eravamo una marea di gente. Il treno era talmente lungo tra bambini, donne, anziani, uomini; chi gridava, chi cercava la madre, chi cercava il figlio, la moglie, “Dov’è mia moglie…” Però con le urla dei nazisti s’è fatto tutto un silenzio, questo abbaiare di cani anche.

Poi hanno cominciato con l’ordine secco di metterci in fila per cinque. Poi mentre si passava dicevano: “Questo sì, questo no”. In più l’hanno detto nelle lingue in modo da farci capire che chi era stanco, non poteva camminare o era anziano, poteva salire su quei camion che erano a disposizione lì.

Molta gente che era stanca ha detto, vado col camion, faccio più presto. “Ma è qui vicino”, dicevano. Poi hanno cominciato a fare due file, una a destra e una a sinistra. A sinistra venivano gli anziani, i bambini che venivano strappati dalle braccia delle madri. Dovevano andare con la fila degli anziani o con quelli che non stavano bene.

Poi ci siamo incolonnati e a piedi ci siamo camminati. Non potrei dire quanto tempo abbiamo camminato perché io non sapevo quanti chilometri… Siamo arrivati davanti ad un cancello con la famosa scritta: “Arbeit Macht Frei, “Il lavoro rende liberi”.

Ci hanno detto che eravamo arrivati ad Auschwitz, nelle lingue, ognuno ha capito che eravamo ad Auschwitz. Eravamo stanchi, sfiniti, senza valigie, senza niente. In più ci scortavano lo stesso. C’è sembrato un po’ strano.

So di essere arrivata ad Auschwitz e di essere entrata in un gran capannone, lungo, fatto in mattoni. Lì dopo che erano entrate tutte le donne separate dagli uomini senz’altro, ci hanno dato l’ordine di spogliarci immediatamente.

Io non lo so, oggi come oggi di spogliarsi davanti a una bambina, a una ragazzina, una nonna, una madre, non lo so se riesce a capire la gente che cos’era a quel tempo. Poi qualcuna ha tenuto le mutandine, le sono state strappate in un modo talmente violento, cattivo. E’ difficile spiegare, dire che senso era.

Poi sempre in fila per cinque, nude, ci hanno fatto la prima cosa, ci hanno fatto un numero al braccio sinistro, il tatuaggio. Il mio numero al braccio sinistro è 88653. Poi sempre in fila per cinque, non era uno solo, erano in tanti, tante persone che facevano il numero, si andava in fila, poi si passava in un’altra stanza. C’era una vasca, si doveva mettere i piedi dentro.

C’era un’acqua bianca. In quest’acqua io credo c’era un disinfettante, un odore, come quello con cui si disinfettava una volta gli animali, la creolina si chiamava. Non so se si chiama anche adesso così.

Poi siamo passate alla doccia finalmente. Abbiamo detto: “Finalmente ci laviamo dopo dodici giorni”. C’e’ stata anche la rasatura. Ritorno indietro. Dopo il numero ci hanno fatto salire su degli sgabelli in fila, c’era una fila di sgabelli, anche lì una cosa realmente brutta è stata per noi.

Perché quando ci hanno detto di toglierci il vestito, di piegarlo, di metterlo bene, di toglierci gli ori, gli orecchini, le collane, quello che si aveva e di appoggiarlo lì perché ce lo avrebbero dato dopo, dopo aver fatto le docce, tutto.

Loro ci hanno fatto salire su questo sgabello, ci hanno guardato anche nei posti che non andava bene per vedere se si era nascosto qualche gioiello. E’ stato il primo impatto della vista schifosa della mia vita, chiamiamola così, è una brutta parola dire schifosa, ma era oltre lo schifoso questa cosa.

Poi ci hanno rasate dappertutto, ci hanno fatto alzare le mani, gambe al largo, ci hanno rasato i capelli e per tutto il corpo. Poi finalmente ci hanno portato alle docce.

Alle docce abbiamo detto, “Finalmente ci rinfreschiamo, ci laviamo”. Cos’è successo? Che ci hanno aperto l’acqua bollente, poi tutto in un momento, quando eravamo sotto che si gridava hanno aperto quella ghiacciata.

Poi tutto finito. Siamo uscite fuori nude com’eravamo. Intanto sono passate le ore, è venuta mattina, ci hanno consegnato il vestito, ci hanno dato il vestito zebrato.

Poi ci hanno incolonnate. Ci hanno dato la targhetta, da attaccare il numero sul vestito, il numero del braccio sul vestito ci hanno fatto mettere.

Poi inquadrate per cinque, ci siamo incolonnate, siamo partite alla volta di Birkenau.

D: Scusa, Elvia, con l’immatricolazione oltre al numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: No, no.

D: Vi hanno dato per caso anche un triangolo?

R: Ah, sì, il numero, si capisce, da mettere sul vestito e il triangolo rosso con la I e D. Voleva dire italiano, il triangolo rosso era segno di politico, che ero una deportata politica.

D: Parlavi di vestito. Oltre alla zebrata vi hanno dato biancheria intima?

R: No, solo il vestito e basta, senza biancheria. Niente, né mutandine, né camicia. Ci hanno dato le scarpe. Chiamiamole scarpe. Ci hanno dato gli zoccoli olandesi, quelli in legno, sopra e sotto tutti in legno. Di lì ci siamo incolonnate e siamo partite a piedi verso il campo di sterminio di Birkenau. Si trova a quattro/cinque chilometri di distanza da Auschwitz.

Siamo arrivate là. Era intanto mattina presto. Ci hanno messo in fila, ci hanno assegnato le baracche, ma non siamo entrate subito. E’ giunta l’ora di pranzo.

Ci hanno dato una qualità di minestra bianca, era come un gries, una cosa così. Ci hanno consegnato la Miska, la famosa Miska, la scodella. Non era nuova, era color mattone, erano in smalto, però erano vecchie, già tutte ammaccate.

Noi abbiamo detto: “In queste cose dobbiamo mangiare?” Eravamo un po’ schifate. Delle persone che erano lì già da un po’ di mesi, italiane anche, ci hanno detto: “Pregate Iddio che le avete voi, noi ce la siamo dovuta procurare”. Hanno risposto così passando: “Vi accorgerete presto quello che c’è”.

Ci hanno dato in queste scodelle, questo gries bianco l’ordine, in tutte le lingue l’hanno detto, che dobbiamo berlo, hanno gridato molto forte, di berlo senza mai lamentarci e tutto in un fiato, che se lo rifiutavamo, dovevamo pentirci molto, rimpiangerlo.

Infatti è stato proprio così, l’abbiamo rimpianto quel gries famoso, era un dolciastro schifoso, era cattivo da mandar giù. Poi s’è scoperto cos’era col tempo.

D: Che cos’era Elvia? Che cos’era?

R: Nel gries c’era bromuro. Il bromuro a cosa serve? A non far venire le mestruazioni alle donne. A quel punto, dalla rasatura al numero e avendo tolto anche questo, hanno tolto proprio la femminilità completamente a una donna.

Io dico sempre che la donna è stata molto più umiliata dell’uomo. Nel senso che… Io non so se era soltanto a Birkenau, le cose che sono successe a Birkenau in sei mesi, se ne sono viste moltissime.

D: Dopo ti hanno messo in baracca?

R: No, siamo state tutto il giorno in piedi fuori per cinque. Eravamo giovani, ragazze donne giovani, quarant’anni, cinquant’anni la più anziana del nostro gruppo.

Siamo state tutto il giorno. Verso le sei alla sera ci hanno fatto entrare in baracca. Le baracche sono fatte in mattone. Dentro nel muro delle baracche sono fatti i castelli. I castelli, non i letti che si vedono a castello, erano fatti di semimuratura anche quelli, con delle assi, a tre piani ben s’intende. Si doveva stare in otto per ogni piano.

Quando si girava una, si dovevano girare tutte le altre. Non si dovevano mai tenere fuori i piedi. L’ordine era che si dovevano avere i piedi interni nel posto da dormire.

Io ero al secondo piano, le nobili, le laureate le mettevano nel sotto, nella terra nuda a dormire. Per quello erano a tre piani, perché mettevano anche sulla terra nuda. Forse per farle umiliare ancora di più.

Quando si girava una, si dovevano girare tutte. Noi avevamo anche una ragazza incinta tra le nostre otto. Non si poteva stare nemmeno sedute, si doveva stare sempre distese o scendere giù. Erano talmente basse, c’era come un buco da infilarsi, nient’altro. Poi abbiamo scoperto che la sveglia era alle quattro la mattina, poi si usciva. Grida in polacco, in tedesco “Schnell, schnell, schnell”…

Si doveva in fretta e furia scendere da questi letti. Poi abbiamo fatto la scoperta del famoso Gummi. Il Gummi che cos’era? C’era un tubo di gomma con un filo dentro in rame e questo lo facevano girare tutto il santo giorno.

Siamo uscite fuori per cinque allappello, alla distanza delle braccia allungate una dall’altra si doveva stare. Lì siamo state dalle quattro di mattina, ci si alzava alle quattro.

Poi ci hanno portato ai famosi bagni, chiamiamoli bagni. Era una baracca con settantadue buche doppie. Si facevano i bisogni schiena con schiena. Fare in fretta, tutta la baracca doveva fare in fretta perché subentrava l’altra.

Col tempo, coi mesi che sono passati, dovete pensare che la dissenteria era facile e non si aveva il tempo per lavarsi. Non c’era l’acqua perché a Birkenau, se Birkenau è come adesso, era tutta una palude.

Queste strade, questi fossi sono stati fatti da noi prigioniere stesse, non solo io, centinaia e migliaia. Dico tante volte mentre penso ai ricordi, se ci fosse stato un elicottero a sorvolare, quando eravamo tutte all’appello, tutte rasate, con questo vestito zebrato, io non lo so quello che veniva, queste teste rapate di tutte le età. Una cosa…

Io a Birkenau non ho mai visto i bambini. Li ho incontrati solo una volta. Per tre giorni hanno fatto nella fila… Io non lo so. E’ stata una scelta proprio di questi bimbi che hanno portato lì. Nella nostra fila delle baracche c’era una distanza che vi si faceva anche l’appello.

Hanno fatto un serraglio con una rete. Hanno messo un trenta e più bambini, non lo so, praticamente. Però sapevano che questi bimbi erano figli di queste donne che erano in quella baracca.

Hanno detto alle madri, fatto capire che questi bimbi sarebbero stati trasportati a Cracovia, abbiamo scoperto di essere in Polonia, che li avrebbero portati a Cracovia dove sarebbero stati molto bene.

Queste madri… Ritorniamo indietro, il pranzo. Parliamo del mangiare. Di mattina ci davano un caffè, chiamiamolo caffè nero, da bere. A Birkenau era proibito bere l’acqua, assolutamente, perché veniva fuori l’acqua color marrone essendo una palude. Era proibito bere l’acqua.

La mattina ci davano un mestolo di questo caffè. A mezzogiorno ci davano un mestolo di rape grattugiate e bollite non so con quale acqua. Nemmeno le lavavano. Dopo col tempo abbiamo detto, la terra e la sabbia che si trovavano sotto erano la vitamina B, abbiamo detto fra noi.

La sera ci davano un altro mestolo di minestra. In più ci davano il pane. C’era un pezzo di pane. Loro lo chiamavano la strunza. Questo serviva per dodici persone. Veniva segnato con un dito mignolo, si facevano i piccoli segnetti, poi si tagliava a pezzettini.

Serviva per dodici persone, si segnava col dito mignolo, si facevano dei segnetti, poi si tagliava. Loro portavano il tavolino fuori le Kapò. Questo non ho detto. Cosa abbiamo trovato lì.

In questa baracca non so quante eravamo, non ci siamo contate, ma penso che eravamo in quante… Abbiamo fatto i conti tempo fa, eravamo quasi in quattromila. Hanno fatto i conti i ragazzi tempo fa quando eravamo ad Auschwitz calcolando in quante eravamo.

Avevamo le Kapò, le comandanti. Le Kapò erano tutte donne polacche. Erano delle persone della feccia più cattiva che poteva esistere in Polonia. Gli uomini uguali, i polacchi.

Non sentirete mai un deportato parlare bene dei Kapò, delle donne e degli uomini polacchi. Quelli che erano dentro come Kapò. Dovete pensare che la nostra comandante, la nostra Kapò aveva ucciso il marito e i due figli a coltellate.

D: Scusa Elvia, a proposito di figli, prima stavi parlando del recinto dei bambini.

R: Sì, giusto, scusa. Ritorniamo. Hanno portato i bambini in questo recinto. Hanno fatto capire alle madri che li hanno scelti realmente perché le madri ogni sera non mangiavano il loro pane. Il terzo giorno hanno detto che all’indomani i bambini partivano verso Cracovia.

Sono sgusciate fuori queste madri come dei serpenti, come delle bisce. La sera non si poteva uscire dalle baracche, era proibito. Loro sono scivolate fuori. Hanno consegnato a ogni bambino un pacchettino col pane che non avevano mangiato. Se questi bambini vanno là, così hanno per qualche giorno un pezzettino di pane in più.

All’indomani, il quarto giorno, la mattina presto… La mia baracca era nella terza fila delle baracche, la terza baracca. Sono venuti tutti tirati a lucido i capi delle SS, in nazisti, il comandante a capo del campo. Tutti sorridenti, tutti tirati a lucido, dei visi cattivi, quella mattina andando fuori all’appello non abbiamo trovato i bambini.

Si sapeva che erano partiti per Cracovia. Allora arrivano lì a fare la conta nella nostra fila, non c’entrava di venire nella nostra fila a far la conta, sono venuti lì realmente. Allora le madri hanno chiesto con l’interprete.

Hanno detto: “Madri, ricordatevi che i vostri bambini stanno bene, sono usciti per i camini”. Io non ho visto una lacrima sui volti di quelle donne, però ho visto i loro volti trasformati. Ho visto il dolore, realmente cosa vuol dire il volto di una persona che ha un dolore enorme.

Erano contraffatti. Hanno cambiato sembianze. E’ difficile capire, si sono scurite, gli occhi… E’ difficile spiegare come sono diventati i volti di queste donne. Non so se sono tornate o se sono rimaste lassù a Birkenau.

Raccontare quello che succedeva a Birkenau… Io purtroppo ho avuto la sfortuna di essermi ammalata due volte. Una volta mi sono ammalata, la seconda volta sono stata scelta. A Birkenau c’era il dottor Mengele, non solo lui, tutta l’equipe insieme, però lui era il capo di tutti, Mengele

La domenica dovete pensare che ci facevano spogliare nude con la scusa che portavano il vestito alla disinfezione e ci facevano passeggiare per cinque tutta la lunghezza del nostro percorso che avevamo da una baracca all’altra, nude tutto il giorno perché portavano alla disinfezione. Non so se è vero.

C’era il tavolino in fondo alla strada, c’era Mengele e tutti gli altri. Si marciava davanti a lui. Diceva: “Questa, questa, questa no, questa sì”.

Purtroppo un giorno sono stata scelta anch’io con l’ordine di darmi il vestito e di trasportarmi al campo B. Io ero al campo A appena all’entrata di Birkenau, c’è il campo A, poi c’è il campo B.

Sono andata al campo B. Al campo B c’era il blocco delle Krezze chiamato. Era il blocco delle malattie infettive. Era il blocco dove Mengele faceva i suoi esperimenti.

Lì io ho visto con i miei occhi le donne su cui lui ha fatto gli esperimenti. Col gran dolore, tutte le cose che lui faceva non le faceva con l’anestesia, assolutamente. Così queste donne erano anche impazzite, camminavano in giro su se stesse, nude completamente, facevano il giro.

Dentro nel campo B c’era un altro campo con una grande muraglia e un gran cancello in legno. Mi ricorderò sempre questo cancello enorme, non si doveva sentire né vedere niente.

Lì mi hanno fatto entrare in un’infermeria, chiamiamola così, Revier. In questo Revier mi hanno fatto spogliare, mi hanno dato su con un pennello delle qualità di colore. Uno verde, una pomata bianca col pennello che bruciava da morire.

Sono stata quattordici giorni, ogni giorno cambiavano colore e bruciava da morire. Stando lì questi quattordici giorni ho visto le donne, di cui altre compagne lì mie parlavano e raccontavano. Io chiedevo cos’è successo a quelle donne? Io ho visto delle donne bruciate davanti alla pancia e alla schiena.

Mi hanno detto che erano le donne che mettevano incinte, poi lui le faceva abortire con una piastra. Metteva una piastra davanti e una di dietro, poi attaccava l’elettricità, non lo so a quanti volt, so che queste donne erano bruciate. Per il gran dolore, le ho viste nude che giravano in giro per questo piccolo campo.

Poi ho visto le donne con gli sfregi nelle gambe, nei piedi, in altri posti, nel viso. Lì penso che sia stata… Io la lebbra non l’avevo mai sentita nemmeno nominare, ma credo che lì dentro ci sia stata anche quella.

Quando portavano da mangiare a mezzogiorno soltanto, portavano una volta al giorno, quel mastello non veniva portato, veniva gettato dentro e queste povere donne si buttavano sul mastello come degli animali.

Infatti eravamo diventati degli animali. Si buttavano, si picchiavano l’un l’altra. Con questa gamella che avevano, Miska, si davano giù per la testa, così si vedeva magari saltare un pezzo di naso, un orecchio, perché erano talmente piene di croste dappertutto per il corpo, perché avevano fatto degli esperimenti, delle cose che le avevano infettate tutte.

Lì sono stata quattordici giorni. Poi si vede che non hanno fatto effetto su di me, mi ha rispedita al campo A. Prima di uscire da questo grande cancello mi hanno detto in italiano di non raccontare mai a nessuno quello che avevo visto e sentito lì dentro.

Poi mi hanno accompagnata alla mia baracca. La mia Kapò quando sono arrivata quasi non mi voleva più. Invece si sono parlate con quella che mi ha scortata e ha detto che si vede che non avevo preso malattie infettive assolutamente, perché noi a Birkenau abbiamo fatto gli anticorpi grandi come il mondo.

Poi mi sono riammalata un’altra volta, credo che mi sia venuta la bronchite. Avevo un febbrone talmente alto. Io mi ricordo di essermi alzata, di essere andata fuori all’appello in fila e poi di aver gridato molto forte e di essere caduta.

Sono stata quattro giorni al Revier, mi hanno dato delle pastiglie. Sono rientrata dopo quattro giorni la sera dopo l’appello. Entrando nella baracca si doveva passare davanti alla Kapò.

Io ho fatto l’inchino perché bisognava inchinarsi e rispettarla questa Kapò. Non avevo fatto in tempo ad inchinarmi che mi ha dato, aveva un randello in mano come una mazza da baseball, mi ha dato tre randellate per la schiena che io non ho avuto il tempo di gridare. Hanno gridato le mie compagne che mi hanno sentito.

Il lavoro a Birkenau in cosa consisteva. Come ho detto prima, la sveglia alle quattro. Alle sei si partiva per il lavoro. Il lavoro. Veniva consegnato a chi il badile… C’era una carriola. Su questa carriola c’era il badile, il piccone e poi nel posto dove ci hanno accompagnato abbiamo trovato anche il rullo, quello con cui si batte la terra, la strada.

Questo a turno, quelle che facevano il fosso, questo fango che si faceva mentre l’acqua scolava, in questi fossi il fango che si toglieva con il badile si buttava per fare la strada. Poi col rullo passavano sopra.

Dieci spingevano e cinque tiravano. Lì si doveva tirare, per forza perché il Gummi volava a tutta forza sulle schiene. Quando c’era il turno invece dei nazisti, allora loro avevano un altro tipo di frusta. Avevano il frustino. C’era un manico in cuoio lungo, poi c’era un mucchio di cordoni in cuoio e loro quando passavano così senza dire niente davano giù. Non andava quella persona, le davano giù una frustata.

Poi le punizioni. Abbiamo subito noi delle punizioni che non avevano niente a che fare, che siano state comandate dai nazisti. Erano le Kapò stesse che ci facevano delle punizioni, loro proprio non c’entravano niente.

A Birkenau essendo una palude c’era il fango, quegli zoccoli famosi di cui ho detto prima ci sono durati tre giorni. Il quarto giorno sono rimasti lassù. Mi è venuto il turno di andare a prendere il caffè di mattina, sono andata. Mentre sono ritornata dalle cucine a prendere il caffè, lo zoccolo è rimasto là, si è aperto e poi ho camminato sempre scalza.

Lì a Birkenau ci facevano accovacciare con due mattoni o un pezzo di pietra con le mani alzate su così, oppure nel braccio ci facevano rotolare nel fango. Non c’era il posto per lavarsi. A Birkenau non abbiamo mai fatto una doccia, mai, non ci siamo mai lavate in nessun posto.

Forse l’acqua era proibita, noi abbiamo bevuto più di qualche volta essendo il mese di agosto/settembre. Bevuto anche quell’acqua che era nei fossi, non si badava a tante sottigliezze. La Nerina ha detto che lei non ha mai bevuto.

Io invece, noi con la mano si prendeva su. Si diceva una preghiera. Ai miei tempi si diceva: “Beve il serpente, beve Iddio, che berrò anch’io”. Si dicevano queste parole e si beveva l’acqua.

Purtroppo qualcuno ci ha chiesto quando si va nelle scuole se si pregava là. Io ho detto che abbiamo imparato le preghiere più belle che non esistono in nessun vocabolario. In meno di otto giorni abbiamo imparato le più belle che possono esistere su questa terra, tutto al contrario.

Queste funzionavano. Non so perché scattavano. Se una mia compagna mi toccava che cosa si diceva… Queste preghiere venivano a sfilza, una dietro l’altra e in tutte le lingue, queste parole si capivano in tutte le lingue, italiano, tedesco, ci sono centoventun lingue, però quelle lì si capivano in tutte le lingue.

Cosa devo dire? Birkenau cos’era? A Birkenau ci avevano tolto la parola. Il ricordo di Birkenau è come una nebbia. La nebbia a Birkenau si toccava con le mani, se la prendevi in mano la sentivi. Dovete pensare che a Birkenau c’erano dodici forni crematori, erano ventiquattro bocche, ne cremavano ventiduemila al giorno. Funzionavamo ventiquattro ore al giorno.

A Birkenau avendo fatto sei mesi, essendo al campo A, si vedevano tutti gli arrivi di quei carri bestiame che arrivavano di carne umana.

Si sentivano le grida, le urla ogni giorno e ogni notte. Durante il giorno scaricavano nella parte dove c’erano le baracche dei cavalli. A Birkenau avevano fatto i binari ed entravano direttamente fino vicino ai forni crematori. Di notte scaricavano dalla parte dove erano le nostre baracche.

Durante la notte si sentivano i pianti, le urla, le grida, chiamare mamma, chiamare la sposa. Quello che era successo a noi, così succedeva o di giorno, o di notte, arrivavano a tutte le ore questi treni.

A Birkenau c’erano più campi. C’era il campo A, il campo B, poi c’era la casa rossa, chiamata così. Che cos’era la casa rossa: Canada in principio serviva come primi esperimenti per le camere a gas. Poi hanno fatto i forni, le camere ingrandite servivano per deposito, dove venivano depositati tutti i vestiti e gli ori, la selezione.

In più c’era il parcheggio il Canada. C’è ancora un boschetto di betulle, venivano parcheggiati quelli che non riuscivano a portarli a forni crematori.

Quelli servivano per quando bombardavano, i treni non arrivavano. Allora andavano a prendere quelli, li chiamavano e venivano eliminati quelli che erano lì in attesa in questo boschetto, seduti lì aspettavano due o tre giorni.

Oppure durante la notte succedeva quando non avevano al parcheggio più nessuno, c’erano degli ebrei purtroppo, delle donne, loro sapevano che dovevano andare là ai forni, era il modo che chiamavano, perché dicendo io non dice quasi niente.

Chiamavano durante la notte: “Le Jude, le Jude”. Loro sapevano, si alzavano, toglievano il vestito, andavano davanti alla Kapò sulla porta della baracca, glielo consegnavano piegato, loro nude queste donne si mettevano in fila e andavano su al campo B dove c’erano i forni.

Loro sapevano di andare. Un’altra cosa. Siccome era tolta la parola, era tolto un po’ tutto, completamente la femminilità, non esistevi e basta, infatti in sei mesi si riesce a diventare come volevano loro. Si camminava, si sentivano gli ordini, secchi, imperiosi come si sentivano e si andava avanti.

Forse un animale si rivolta, invece ci hanno fatto diventare realmente… Forse era la vita stessa che lottava da sola, forse il tuo cervello o che non funzionava più, non lo so quello che ci avevano tolto, anche quello.

Si andava avanti come dei robot realmente. Il robot va con il clic, noi con le loro urla. Si andava avanti al lavoro, si ascoltava, ci si guardava in giro. Andando, facendo questi lavori di scavo, di fossi, è capitato che io sono andata tra la fine del campo A al campo B, adesso non c’è più lì a Birkenau, c’era più bosco.

Abbiamo visto le pire chiamate, le cataste delle donne morte, perché non riuscivano i forni a smaltirle, allora quelle che erano morte lì, le mettevano, ma le mettevano a regola d’arte una sopra l’altra. Questa catasta era ben fatta. Poi davano fuoco.

Noi abbiamo detto: “Oddio, ecco perché nevica a Birkenau fuori stagione”. Ci sono tante cose…

D: Quanto tempo sei rimasta tu a Birkenau?

R: Sei mesi. Dopo sei mesi nel mese di dicembre è venuto un gruppo d’ingegneri tedeschi a chiedere dei pezzi. Mi occorrono cinquemila pezzi.

Allora un giorno di mattina ci hanno fatto spogliare nude cinquemila donne, è stata fatta una selezione, ci hanno selezionate, ci hanno messo su una scalinata e ci hanno lasciato tutto il giorno lì. Era il mese di dicembre.

Noi siamo partite il 2 gennaio. Il 31 dicembre ci hanno messo su questa scalinata, siamo state tutto il giorno. Mi ricordo che c’era un termometro in fondo sul muro dell’entrata di Birkenau, grande era, rosso, mi ricordo di questo, che segnava dai 20 gradi in su, poi non si riusciva a vedere, sotto zero, eravamo già agli ultimi di dicembre.

Quando siamo scese la sera alle sei, quando ci siamo girate ne abbiamo lasciate molte là. Poi ci hanno dato il vestito, fatto rientrare in baracca. Credo che sia stata la minestra più buona, più calda che io abbia mangiato in un anno di campo di sterminio quella sera.

Abbiamo detto: “Siamo ancora vive”, abbiamo sentito il caldo della Miska. Una cosa, il dottor Mengele di domenica… Noi abbiamo calcolato che c’era la domenica, perché ogni quei tanti giorni, li abbiamo contati, si contava sette giorni e il settimo si riposava, si diceva, perché ci facevano spogliare e camminare nude.

Era il fatto che si doveva passare davanti al dottor Mengele, era il modo in cui lui ti toccava. Poi sceglieva lui le donne. A me purtroppo mi hanno tolto non solo la donna, il mio io, il mio essere, mi hanno tolto tutto, il modo con cui toccava.

Dovete pensare che quando si andava nel suo ambulatorio, era enorme. Quando ti metteva là, prendeva una ragazzina che non sapeva cosa vuol dire nemmeno il ginecologo, quelle cose lì, ti metteva là, lui si sedeva davanti e guardava. Io penso che, porca miseria, a me sembra che le donne siano fatte tutte uguali più o meno. Non so che cosa guardava.

Prendeva una ragazzina di quindici anni per vedere la differenza, la grandezza forse di quella di quindici e di quella di venti. Poi un’altra cosa schifosa anche. Quando eravamo nude, non sempre, ogni quel tanto tempo, io non so cosa gli serviva, la temperatura corporea. Ci facevano piegare nude, c’erano le donne addette e c’infilavano di dietro un termometro. Non il termometro con cui si misura la febbre, era molto più grande.

Avevano un modo per infilarlo, zum zum. Lo toglievano ad una e lo infilavano all’altra e via così. Queste erano le cose schifose, brutte che è difficile far capire alla gente raccontando queste cose.

Non solo io, tutta la baracca, tutte le donne che erano lì di tutte le età. Un altro fatto a Birkenau. Un giorno è venuto lì Mengele e ha scelto una ragazzina di Gorizia, si chiamava Gabriella, mentre eravamo in fila, non eravamo nude, eravamo vestite, è venuto lì, ha guardato in giro, questa no, questa no, ha scelto questa ragazza.

Era insieme a sua zia. La zia ha detto: “No, no, non lei”, gridava questa donna perché avevamo scoperto che a Birkenau c’era la casa delle bambole. Si sapeva che sceglievano le ragazzine vergini di quindici, sedici anni e le portavano in questa baracca che serviva per i loro piaceri.

Ha preso tante di quelle botte quella donna, tante di quelle botte quel giorno. L’hanno portata via la mattina, è ritornata alla sera. Siamo andate vicino a chiederle, pianino, non si poteva parlare durante la notte. “Cosa ti è successo? Cosa ti hanno fatto?” Lei tutta vergognosa ha detto: “Mi hanno fatto un’iniezione là”. Puoi immaginare a quei tempi, una ragazzina di quindici/sedici anni.

Poi finito così. Soltanto che noi con i mesi che passavano si dimagriva, si diventava così. C’erano tre ragazze, una di Firenze, si chiamava Wanda, una di Venezia, poi un’altra milanese anche. Loro dicevano, perché si era, non credo ormai disperate, non si ragionava, non penso alla disperazione, chi era disperata andava nel filo spinato.

Invece noi eravamo ridotte che non eravamo nemmeno disperate, eravamo lì e basta. E’ un po’ difficile spiegare come ci si sentiva, pensando anche adesso, una nullità realmente, completa, noi eravamo una nullità anche dentro di noi.

Queste che avevano un venticinque e più anni, anche trenta credo quella di Venezia, andavano fuori quando erano nude, ragazze, “Cosa vi disperate, siamo ritornate delle ragazzine”, dicevano.

Soltanto questa Gabriella abbiamo scoperto che i suoi seni, i nostri invece erano spariti, i suoi si arrotondavano. Poi è stata scelta anche lei tra le cinquemila, dopo l’esperimento ci hanno detto che dovevamo partire per un altro trasporto, per un altro posto di lavoro.

A questi ingegneri occorrevano cinquemila pezzi. Noi eravamo diventati dei pezzi, non eravamo più né dei numeri, né delle persone. Eravamo dei pezzi e basta. Siamo il 2 gennaio, siamo partiti alla volta di Buchenwald.

Anche lì abbiamo fatto un po’ a piedi fra i boschi della Polonia finché abbiamo trovato un binario morto dove c’era il carro bestiame, ci hanno fatto salire su questi carri bestiame e siamo partiti verso la Germania, chiamiamola così.

Dopo sei giorni abbiamo incontrato una stazione che si chiamava Dresda. Abbiamo detto, allora siamo in Germania. Poi siamo finalmente arrivati… Poichè bombardavano hanno deviato un po’ i treni. Siamo arrivati a Buchenwald. Veramente siamo arrivate a Weimar, nella stazione di Weimar, nello scalo merci di Weimar, passando col treno abbiamo letto Weimar.

Ci hanno fatto scendere allo scalo merci di Weimar, ci hanno incolonnate per cinque. Lì mi hanno dato un paio di zoccoli da infilare finalmente, zoccoli che erano chiusi, non aperti e mi hanno dato quelli più piccoli. Mi hanno fatto infilare col tedesco vicino, nazista, che dovevo infilare questi zoccoli.

Infatti ho messo dentro i piedi. Se io non avessi avuto due mie compagne che mi hanno trascinata su, perché andando a Buchenwald c’era una salita, adesso c’è la strada asfaltata, ma quella volta non c’era la strada asfaltata. Quelle che non riuscivano a fare la salita, c’era il fosso, un colpo di pistola e finito.

Così non so in quante siamo arrivate lassù a Buchenwald. Io so soltanto di essere entrata una volta sola per il cancello normale di Buchenwald e di aver trovato un albero, di averlo abbracciato che è ancora là secco nel mezzo.

Ho detto: “Oddio”, quando sono ritornata dopo un dieci/dodici anni, ho trovato il mio albero. “Che tuo albero?” diceva la gente che era insieme a me.

Ci hanno portato in fondo a Buchenwald. Lì l’indomani siamo andati, la sveglia sempre la solita, sempre i soliti Kapò, sempre le solite Stubowe,Blockowe. Sempre la sveglia alle quattro. Dopo due giorni ci hanno detto che eravamo pronte per andare a un altro lavoro.

Siamo uscite, fatta la scelta, ci siamo trovate… Perché sulla scalinata a Birkenau quando siamo scese non eravamo più in cinquemila, però alla partenza ci siamo trovate sempre in cinquemila. A Buchenwald però non so in quante siamo arrivate. Siamo morte un po’ camminando, un po’ sulla salita.

Ci siamo alzate. Hanno fatto i comandi, unite tante persone scelte. Poi ci hanno portato, fatto scendere in un sentiero da Buchenwald giù a basso, ci hanno fatto salire su un camion, ci hanno portato… Non so quanta strada, quanti chilometri distante. Mi ricordo di essere arrivata in questo posto che c’era una gran scalinata dove si scendeva, poi c’era la galleria.

Un ricordo che non dimenticherò mai. Eravamo nella galleria a Dora dove facevano la V2. Dice qualcuno che non hanno visto le donne, però ci sono dei signori invece che ci vedevano ogni giorno entrare.

Io mi ricordo a Dora che nell’entrata della nostra galleria davanti c’era una grande bomba, enorme, a noi sembrava enorme enorme, era grande, immensa, nera con una fascia rossa sotto.

Ci hanno fatte entrare in questa galleria, noi donne eravamo addette alle cariche. Si lavorava negli esplosivi, nel tritolo, balestrite, tutte queste cose. C’era come una specie di mulino, veniva macinata e mischiata la miscela di esplosivi.

C’era una qualità che bruciava anche le mani. Eravamo diventate tutte gialle. Ci facevano delle iniezioni ai seni. Si era lì nude completamente, loro passavano, avevano talmente ormai la praticità, passavano di corsa a fare queste iniezioni. Non so in cosa consistevano, per il fatto che eravamo diventate gialle forse.

Non era cambiato. Era cambiato qualcosa per noi che a Buchenwald abbiamo ricominciato a riprendere la vita, a cercare di sopravvivere Lì si capiva che si doveva lottare per sopravvivere. Poiché la domenica gli ingegneri non lavoravano, abbiamo riscoperto la domenica, si rimaneva in baracca.

Si poteva parlare. Quante cose ci siamo raccontate, quante ricette abbiamo scritto solo col cervello. Io quando vado a casa faccio così, quando vado io, allora eravamo di tutte le nazioni e di tutte le regioni del nord: Milano, Torino, ognuna aveva le sue ricette.

Lì ci si scambiava solo idealmente, solo si parlava. Forse questo ci ha aiutato molto anche per il ritorno. In più ci ha aiutato molto schivare tutte le punizioni possibili. Si cercava sempre di schivare ogni cosa.

Quando siamo andati a Kamnitz, abbiamo lavorato due mesi lì, facevamo pezzi di aerei, prima di arrivare a Buchenwald. C’è stato il bombardamento, allora ci hanno riportato un po’ in blocco. Un po’ ne hanno scelte, siamo andate a sbucciare patate, a pelare, non a sbucciare, a pelare, perché la buccia si poteva mangiare, invece pelarle era solo grattarle.

Eravamo lì che si parlava fra noi, ci siamo girate, abbiamo visto in vetro dei filoni di pane, non il nostro, un’altra qualità di pane. Come faremo? Lì si parlava di questo pane che era là. Ci sembrava già di mangiarlo, di averlo mangiato.

Lì abbiamo avuto la fortuna grande che c’era uno di Milano che si chiamava Marcello, un bellissimo ragazzo, non so di cognome, mi ricordo solo il nome, so che era un bel ragazzo, era un militare italiano. C’era quella di Firenze la Wanda. C’era solo una tedesca con noi di guardia. Ha fatto in modo di portarsela via. Si vede che sapeva il tedesco. Quando lei è ritornata era talmente svampita, talmente sognante, ha fatto un lavoro formidabile il nostro italiano, è stato bravissimo e noi abbiamo preso il pane, l’abbiamo nascosto sotto un braccio.

Quella sera quando siamo entrate in blocco si doveva alzare le braccia, ne abbiamo alzato uno solo. Non so com’è stato che ci siamo passate. Abbiamo mangiato tutta la notte. Ognuno un pezzo per ciascuno, si sono buttate su di noi quando hanno visto questi filoni di pane lì.

L’indomani sono venuti a cercare il pane. In una notte. Venire a cercare il pane l’indomani mattina? Abbiamo goduto noi quella notte, mamma mia. Non abbiamo fatto la spia.

“Guardate che avete mangiato quel pane. Il pane serve per i tedeschi, era per i nazisti, per i comandanti”, ci hanno detto. Nessuna ha parlato perché ognuno ha avuto il suo pezzo. Loro sapevano quelle che eravamo, ma loro dovevano punire tutte assieme.

Sono venuti a cercarci, hanno rovesciato i letti, non hanno trovato nemmeno le briciole. L’indomani mattina hanno cercato il pane. Non l’hanno trovato, ci hanno detto che se avessimo raccontato non ci avrebbero fatto niente, ci dicevano che dovevamo avvertire perché ci sarebbe venuta la dissenteria per aver mangiato questo pane.

Invece è successo che quelle che avevano la dissenteria sono guarite avendo mangiato questo pane. E’ successo che è venuta punita questa tedesca, cosa strana. Non so cos’è scattato. Noi ci abbiamo goduto se è stata punita questa tedesca. Realmente.

Un’altra cosa a Buchenwald. Abbiamo cantato. A noi è sembrata festa. Non abbiamo capito a cosa si andava incontro. In fila ci hanno fatto scendere da Buchenwald, ci hanno portato all’ospedale a Weimar a fare i raggi.

Mentre si passava, abbiamo attraversato il centro di Weimar. La gente ci sputava vedendo queste donne sporche, rasate, ci hanno fatto uguale a Buchenwald come ci hanno fatto ad Auschwitz, c’erano sempre i soliti dottori, altri dottori, altri nomi, però sempre le solite visite schifose, sempre le solite cose.

Noi quel giorno che siamo andate a fare i raggi abbiamo cantato per la strada per il fatto che non abbiamo lavorato. Questo fatto è stato bellissimo per noi. Per forza che i tedeschi uscivano nella città di Weimar a guardare chi era che cantava. Come si faceva a cantare? Non ci si rendeva conto che facendo i raggi si poteva… non abbiamo mai pensato di essere ammalate, assolutamente. Nemmeno l’idea lontanamente di ammalarsi. Nemmeno quando eravamo tutte gialle, non si pensava che si fosse malate, ci sembrava che era normale essere così. Questo è il fatto. Giusto per ritornare a quando ero al Revier, quando sono stata dimessa dal Revier, passando per uscire sono passata davanti a un bagno.

Dio, c’era un bagno. Ho guardato così mentre passavo, ho visto una persona nello specchio. Quando sono rientrata in baracca ho detto: “Dio, ragazze, che brutta donna che ho visto. Ho visto una ragazza talmente brutta”. E una signora: “Ti sei mai guardata allo specchio? Dove lo hai per guardarti?”.

Ero io quella che ho detto che era brutta. Dopo ritornando a Birkenau dopo tre mesi, tanto quella che aveva sessanta anni e quella che ne aveva venti eravamo tutte uguali. Una cosa a Birkenau, ritornando indietro a Birkenau, quando veniva gridata: “Oggi selezione, oggi selezione”, le donne, quelle che avevano una certa età o per la paura anche i capelli diventavano bianchi prima del tempo prendevano del fango e se lo davano su nella testa.

Quando si passava nude davanti, nel viso anche, quando si passava davanti al tavolo dei dottori molte riuscivano a passare senza venire scartate, perché purtroppo chi veniva scartato si sapeva dove si andava direttamente, ormai non era un mistero per noi. Poi un’altra cosa a Birkenau che non ho detto prima che mi è rimasta molto nella memoria. C’era una ragazzina a dormire sopra di me che avrà avuto quindici o sedici anni, era di Firenze, non lo so come si chiamava. So quello soltanto. Anche quella signora, Wanda, che era di Firenze non la conosceva, però sapeva che era di Firenze, l’ha detto lei che era di Firenze. Cantava, aveva composto una piccola canzone su “Dorme Auschwitz” e la cantava sull’aria di “Dorme Firenze”. Diceva: “Dorme Auschwitz sotto un cielo di cenere, dorme Auschwitz, si vedono tante fiammelle. Sono le anime dei bambini che escono per i camini. Dorme Auschwitz, non si vedono le stelle, soltanto cenere”. Poi ci sono altre parole, ma non mi ricordo. Solo la prima strofa mi è rimasta un po’ in testa. Anche la canzone “Mamma”, la Vittoria Gargianti la sa tutta lei, se la ricorda tutta. Io mi ricordo un pezzo, ma soltanto… Ad Auschwitz c’era l’orchestra delle donne, c’è lo spiazzo ancora dove suonavano, dove tenevano i concerti. Quest’orchestra ci accompagnava sempre nel lavoro, nel rientro e quando si usciva, uguale, sempre. In più se avveniva un’impiccagione era accompagnata dall’orchestra sempre. C’erano donne che suonavano, c’era una baracca dove andavano a fare le prove anche per loro. Di fatti stavano un pochettino meglio, non andavano al lavoro, non erano nel freddo e non avevano il vestito zebrato. Quelle che venivano scelte nel gruppo, chiedevano se sapevano suonare e andavano in questa baracca a fare le prove. Loro gli davano gli strumenti e suonavano sempre, anche per loro dopo, anche per i nazisti. Dovete sapere che la Kapò non dormiva mai nella nostra baracca, c’era la Stubowa, la Blockowa non dormiva mai.

C’era la Stubowe, le Kapò andavano a fare la bella vita. C’erano due di guardia, erano di una cattiveria incredibile, veramente.

D: E questa ragazzina di Firenze?

R: No, è rimasta ad Auschwitz. Allora ritornando a Buchenwald, mentre un giorno eravamo in galleria che si stava lavorando, perché la galleria era lunga non so quanti chilometri, mi avevano detto quanti gli uomini, adesso… Ma c’erano tante deviazioni. C’erano dei reparti, i laboratori c’erano in queste gallerie. Un giorno lì nel nostro laboratorio dove eravamo noi le è preso male a questa ragazzina di Gorizia, questa Gabriella, che ho detto che si arrotondava i seni, così. Era arrotondata anche lei. L’hanno portata via, le è venuta un’emorragia, l’hanno portata via. Dopo quattro giorni è ritornata, la ragazzina ha detto: “Mi hanno operata”. Dopo ha avuto la forza di ritornare, però abbiamo saputo che le avevano fatto la totale. Questa sperimentazione della fecondazione artificiale credo che l’abbiano messa insieme il dottor Mengele e tutta la sua equipe. Non era perfetta come è adesso, ben si intende, però credo che sia partita da lì e che veramente gli esperimenti siano stati fatti a Birkenau.

D: Eleonora chi era?

R: Eleonora era una ragazza, una sposina di Cormons, in provincia di Gorizia. Adesso vive a Belgrado. Lei quando è salita sul nostro trasporto era incinta. A Birkenau ha partorito durante una notte, dopo tre mesi che eravamo lì. Lì è stata coperta un po’, le grida, le urla, questo bimbetto che era nato lì. Si vede che l’indomani mattina la cosa… O la Kapò o la Blockowa, è stata avvertita. So che è arrivato il dottor Mengele e ha dato l’ordine di non allattarlo. Ma io non lo so dove il latte sarà stato dopo tre mesi che eravamo già lì. Noi abbiamo detto: “Se non hai il latte tu, noi metteremo un po’ di pane bagnato”. Ci avevano già tolto un po’ le cose proprio essenziali, come fa a vivere un bambino col pane bagnato in quell’acqua marrone che c’era? Dopo quattro giorni credo che un pulcino pigolasse molto più forte di quel bimbino . Mi ricordo qui una cosa, che si dormiva in otto, come ho detto prima, si cercava di lasciare il posto a lei col bambino sopra sulla pancia. L’avevano avvolto in una specie di coperta color nocciola, non lo so dov’è che è stata trovato questo pezzo di coperta. L’aveva avvolto lì questo bambino. Durante la notte sul quarto giorno, andando al quinto, è arrivata una dottoressa polacca, per forza doveva lavorare là. E’ venuta lì e ha detto il nome finalmente, perché dovevamo dimenticare anche i nomi. Difatti eravamo ridotte a chiamarci per numero, realmente. O 53 o 52, secondo il numero, non i primi due, 88.000, si chiamavano i due ultimi. Ci si capiva. E’ stata chiamata Eleonora, “Bisogna sopprimere il bambino”. Ci siamo un po’ rivoltate tutte, anche quelle nobili che dormivano sotto di noi, realmente sono saltate su, parlando austriaco, tedesco dicevano: “Far morire un bambino?”. Lei ha detto: “Queste cose le faccio per salvare la madre, perché domani mattina verrà il dottor Mengele e porterà via la madre e il bambino”. Allora lei ha messo una mano sopra e un minuto dopo il bambino non piangeva più. Lo ha preso, lo ha portato nello stanzino dove si mettevano le donne che morivano di notte. C’era uno stanzino in fondo alla baracca apposta in cui si mettevano le morte. Quel giorno nell’insieme abbiamo avuto una fortuna che il carretto della morte è arrivato molto prima, il bambino è stato caricato. Il dottor Mengele e la sua equipe sono arrivati dopo l’appello. Essendo arrivato dopo l’appello la dottoressa ha detto che il bambino era morto, e che era stato portato nel mucchio dei morti. Sapete che è andato a cercarlo tra quelle due o tre che erano morte dopo morto il bambino, è andato a vedere se c’era lì. Questa Eleonora ha avuto la forza, è ritornata, il figlio forse se lo sarà ricordato dopo, quando è ritornata forse. Non l’ho incontrata più perché essendo sposata con uno sloveno è andata a vivere là e non ci siamo più incontrate. Non lo so se è viva ancora, so che era andata là sposa a Belgrado. Dopo non lo so.

D: Elvia, la liberazione, dov’eri tu alla liberazione?

R: Alla liberazione? Dice qualcuno che hanno gridato di gioia, così, anche nei film che vedo si vede così. Io non posso dire… Non ho avuto il tempo di godermela. Perché? Perché quel giorno, il 7 maggio, che era già finita, ci hanno portato in galleria. In galleria eravamo tutti, uomini, tutti. Questo perché la loro idea era di far saltare la galleria, è questo il fatto. Se non che si vede che il fronte è avanzato molto prima della preparazione per fare queste cose. Mi ricordo che è entrato un altro gruppo di uomini, lì abbiamo avuto molto aiuto dai militari italiani.Poi le cose che si facevano per loro erano tutte sabotaggio, se mentre eri all’appello ti scappava la pipì, poiché per farla c’erano gli orari, c’era la mattina e basta per andare ai bagni, Se facevi la pipì magari lì, perché non si avevano né mutande né niente, era sabotaggio. Prendevi tante di quelle botte, prendevi dalle dodici alle venticinque frustate anche. Chi le prendeva? Io non le ho prese queste, io ho preso solo le tre legnate della Kapò, però chi le prendeva doveva anche contarle. C’era un seggiolino, le piegavano e le davano giù lì.

Poi se ci sono le russe, mettiamo quelle due che hanno cercato di fuggire a Buchenwald… Perché noi avevamo un momento quando si scendeva dal camion, sulla strada in cui ci mettevano c’era un ponte che si doveva attraversare. Non so se c’era un fiume perché durante la notte e il giorno non si aveva tempo di guardare. C’era un momento che ci si mischiava con le persone civili e queste russe devono aver fatto amicizia con delle russe lavoratrici che erano prese dalla Russia e portate a lavorare. Hanno tentato la fuga. Dopo tre giorni le hanno riprese, le hanno portate in blocco. Quando siamo ritornate dal lavoro le abbiamo trovate lì, distese per terra che le avevano bastonate, si può, all’infinito. Noi eravamo lì in piedi in fila, e il comandante ha camminato sopra. Non so il comandante di Buchenwald come si chiamasse. Ha camminato con gli stivali sopra queste due ragazze. Erano due sorelle. Le hanno prese. Dentro nella baracca c’era un Bunker, una botola in cemento armato con una porticina più un buco rotondo. Le hanno prese e le hanno messe lì dentro con l’ordine a noi di non andare a guardare né niente. Una cosa strana, fra tutte le nazionalità che eravamo, noi italiane avevamo legato con le russe, non lo so come mai c’era questo legame fra noi. Dovete pensare, mettiamo, io sono di Udine e quelle sono di Gorizia, siamo a venticinque chilometri di distanza, ma parlavano sloveno e loro si spacciavano per slovene, non si sentivano più italiane. Non si riusciva ad andare d’accordo.

Pensandoci anche adesso ci si chiede il perché di questa cosa, che abbiamo legato con queste russe. Allora a turno si montava di guardia in modo che le Kapò o le comandanti non ci vedessero. Noi si toglieva un pezzettino del nostro pane, si bagnava nell’acqua e si buttava dentro per questo buchetto. Dopo sei giorni hanno aperto il Bunker e hanno tirato fuori una viva. Io dopo cinquant’anni l’ho rincontrata questa russa a Mosca. Lei mi ha riconosciuta, io non l’ho riconosciuta, perché poi abbiamo seguito tutta la trafila insieme fino alla liberazione. Per ritornare e raccontare il giorno della liberazione…. Per noi è venuto dentro questo con un Ape che si guidava allora, quella volta, in piedi gridando: “I russi alle porte, i russi alle porte!”. Perché c’era il corridoio della galleria enorme. Noi non c’eravamo nemmeno messe al lavoro, si diceva: “Non c’è nessuno qui”, non hanno acceso il motore del mulino. Piano piano sentendo questo siamo uscite, ci siamo trovate in un grande spiazzo e c’erano… Allora quando si era in baracca si diceva sempre: “Quando andrò a casa, mi toccherà incominciare a mangiare col cucchiaino, non si potrà mangiare tanto perché il nostro stomaco si è ristretto”. Questi erano i discorsi quando eravamo su in baracca. Ma al momento che eravamo fuori e abbiamo visto le case dei comandanti cosa si è fatto? All’assalto alle case a cercare da mangiare, non si è ragionato più. Lì si aprivano tutti i sacchi, si assaggiava cos’era. Questo l’ho trovato io, sono stata molto brava. Io ho aperto, era di carta questo sacco, sono arrivata a strapparlo e ho assaggiato questa polvere, era color verdolino. Ho assaggiato, mamma mia, sapeva di fagiolo. “Sono fagioli macinati”, tutte queste ragazze che non ci siamo contate mai dopo, ci siamo buttate sopra. Lì abbiamo acceso dei fuochi in queste gamelle che avevamo, ognuno faceva la crema. “Che buono, che buono, mamma mia, che buono”. Quando abbiamo finito di mangiare tutto abbiamo scoperto che era colla. E adesso? Cosa facciamo? Ci ha fatto bene, ci sentivamo sazie, se anche era colla noi abbiamo pensato: “Ci ha fatto bene”. Adesso da che parte si va? Dove si va adesso? Dove siamo? Non si sapeva dove si era, non si vedeva dove si andava. Abbiamo cominciato a ragionarci sopra, abbiamo detto: “La strada sarà sempre in alto, mai sotto, perché qui è la collina, le strade sono sopra. Non possono essere qui dove hanno fatto le gallerie. Se venivano coi camion e con le macchine…”. Abbiamo attraversato questo bosco e difatti fuori da questo bosco sempre in salita abbiamo trovato la strada. Non ci si rendeva conto che le Katiusce sparavano sopra le nostre teste, non si sentiva. Si sentiva di andare, finito. Quando siamo arrivate in questa strada abbiamo trovato dei furgoncini rovesciati nei fossi. Via a cercare anche quello che c’è lì. Lì abbiamo trovato dei maiali già puliti, già tagliati, dei pezzi di lardo. Io non lo so se avete visto i leoni nei deserti quando prendono la preda, così è stato per noi. Tutti assieme, tutto un mucchio, lì eravamo di tutte le razze, eravamo tutte sorelle.

Coi denti si strappava. Questo purtroppo ci ha salvato, questo lardo ci ha salvato. Poi abbiamo detto: “Da che parte andiamo?”, le russe e le polacche hanno detto: “Noi andiamo verso dove sparano che là ci sono i russi”. “Noi andiamo giù di qua. Dove andiamo da questa parte? Si andrà in Italia, noi italiane”.

Anche le altre, le greche, quelle delle altre nazioni, anche le ungheresi ci avevano detto: “Andiamo da questa parte, si andrà in Ungheria”. Difatti loro indovinavano giusto, ma noi italiane si andrà in Italia di qua, loro vanno dalla parte dei russi. La Russia è la via, si diceva, vieni da quella parte.

Ci siamo incamminate e siamo arrivate in una cittadina chiamata Erfurt. Lì ci hanno visto arrivare, queste donne in quelle condizioni che eravamo, si camminava ormai che si trascinavano così i piedi, non si camminava normalmente. Ci hanno detto che stavano arrivando i russi, ci hanno fatto capire che ci avrebbero ucciso tutte.

Allora noi che eravamo rimaste ci siamo riunite anche se non ci si capiva, anche quel piccolo gruppo di italiane. Abbiamo detto: “Andiamo là dove mettono il fieno ad asciugare, andiamo a dormire in un fienile, vediamo domani”, perché erano già venute le sette di sera ormai.

Quando ci siamo avviate nei campi finalmente vediamo arrivare due carri armati con la stella rossa che era l’Armata Rossa. Sono scesi, mi ricordo che c’erano un capitano e un colonnello. Il capitano russo parlava l’italiano.

Prima ci hanno chiesto nella loro lingua di che nazioni fossimo, chi eravamo. Noi abbiamo detto, il nostro gruppetto di poche italiane che eravamo, abbiamo detto: “Siamo italiane”. Allora è sceso questo capitano, parlava l’italiano e ha detto di ritornare a Erfurt che là c’era la truppa che ci avrebbe dato di cui mangiare, lavarci, vestirci.

Difatti siamo ritornate indietro e lì ci hanno separate, le italiane da una parte, le greche, le cecoslovacche… Ci hanno messe in tante case sequestrate che avevano loro, ci hanno messo lì.

Non saprei nemmeno oggi come oggi dire cos’è stata la liberazione per me, non è che abbiamo alzato le braccia, niente. Perché abbiamo dovuto lottare ancora, perché poi si viveva sempre quei quattro o cinque giorni che siamo rimaste lì… Perché?

Perché ogni giorno di mattina presto eravamo talmente ormai abituate ad alzarci a quell’ora, si era sempre in strada. A ogni gruppo che passava si chiedeva: “Sei italiano? Sei italiana?”, alle donne e agli uomini. Erano già quattro giorni, cinque che eravamo lì.

Un giorno è arrivato un gruppo e ci hanno detto che erano italiani, mamma. Forse lì abbiamo conosciuto un po’, non nel senso di essere liberati, no, di avere trovato delle persone che erano uguali a noi, italiane insomma. Non per razza, perché hanno detto che erano italiani.

Forse questo nome ci ha dato… Allora hanno detto: “Dove andate?”. “Andiamo in Italia”, abbiamo detto. “Unitevi a noi che andiamo”. Erano un gruppo di ragazzi, c’era il corridore Monti anche.

Hanno detto: “Unitevi a noi che andiamo verso l’Italia”. Invece viene lì vicino un colonnello russo che aveva visto un po’ di gente raggrumata lì, c’erano anche altre prigioniere che chiedevano, è venuto, ha detto: “No, voi lasciate le biciclette qui, vi diamo un carro e un cavallo e tutti i viveri. Andate sempre dritti per questa strada fin quando arrivate a Praga, dovete arrivare a Praga” ci ha detto.

Ci siamo incamminati, abbiamo dormito all’albergo delle stelle, abbiamo camminato per altri cinque o sei giorni. Mi ricordo di essere arrivata entrando dalla Germania a Praga, mi ricordo di essere arrivata sul ponte di San Stanislao e poi di essere caduta lì. Poi non mi ricordo nulla per due o tre mesi, li ho persi completamente, cancellati completamente.

D: Però lì sul ponte a Praga cos’è successo?

R: E’ successo che mentre io ero caduta e avevo perso i sensi passava il Console italiano, sua moglie e una contessa cecoslovacca che faceva la crocerossina, andavano in cerca di queste persone coi vestiti zebrati.

Lei è scesa dalla macchina: “Fermati” ha detto “che c’è una ragazzina per terra”. “E’ viva ancora, questa non è morta”. Mi hanno caricata in macchina, mi hanno portato alla Casa d’Italia.

Dopo due mesi, tre che ero lì mi ricordo di essermi svegliata e quando ho guardato ho visto un viso talmente bello, talmente sorridente, come una visione. Ho detto: “Oddio, sarò in paradiso, questo è un angelo”.

Mi hanno raccontato che ho avuto il tifo, che ho avuto la malaria, poi mi è ritornata la malaria, che pesavo 25 chili, che mi hanno pesata in un lenzuolo, mi hanno legata e messa nel lenzuolo che ridevano tutti quando mi hanno pesata.

Lei non mi ha abbandonato né giorno né notte, mai mai mai. Allora si vede che avevo la febbre talmente alta, lei bagnava le lenzuola, mi avvolgeva dentro nell’acqua fredda perché ghiaccio dove? Avendo il figlio dottore forse ha…

In più mi ha curato la pelle della schiena, perché con gli esperimenti che mi ha fatto il dottor Mengele la mia pelle era come un cartoccio di carta, quella carta di una volta. I pidocchi difatti non stavano vicino a me assolutamente, perché se ti trovavano un pidocchio c’era anche la punizione.

Tanti parlano che erano mangiati dai pidocchi, dalle cimici. Non solo io, il nostro gruppo non aveva queste bestie, realmente non le abbiamo mai avute. Anzi, c’era una punizione.

D: Dopo questi tre mesi di Praga cos’è successo?

R: E’ arrivato un altro gruppo di italiani e hanno detto: “Dove andate?”. “Andiamo in Italia coi camion, andremo in Italia. C’è un treno che parte dalla stazione di Praga che va verso l’Italia”.

Invece siamo partiti coi camion, abbiamo attraversato un ponte di barche che avevano fatto i russi perché i ponti erano distrutti e ci hanno bloccati a Bratislava. A Bratislava ci siamo trovati in una caserma militare, eravamo in 17.000 persone italiane tra donne, bambini e militari, ufficiali.

Erano tutti ufficiali italiani che erano prigionieri del ’43. Quelle donne e quei bambini non erano prigionieri, loro erano delle persone che erano andate emigranti in Germania. Si sono trovati nel giro di tutte queste cose. Lì siamo stati altri tre mesi, fino al mese di ottobre.

I russi, io devo dire solo bene di loro, ci hanno dato i generi alimentari che ci si doveva fare da mangiare da soli, sbrigarsi da soli. C’era l’ordine però, si viveva come in caserma, uguale. Non c’era il permesso di uscire, perché si potevano fare dei brutti incontri, perché si ubriacavano come tutti, come gli americani, come gli inglesi e tutti, anche i russi uguale agli altri.

Allora poteva succedere, cercavano di evitare queste cose. Siamo stati fino al 30 ottobre. Un giorno è arrivato mentre eravamo lì il generale da Vienna russo, è entrato lì. Ci hanno fatto schierare gli ufficiali, i nostri italiani bravissimi, lui ha camminato in mezzo, è andato fino in fondo, si è girato.

“Italiani fascisti” ci ha detto. Me lo ricorderò sempre per il modo in cui l’ha detto. “Questa volta”, ha detto, “vi abbiamo perdonato. Se per caso ritornate in guerra un’altra volta non vivrà nessuno”. Ma in un modo ce l’ha detto, veramente.

Poi un’altra cosa: “Io non posso mantenervi più, perché non siete soltanto voi”, ha detto, “non siete solo voi 17.000. Ne ho altre migliaia a cui dare da mangiare, da vivere. Se entro tre giorni l’Italia o qualcuno non viene a cercarvi… Impossibile che in Italia non ci sia nessuno che non sappia che mancano 17.000 persone, non è una”, ha detto.

Ricordo realmente, era proprio anche un po’ incavolato questo generale. Ha detto: “Mi dispiace, se entro i tre giorni non viene nessuno a chiedervi, sono costretto a mandarvi via a Odessa”. Gli ufficiali, i militari che erano tanti anni ormai che erano lì hanno detto: “Ci mandano in Russia, se andiamo via a Odessa andiamo in Russia e non ritorniamo più”.

Invece alla quarta giornata la mattina presto abbiamo visto dei camion inglesi arrivare. Su quei camion chi c’era? C’erano gli inglesi, ma chi c’era a cercarci? C’erano i frati di Padova. In ogni camion c’era un frate, erano i frati di Padova che cercavano i deportati in giro. Non lo so come abbiano scoperto, o i russi hanno fatto sapere agli inglesi, hanno trasmesso così.

L’indomani siamo partiti finalmente con questi, ci hanno caricati nei camion abbastanza, eravamo un po’ strettini, ma il fatto di andare a casa… Invece ci hanno fermato a Vienna Noistar.

Io l’impatto l’ho avuto brutto con gli inglesi, non per me, un po’ per tutti. Abbiamo detto: “Siamo ritornati indietro”, perché ci hanno accolto in questo campo di smistamento a Vienna Noistar, a quaranta chilometri venendo sempre dalla Cecoslovacchia prima di Vienna.

Ci hanno accolti come degli appestati, ci hanno disinfettati con del flit, con delle cose che bruciavano. Siamo stati due giorni lì, poi siamo partiti finalmente. Ci hanno messi su una tradotta e siamo partiti finalmente verso l’Italia.

Mi ricordo che quando abbiamo attraversato il Brennero la gente, gli ufficiali più di tutti, sono scesi e hanno baciato il suolo italiano. Siamo arrivati a Pescantina e lì c’erano i frati di Padova ad aspettarci, c’era un campo con delle tende. Lì ci hanno dato i viveri.

Ho dormito lì, l’indomani ci hanno chiamati e hanno detto: “Guarda, c’è un treno che parte alla volta di Udine. Non so quando arriverete a Udine”. Io so di essere partita sola, perché dopo quindici mesi che ero via ci hanno arrestati assieme, una mia compagna del mio paese, siamo andate ad Auschwitz insieme, poi ci siamo perse ad Auschwitz.

Poi non l’ho vista più, l’ho incontrata a Pescantina dopo quindici mesi. Ha detto: “Elvia, andiamo a Udine, andiamo a Udine, andiamo a casa dalla mamma”. “Aspetta”, ha detto, perché lei era ritornata con un altro gruppo di italiani, “che vado a salutare quegli amici che mi hanno aiutata”, perché lei è stata liberata a Melk. “Vado a salutare”.

Il treno è partito e io sono andata, per la fretta di andare a casa non l’ho aspettata. A Udine ci hanno accolto tanto bene, mamma mia, l’impatto, il ritorno in Italia, in patria, mamma mia, il tuo paese, favoloso, da piangere anche oggi come oggi dopo cinquantacinque anni. E’ da piangere anche adesso.

Hanno detto che avevamo avuto un figlio coi tedeschi e lo abbiamo lasciato a Udine nell’orfanotrofio, non sapeva nessuno che noi siamo ritornate, dove eravamo, se eravamo vive o morte, però avevamo fatto un figlio. In più quando siamo arrivate le donne cosa ci hanno chiesto? “Vi hanno violentate?”.

Non come eravamo, già pesavo un trentacinque chili, per la mia altezza ero ancora magra. Non mi hanno detto… I capelli erano appena così, non erano ricresciuti in tre mesi, quattro della liberazione. No, queste cose.

Poi avevamo bisogno di cure ancora, di tante cose. No, niente, non si è fatto avanti nessuno, nessuno ci ha chiesto. E’ stato un professore che era amico del ragazzo che avevo che mi ha curato, mi ha fatto delle iniezioni, delle punture lombari per togliermi delle infezioni, delle cose così.

Avrà provato anche lui, non lo so, so che mi ha fatto delle iniezioni lombari contro la tubercolosi, perché quelli che sono ritornati prima di me erano tutti nei sanatori. Questo è il mio ritorno.

D: Quando sei ritornata?

R: Il 30 ottobre del ’45.

Mocai Ugo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Ugo Mocai, nato a Bologna il 3 marzo 1915.

D: Ugo, tu quando sei stato arrestato?

R: Io sono stato arrestato nel ’44.

D: Nel ’44?

R: Sì, di preciso il…

D: Forse il 10 luglio?

R: Penso di sì, luglio, insomma, non era ancora agosto. O la fine di luglio o metà.

D: Del ’44?

R: ’44.

D: Chi ti ha arrestato?

R: Mi ha arrestato la GNR, che era la Guardia Nazionale Repubblicana, fascisti.

D: Perché ti hanno arrestato, Ugo?

R: Perché io facevo parte della brigata Matteotti di città, c’era quella di città e quella di montagna. Io facevo parte della brigata Matteotti di città.

D: Il vostro compito come brigata partigiana qual era?

R: Prima di tutto reclutare dei ragazzi, dei giovani. Poi tutto, cominciare a fare qualche sabotaggio, poi c’era volantinaggio, il giornale, era “La squilla”, mi pare, il giornale. Tutto quello che riguardava la lotta clandestina.

D: Sei stato arrestato dove?

R: A casa, a Bologna proprio dove abitavo. Sulla porta di casa, proprio lì.

D: Erano in due?

R: Erano in due, sì.

D: Oltre a te hanno arrestato altri tuoi compagni?

R: Quella sera hanno arrestato quasi tutto il gruppo. Hanno arrestato i due fratelli Boschetti, tutti e due, Gabriele e Luigi. Poi hanno arrestato tanti altri che non conoscevo nemmeno, perché i nomi non si facevano.

D: A proposito di nomi, il tuo nome di battaglia, Ugo, qual era?

R: Non l’ho mai avuto il nome di battaglia.

D: Come scelta?

R: Sì, come scelta.

D: Vi hanno arrestati e vi hanno portati dove?

R: Ci hanno arrestati e ci hanno portati agli uffici della GNR, della Guardia Nazionale Repubblicana a Bologna, vicino a casa fra l’altro, perché avevano requisito una villa in Via Laldini e lì interrogavano, tenevano prigionieri, ecc.

Poi lì mi hanno fatto il primo interrogatorio, a schiaffoni anche, oltretutto schiaffoni. Però ad un certo momento è venuto dentro un ufficiale mentre mi menava, mi pareva almeno un ufficiale, che ha detto: “No, questi metodi non li dovete usare”.

Allora hanno smesso di picchiarci, non so chi era, se mi conosceva, non lo so. Lì siamo rimasti una notte. La mattina dopo, invece, ci hanno portati alla caserma, come si chiamava… Dove adesso c’è una chiesa.

Ci hanno portati lì. Però io ero rimasto praticamente da solo, perché gli altri che erano con me non li conoscevano perché venivano da altri gruppi. Poi c’era qualcuno di Giustizia e Libertà, c’era qualche comunista, pochi.

Lì siamo rimasti due giorni mi pare in questa prigione di questa caserma della Milizia. Dopo ci hanno portato a San Giovanni in Monte, dove c’erano le prigioni normali. Lì mi sono trovato con un altro che era già stato arrestato prima di me ed era il dottor Didomizio, che io avevo conosciuto perché nuotavo ed eravamo della stessa società di nuoto, Rarinantez.

Ci siamo rivisti lì, ma lui era stato arrestato per un’altra ragione. Non come noi, era stato arrestato perché faceva parte di Giustizia e Libertà, non so cosa facesse di preciso, perché poi nessuno diceva niente. Non si parlava quasi mai, anzi molte volte si faceva finta di non conoscersi.

Tant’è vero che veniva dentro uno nuovo, diceva: “Guarda chi si vede”. Lì rimasti a San Giovanni in Monte, mi hanno interrogato un’altra volta o due portandomi questa volta non nella stessa villa, ma in una via fuori Mazzini, adesso non mi ricordo, fuori Porta Mazzini.

C’era un altro nucleo loro, una specie d’ufficio anche quello, ufficio investigativo, non so come lo chiamassero.

D: L’UPI, quello dell’UPI?

R: UPI mi pare, sì. Era ufficio… Non so cosa volesse dire, investigativo. Lì mi ha interrogato sempre prima il colonnello, si chiamava Bucci, credo che sia morto. Mi ha interrogato sempre lui, mi chiedeva dove avevamo le radiotrasmittenti, le riceventi, ecc… Io dicevo: “Non so niente”. Diceva: “Lei però stia attento perché ha i genitori, quindi noi li teniamo d’occhio”. Dico: “Non c’entrano niente”. Infatti non c’entravano niente. Dopo parecchi interrogatori mi disse un giorno: “Va bene, noi ti denunciamo al Tribunale Speciale per la difesa dello stato”. E basta. Poi mi riportarono a San Giovanni in Monte. C’è stato un altro episodio, c’è stato il fatto che è arrivato dentro un gruppo di partigiani che ha liberato tutti quanti. Una notte da San Giovanni in Monte ci hanno liberati tutti quanti, però ci siamo trovati in mezzo alla strada, perché la nostra cella l’hanno aperta per ultima. Io e un altro che avevo conosciuto lì, Balboni, che è ancora vivo, poi un altro che veniva dalla Puglia, un certo, aveva il nome di battaglia, Maggio, però lui veniva dalla Puglia. Non so cosa facesse, lui si era arruolato con gli inglesi perché doveva sposarsi, voleva sposare quella donna. Comunque era arrivato fina a qui, San Giovanni in Monte. Siamo venuti fuori, però questo è un episodio così. Siamo usciti dal carcere, sono andato a casa, dove dovevo andare? Sono rimasto a casa un giorno. Poi hanno cominciato a telefonare e a venire a casa, a dire: “Guardi che se lei non si riconsegna noi mettiamo in galera i suoi genitori”. Mia madre dice: “Allora tu riconsegnati” e io tornai in carcere. Ma non mi volevano. Io bussai a San Giovanni, io e un altro. “Cosa volete?”. “Siamo due evasi che rientriamo”. Hanno detto: “Non si può, perché se non c’è un mandato di cattura o lei non è accompagnato da qualcheduno, anche un cittadino qualsiasi, non possiamo ricevere nessuno”. E ci chiuse fuori. Io con quell’altro lì sui gradini della chiesa diciamo: “Che cosa facciamo?”. Non sappiamo dove andare, la città, Bologna, era piena di fascisti, poi avevano saputo di questa irruzione dei partigiani nel carcere, quindi erano tutti lì. Vedemmo passare uno, un cittadino qualsiasi, che si fermò e noi dicemmo: “Per favore, guardi, ci vuole portare dentro?”. E’ così, se lo fai in un film uno non ci crede. “Ci vuole portare dentro, perché sennò non ci ricevono”. “Come non vi ricevono?”. “Perché non siamo accompagnati”. Quello bussò, poi scappò. Si fece vedere e disse: “Questi due vogliono rientrare”, allora la guardia aprì la porta e andammo dentro. Tornai in prigione. Non mi ricordo più quando, i tedeschi, chissà per quali loro problemi che non ho mai capito, un bel giorno arrivarono lì in prigione, un ufficiale delle SS e disse: “Questi, questi, questi”, faceva leggere i nomi all’interprete, “Questi e questi fuori, via con noi”. Ci portarono fuori, ci portarono lì in carcere, aspettammo un bel po’, perché non avevano il mezzo dove metterci, dove caricarci. Ci fecero salire su questi camion, un camion veramente. Poi ci portarono via, passando naturalmente tra due file di parenti piangenti. Passammo e ci caricarono su questi mezzi, poi andammo, almeno mi pareva, perché ci avevano chiuso, che ci portassero verso Modena. Assieme a quegli altri, soprattutto con Didomizio, che era stato nuotatore con me, dissi: “E’ una buona giornata perché se passiamo il Po’ ad un certo punto saltiamo fuori, saltiamo in acqua e andiamo”.

D: Questo più o meno quando è stato?

R: Ottobre, era ottobre. Metà di ottobre.

D: Sempre del ’44?

R: No, era già il ’45. No, è vero, ’44.

D: Scusami, Ugo.

R: Dimmi.

D: Tu sei stato accusato di cosa?

R: Di un sacco di roba. Di intelligenza col nemico prima di tutto. Poi di formazione di un gruppo partigiano, comunista dicevano allora, per loro erano tutti comunisti. Invece erano socialisti.

Poi di aver fatto attività di spionaggio, un attentato facemmo noi, uno solo. Qui c’è una birreria, non so se l’avete vista, è qui vicino, “Da Mamma”, dove tutte le sere i tedeschi si radunavano. C’erano delle finestre a pian terreno come questa con le inferriate.

Noi mettemmo delle bombe carta che ci avevano regalato, ne mettemmo due o tre e le facemmo scoppiare. Non successe niente, purtroppo non ammazzarono nessun tedesco. Però bloccarono la strada e fecero un rastrellamento lì.

Però io fui arrestato più che altro perché uno dei nostri, che era Luciano Proni, che poi è morto durante un rastrellamento in montagna, Luciano Proni faceva l’amore con una ragazza bellissima, molto bella, che contemporaneamente però faceva l’amore anche con un dirigente fascista.

Noi gli avevamo detto, gli dicevamo: “Guarda che se fossimo i comunisti ti avremmo già fatto fuori oppure ti avremmo allontanato”. “No, è una ragazza fidatissima che non dice niente”. Lui le aveva fatto i nomi di tutti e lei ha fatto i nomi di tutti, persino di mio fratello che era in Sardegna. Infatti mi chiedevano di mio fratello. Dico: “Andatelo a prendere in Sardegna, è prigioniero là, è rimasto là”. La causa fu lei che si chiamava Laura, non mi ricordo, Anna no, Laura mi pare.

D: Scusami, ti hanno portato alla GNR, no?

R: Sì, prima.

D: Sì, dopo…

R: Dopo i tedeschi mi hanno prelevato, eravamo tutti politici quelli che prelevarono i tedeschi. Lungo la strada, mentre ci portavano a Bolzano, eravamo un gruppo di quattro o cinque tutti pigiati in questo camioncino più due prostitute, due di quelle che avevano rastrellato.

Io ero rimasto indietro nel camioncino, quindi ad un certo momento passava un aereo che bombardava e mitragliava la strada. Dietro noi avevamo la scorta, c’era una specie di jeep con sopra dei tedeschi. Il camionista nostro si è fermato quando ha sentito l’aereo, poi è sceso.

Allora noi abbiamo approfittato, abbiamo tentato di scappare. Solo che io sono stato bloccato in fondo al camioncino e non sono riuscito a scendere, né io né Balboni né Maggio, mentre Didomizio e un altro, che è morto adesso, scapparono attraverso la campagna e i tedeschi della camionetta dietro gli spararono. Poi non l’hanno preso volontariamente, perché a sparare coi mitragliatori che avevano loro ci potevano benissimo fare fuori, erano lì. Si vede che sparavano in alto per vedere se si fermavano. Invece non si sono fermati. Da lì ci hanno portati, dopo siamo stati fermi, ci hanno portati ancora e siamo scesi a Verona. A Verona ci hanno portato in un altro posto che non so cosa fosse, era anche quella una caserma, ma non so come si chiamasse. Ci hanno portati dentro…

D: Ma era una caserma in città o in periferia?

R: Penso che fosse in città da quel poco che ho visto.

D: Germanica però? Era gestita da tedeschi?

R: Loro?

D: No, la caserma. Le guardie erano tedesche o italiane?

R: No, erano italiane.

D: Italiane?

R: Erano tutte italiane. Infatti poi venne dentro un prete. Lì ho avuto un po’ paura, ad un certo momento alla mattina prima ci diedero da mangiare benissimo, cosa strana, poi venne dentro questo prete, che era uno di quei preti che erano passati dall’altra parte, era un prete loro.

Disse: “Voi siete partigiani, avete ammazzato, avete fatto un sacco di peccati. State tranquilli perché vi assolvo da tutti i vostri peccati”. E buonanotte, ci ha assolto. Allora io ho detto a quell’altro: “Qui ci fanno fuori, perché ci danno da mangiare bene, ci mandano il prete, cosa vuoi di più?”.

Invece no. Alla mattina ci misero su un camion e ci hanno portato a Bolzano. Prima ci hanno portato vicino a Innsbruck, a Bolzano. Non so cosa fosse. C’era un campetto anche lì.

Però lì ci hanno lasciato pochi giorni. Poi da lì ci hanno portato a Bolzano, a Gries, che adesso non c’è più.

D: Scusa, Ugo. Ma sempre il vostro gruppetto, quelli partiti da Bologna o hanno aggregato altre persone?

R: A Verona hanno aggregato qualcuno, c’erano altri che non conoscevo. Fra l’altro erano veneti, con noi non c’entravano. Poi li ho rivisti a Bolzano anche questi.

D: Quindi sosta ad Iseo hai detto?

R: No.

D: Dopo Verona?

R: Dopo Verona direttamente a Bolzano.

D: No, dopo Verona?

R: Prima ad Innsbruck.

D: Ad Innsbruck?

R: Sì, c’era un piccolo campo lì, si vede che era di smistamento, non so. Poi siamo tornati indietro, da Innsbruck siamo tornati a Bolzano.

D: Come ti ricordi il tuo ingresso nell’area di Bolzano?

R: Nel campo? Prima di tutto pioveva e nevicava già, veniva giù nevischio così. Lì erano tutti tedeschi, erano SS tutti quanti. Ci hanno lasciati tutti in fila lì, poi ci hanno contato, ricontato, i soliti conteggi.

Poi ci hanno tosati tutti a zero, un freddo alla testa. Poi ci hanno fatto togliere il cappotto, ci hanno lasciato la maglia, se uno aveva la maglia sotto teneva la maglia. Ci hanno dato una tuta tutta blu, io ce l’avevo a casa, l’ho data per una mostra e non l’ho più riavuta. C’era un triangolo rosso con scritto 5855, che era il mio numero.

5855 ed è rimasto sempre quello. A Bolzano la vita del campo…

D: Ti ricordi il tuo blocco?

R: Non mi ricordo più. Balboni se lo ricorda di sicuro, io non me lo ricordo. Erano parecchi i blocchi lì. C’erano le donne da un’altra parte. C’erano gli ebrei da un’altra parte.

Lì era una questione, non so neanche io l’impressione, come dicevi, che mi ha fatto, brutta impressione. Fra l’altro non sapevamo lì niente dei campi in Germania, Mauthausen ecc. Eravamo lì, dopo un po’ di tempo che eravamo lì, un mese, abbiamo fatto varie esperienze.

Hanno provato a farci lavorare, io non me la sentivo di lavorare per loro. Il primo lavoro che ci hanno fatto fare, lì stavano scavando una galleria che adesso credo che sia autostrada, lì hanno poi portato una fabbrica di cuscinetti a sfere.

Noi dovevamo preparare tutto, c’era chi scavava, chi… Ci mettevano in quadrati alla mattina, ci portavano su un camion e da lì ci portavano dove era la galleria. Tunnel, come dicevano loro. Alla galleria si scendeva, ti mettevano in fila un’altra volta, ti ricontavano un’altra volta con un freddo cane, perché ai piedi ci avevano dato degli zoccoli di legno da portare.

Un freddo cane. Lì chiedevano cinque falegnami. Andavano fuori cinque che volevano fare i falegnami. Io, Maggio, che era stato invece studente di medicina, Balboni, ecc… alzammo la mano e dicemmo: “Veniamo noi”.

Ci presero, ci portarono lì in un reparto sotto le gallerie, ci diede, mi ricordo sempre, un mazzo di cavicchi di legno così da fargli la punta. Però non ci ha mai più richiamato, segno che le punte non erano venute bene a mio parere. Non ci ha più richiesti quello lì.

Poi lui ci mandò via alla sera quando suonava il fischio per partire, ci disse con disprezzo proprio: “Raus, Scheisemann, Italiener Scheisemann”, uomini di merda, qualcosa del genere.

“Questo non ci vuole più, cosa facciamo?” Io feci per lo meno la domanda per un gruppo di elettricisti. Ho imparato a fare qualche cosina, ma credo che da quelle gallerie non sia mai uscito un cuscinetto a sfera, mai sicuramente. Perché il lavoro dei prigionieri, poi soprattutto eravamo quasi tutti politici, in più c’erano parecchie donne, non era possibile che…

Visto che non avevamo voglia di fare niente o quasi, c’è stata una parentesi che mi hanno messo ai martelli pneumatici. Ci sono stato una mattina poi basta.

D: Questo sempre nella galleria? Questi lavori sempre in galleria?

R: Sempre in galleria, sempre in tunnel, sì.

D: Ascolta…

R: Dimmi.

D: Quando tu andavi dal campo alla galleria ti portavano in macchina?

R: In camion. Anche a piedi molte volte.

D: A piedi?

R: Non è lontano il campo.

D: Alla sera tornavate indietro?

R: Indietro, sì.

D: Sempre?

R: Sempre, si dormiva al campo.

D: Al campo dormivi?

R: Sì.

D: Quindi tu nel campo sei rimasto per tanto tempo?

R: Sono rimasto finché non è finita la guerra.

D: Oltre, accennavi, alle donne c’erano gli uomini nel campo.

R: Sì.

D: Di provenienze e di regioni diverse?

R: Sì, molti, in maggioranza erano veneti però. Friulani, di Belluno, quei posti insomma.

D: C’erano donne?

R: Insieme a noi no.

D: Ma c’era la baracca delle donne?

R: Sì, molte venete anche lì.

D: Tu le hai viste?

R: Sì.

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini nel campo?

R: No, bambini non ne ho mai visti. Donne ed ebrei, quelli sì. Però se ti prendevano vicino agli ebrei erano calci nel sedere e botte, non volevano che comunicassimo con gli ebrei. Erano in un campo per conto loro e in maggioranza erano donne ebree.

D: Tra gli uomini ti ricordi se c’erano dei religiosi, dei sacerdoti?

R: C’è stato anche uno che chiamavano “il vescovo”, non so se poi fosse vescovo veramente. Dicevano: “Adesso vado dal vescovo”, ma non era nel mio blocco. Era un altro blocco.

D: Nel periodo che tu sei rimasto lì nel campo di Bolzano sei stato testimone d’atti di violenza?

R: Tanti, anche per delle sciocchezze. Soprattutto per quelli che non lavoravano. Io ho provato a non lavorare, a stare circa una settimana, un mese in giro per il campo. Prima di tutto tutte le volte che dovevi incontrare… Avevano dei berretti fatti di stoffa, tutte le volte che incontravi un soldato ed erano così, dovevi alzare e vedere.

Se non lo facevi, io ho provato una volta perché ho detto: “Voglio provare a vedere cosa succede”, ho preso tanti di quei calci nel sedere, quei piedi così.

D: Ti sei fatto un giro d’amicizie lì nel campo?

R: Sì. Prima di tutto Balboni, perché quello era lì. Poi questo nostro amico delle Puglie, pugliese.

D: Quel pugliese famoso?

R: Quel pugliese, sì. E’ stato sempre con noi, anche perché era un ragazzo simpaticissimo. Degli altri che adesso non ricordo neanche.

D: Ti ricordi l’episodio che ti ha legato a dei russi?

R: Sì, quello dei russi. Sono stati loro che ci hanno convinti a lavorare. C’erano due russi che dormivano nel castello sopra di me. A un certo momento dicevano anche loro: “Ma perché non volete lavorare? Noi lavoriamo, mangiamo di più”.

Infatti, una fetta di pane in più si poteva mangiare. Hanno detto: “Provate, provate”. Ci hanno spinto ad andare appunto fra quelli che dovevano lavorare, a alzare la mano. Sono stati loro a convincerci, a spingerci.

Ho tenuto rapporti coi russi poi, ho tenuto rapporti con i russi fino a dopo, tornato a casa. Mi scrivevano da Modena, perché loro erano due ufficiali dell’esercito sovietico. Li avevano tutti internati, messi a Modena per poi mandarli in Russia.

D: Ritornando invece alla galleria, al tunnel, che tu lavoravi là, eravate in tanti a lavorare?

R: Eravamo parecchi. Il mio blocco c’era quasi tutto, quindi erano parecchi. Adesso non lo so ogni blocco quanti potevamo essere, quaranta, cinquanta. Venivano poi anche dagli altri blocchi. Eravamo in tanti in galleria. Poi finalmente ad un certo momento in galleria cominciammo a stare bene, perché i tedeschi mandarono lì a lavorare, quando erano già arrivate le macchine, i torni e le frese per i cuscinetti, mandarono gli operai della IMI, che erano industrie meccaniche italiane, di Ferrara.

Li mandarono ed erano tutti borghesi quelli, erano normali e lavoravano lì. Ognuno di loro prendeva uno di noi.

D: Quindi tu come gli altri avete avuto rapporti con i civili anche?

R: Solo con quelli.

D: Sì, ma avete avuto rapporto anche con questi?

R: Sì, con quelli che venivano in galleria.

D: Sì, sì. C’erano anche le donne, dicevi, a lavorare in galleria?

R: Sì. Non so cosa facessero, però c’erano. Più che altro erano addette a pulire, le pulizie. Poi con le donne era utile fare amicizia, perché lavoravano quasi tutte per gli ufficiali tedeschi. Si fregavano la roba da mangiare e allora ce la portavano. Era importantissimo.

D: Scusami, Ugo.

R: Dimmi.

D: Una volta finito il turno di lavoro in galleria, voi tornavate nel campo?

R: Nel campo, alle sei di sera.

D: Tutti tornavano nel campo o restava qualcuno a lavorare, a fare il turno di notte?

R: No, almeno dei miei compagni.

D: O lì vicino c’era un posto dove stavano, delle baracche dove stavano lì a dormire?

R: No.

D: Non ti risulta?

R: Non mi risulta per niente, no. Noi tornavamo tutti al campo, tutti. O a piedi o in macchina.

D: Col camion?

R: Col camion, sì.

D: Sei mai stato a Bolzano in città a raccogliere macerie, a spostare macerie?

R: No. Siamo stati varie volte alla ferrovia di Bolzano, perché l’avevano bombardata e ci portarono a mettere a posto, sistemare.

D: Sgombero di macerie?

R: Sì, sgombero di macerie, mettere a posto i binari, che è fatica, le traversine, ecc… Sempre guardati da loro naturalmente. Guai a fermarsi, bisognava sempre fare in modo di far vedere che si lavorava.

D: Sia quando tu eri in carcere a San Giovanni in Monte che lì a Bolzano sei riuscito a metterti in contatto con i tuoi familiari, con la tua famiglia?

R: Sì, venivano una volta o due al mese qui. A Bolzano no, a Bolzano niente scrivere e niente. Davano una sigaretta a quelli che fumavano. Io la scambiavo con le patate, perché m’interessavano di più.

D: Né hai mai ricevuto dei pacchi di generi alimentari?

R: Mai. In San Giovanni in Monte sì, qui.

D: Mentre a Bolzano?

R: A Bolzano niente. A proposito di civili, c’era una signora di Bolzano, la moglie di un ferroviere, la quale faceva della beneficenza. Ci portava qualche cosa ogni tanto dentro il campo, la lasciava lì e la guardia ce la dava. Tutto lì.

D: Scusami, una giornata tipo del campo come ce la descrivi?

R: Quando si lavorava o quando non si lavorava?

D: Sia l’una che l’altra.

R: Perché sono stato un mese quasi che non ho lavorato. Non ho voluto.

D: Quindi cosa facevate?

R: Niente, il giro per il cortile stando attenti che i cani non ti annusassero. Poi o ti facevano pulire i gabinetti, quei lavori lì, oppure ti prendevano così. Dicevano: “Tu, vieni qua”.

Era pieno, c’erano tutte le guardie che in genere purtroppo erano quasi tutte sud-tirolesi, erano state arruolate nelle SS tedesche. Erano piuttosto cattive.

Il tempo passava abbastanza bene, insomma, senza fatica. Poi ci sono state delle evasioni dal campo, diverse evasioni.

D: Anche dal tunnel qualcuno è riuscito a scappare?

R: Due donne sono riuscite a scappare dal tunnel, attraverso i gabinetti.

D: Ma c’era un collegamento con qualche gruppo esterno?

R: Io credo di sì. Non dicevano niente, però per forza. Se uscivi vestito in quel modo dove andavi? Probabilmente a Bolzano c’era un Comitato di Liberazione, qualche cosa del genere che aiutava.

Noi non l’abbiamo mai cercato, ma c’era. Molti sono riusciti, queste due donne sono riuscite ad andarsene.

D: Lì non è successa nessuna rappresaglia quando si sono accorti i germanici?

R: La rappresaglia era già abbastanza, perché facevano la conta subito dopo. Anche se erano le due di notte dovevi stare lì in piedi e aspettare che finissero. Conta e riconta.

D: Il tuo regalo del Natale ’44 cos’è stato?

R: Regalo di Natale ’44? Regalo in campo di concentramento? Una cosa brutta, che a me faceva una certa impressione era che avevano fatto l’albero di Natale.

D: Dove?

R: In mezzo al campo nel cortile, nel campo. Era una cosa tristissima. Non per l’albero di Natale, non m’importava niente, però era tutto questo ambiente.

D: Allora, due russi vi hanno convinti a lavorare, ma erano due russi deportati, no?

R: Sì.

D: Però nel campo c’erano anche degli ucraini che non erano dei deportati. Te li ricordi tu?

R: Erano soldati quelli. Ucraini, sì. Ma credo che fossero ucraini, non sono sicuro, ma credo che lo fosse anche il comandante del campo, non lo so. Si chiamava Titho. Mi ricordo la firma, Titho.

Era un maresciallo credo. I marescialli erano, non è come da noi che erano marescialli. Il loro maresciallo era importante. Ogni tanto facevano l’appello come sempre i tedeschi. Anche lì non era un bel momento, chiamavano fuori 5856, il mio era 5855, oppure 5854.

Quelli li mandavano tutti o a Mauthausen o Buchenwald o quell’altro, cos’era? Dachau. Li mandavano tutti lì.

D: Però voi non lo sapevate?

R: Non lo sapevamo, è vero.

D: Non sapevate la destinazione?

R: No, no.

D: Appunto.

R: Però siccome sono morti tutti… Dopo abbiamo realizzato.

D: Questi partivano senza sapere quale destinazione….

R: No, no. Nessuno sapeva la destinazione, neanche noi partendo da qui sapevamo. Io non sapevo che c’era il campo di concentramento a Bolzano, né io né gli altri.

D: Ugo, qui a Bologna a quei tempi in un giardino c’era un comando germanico. Ti ricordi come si chiamano i giardini? Come si chiamano quelli lì?

R: Giardini Margherita.

D: C’era mica il comando germanico lì? Il comando della SS?

R: Mi pare di sì. Lei c’era, sì. Sì.

D: Te lo ricordi, Giardini Margherita?

R: Sì, non proprio dentro ai giardini. In una strada laterale che fiancheggiava i giardini c’era una villa che avevano occupato questi della SS.

D: Non ti ricordi il nome di quella villa?

R: No.

D: Mentre il nome di villa Paradiso te lo ricordi?

R: Quello è una mia invenzione.

D: Cioè?

R: Forse non l’ho detto perché mi sono dimenticato. A un certo momento, come dicevo, visto che fare gli elettricisti e i falegnami neanche per idea, uno lo misero al tornio, quello se la cavava bene, uno che non mi ricordo come si chiamasse.

Però noialtri, io, Balboni e anche questo pugliese, questi pensarono: “Cosa facciamo?” Allora mi chiesero: “Tu cos’eri? Cosa facevi? Studente?”. “No, studente no”. Ero già laureato, sono laureato in legge. Allora scosse la testa e poi disse: “Vieni con me”. Prese me, Balboni e quell’altro.

Ci portò in un magazzino sempre dentro alla galleria. In questo magazzino c’erano delle gran casse piene di cuscinetti a sfere. Disse: “Qui c’è una cassa, vedete?”. Bisognava togliere le sfere grandi e piccole e metterle nelle altre casse, un bel lavoro quello.

Stavamo lì, ogni tanto spostavamo una cassa, erano sopra degli scaffali. Poi dietro andavamo a dormire per esempio. Alla mattina ci alzavamo alle cinque, alle quattro. Poi lì venivano per esempio tutte le donne, non si sentivano bene allora andavano dentro, chiudevamo dietro. Erano tutte contente.Allora io dissi: “Questa è villa Paradiso” e lo scrissi anche sulle aste di fuori, tanto che venne un ispettore, un ufficiale tedesco tipo Himmler e guardava dappertutto. Arrivò davanti e lesse: villa Paradiso. Si vede che chiese chi l’ha scritto e quello disse: “L’hanno scritto loro”.

Allora lui credeva che stessimo benissimo nel campo. Guardò, era contento.

D: Dicevamo, una giornata tipo del lavoro.

R: Il lavoro?

D: Sveglia al mattino?

R: Sveglia al mattino erano le quattro e mezza, cinque. Poi …., ci facevano uscire dal blocco perché andavi a lavarti, a lavarti la faccia. Poi era sempre gelata perché c’era un freddo cane, era sempre gelata. Di lavarci i denti avevamo smesso ad un certo momento, perché si vede che molti ci facevano la pipì dentro l’acqua.

Allora lavarsi i denti non era una cosa… Poi ci riportavano dentro, c’era l’appello per quelli che andavano a lavorare. “Galleria”, dicevano, “fuori”. Il gruppo, dividevano in vari gruppi e ci portavano in galleria.

Mangiare a mezzogiorno, ti davano una fetta di quel pane, quello nero. Non è cattivo quel pane, adesso l’ho mangiato a Bolzano con le noci, è buonissimo. Una bontà. Una fetta di pane e una specie di brodaglia, di brodo. Facevano queste grandi caldaie di questo brodo con dentro o il miglio o l’avena. Allora dicevo sempre: “Qui ci hanno preso dei canarini”. Ci davano questo miglio che diventa bello grosso e poi sopra ci buttavano della farina cruda in queste caldaie. Faceva una specie di crostina sotto buonissima. Poi basta, non c’era secondo, c’era un piatto, una gavetta di quello e basta. Una volta al giorno, alla sera niente. Tant’è vero che la fetta di pane la tenevamo per la sera.

D: Frutta no? Le mele?

R: Mele sì, non ce le davano loro. Quando ci portarono a chiudere le buche a Bolzano, si vede che con le bombe avevano colpito un carro di mele, un carro ferroviario di mele, allora c’erano tutte queste mele dentro le buche.

Ne mangiammo una quantità, un mal di pancia pauroso, si vede che erano mele, non so, sporche. Allora lì abbuffata di mele. Un’altra volta all’imbocco della galleria bombardarono, bombardavano l’imbocco e l’uscita. Bombardarono e ammazzarono un cavallo attaccato ad un carro.

Ce lo lasciarono il cavallo, morto. Lo aprirono e tutti quanti a prendere pezzi di carne. Però non l’abbiamo cotta, l’abbiamo mangiata cruda. Siamo stati malissimo, un male da morire.

Le uniche due volte che abbiamo visto cibo esterno.

D: Ti ricordi il giorno di Pasqua del ’45 cos’era successo, cos’è successo nel campo?

R: Non mi ricordo. Però qualcosa è successa. C’è stata un’evasione?

D: Una celebrazione di una messa.

R: No, questo non me lo ricordo.

D: Non te lo ricordi?

R: Non mi ricordo. Poi alla fine del ’45, quando oramai… Ci levarono dal campo e ci portarono in una scuola, ex scuola di Bolzano che non ho più rivisto.

D: Questo in che periodo?

R: Era sul finire della guerra oramai, era nel ’45.

D: Aprile, maggio?

R: Sì, non era cattivo tempo quindi doveva essere maggio, penso.

D: Ma tutti voi o solo un gruppo?

R: No, il gruppo che lavorava in galleria. Ci portarono lì e ci portavano da lì in galleria, che era più vicino.

D: Stavate lì a dormire?

R: A dormire, ci avevano messo su, si vede che c’erano già i castelli e si dormiva lì.

D: C’erano anche le donne con voi?

R: No.

D: Lì a fare la guardia chi c’era? Sempre germanici?

R: Sempre, sempre. Sempre SS.

D: Era più una scuola, secondo te, o una caserma?

R: Ma secondo me era più un’area da scuola, almeno dentro, dai colori. Poi forse l’avevano ridotta a caserma.

D: Era molto più vicina alla galleria questa?

R: Era più vicina. Noi ci andavamo a piedi tranquillamente, in quadrati a piedi.

D: Ascolta, Ugo, invece la liberazione come te la ricordi?

R: La liberazione. Siamo usciti una mattina da questa scuola, eravamo io e Balboni. Non ci guardavano più, avevano tolto le guardie, avevano tolto tutto. Si andava lì per dormire come un albergo, si andava dentro e fuori, non si andava più in galleria.

Passeggiavamo lì a Bolzano, no, a Merano o un’altra cosa, c’è un portico a Bolzano. Noi camminavamo lì sotto il portico. A un certo momento abbiamo visto una jeep con sopra tre americani, un negro e due normali.

Si sono fermati, hanno tirato fuori una carta topografica, guardavano. Hanno preso appunti e poi sono andati via. Poi non ho più visto americani.

D: Ma la liberazione? Vi hanno rilasciato un documento?

R: Sì.

D: Dove? Lì in questa scuola?

R: Nel campo.

D: Siete ritornati al campo?

R: Sì, ma per conto nostro. Avevamo saputo che facevano questo documento. Io ce l’ho ancora a casa. E’ un fogliettino stampato. Ci misero in fila anche lì, poi c’era una delle SS che faceva la dattilografa e ci chiese tutto, cosa avevamo fatto ecc, dove volevamo andare.

Siccome conoscevamo questa ragazza di Belluno, noi dicemmo: “Andiamo a Belluno”. No, non siamo andati a Belluno, siamo tornati a Bologna. Un viaggio prima in treno fino a Ora, a Ora finiva la ferrovia. Un po’ a piedi, un po’ così ci siamo fermati a Verona, mi pare. Non sapevamo cosa fare, bisognava avere dei soldi, perché sennò…

D: Avete fatto la strada dell’Adige o quella del lago?

R: Quella del lago. A Gardone c’era mio zio, mi venne in mente che c’era un mio zio che era direttore della banca, non so. Allora dissi: “Andiamo da mio zio”. Andammo su da mia zia Rosa e da mio zio che aveva sposato una sorella di mia madre. Stettimo lì due giorni, ma non avevano da mangiare niente neanche loro, poco. Patate e basta.

D: Quando sei arrivato a Bologna?

R: Io sono sempre arrivato ultimo, come all’8 settembre, lo stesso. Sono arrivato a Bologna che erano già iniziati i bombardamenti credo, no, erano già finiti i bombardamenti da un pezzo. Cos’era? In ottobre? No, non mi ricordo più. Maggio, sì.

Era caldo ancora. Devo essere arrivato in maggio, maggio o giugno a Bologna. La guerra era finita.

D: E a casa tua?

R: A casa mia?

D: Sì, mamma e babbo? Quando ti hanno visto?

R: Mio padre non c’era, era fuori. Quando è tornato… Mia madre.. Le è venuto uno smalvino, uno svenimento.

D: I tuoi compagni del partito, i tuoi compagni di brigata?

R: Quelli non ne ho visti neanche uno lì per lì.

D: Dopo hai ricostituito il gruppo, vi siete ritrovati?

R: Sì, dopo sono tornato al mio partito, che era il partito socialista d’unità proletaria. Lì sono rimasto fino a che il partito si è diviso, allora sono passato al partito comunista, più tardi però.

D: Ugo, cos’è stato per te il segmento dell’esperienza del Lager, per la tua vita dopo, per le tue scelte, le tue amicizie?

R: Ti dirò, essendomela cavata sia prima in guerra come dopo, quella è tutta questione di fortuna, l’esperienza non è brutta, non è una brutta esperienza quella del campo di concentramento.

E’ tutto un mondo a sé, è tutta una repubblica che è per conto suo. Lì il capo blocco comanda, fa quello che vuole.

D: Il capo blocco che è un deportato come te?

R: Sì. Però gradito ai tedeschi. Per quello che io sapevo e so un po’ di tedesco, perché l’ho studiato al liceo, un po’ di tedesco. Non ho mai detto però: “Io so il tedesco”, perché dicevano: “Chi vuole fare l’interprete?”.

L’interprete per i compagni e tutti era una spia sempre, anche se non era vero. Non ho mai voluto farlo. Avevo sempre una paura di rispondere in tedesco.

D: Però stavi dicendo una cosa molto importante, il Lager non è una cosa brutta perché è un mondo a parte…

R: Parlo per me.

D: Certo.

R: Ci sono quelli che ci sono morti.

D: Certo.

R: Però io sapevo già quando ci hanno deportato lì che con noi c’era uno nel camioncino che ci portò a Verona, c’era un certo Canè, che era un allievo ufficiale dell’aeronautica, abituato con la cioccolata alla mattina, quelle cose lì.

Io dicevo: “Quello non torna indietro” e non è tornato. C’erano molti anche che si demoralizzavano, molti, insomma abbastanza. Si buttavano a piangere tutto il giorno.

Io invece mi sono trovato con questi altri due con i quali si scherzava sempre. Abbiamo preso anche delle botte.

D: Ugo, sia durante il periodo del carcere che durante la tua permanenza del campo lì a Bolzano, nella galleria ecc. la tua scelta ideale, la tua scelta politica, i valori per i quali stavi combattendo, stavi lottando ti hanno aiutato, ti hanno dato quella forza?

R: Moltissimo. Però bisogna essere convinti di quello, bisogna che sia vero questo, non che fai finta.

D: Ne parlavi con gli altri tuoi compagni?

R: Certo.

D: Con Balboni per esempio?

R: Sì.

D: Con il pugliese?

R: Sì. Anche con altri friulani che erano quasi tutti comunisti.

D: Vi confrontavate anche su queste scelte importanti di valori, di lotta, del movimento resistenziale?

R: Sì, c’erano di quelli, per esempio Orel, era un friulano, giovane, avrà avuto sedici o diciassette anni, che l’avevano arrestato e messo lì. Lui mi chiedeva: “Tu mi devi spiegare”, siccome sapevano che ero laureato, “tu mi devi spiegare perché Carlo Marx ecc…”. Allora lì tutto…

D: Volevo farti una domanda su Verona. Quando dici che ti hanno portato forse in una caserma in città, poteva essere anche un forte militare o era una caserma?

R: No, non era una scuola quella, per me era una caserma.

D: O un forte? No, una caserma?

R: No, i forti li conosco a Verona.

D: Non era un forte. Invece a Bolzano dentro il tuo blocco avevate i gabinetti oppure i rubinetti?

R: C’erano dei gabinetti appena fuori dal blocco. Quella è la porta del blocco, fuori c’era una specie di baracca piccola con due porte di gabinetto. Lì dovevi chiedere se potevi andare. Una guardia veniva con te e stava lì fuori mentre tu facevi la cacca.

D: Ce li puoi descrivere? Com’erano?

R: I gabinetti com’erano? Erano un buco in terra. Siccome lì vicino c’è l’Isarco mi pare, andava a finire tutto lì.

D: Il tuo capo blocco chi era?

R: Non mi ricordo. Quando sono arrivato era uno che non ho mai più visto, non so.

D: Ti ricordi se nel campo venivano celebrate delle messe?

R: Delle?

D: Messe, da parte di preti, servizi religiosi. Ti ricordi?

R: Oddio, io non te lo posso dire perché siccome io a messa non ci vado non ci sono mai andato neanche lì. Però sapevo che facevano la messa ogni tanto, sentivo.

D: Ascolta, dicevi prima, hai fatto un accenno, volte in cui venivano chiamati dei numeri che potevano essere vicini, prima o dopo il tuo. Erano appelli per le partenze?

R: Sì.

D: Come avvenivano questi appelli per le partenze?

R: Non l’ho mai capito neanche io questo. Avvenivano quando gli pareva, quando si vede che loro avevano bisogno. Allora dicevano: “Facciamo l’appello”, facevano quest’appello e quei numeri che chiamavano andavano in Germania.

D: Ma venivate messi tutti sulla piazza?

R: Tutti, tutti nel cortile.

D: Tutti insieme o blocco per blocco, se ti ricordi?

R: Tutti i blocchi, tutti.

D: Poi venivano letti dei numeri?

R: Sì, i numeri di matricola che avevi qua.

D: Venivano letti in italiano o in tedesco?

R: In italiano, c’era l’interprete.

D: Alla sera quando vi portavano dentro nel blocco, il blocco veniva chiuso dall’esterno?

R: Sì. Non si poteva uscire, finestre non ce n’erano. C’erano dei finestrini in alto.

D: Ascolta, se dovevi andare in bagno di notte come facevi? In bagno di notte ti capitava? C’era un bugliolo dentro?

R: Un bugliolo.

D: Un’ultima domanda sulla galleria, se cerchi di ricordartela, era ad un piano, i macchinari e i posti di lavoro, o c’era anche un piano rialzato?

R: No, tutto un piano diviso in varie parti, magazzini, tornitori, fresatori, uffici, una galleria tutto al piano terra.

Bozzini Luigi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Luigi Bozzini, sono nato a Pavia, il 24 gennaio 1927, allora ero studente, frequentavo l’istituto tecnico Bordoni, per geometri. Dopo il 25 luglio e l’8 settembre, con i miei compagni dell’oratorio, di giochi dell’oratorio, abbiamo costituito questo gruppo, senza avere conoscenze e idee precise sul da farsi.

Abbiamo visto il comportamento dell’esercito italiano l’ 8 settembre, che è stata una cosa tragica ma sotto certi aspetti, anche un po’ comica. Io avevo sedici anni, giravo per la città in bicicletta e mi era capitato di vedere sull’argine del Ticino, appena fuori da un ponte coperto, un camion dell’esercito con una mitragliatrice, cinque militari e un capitano.

Dovevano fronteggiare i tedeschi che arrivavano dalla statale e il camion era posizionato in modo che la mitragliatrice potesse sparare sulla statale dei Giovi e davanti alla mitragliatrice c’era una squadra di ragazzini del borgo curiosi e alcune lavandaie e il capitano impazziva perché diceva: “Se devo sparare voi dovete togliervi da qui”. La cosa, anch’io ero lì ma mi sono spostato subito, era addirittura un po’ buffa, perché pretendere con cinque uomini di far fronte ad un carro armato era una cosa assurda, anche se avevo sedici anni e non avevo cognizioni militari, avevo capito che era una cosa impossibile. Allora abbiamo deciso di costituire questo gruppo e di resistere, in che modo non sapevamo, non avevamo mezzi. Conoscevo Monsignor Luigi Gandini, che abitava vicino casa mia.

Ci ha dato i primi stampati ciclostilati e noi, questi fogli, li appiccicavamo di sera, con l’oscuramento, approfittando dell’oscuramento, sui bandi di chiamata del maresciallo Kesserling e del maresciallo Graziani che invitavano i giovani a costituirsi e a presentarsi alla leva nel nuovo costituendo esercito della Repubblica di Salò.

Più avanti, io ero stato nominato capo del gruppo, in un primo momento Devoti e poi io e come capo dovevo tenere i contatti con gli elementi esterni alla nostra cellula. Don Gandini mi mise in contatto con l’avvocato Marchetti e da questi io ricevevo copie del giornale clandestino ” Il ribelle ” che era stato fondato da Teresio Olivelli. Su “Il ribelle” verso l’estate del ’44 trovammo la notizia che Olivelli era stato arrestato e c’era anche una foto.

Facevamo azioni di sabotaggio, i tedeschi mettevano delle indicazioni stradali per indicare dove c’era il tal reparto e noi approfittando del buio, strappavamo questi cartelli, cercavamo anche di rifornirci di armi.

Nella casa di Devoti, le donne quando andavano nel rifugio, dicevano che lì abitava un carabiniere che era scappato e che avevano paura perché probabilmente nella cantina ci dovevano essere delle armi, allora una volta abbiamo aperto il lucchetto e siamo entrati e c’era una catasta di legna, l’abbiamo smontata, effettivamente c’erano le armi, abbiamo trovato un fucile, un moschetto 91 con diverse scatole di cartucce.

Abbiamo prelevato qualche scatola di cartucce, abbiamo lasciato il fucile in attesa di poterlo usare nei momenti più adatti, perché in città non era certo facile operare in mezzo a tutti i fascisti e i tedeschi

D: Scusi Luigi, il vostro gruppo aveva un nome?

R: Sì, l’abbiamo chiamato Sirio e noi tenevamo un quaderno con un diario delle nostre azioni, in codice. Erano numeri, era un codice semplicissimo, bastava alla A, dare un numero e poi tutti gli altri seguivano.

Era un lavoro compilare anche quelle poche note perché bisognava far riferimento e qualche volta cambiavamo anche il corso, poi dopo il mio arresto, questi documenti sono stati distrutti ma quando sono venuti ad arrestarmi non hanno trovato niente perché erano bene nascosti. Più tardi, al nostro gruppo, eravamo quattro, Devoti, Chiappino, Masara, si è unito Giovanni Tavazzani che veniva da Torino, la mamma era di Pavia e dopo l’8 settembre il papà era generale, è scappato e si è trasferito a Milano. A Milano è stato il primo comandante del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia, è stato catturato a dicembre e internato a Mauthausen dove è morto nella primavera del ’45.

Un giorno, sono stato contattato da un partigiano, era uno studente del Bortoni, più anziano di me che mi disse, mi ha fatto una confidenza, mi disse che era un partigiano che era sceso e che però voleva ritornare e che cercava armi. Io avevo una rivoltella a tamburo, nascosta e temporeggiai perché volevo essere sicuro. Da ottobre sono arrivato a dicembre però non avevo mai rivelato che eravamo un gruppo di resistenza, chi erano i componenti, ero stato sulle difensive, appena prima di Natale gli consegnai questa rivoltella

D: Natale di che anno?

R: Del ’44. La mattina del 3 gennaio, presto, alle sei del mattino, arrivarono a casa mia cinque agenti in borghese delle SS, mi prelevarono, mi perquisirono e mi portarono alla Villa Triste, così chiamata, di Piazza Castello, mi lasciarono lì nell’anticamera un paio d’ore e poi mi chiamarono per un interrogatorio.

C’era un tizio seduto a un tavolo e i quattro altri agenti, ai lati, pronti a battermi. Io avevo intuito che il delatore poteva solo essere quella persona e difatti dissi che, mi dissero chi conoscevo, cosa facevo, dissi che avevo consegnato questa rivoltella a questo tizio. Mi portarono in una stanza vicina dove c’era l’arma sul tavolo e mi fecero fare il riconoscimento dell’arma.

Questo aveva parlato anche di altre persone, ormai sapevano già tutto e poi fui associato al carcere di Pavia, subito nella stessa giornata.

D: Senta, questa Villa Triste, esiste ancora l’edificio della Villa Triste?

R: No, è stata demolita subito dopo la guerra e al suo posto è stato costruito un condominio.

D: E le persone che l’ hanno trattata a Villa Triste, era italiani?

R: Erano italiani, ricordo, c’era un certo Ferrarini che era il capo e tra questi c’era un certo Gemelli.

D: Erano vestiti in divisa militare?

R: In borghese, in borghese, avevano un cappotto scuro, nero, grigio e il cappellaccio nero tutti quanti, il cappellaccio tipo…

D: Erano quelli del GNR?

R: Come?

D: Erano quelli della Guardia Nazionale Repubblicana?

R: No, erano delle SS, dipendevano dal comando SS, infatti io sono stato associato al carcere a disposizione delle SS

D: Al carcere di Pavia?

R: Sì. Mi han messo in una cella, la numero 4, dove c’erano già degli altri prigionieri.

D: Non c’erano le celle di isolamento?

R: Eravamo un po’ sospettosi perché ci potevano essere delle spie, infatti c’era un tizio che chiamavano Maresciallo, in borghese, che era sempre sul letto, io non l’ ho mai visto alzato, un tipo strano e però c’era Bonzanini Mario, Carlo Cuoccini, i più giovani, coi quali ho familiarizzato e poi c’era Zampieri che era un cronista di Pavia che io conoscevo di vista, che era molto più anziano. Gli altri, c’era una guardia di una riserva di Vigevano che portava la divisa della guardia di riserva con tanto di …, era una persona anziana.

Eravamo in 8, 10. La cella era quel che era, piccola, al piano terra, un grande finestrone in alto, davanti alla finestra c’era un paravento e dietro c’era il paiolo di legno.

Per servirsene bisognava salire su due cavalletti, era una cosa un po’ disagevole, comunque a Pavia ci davano un pasto solo, a mezzogiorno, una minestra e una pagnotta.

Durante la mia prigionia ricorderò sempre quel piatto di minestra perché aveva una certa consistenza, c’erano rape, cavoli e riso ed era piuttosto abbondante.

D: Quindi lasciavano portar dentro la roba da fuori?

R: No. Uscivamo al mattino per un’ora d’aria nel cortile, dove scendevano tutti, anche gli altri prigionieri che stavano su nel camerone. Tra questi ho trovato un mio compagno delle scuole elementari, Aurelio Bernuzzi che poi è stato un mio compagno anche a Bolzano e anzi, dormivamo nella stessa cuccetta perché bisognava stare in due per ogni cuccetta.

D: E nel carcere di Pavia siete rimasti?

R: Siamo rimasti fino al 23 gennaio.

D: Dopodiché?

R: Dopodiché una mattina ci hanno trasferito a San Vittore con una corriera, scortati dalla Guardia Nazionale Repubblicana. Molti della mia cella non sono venuti, ricordo che poi era arrivato anche il Dottor Giulio Perri che era un medico e quando siamo arrivati a Bolzano, ci hanno rapato i capelli a zero.

D: Aspetti, prima a San Vittore, a San Vittore siete rimasti per un lungo periodo?

R: Ho sbagliato, ho detto Bolzano, volevo dire San Vittore. Ci hanno rapato i capelli a zero e siamo stati sistemati nelle varie celle e Perri è stato mandato in infermeria, come medico, in aiuto ai medici, civili credo.

D: Si ricorda il raggio di San Vittore?

R: Doveva essere il sesto raggio, io era al terzo piano, in questo momento non ricordo la cella ma l’ ho segnata nelle mie memorie.

D: Lei lì ha ricevuto un numero di matricola a San Vittore?

R: A San Vittore sì, no. Non ho avuto numero di matricola, ho segnato il numero della cella al terzo piano, che era l’ultima verso il finestrone e noi vedevamo una strada di Milano dove passava il tram e sotto c’erano le guardie che non volevano che ci avvicinassimo al finestrone, se uno si avvicinava più di tanto, quando uscivamo per andare all’ora d’aria, sparavano, sparavano

D: E dal giorno del suo arresto alla permanenza San Vittore, era riuscito a comunicare con la sua famiglia?

R: Ho mandato una cartolina, una cartolina prestampata che ci hanno dato

D: A San Vittore?

R: A San Vittore sì

D: E non ha mai ricevuto visite o?

R: No, una mia sorella ha portato una valigia con dentro degli indumenti. Era stata perquisita però nelle calze son riuscito a trovare una coscia di pollo o qualcosa del genere, non hanno spogliato tutto, qualcosa han lasciato

D: Quindi, a San Vittore è rimasto fino?

R: Fino al 15 di febbraio del ’45

D: E poi lì cos’è successo?

R: La mattina ci hanno fatti scendere tutti nel corridoio centrale, siamo stati sottoposti ad uno spoglio accurato e poi rinchiusi in un altro reparto, in celle, celle che erano cieche, non avevano finestre e spoglie, mi son trovato con altri nove prigionieri che non conoscevo.

A metà mattina, attraverso uno spioncino, una suora ci ha dato un filoncino di pane a testa e un poco di soldi che abbiamo diviso fraternamente.

Nel pomeriggio poi la cella si è aperta e ci hanno avviato al piazzale. Il piazzale era fortemente presidiato da forze tedesche e fasciste e c’erano anche delle autoblindo e c’erano quattro autocorriere con rimorchio.

Una di questa faceva il servizio Pavia-Binasco-Milano ed era della Lombarda. Io mi son diretto verso quella corriera insieme a Bernuzzi che avevo trovato di fuori e lì ho trovato gli altri miei compagni di cella, Perri, Bonzanini e Cuoccini e altri ancora di Pavia. Perri mi disse di stargli vicino perché c’era la possibilità di scappare, eravamo in fila per salire sulla corriera.

Sulla corriera c’era l’autista che era di Pavia e fermava la nostra fila mentre lasciava salire un’altra che si era formata accanto alla nostra soltanto che un soldato tedesco si è spazientito del fatto che noi eravamo fermi e ha colpito Bernuzzi alla schiena, esortandolo a salire e allora siccome noi eravamo i primi ci siam sentiti a disagio.

“Questo qui se tira il grilletto ci fa fuori”, allora ci siamo incamminati e siamo saliti, ma lo scopo era quello di prendere la corriera vicino al soffietto, invece noi ci siam trovati, io e Bernuzzi, seduti sul pavimento del corridoio, impossibilitati a muoverci. Gli altri sono riusciti a prendere posizione sul rimorchio ma vicino al soffietto, sempre a terra. E poi quando è venuto buio la corriera si è messa in moto e siamo andati in direzione, non si sapeva allora, era Bolzano ma non lo sapevamo.

Ha fatto la Gardesana Orientale e sulla Gardesana l’autista ha accusato un guasto ai freni e ha rallentato sensibilmente allora la corriera è stata fermata, è seguita una discussione molto animata coi tedeschi, con la scorta e poi il gruppo ha ripreso, le altre corriere sono partite speditamente, la nostra è rimasta staccata in fondo.

Dimenticavo che prima di partire erano salite delle guardie nazionali repubblicane di presidio davanti alla motrice e passando sopra le nostre teste hanno preso posto negli ultimi posti riservati a loro in fondo alla corriera.

La corriera era bloccata, le luci spente, si viaggiava al buio per paura degli attacchi aerei e i mezzi, le macchine, i pullman avevano le luci schermate e c’era una piccola fessura dove passava quel tanto di luce per potere vedere la strada. L’autista d’accordo con Giulio Perri, perché Perri stando in infermeria aveva potuto parlare con membri esterni del Comitato di Liberazione e organizzare questa fuga; facendo dei segnali, diceva che si poteva scappare, aveva detto che la scala della motrice che portava sopra, alla corriera, era sul lato destro, allora loro han tagliato, Perri ha avuto un bisturi della suora dell’infermeria e una spilla da balia, ha tagliato il soffietto e uno alla volta si son gettati giù.

Bonzanini m’ ha detto che la ruota è passata a quattro dita, perché buttandosi giù è caduto sulla strada e la ruota è passata a quattro dita dal suo corpo e poi è rotolato in una cunetta e però dietro dice che c’era ancora un autoblindo. Naturalmente la strada era sterrata e passando la corriera ha sollevato un gran polverone e lui se l’è cavata e poi è scappata, tutti e cinque sono riusciti a fuggire, nessuno si è trovato con l’altro.

E dice che nel punto dove lui è caduto, poco più avanti, ha visto le luci di un posto di blocco, comunque sono rientrati tutti e noi, poi è venuto giorno e non c’è stata più possibilità di fuga. Siamo arrivati a Bolzano alle 14 del pomeriggio e ci hanno portati in una zona del cortile recintata e il maresciallo Haage ha proceduto all’appello della nostra corriera.

Il primo nome era Bonzanini e Bonzanini non c’era più e lui continuava a chiamare Bonzanini e poi chiamò Bozzini, ero il secondo e ho fatto un passo avanti ma lui tornò a chiamare Bonzanini a allora io rientrai poi chiamò nuovamente Bonzanini allora io mi sono spazientito e ho detto quel poco tedesco che sapevo: …”Luigi Bozzini” e allora lui m’ ha fatto segno di spostarmi dall’altra parte del cortile, del recinto e poi continuò con l’elenco e man mano venivano fuori quelli che mancavano.

Dopodiché ci hanno rinchiuso nel blocco H. Il blocco era vuoto e c’erano dei castelli a tre piani, a tre livelli e ammassati lungo le pareti del capannone e una parte in centro.

La porta venne chiusa e noi prendemmo posto e spenta la luce prendemmo posto nei castelli, senza coperte, senza pagliericcio, senza niente.

Il mattino seguente sono arrivati altri viaggi di prigionieri e ormai in questo blocco eravamo in 400, c’ erano anche gli ebrei.

D: Nel Blocco H?

R: Nel Blocco H sì, ci mandarono nel magazzino, ci tolsero i nostri abiti civili e ci diedero delle divise militari grigio-verde di vari eserciti e a me toccò una divisa di tela grezza degli avieri italiani, era una divisa estiva di fatica degli avieri italiani. Mi diedero il numero di matricola con il triangolo rosso, il mio era 9695, un paio di zoccoli di legno, una bustina militare, un bicchiere di bachelite e un cucchiaio, mancavano le gavette, non ce n’erano per tutti.

Quindi quando c’era la distribuzione del caffè al mattino o del brodo a mezzogiorno, e del brodo alla sera, con un panino, dovevo cercare qualcuno che aveva la gavetta e che era disposto a mangiare con me. Una sera ci trovammo in 4 a mangiare nella stessa gavetta e devo dire che è stata una cena bellissima che ricorderò sempre, perché ognuno intingeva il proprio cucchiaio nel brodo, e prendeva quel tanto che gli bastava senza cercare di approfittarne.

D: E questo è durato fino a quando lì a Bolzano?

R: Ecco io ho capito, dopo quando son tornato e ho visto i racconti di quelli che ci hanno preceduto, la razione allora era più abbondante e gli davano anche un po’ di margarina e qualche volta della marmellata ma lì eravamo alla fine, eran proprio gli sgoccioli.

E ho capito che perdevamo un po’ le forze e ho capito che ci avrebbero eliminato molto presto e poi se ci mandavano in Germania la cosa sarebbe stata triste.

Avevo conservato la carta d’identità, l’ avevo nascosta perché essendo del ’27 in caso di fuga, se fossi stato fermato, non avevo obblighi di leva e quindi non ero perseguibile.

Solo che c’erano delle squadre che uscivano al lavoro regolarmente tutte le mattine e anche noi che non eravamo inquadrati in queste squadre ci mandavano nel magazzino posto vicino al campo per operazioni di carico e scarico, oppure in città a caricare del materiale, anche delle munizioni, erano magazzini nascosti nella città.

Allora andai dal capo blocco che era un prigioniero come noi, che teneva l’elenco dei prigionieri e dissi che io volevo uscire per il lavoro perché volevo scappare, e mi mandarono a fare diversi servizi fuori. La prima volta alla Villa Stravinsky, mi sembra di ricordare, che praticamente era una casermetta delle SS, a fare un lavoro di scavo.

Poi, altre volte, mi mandarono sulle colline, dove avevano tagliato un bosco e dovevamo raccogliere i rami in fascine, non avevamo attrezzi, con le mani dovevamo arrangiarci. Un giorno poi fui spostato in un’altra squadra e proprio quel giorno lì, due toscani, due giovani toscani hanno tentato la fuga. Quando la guardia se ne è accorta, radunarono gli altri prigionieri in un anfratto, sotto una roccia, perché il terreno era molto accidentato e l’altro andò a cercare i prigionieri, si trovò faccia a faccia con uno di questi, quello per difendersi imbracciò l’arma e lui sparò e lo uccise.

Alla sera l’ hanno gettato nella piazza dell’appello, per terra, a dimostrare che scappare era pericoloso.

Poi sono andato, mi hanno mandato alla caserma dell’artiglieria di Bolzano dove ero in aiuto a un muratore civile, doveva confezionare la calce, pulire dei mattoni e portarli al primo piano dove facevano dei tavolati perché una camerata veniva divisa in tante celle, poi veniva chiusa la finestra e in alto si mettevano delle inferriate.

Quando bisognava posizionare questi ferri, il muratore si spostava e i ferri li mettevamo noi, li mettevamo in modo che se uno se ne accorgeva, in sommità, sull’alti trave, entrava quel tanto della calce, poteva essere piegato e quindi poteva scappare.

Questo muratore qualche volta mi portava un uovo, un uovo crudo che noi bevevamo, andavo lì con un certo Bolzanini di Lungavilla, un partigiano di Lungavilla.

Poi sono stato mandato in una fabbrichetta in costruzione, sempre lavori di manovalanza e lì alla caserma avevamo la possibilità di acquistare del castagnaccio; veniva un tizio dietro il reticolato e ci vendeva questo castagnaccio.

Ne mangiavamo e io ne portavo un po’ ai miei compagni del campo. Alla sera rientrando, il nostro blocco era completamente vuoto; erano stati spostati tutti in un campo, in un altro blocco che era isolato dalla recinzione, il cortile era isolato dalla recinzione perché quelli erano pronti alla spedizione in Germania e io fui spostato al blocco G con Bonzanini e altri.

D: Come pagavate il castagnaccio?

R: Con i soldi che ci aveva dato la suora, con i soldi che ci aveva dato la suora e con i pochi soldi che avevo io, nel portafoglio quando mi hanno arrestato avevo delle am lire, non erano una gran cifra ma qualcosina c’era.

D: Mentre tu eri a Bolzano, hai potuto comunicare con casa. Scrivere o ricevere?

R: Dunque, quando tornavamo dalla caserma, qualche volta se le guardie erano brave perché le guardie fuori non erano le SS erano della Wermacht. Andavamo allo stabilimento Lancia, che era sulla strada.

Noi eravamo a Gries e la caserma dell’artiglieria era sì alla periferia ma dovevamo passare tangenzialmente al centro di Bolzano, dalle parti della stazione penso, so che percorrevamo un grande viale.

Andavamo alla Lancia dove rientrando dopo le cinque c’era sempre il rancio, una minestra pronta, che mangiavamo. Noi andavamo fuori sempre con la gavetta, dopo abbiamo avuto la gavetta perché a mezzogiorno ci portavano il brodo dal campo di concentramento e la mangiavano anche le guardie perché avevano fame anche loro.

E lì in quell’occasione c’erano degli uomini e anche delle impiegate che venivano, ci chiedevano di dove eravamo, l’indirizzo e dove eravamo nel campo di concentramento.

Io ho dato in due o tre occasioni il mio indirizzo però non ho mai ricevuto posta, i miei avevano saputo che ero a Bolzano, hanno dato a un taxista che doveva venire a Bolzano dei pacchi ma io non ho mai ricevuto niente.

D: Ecco tu nel campo di Bolzano fino a quando sei rimasto?

R: Dunque nel campo di Bolzano sono rimasto fino alla fine di marzo perché i miei compagni che erano stati rinchiusi nel blocco, pronti per la spedizione, sono stati portati sul treno, pronti per la spedizioni, sarà stato un venerdì, o un sabato ma ricordo che la domenica, dalle dei del mattina alla sera, passarono sul cielo di Bolzano formazioni di bombardieri di 18 o 36, erano sempre o 18 o 36 le formazioni, a pochi intervalli l’uno dall’altro.

E si sentivano a distanza, a volte, gli scoppi delle bombe. Hanno bombardato, distrutto la ferrovia, il treno non è più partito e miei compagni sono potuti rientrare in campo. Allora è sorta la necessità di creare dei campi ausiliari perché Bolzano era sovraffollato ormai.

E io fui mandato, anche con altri di quelli che erano stati sul treno, in Val Sarentino, dove c’era un campo con baracche di legno allestite nel greto del torrente Talvera, circondato con filo spinato e torrette e con mitragliatrici.

E al mattino dovevamo salire la strada e raggiungere le gallerie dove c’erano queste macchine che dovevamo scaricare dai camion, a volte, oppure prendere dalle piazzole e portarle sotto le gallerie, la galleria, metà era destinata al transito, l’altra metà avevano fatto dei piani di calcestruzzo dove venivano posizionate queste macchine.

Poi arrivavano dei carri, degli autocarri con lingotti di piombo e fasce di lamiere di ottone perché volevano far una fabbrica di munizioni.

Abbiamo scaricato un maglio, a mano, unto di grasso, qualcuno c’ha lasciato sotto un piede, una volta è arrivato un SILO dalla Germania, un SILO metallico e dietro questo trasporto c’erano due prigionieri politici, stranieri, e uno di questi, lo dico nel mio racconto, si è avvicinato a me, forse perché ero il più giovane della squadra.

Noi lavoravamo in squadre di 15 elementi e ha estratto dalla tasca una scatola di sigarette e mi ha offerto delle piccole patate, quelle che si spigolano… ma io ho fatto capire che non potevo accettare perché non avevo niente da potergli offrire per ricambiare, lui ha insistito, io ho preso due patatine e me le sono mangiate, allora lui ha sorriso e ci siamo abbracciati, doveva essere un ungherese, un polacco, non ho capito anche perché non c’era molto tempo per scambiarci delle parole, la guardia che ci sorvegliava, ci esortava a lavorare.

D: Luigi scusa, come te lo ricordi tu il campo di Sarentino, della Val Sarentino?

R: Dunque lo dico nella mia memoria, in un primo tempo ci hanno ospitato in un campo che era fatto di baracche di legno prefabbricate, costruite abbastanza bene e sul tetto c’era il simbolo della croce rossa, per gli aerei, che avvertivano che era un campo di prigionia. Dopo una settimana, neanche, fummo trasferiti più a monte, qualche chilometro.

Abbiamo preso il nostro pagliericcio con la paglia, questa volta avevamo il pagliericcio, e la nostra coperta e scortati dalle SS abbiamo preso posto nel nuovo campo. Lì, il capo del campo era un maresciallo della Wermacht però ai suoi ordini aveva le SS.

C’era un brigadiere delle SS e poi dei soldati e sulle torrette c’erano tutte le SS, però era una persona abbastanza umana e lo si è capito subito perché quando ha fatto le consegne c’era un altro maresciallo delle SS che doveva essere Titho e c’era un interprete, prigioniero, belga e aveva tenuto un atteggiamento non ostile e il maresciallo, io dico Titho, penso che sia stato lui, lo voleva punire, allora il maresciallo si è opposto, ha detto: “Ormai hai fatto le consegne, sono io il comandante del campo, se è da punire lo punisco io”.

E quello là non ha avuto più niente da fare, m’ ha salvato praticamente.

D: Ecco, ma c’erano molte baracche?

R: Adesso non ricordo il numero, erano baracche dislocate, il terreno era coltivato con le piante di melo, erano mimetizzate sotto questo campo di melo.

D: E come deportati eravate tanti?

R: Saremmo stati un centinaio, 150.

D: E tutti impegnati a scaricare camion?

R: Tutti sulla strada, ma poi, quando sono stato al Congresso a Mauthausen, ho conosciuto un compagno di prigionia attraverso il numero di matricola perché io l’avevo e me lo sono portato, lui l’aveva ormai smarrito ma ricordava il numero e diceva: “C’ero anch’io a Bolzano in quel periodo lì e son stato mandato anch’io a Sarentino”.

Però lui doveva fare l’aiuto del muratore da qualche parte e quindi non veniva nelle gallerie.

D: Ascolta un attimo; tu parlavi di macchine che scaricavate e avevi detto che avevate anche una macchina dalla Germania?

R: Un silo

D: Un silo, le altre invece, il maglio per esempio?

R: Venivano da Torino, da Bologna e da Milano

D: Ecco, come fai a sapere queste cose?

R: Sulle macchine c’erano delle etichette e poi mentre noi le mettevamo su un carro di ferro, la strada era sterrata, il carro aveva delle ruote che avranno avuto 20 centimetri di diametro quindi dovevamo trascinare questi carri in salita con dei fili di ferro e delle sbarre di legno perché come i buoi, a due a due spingevamo il carro fin sotto le gallerie.

Le guardie erano lì però appena giravano l’occhio noi svitavamo un bullone, un volantino o qualcosa che finiva giù dal burrone.

La strada era a mezza costa, c’era la roccia a monte e un precipizio a valle, quindi prima di metterla in funzione ci sarebbero stati dei problemi.

D: Sabotaggio?

R: Sabotaggio

D: E non hanno mai preso nessuno?

R: No

D: Ascolta, lì quando vi hanno portato in Val Sarentino, vi han portato su…

R: A piedi, dal campo di Bolzano a Sarentino, abbiamo attraversato la città per vie secondarie, per delle viette.

D: E siete arrivati in Val Sarentino a piedi?

R: Sì.

D: Ti ricordi qualche particolare del paesaggio, non so la presenza di un castello?

R: Sì, castello Ronco, appena all’imbocco della valle c’è il castello Ronco e anzi una domenica ci hanno fatto scaricare un rimorchio di cemento e abbiamo dovuto portarlo sul al castello per il sentiero nel bosco.

Al mio compagno che stava sul camion, gli ho detto di pulirlo bene prima perché alcuni sacchi si erano rotti e c’era cemento dappertutto e me l’ ha messo bene sulla schiena. Allora, tenendolo e con l’altra mano sotto e salendo tutto curvo, l’ ho portato intatto fin al castello.

D: Ma questo dalla Val Sarentino?

R: Sì, in Val Sarentino

D: Quindi vuol dire che il campo in Val Sarentino era vicino al Castello Ronco?

R: No, siamo andati più giù sulla strada dove c’era il camion e l’abbiamo portato sopra.

D: Ma vicino al campo cosa c’era? C’erano delle case?

R: No, non c’era niente, oltre il Talvera, dall’altra parte del Talvera c’era una batteria contraerea, tedesca, dove c’erano anche dei serventi italiani, che vestivano la mia divisa di tela grezza.

D: Ascolta, quindi di abitazioni non ce ne erano?

R: No, c’erano dei masi alti ma non abitazioni lì vicino. C’era una casa poco più avanti, una villetta poco sopra.

D: E quindi c’era questa galleria qui

R: No, erano 25 le gallerie sulla strada. Poi io sono tornato in Val Sarentino, sono stato una decina di anni fa, forse quindici anni fa e ho visto che hanno fatto delle variazioni della strada, hanno fatto delle opere, dei viadotti e nuove gallerie perché la strada era molto impervia in mezzo a questa zona e hanno eliminato forse delle vecchie gallerie e hanno fatto una rettifica del vecchio tracciato stradale.

D: Sei riuscito però a individuare più o meno il luogo del campo?

R: No, non mi sono fermato lungo la strada, sono arrivato al paese, anche perché c’è stato un episodio.

Noi lavoravamo in una galleria vicino alla piazzola, un magazzino stradale e lì c’era una baracca in legno dove facevano servizio dei giovani della territoriale, di presidio a tutto il materiale, ce n’era prima, c’ era dopo e c’era a metà.

Un giorno, un ragazzo di questi qui mentre noi prendevamo posto sulla piazzola dove poi ci veniva distribuito il nostro brodo dal campo, mi ha offerto con un piatto.

Mi ha detto se volevo mangiare della pastina che avevano sbagliato la quantità di sale, il nostro brodo era assolutamente senza sale e la cosa mi ha un po’ ingolosito e allora ho assaggiato ma ci aveva orinato dentro, non era sale in eccesso allora ho ringraziato e ho rifiutato senza imprecare.

Il giorno successivo, a mezzogiorno è arrivata una guardia della territoriale, un uomo che avrà avuto cinquant’anni, è venuto a cercarmi sotto la galleria e in quel momento lì c’era una guardia che era abbastanza brava, era un viennese, doveva essere un musicista, un violinista e quando c’era aria chiara diceva: ” Non lavorate, passeggiate”; appena sbucava qualcuno si metteva ad urlare. Allora questo qui è venuto lì, mi ha chiamato e dallo zaino ha tirato fuori 15 focaccette, noi eravamo in 15, quindi ci hanno contato, con dentro una pressata di uva e allora sono andato sulla piazzola e abbiamo fatto una per ciascuno.

D: Ho capito, ascolta, lì a lavorare per posizionare queste macchine, macchine utensili, lavoravate durante il giorno e basta?

R: Sì, sì avevamo dei paranchi, paranco è un cavalletto di metallo, è un aggeggio con due catene, una che solleva il peso e un’altra catena che fa da frizione, che gira dei denti e moltiplica lo sforzo.

Quindi giravamo quelle catenelle lì, veloce e il peso che era imbragato si alzava, lo mettevamo sul carro e poi lo portavamo sotto la galleria e lì l’operazione inversa, si metteva sul piano

D: Ecco, lavoravate, dicevi, nell’arco della giornata, di sera dentro nel campo?

R: Tornavamo in campo

D: L’appello?

R: Sì, sì sempre l’appello al mattino e alla sera, anzi l’appello lì, veniva fatto dentro la baracca, ognuno si posizionava davanti al proprio castello a tre piani e veniva un SS a contarci. Di notte succedeva che si apriva la porta con un calcio, accendevano la luce, perché toglievano la luce di notte e ci comandavano per qualche servizio, a volte pioveva a dirotto, un temporale, e così, fuori a caricare la legna, scaricare la legna.

Io ero vicino a Pisani Renzo che era un partigiano della Brigata Giustizia e Libertà ed era di Casteggio e questo qui mi svegliava, io dormivo sodo, non sentivo il calcio alla porta, non sentivo niente, mi svegliava ed eravamo all’ultimo piano, al terzo piano in cima allora ritiravamo i piedi e le coperte e il tedesco metteva la mano, sentiva vuoto, quelli sotto poverini erano sempre alle prese e noi l’abbiamo sempre scampata.

Ognuno cercava di salvarsi come poteva, tra l’altro aveva ricevuto un piccolo pacco, con dentro un pezzo di lardo, l’unica cosa che era rimasta era un pezzo di lardo.

Allora abbiamo scoperto che puntando i piedi sul soffitto che era fatto di pannelli di faesite, si alzava, e al centro della baracca c’era come una trave fatta di tavole, un cunicolo insomma e noi mettevamo lì il pacco, quando toglievano la luce, mi dava una spinta, io puntavo i piedi e con una lima di ferro ormai consumata avevamo fatto dei coltelli, lui tagliava questa fettina di lardo, me la passava e masticava e come sentivano la carta qualcuno diceva: “Mangiano, mangiano”.

D: Ascolti, lì lavoravate sette giorni su sette?

R: No, la domenica eravamo fermi.

D: E cosa facevate?

R: Niente, giravamo per il campo liberamente, non potevamo uscire di sera dalla baracca, anche se avevamo necessità fisiologiche, perché quando era la pipì, aprivano la porta e fuori, usavano la gavetta, sì, sì, per non sporcar la baracca.

D: Ascolta…

R: Perché poi, i servizi, c’era un ramo del Talvera e sopra questo ramo avevano fatto un ponte, coperto, in legno ma fatto bene e dove c’era un vuoto al centro e due panchine laterali e ci sedavamo lì e il bisogno era lì.

Una mattina mi sono sentito male, ho vomitato, dopo aver bevuto il caffè ho vomitato perché non ci davano più il pane ma ci davano delle gallette. Dei crackers integrali che mettevano acidità e bruciore di stomaco era una cosa normale, c’era sempre, i crampi allo stomaco, i bruciori c’erano sempre.

Quella mattina lì ho vomitato e allora c’era un prigioniero che fungeva da medico che mi ha detto, “Bene, stai a casa”. Per mia sfortuna quel giorno lì avevano marcato visita sei o sette prigionieri e allora è venuto il capo campo con il brigadiere e il medico a guardarci e loro hanno detto che era sabotaggio e allora ci hanno mandato a recuperare la giornata la domenica, un lavoro inutile perché mi hanno mandato con un camion su in alta montagna, un freddo della miseria, a caricare delle pietre che poi è andato a scaricare.

D: Scusa una cosa, eravate solo politici?

R: Sì solo politici.

D: Donne non ce ne erano?

R: No, a Bolzano sì, c’era una zona delle donne.

D: No, lì in Val Sarentino.

R: In Val Sarentino solo uomini e solo politici ed ebrei.

D: E la liberazione come te la ricordi?

R: La liberazione è venuta la notte tra il 28 e il 29 di aprile. C’è stata un’incursione area.

Hanno lanciato dei bengala, hanno illuminato la valle a giorno e poi i cacciabombardieri hanno mitragliato e spezzonato, l’indomani non siamo usciti per il lavoro.

C’era una strana atmosfera di quiete e ci chiedevamo cosa poteva essere, c’erano ancora le guardie sulle torrette ma le guardie trentine, i ragazzi di leva della zona di Trento e di Bolzano erano inquadrati nell’esercito tedesco però avevano una divisa tedesca con un colore con un panno leggermente azzurrato e sull’elmetto portavano lo scudo con i tre colori, bianco, rosso e verde.

Questi qui avevano disertato, non c’erano più e verso mezzogiorno è venuto un comandante che aveva una divisa marrone, ci ha fatto cenno di portarci vicino al cancello e ha detto che eravamo liberi di rientrare alle nostre case perché praticamente la guerra era finita, ci ringraziava per la collaborazione e ci ha esortato di passare dal campo di Bolzano a prendere il foglio di licenziamento. Potevamo prendere tutto quel che volevamo.

Allora io e Pisano abbiamo raccolto le coperte e con il pagliericcio abbiamo fatto uno zaino e poi ci siamo incamminati, siamo andati in quella villa dove una donna ci ha dato la polenta, ha fatto la polenta e c’erano dei tedeschi che stavano facendo il ragù.

Noi abbiamo mangiato la polenta a piombo ma non mi sono abbassato a chiedere un cucchiaio di ragù al tedesco.

D: E sei arrivato a Bolzano a piedi?

R: Siamo arrivati a Bolzano a piedi passando vicino al campo più a valle, era distrutto.

Il bombardamento c’era stato perché qualcuno aveva segnalato che quello lì non era un campo ma c’era il comando tedesco per la fabbrica delle armi leggere.

D: Ecco scusa, tutte le macchine che voi avete scaricato sono poi mai entrate in funzione?

R: Ma non credo proprio, no, no, non ha avuto tempo.

D: Ecco, e sei arrivato a Bolzano.

R: Siamo arrivati a Bolzano e siamo andati prima in duomo e il caso vuole che lì c’era il canonico Piola che era l’assistente del campo di concentramento.

Questo canonico veniva la domenica a Bolzano a celebrare la messa.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo. Metteva un tavolo e lì celebrava la messa.

D: Ma all’interno o all’esterno?

R: Nel cortile, nel cortile.

D: Nella piazza dell’appello diciamo…

R: Sì, nella piazza dell’appello o nell’altro cortile perché il campo erano due capannoni e poi in centro c’era una baracca di legno dove inizialmente c’era la mensa dei tedeschi poi c’era la cambusa, poi c’era la doccia.

Qualche volta, quando avanzavano l’acqua, invitavano qualcuno a fare la doccia, io ci sono andato un paio di volte. Era una doccia collettiva, allora prima cosa alzavamo dei graticciati di legno e sotto trovavamo scaglie di sapone perché noi di sapone non ne avevamo e usavamo quelle scaglie di sapone per pulirci alla meglio insomma. Quando finiva l’acqua calda scappavamo fuori.

D: E lui veniva ogni domenica?

R: A celebrare la messa sì.

D: Dentro nel campo?

R: Dentro nel campo.

D: E potevano partecipare tutti i deportati?

R: Quelli che volevano e c’era un tenore ebreo, bravissimo, dicevano che aveva cantato anche alla Scala, che cantava l’Ave Maria di Gunot, non quella di Schubert, Gunot, e cantava molto bene, benissimo.

D: Ecco, allora siete andati in duomo.

R: Siam andati in duomo e il sacrestano ha chiamato questo sacerdote e noi lo abbiamo ringraziato perché a Pasqua ci aveva fatto avere un pacco a tutti i prigionieri, era un pacco così, c’era dentro poco, anche perché forse aveva raccolto tra la popolazione. Ma tutti avevano dei problemi d’alimentazione, d’approvvigionamento e quindi questa gente aveva messo quello che aveva potuto. E allora ci ha ritirato un momento e poi ci ha portato una galletta bianca, di farina bianca e una scatoletta di carne Simmenthal per ciascuno che noi abbiamo messo in serbo per il viaggio.

E poi, proseguendo nel nostro cammino, siamo arrivati a una cascina, lì, proprio dentro Bolzano, una zona un po’ agricola e abbiamo trovato un tizio che ci ha detto: “Se state qui vi do da mangiare stasera”. Nel cortile infatti, ci ha portato fuori un piatto, in piedi in mezzo al cortile con una braciola di maiale, senza pane né niente e poi lì vicino c’era un capannone dove c’era un magazzino e voleva che noi prendessimo delle scarpe.

Erano le scarpe dei militari italiani ma noi abbiamo rifiutato perché se i tedeschi ci trovavano con le scarpe nuove avrebbero detto che le avevamo rubate e magari ci avrebbero fucilato.

Però non siamo andati in campo quella sera lì, volevamo star fuori e saremmo andati l’indomani mattina, lui ci ha detto che se volevamo dormire potevamo dormire nella cascina, nel fienile e così abbiamo fatto, abbiamo dormito nel fienile.

Poi al mattino Pisani mi ha svegliato perché nel fienile c’erano i prigionieri che rientravano dalla Germania o quelli di Sarentino ma c’erano anche i fascisti che scappavano e già erano sorte delle discussioni, solo che i fascisti erano armati e allora lui m’ha svegliato e ha detto: “Luigi andiamo, andiamo perché qui si mette male” e siamo scesi e ci siamo avviati verso il campo.

Durante la strada abbiamo trovato Colomia che era uno di quelli addetti alla disciplina, quello che bastonava quando uscivamo dalla baracca.

Ci ha fermati subito: “Voi da dove venite?” “Noi veniamo dal Sarentino” e allora ci ha lasciati andare e lui scappava con una bici nuova di zecca e uno zaino sulla canna, era a piedi, ricolmo di roba che portava via dal campo.

D: Voi andavate in giro con la divisa?

R: Sì, sì.

D: E col numero?

R: Col numero, sì, sì; non avevamo altri abiti.

D: Siete arrivati nel campo…

R: Siamo arrivati nel campo e siamo entrati, lì davanti all’ufficio matricola, c’era un gruppo di prigionieri che aspettava di ritirare il foglio e allora noi ci siamo accodati.

E in quel mentre lì è arrivato il maresciallo Haage e ha chiesto agli altri: “Voi perché siete qui?” E loro hanno detto: “Noi siamo quelli che hanno scaricato la legna questa notte sotto il temporale”. Erano tutti bagnati, zuppi e a noi non ha detto niente, noi ci siamo infilati, ci siamo messi in fila, ci hanni dato questo foglio di via.

Il foglio era già prefirmato e datato, aveva la data del giorno prima, lo utilizzavano ugualmente.

Dovevamo dare le generalità e a me ha chiesto: “E la carta d’identità?” “L’ ho persa” gli ho detto io, l’avevo in tasca e poi ha scritto il mio nome, me l’ha sbagliato perché ha messo una zeta sola, lasciando lo spazio, forse l’ha fatto di proposito, allora gli ho fatto aggiungere a mano una zeta, “Io sono Bozzini, con lì due zeta”.

C’era lì una donna che non riusciva ad avere il foglio di licenziamento, era vestita di stracci, era una donna di mezza età, molto debilitata e io ho cercato di aiutarla e non riusciva a dire il suo nome, le sue generalità, piangendo così, non si capiva, forse era anche straniera, non lo so, purtroppo è entrata una guardia, perché ormai il camion era pronto per partire, è entrato una SS urlando di far presto e non abbiamo potuto far niente e l’abbiamo lasciata così.

D: Quindi vi hanno messo su un camion dopo?

R: Ci hanno messo su un camion da rimorchio, ci hanno portato fuori da Bolzano un dieci chilometri e ci hanno detto di non tornare a Bolzano ma di andar giù perché temevano una rappresaglia, se tornavamo ci facevano fuori.

D: E sei arrivato a casa quando?

R: Il 6 maggio. Ho fatto in tempo nella piazza del duomo di Milano a vedere la sfilata, era una domenica e sfilava il Comitato di Liberazione Nazionale, in testa.

Minarelli Atos

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Minarelli Atos, nato il 19.2.1923 a Vigarano Mainardo in provincia di Ferrara.

Sono stato arrestato il 15 dicembre 1944 nelle Langhe in Piemonte come partigiano. Avevo una squadra a mia disposizione. Mi ero fermato in una cascina per prendere dell’acqua perché eravamo in ritirata, ci dovevamo ritirare sulle montagne. Mi sono accorto che la mia compagnia era andata avanti, io mi ero fermato in quella cascina per prendere dell’acqua.

Mi sono visto tutto in una volta circondato dagli arditi del Duce che avevano una testa da morto sul berretto. Io potevo difendermi, ma non ho potuto perché in quella famiglia c’erano quattro/cinque donne, cinque o sei bambini, si sono messi a piangere.

Io sapevo che se avessi reagito loro avrebbero distrutto la famiglia e allora mi sono dato prigioniero. Ho consegnato le armi, mi sono dato prigioniero. Dopo lì ne hanno feriti altri sette o otto in quel combattimento in quel momento.

Dopo tutti quei feriti li hanno caricati su un camion con due mucche, li hanno trasportati in un piccolo paese in provincia di Cuneo eravamo, non mi ricordo bene il paese come si chiamasse.

Quei piccoli feriti che si lamentavano su quel carro… Loro dicevano: Senti i tuoi amici come cantano bene”, mi prendevano anche in giro. Arrivati a quel paese c’era un certo Boni, un boxeur, Massimo e allora per dare spettacolo alla compagnia mi ha preso fuori e poi ha cominciato a darmi dei pugni nella faccia, dappertutto, mi ha spaccato tutta la faccia. La compagnia che rideva al mio spettacolo.

Poi dopo ci hanno messi in una piccola stanza, la sera ci hanno comandati alla morte, hanno fatto dei verbali, che ci avevano presi armati e condannati a morte. Eravamo andati in un paesino in provincia di Cuneo, dovevamo essere fucilati di mattino alle sette.

Lì ho trovato due o tre miei paesani anche. Ce n’era uno di Cento, un certo Fiorino del battaglione Mussolini che io volevo che facesse sapere qualcosa alla mia famiglia, invece lui aveva soddisfazione di uccidere un suo paesano con la sua pistola stessa.

Il maggiore non gli ha dato l’ordine, dice: “Dopo fai il palo per l’esecuzione, non puoi ucciderlo da solo”. Siamo stati due ore davanti ad una piccola chiesetta, picchiati, torturati. Infine è arrivato verso le undici, è arrivato un camion di tedeschi. Io credevo che fosse la fine. Me l’aspettavo la fine.

Invece ci hanno portato in un paese che si chiamava Canelli in provincia di Asti che era stato occupato da loro, prima eravamo lì noi. Lì la notte ci hanno ammanettati, caricati su un camion, ci hanno portato alle carceri Nuove di Torino.

Alle Nuove di Torino dopo cinque giorni, tutte le mattine una battutina ci davano, dopo cinque giorni una notte ci siamo cambiati i numeri, il mio numero era 777, dopo mezzanotte, si aveva paura, ci hanno messo lì soltanto per ostaggio, se c’erano dei morti venivamo fucilati. Pensavo fosse la fine.

Invece siamo andati nel salone, c’erano delle suore, ci hanno dato delle sardine, ci hanno caricato su due corriere e ci hanno portato a Bolzano.

Dalla mattina siamo arrivati a Bolzano verso le cinque di sera, era già buio. Arrivati a Bolzano…

D: Scusa, Atos, quando questo, ti ricordi quando?

R: Il 22 dicembre.

D: E ti hanno portato a Bolzano, vi hanno portato con degli autobus?

R: Sì. Con due autobus. Da una parte eravamo ammanettati, quelli che erano segnati in rosso, col triangolo rosso. Invece gli altri erano liberi, anzi si sono fermati, avevamo avuto un bombardamento, invece noi eravamo legati là, sono fuggiti, ma noi eravamo fermi là.

Dopo arrivato a Bolzano il 22 dicembre alla sera, ci hanno tagliato i capelli, ci hanno mandato nelle baracche. Prima di noi erano arrivati quelli di Bologna, che venivano dalle carceri di Bologna quel giorno.

Il giorno dopo ho trovato degli amici, c’era il mio capo Costa qui di Bologna, c’erano degli amici di Milano che conoscevo da qui perché eravamo un po’ parenti, erano del mio paese.

Dopo tre giorni ho fatto la mano ad andare fuori a lavorare perché c’era un Laimi di Ferrara. Io speravo di andare a lavorare nella Imi di Ferrara perché lì avevo degli amici. Invece mi hanno mandato a fare il manovale, a chiudere una caserma. Portavo su dei massi di pietra che chiudevano la finestra per fare una prigione. Era una caserma militare. Lì a Bolzano, sempre vicino Bolzano, andavamo a piedi alla mattina e tornavamo alla sera.

D: Ti hanno immatricolato a Bolzano?

R: Sì, 777 come eravamo là nelle carceri di Torino, portavo lo stesso numero. Ci hanno dato una tuta di tela, poi ci hanno mandato fuori a lavorare.

D: Ti ricordi il numero o la lettera del tuo blocco di Bolzano?

R: Non mi ricordo bene perché era dentro subito lì dietro, adesso il blocco non me lo ricordo più. Davanti nel cortile c’era il blocco E dove c’erano le donne. Noi eravamo dietro, la casermetta, il numero non me lo ricordo.

D: E lì a Bolzano hai fatto solo quel lavoro lì di manovale?

R: Solo quel lavoro lì.

D: E sei rimasto fino a quando a Bolzano?

R: Fino alla partenza per Mauthausen.

D: Cioè quando è avvenuta la partenza?

R: E’ arrivata l’8 gennaio, siamo arrivati l’11 gennaio a Mauthausen. Siamo partiti l’8 gennaio.

D: E hanno chiamato tutto il tuo gruppo?

R: No, io avevo chiesto di andar fuori a lavorare il mattino perché sapevo della partenza. Allora il mio capogruppo era Costa qua di Bologna, l’avvocato Costa. Ho fatto chiedere al capo campo se potevo andare fuori a lavorare, chissà che mi scansa la partenza, ho tentato di scansare la partenza.

Infatti, mi hanno mandato fuori a lavorare. Hanno detto alle due partono, erano già le cinque, ero già contento, alle cinque rientravo, sono già partiti, mi sono salvato la partenza.

Invece mancavano dieci minuti alle cinque, si è fermato un camion lì davanti dove lavoravo, hanno chiamato il mio numero. “Sali sul camion”. “Dove mi portate?” “Ti portiamo alla caserma lì al campo che ti prendiamo la tuta e poi ti portiamo in stazione”.

C’era un tedesco, gli ho chiesto dove mi portavano. “Qui vicino, qui in Austria a Mauthausen ti portiamo”. Io non sapevo cosa voleva dire Mauthausen in quel momento. “Ti portiamo qui vicino a Mauthausen”.

Mi hanno portato in caserma, mi hanno preso la tuta. Io avevo un paio di pantaloni e una maglietta. L’avevo messo su alla braga perché era piena di pidocchi, era nevicato, era sotto la neve. “Io sono nudo”. “Via, fuori nudo come sei”. Allora son corso a prendere i miei pantaloni di tela, le mie magliettine.

D: Allora, sono venuti a prenderti mentre tu eri a lavorare?

R: Ero a lavorare. Mi hanno caricato in fretta, ci hanno portato al campo, ci hanno preso la divisa e poi ci hanno caricato di nuovo e ci hanno portato in stazione. Non era ancora partita la tradotta, ne mancava ancora otto o dieci, ci sono venuti a prendere sul lavoro.

Verso le cinque e mezzo, le sei di sera siamo partiti. Quando sono salito sul treno i miei amici, i miei compagni mi hanno chiesto da dove venivo, cosa facevo. “Io ero un partigiano”. “Allora sei disposto a fuggire?” “Come fuggiamo?”

C’era una dottoressa di Milano, mentre ci ha salutati ci ha messo due scalpelli e martelli in segno dei milanesi. Avevamo uno scalpello e un martello; abbiamo tentato di aprire un buco lì vicino a dove si poteva aprire il vagone.

Abbiamo cominciato a lavorare. Prima di arrivare al Brennero dovevamo rompere il buco. Infatti, abbiamo fatto questo. Una parte cantava, una parte bucava, ma su con noi nel vagone c’erano due slavi.

Un bel momento siamo arrivati in una stazioncina, noi avevamo già fatto il buco, pronti come partiva ad aprire e fuggire prima che prendesse la corsa. Ma questi due slavi si sono affacciati al finestrino e hanno fatto la spia.

Io il tedesco lo capivo perché ero già stato sei mesi in Germania. Ho detto: “Ragazzi, hanno fatto la spia che abbiamo rotto il vagone”. Grandi colpi, i tedeschi urlavano di qua e di là. Sono entrati nel vagone. Io sapevo quello che facevano, mi sono buttato a terra subito, ci uccidono.

Invece un ragazzo di diciassette anni, a lui non importava niente, è andato lì, io non sono un partigiano, mandatemi indietro, mandatemi a casa. Gli hanno spaccato le ossa a forza di botte. Poi hanno voluto sapere chi stava bucando. Erano due ragazzi milanesi. Gli hanno dato tante botte col caricatore del mitra; gli hanno tutti scarnati i nervi delle braccia. “Adesso rompetele”. Ma non avevamo niente, un po’ di carta igienica, li abbiamo impaccati così e abbiamo continuato il nostro viaggio dal giorno 8 gennaio, siamo arrivati l’11 a Mauthausen. Al mattino, siamo arrivati l’11, senza mangiare, senza bere, senza niente.

Quando ci hanno fatto scendere dal vagone alla mattina presto ci hanno dato una pagnotta di pane che era tutta bagnata e due o tre sardine di sale. Ma io avevo ventuno anni e la fame c’era.

Ho spezzato la mia pagnotta sulla ferrovia perché era gelata e poi mi son messo a mangiare. Abbiamo continuato, in poco tempo l’ho mangiata. “Non mangiare, non mangiare, è tutta gelata, ti fa male. Quando saremo al campo.” La fame a ventuno anni è grande. Io mangiavo.

Poi quando abbiamo cominciato a salire il Danubio a me piaceva cantare. Lì c’era anche un vecchietto con una valigia che era il Senator… come si chiama, quello che ha fatto il libro “Si fa presto a dire fame”. Come si chiamava quel senatore lì?

D: Caleffi.

R: Caleffi, c’era il senator Caleffi, io non conoscevo questo vecchietto, aveva una valigia, gli ho dato un aiuto a portare la valigia, gli ho detto, “Cantiamo, ragazzi, cantiamo”. Lui l’ha messo anche su un libro che c’erano quegli alpini che cantavano.

Ma nessuno più ormai aveva voglia di cantare. Quando abbiamo cominciato la salita del Danubio tutti hanno smesso di cantare. Io ho portato la valigia del senator Caleffi per un pezzo fino a là.

Quando siamo arrivati dentro nel campo, ci hanno fatto fare un bel giro davanti a dove c’erano i bagni, ci hanno fatto buttare via le valigie, gli orologi, tutto quello che contenevano, tutto in terra.

Poi ci hanno messi tutti in fila per il bagno. Io ero in fondo. Tutti i miei amici: “Vai giù, vai giù”, perché pioveva. Io senza una maglietta, nudo così, mi facevano compassione gli altri. Il secondo scaglione sono fuggito giù anch’io.

Non l’avessi mai fatto perché quando sono stato là sotto, nessuno se n’era accorto. Ci hanno dato il rasoio dai capelli fino alle unghie dei piedi, tutti col rasoio così che faceva sangue. Tutti col rasoio dalla testa fino alle unghie dei piedi, tutti i peli.

Poi ci hanno dato una pennellata con della roba che bruciava e poi dopo sotto il bagno, acqua bella calda, bollente che si stava bene, poi acqua fredda e noi siamo saltati fuori, fuori, fuori.

Mentre si usciva ci davano due pezzi, un paio di mutande, una camicia, una magliettina, due pezzi, fuori, fuori, vestirsi in mezzo alla neve, fuori perché non c’era tempo da perdere. Siamo andati fuori, ci siamo vestiti un po’ lungo la scala, un po’ mentre uscivamo, un po’ fuori.

Poi abbiamo aspettato che facessero il bagno tutti gli altri, poi siamo andati nelle baracche, là fuori in mezzo alla neve, non so quanti gradi ci fossero, 12, 13, 14, 15 gradi sotto zero. Nevicava, c’era la neve in terra e poi ci hanno portato nelle baracche della quarantena.

Qui abbiamo fatto quaranta giorni di quarantena. Tutte le mattine si andava fuori a lavorare, prendevano cinque, sei, sette di qua e di là, li mandavano fuori a lavorare. Dopo tre giorni sono andato fuori a lavorare, a spalare la neve, no, a portare via dei sassi che portavano, alcuni dalla cava li portavano lì vicino, dietro noi c’era un muro con due baracche, non entrava nessuno, entravano soltanto i tedeschi, l’ufficiale tedesco, SS.

Non si sapeva cosa c’era perché lì delle mattine sono andati a portar via dei morti tutti massacrati, li portavamo davanti al forno crematorio. Ci sono andato per una mattina o due anche.

Quelle mattine lì mi portavano fuori a lavorare con quei sassi lì. Arriva uno. Io avevo un paio di mutande senza cintura, senza niente, mi cadevano sempre giù, ogni sasso mi cadevano sempre giù le mutande. Una botta, una legnata sul sedere. Arriva uno, “Dammi uno”. “Prendi questo maccherone italiano”. Ha preso questo maccherone italiano che ero io. Eravamo chiamati maccheroni noi.

“Vieni con me”. Con una carrettina a due ruote. Siamo partiti. Con una mano portavo la carretta, con l’altra mi tenevo su le mutande. Quando siamo arrivati lì, siamo andati a prendere gli abiti che erano arrivati dei borghesi, perché gli abiti dei borghesi dovevano andare in disinfezione. Siamo andati lì e quello che mi portava era uno spagnolo.

Ha cominciato a parlarmi, a chiedermi da dove venivo. Io gli ho detto che ero italiano; si capiva abbastanza bene lo spagnolo. C’era una cintura, l’ho presa subito. Lui aveva già fatto per darmi le botte. Ho detto: “Guarda, mi cadono i pantaloni”, le mutande allora mi ha lasciato prendere la cintura.

Tutti questi abiti, in quel momento c’era un carico, c’erano degli ebrei, c’erano dei bambini, delle donne e degli uomini, perché eravamo in gennaio, ad Auschwitz non potevano più entrare perché Auschwitz era già stata invasa.

Li hanno fermati lì, poi li hanno divisi, i bambini da una parte. Era una cosa che spezzava il cuore, vedere questi bambini, prenderli dalle madri, le madri che urlavano, i bambini che urlavano e loro gridavano: “Giudei, giudei”, delle botte.

Li hanno portati via. Io poi ho portato via quegli abiti, li ho portati fuori dal campo, Io ero nudo con un freddo.

Poi il giorno dopo si è fotografato il giorno prima, siamo stati fuori tutta la giornata che ci fotografavano uno per uno. Io non so il motivo, uno per uno, ci fotografavano uno per uno. Siamo stati fuori dalla mattina fino alla sera. Alle cinque, siamo rientrati alle cinque, con un freddo, ci ammucchiavamo, ci facevamo i massaggi, qualcuno sveniva in terra. Tutto il giorno così.

D: Quando ti hanno immatricolato lì a Mauthausen?

R: Quasi subito, due giorni dopo.

D: Il tuo numero te lo ricordi?

R: Sì: 115.616.

D: E lì a Mauthausen fino a quando sei rimasto?

R: Per una ventina di giorni, venti, ventidue giorni. Qualcosa così, poi siamo andati a Gusen.

D: Quale Gusen?

R: Uno.

D: E da Mauthausen a Gusen con cosa vi hanno portato?

R: A piedi.

D: A Gusen ti ricordi il blocco dove ti hanno messo?

R: Sì.

D: Che blocco era?

R: Il blocco 40, adesso ho un poco dimenticato. Aspetta che mi ricordo…

D: Se te lo ricordi dopo. A Gusen 1 cosa facevi?

R: La Styr.

D: Lavoravi?

R:Alla Styr.

D: Ed era esterna al campo?

R: Sì, esterna, ma si andava a piedi. C’erano circa duecento metri, neanche.

D: E tu cosa facevi?

R: Facevo il tornitore e il fresatore.

D: La Styr costruiva per l’industria bellica?

R: Sì, mitragliatrici e fucili.

D: E tu eri addetto alla costruzione di armi?

R: Sì, la costruzione delle armi.

D: Ci spieghi una giornata di lavoro?

R: Sì. C’erano due turni, dalle sette di mattina alle sette di sera. O dalle sette di sera alle sette di mattina. Noi facevamo i turni. Alle sette di mattina noi uscivamo dal campo per andare al lavoro, gli altri venivano fuori dalla fabbrica e rientravano. Ci davamo il cambio lungo la strada. Si cominciava il lavoro. Mezzogiorno un mestolo di zuppa. Mezz’oretta, un mestolo di zuppa, bisognava partire di nuovo. Alle sette di sera si rientrava.

Lo stesso ci si dava il cambio lungo la scalinata, usciva il turno, noi scendevamo. Sempre così.

D: Ma le officine erano dentro in capannoni?

R: Tutte baracche di legno. C’erano tre, quattro file di macchine. Tre, quattro file di macchine ogni baracca e lavoravamo in settanta, ottanta, cento dentro ogni baracca.

D: Una volta che i pezzi erano finiti… Scusa un attimo. Stavi dicendo?

D: Ah, certo. Quando eravamo in quarantena quelle due baracche che erano dietro noi una notte s’è cominciato a sentire sparare di qua. Allora il Kapò che era spagnolo ha detto: “Guai chi si muove. Guai chi si muove”. Al mattino abbiamo preso, abbiamo portato fuori. Prender su tutti quei morti che avevo visto il gesto che avevano fatto, hanno buttato e che c’era la corrente. Hanno preso i pagliericci li hanno buttati sui fili per poi fuggire. Era una carneficina perché il sangue correva, ne hanno uccisi un mucchio. Poi dicevano che li avevano presi tutti.

Là nel cortile li prendevamo e li portavamo nel forno crematorio, non dentro il forno crematorio. Lì davanti c’era una scaletta, li mettevamo lì davanti, loro li prendevano dietro. Li portavamo lì davanti, tutti insanguinati. Ho visto cosa c’è in quelle baracche. Davano da mangiare come davano da mangiare ai maiali. Gli vuotavano la zuppa lì dentro, loro dovevano mangiare con la bocca così. Ho visto tutto.

Dopo otto, dieci giorni ci siamo vestiti e ci hanno portato a Gusen a piedi. Siamo arrivati a Gusen. Lì al mattino ci hanno dato tre numeri, uno al braccio e due ai pantaloni. Prima ne avevamo soltanto uno al braccio. Invece lì ci hanno dato i tre numeri, uno al pantalone, uno alla giacca e uno al braccio.

D: Ma sempre il tuo numero di Mauthausen?

R: Sempre il numero di Mauthausen 115.616. Ci hanno dato i tre numeri. Lì abbiamo cominciato il lavoro. Io sono stato fortunato, sono andato alla Styr. Una grande paura perché io non avevo visto mai una fabbrica, ero un contadino che lavorava in campagna.

Quando sono arrivato là solo con il rumore io stavo impazzendo. Fortunato che ho trovato un russo che mi ha voluto bene subito, mi ha insegnato il trucco perché se rompeva più frese al giorno, era sabotaggio, mi facevano male. Al mattino lui ha rubato tre frese al campo, ha aperto gli sgabuzzini, poi ha messo sotto il pattume e diceva, quando ne rompo una ne metto su un’altra.

Allora ho preso la mano, andavo bene. Poi lui ha preso la mano e andava abbastanza bene. Quel russo è stato la mia fortuna. Quel ragazzo russo. Lì incominciavamo il lavoro dalle sette del mattino alle sette di sera, c’era il turno, un mestolo di zuppa a mezzogiorno e così.

D: Atos, quando le parti che voi facevate erano finite, chi le portava via? Con cosa venivano portate via?

R: Le portavano fuori, lì c’erano i prigionieri che erano addetti al trasporto. Lì fuori c’è anche il mio amico di Bologna, avvocato Costa. La sera quando faceva buio veniva in baracca, veniva là un po’ a scaldarsi. Se lo vedeva il Kapò erano botte. Alle volte doveva fuggire di corsa perché se arrivava il Kapò lo picchiava. Lui era al trasporto fuori alla pioggia o al vento. Invece noi eravamo coperti almeno.

D: Se tu ricordi Atos, lì a Gusen 1 hai visto dei treni, c’erano dei treni?

R: C’erano i trenini che andavano su alla cava delle pietre e che andavano sotto le gallerie. Quando suonava l’allarme, ci facevano andare tutti dentro una galleria di corsa a piedi. Noi ci andavamo volentieri, perché quando era andata via la neve c’era un prato con l’erbetta. Quello era il nostro mangiare. Tutti correvano volentieri. Ero sempre là davanti perché lavoravo alla quarta baracca, andavo a Styr, c’erano trenta baracche, ero alla quarta, sono stato fortunato, quando suonava l’allarme, fuggivo e potevo mangiare un po’ più d’erba degli altri, ero tra i primi.

D: E quando tu sei rimasto a Gusen 1 hai sempre lavorato lì alla Styr?

R: Sempre lavorato alla Styr.

D: Fino a quando?

R: Fino al giorno della liberazione, al 5 alla sera. Il 5 maggio alle cinque alla sera.

D: Il tuo lavoro esattamente com’era? Cos’era?

R: Il tornitore percussori delle mitragliatrici oppure il mio lavoro è sempre quell’incastro … espulsore della cartuccia. E’ sempre stato quello. Lavoravo su due macchine.

D: E dovevate fare un certo quantitativo?

R: 700 pezzi al giorno. Si facevano sempre continuamente, non si poteva perdere tempo a parlare, discutere. Uno doveva andare sempre avanti a continuare il suo lavoro.

D: C’erano anche dei civili lì nella fabbrica?

R: Civili, c’erano più che altro, io vedevo solo partigiani. Non so se ci fossero dei civili. Il mio capoblocco era un tedesco, triangolo verde, un criminale tedesco, capoblocco.

D: No, dico in fabbrica a lavorare?

R: Lì non si può tanto parlare. Non si poteva parlare in più di tre. Se si parlava, al massimo con quello con cui lavoravi lì perché non si poteva uscire o fermarti nel gruppo a parlare. Anche quando ci si fermava la mezzora per mangiare, tu dovevi mangiare, parlare al massimo col tuo vicino, non si poteva parlare in più di tre.

Era difficile, perché anche al mattino prima di andare al lavoro c’erano due ore dalle cinque, un po’ fuori fino alle sette. Lì stavi in fila un’ora, un’ora e mezza sotto la pioggia. Per andare a lavorare, ci dovevamo mettere in coda, come quando rientravamo che anche i morti dovevano sfilare. Quelli che morivano, li facevi sfilare per la conta, non doveva mancare nessuno. Lì venivano contati tutti. Lì ho avuto tre episodi a Gusen.

Mi sono salvato dalla morte tre volte, il destino è così. Mi sono salvato quando mi hanno condannato gli artefici del Duce alla fucilazione là a Ponti in provincia di Cuneo che sono arrivati i tedeschi, mi hanno portato allo stadio e poi al carcere di Torino. Quella è stata la prima salvezza.

La seconda un giorno, non so se fosse una festa internazionale, dovevano uccidere due per baracca. Quel russo che lavorava con me, lui sapeva tutto quello che doveva succedere nel campo. Io non so chi fosse, lui sapeva sempre tutto.

Dice: “Stai attento quando rientri questa sera, ne devono uccidere due per baracca”. Allora io prima di entrare faccio un giretto. Infatti c’era una baracca alla 35 che era un criminale, era là che uccideva a furia di botte. Io stavo a guardare, dovevo pur rientrare. Se vedono che manco e mi cercano, vado alla finestra, dormivo davanti alla finestra.

Eravamo un gruppo di italiani, eravamo quattordici, quindici italiani. Allora busso nel vetro. “Cosa fai lì fuori? Vieni dentro, non succede niente”. Vado dentro, come rientro c’è il Kapò, mi preleva.

C’era un ragazzo di Asti, ha trovato la scusa che mancava un po’ di rosso dal triangolo rosso. Era una scusa perché avevamo il boccettino, potevamo darlo. Quel ragazzo di Asti viene a prendere le mie difese, “Vai via, vai via che devono ucciderne due, che non ti prendano. Ne devono uccidere due oggi ogni baracca”.

Invece ne hanno preso un altro, un russo e mi hanno portato via. Fuori dalla baracca un russo tutto infangato. Il destino lo manda dietro di me, prende il russo. Mi porta nella baracca dove andavamo a fare il bagno la mattina, dove c’erano i gabinetti.

Li ha legati con una corda dietro le mani, poi ha tirato su le travi, tirati così vivi, lasciati morire così. Si muore lentamente. Alla notte quando sono andato in bagno erano attaccati e guardavo che doveva essere la mia fine, quella doveva essere la mia fine. Anche quella volta lì m’è andata bene.

Il 22 aprile quello russo mi dice: “Stai attento, è arrivato il comandante nuovo. Quegli scheletri che sono in infermeria non vuole lasciarli agli invasori, agli americani”. Allora dico: “La camera d’aria l’abbiamo, si dà una gonfiatina, prendo una pompa si dà una gonfiatina, diventiamo belli grossi”. Si scherzava.

Alla sera quando sono rientrato avevamo cinque, sei, sette amici in infermeria. “Dai che andiamo a vederli”. Le due infermerie erano due baracche, si era formata una sola, tutti cadaveri. Sono andato a vedere tutti questi cadaveri, ma una cosa incredibile, non si può descrivere. Tutti questi scheletri, uno che morsicava l’altro, che era diventato pazzo. Una cosa… Io sono venuto via subito.

Alla notte verso le undici sono uscito a prendere un po’ d’aria. Quando stavo per rientrare davanti all’infermeria c’era tutti i tedeschi con gli elmetti e le maschere a gas davanti alle finestre chiuse, hanno dato il gas a tutti.

La mattina quando sono uscito sono andato a vedere, hanno dato il gas a quattrocento, quattrocentocinquanta, non so, una baracca, nella baracca stessa hanno dato il gas. A più di quattrocento, quattrocentocinquanta hanno dato il gas nella baracca.

Dopo quei giorni i forni crematori, perché a Gusen c’erano due forni crematori, andavano giù la notte per bruciarli; dovevano eliminarli.

Il 27 aprile io monto al mattino, quello che ha montato alla notte si conosce che la morte è il suo lavoro, tutti pezzi sbagliati. Dico col Kapò ci sono tutti i pezzi sbagliati. Meglio, dice, che tu sei un italiano, tu vai al Krematorium.

Quello era un polacco, per lui era una soddisfazione mandare al Krematorium un italiano. Allora non li poteva vedere nessuno gli italiani. Si sfregava le mani, questa volta vai proprio al Krematorium.

Il giorno dopo c’era una SS che quando facevamo l’appello a mezzanotte anche c’era quella SS lì, un ragazzo grande, lui non parlava mai. Una notte s’è rotta la cinghia… è quasi mezzanotte, c’è l’appello, vai, vai, il Kapò, quando diceva vai doveva andare.

Quella notte lì veniva un’acqua, una pioggia, lo fai per baracca. Quando arriva fuori nel cortile, la mia baracca è la quarta, lì c’è già la SS che mi aspetta. Via di corsa.

C’era un Kapò che era un polacco, un uomo che era centoventi chili che ammazzava la gente come niente, ammazzava anche i suoi paesani, non importava niente. Anzi un giorno c’erano due che dicevano: “Quando andiamo a casa te la facciamo pagare”. Li ha uccisi tutti due a colpi di zoccoli, due polacchi suoi amici. Era un criminale.

Quando arriva dentro questo criminale mi salta addosso, botte. Il tedesco dice, “Gut, basta”. Mi ha salvato il tedesco, mi ha salvato dalle botte. Quella notte lì è andata così.

Il 27 aprile come già detto viene questo sabotaggio. La mattina dopo il 27 aprile arriva questo tedesco alle cinque di sera, il Kapò dice: “Guarda”, mi picchia in una spalla, mi dice “Vai, vai che c’è il tedesco che ti aspetta”. C’era quel ragazzo con gli stivaloni sulla porticina che mi aspettava.

Mi porta davanti a quel comandante nuovo che era arrivato sei giorni prima. La paura che io avevo. Quando sono entrato comincio a parlare un po’ in tedesco, un po’ in italiano. “Mi parli italiano che io so bene l’italiano”. Era un italiano di Bolzano, dell’Alto Adige, uno dei nostri italiani.

Ho pensato, per quello forse mi ha salvato quella sera, perché ero italiano anch’io. “Parla con l’italiano”. “Guarda, quando sono rientrato stamattina tutti i pezzi erano sbagliati. Si conosce che quello che lavorava con me è morto, bisogna che sia morto, perché sbagliare tutti i pezzi, ha lasciato un mucchio, c’erano ancora tre pezzi da rifare, bisogna che sia morto. Il Kapò mi ha detto di lasciarmi andare così mi manda al forno crematorio se ci sono i pezzi sbagliati, prendo la colpa io, invece io non ho nessuna colpa, anzi ho lavorato tutto il giorno per disfare il mucchio, anche per fare tutti i pezzi ho lavorato”.

Lo dice al comandante, il comandante dice: “Vai a vedere se è la verità”. Tutti i morti, non scappava un morto, venivano registrati tutti i morti, registrati uno per uno, lì non scappava niente. Se mancava uno si stava fuori finché non veniva ritrovato.

Infatti, è andato a vedere, dice, “Sì, kaputt”. Mi ha detto: “Puoi andare”. Siamo usciti. Mi ha messo la mano sulla spalla. “Di dove sei?” “Di Ferrara”. “Ferrara è stata occupata, liberata dagli americani”. Dico: “Almeno la mia famiglia si fosse salvat!”. “No”, dice, “non c’è stata nessuna resistenza, tutto è andato bene”. Dico: “Lei lo sa che è tanto tempo che lotto per vivere? Ringrazio per quella sera che mi ha salvato dalle botte”. “Lascia stare. Mi raccomando, tra pochi giorni vedrai che ce la fai e andiamo a casa”.

Il 27 aprile ho saputo che Ferrara era già libera, che l’Italia era già stata liberata.

L’Italia è libera, l’Italia è libera, allegria con tutti i miei amici che lavoravano là dentro. Siamo stati liberati il 5 maggio alle cinque di sera. Quelle notti quando uscivo di notte per andare in bagno mi fermavo a guardare quel forno crematorio che buttava fuori quelle lingue di fuoco, un po’ si sentivano delle cannonate, un po’ speravo che arrivassero presto. Sono arrivati il 5 prima delle cinque di sera.

D: E dov’eri tu?

R: A Gusen. No, ero in riposo, non ero a lavorare. Eravamo lì che si doveva fare l’appello che si doveva andare a lavorare. Gli altri stavano lavorando, lavoravano, ma non c’erano più le SS, erano due giorni che erano fuggite. C’erano soltanto quei vecchietti della Wermacht e i Kapò che comandavano.

D: E cos’è successo alla liberazione?

R: Alla liberazione, quando ci hanno detto “Ci sono gli Americani, ci sono gli Americani”, alè, specialmente sono partiti i russi, io mi sono nascosto perché non mi prendessero per sbaglio, mi sono salvato fino adesso, mi sono ritirato nella mia baracca a guardare.

I russi e quegli altri sono corsi al forno crematorio, tutti quei Kapò che hanno trovato li hanno fatti fuori. Dopo un’oretta sono uscito, c’erano morti dappertutto, tutti i Kapò, specialmente i russi, addosso, li hanno massacrati tutti, tutti i Kapò sono stati massacrati. Sono stati massacrati tutti.

Dopo lì con delle carrette li hanno presi tutti, in un’oretta e li hanno portati fuori. Hanno chiuso la porta, non sono potuti rientrare subito gli americani finché non hanno ucciso tutti i Kapò, dopo hanno aperto la porta, sono entrati gli americani a girare. Anzi dopo che è entrato un italo-americano, abbiamo dato l’assalto alla cucina, l’assalto alle patate, chi bolliva di qua, chi cucinava qualcosa di là.

Chi ha mangiato molto è morto il giorno dopo. Ne sono morti un mucchio. Io il giorno dopo sono andato al forno crematori, ce n’era un mucchio, oltre quattrocento, perché c’erano dei miei amici di san Giovanni Persiceto che cercavano i fratelli, perché c’erano delle famiglie intere.

Poi sono andati a vedere questi cadaveri per trovare i loro fratelli, non li hanno trovati. Sono stati bruciati, io sapevo che nell’infermeria erano già stati bruciati.

C’era uno che cercava il fratello, un ragazzo di 18 anni, io pensavo che fossero stati entrambi bruciati quella notte che hanno dato il gas, invece uno s’è salvato dopo che è venuto a casa, non era neanche più normale.

Invece quel ragazzo di 18 anni è morto dopo là. Dopo fuori dal campo hanno fatto un’infermeria gli americani, un capannone per prendere i malati. Dopo che seguivano noi c’erano due dottori, un dottore che non so come si chiama, un dottore di Modena anziano che veniva nelle baracche, perché noi italiani eravamo tutti assieme, eravamo andati insieme ai russi.

Lì i malati venivano a prenderli, venivano nelle baracche quelli che avevano bisogno di essere curati, gli urgenti. Dopo trovai un italo-americano la mattina dopo, voleva vedere tutto il campo. Gli ho fatto vedere il forno crematorio, la ghigliottina dove li attaccavano, dove li mettevano col laccio al collo, ha preso giù le fotografie.

“Venite a trovarmi, sono a Gusen paese, più avanti. Vieni a trovarmi al mattino che ti do tutto quello che vuoi da mangiare”. Io avevo dei buchi così dappertutto, nella schiena, buchi nelle gambe perché dormivo sulle assi, nelle gambe delle piaghe così, dei buchi avevo dappertutto. Sono andato a pesarmi, ero 37 chili vestito, con i vestiti, con due zoccoli, con gli scarponi, tutto. Il mio peso era 35 chili al massimo. Quando mi hanno arrestato ero 102 chili.

Il mattino dopo sono partito, sono andato a trovare quell’italo-americano. Quando sono arrivato era lì che consumava il rancio. Allora mi sono nascosto. Fette di pane, i pezzi di carne in una botte. Come ho visto che non c’era più nessuno, sono andato nella botte per cominciare a mangiare. Mi sono visto circondato.

Allora ho cominciato a dire il nome di quel sergente italiano. Sono andati a chiamarlo. “Cosa fai? Non vedi che sono rifiuti?” “Rifiuti questi! Non mangio da sei mesi, non vedo un pezzo di pane, solo rape bollite”.

“Adesso vieni con me, ti porto fuori io”. Mi porta fuori dove facevano il mangiare loro. Due gavettoni, mi porta fuori della carne, ma per me era porcheria, era salata. Erano sei mesi che mangiavo queste rape. Per me era carne salata che restavo a bocca aperta. Dicevo, “Ma cosa mangiano, così salato?” Invece era normale, era normale, ero io che mi ero abituato a mangiare solo delle rape. Per me un po’ di salato mi sembrava una cosa salata.

Allora mi ha dato del pane, dei salami. Mi ha caricato. Sono andato dentro con cinque chili di zuppa, con lo zainetto di pane, di salame, di tutto. “Vienimi a trovare che ti do tutto quello che vuoi”.

Poi mi ha presentato il suo generale che mi ha dato anche un pacchetto di sigari. Poi ha raccontato tutto quello che aveva visto nel campo al suo colonnello, il colonnello non era ancora venuto a vedere.

Così dopo sono rientrato. Dopo ho messo su il burro, ho messo su un fornellino con un tegamino. Di notte mi svegliavo, mettevo del pane a friggere, la margarina, lo mangiavamo. I due o tre amici uno di Parma che gli ho salvato la vita, era in infermeria. Non era più capace di alzarsi. Se tu lo prendi su tutte le sere e poi lo fai camminare, è tornato a casa. E’ morto per un brutto male a Parma.

Due o tre di Milano, più anziani di me che erano dell’età di mio padre. Lì c’erano tutti quelli di Milano. C’era il professor… quello dei succhi, delle doghe di Milano… Carpi, c’era Carpi, c’erano due avvocati di Milano, c’era un certo Rossi, c’erano tutti quelli lì.

C’era Pedrazzoni che ha fondato il Comitato di Liberazione lì, tutti quei tesserini che abbiamo li hanno firmati loro, avevamo un tesserino noi.

D: Atos, scusa, a proposito di tesserino, al triangolo. Tu dicevi che avevi il triangolo rosso. Avevate dell’inchiostro?

R: Sì, se per caso andava via, nel triangolino rosso in mezzo salta via il triangolo, noi avevamo un pennellino dove c’era il barbiere, perché ogni otto giorni ci davano il rasoio sulla testa, una riga sulla testa, erano obbligati a darla.

Lì c’erano degli spagnoli, c’era quel ragazzo di diciassette anni, … qualche mestolo di zuppa in più, gli spagnoli perché facevano quel lavoro, anche quel ragazzo che gli dava una mano, qualche mestolo di zuppa in più gli davano.

Avevamo un vasettino di rosso se a uno saltava via lo smalto, si doveva dare subito lo smalto che saltava via. Lì saltava via lo smalto soltanto in un angolino. Era stata una scusa quella. Questa è una scusa perché doveva uccidere due per baracca.

D: E tu a Gusen uno dopo la liberazione fino a quando sei rimasto?

R: Siamo rimasti un quattordici, quindici, venti giorni. Poi dopo ci hanno portato a Mauthausen perché lì sono venuti i borghesi. Anzi, noi abbiamo fatto una rivolta. Non volevamo andare a Mauthausen. “Portateci al confine d’Italia e poi portateci a casa. Portateci a Bolzano, quando siamo sui camion portateci a Bolzano.”

Invece no, abbiamo fatto una rivolta perché non volevamo andare. Sono venuti gli americani con l’elmetto in tasca, un maggiore italo-americano che era un maggiore medico, ha fatto un grande discorso. C’era l’avvocato Costa. Dice: “Noi vogliamo andare in Italia perché noi siamo quei partigiani. Dicevate partigiani sabotate le ferrovie, fate sabotare qui, fate sabotare là, c’è andata male, siamo qui per quello”.

“Ma cosa volete voi Italiani? Vent’anni fa avevate bisogno degli americani per liberarvi, adesso dopo vent’anni… Fra vent’anni avrete ancora bisogno degli americani. Fuori”. Ci hanno caricato sui camion, ci hanno mandato a Mauthausen.

Dopo circa un mese che eravamo a Mauthausen il 2 luglio siamo venuti in Italia. Io sono venuto a casa il 2-3 luglio. Il 2 luglio sono arrivato a casa.

D: Ma come sei arrivato? Come hai lasciato Mauthausen?

R: Ci hanno portato col camion e caricati, ci hanno portati alla stazione. Alla stazione ci hanno caricato su un treno, quando è arrivato ad Innsbruck s’è fermato. Poi siamo partiti e siamo andati a Bolzano. Da Bolzano poi c’erano i camion che portavano alle città. C’erano i camion di ogni paese, si saltava su, ci caricavano, ci portavano a casa.

D: E sei arrivato a casa a luglio quindi?

R: In luglio.

D: A Ferrara?

R: A Ferrara, il 2 luglio.

D: Ascolta, durante il tuo periodo di deportazione a Bolzano, a Mauthausen e a Gusen 1 hai visto per caso se c’erano anche dei religiosi?

R: Eh, con me c’era il prete, don Narciso. Ce n’erano due. Don Narciso, quello di Milano, poi ce n’era un altro, non mi ricordo più come si chiamasse. Con don Narciso, eravamo sempre insieme. Anzi, una sera lì a Mauthausen, quando sono andato a Mauthausen il primo giorno ci hanno dato un pezzo di pane e della zuppa a volontà con delle patatine con semolino, non erano proprio rape, semolino.

Io che ero già stato militare in Germania sapevo che quello era un rancio per i militari. Allora dico con l’avvocato Costa e gli altri ragazzi, se ci danno questa roba siamo dei signori, gli ho detto.

Infatti l’avvocato mi dice sempre, avevi ragione. Non abbiamo più mangiato di quel semolino e patate. Si mangiava senza cucchiaio e ci hanno dato un bel pezzo di pane.

Io sono andato a Gusen 1, don Narciso è andato a Gusen 2. Mi sono informato, lui portava gli occhiali. Siccome sapeva il tedesco, si procurava qualche giornale. I Kapò l’hanno visto con un giornale in mano, gli hanno dato tante botte, via gli occhiali, non ci vedeva più. Il mio amico che era lì, partigiano con me, lui l’ha visto, l’ho visto morire, è morto a Gusen 2, è morto.

Tibaldi Italo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Mi chiamo Italo Tibaldi, sono nato il 16 maggio 1927 a Pinerolo in provincia di Torino. Mio padre era ufficiale di Cavalleria alla scuola di Cavalleria di Pinerolo; dopo il disgregamento dell’esercito mio padre si unì alle formazioni della Resistenza sopra la Val Maira nel cuneese. Io sono diventato automaticamente staffetta, andavo su Torino per riferire le attività della Seconda Divisione Alpina Giustizia e Libertà della Valle Maira.

L’impatto che mi ha portato all’arresto e alla deportazione è avvenuto il 9 gennaio 1944 quando scendendo a Torino per riferire a quelli che avevano la gestione anche economica della struttura sono stato fermato su una delazione, di cui sarò poi informato al rientro, pertanto, il mio arresto è stato molto semplice perché a sorpresa la cosa diventa molto semplice.

Devo dire che il fatto che il mio arresto abbia comportato delle conseguenze successive molto pesanti non era assolutamente nei miei ragionamenti; non pensavo assolutamente a quello che poteva avvenire, sapevo che scendendo dalla montagna, avendo questo tipo di discorso potevo essere richiesto e potevo essere approfondito per i compiti che venivano svolti in montagna.

Sono stato trasferito poi all’ufficio della SD dove c’era il capitano Smith che interrogava, era un dipendente delle SS e dopo il suo interrogatorio il giorno 10 sono stato trasferito al carcere Le Nuove di Torino.

D: Italo, scusa, chi ti ha arrestato, erano italiani o germanici?

R: Erano italiani ma in borghese e altra gente in borghese probabilmente germanici.

D: Tu eri armato?

R: Ero armato, avevo una gioiellino che consentiva lo sparo semplice e anche la raffica. Purtroppo non ho mai più trovato una macchinetta del genere, sarebbe stato un simpatico ricordo.

D: Quando dici che sei stato interrogato da Smith, è successo in un posto ben preciso?

R: All’Albergo Nazionale in via Roma a Torino dove ci sono le due fontane, al primo piano. Vi era già un bel gruppo quando sono arrivato, vi erano personaggi di tutte le categorie; questo ha comportato il fatto che per me fosse una grossa novità vedere gente in borghese, mi sembrava che arrivando da una zona di ribelli dovessimo essere tutti pronti, invece, persone molto a modo, così mi sembrava, erano state prese nelle aziende, nelle fabbriche, infatti vedrò poi anche nella deportazione che vi è un mondo sociale molto eterogeneo e tutte le categorie rappresentante.

Il trasferimento dopo l’interrogatorio che avviene alle nove e mezza di sera e che mi lascia abbastanza grondante di sangue perché cazzottamenti vari, mi comporta il trasferimento alle carceri Nuove, verso le nove e mezza, via la cinghia dei pantaloni, la cravatta, le stringhe delle scarpe e vengo inserito al n. 60 del secondo braccio.

Quando entro trovo già altre persone che mi accolgono anche con diffidenza perché così sistemato posso aver fatto pensare che fossi stato buttato dentro come un infiltrato. Quindi, ho vissuto lì tre o quattro giorni, perché sono partito il 13 mattina, in una situazione che era per loro e per me di disagio. Saprò poi che erano due appartenenti al partito comunista, Montrucchio e Porcellana, avevano messo della dinamite sul tratto che viaggiava sulla ferrovia che da Pinerolo portava a Lusello San Giovanni.

A Lusello San Giovanni nella Val Pellice vi era una sezione staccata della Microtecnica, quindi il compito era conseguente.

L’altro era un barbiere il quale dirà: “Non ho fatto niente, magari facendo una barba mi sono espresso in termini negativi e mi sono trovato deportato”.

Il 13 mattina verso le tre e mezza sentiamo aprire le celle, sveglia, alzarsi, scendiamo nell’emiciclo del carcere. Siamo in 45, mancano 5 persone e il fatto che avviene conseguentemente all’attentato fatto da Pesce a un gruppo di ufficiali tedeschi, c’erano stati anche dei morti, hanno calcolato che i cinque ufficiali erano 50 nominativi ed esce un bando dal comando di Torino che dice: “Saranno deportati”. Parlano per la verità di Koncentration Lager, nel senso del concentramento, l’operazione sarà poi un’altra perché diventiamo KZ, un campo di eliminazione, differisco sempre fra eliminazione e sterminio perché considero che l’eliminazione è più quella di Auschwitz che è diretta per nuclei famigliari, Mauthausen è un campo politico per cui il trasferimento ha un significato più pesante, vi è un problema di stare molto attenti nel campo per quanto riguarda le varie nazionalità e dirò anche il perché.

Nel carcere mancano cinque persone e vengono raccolti cinque nominativi che sono cinque ebrei, i due Segre, padre e figlio, Trevese, due fratelli e Diaz che vengono conteggiati quindi abbiamo raggiunto i 50 e il numero è completo.

Si parte per andare alla stazione Porta Nuova dal lato dove sempre vengono caricati i carcerati, sulla via Sacchi. Arriviamo alla stazione e veniamo messi su questo carro bestiame e lì vi era il campo di sorveglianza, la SS di Torino cede alla polizia di frontiera la responsabilità di questo gruppo.

Il gruppo viene messo sul carro bestiame, 25 su un angolo e 25 su un altro angolo, sistemano in mezzo una di quelle panchine che chiamo dei giardini perché hanno la spalliera doppia, due da una parte e due dall’altra con il Machinenpistolen, la voce è che tutti dobbiamo stare seduti, che nessuno si muova perché sono pronti per procedere.

Il treno viene spedito in termini molto veloci perché alle cinque e mezza finisce il coprifuoco, cominciano ad arrivare altri treni, altra gente e questo dà fastidio, questo che parte dal binario 19 è un vagone un po’ strano, ci sono strani destini al binario 19, poi spiegheremo.

Viene agganciato ad una linea per Milano, il percorso lo conosciamo ma lo vediamo quando siamo al Brennero dove arriviamo alla sera, quasi a mezzanotte. Già ci accorgiamo che a destra e a sinistra ci sono le SS che camminano davanti e dietro con i cani, quindi, non è vero che non ci sia stato durante il trasporto qualche tentativo per tentare una fuga.

Vediamo dal trasporto, è composto da gente non giovane, quindi, il ragionamento fatto dal più anziano ha il suo significato, cioè: “Guardate ragazzi che questi hanno i nominativi, le famiglie, fanno rappresaglie per cui è inutile che facciate dei tentativi”.

In questa discussione, “andiamo, non andiamo”, qualcuno dice anche: “Questi quattro ce li mangiamo”. Tenete conto che avevo sedici anni ma avevo lo spirito di chi scendeva dalla valle e avevo questa reazione, io e gli altri anche, quel gruppo di giovani, finisce per accettare questa soluzione e in questo modo passiamo il Brennero ed arriviamo verso le 11,30 del 14 a Mauthausen.

E’ una stazione di confine, una fine corsa, passiamo il ponte sul Danubio e arriviamo a questa stazioncina. Leggere Mauthausen a noi non dice nulla ed io contraddico tutti coloro che dicono “Io ero stato destinato a…” perché non c’è nessuna destinazione in origine, non sai mai dove vai a finire perché possono anche cambiare in corsa, arrivano a Monaco e invece che a Dachau mandano in un altro campo.

Qualche anziano ricorda che nel ’15 – ’18 esisteva già un campo militare, infatti, troveremo poi il campo militare dove ci sono le salme di alcuni militari, le targhette, dove sono stati aggiunti dei deportati che ancora non erano in condizione di essere rintracciati nominativamente.

Penso che l’arrivo a Mauthausen per noi crei non una novità da paese a paese ma crea novità il fatto che dobbiamo attraversarla, cittadina molto bella, oggi lo posso dire perché sono anni che ci ritorno con tanti amici, lungo il Danubio, posizione splendida, noi passiamo in mezzo alla strada centrale e vediamo queste persiane che si chiudono, vediamo questi momenti che ci sembrano strani, noi che siamo scortati stiamo camminando su cinque, questo è il termine che ci porteremo dietro sempre, quando entriamo, quando usciamo siamo sempre per cinque, ed è anche più facile contarci. Il trasferimento avviene partendo dalla stazione per salire su fino al campo, non è molto lontano tuttavia è in salita e qualcuno è in difficoltà, stiamo viaggiando con il sacco, la valigia, siamo a gennaio del 1944, con la neve anche discretamente alta per cui il percorso è difficile, con le scarpine che abbiamo ma sarà altrettanto difficile camminare con gli zoccoli sulla neve perché lo zoccolo in legno si attacca per cui cammini sempre in bilico.

Si arriva a Mauthausen e veniamo dati in consegna alla gendarmeria di Mauthausen. Entriamo nel campo e l’impressione che ho avuto io è quella di essere in difficoltà iniziale che è quella di capire dove sei perché vedi questa fortezza ma non ti rendi conto del significato, non ti rendi conto di queste baracche se non quando vedi venire avanti in mezzo al piazzale dell’appello uno di questi carri da cavalli, con la barra in mezzo tirata da gente che ha la casacca a righe e sopra questo carro sono buttati un mucchio di cadaveri per cui cominci a pensare che la vita sia un’altra cosa. L’impatto che hai iniziale è che potresti anche affrontare in termini di condizioni soggettivamente forti, poi ti trovi in un impatto dove resterai coinvolto, poi lo sarai decisamente e bisogna adattarsi ad imparare la vita del campo, non è più la tua possibilità o la tua soggettività che conta ma sei coinvolto, qui si parla di globalità e in questa globalità ci sono 23 nazionalità, quindi difficoltà di capire, difficoltà di immaginare e attenersi anche a un comportamento che sia consono al campo. Sembrerà strano questo discorso ma se non capisci il campo non ce la fai.

Penso anche che il fatto di avere questo impatto così immediato, così forte crea due momenti, una reazione che è abbastanza naturale, quella di dire ci sono ancora quindi forse reagirò e dall’altra cominci a pensare che devi acconciarti a questa situazione.

Il fatto di arrivare subito a questa scelta è quella che ti dà una motivazione in più per continuare, diversamente, dopo poco tempo ti accorgi che non saresti uscito.

Pertanto, entri, ci siamo messi in queste file da cinque, viene chiamato un interprete, c’è un ragazzo che conosce bene il tedesco, Renato Orniotti, il quale fa da interprete e spiega quello che il comandante riferisce: “Siete in un campo di rieducazione, quindi, saprete che siete entrati da quella porta e quasi sicuramente uscirete di là”. Quando dice uscirete di là istintivamente guardiamo ma forse pensiamo che vi sia un’altra uscita, non ci rendiamo conto di che cosa vuole significare questa cosa, poi ci accorgiamo che in quella direzione c’è il camino dei forni crematori e impariamo dove è l’uscita e per troppi sarà l’uscita. Siamo messi con tutto a terra, tutti puliti, nudi, andiamo sotto, ci fanno la doccia dopo di che passiamo su un banchetto dove c’è il barbiere che, povero Cristo, con questa specie di rasoio che ormai ha tutti i denti, ci toglie tutti i peli davanti e dietro, prende questa cosa lo bagna, poi ci dà una pennellata di creolina poi ti giri e te ne dà una di dietro, in questo modo sei disinfettato perché tutto può esserci ma tutti disinfettati e tutti puliti.

Penso che questo impatto comincia a dirci qualche cosa, comincia a farci capire che il mondo lì è un altro, ci sono altre risposte.

Attraversiamo la piazza dell’appello e arriviamo alla baracca di quarantena.

D: Scusa, Italo, dopo la disinfezione siete andati nelle docce?

R: Prima della disinfezione andiamo alle docce, dal Friseur, poi ci danno la pennellata e andiamo alla baracca e quando adiamo alla baracca di quarantena non ci sono …

D: Siete sempre nudi o …

R: No, la vestizione arriva nella baracca, io ho avuto così …. attraversiamo, siamo subito alla baracca e veniamo immatricolati e registrati perché in quella sede ci chiedono che mestiere facevamo. Lo scrivano della baracca penso che sia polacco e insiste nello scrivere, io dico “Studente” e lui mette studente, così come ho nel certificato, mette vicino “manovale”.

Io dico “Sono studente non sono manovale”, “Vai, vai vai”, mi dice, forse quel “vai” è stata la fortuna perché lo studente non si sarebbe certo salvato, il manovale in qualche modo era utile. Ci viene assegnata la qualifica con il triangolo rosso dei politici e la scritta che viene messa sulla matricola, sopra il triangolo rosso sulla giacca e anche sul pantalone dove abbiamo solo la matricola. Ci viene dato un cinghietto in ferro con una cosina molto leggera in lamiera con il numero di matricola, questo mi sarà tolto poi … mi viene assegnata la matricola, sono il 42307 di Mauthausen e mi porto questo triangolo rosso di politico fino alla fine.

Vi è l’ingresso in questa baracca che non ha i letti a castello, ha solo per terra dei materassini di iuta che sono pieni di segatura, una cosina molto leggera, molto piccola, siamo 50 quindi abbiamo una numerazione che parte da 42.000. Abbiamo prima di noi un trasporto arrivato da Roma, 40.000 di matricola che ha fatto un percorso un po’ strano, è partito da Roma, Valenzano, ecc. due o tre superstiti che sono rimasti, oggi dovrebbero essere cinque o sei e vi è un amico a Roma che sta facendo questa ricerca.

Ne ho contati 257 che sono quelli che da Dachau sono stati mandati a Mauthausen, partiti da Roma il 5 gennaio sono arrivati a Dachau il 7, sono stati mandati al Wäscheraum, senza immatricolazione e poi 257 di questi me li sono trovati nella immatricolazione di Mauthausen quindi li ho inseriti. Li troviamo nella baracca quando arriviamo alla registrazione; erano arrivati il giorno prima, per cui noi arriviamo il 14 e loro erano arrivati il 13, dirò che la registrazione viene poi rilevata dal campo il giorno 15, questo per dirvi che se qualche volta trovate delle date che spostano un giorno non impressionatevi perché basta che siano arrivati alla sera magari li mettono il giorno dopo.

Qualche volta sul problema della numerazione hanno dei dati previsti, prevedono un trasporto di 540 persone, mantengono 500 numeri vuoti per poi inserirli, questo vale per le donne che vanno a Flossenbürg, i 60.000 di matricola.

La vita del campo di Mauthausen: siamo in baracca, non usciamo, non abbiamo compiti esterni, non andiamo in comandi esterni, il 28 viene questo trasporto abbastanza pesante, circa 500 che andiamo a Ebensee, lo sapremo poi. Veniamo chiamati per matricola anche perché siamo dei pezzi ed è più facile contare i pezzi che non nomi e cognomi ed è anche più facile come tempo, vi è un problema sempre di tempo, tempo, dobbiamo sempre correre.

Arriviamo in questa cittadina, posizione stupenda, c’è il lago, una cosa veramente stupisce, che cosa andiamo a fare? Ci sembra una stranezza questo trasporto ma la stranezza è che andiamo verso la parte di montagna e lì costruiamo il campo, ci sono quattro baracche, è arrivato prima di noi un altro trasporto che comprendeva tedeschi, polacchi, jugoslavi. Ci facciamo il campo nel senso che ci costruiamo tutto, mettiamo su le baracche, facciamo la recinzione, facciamo le guardiole per il personale di sorveglianza e qual’é la destinazione di questo campo?

La destinazione è la velocità che bisogna assolutamente adoperare per fare delle grosse gallerie che consentano il trasferimento di materiale utile alla missilistica perché vi è stato il bombardamento di Peenemünde da parte della RAF, è Alto Baltico per cui il senso di studio viene smantellato da questo bombardamento della Royal Force quindi la necessità di trasferire questo materiale rimanente in altri campi.

L’idea viene automatica perché è l’ultimo campo, quello più a sud visto da Peenemünde e si trova quasi al confine con l’Italia perché Salisburgo è a pochi chilometri dal Brennero.

La zona è bellissima, noi siamo lassù in questa zona, ci costruiamo il campo, abbiamo pochi rapporti con la cittadinanza perché non abbiamo un transito continuo se non attraverso due strade che vanno direttamente alle cave e ci vedono andare avanti e indietro e non c’è nessun atteggiamento particolare anche perché in quel momento avevano paura delle SS non di noi che eravamo messi in una condizione di non nuocere.

Arriviamo alle gallerie e cominciamo questo lavoro che farò dopo due lavori esterni, un lavoro al comando legno, dovevamo tagliare le piante per pulire la roccia e iniziare a fare la galleria.

Il secondo lavoro sarà sempre in galleria e la vita in galleria ad un certo punto era fatta su tre turni, mano a mano che si finiva il turno si faceva l’esplosione, c’era il crollo, quando si entrava si puliva con la pala per mettere fuori e liberare la zona. Dovevamo sempre arrivare a fine turno per cui 24 ore e lavoravamo con dei mezzi non ancora automatizzati se non dei perforatori che arrivavano ed erano utilizzati con i fioretti per bucare la roccia e che erano ad aria e potevamo indirizzarli abbastanza e ci aiutavano a perforare.

Devo dire che nei primi tempi i buchi venivano fatti in modo diverso; ci mettevamo questa macchina in spalla in due, spingevamo in su e facevamo il buco oppure siccome lavoravamo a un piano che distava sì e no cinque metri dal piano del suolo e sopra mettevamo una tavola verticale in modo che ci permetteva di essere uno contro l’altro con la schiena appoggiati, quello davanti con i piedi guidava, indirizzava la macchina che faceva il foro, quello dietro spingeva.

Questo contatto creerà quella che chiamo “la globalizzazione della solidarietà” perché se così non fosse stato anche nelle piccole cose, le piccole cose sono grandi cose, teniamo conto che è uno sguardo, un modo di comportarsi, nel comando legno, dico una banalità, ma se vengono destinate quattro persone, due sono 1,80 e due sono 1,50 e quei due di 1,50 si mettono in mezzo non portano niente mentre se c’è una scaletta in qualche modo si cerca di portare un po’ tutti, anche perché parlare non ci capivamo per cui non dovevamo fare lunghi discorsi, potevamo solo indicarci sull’opportunità, normalmente si trovava una soluzione che consentiva a tutti quanti di fare la propria parte.

Avevamo anche dei casi dove la gente non intendeva, il più esposto normalmente era l’italiano perché è una figura che viene discussa … Avremmo dovuto discuterne prima di iniziare l’intervista, la figura dell’italiano è belligerante, gli iugoslavi che ti dicono “Perché siete venuti in Jugoslavia?”, i russi che dicono “Chi te l’ha fatto fare di venire in Russia?”. Vi è poi questa frammistione fra l’internamento generalizzato, sarà poi un internamento militare e poi ci sono i lavoratori militari in Germania che sono altre figure, è difficile per loro cogliere, capire, la domanda che corre è “Come mai ti trovi nel campo?”

Torno una sera in baracca come le altre sere avendo lavorato al comando legno, sono all’interno del campo e vengo destinato dal capo baracca ad andare a lavorare con un gruppo di russi che hanno uno di loro che non ce la fa più e rimane in baracca.

Io li conosco come russi perché loro hanno la “R”, quindi, sono politici, poi ci sono degli “SU” che sono della Repubblica Sovietica; forse non è nemmeno giusto dire repubblica ma chiamiamola così, sono termini impropri ma … pazienza.

Questo impatto mi crea il fatto nuovo di incontrarmi con gente che parla un’altra lingua, sono isolato e studiato, evidentemente hanno questa sensazione di questo individuo nuovo che si inserisce e non riescono a capire perché ma per me è una normale sostituzione, non ho scelto, mi hanno buttato lì e vado, non puoi dire al capo “preferirei andare …”.

L’atteggiamento iniziale è di studio e io che sono il più giovane del gruppo non ho che da ubbidire, quindi, capito con la schiena con uno, un’altra volta sono io a spingere.

Dopo qualche tempo, abbastanza breve, vedevo che quello che avevo di schiena voleva parlare, anch’io ma … dice di essere stato in Italia, di essere stato a Roma, probabilmente, una persona che faceva parte di certi servizi che già avevano anche loro, scatta questo meccanismo strano per cui la domanda loro viene abbastanza immediata “Perché sei qua?”

Subito non ho una risposta perché mi sto chiedendo perché questo chiede “Perché ci sono, loro perché ci sono?”

Se me lo ha chiesto ci sarà una motivazione.

Dopo qualche giorno la domanda ritorna più sostanziosa “Mussolini, Badoglio, che cosa sei, con chi sei?” … “Non sono né con Mussolini né con Badoglio, sono un partigiano …. “

“Partisan” è un temine che impressiona e lascia sorpresi nell’interpretazione, noi li conosciamo i partisan, i russi li avevano avuti, sapevano come si erano battuti, Stalingrado, sapevano molto bene ma questa parola non riuscivano molto a … partigiano dove, quando?

Cercavo di spiegare che non essendo né questo né quello eravamo un’altra cosa, combattevamo il nazismo, loro hanno chiacchierato, è passato di nuovo qualche giorno e ho avuto la sensazione che per me era naturale, potevo dirla subito ma non ho mai pensato che potesse avere un impatto del genere, li ha molto interessati e ho visto un cambiamento di comportamento. Sono diventato il piccolo italiano, sono stato inserito in questo inserto e devo dire che mi sentivo protetto anche perché non dimentichiamo che i russi hanno pagato molto, i russi nel campo erano i russi ma la verità vera è questa, i tedeschi, i Kapò nel campo quando avevano a che fare con i russi avevano dei seri problemi perché avevano la velocità di espressione, tu oggi sei Kapò ma domani …. questi atteggiamenti erano molto pericolosi.

Ho creduto questo che sta avvenendo, a un bel momento non avremmo più parlato e la mia esperienza rimane la mia esperienza, finito e chiuso, ma se parlo noi c’eravamo, ecco il perché del discorso di cercare, approfondire, trovare, perché l’esigenza era di dire che eravamo tutti insieme, vi è stato anche un momento di pressione come succede in quelle condizioni dove ti abbruttisci a un punto tale per cui non ti rendi conto se sei o non sei perché il discorso della sopravvivenza ti pone dei vincoli precisi, cioè dire che puoi anche sopravvivere ma hai il dovere di essere uomo, avere un minimo di dignità e questa ritengo che sia una necessità primaria.

D: Vieni accolto nel gruppo dei russi …

R: Nel gruppo dei russi, cambia l’atteggiamento e durerà fino alla liberazione, il 6 maggio 1945, l’ultimo campo liberato, abbiamo il terzo cavalleria meccanizzata con il Capitano Timothy, con i due sergenti che entrano con l’auto blinda.

I russi mi hanno accompagnato fino alla fine e a loro devo anche un pezzo di pensiero, di ricordo perché la liberazione è una sola, se non è corroborata da tutti non ce la fai, non ti puoi salvare da solo, egoisticamente potresti pensare anche così ma quando ti accorgi che quando il campo è aperto per tutti siamo tutti pronti ad uscire ma non abbiamo la capacità, non abbiamo la forza, perché quando arrivi a 36 kg, tubercolosi polmonare bilaterale non hai nemmeno la forza di stare in piedi ma devi pensare che se sei arrivato fino a lì forse riuscirai ancora ad arrivare più avanti e ad andare a casa.

D: Avete costruito il campo di Ebensee, contestualmente oltre alle baracche avete costruito anche il forno?

R: Sì, il forno giù in fondo, l’ho indicato anche in quella piantina che ho fatto, ho rifatto in assonometria perché originariamente ho fatto anche il geometra, tanti destini in questi mestieri, adesso vi porto indietro poi vado avanti poi ti arrangi tu a collocare i pezzi …. il problema è che quando ho fatto il geometra nel Comune di Torino e mi hanno dato una zona un po’ in periferia, molto bella, ho seguito due scuole, poi mi hanno mandato al teatro Regio che è stato per me il biglietto da visita che mi porto dietro perché di teatro Regio se ne fa uno solo con un pazzo come l’architetto Monlino che è un personaggio eclettico e dice “Posa la macchina che prendo l’elicottero”, sono grato a tutti perché ho imparato sempre qualche cosa.

Vengo destinato in un momento di ferie alla zona centro dove ci sono le carceri, vado in Segreteria dal Direttore che mi dice: “Geometra se ci vediamo perché abbiamo alcuni servizi, la manutenzione ordinaria la fate voi, la straordinaria la facciamo noi, se potete darci una mano”. Dico: “Va bene ma è importante che parli prima con l’ingegnere perché voglio capire bene”. Parlo con l’Ingegnere Brizio e l’Ingegnere Capo Piasco e dico: “Ingegnere non si offenderà, vado dove vuole, faccio anche il giro di tutte le zone ma non mi mandi alle carceri perché è un ricordo troppo sulla pelle”. “Non ci abbiamo pensato!”, “Non potevate pensarci ma siccome ho transitato in quel luogo in condizioni un po’ diverse abbiate la bontà ….”

Per dire il destino, come il binario 19 è il binario che viene da Torino-Ivrea, come il discorso di dove sono stato portato subito quando mi hanno arrestato, alla caserma del genio che è diventato l’ufficio leva, passano gli anni, nel 1980 il Sindaco porta giù i ragazzi della leva e dove vado a finire? Vado a finire lì dove mi hanno portato qualche anno prima, ci sono delle botte di destino …

Primo incarico al Comune di Torino, Ispettore ai mercati generali … ero impiegato giornaliero, mi chiama il capo del personale e dice “Tibaldi lei è nelle condizioni ideali per fare questa funzione, faccia un salto ai mercati generali e dia un’occhiata”. Arrivo ai mercati generali, c’è una tettoia grande e sotto ci sono montagne di patate, e altre patate buttate lì, devo dire che gli impatti nella vita quando non hai più visto le patate, vedevi qualche volta la pelle, arrivi lì e vedi le montagne, allora dico che il mondo mi sta dando tanti di quegli schiaffoni che non finiranno mai, il destino ti porta queste cose.

D: A proposito di patate, nel campo l’alimentazione come era?

R: Il problema è che si tratta di fare la corsa alla gamella che è quella che hai dietro il sedere che hai appesa con il gancio che è questa di ferro smaltato rossa, con questa vai per prendere la zuppa che è un momento interessante e preoccupante per tanti versi perché quando entri e vedi il bidone in fondo cominci a metterti in fila e finisce che i primi non vogliono andare avanti perché prendono l’acqua, gli ultimi non vogliono stare indietro perché non prendono più niente, vedi che questa fila si spancia nel mezzo, a questa altezza tutti che spingono e gli altri che rallentano per cui si forma questa fascia che è feroce nel senso che sono quelli che sperano di beccare metà bidone.

Ti metti in questa cosa e vai avanti lì e ti arriva quello che ti arriva sperando che vada bene. Qualche volta c’è la fettina di pane, la domenica c’è il pezzettino di margarina, c’è questa specie di brodaglia non capisci bene se vuole essere un caffè o che cosa, le calorie sono talmente basse per quel tipo di lavoro, ma se vuoi la gente che lavora devi dagli da mangiare, non puoi pretendere di fare questi lavori pesanti. Cominci ad alleggerirti, ti inventi qualche cosa, mentre becchi il vagoncino che va ad attaccare i vagonetti dentro la galleria a lato hai i ciuffi d’erba, raccogliamo questa erba; lateralmente le locomotive hanno queste come dell’acqua, mettiamo questo batuffolo di erba dentro l’acqua, quando ha fatto due volte il tragitto è cotta per cui siamo dei furbetti, poi prendiamo dei pezzi di roccia che hanno sopra una patina che sembra margarina, la puliamo bene solo che questa ci crea nello stomaco un canale perché siccome è grassa, ha una funzione solo di riempirti la bocca, alla lunga questo sarà quello che creerà le grandi dissenterie per cui diventa un tubo solo, butti giù un bicchiere d’acqua e già va.

La vita del campo di Ebensee è una vita che non vivi perché non ci sei, alla mattina vi è sempre qualche problema perché o la visita dei pidocchi o qualche altra storia, a qualcuno mancano gli zoccoli, comincia che quelli che sono in condizioni così tolgono il nastrino e gli scrivono sulla pelle il numero di matricola e lo mettono fuori così già ci sono i gradi che ci sono e sei sicuro che rimane lì, quindi si alleggerisce il peso.

Alleggerendo il peso delle presenze, parlo di materiale umano in termini molto semplici. Per largo tempo noi subiamo i triangoli verdi che sono i delinquenti comuni, per la maggior parte tedeschi, qualche polacco, sono quelli usciti dalle patrie galere che avevano commesso uxoricidio o parricidio, cose di questo tipo, condannati a trent’anni ai quali è stata data un’ipotesi alternativa. Avevano una baracca con 500 persone, la gestivano, la dovevano mantenere in ordine, puntuale, precisa; la gente mangiava, dormiva, erano fatti del capo blocco, la gestivano come volevano, li legnavano, li ammazzavano, facevano quello che gli pareva ma dovevano tenerli sempre in ordine, funzionali che devono lavorare, soprattutto puliti, la pulizia prima di tutto.

Questo crea quel massacro che succedeva anche nei blocchi. Non si possono ricreare i gruppi nazionali perché sono fraintesi con gli altri, non solo, ma l’esigenza di non aver messo solo un gruppo nazionale nel blocco è dato dal fatto che lì forse si può studiare la fuga mentre se siamo blocchi di nazionalità diverse come dici a un russo “Andiamo via”?, Anzi, devi stare attento che la frase non circoli, ci sono anche questi timori e loro opportunamente fanno in questo modo di frammischiare le lingue per cui nasce il glossario del campo, questo linguaggio interno che è fatto un po’ di tutte le lingue dove abbiamo i termini più strani e dove ci sono poche parole e tanti sguardi.

Un’esigenza era quella di non lavorare, di osservare molto, di stare sempre con gli occhi aperti; purtroppo, tante volte non te ne accorgevi, ti arrivavano dietro e ti legnavano ma ogni minuto che guadagnavi era un minuto guadagnato.

Poi ci si accorgeva che si andava verso la fine; abbiamo lavorato come matti per andare avanti in queste gallerie, quando si usciva dalle gallerie si era distrutti la polvere rimaneva sui polmoni e di qui il fatto che tornando molti di noi sono andati al sanatorio.

L’operazione in galleria ha però un vantaggio, sembra strano, perché lavorando a 5 mt. e di notte quando la SS entra di là, con il cane, tutto bello pulito, gli apri l’aria per la nuvola di fumo e tu vedi la SS e lui non vede sopra, il cane le scale non le sale perché sono a pioli quindi è difficile, è un modo per salvarsi.

Questo per me è un nucleo molto importante, devo dire che ci si rende conto piano, intanto arrivano i pezzi per i missili, la zona dove fanno l’acqua sintetica, cercano di portare laggiù quello che loro hanno perso a Peenemünde. Arriva anche un gruppo che arriva da Sachsenhausen che viene direttamente a Ebensee e vengono poi mandati a Redl Zipf che sono quelli che fanno le monete false, un gruppo di falsari, poi ne conoscerò uno alla fine, l’ho visto ancora due anni fa che dice: “Io non esisto, non mi chiamo, mi chiamano gli altri e io mi chiamo “nessuno”, con delle mani d’oro che fanno queste monete intanto per poterle buttare sugli altri mercati, gli inglesi fanno monete inglesi, il discorso della moneta buttata in un discorso di questo tipo vuol dire falsare anche tutti i problemi economici.

Cominciano a passare come delle rondini sulla testa, apparecchi, le fortezze volanti che cominciano ad andare, vanno avanti e vanno a finire su Vienna, vanno a bombardare un po’ dappertutto. Ad un certo punto ti accorgi che il giro diventa quasi continuo perché si muoveranno con gli americani di giorno, questo è uno studio che ho visto dopo, e con gli inglesi di notte. Difficilmente gli americani viaggiavano di notte,gli americani avevano i grossi bombardamenti, gli Spitfire, i più piccoli giravano di notte perché facevano opera diversa come quella del lancio dei manifestini a firma di Truman, Stalin, Churcill che dicono negli ultimi mesi: “Attenzione perché vi consideriamo criminali di guerra, quindi l’umanità che avete a vostra disposizione salvatela, stati attenti”; cercano di intimorirli anche in questo modo e fanno capire che hanno finito.

Queste cose le recepiamo anche dall’atteggiamento del personale civile che ci segue nelle gallerie perché lì ci sono le ditte che ci hanno affittato, chiaramente il costo nostro non lo ricordo più, la trattativa avviene sempre con la società della SS per questi compiti e noi lavoriamo alla dipendenza di un Meister che ha premura perché viene sollecitato, trasferisce al Kapò questa sua esigenza, le SS invitano il Kapò a reagire e il Kapò mena anche perché deve far vedere alle SS che lui c’è. Qui nasce il discorso del rapporto tra le SS e il Kapò e i deportati; nei processi la SS dice: “Noi non eravamo nel campo, eravamo attorno al campo, facevamo sorveglianza”. Questo è falso primo perché ogni blocco aveva un responsabile delle SS che faceva la conta e parlava con il Kapò. Poi vi era l’appello e quando c’era l’appello c’erano tutti. Loro tentano questo marchingegno che non riesce, il Kapò si trova nella condizione che avendo accettato una soluzione deve comportarsi di conseguenza, non dico che lo giustifico ma dico che se già poteva maltrattarci in un modo, ci maltratta di più perché davanti alle SS doveva far vedere che è uno che osserva quello che gli è stato imposto, quindi, chi prende le legnate è sempre il deportato, non ne prende una ma ne prende 25 per volta che non sono date sul sedere perché forse le avresti anche accettate meglio, ma sul fondo schiena, cioè sui reni; quando le becchi sui reni ti alzi e fai la pipì con il sangue, non vi è altra soluzione perché i reni si sfasciano, le becchi una volta, le becchi due, la terza volta non ti tiri più su.

Il fatto è che ti corichi, ti metti giù e comincia questa legnata,le contano, tu le conti, quando hai finito ti tiri su, dici “Grazie”, atto più distruttivo che puoi dare perché già non ce la fai più e devi anche ringraziarli e da quel momento pensi di essere tranquillo per una qualsiasi stupidaggine. Quando hai il castello a tre piani, dormiamo tre per letto, due se siamo più fortunati, quindi due di piedi e uno con la testa, quello che è sull’ultimo piano quando deve salire mette i piedi sul primo, quindi nel salire schiaccia quel letto che non è a posto, quindi guai a prendere un letto a terra. Prendere un letto sopra: non aspettano tanto, ti chiamano due volte e poi ti tirano giù e vai per terra da due metri e mezzo. Se imbocchi il letto di mezzo sei controllato perché è chiaro che se ti muore uno vicino e sei nel letto di mezzo non puoi non dirlo, se sei lassù mangi anche la sua parte poi cerchi di andare avanti … lo dico onestamente: mi trovo una zuppa in più la mangio, vado a prendere le legnate ma intanto mangio. Queste cose sono quelle che ti fanno pensare che, comunque, forse più umanità si salvava, se ci fosse .. se ci fosse … 63 anni dopo parlarne con disinvoltura vuol dire anche fare a se stessi un grosso impegno perché onestamente la memoria tradisce tutti e tradisce anche te. La prima domanda che ho fatto non più tardi di 15 giorni fa che ero a Saint Vincent e ho incontrato i ragazzi, ho chiesto “Credete alla nostra memoria?”, hanno risposto “Sì” e sono andato avanti, ma è facile dire, “Quando si arriva a 81 anni mi vuoi dire che sei così limpido? Perché ricordi questi particolari?” Perché la scienza, non io, dice che io ricordo quei tempi e non ricordo che cosa ho mangiato ieri, è la meccanica della memoria, quindi, sotto questo aspetto mi sento abbastanza sereno anche perché non voglio mai fare una testimonianza né da protagonista né da vittima, non mi sento né vittima né protagonista, è stata una scelta così, ho creduto in quello che ho fatto, ho pagato per quello che ho fatto, ritengo di non essere un eroe, molti altri ce ne sono stati e non li abbiamo neanche conosciuti, non li abbiamo neanche ricordati, dell’oggi poi parleremo.

La liberazione il 6 maggio del 1945: verso le 14,30 del pomeriggio vediamo grosse nuvole di polvere … c’è il passaggio del giorno prima importante.

Il 4 il Comitato di Resistenza del campo di cui facevo parte con Ferrante, Dragoni e altri, riesce a far capire che siamo allo sbando delle SS per cui dobbiamo regolarci sul comportamento, non sappiamo se entreranno nelle baracche, non sappiamo il comportamento, il comandante del campo ci riunisce tutti, siamo in 18.00 sul campo di Ebensee, arriva con il suo cane, ha insieme le SS schierate con le mitragliette, dalle garrite vediamo gli altri che sono piazzati e noi siamo lì tutti schierati.

Sale su questo sgabello e inizia il discorso, tutto silenzio, e dice “Herren”, vuole dire “Signori”, siamo rimasti tutti, “Per un giorno siamo signori”, poi dice “Siccome noi abbiamo sentore che le truppe alleate arriveranno vogliamo salvaguardarvi, quindi, vi invitiamo ad andare in galleria e noi cercheremo di salvarvi il più possibile, vi garantiamo che faremo quello che dobbiamo fare e ci auguriamo che questo vi porti alla libertà, ecc. ecc.”

Il problema che lì parte l’impostazione del Comitato, tutti quanti rispondono “No”, subito non sanno perché rispondono no, il discorso è che davanti alle gallerie, specialmente all’imboccatura di un paio ci sono le locomotive … queste locomotive che servivano quei vagonetti che andavano avanti e indietro le hanno piazzate davanti all’imboccatura delle gallerie in modo che all’esplosione si chiudeva la galleria e morivano dentro come topi. Solo questo lavoro, far parte del Comitato di Resistenza di un campo era una cosa impossibile, voleva dire avere la pelle sulla corda ogni momento, se per caso si dovesse pensare che hai una funzione diversa. Ho sempre ammirato Franco Ferrante perché il fatto che sia stato spinto da noi a fare lo scrivano del blocco è stata una cosa per lui dolorosa ma per noi importantissima perché è l’unico modo per poter evitare di mandare qualcuno nei comandi più negativi per cui il lavoro che ha fatto questo uomo è stato immenso e gli va riconosciuto. Ricordo anche Morgante, e ce ne sono altri, li ricordo un po’ tutti perché li ho anche citati nella pubblicazione. Quindi, lì rimane fermo sullo sgabello, la cosa non lo ha reso felice più di tanto, poi scende, raccoglie le SS e vanno via.

Questo fatto ci fa pensare: “Perché adesso rientriamo nei blocchi e che cosa succede?”

Siamo tutti quanti in attesa di vedere che cosa succede. Succede che questi si cambiano e se ne vanno, lasciano gli abiti militari, si mettono in abiti borghesi e se ne vanno. Il comandante del campo viene beccato, gli americani arrivano, aprono la porta, le sentinelle non ci sono più ma hanno insieme la gendarmeria, i pompieri, questi ometti anziani con le bande rosse e blu, con dei fucili 91 alti così e ti fanno segno di stare lì, abbiamo tolto corrente ma siamo tutti nel campo, gli americani anche hanno paura perché 18.000 che scendono a Ebensee se la mangiano, non so con la pazzia che c’è in giro che cosa succede per cui il timore è anche questo.

L’arrivo degli americani è prima lo studio, questa punta avanzata che viene e entra, vede l’ambiente e poi spiegheranno, abbiamo avuto paura perché la gente si è avvicinata all’autoblinda e non potevamo sparare, siamo usciti subito, abbiamo rinchiuso la porta. Poi si sono dati da fare, sono stati a Ebensee, hanno requisito le panetterie, arrivano, impiantano il campo della sanità e lì quando arriva il blocco ci sono tanti di colore, entrano e dopo dieci passi che hanno fatto hanno tutti la mascherina perché al fondo del campo, vicino al forno, non hanno più bruciato, devo dire che la maggior parte tornavano a Mauthausen, li mandavano indietro a Mauthausen. Erano più veloci i forni di Mauthausen, a un certo punto non ce la facevano più e hanno fatto le cataste: corpi umani, legna, corpi umani, legna, poi bruci, sono le pire. Chiaramente queste cose creano odori, dalla pelle umana esce un odore che non è sopportabile ed è quello che diciamo quando parliamo con quelli che ci dicono che la gente non sapeva, spieghiamo che quelli dei comuni vicini lo dovevano sapere anche se non volevano perché quegli odori li avevamo noi e li avevano anche loro in casa, il vento non restava lì, si muoveva, sono risposte implicite che ti vengano.

Quando arriva la sanità si preoccupano di vedere che siamo tutti messi come siamo messi e comincia a cercare di salvare il possibile. Commettono anche loro un errore nella bontà, nella volontà di salvare il tutto arrivano con questi carri enormi con sopra dei mastelli in legno, che sono di marmellata, cioccolata. La gente corre e si mette con la testa dentro, dopo di che non avevamo più mangiato nulla … lo stomaco non ha potuto accettare tutto, quando è arrivata la sanità queste cose le hanno subito regolate perché i medici hanno subito detto: “Non si può fare queste cose” Io avevo una palandrana addosso perché era quella che mi andava bene, che poi ho lasciato non so più a chi, a chi era peggio di me.

Sono rientrato alla fine di giugno o a metà luglio e la prima cosa è la disinfezione, quindi, queste tendopoli dove ci mettono sotto doccia e poi viaggiano con i DDT, grandi pompate, poi sotto, poi dicono che fa cadere i capelli, so che me lo hanno dato dappertutto, davanti dietro sopra sotto, poi sono cominciati i ritorni.

Restiamo non dico come, non voglio dire come sempre perché non so altre situazioni, ma restiamo i buoni ultimi, restiamo con gli jugoslavi perché volevano farci rimpatriare insieme, “Vi portiamo a Tarvisio, voi andate di là e loro vanno di là”.

I russi sono partiti allineati e coperti, i francesi sono partiti in aereo, restiamo noi, 283 italiani che siamo così e dico: “Se non ci muoviamo …” ero malmesso perché ero già con il coso scritto qua per cui stare in piedi era dura. Parliamo con l’americano e gli diciamo che anche noi vogliamo rientrare, “Se non viene qualcuno a prendervi come rientrate?” bisogna organizzare questo rientro, possiamo anche accompagnarvi, ma siamo a Linz. Poi vi era una diatriba nel comando americano perché quelli di Mauthausen dipendevano dalla Undicesima Divisione che aveva un comandante e che naturalmente diceva: “Essendo Ebensee un sottocampo di Mauthausen lo dobbiamo gestire noi”.

L’altro di Linz diceva: “Siccome Ebensee si trova a pochi metri dobbiamo gestirlo noi”. Volevano gestirci tutti ma restavamo lì.

Siccome l’ospedale americano era stato fatto in una caserma a Salisburgo, siccome eravamo tutti messi così abbiamo detto: “Liberiamo il campo e li portiamo lì”, per portarci via arriva Monsignor Leonzio Nicolai, cappellano dei civili italiani liberi lavoratori della zona di Linz. Monsignor Leonzio viene con una signora che traduce per parlare con gli americani e i tedeschi perché anche se non ci sono più sei nel loro territorio, devi sapere le strade.

Gli americani come sempre raccolgono tutti e ci imbarchiamo su questi camion con Monsignor Nicolai, andiamo all’ospedale di Salisburgo e lì vediamo il personale della Croce Rossa americana, vediamo le dottoresse che hanno la croce rossa dietro, mi visita un medico cinese o giapponese che ha delle tavolette nere e dice “Qui dobbiamo fermare la diarrea, prendi questo tavolette e avanti, poi aspetta a rientrare perché ti dobbiamo mettere in condizioni …”, “Io vorrei solo andare a casa” … Chiedere di andare a casa non è così facile, poi non sai nemmeno se trovi casa e che cosa trovi, il ritorno è lungo.

Passiamo questo periodo a Salisburgo e rientriamo attraverso il Brennero e troviamo sulle Alpi ancora dei gruppi di SS che sparano sui vagoni per cui è andata bene anche lì.

Arriviamo a Bolzano e ci portano tutti all’ospedale militare, vengo ricoverato con uno che sembravamo Cric e Croc, perché io ero stilizzato e questo era piuttosto corposo, un caro amico, che vive a Trieste, un tenore, qualche volta abbiamo mangiato anche la zuppa perché lui cantava, bisognava fare di tutto, “Italiano cantare”.

Arriviamo a Bolzano, siamo all’ospedale militare di Bolzano, siamo insieme noi due, visita, credo che sia il responsabile dell’ospedale che dice “Ragazzi voi due … “, quello che era così gli facevo così e restava il bollo perché era tutta acqua, aveva conservato l’acqua, una cosa allucinante, io stringatissimo e dice: “Dobbiamo fare degli esami, ecc.”, ci bloccano subito.

Dice: “Non puoi viaggiare”, ma rispondo che vorrei solo andare a casa, perché devo andare in mezzo alla gente, “Vado a casa”.

Un bel giorno arriviamo sotto e vi era del personale utilizzato come autisti con le macchine. Un giorno scendiamo e vediamo uno di questi che si stava facendo una cotoletta sulla pietra, noi due guardavamo pensando: “Noi non abbiamo visto niente, questo che dovrebbe essere un nemico gli danno delle sberle di carne di questo genere, qui è un altro mondo”, e l’idea che questo ci potesse portare via con la macchina mi è venuta subito.

Siamo saliti su questa specie di macchina e abbiamo avuto la fortuna di non trovare nessun gruppo partigiano perché con questa macchina con gli stemmi magari ci sparavano dentro, avrebbero detto che eravamo dei fuggiaschi ed eravamo noi due lì sopra, immaginate che fine triste andavamo a fare, poi si dice “il fuoco amico”.

Arriviamo a Milano alla stazione, poi lui è andato, un mucchio di giri per la ferrovia per i bombardamenti, poi mi chiedo perché prima non hanno mai bombardato le linee del Brennero e di Tarvisio, hanno bombardato a Peenemünde, abbiamo avuto il primo trasporto ebreo che è partito da Merano due mesi dopo, potevano bombardare anche le linee sul Brennero, probabilmente avremmo bloccato il discorso della deportazione, sono considerazioni che fai oggi dopo tanti anni.

Arrivati a Milano messi nella stanza dei reduci e lì sono tutti seduti su carrozzelle, sulla brandina, ci mettono su due carrozzelle e l’altro dice: “Devo andare a Trieste”, e dico: “A Milano ci sei”. Dall’ospedale non potevamo andare a Trieste e poi a Milano.

Comincia il primo impatto, duro, arrivano i famigliari che ci chiedono notizie: “Eri a Mauthausen, hai visto mio figlio?”, ma è già difficile ricordare una persona nella figura originale o vedere una fotografia ma quando devi vedere una persona che non ha capelli, ha tutto quanto rasato è difficile individuarlo, anche gli occhi cambiano, le figure si trasformano, non riesci più a individuarli, qualcuno che ha avuto la fortuna di camminare insieme all’ultimo minuto può dire: “L’ho lasciato a Salisburgo”, ma andare a spiegare …oppure anche il discorso di spiegare a una madre che hai visto il figlio andare al forno crematorio e alla camera a gas, come si fa? Intanto la camera a gas non sapevi che cosa era, poi quando hai cominciato a capire che cosa era fortunatamente eravamo già da un’altra parte ma le cose sono successe, le cose ci sono, la camera a gas è lì, non è che non si vede, certo si vedono altre camere a gas molto più importanti per l’eliminazione diretta che è quella di Auschwitz ma qui quanti ne sono passati a Mauthausen anche all’ultimo minuto che si poteva evitare! Il discorso della falcidia anche sui politici doveva esserci perché era gente che doveva sparire, soprattutto austriaci.

Arrivo a Milano e vi è questo impatto molto difficile. Quando vai su non sai dove vai ma quando torni indietro non sai che cosa trovi, non hai corrispondenza, non hai mezzi di comunicazione. Se hai famiglia magari dopo due anni c’è gente che ha fatto scelte diverse, magari hai perso i figli, hai perso la casa con i bombardamenti, un mucchio di cose che ti portano a dire: “Voglio andare a casa”, sapendo che ci possono essere sorprese ma te le poni come qualche cosa che può succedere, tanto quello che è successo l’hai sulla schiena.

Un giorno fanno un trasporto su Torino-Milano, mi viene a prendere un ragazzone che aveva il vestito di cachi e che aveva la bandiera tricolore, faceva il servizio volontario; mi prende come prendere un sacco, mi prende leggero, ero 36 kg, mi mette sul vagone, siamo io e lui seduti tranquilli e questo vagone parte destinazione Torino.

Arriviamo a Porta Susa a Torino, si ferma e non partiva più. Vi era questo capo stazione che andava avanti e indietro, ad un certo punto dico: “Non parte più questo treno, devo andare a casa”. Non ho fatto partire il treno io ma mi sentivo di arrivare, arrivati a Porta Nuova mi prende in braccio e mi mette lì alla Croce Rossa.

Siccome siamo in estate sulla porta vi sono queste tende fatte di tanti piccoli cosini di lamiera che tintinnano, mi è rimasta impressa questa cosa.

Entro, mi mettono sulla sedia a rotelle, una coperta sulle gambe e sto seduto, poi mi chiedono chi sono, spiego le cose e dico: “Devo fare degli esami… ti mandiamo in sanatorio oppure ti mandiamo dove sono finiti un po’ tutti quelli della Lombardia”.

Questo discorso di andare in sanatorio …Mi chiedono come ti chiami, mi chiedono se ricordo il numero di telefono, mi danno il telefono, faccio il numero e qui arriva una scena un po’ così e dico “Pronto, casa Tibaldi? Ho conosciuto un certo Italo Tibaldi che era in campo di concentramento, sta bene e tornerà quanto prima”, mia sorella prende il telefono e sviene.

Arriva mia madre che era stata fuori e chiede che cosa è successo. “Sai, mamma, ha telefonato uno dicendo che ha conosciuto Italo … “Dove è?” “Non so dove è, non ho capito” “Come non hai capito!” Volano quattro ceffoni sono volati perché non aveva capito, mia sorella me lo ricorda sempre, ho preso quattro schiaffoni per te e dico: “Mettili insieme a quelli che ho preso io”.

Lei era andata al comando da Smith, padre ufficiale, quindi, militare, lei parte e va da Smith e vuole avere notizie di suo figlio. Smith aveva detto: “Non so dove è, ma se torna sarà un uomo”.

Non so se sono tornato uomo, voglio dire che certamente sono tornato vecchio perché otto mesi così ti mettono fuori dalla tua generazione, diventi immediatamente vecchio anche per il campo perché essendo uno dei primi arrivati, pur essendo una matricola bassa nel campo sono già un anziano per cui il campo l’ho conosciuto per tutto il periodo.

E’ un momento difficile, un bel momento vedo muovere le tendine e vedo mia madre: “Allora?” “Sono qua!” “Non hai le gambe?” “Sì, le ho però ho la scabbia” “Cretino! La scabbia cosa vuoi che sia”. Dicono: “Dobbiamo portarlo su perché lei capisce…” e lei risponde: “Io me lo porto a casa, garantisco quello che vuole, ho un medico di fiducia, poi se deve andare da qualche parte, faremo gli esami”.

Per essere sicuri dicono: “Lei deve andare almeno all’ospedale militare”.

D: Scusa, Italo, mamma ti porta a casa come?

R: Siccome non c’era benzina, c’era la carrozzella con il cavallo, mi mettono sopra lì e rivedo Torino, via Sacchi… Ad un certo punto facendo un pezzo di strada vi sono le rotaie del tram che accompagnano per andare verso la zona dove vado io. Vicino alla carrozzella vi è uno dei ragazzi del panettiere che hanno davanti la ruota più piccola con la cesta da mettere e dietro la ruota più alta, questo sta fischiettando, infila la rotaia e il pane per terra. Istintivamente mi sono tirato in piedi e ho trovato la forza, questo tira il cavallo e dice: “Che cosa è successo?” “Non ha visto tutto quel pane?” “Sì c’è pane, ne vedrà” …

Sono arrivato a casa e non c’erano ancor ai condomini, ma c’erano i quartieri, “Italo, Italo”, il medico dice: “Abbiate pazienza ma dobbiamo fare altre cose all’ospedale militare”, tubercolosi polmonare bilaterale, mandano l’ufficio leva e quando chiamano la mia leva mi chiamano e gli mando l’atto di riforma, mi riformano, sono riformato. Poi mi arriva il brevetto, ero comandante di squadra partigiana perché ne avevo 15 con me in montagna; mi arriva l’avviso che sono Sergente Maggiore per cui a 16 anni sono Sergente Maggiore, i casi della vita … riformato … A casa è complessa per me perché mi rendo conto che nessuno ha visto e pensato a cose di questo tipo, spiegare cosa c’era nel campo … un giorno mi giro di colpo e vedo che uno fa all’altro “E’ fuori di testa, cosa vuoi stare lì a fare domande”.

Ho conosciuto parecchie opportunità, ho cominciato a girare con Primo Levi che mi voleva insieme forse perché ero un po’ sbarazzino, non mi piace affrontare questo tema in termini truculenti, non è questa la strada per andare nelle scuole, con i ragazzi. Devi partire con la convinzione che loro sono interessati a capire e che hai il dovere di testimoniare.

Se così è il dovere della testimonianza ti porta quasi naturalmente a essere in mezzo, non credo di essere un caso particolare ma credo che il lavoro che abbiamo fatto l’abbiamo seminato in tanti anni, abbiamo lavorato e mi permetto di dire con qualche serietà abbiamo lavorato, senza erosimi e senza atteggiamenti che sono solo demagogici.

Purtroppo, oggi il numero dei sopravvissuti è molto esiguo perché è una legge naturale. A Mauthausen eravamo circa 8.200, alla liberazione eravamo 856, oggi siamo 200 e poi vi è il problema che non è questo il numero giusto ma il numero giusto è quello di quelli che ancora qualche cosa riescono a dire o a scrivere su questo argomento.

Sono esperienze che vanno collegate una all’altra. Parlare della deportazione in senso stretto si può concludere in tre secondi, parlare di trasporto forse anche, dare una visuale più ampia, neppure suggestiva, neppure emozionale, non mi interessa l’emozione, mi interessa quel poco di emozione che serve ad entrare in argomento dopo di che il giovane deve sapere lui leggere e vedere, capire, se è così lui stesso diventa un testimone perché porta avanti quello che ha visto, non quello che gli ho detto io.

Temo fortemente che l’oblio cerchi di superare un po’ tutto, penso che non ce la farà se sapremo tenere fermi i campi, se li difenderemo per quello che sappiamo. Devo dire che la Resistenza internazionale si è fatta viva anche nella deportazione internazionale. Credo che per alcune situazioni che conosciamo più approfonditamene ci sarà comunque, piaccia o non piaccia, il ricordo, parlo di Marzabotto, parlo della Risiera di San Sabba, parlo di Fossoli, perché no anche di Borgo San Dalmazzo. Sono esperienze legate a te ma se non le trasferisci in tempo… Se abbiamo un torto è quello di aver dovuto cominciare tardi perché prima non siamo stati creduti e forse anche a ragione, forse abbiamo faticato noi a inserirci perché l’umanità camminava, noi siamo rimasti indietro, abbiamo perso due anni e due anni nella vita di una persona contano.

Per me è stata una fetta di gioventù che mi sono bruciato così, non mi rimprovero nulla, un’esperienza che ho vissuto e devo dire che dall’accoglienza che trovo ancora adesso vuol dire che in qualche modo l’abbiamo spiegata con serenità.

Se hai questa tua visuale di globalità, di solidarietà che è stata espressa in tanti sensi, anche religiosi, e hai soprattutto la tranquillità di sapere che non hai fatto nulla per tornare, non so se mi spiego, ma sei tornato, forse il destino ha previsto così, voglio dire che vi è ancora una forza, una capacità di dire che passa ormai da testimone a testimone.

Braini Vilma

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Sono Vilma Braini, nata il 14.06.1928. Sono Vilma Braini ma Brainic, i miei nonni e anche genitori, poi trasformati in Braini perché sotto il fascismo era così. Sono di origine slovena, cittadinanza italiana, nata qui a Gorizia, residente sempre a Gorizia Sant’Andrea. Ho già detto che sono di origine slovena, ho iniziato a collaborare con i partigiani già nel luglio 1943 alla caduta del fascismo e poi ho iniziato a capire qualche cosa.

Sono stata arrestata due volte, una prima volta nell’aprile del 1944 quando è stata fatta una spiata e sono venuti ad arrestarci in casa alle quattro e mezza del mattino, hanno arrestato me a casa mia e anche mio zio, ci hanno portato in carcere …

D: Scusa, Vilma, chi ti ha arrestato?

R: La prima volta sono venuti le SS con un interprete sloveno, qui a Gorizia.

Sono entrati in camera, dormivo con mia madre e un’altra sorellina più piccola nello stesso letto perché mio padre è stato portato via ai battaglioni speciali come sloveno, nel gennaio 1943. Sono entrati in camera senza bussare, hanno chiesto “Chi è Braini Vilma?”, ho risposto “Io”, “Vestiti e vieni con noi”.

D: Quanti anni avevi allora?

R: Avevo quindici anni!

D: Quando dici che eri nelle formazioni partigiane, intendi italo slovene o solo slovene?

R: Italo slovene e slovene perché qui il paese era sloveno ma si lavorava anche con gli italiani oltre l’Isonzo.

D: Ricordi le tue azioni, portavi ordini, facevi la staffetta?

R: Portavo ordini, biglietti e bigliettini, nel paese facevo la raccolta di viveri e medicinali, tutte queste cose che erano necessarie per i partigiani. Discutevamo anche delle questioni, imparavamo a parlare lo sloveno. Le scuole slovene non le abbiamo fatte, c’era qualcuno che ci insegnava le canzoni partigiane e per noi era un rinascere perché fino ad allora non si è capito perché si parlava solo l’italiano e i genitori a casa dicevano: “Qualsiasi cosa ti domandano, se ti dicono cosa parli a casa devi rispondere l’italiano”. Mia nonna non sapeva parlare l’italiano, mia mamma poco o niente, mio padre sapeva poco di più perché aveva fatto dei corsi di meccanica.

D: Ricordi se davanti ai negozi c’era la scritta famosa “Qui si parla …”

R: Non davanti ai negozi, nei locali pubblici, dappertutto “Qui si parla solo l’italiano”. Qualcuno ha ancora quelle scritte ma sono negli archivi, nei musei; in Slovenia credo che vi siano ancora certi manifesti che dicevano “Qui si parla solo l’italiano”. Non dovevi esprimerti in sloveno ma fra noi quando si giocava succedeva, fra ragazzi alle elementari nel momento della ricreazione avevamo un parroco che chiamavano “Spinacia” perché era brutto e cattivo, se ci sentiva parlare ce le dava per le mani.

D: Se vi sentiva parlare sloveno?

R: Sì!

D: Quando dicevi raccoglievamo viveri, medicinali, servivano per quell’ospedale partigiano?

R: Dappertutto servivano, non sapevamo dove andavano, non si sapeva nulla né dell’uno né dell’altro, anche nelle varie riunioni dove si andava non ci si chiamava mai per nome.

D: Il tuo quale era?

R: Il mio era “Belzostrelka”

D: Tradotto vuol dire?

R: Vuol dire “Mitragliatrice”. E’ stata fatta una mostra a Villa Manin con dei ritratti enormi, ve la farò vedere dopo!

D: Sono venuti quella notte, quella mattina prestissimo, le SS che erano stanziate qui a Gorizia e ti hanno detto di seguirle e ti hanno portato dove?

R: Mi hanno portato dietro la Chiesa, lì vi è una piazza e ci hanno messo uno distante dagli altri in modo di non poter parlare, vi erano dei soldati, delle SS che ci guardavano. Nel frattempo sono andati a prendere altra gente e quando hanno preso tutti quelli che erano nella lista, è stata fatta una spiata, hanno preso me, mio zio e altri di Sant’Andrea. Ci hanno portato in via Barzellini, in carcere.

D: In quell’arresto vi era anche Elvira?

R: No!

D: Ti hanno portato in carcere?

R: Lì sono stata per due mesi.

D: Ti hanno interrogata?

R: Mi hanno interrogata, ho sempre negato tutto perché alla mia amica hanno trovato un tappo con il simbolo della stella rossa che serviva da timbro, alla sera invece di portarlo via dove doveva portarlo lo ha messo nel cassetto del comò e lì è stata la sua condanna. Poi sono stati portati in Germania gli altri che erano arrestati con me. Sono stata l’unica ad uscire, in carcere ho conosciuto anche un signore che era amico di mio padre, erano della Pro Gorizia e quando mi ha visto ha chiesto: “Che cosa fai qui?”, ho risposto: “Non so”. Anche a lui non ho detto la verità perché non sapevo e questo signore ha fatto tanto, tramite un avvocato, e sono uscita dopo due mesi di carcere. Il 13 giugno il trasporto è partito per la Germania portando mio zio, questa mia amica e altri. I miei sedici anni li ho compiuti in carcere e poi sono uscita, sono stata ferma poco tempo perché mi hanno detto: “E’ meglio se stai ferma, non venire agli appuntamenti”. Si sapeva dove, anche se hanno cambiato tutti i posti di incontro, ci incontravamo anche lungo l’Isonzo dove vi erano boschi, caverne.

Il periodo dal giugno del 1944 fino a settembre 1944 avevano bisogno di me per portare certe cose nei paesi vicini, a Ranziano… quando arrivavo a Biglie vi era la staffetta che aspettava, se dovevo attraversare il Vipacco me lo facevano attraversare con una barca, per non andare sul ponte perché era pericoloso. Capitava qualche volta che bisognava correre sempre in bicicletta ma devo premettere che andavo molto fuori anche perché mio padre faceva il commerciante di frutta e verdura e abbiamo continuato questa attività, poi si è formato un gruppo ma mia sorella e mia zia lavoravano ancora e io anche ho continuato a fare queste cose.

Avevo un lasciapassare tedesco, avevo due lasciapassare, i partigiani sapevano che avevo quello tedesco e quello partigiano. Sapevo la parola d’ordine e ci portavano oltre il Vipacco per andare a Ranziano dove si dovevano portare queste cose ma solo biglietti, per la merce vi erano dei posti di riferimento dove portavano tutte queste cose. Un giorno mi vengono a dire che dovevo andare ad un appuntamento per ritirare dei medicinali e questo alla fine del 1944, sarà stato fine novembre, ho detto: “Va bene, dove devo andare?”, mi hanno risposto: “Devi andare ai giardini, lì ti avvicinerà un signore e ti darà dei medicinali, lui sa chi sei”. Troppe domande non si potevano fare, qualche volta meno si sapeva meglio era. Vado ai giardini ma non trovo nessuno, torno a casa e contatto questo signore avvisando che non c’era nessuno, “Ci sarà stato qualche disguido, vedremo”. Dopo pochi giorni viene questa persona e mi dice “Ora puoi andare”. Era dicembre, verso la fine. Vado per prendere questi medicinali e di nuovo non trovo nessuno e poi viene di nuovo questa persona per dirmi che sarebbe stato meglio che io fossi andata via perché lì non ero più sicura perché questa cosa era un po’ strana, “Fammi passare il Natale a casa poi vengo”. “D’accordo passa Natale e Capodanno ma dovresti andare…” “Va bene, vado”, dovevo prendere dei medicinali anche per mia nonna che aveva settanta anni. Vado e aspetto e cammino e arriva l’allarme, prendo subito l’autobus per andare verso casa senza aver trovato niente. Quando arrivo alla Stazione Centrale di Gorizia scendo dall’autobus perché non arrivava a Sant’Andrea e vado verso casa.

C’è un ponte dove passa la ferrovia, vengo giù per la scaletta, oltrepasso il ponte, guardo verso la città e vedo un gruppo di giovani che quasi conoscevo. Nel frattempo l’allarme era cessato, vado verso Sant’Andrea, vedo da via Fatebenefratelli, Sant’Andrea e la via Barca altri gruppi di ragazzi. Vado verso Sant’Andrea: questi vengono verso di me tutti in borghese, e mi chiedono se sono Vilma Braini, “Sì” ho risposto e mi hanno detto di seguirli.

Io in mezzo e loro una quindicina tutti intorno attraverso tutto il corso di Gorizia fino a via Barzellini e chi passava mi ha visto. Non salutavo nessuno, nel momento in cui ti trovavi in difficoltà era meglio non conoscere nessuno perché non si sapeva quello che poteva succedere.

Mi portano in via Panzeriti di nuovo e lì aspetto dopo Capodanno e mi vengono a chiamare per l’interrogatorio. Mi hanno detto che collaboravo con i partigiani e che ero andata in cerca di medicinali; ho detto che li cercavo per mia nonna, il tedesco ha cominciato ad urlare, gli interrogatori li facevano tutti in tedesco con l’interprete, qualche tedesco sapeva anche l’italiano, ho detto di no che non era vero. Mi hanno portato in carcere …

D: L’interrogatorio dove lo facevano?

R: La prima volta in via Bagni, erano le SS in via Bagni nella Villa Marpurgo, la seconda volta in via Crispi dove c’era la SD, un altro gruppo di SS. Vi era un ufficio collocamento e c’erano lì le SD, l’interrogatorio lo facevano sempre i tedeschi.

Ho detto di no, questo tedesco ha incominciato ad urlare e a dire di tutto, non le ho prese, era solo infuriato e cattivo. Mi hanno mandato di nuovo in carcere ma mi hanno portato in cantina dove c’era una cameretta con una tavolata e un bussolotto in un angolo e sono stata lì per tre giorni e tre notti.

D: Sola?

R: Sì, sola!

D: A sedici anni?

R: Sì, a sedici anni. Ogni giorni veniva la Madre Superiora perché nelle carceri femminili c’erano le suore. Veniva a trovarmi la Madre Superiora, entrava … c’era la guardia che apriva la porta … lei entrava. Le suore una volta avevano le maniche larghe; sfilava una mano e me la porgeva, solo con gli occhi mi faceva cenno di prendere quello che aveva in mano, una caramella o uno zucchero, senza carta, senza niente, io lo prelevavo e lo mettevo in bocca.

D: Ti ricordi il nome? Era Suor Pierina?

R: No, quella per me era la suora più in gamba di tutte e poi vi era un’altra suora buona, Anna, una cuoca.

D: A volte ti dava uno zuccherino senza dire niente?

R: A volte una caramella, solo mi chiedeva come stavo e mi diceva di pregare. Il secondo giorno che ero lì verso l’imbrunire, saranno state le quattro o le cinque, sento chiamare il mio nome, mi guardo in giro, in quella cantina vi erano quelle finestrelle che davano sul cortile dei condannati a morte, non so dirti chi era ma vedo che stava facendo qualche cosa e vedo delle ombre, alza la rete di questa finestrella e mi getta qualche cosa e dice: “Metti subito in bocca e vai sotto il tavolaccio, tocca, vedrai che si sposta il mattone, leva quel mattone e metti quella cartina lì”, così ho fatto. Ti aiutava a vivere, la solidarietà che c’è in quei momenti non si può descrivere.

D: C’erano cose da mangiare?

R: Sì, zuccherini, caramelle, qualche cosa c’era, questo per tre giorni e tre notti. Il terzo giorno sono venuti a prendermi ma avevo la bocca tutta arsa, non riuscivo più a parlare, mi si è gonfiata anche la lingua.

Mi hanno portato alla SD, ho atteso. Nel frattempo che aspettavo in corridoio è venuto un gruppo di donne, c’erano una mamma e una figlia con una borsa, ero seduta e questa mamma mi guardava, apre la borsa, prende un pezzettino di pane, chiede se può andare in bagno e torna con il pane tutto bagnato e mi dice: “Metti questo pane in bocca e non inghiottirlo”. Queste donne erano di Aidussina, era gente che avrà provato chissà quante cose brutte nella loro vita e mi ha alleviato l’arsura della bocca, della lingua, non riuscivo nemmeno a parlare.

Quando mi hanno portato dalle SS per interrogarmi hanno visto che non potevo parlare e hanno cominciato ad urlare e il cane ad abbaiare, avevano sempre il cane vicino, ad imprecare. Mi hanno tenuto ancora un po’ poi mi hanno riportato in carcere.

Quando arrivo in carcere trovo delle ragazze di Sant’Andrea. Anche se avevo i nomi illegali di tutte le ragazze ho solo guardato, ho fatto finta di non conoscere nessuno e sono andata nel mio angolo e lì sono rimasta senza dire niente.

Passa un giorno, passano due, ero sempre appartata, non volevo parlare con nessuno. Viene vicino a me una signora di Sant’Andrea e mi dice “Vilma, perché sei così?” “Ti prego non venirmi vicina”. “Non ti preoccupare, hanno ucciso un tedesco a Sant’Andrea e c’è stato un rastrellamento“. E’ stata come una libertà perché pensi sempre al peggio. Sentire queste cose anche se erano brutte, hanno rastrellato tanta gente, tanti giovani, poi mi ha raccontato la faccenda e ho detto “Sapete che non sono così ma purtroppo devo fare così” e poi ho raccontato qualche cosa e basta. C’era anche l’Elvira …

D: Avevano portato in piazza anche loro?

R: No, questo è il secondo arresto, questo era il rastrellamento, non so come sono state arrestate perché chi è andato a lavorare quel giorno, verso la fine di gennaio, li hanno lasciati ma chi non è andato a lavorare li hanno portati tutti via.

D: E lì hai incontrato l’Elvira!

R: Elvira la conoscevo già prima, ho incontrato in carcere l’Elvira che era amica di mia sorella, ci conoscevamo bene. Nella cella, quando sono tornata, ho trovato anche mamma e figlia e mi è rimasto in mente, non so se era il suo vero nome, si chiamava Diana Varallo. Nel frattempo hanno organizzato un trasporto per la Germania ma non ero inclusa io né Elvira ma quelle che era là prima di noi, ecco perché le celle erano piene. Giornalmente arrivavano donne, ragazzi, uomini ma loro erano sotto, noi eravamo all’ultimo piano.

Il tempo si è poi normalizzato, non venivano a cercarmi, tutti erano d’accordo che andava a lavorare in Germania. Venivano delle notizie in carcere, chi andava a fare le pulizie nei comandi delle SS sentiva qualche cosa poi ci raccontava, la guerra andava verso la fine, ma il 24 febbraio non mi hanno più interrogato, e ho saputo poi che è stato mandato via quel comandante, qualche cosa è successo per cui non sono stata più interrogata.

Il 24 febbraio era l’ultimo trasporto da Gorizia, Trieste, Pola, ma non più in treno da Gorizia bensì con i camion e le corriere e ci hanno portato fino a Pontebba.

D: Durante il trasferimento chi faceva la guardia? Erano germanici o anche italiani?

R: Anche italiani, gente che si conosceva. Uno mi guardava perché lo conoscevo bene, lo guardavo non di buon occhio ed era quasi triste. E’ venuto vicino perché durante il viaggio da Gorizia a Pontebba ci si doveva fermare perché vi erano i bombardamenti. In uno di questi posti, nei boschi, ci hanno fatto fermare per andare dove si doveva andare, questo ragazzo è venuto vicino a me e mi ha detto “Se scappi ti cercherò”. Io l’ho guardato così, è stato un attimo, “Se scappo mi spara” ho pensato, invece, forse lo avrà fatto veramente per aiutarmi, non ho mai saputo niente di lui.

D: Prima di ritornare al trasporto ci racconti di Suor Pierina?

R: Suor Pierina era tutto fare nel carcere, anche se c’era la superiora che non ricordo come si chiama. Suor Pierina mi chiamava quando c’era da portare il caffè ai minorenni, l’aiutavo; facevamo il giro del carcere delle donne. Mi trattava con autorità ma il suo cuore era buono, era autoritaria, imponente ma era buona d’animo, generosa. Facevo il giro con lei, in carcere ha avuto anche qualche amore.

D: Ti coccolava un po’?

R: Sì, ma anche lei aveva una simpatia per un uomo.

D: Ti ha fatto anche un po’ da mamma!

R: Sì, era una cosa inverosimile perché lei c’era e non c’era, vi era un corridoio enorme, con le celle di quelle che non dovevano parlare con nessuno e quando si portava a questa persona il pranzo, la portella si apriva e davi …

D: Nei confronti dei germanici come era Suor Pierina?

R: Per lei non c’era differenza, non si sottometteva, non so poi che fine ha fatto perché tornando dalla Germania non so se c’era ancora, non saprei dire!

D: Era lei che comunicava la lista dei Transport?

R: Sì!

D: Quando siete partiti il 24 quanti eravate?

R: Duecento, duecentocinquanta, non saprei dire esattamente. Io ero sulla corriera di allora, ma la maggior parte degli uomini erano sui camion.

D: Arrivati a Pontebba che cosa è successo?

R: E’ successo che nelle stazioni vi erano questi vagoni merci aperti e lì dentro, dentro, dentro. Se ci fosse stato un fiammifero o uno stuzzicadenti non ci stava.

D: Poi hanno chiuso il Transport … Vi avevano dato delle cose da mangiare o da bere?

R: Quello che avevamo portato da casa perché tutti i genitori hanno cercato di portare il massimo, lo zaino con pane, burro fuso nei vasetti, tutte quelle cose.

D: Perché tutti eravate convinti di andare in Germania!

R: In Germania a lavorare!

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Tanto, non c’era mai fine, siamo arrivati fino a Monaco, poi gli uomini li hanno distaccati e poi hanno agganciato un treno di cose per militari, ricordo dei vagoni, c’erano anche dei camion sui treni. Andavamo verso Berlino verso il fronte, non sapevamo esattamente ma era così.

D: Non vi hanno mai fatto scendere dal treno?

R: Nei boschi, ci hanno fatto scendere, andavamo a fare i bisogni poi si mangiava la neve bella fresca.

D: Avevi diciassette anni, c’erano persone più anziane?

R: Tante persone anziane.

D: Sia italiane che slovene?

R: Poche italiane, la maggior parte slovene; escluse l’Elvira tutte le altre erano dei paesi vicini.

D: Finalmente arrivate ad una stazione dove vi fanno scendere.

R: Ci fanno scendere e ci fanno avviare verso questo Lager. C’era un lago da una parte, cammini, guardi e non capisci che cosa è, si spalancano queste porte con tante urla e ci mandano nelle baracche con tutta la nostra roba e lì siamo stati due giorni e una notte.

D: Il Lager era quello di…

R: Ravensbrück . Quando passavamo oltre la rete vi erano delle deportate vestite così, noi le guardavamo e ci chiedevano di dove eravamo, noi rispondevamo che eravamo italiane, slovene, dicevamo sempre di essere italiane ancora quella volta. “Ma di dove siete, Gorizia, Trieste, Postumia? Se avete da mangiare vi preghiamo, dateci qualche cosa perché vi toglieranno tutto!”

Noi ci guardavamo e dicevamo: “Come ci toglieranno tutto, perché?”

Qualche piccola cosa l’avevamo. Poi ci dicevano: “Non vi avvicinate alla rete perché la rete è tutta elettricizzata”. Qualche cosa abbiamo dato ma poco perché diventi cattiva, egoista, e siamo state lì per due giorni. Il secondo giorno ci hanno di nuovo messe in colonna e fatte ripartire.

D: Quando siete arrivate a Ravensbrück non vi hanno fatto la spoliazione?

R: Niente, noi avevamo tutto, siamo partite da Ravensbrück di nuovo e siamo andate verso Bergen Belsen.

D: A Ravensbrück non vi hanno fatto nulla?

R: Nulla!

D: Vi hanno lasciate in una baracca?

R: Sì!

D: Tutte del vostro trasporto?

R: Sì! Tutte donne perché Ravensbrück è un campo di concentramento di donne.

D: Lì non vi hanno fatto niente?

R: Niente!

D: Dopo due giorni vi hanno rimesso in colonna ancora in treno?

R: Ancora in treno sui vagoni e ci hanno portate a Bergen Belsen!

D: Come ti ricordi l’ingresso a Bergen Belsen?

R: Non so come descrivere. Tu camminavi per entrare in questo Lager e vi era come una polvere, qualche cosa che si muoveva, non capivi che terreno era, non c’era nemmeno la neve, ma non capivi che cosa erano… Ci hanno portati fino in fondo al Lager dove c’erano queste baracche, ci hanno portati in una baracca dove ci hanno detto di lasciare le nostre cose bene ordinate, piegate su delle panche, le scarpe con i lacci allacciati e ci hanno detto: “Andrete a fare la doccia e all’uscita troverete tutte le vostre cose che avete lasciato”. Questo è stato detto in tedesco, polacco, la maggior pare erano polacche quelle che ci bastonavano e imprecavano, le Kapò.

D: Arrivate a Bergen Belsen vi fanno lasciare lì tutto, la doccia, e la Veronesi era con te?

R: La Veronesi era con me, sempre con me.

Lì ci hanno fatto le procedure di ingresso, la spoliazione, le docce, uscite fuori dalla doccia all’aperto, era fine febbraio, primi di marzo, entrate in un’altra baracca dove come entravi ti consegnavano e non capivi che cosa era, vestiti sporchi, laceri, non erano i tuoi vestiti e ti sei vestita come potevi. Io avevo un vestito celeste di lana, tutto liso, un cappuccio arancione e un cappotto che non era verde, grigio… Non avevamo le casacche zebrate ma i vestiti che hanno trovato, sulla schiena la stoffa zebrata e il triangolo rosso scritto in italiano. Ci siamo vestite ma siamo rimaste scalze perché le scarpe non c’erano. Uscite da questa baracca c’era il nostro mucchio di scarpe, pazzesco, come poter trovare un paio di scarpe che ti andassero bene. Vedo i miei scarponi e più giudizio che fortuna vedo questi scarponi e me li metto, li ho avuti per tutto il tempo …

D: Senza calze!

R: Stracci, come si poteva, poi ci hanno dato una Miska con un cucchiaio e hanno detto che quello era per il cibo. Se lo perdevi … ci hanno mandati poi nelle baracche. Cercavamo di stare più unite, eravamo tutte di queste parti, ci conoscevamo, tutte slovene, e siamo state più insieme possibile, siamo entrate in questa baracca dove c’era altra gente, ucraine, francesi …

D: Accennavi prima al triangolo, ma oltre al triangolo ti hanno dato anche un numero?

R: Quella era una tragedia nel senso che quando ci hanno dato il numero ti hanno fatto capire che si doveva impararlo a memoria ma non in sloveno o in italiano ma dovevi impararlo a memoria in tedesco. Quelle che c’erano già ci hanno aiutato a impararlo a memoria, non lo puoi dimenticare né in sloveno, né in italiano né in tedesco. Il mio numero è 36.848, dove vado lo dico in tutte e tre le lingue … è bello così!

D: Perché è giusto … anche voi avete subito la depilazione?

R: No, noi non abbiamo subito né depilazione né altro perché non c’era tempo, non c’erano i mezzi, c’era tanta gente… a Bergen Belsen c’erano tante donne.

D: Nel blocco più o meno in quante eravate?

R: Tanti, tanti, era enorme … per terra non più sulla paglia ma sulla polvere, ormai era quello che era e si dormiva per terra.

D: Siete entrate in una baracca dove c’erano già altre deportate? Vi hanno accolte bene?

R: Non c’era un saluto, ognuno faceva quello che poteva fare. Il grande lavoro era pulirsi i pidocchi, cercare di eliminarli. Ci si aiutava l’una con l’altra sulla testa perché non potevi farlo da sola, ma i vestiti, era indescrivibile come da un giorno all’altro ci si trovava addosso tutti questi pidocchi che ti succhiavano il sangue.

D: Con le russe come è andata?

R: Con le ucraine non avevamo problemi, con le polacche sì. C’erano tante ucraine ma non tante nel blocco. La maggior parte erano polacche e quelle caso mai se potevano te le davano, se non stavi in riga, se volevi uscire, ti guardavano ore e ore ad aspettare le SS che ti controllavano e ti dicevano: “Queste sono tante, 10 morte e 10 vive”. Erano davanti alle baracche perché doveva passare prima la SS, poi il carro per portare via le morte.

D: Quante volte al giorno all’Appelplatz?

R: Una sempre e durava ore e ore. Se c’era qualche cosa che non andava anche alla sera, o perché era successo qualche cosa nel Lager o per punizione ci mettevano all’appello e lì stavi ore e ore al freddo a calpestare questa terra che non capivi che cosa era. Dopo pochi giorni ci hanno detto: “Questa è la nostra cenere” perché dalla baracca dove eravamo noi poco più lontano vi erano i crematori che fumavano giorno e notte. Poi abbiamo capito, vi era questa brutta terra nera, cenere, e si calpestava, non c’era altro da fare.

D: Che cosa è la “cumba”?

R: “… e noi cantiamo la bella cumba, cumba, cumba”; tutte noi slovene ci mettevamo tutte vicine e si cercava di cantare le canzoni partigiane.

D: La cumba che canzone è?

R: Non è una canzone slovena …

D: Non te la ricordi adesso?

R: No!

D: E’ un canto partigiano?

R: Sì, era serbo …

D: Vi mettevate nel blocco …

R: Sì e cantavamo le nostre canzoni partigiane, cantavamo anche “Mamma” in italiano perché fino a Lubiana tutti si cantava in italiano e le polacche un giorno hanno sentito che cantavamo “Mamma” e ci hanno detto “Italiano … mamma”. Le abbiamo guardate e non sapevamo cosa fare, poi Elvira (che aveva una voce bellissima) ha detto “Ragazze cantiamo, fa bene anche a noi”. Abbiamo cantato “Mamma” e poi ci hanno dato un pezzetto di pane per ciascuna, le polacche, le Blockowe

D: Le Blockowe italiane non le avete viste?

R: No, non posso dirlo …

D: La maggior parte erano polacche …

R: Anche ucraine ma poche, la maggior parte polacche.

D: Al mattino appello lunghissimo …

R: Lunghissimo, ore e ore sull’appello, se avevi bisogno di andare in qualche posto dovevi chiedere il permesso e correre, correre, per arrivare prima che arrivasse la tedesca perché c’era la SS tedesca che veniva a guardare. Una volta non sono riuscita ad andare fino a dove dovevo andare, mi sono fermata dietro a una baracca e c’era la SS lontano che mi vedeva. Sono scappata di nuovo … lei mi ha visto con il cappuccio arancione e non potevo dire che non ero io … non mi hanno bastonato né castigato … solo una volta le ho prese da una Blockowa polacca perché le polacche avevano all’entrata della baracca il loro angolo ed era con dei fusti… Dormivano più in alto di noi, io e l’Elvira abbiamo chiesto se si potesse andare sotto lì, ce ne hanno date tante che metà basta, “Italiani, traditori!” Ci dicevano di tutto, fascisti no ma traditori si. Quelle Blockowe … I politici avevano un rispetto in più perché vi erano tanti altri criminali, c’era di tutto, non nel nostro blocco, nella nostra baracca ma negli altri posti c’era gente, ucraini, tanti rom, ungheresi, quelli erano di una dignità enorme, avevano la loro regina…

D: Cosa ti ricordi dell’alimentazione?

R: Prima non ho finito nel dire che la SS mi ha individuata e sono stata castigata nel senso che quel giorno il pane non mi è stato dato, ma ci davano la pagnotta e doveva essere tagliata in dodici pezzi e quel giorno solo in undici. Chi doveva tagliarla ha fatto lo stesso dodici pezzi così il pezzettino di pane l’ho ricevuto anch’io e le altre una briciola in meno. Qualcuna il pane non se lo mangiava tutto subito e qualche volta qualche briciola scappava ma c’erano tragedie per un pezzettino di pane. Quello che mi davano lo mangiavo subito, non dicevo “Dopo”, tutto subito. Quando c’era la fila per andare a prendere questa minestra ti dovevi mettere subito in fila. Le ucraine, quelle che erano già più anziane andavano sempre per ultime e chi dava la minestra … qualcuno dava l’acqua e le altre avevano la parte più densa, cosa c’era? C’era una brodaglia con bucce di patate con la rapa nella Miska e guai se la perdevi e quando finivi di mangiarla la pulivi e mangiavi con le dita; qualche volta la lavavi e qualche volta no, non c’era il tempo …

D: Al mattino vi davano Caffé Ole?

R: Ci davano un pezzettino di pane… non so se cosa era, qualche cosa ci davano.

D: Poi la zuppa.

R: A mezzogiorno.

D: Alla sera?

R: Basta! Non era proprio mezzogiorno …

D: Anche tra voi donne c’era qualcuno che faceva la conta per dividere la fetta di pane?

R: Si faceva il giro.

D: Questo a chi … questo a chi …

R: No, non c’era più quell’entusiasmo perché eravamo sfinite.

D: Al lavoro non vi hanno mai mandate?

R: Mai mandate! Chi ha lavorato in quel campo ha lavorato per il campo dentro ma per due o tre giorni. Verso la fine il campo si stava evacuando e i magazzini erano pieni di roba nostra e i tedeschi ci hanno fatto fare la colonna da Belsen, dal campo di concentramento fino a Bergen, alla stazione ferroviaria. C’era tutto un giro di prigionieri che portavano la merce alla stazione e lì ne sono morti tanti perché qualcuno non ce l’ha fatta.

D: Quando siete arrivati a Bergen Belsen c’era già il tifo petecchiale?

R: C’era già il tifo petecchiale, c’erano gli ospedali … e chi era dentro raccomandava: “Se vi sentite male, se vi sentite qualche cosa non andate mai, non chiedete, cercate di aiutarvi come potete ma non chiedete di andare in infermeria”.

D: Nessuna di voi ci è andata?

R: No, per fortuna. Se andavi là non ti davano nemmeno quello che ti dovevano dare, restavi lì e basta.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: La liberazione è stata cosa … eri talmente sfinita che non riuscivi nemmeno a pensare e a credere, non c’erano più tedeschi, non c’era più l’appello, ti davano da mangiare qualche cosa, chi c’era, chi non c’era, però ricordo che vi erano degli uomini in civile con la fascia bianca. Ci hanno fatti sgomberare le baracche, hanno fatto delle immense tende e ci hanno portato lì, ero già ammalata e l’Elvira mi curava, se non c’era lei non so se sarei stata qui, questo lei lo sa. Quando mi portava fuori dalla tenda guardavamo in giro e le dicevo “Elvira per cosa serve tutta quella legna, perché non fanno fuoco?” avevo freddo. “Vilma, mi diceva, non è legna, sono cadaveri”. Un giorno si sentono dei camion, dei rumori e c’erano i soldati inglesi ma questi uomini li hanno fermati, non li hanno lasciati entrare perché vi era l’epidemia e non so dopo quanto tempo è arrivata la Croce Rossa, in tuta, maschere antigas, ci spogliavano del tutto, ci mettevano delle coperte da dove veniva fuori la polvere, e ci hanno portati negli ospedali militari di Bergen e lì sono stata tanto tempo, non ricordo nemmeno quanto tempo. Ci hanno curato bene perché tanti sono morti quando è arrivata la Croce Rossa e hanno dato da mangiare le scatolette, il pane. Devo dire che le slovene erano provate e hanno detto: “Non dovete prendere niente”. Le addette di quella baracca andavano a ritirare il mangiare, prendevano le scatolette di carne, una volta vi erano dei limoni di celluloide, il succo di limone. Quelle hanno portato a ceste quelle cose, scatolette di carne, hanno trovato delle pentole, hanno messo questa carne dentro e poi andavano a raccogliere lontano dal Lager delle erbe, le lavavano e cucinavano questa carne con quelle erbe da mangiare liquido, erano delle donne meravigliose, sapevano il fatto loro.

D: Sei rimasta in ospedale fino a quando?

R: Fine maggio perché la prima volta che mi sono alzata, non ricordo quando, sono andata alla toilette da sola, mi sono guardata nei vetri e non mi sono conosciuta perché ero trasformata, magra, avevo la bocca così, le orecchie … guardavo le altre e non erano così … Piano piano siamo rinsavite ma quando ero ancora all’ospedale è venuta una delegazione di partigiani jugoslavi, della Croce Rissa, ed è stato un bene anche per noi, hanno chiesto se c’erano delle slovene croate, ci hanno detto che il 1° maggio i partigiani erano arrivati a Trieste e questo per noi era una cosa meravigliosa, abbiamo lottato per questo, abbiamo vissuto per questo, nel male era bello sentire parlare di queste cose e poi ci hanno detto che chi era guarito dall’epidemia sarebbe stato portato nei paesi vicini. Noi ci hanno portato vicino ad Hannover, in una cittadina nelle scuole, in infermerie dove c’erano quelle che stavano poco peggio e lì siamo stati fino a che non ci hanno fatto partire, sono venuta a casa con le jugoslave. E’ la Croce Rossa jugoslava che ha organizzato tutto …

D: Che percorso hai fatto al ritorno?

R: Tutta la Germania, l’Austria, Lubiana, Postumia e a casa.

D: Quando sei arrivata a casa, mamma …!

R: Vorrei dirti una cosa prima del trasporto. Nel trasporto partito da Gorizia vi erano anche due donne incinta di cui nessuno sapeva, nemmeno nel Lager. Finita la guerra hanno partorito, a Bergen, una bambina e un bambino. Erano in una scatolina, una cosa inverosimile e sono ancora vivi, la ragazza si chiama Mira e il ragazzo Boris.

D: Erano slovene?

R: Sì, uno di Ranziano e uno di San Basso. Una cosa indescrivibile.

D: Quando sei arrivata a casa?

R: Sono arrivata a San Pietro in treno, mia madre era di San Pietro. Sono andata da mio zio, ho lasciato le cose che avevo con me e gli ho chiesto la bicicletta e sono venuta a casa da San Pietro. Qualcuno mi ha visto ed è andato più forte di me e quando sono arrivata vicino alla caserma degli Alpini, una volta vi era la Campagnuzza ora vi è il Villaggio degli Esuli, lì c’era la Campagnuzza dove una volta andavamo a pascolare le capre. Ho incontrato mia nonna con la mia sorellina piccola che aveva due anni, mi sembrava di vedere qualche cosa di bellissimo, mia sorellina bionda bionda e la nonna, poi mi è venuto incontro mio papà, la mamma mi ha aspettato a casa, era una donna riservata …. sono momenti che non si possono descrivere, passano gli anni e non puoi dimenticare.

D: Il Lager è brutto per tutti, gli uomini ma anche per le femminucce, ad esempio, il ciclo mestruale …

R: Niente, cessato completamente dall’oggi domani, ma anche a casa non c’era più niente. Il corpo era tutto una vescica, ci hanno curato, io camminavo così, sulla spina dorsale avevo una crosta.

D: Per una donna soprattutto il ritorno, l’umiliazione del corpo, la violenza ma anche non fisica, ad esempio la spoliazione, non è uno scherzo.

R: Io ero giovane, tante erano giovani, ma quelle madri e quelle nonne che avevano il petto che gli veniva giù, non sapevano come celare… Anche noi, non si sapeva dove mettere le mani, come coprirti, attorno a te vi erano solo uomini, nelle baracche le donne.

D: Questo oltraggio della persona …

R: Il non parlare più per tanti anni, il non accettare questa cosa anche nel senso che tu sei tornata, la mia amica non è tornata. Era quasi una colpa perché anche se non ero con questa mia amica, andavo a trovare la mamma, e non era piacevole.

D: A tua mamma non hai mai raccontato che cosa è stato Bergen Belsen?

R: Ho iniziato a parlare di qualche cosa con mio figlio….

D: Vent’anni dopo? Quindici?

R: Mi sono aperta con i nipoti che sono stati il mio toccasana, sono nipoti meravigliosi, raccontavo a loro queste cose come una storiella, la bambina mi diceva quando aveva cinque o sei anni: “Nonna, ancora, ancora, la tua guerra voglio”. Raccontavo un poco di questo, un poco di quello, un poco di quell’altro, qualche cosa dico anche adesso, ti dirò che con i miei nipoti ero ad Auschwitz, io ero Kiascia e lei era Vilma perché lei mi portava, sono delle esperienze meravigliose. Con il nipote ero a Mauthausen e a Ravensbrück, ho chiesto a mio figlio e alla nuora se potevo chiedere a loro di venire. Mio figlio dice “Che cosa chiedi a me, chiedi a loro”, “Se siete d’accordo, c’è la scuola”, “Chiedi a loro, se vogliono venire”.

D: Quanti anni avevano quando li hai portati?

R: La ragazza quattordici, anche David aveva quindici anni ma la seconda volta ne aveva diciotto.

D: Quando sei ritornata dopo tanti anni a Ravensbrück …

R: Era nel 1985, ero dappertutto con la delegazione jugoslava. La prima volta nel 1985 ero con loro, ci siamo guardate perché vi erano i russi, a Ravensbrück si poteva vedere il lago, i Bunker, i crematori, il grande muro ma nel Lager non potevi entrare perché vi erano i russi e allora ci guardavamo e dicevamo “Dobbiamo entrare”.

Con un gruppo siamo andate davanti a questo protone e ci hanno aperto. Quando ci hanno aperto ci hanno fatto un effetto … non avevamo il coraggio di oltrepassare questo portone, poi ci siamo fermate, abbiamo ringraziato, salutato e siamo andate via, questa la prima volta che ero a Ravensbrück. C’era un incontro internazionale, ci hanno fatto un’accoglienza inverosimile, hanno parlato tutte le delegazioni, la musica. Alla fine di tutto questo sono partiti dei palloncini di tutti i colori, tanti, tanti e una scia di bambini con la camicetta bianca e blu e un fiorellino in mano è venuta verso di noi. Erano tedeschi, non sapevamo cosa fare, eravamo esterrefatte, li abbiamo abbracciati, erano bambini, non avevano colpa ma era dura, tremendo. Con questi gesti ti liberi di qualche cosa …

D: Sempre al ritorno, il sospetto che una donna sia sopravvissuta all’altra, hai avvertito qualche cosa?

R: Il sospetto in che senso?

D: Nel senso soprattutto legato al corpo femminile.

R: Il sospetto no, il corpo femminile no perché non ho subito violenze …

D: La gente di qua quando sei arrivata …

R: Non parlavo, “Sei tornata, stai bene?”mi dicevano nel paese, ma quando andavo in città mi sputavano in faccia. Andavo tutti i giorni in città perché facevamo i commercianti, mio padre era un commerciante, andavo ogni giorno al mercato e i fascisti mi sputavano, mi dicevano “Titina e sciava”, questo per anni.

D: E’ importante che i giovani conoscano queste cose?

R: Sì, io parlo tanto con i giovani, ero con il Treno della Memoria ad Auschwitz. Quest’anno eravamo in treno, l’anno scorso con le corriere e si è parlato tutta la notte, avevi a disposizione tanto tempo, hanno fatto anche un DVD, tutti hanno elaborato queste cose. Era un treno di 700 giovani, da Torino a Bari… poter parlare, poter dire le tue opinioni, rispettare quelle degli altri e anche gli altri rispettano le tue.

Ho parlato con tanta gente, vi era gente che non capiva, io sono sempre stata comunista, da quando ho iniziato, non ho fatto scuole slovene, il pensiero di potermi esprimere liberamente! Abbiamo lottato per questo, per me è un ideale, anche se qualcuno mi dice che è un’utopia spero di mantenere sempre questo mio ideale.

Pahor Boris

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

La testimonianza è stata realizzata con il contributo delle Amministrazioni Comunali di Cassago Brianza, Cremella, Monticello Brianza e Sirtori.

Mi chiamo Boris Pahor, nato a Trieste il 26.8.1913, come cittadino austriaco. Per quanto riguarda il mio arresto dopo l’8 settembre scappo anch’io. Ero interprete presso prigionieri jugoslavi, prima ufficiali poi a Bergamo vi erano quelli francesi; vengo a Trieste con un treno e la faccio franca fino alla stazione centrale di Trieste.

Alla porta vi era un carabiniere, un militare tedesco e si era ingabbiati. Alcuni sono montati su un treno che partiva e abbiamo viaggiato fino a Miramare dove siamo saltati giù dal treno e siamo scappati verso Contovello e Prosecco ed io ero deciso di andare dai partigiani per salvarmi dalla città.

Mia mamma che era di origine contadina è venuta su da Barcola a portarmi stivali da montagna e un sacco da montagna che poteva tenere la pioggia. Intanto che mi preparavo per partire è venuta mia sorella minore insieme con la sorella di Pino Tomasic, quello che era stato fucilato dopo il secondo processo per la difesa dello Stato nel 1941. Mi dicono: “Cosa vai a fare, i partigiani possono fare senza di te, qua a Trieste abbiamo bisogno”.

Mi sono calato giù alla chetichella e dico: “Qua non mi pescano i tedeschi” perché a Trieste conosco tutti i buchi e per un po’ mi sono arrangiato a raccogliere il necessario per i partigiani. Abbiamo fondato un Comitato nel centro della città ed erano di Lubiana i collaboratori, clericali sloveni che combattevano secondo loro l’ateismo comunista. I comunisti erano la parte più combattiva del Movimento di Liberazione Nazionale sloveno, erano insieme con i comunisti cristiani sociali, i liberali di sinistra e la maggior parte della cultura slovena. Invece questi disgraziati (non posso dire altrimenti) sono venuti qui da noi, avevano una caserma al rione San Giovanni e in città avevano un centro di polizia scoperto dopo perché io avevo collaborato con la rivista dei cristiani sociali di Lubiana perché possiamo dire che era la gente di cultura più qualificata. Ho mandato una novella e me l’hanno pubblicata con tutto che il mio sloveno era abbastanza scadente ma si vede che l’hanno corretta e questi hanno pensato: “Siccome questo ha pubblicato dai cristiani sociali certamente è legato con loro”, soprattutto perché tutti i nostri sloveni della regione Venezia Giulia erano capi tutti antifascisti organizzati, dai comunisti fino ai liberali e ai cattolici, si era tutti antifascisti, soprattutto qua, sapevano che dalla parte cattolica, persino i nostri sacerdoti, erano dalla parte antifascista, contro il Vaticano perché ha dovuto obbedire al Duce e la Chiesa ha dovuto pensionare l’Arcivescovo di Gorizia, che era un vescovo fantastico, aveva detto: “Il Vangelo insegna di dare la lingua che parla un popolo, dare anche la maniera di pregare nella propria lingua; mi manterrò a questa norma o se si vuole a questo cristianesimo pratico a costo di perdere la Mitra pastorale” e poi l’ha persa e hanno mandato via anche lui.

Loro sapevano di questo e sono venuti proprio con questa idea di prelevare tutti quelli che potevano diventare membri della lotta di liberazione nazionale, si presentavano come partigiani bisognosi di dormire e accoglievano la gente festosamente. Non si era parlato sloveno per vent’anni, era tutto proibito quello sloveno, a sentire un uomo che parlava sloveno ci cascavano come pere cotte.

Purtroppo, il primo trasporto eravamo in 600. Questa polizia è venuta a casa mia, abitavo in via San Nicolò, n. 13 – IV piano, sono venuti al mattino alle 6,30, il portone a quell’ora era sempre chiuso e si sono arrangiati loro il giorno prima per la chiave. Erano in 4 o cinque, uno era in abiti civili, gli altri avevamo la divisa un po’ differente, avevano qua una specie di tricolore sloveno. Hanno svegliato la famiglia, quello che era peggio in tutta la questione era che uno dei militari, c’era un capitano prigioniero al lago di Garda dove ho fatto l’interprete, era uno sloveno, vi era un tenente colonnello sloveno, un capitano e un altro; uno si è rifugiato a Trieste e non sapeva se andare dai partigiani o no, mia mamma cattolica ha detto “Prendete la camera delle due sorelle”, una andava a dormire nell’altra camera e dormivamo insieme. Ci avevano presi tutte e due. Io avevo una macchina da scrivere e avevo un articolo che avevo preparato contro i nazisti sotto il marmo del tavolino di notte. Ho detto a mia sorella quando mi salutava in anticamera prima di andare via: “Butta via quello che c’è sotto il marmo”. Invece di aspettare che fossimo andati via è andata subito a cercare il marmo e l’hanno pescata, mi hanno fatto tormentare dalla SS. Mi hanno portato prima in un loro ufficio in centro e mi hanno dato un po’ di colpi con dei cinturoni che avevano, dicevano che mi avrebbero fucilato. Dopo è venuto uno che doveva avere un’autorità superiore, un giovane e dice “Mandiamolo a marcire”, parlava sloveno ….

D: Professore, questo quando è avvenuto?

R: E’ avvenuto il 21 gennaio 1944. Lì sono stato una giornata io e questo disgraziato di capitano, era simpatico, abbiamo fatto un mese e mezzo di prigione insieme. La sera mi hanno consegnato in prigione, ormai avevano fatto il loro dovere e sono stato in cameroni dove c’era posto per quattro persone, eravamo in 32! Le pescavano sul Carso queste persone… Dopo quattro o cinque giorni mi chiamano perché ero già preparato, certi avevano le facce tumefatte, già provate, c’era un comunista, gli avevano fatto delle cose con l’elettricità. Alla radio aveva parlato anche dei sindacati, di come sono ben organizzati, ha ceduto, io avevo paura siccome come costituzione non sono forte, avevo paura di essere tormentato.

Al primo piano di questo palazzo che adesso stanno rifacendo, c’erano le celle, avevo in mente che ve ne erano tre, pare che ve ne siano state altre, o le hanno messe dopo. Io ero colpevole di non essermi presentato perché ero sottufficiale interprete, quando avevano bisogno di questo interprete volevano un ufficiale, il mio reggimento era Cremona, avevo fatto un anno di Libia prima, ho detto “Non sono ufficiale ma la lingua croata la so”, quindi, il mio colonnello mi ha fatto prima caporale poi voleva avere un sergente e quando sono venuto a Trieste ero un sergente, avrei dovuto presentarmi al comando. Ero due volte colpevole, la prima per non essermi presentato, la seconda era che trovandomi con la macchina da scrivere e quel mio articolo ero un antinazista; lui si è fermato soprattutto sul punto della macchina da scrivere più che sul fatto che non mi sono presentato al comando militare.

Vi era la questione della macchina da scrivere che, per fortuna, me l’avevano cambiata alcuni giorni prima. Avevo una macchina molto in gamba, questi nostri uffici avevano bisogno di macchine che facevano copie e me l’hanno tolta dicendo “La sua macchina è troppo bella, gliene diamo un’altra”, per fare le copie ci mettevano dentro tre, quattro carte carbone.

Alla SS dico: “Questo me lo hanno dato perché dal momento che non avevamo la possibilità di studiare lo sloveno, come studente universitario mi hanno detto di correggere la lingua, non è battuto sulla macchina che hanno trovato da me” e là si capisce, ci hanno giocato su abbastanza tempo, poi mi hanno legato a una sedia con un pezzo di manico di scopa tra le gambe in maniera che ero con la testa in giù e le gambe in aria, uno da una parte e uno dall’altra e davano dei colpi; ero come una zebra quando sono tornato in prigione, ero ben conciato.

Volevo dire che lui ha cominciato il discorso dicendo “Noi abbiamo avuto tante occasioni in Europa di parlare con gli intellettuali e ci siamo sempre trovati d’accordo su come poter lavorare insieme”. Tra di me pensavo: “L’avete fatto ma la conseguenza sarà che ne prenderò di santa ragione” e ho resistito, “Se non comincia con l’elettricità spero di farla franca”. Chi ha dato il testo da correggere non mi ha detto chi era, mi ha incontrato al caffé e per essere legali non si dice nome e cognome. Mi arrangiavo con il tedesco perché avevo fatto il seminario cinque anni, avevo sempre insufficiente in tedesco non perché non fossi capace di impararlo ma perché non lo sopportavo dal momento che i nostri vecchi non parlavano dell’Austria a cui si era soggetti. Mi è servito in campo di concentramento il tedesco come mi è servito il francese che ho fatto a Padova. Mentre ero interprete sul Lago di Garda andavo a fare degli esami con il permesso del colonnello, se non mi arrestavano quei disgraziati di collaboratori finivo a Trieste, mi laureavo e volevo andare a fare il partigiano con un attestato di studio perché dicevano che i partigiani erano una raccolta di gente che non faceva niente, erano non mezzi delinquenti ma fannulloni, la gente che non voleva essere del Movimento di Liberazione Nazionale aveva una brutta concezione di questi che si raccoglievano nei boschi, dicevano: “Che razza di esercito è questo?”, conoscevano qualcuno che non aveva mai fatto niente di interessante e che andava a fare il partigiano. Non volevo essere uno studente che non ha finito i propri studi ma volevo finirli.

Mi hanno chiuso durante una notte in un armadio a muro. Da noi abbiamo nelle vecchie case questi armadi a muro, non potevo stare né in piedi né mettermi giù, dovevo stare accucciato. Quella paura dell’ambiente chiuso l’ho sempre avuta, anche andare sotto terra con le miniere, quello è stato il peggio che ho sofferto. Il giorno dopo si è messo a dettare tutto quello che avevo detto e credo che sia stato l’unico caso. C’era tanta gente che se voleva fare a tutti una cosa simile c’era da battere a macchina moltissimo, invece si vede che voleva dimostrarmi una specie di legalità e ha battuta a macchina dicendo “Ha collaborato con i comunisti”, “No, dico, con il Movimento di Liberazione Nazionale”, ha corretto e mi ha fatto firmare.

Ho capito dopo che se avessero pescato uno che era con me, se avesse fatto il mio nome sarebbero stati capaci di farmi impiccare perché tante volte avveniva questo, lo racconto anche nel mio libro, una volta tre polacchi hanno fatto così. Molte volte ho avuto fortuna!

Ho firmato questo e dopo vi era uno di questi lubianesi che faceva il servizio, e mi dice “Vada via, mandatelo in prigione”. Allora sono andato in Coroneo e sono stato quasi tutto il mese di febbraio, mi pare che sia stato il 26-27 febbraio e abbiamo fatto questa vita di preparazione e per fortuna ci hanno mandato via perché pochi giorni dopo al Conservatorio di Musica triestino li hanno impiccati sulle scale, le finestre in via Ghega … se fossi stato lì sarei finito dentro, anche con la firma che ho fatto non sarebbe servito niente.

A Dachau come tutti i campi appena arrivati vi erano i bagni grandiosi, ci prendano via tutto quello che era peloso cominciando dal pube e sotto le ascelle, i capelli, dopo il bagno c’era la disinfezione come le giumente, con un pennellone che bruciava maledettamente e dopo si era sulla neve. La neve c’era già a Trieste, in carcere si andava a fare le passeggiate sul terreno bagnato dalla neve. Era una spianata dove da una parte si usciva fuori dalla doccia e dall’altra si era in fila per passare davanti ad una baracca dove si dava nome e cognome e ci davano il numero che si sarebbe cucito sulla parte sinistra del petto, il triangolo rosso come prigioniero politico e bisognava dichiarare la professione. Non ero preparato e ho detto “Studente universitario”, ed è la peggiore professione per loro, tutta gente che andava a scavare e a lavorare nella cava; se avessi saputo prima avrei inventato qualche cosa.

Il fatto è che all’uscita della baracca si prendevano un paio di pantaloni, una specie di camicia, roba che come vestizione invernale era una miseria, un paio di zoccoli per camminare sulla neve, era un disastro. Quando siamo partiti da Trieste le nostre mamme ci avevano preparato tutta la lana, cappotto pesante, eccetera, è stata una delusione tremenda.

Davanti a una baracca, eravamo 600, siamo stati fermi non so quante ore prima di farci entrare dove si sarebbe dormito e siamo rimasti lì sei o sette giorni, non so la data giusta, si perde poi la concezione del tempo. Poi ci hanno fatto un altro svestimento e ci hanno mandato in Alsazia, in un paese che si chiamava Markirch che voleva dire Chiesa della Maria, in francese si chiama Saint Marie aux mines, che vuol dire Santa Maria alle miniere.

D: Vi ricordate il vostro numero a Dachau?

R: Dovrei andare a pescare le lettere …. posso trovarlo …

D: A memoria non lo ricordate?

R: Dopo di questo ho avuto quello di Natzweiler, poi quello di Dora, dopo Bergen Belsen.

D: Quando siete partiti da Trieste vi hanno portato dal Coroneo alla stazione?

R: Questa partenza e anche quella dopo la mia, siamo tutti partiti dalla parte commerciale, dove c’è adesso il silos. La prima partenza era uguale a tutte le altre solo che a Trieste vi erano tutti vagoni chiusi, diversi trasporti che ho fatto dopo erano chiusi e aperti, peggio era in quelli aperti, si era esposti al freddo e alla pioggia.

D: Da Dachau a Markirch come vi hanno portato?

R: Come al solito era un treno da carro bestiame e ci hanno scaricato alla stazione, ci hanno portato in un’industria di pellame, era tutto a piano terreno con una specie di tavolato dove correva l’acqua sotto e lì vi erano i soliti letti a tre piani per dormire i castelli, là mi sono ammalato perché dal punto di vista intestinale sono suscettibile e ho subito lo shock perché ci alzavamo alla mattina di buon ora e si andava a fare 3 km da un traforo che era ferroviario, abbandonato, e bisognava trasportare i binari da una parte in modo che poi hanno cementato l’altra parte e hanno fatto la fabbrica di motori per i missili, i “V2”. Bisognava lavorare 12 ore e ritornare a piedi sulla neve in questi stanzoni; non era organizzato come i campi normali, era tutto da costruire e dopo che ci davano quel pasto pomeridiano, un pezzo di pane sempre uguale, una specie di pane come una cartolina illustrata di due dita di altezza, si andava a dormire e dopo un’ora e mezza all’appello perché o mancava o … stanchi di 12 ore di lavoro, dormi un’ora e mezza … è morto uno dei triestini, uno di Padriciano, dopo un mese e a me su quella cassa di morto mi hanno portato a Natzweiler. Mi sono buttato per terra, il pane non lo mangiavo, il comandante mi ha dato alcune pedate e mi ha messo su questo camion che partiva, erano 50 km. Da Strasburgo e da questa specie di campo, abbiamo fatto tutte quelle salite, avevo 38 gradi di febbre. Il capo del quale dopo sono diventato interprete, mi ha dato un’aspirina, dopo due o tre giorni l’organismo si è rimesso a posto, ho avuto qualche purga, anche adesso porto sempre con me il sale amaro, sono quello dell’intestino difficile, ma là mi hanno messo in una baracca, una manifattura, e si tagliavano dei pezzettini di diverso materiale. Hanno detto che poi mettevano insieme i pezzettini, facevano dei palloni per i bastimenti affinché non battano contro il molo. Stava con me Gabriele Foschiatti di cui parlo, non sapevo che era del Partito d’Azione; mi diceva che dopo la guerra avremmo organizzato il problema delle minoranze; tra di me pensavo “Venire proprio davanti al forno crematorio per fare l’amicizia tra i popoli!”. Tornando ho letto un libro che hanno fatto a Udine proprio dedicato a lui, c’era una specie di organizzazione sulla carta e poi il fantastico è che è il controllo delle minoranze dei diversi stati deve essere fatto in base a un’organizzazione europea, non ciascun stato dà per se stesso e oggi abbiamo il Parlamento Europeo, ma non c’è una legge dove gli Stati siano obbligati ad essere controllati.

D: Come vi ricordate Natzweiler quando siete arrivati?

R: Era terribile perché è fatto a scalinate, quindi come da noi dal mare fino su al paese del Carso. L’avevo confrontato con i nostri vigneti, lì vi erano i vigneti della morte, ogni giorno non si faceva solo la vendemmia dell’estate. Entrando e andando su per le montagne, alla prima entrata che si fa vi è il patibolo di legno, quando abbiamo fatto il primo incontro con quelli che erano gli anziani. Come nelle vite militari, la recluta che viene deve subire da prima gli anziani, poi i caporali, i sergenti; l’unica entrata è per quel camino che vedi laggiù, vi era un forno crematorio alla buona, vi era un camino di latta, ora lì l’hanno fatto in muratura, ma non era un grande campo, un campo di istruzione. Si capisce che stare alle adunate con neve dappertutto, si camminava sulla neve, restare lì due o tre ore era la fine del mondo, quello è l’unico caso dove ho pregato. Adesso sono credente nel senso che mi inchino davanti all’universo, al mistero ma come istituzione no. Invece una volta ero uno studente che aveva fatto il seminario, ho fatto due anni di teologia, è stata una preghiera della paura quindi, la preghiera non dovrebbe essere fatta in base alla paura ma si vede che già il primo uomo una volta con la paura ha creato il mistero della vita.

Specialmente di notte o di sera, solitamente non si facevano gli appelli, ma con il dilungarsi di un appello restavano tutte queste scalinate piene di gente e poi c’erano i fari, ci sono delle foto, c’era un disegnatore francese che ha fatto dei bei disegni su queste notti o serate scure, oppure quando c’erano i nuvoloni che si potevano toccare con la mano, ho descritto un’impiccagione ed era là che sono stato scosso.

Bisogna dire che su sedici blocchi la metà erano già ammalati, impotenti, gente che era in posizione orizzontale, era difficile uscire guariti da quelle baracche. Quel medico francese che è venuto a farci le fasciature perché avevano paura dei pidocchi, quindi, voleva dire tifo e i tedeschi stessi avevano paura, c’era il pericolo che prendevano anche loro.

Mi hanno tagliato un panericcio (in lingua tecnica non ricordo), c’era una specie di marcio che si è formato e un chirurgo belga ha fatto tre tagli ed ero quasi guarito, avevo una fasciatura di carta, non c’erano fasciature in tela, era tutta carta e mi tenevo questo braccio e dico: “Fino a che ho la fasciatura non vado a finire in qualche ….” più in là di mezzo chilometro c’era la cava. Questo medico dice: “Non so cosa fare, questo è guarito” e ho detto: “Non ti interessare, dammi la fasciatura ancora una volta!” Ha visto che mi arrangiavo in francese, “Italiano si vede che in francese te la cavi”, dico: “Me la cavo ma non perché sono italiano, ho fatto l’università, due esami, e poi sono solo cittadino italiano, la nostra regione è slovena”.

Dice “Ci sono tanti russi, polacchi, ciechi”; ha avuto la buona idea di dare il mio nome, l’ufficio che ho avuto non c’era nel regolamento del campo, c’era un interprete che era uno sloveno di Lubiana, faceva per la parte slava, mi hanno fatto da aiuto interprete al medico capo che era un medico in gamba, e bisogna dire che nel campo di Natzweiler e in quello di Buchenwald, c’erano i cosiddetti NN che in tedesco vuol dire “notte” e “nebbia”. Potevano fare di loro quello che volevano, erano destinati alla morte prioritaria, avevano sulla schiena della giacca, o quello che poteva essere una giacca, una N in rosso. Questo valeva per i francesi, per i belgi, gli olandesi e i norvegesi.

D: A Natzweiler vi hanno immatricolato un’altra volta?

R: Sì, sì!

D: La baracca della tessitura dove eravate voi era la numero 6?

R: Doveva essere stata la 8 perché era in alto, o la 8 o la 7, potrei anche sbagliarmi perché tante cose non mi interessavano, tante cose veramente le ho conosciute dopo. Trovandomi nel luogo del bagno c’era per terra uno zingaro, bello, forte, con la bava azzurra, sapevo che in qualche posto lo avevano gasato ma non mi sono mai interessato, pensavo che fosse nel campo invece fuori, lì dove c’è vicino una specie di rifugio, vi è quel casotto che è una specie di bagno.

Mi interessava nominare questo medico, un primario, non sapeva altro che il tedesco, dovevo aiutarlo anche in francese, l’italiano non lo sapeva quasi nessuno; sono stato suo interprete da marzo a settembre, perché la seconda armata francese con gli alleati erano a Belfor che non era lontana e avevano paura che circondassero il campo e tutti quelli che camminavano li hanno fatti marciare giù fino al treno, dopo non so se sono andati a Dachau perché lì non accettavano volentieri gente di cui non avevano bisogno; Dachau era un campo elite per i tedeschi, i primi deportati erano comunisti, socialisti antinazisti. Quelli che invece, erano ammalati, bisognava portarli dalla baracca fino al camion davanti al campo e dopo dal camion giù e caricarli e si capisce che era un trasporto, erano trasporti malvagi per la maniera con cui bisognava arrangiarsi, bisognava portarli a peso d’uomo. Per caso vi erano delle carriole, i russi facevano questi lavori di fatica, messi in carriole attorno al campo che aveva le scalinate in mezzo ma poi tutto in giro vi era la possibilità di andare con i camion e lì si capisce che c’era tanto bisogno di camion che molte volte bisogna aspettarlo.

Arrivati a Dachau di nuovo tutti quanti la doccia, avevano paura che infettassimo il campo, vi era un mucchio di morti davanti alla doccia. Dachau era grande, vi erano stracci, gavette, tutto il possibile e immaginabile, quelle strisce di carta, come racconto nel libro.

Quando si è entrati vi era questa specie di disastro e il disastro era che moltissima gente non poteva stare in piedi ed era ancora viva, doveva stare sdraiata; vi erano questa specie di anziani, molte volte non erano simpatici, non erano tutti politici, erano pezzi di galera che se la prendevano con i prigionieri come volevano. Poi vi erano anche gli anziani veri e propri ma questi non avevano questo lavoro diretto specialmente quando si entrava nel campo, certi sì ma non erano tanto simpatici, specialmente quelli che facevano i barbieri, gridavano, si faceva tutto gridando e poi quando bisognava levare i peli anche se ve ne erano pochi… Siamo finiti in un blocco di quarantena che era speciale perché non avevano più coperte e ci hanno dato dei sacchi: quello non mi andava giù, essere in un sacco non lo sopportavo, soffro di chiusura, non l’ho mai potuto accettare. A Dachau vi erano 3.000 sloveni, era un grande numero per la piccola Slovenia occupata dagli italiani e dai tedeschi, non so se i tedeschi dalla parte tedesca hanno cercato di svaligiare, mandare la gente verso il sud, hanno fatto man bassa per liberarsi della popolazione slovena da parte loro facendoli partire dalla Slovenia. Quelli che hanno il Movimento di Liberazione nazionale finivano nel campo di concentramento. Si vede che vi era qualcuno di questi sloveni del Movimento Cristiano Sociale che collaborava con il Movimento che i cosiddetti collaboratori li mandavano a Dachau senza avere la documentazione che attestasse che erano legati a quel Movimento, come preventiva, era moltissima gente, gente di cultura, vi era un chirurgo sloveno di fama europea, professori universitari. Hanno trovato tra le cartelle anche Boris Pahor e siccome con questo cristiano sociale avevo pubblicato una novella o due hanno visto che ero da salvare, mi hanno tirato fuori dal blocco e mi hanno trovato un posto da infermiere nel blocco della dissenteria, della cacca. Avevo questo polacco che si faceva passare per tedesco che aveva delle maniere abbastanza rudi; questi disgraziati avevano ancora un corpo in forma o normale e facevano tutto lento, non erano più da far lavorare, lo lavavo, e lui voleva una cosa molto più sbrigativa. La prima occasione che c’era me l’ha data Dora: hanno fatto un’organizzazione speciale per fare sabotaggi, vi erano ingegneri russi, francesi insieme con gli ingegneri tedeschi, hanno pescato i missili che non partivano oppure partivano e cadevano giù e quando li riportavano indietro sapevano da che parte era stato fatto il sabotaggio. Ne hanno impiccati una quindicina, hanno fatto una specie di rotaia attraverso il tunnel.

Insieme a questi ingegneri vi erano anche degli amici che facevano gli infermieri, come hanno partecipato quelli dell’infermeria non so, il fatto è che ne hanno scaricati una decina e hanno chiesto a Dachau dieci infermieri. In parte sloveni, poi vi era un croato e siamo partiti con treni normali fino a Dora; ho dormito una notte in prigione perché non sapevano dove mandarmi e poi hanno deciso per Natzweiler che dipendeva da Dora.

D: Prima di arrivare a Dora che cosa è successo a Monaco?

R: A Monaco vi erano i bombardamenti e le distruzioni, li facevano in maniera tremenda. Dalla baracca della quarantena si poteva, se si voleva, andare a fare i volontari a Monaco in città per scaricare il materiale, le macerie. Non avevo nessuna voglia di andare a lavorare e lì qualcuno ha avuto la maniera di mangiare perché dove cadevano le bombe vi era qualche cucinetta e hanno riempito le maniche delle giacche di cibo. Noi abbiamo incontrato la gente quando si andava in stazione e vi era un attacco aereo e ci siamo rifugiati, eravamo insieme con i cittadini impauriti, ci guardavano con una specie di occhiate che non si sapeva se erano di commiserazione o di paura, non erano di astio in quel momento.

In treno eravamo con questa gente, guardati dalle guardie e dopo mi hanno fatto fare servizio di infermiere, era un piccolo campo, tre o quattro blocchi, vi erano tre cambi. Si andava a lavorare in questi tunnel, questi trafori; molte volte mi hanno pregato, specialmente gli olandesi che erano lavativi e non avevano nessuna voglia di andare di notte. Per andare non era così semplice, prima si faceva un pezzo a piedi, dopo un pezzo con il trenino a scartamento ridotto dove vi erano le finestre rotte, faceva freddo, quando si arrivava ad un paesello bisognava salire su quei treni ribaltabili e specialmente per quelli malati arrampicarsi su era un lavoraccio. Non era un viaggio da accettare. Sono andato per liberarmi del campo anche perché dormivo insieme con i malati, mi sono preso la tisi dagli ammalati con cui dormivo e ci sono andato tre volte, erano 20 gradi sotto zero, dove c’era il vestiario ho avuto una specie di giacchettone che mi arrivava fino alle ginocchia ed era abbastanza solido.

Poi mi ricordo un ……. che aveva un paio di mutande lunghe che nessuno aveva e io me le sono cucinate in un vaso, con l’acqua bollente e ho indossato queste mutande lunghe così sotto il mio pantalone normale avevo queste mutande lunghe che era un caso tutto speciale, con 20 gradi sotto zero stavo bene, avevo una specie di riparo.

Questi disgraziati venivano da me, non entravo nel tunnel ma stavo fuori della baracca con due guardie, con gli ammalati. In queste baracche vi erano delle stufe che si facevano scaldare con quei quadratini di mattonelle di materiale pressato; era fuori che si moriva ma dentro vi erano solo malati. Lì ho avuto la fortuna di fare l’infermiere in una maniera, prima di partire dalle baracche, mentre si mettevano in fila, tutti questi ammalati, specialmente quelli che avevano la dissenteria, si lasciavano cadere i pantaloni e mostravano questa specie di … i resti di caffé, non so come si potrebbe dire, che scendevano giù fino alle ginocchia e a quelli si dava un bigliettino per presentarsi in infermeria, quindi, nelle baracche.

Sei o sette di queste cartelle le davo poi c’era qualcuno che aveva la febbre e aveva il termometro; intanto che uno si cavava i pantaloni davo il termometro all’altro, avrò salvato qualche vita ma era l’unica maniera che avevo di fare cosa utile come infermiere perché per tutto il resto avevo del carbone vegetale, una pasta bianca che faceva come una specie di gesso, ma se non c’era liquido caldo tutta quella roba invece di aiutare impasticciava lo stomaco, non faceva cosa utile, tutto il resto erano aspirine, disinfettante per le ferite, alcol. Lì sono stato fino ad aprile, ho avuto una emottisi che mi ha preoccupato molto, vi era un medico francese che faceva passare per medico anche suo fratello che non capiva niente di medicina e non mi piaceva come medico perché sapeva trafficare con il capo medico, era un medico reggimentale, non una SS. Avevo uno sloveno che aveva la febbre alta alla mattina e alla sera no, era un caso di tisi, potevo dargli un po’ di minestra a mezzogiorno invece dice a questo benedetto capitano “Sì, sì lo mandiamo a Dora”, “Ma”, dico in francese “c’è posto qua”, “No, perché là vi è una baracca speciale per ammalati simili”.

Me la sono legata al dito. Questo tipo non mi piaceva ma ho visto la visita che mi ha fatto. Il mio polmone aveva sputato sangue e aveva detto che non ci trovava niente ma credo che lo abbia detto a mio favore perché se avesse detto c’era un inizio di tubercolosi mi avrebbero scaricato. Mi ha mandato a Dora per fare una visita, i raggi che erano un assurdo fantastico con tutta quella gente che moriva e non avevano più posti nei forni crematori, avevano mucchi di cadaveri che ardevano. Sono stato a Dora quella settimana e mezza, ho visto la morte e lì è morto un infermiere sloveno che è venuto dal comando e si è preso il tifo e siccome non sapevamo nemmeno noi infermieri come è toccata a questo nostro amico, abbiamo fatto la proposta al capo che c’era, un olandese, di fare il controllo dei morti, l’autopsia. L’hanno fatta, davanti a questa baracca vi era un mucchio di gente, corpi che ardevano; arrivavano dei trasporti interi dalla parte russa perché liberavano i campi perché non volevano che venissero in mano ai sovietici e venivano dei treni completi di corpi coperti anche di calce, disinfettati, che venivano trasportati su questa specie di collina dove li bruciavano,. Vi erano questi trasporti infiniti e dopo i primi di aprile, avevo avuto dei bombardamenti, siamo stati un certo tempo senza acqua e senza luce, erano chiodi perché questi corpi di dissenteria si lavavano ma senza luce era una cosa …….. era una cosa infernale! E’ venuto poi questo ordine di scaricare il campo e fare il trasporto. Quelli che potevano camminare sono partiti ma siamo rimasti in quattro o cinque infermieri, più di cinque non eravamo. Vi era questo mio amico infermiere di Spalato, speravamo di restare insieme invece ha detto: “Ci fanno fuori tutti, vado a piedi, se c’è da camminare cammino” e si è salvato, l’ho incontrato dopo la guerra e non ha nemmeno voluto salutarmi. Sarà che abbiamo avuto questa specie di disgrazia che i comunisti sloveni dopo che si sono staccati, dopo che Stalin li aveva scacciati dall’Internazionale hanno fatto quel processo alla staliniana per mostrare ai russi che anche loro sono come loro e moltissimi di questi comunisti onestissimi hanno finito la loro vita impiccati e altri hanno fatto undici anni di carcere. Anche gli ex deportati non avevano tanto piacere di essere riconosciuti perché non si sapeva mai se c’era qualche spia che per vendicarsi… I processi erano finiti, io ne ho incontrato uno, un celebre pittore sloveno, incontrato a Lubiana il primo giorno: mi ha dato la mano ed è andato per le sue e questo l’ho scritto anche nel libro.

Io ero attaccato ai miei malati tanto è vero che c’era la sala vicino dove vi erano gli ammalati con le ferite ma c’era mancanza di minerali. Il corpo umano era esposto a ferite flemmoniche, le chiamavano così, che non si trovano oggi negli ospedali, lì invece bisognava incidere, vi era il pus, e poi vi era molto da fasciare.

Intelligentemente abbiamo scaricato tutto quello che abbiamo trovato nell’infermeria delle SS, molti bisturi, alcol, fiale di zucchero … non so come si dice in termine tecnico, lo zucchero della vite, lo zucchero che si mette nelle fiale agli ammalati, la flebo; hanno fatto anche delle pastiglie di questo zucchero, lo comperavo quando andavo in montagna per resistere, c’erano fiale da 10-20 cm e quelle le abbiamo adoperate in qualche caso per fare iniezioni. Il fatto è che abbiamo fatto un viaggio di cinque giorni, credevo fossero tre invece ho trovato in questi giorni la data e non ci siamo fermati dappertutto perché non sapevamo dove scaricare questo materiale, tutta questa gente semimorente, bisognava caricarlo da prima, uno o due ne abbiamo seppelliti, c’era un russo che faceva questo; di solito i russi facevano tutti i lavori di fatica, era gente che lavorava sul serio, non ammettevano un lavativo senza la voglia di lavorare. Ci siamo fermati il giorno dopo, ne abbiamo seppelliti 150, abbiamo lasciato vuoto un vagone, quello vicino alla macchina e poi non ne abbiamo più seppelliti altri. In vagoni aperti siamo arrivati a Bergen Belsen che il campo era pieno zeppo e anche lì ci hanno scaricati davanti a piccole caserme di un piano e hanno fatto delle foto. Ci siamo fermati vicino a un treno con un carico di patate. Uno ha scavalcato due rotaie, è andato fino a quel treno per prendere due patate e le SS hanno sparato e hanno traforato l’avambraccio e a questo polacco ha detto “Per una patata guarda cosa hai fatto”, prima gli ha detto “Stai attento”, poi si vede che è andato a cercarlo, poi ha trovato del nero, ha trovato delle scarpe, e si è unto con quel nero come un giorno di festa ed è andato lungo i vagoni e lo hanno riportato in linea orizzontale, scaricato nel vagone. Questa è una mia idea, è andato a cercarlo, poteva stare zitto, perché finire all’altro mondo due giorni … molti giorni dopo, caso mai sarebbe stato liberato anche lui. Gli infermieri sono stati così intelligenti che tutti questi malati che trovavamo, che potevano camminare li abbiamo aiutati e anche lì c’era poco da fare. Lì ci hanno liberato gli inglesi il 15 o il 16 aprile 1945 e hanno distribuito delle scatole di prosciutto cotto molto ben cotto e molta gente è andata all’altro mondo con quel prosciutto cotto e non c’erano cucine, e abbiamo dovuto impiantarle.

Con due francesi amici dissi: “Guarda che tagliamo la corda”. Non c’era filo spinato, c’erano i primi tentativi di cannibalismo, c’era gente affamata già nel campo mentre noi infermieri eravamo in posizioni migliori perché un po’ ci arrangiavamo. Con il pane che restava, con il pane che si ordinava per il giorno dopo quando il giorno dopo c’erano morti, si facevano piccoli pezzettini, un po’ di minestra in più ma già lavorare dentro era salute, tanta energia guadagnata. In cinque giorni non ho toccato né da mangiare né da bere, non ve ne era per nessuno, immaginate quelli in piedi, non potevano nemmeno accasciarsi perché non c’era posto, già lì vi era un mucchio di gente morta.

Mi hanno detto: “Noi tagliamo la corda se vieni con noi, e dico: “Meno male che me la cavo, che vado verso la Francia” e poi abbiamo fatto autostop con questi camion vuoti che tornavano indietro per prendere altro materiale. Loro due stavano in piedi e salutavano queste truppe che stavano arrivando ed io ero sdraiato in questa coperta sul tavolaccio del camion. Ad un certo punto ci hanno lasciato e siamo andati a piedi di nuovo e abbiamo dormito in un paese, non abbiamo trovato niente di caldo, la gente era scappata perché aveva paura dei militari.

Siamo arrivati alla frontiera olandese e là gli olandesi avevano preparato dei treni speciali di prima classe per quelli che tornavano. Non erano solo dalla parte nostra ma anche dalle altre parti, non solo da Bergen Belsen. Così abbiamo fatto il viaggio attraverso il Belgio fino alla frontiera francese, poi ci siamo fermati a Lille dove vi era il primo luogo dove abbiamo dormito con le lenzuola e con il pacco della Croce Rossa americana e siamo arrivati a Parigi.

A Lille abbiamo fatto questa sosta che era il 2 maggio, vi era il giornale Liberation, vi erano giornali di un formato di un quarto di giornale, Le truppe jugoslave hanno liberato Trieste”, questo lo racconto in un mio libro uscito in Francia, “Primavera difficile”, ho firmato un contratto e dovrebbe essere tradotto anche in italiano; arrivato a Parigi mi sono presentato all’ambasciata jugoslava e pensavo che dal momento che erano là si sarebbe risolto, invece è stata una bidonata perché ho perso tutto quel tempo che sono stato in Francia come jugoslavo, un mucchio di soldi hanno preso quelli che avevano la documentazione di essere stati là un anno e mezzo e io come jugoslavo sono andato fino a Trieste come deportato politico perché mi hanno dato la tessera dei deportati politici francesi e mi hanno curato come se fossi uno di loro, ho combattuto con i militari clandestini di De Gaulle.

Sono stato là fino a quasi a Natale del 1946 e sarei rimasto ancora lì ma siccome avevo una sorella minore che ha preso la tisi anche lei, scendendo dal quarto piano semivestita con il freddo che c’era, il medico disgraziato della mutua le diceva che aveva un’influenza invece di fare subito un controllo e dopo nel 1947 è morta. Sono tornato nel 1946 ed è morta a novembre del 1947.

Un po’ le due sorelle mi hanno fatto il predicozzo, là ho conosciuto un’infermiera e mi sono innamorato, per fortuna sono tornato alla vita mentre vi erano moltissimi deportati che si suicidavano, ogni giorno la radio cercava “Hai conosciuto il numero tale ..? l’hanno visto?” I primi mesi anch’io ero senza voglia, ho comunicato a casa ma non mi interessava tornare, poi a Trieste vi era il pandemonio, vi era il Movimento di Liberazione Nazionale diretto dai comunisti che non voleva avere contatto con i cosiddetti imperialismi e a scapito dell’interesse che avremmo avuto noi di avere come amici il governo militare alleato hanno fatto il contrario ed è stata una balordaggine politica fantastica.

Questa mia vita in Francia è stata molto in gamba perché mi arrangiavo con il francese entrando nel campo, poi un anno sono stato con i francesi e i belgi, ho conosciuto pochissimi sloveni in questi campi dove ho fatto il mio lavoro come infermiere, il francese lo parlavo abbastanza bene là poi ho fatto una specie di Università sdraiato sulla sedie di vimini. Eravamo la maggioranza, si potrebbe dire quasi tutti, ex prigionieri di guerra francesi, vi era poca gente deportata, uno è morto subito i primi mesi che era là, poi ho conosciuto un polacco e c’era poca gente deportata e questi erano simpaticissimi, tutta gente abbastanza anziana richiamata per la Seconda Guerra Mondiale ed erano tisici anche loro e si sputava, vi erano le bacinelle, cartoncini, sacchetti.

In questo mio libro “Primavera difficile” racconto questa specie di incontro e li si prendevano in giro, “Domani ti portano una cassa da morto”, “No, il prossimo sarà per te”, eccetera, ho imparato il francese, quello popolare, non solo quello parigino ma tutte queste specie di espressioni che mi sono servite dopo quando mi hanno pubblicato in Francia e mi hanno accolto come uno di loro perché anche oggi se occorre cambio disco e parlo francese come se parlassi italiano …

D: Lì avete conosciuto il vostro amore!

R: Per conto mio era una specie di ritorno alla vita in una maniera anormale perché questa francesina simpaticissima, intelligente, finita anche lei in un sanatorio che non aveva niente, il padre che non ha voluto che facesse delle scuole e aveva il dono del disegno.

In sanatorio non so quanto tempo è rimasta. Aveva letto tutti i libri che vi erano in biblioteca, si interessava non era costretta, era molto dotata per la letteratura. Un medico che ha scoperto che non aveva più nulla diceva “Cosa fai qua tu, perché non fai l’infermiera?”, l’hanno fatta infermiera ed era bravissima.

D: Non l’avete portata in Italia?

R: Non aveva il coraggio di venire, ha trovato uno abbastanza ricco del paese che le voleva bene, era un suo amico di infanzia e suo padre le diceva: “Qua vi è un partito in gamba, cosa vai a metterti con uno là?”. Il peggio era che gli ufficiali che erano anche loro ammalati avevano raccontato della Jugoslavia quello che avevano conosciuto durante la Prima Guerra Mondiale: “Lì ci sono le capre,le pecore che passano per le strade della città per andare in montagna, cosa vai a finire laggiù?”

Lei era un po’ sbilanciata, poi le ho spiegato che cosa è Trieste in confronto alle pecore, ma la madre che piangeva che voleva avere i nipotini e il padre che è andato a prenderla in sanatorio e l’ha portata a casa per paura che scappasse, ero tormentato, due anni è durata questa cosa e la racconto nel romanzo che si chiama “Nel labirinto”, tradotto in francese, ci sono queste sue lettere, aveva già il passaporto per venire poi è andato tutto fallito. Mi dispiace perché si sarebbe trovata la maniera, io non ho potuto andare a cercarla perché arrivato a Trieste ho dovuto finire la laurea, finire l’Università. L’avrei portata a casa mia come poi ho fatto con mia moglie quando avevo già il servizio come professore ma per impiantarmi e trovare un posto, ci volevano soldi, denaro e non ho fatto bene a portarla a casa mia perché mia madre era molto religiosa, io non ho voluto sposarmi in chiesa, mia mamma ce l’aveva con me e anche con mia moglie che non mi ha fatto fare quello che voleva anche la sua famiglia che era religiosa …. fino a che non mi sono deciso con l’aiuto di mio padre di comperarmi una casetta a Barcolla. I primi tempi ha dovuto andare dai suoi perché quella casetta che c’era ho dovuto distruggerla nella parte superiore ed alzarla, il primo armadio che c’era ha aspettato che fosse fatto il piano per essere coperto; ero non un poveraccio ma in male condizioni economiche per cui non potevo dire: “La vado a prendere e la porto”. Un altro forse avrebbe avuto più coraggio e avrebbe detto: “Trovo qualche casa del Carso, una cameretta per due persone e la impianto lì”, praticamente, è andata a finire male.

D: Professore, ritornando a Natzweiler vi ricordate se c’era una baracca isolata dalle altre perché facevano anche degli esperimenti?

R: Non era una baracca ma una casetta in muratura ….

D: Non la camera a gas, intendo dentro nel campo.

R: Nel campo non c’era questo …

D: Non c’era una baracca recintata?

R: Questo era fuori del campo, poi sono andato a visitare, c’è vicino quello che si chiama Struthof è appunto questo posto perché Natzweiler prende il nome del paese che adesso si chiama Natzweiler. I nomi tedeschi li hanno lasciati, qua non so perché hanno tirato via quella “e”.

Sono stato al corrente degli esperimenti perché vi era non separato dal campo ma dentro, mi sembra fosse stato il quarto blocco. Dirò una corbelleria perché non sono mai stato attento. Hanno voluto tanti russi comunisti, dicevano loro, per fare degli esami e hanno trovato anche dei recipienti, volevano fare esami del cranio per dimostrare che hanno uno sviluppo mentale differente dal normale, non so in che blocco vi erano questi resti ma quello che ho visto che hanno fatto alcuni giorni prima era questo giovane di cui parlo anche nel libro che gli hanno dato una dose minore e che stava sdraiato e quando passavo vicino tirava il fiato come un pesce fuor d’acqua, non poteva né vivere né morire e non so come sia finito perché l’hanno trasportato con il trasporto di Dachau. Vi erano questi istriani-sloveni non so dove li hanno trovati ed erano destinati al gas e li hanno presi come zingari, poi si sono difesi e hanno detto: “Siamo italiani”, “Zingaro o italiano è lo stesso” hanno risposto.

Uno di loro più intelligente che ha capito che andava a finire male ha detto: “Siamo austriaci”, e questo li ha salvati perché intanto prima a calci hanno cercato di farli tacere e poi finalmente uno ha insistito e diceva che sapeva parlare il tedesco in maniera austriaca, era un tedesco di seconda mano e questo è bastato.

Hanno chiamato un interprete sloveno, non hanno chiamato me perché avrei detto subito che ero dell’Istria. In diversi casi ce l’avevano con gli italiani, come i tedeschi stessi perché nel 1915 avevano lasciato la triplice per andare dagli alleati che offrivano di più e gli alleati volevano prendere un pezzo della Slovenia, l’Istria e gli alleati si interessavano poco di queste regioni e hanno detto: “Dopo la guerra vi diamo questo” …. fatto sta che questo lubianese è arrivato a capire che in sloveno hanno spiegato “Siamo stati soldati austriaci” e allora li hanno cacciati in blocco ma è un po’ strano perché di solito gli zingari li avevano sotto il titolo di zingari, non so perché hanno trovato fuori questi istriani ma si sono salvati.

D: Donne a Natzweiler c’erano?

R: Non ne ho mai vista una, le uniche donne che sono venute e hanno finito i loro giorni a Natzweiler sono quelle che erano in un altro campo e che pare facevano parte dei partigiani o le hanno prese perchè aiutavano i partigiani come hanno fatto gli italiani con Arbe, quelli che erano finiti malamente, paesi interi in questo campo della Dalmazia e potevano anche essere presi come aiuto partigiano, non ricordo il numero giusto ma forse una cinquantina di persone, li hanno portati in campo e mi pare ci fosse anche un prete con loro, a Natzweiler li hanno messi tutti nel blocco della prigione …

D: Nel Bunker

R: Dicevamo Bunker, c’erano delle celle dove non si poteva né alzarsi né sedersi, i medici di notte hanno controllato. Uno a uno dal Bunker attraverso la terrazza un colpo alla nuca, non c’era la possibilità di impiccare, hanno sparato e dopo vi era la seconda, la terza, a uno a uno, e vi era l’unico caso dove vi erano delle giovani che nessuno ha pianto, sapevano dove andavano, non c’era altra maniera di uscire dal campo la notte.

D: Professore, è importante che i giovani di oggi conoscano la storia della deportazione?

R. Ho sempre sottolineato dove mi hanno fatto parlare del mio vissuto che eravamo nei campi dei deportati politici, quindi noi eravamo antinazisti per cui non abbiamo niente a che fare con i campi dove sono finiti gli ebrei, quelli che rimanevano in vita dopo tutti quelli che morivano con il gas. Certi sono rimasti, potevano servire specialmente ingegneri per opere, come Primo Levi, hanno fatto una vita di campo simile al nostro solo che lì non avevano interesse di farli morire presto perché volevano servirsi di loro come al campo di Dora per i missili. Lavoravano ma siccome lavoravano all’interno, il cibo anche scarso, la gente serviva fino a che dopo se facevano sabotaggi finivano anche loro impiccati.

Bisognava sottolineare che vi erano questi campi cominciando da Dachau, Buchenwald, Dora che erano insieme con tutte le dipendenze. Se si pensa che Natzwelier dipendeva da Dachau immaginarsi tutto quell’arcipelago di dipendenze. Ad esempio, Dora era una dipendenza di Buchenwald, che poi aveva alle proprie dipendenze che non si sa quanti campi.

Hanno costruito vicino al campo un centro che chiamano Centro Europeo del Resistente Deportato e questo vale per tutta Europa e si conosce anche questo anche se i francesi non hanno fatto tanta propaganda e molte volte ho scritto di questo. In Francia mi hanno detto il bollettino dei deportati dove pubblicavo molte volte che erano deportati di Dora-Mittelbau, e dicevano “Caro Pahor, caro Boris, questa tua discussione che fai sui campi è una specie di antisemitismo”. Dico: “Dove antisemitismo se parlo parallelamente della gente che è andata all’altro mondo, diventata cenere come gli altri .. il problema ebraico e io sono antisemita?” “Guarda che queste cose come le impianti tu…!” “Come le impianto io, siamo o non siamo stati antinazisti, siamo o non siamo stati in questi campi dove si moriva di malattie. Oltre agli impiccati, abbiamo il diritto o no?”

Bisogna far conoscere, non siamo niente, non avevamo niente a che fare con la gente che è finita con l’olocausto, non c’era niente di olocausto da parte nostra, eravamo semplicemente destinati a morire perché antinazisti e quelli che siamo stati con i francesi, belgi, olandesi e norvegesi. Era semplicemente una vendetta tedesca verso questa parte di Europa che si è messa contro la Germania e speravano che questa parte dell’Europa avrebbe capito che la razza superiore tedesca aveva certi diritti.

Capuzzo Bacio Emilio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

R: Io sono nato nel 1926 ad Anguillara Veneta, un piccolo paese in provincia di Padova.

D: Come ti chiami?

R: Capuzzo Bacio Emilio

D: E sei sempre stato lì ad Anguillara?

R: Ad Anguillara sono rimasto fino al 1938.

D: E poi dopo?

R: Poi dopo la fame, il freddo e la miseria costrinsero mio padre a venire in cerca di lavoro in provincia di Milano.

D: E sei arrivato a Nova Milanese?

R: Siamo arrivati a Nova Milanese nel mese di agosto del 1938.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Io avevo 12 anni.

D: E sei andato a scuola qui?

R: No. Quando ero al mio paese, cioè Anguillara Veneta, si viveva nella miseria totale; ho dovuto smettere di andare a scuola perché i miei genitori non avevano una lira per comperarmi i libri ed i quaderni.

D: Non avevate i soldi?

R: C’era solo la fame.

D: Il tuo babbo lavorava dove?

R: Mio papà era l’unico metalmeccanico del paese, quando venne convocato dal suo datore di lavoro, il quale gli chiese se aveva fatto la tessera del Partito Fascista, mio padre naturalmente disse di no. Perché era un socialista. Allora il suo datore di lavoro disse: Lei, se vuole continuare a lavorare in questa piccola fabbrica, deve fare la tessera del Partito Fascista, altrimenti da domani lei non può più entrare in questa piccola fabbrica”. Mio padre, da buon socialista, rifiutò questo ricatto. Non solo venne licenziato dal posto di lavoro, ma addirittura sfrattato di casa, perché di proprietà di un fascista, con tre bambini, uno di quattro anni e mezzo, uno di tre anni, uno di uno e mezzo. Io ero ancora nel grembo di mia madre, pertanto posso solo dire che le prime sofferenze le ho subite quando ancora ero nel grembo di mia madre.

D: Quindi dopo avete trovato un’altra casa lì ad Anguillara?

R: Adesso qui bisogna chiarire un momentino i fatti. Con l’aiuto dei diversi parenti che avevamo, cioè con piccoli prestiti, è riuscito a comperare un pezzettino di terreno e costruire una piccola casa comune, avendo poi il peso ed il pensiero di come pagare quei debiti. Infatti quando siamo venuti a Milano, ha potuto vendere quella casa, soprattutto per pagare i debiti che avevamo.

D: Quando tu dici Milano intendi Nova Milanese?

R: Intendo Nova, perché il piccolo appartamento lo trovò qui a Nova.

D: Dove?

R: Nel cortile dei Garlati.

D: A quel tempo non andavi a scuola?

R: Quando sono arrivato a Nova in pratica avevo fatto solo la terza elementare. Ho dovuto abbandonare la scuola che non avevo ancora 10 anni, pertanto quando sono arrivato a Nova, che avevo 12 anni, ho dovuto continuare la scuola e fare la quarta e la quinta elementare.

D: Ti ricordi dove andavi a scuola?

R: In via Roma. L’unica scuola che c’era a Nova era in via Roma.

D: Quindi dal ’38 in avanti tu sei andato a scuola in via Roma?

R: In via Roma. Finita la quinta elementare avevo già qualche mese in più dei 14 anni, allora l’unica cosa era quella di fare il libretto di lavoro. Mi recai in Comune, fatto il libretto di lavoro non ebbi nessunissima difficoltà a trovare il primo lavoro, diciamo, che fu alla SIB di Desio, dove costruivano le casseforti. Però nello stesso tempo io andavo a scuola di apprendistato all’Ercole Marelli di Sesto San Giovanni. Avuto quel piccolo diploma, trovai subito lavoro alla Breda Campovolo.

D: Che dov’era?

R: Era tra Sesto e Bresso.

D: Lì lavoravi dove? In reparto?

R: Sì, lavoravo come apprendista aggiustatore, e posso dire che tutti noi guadagnavamo abbastanza bene, perché c’era un buon cottimo, diciamo, ma tutto questo durò molto poco, circa 2 anni, perché arrivò, come tutti sanno, eravamo già in piena guerra, e arrivò addirittura la caduta del fascismo il 25 luglio 1943.

Da allora le cose si fecero molto, ma molto brutte perché quella fabbrica venne addirittura occupata dai tedeschi perché avevano invaso l’Italia, e occupata quella fabbrica. Abbiamo dovuto addirittura smettere di produrre il nostro caccia bombardiere che all’inizio della guerra era sicuramente uno dei più veloci e forse il migliore in Europa. Abbiamo dovuto, addirittura in poco più di 15 giorni, metterci a produrre un bimotore bombardiere, che si chiamava Cant Z, il nome me lo ricordo, il Cant Z si chiamava.

Si lavorava, però era sparito il cottimo in pratica. Noi lavoravamo tranquilli anche se non molto volentieri fino a quando arrivarono le prime voci che non dovevamo correre quel grosso rischio di sabotare, perché era un grosso rischio, ma di rallentare la produzione perché finiti quei bombardieri lì, sicuramente sarebbero arrivati a bombardare la fabbrica, e così fu.

D: Ascolta un attimo, Bacio, lì in fabbrica, il movimento operaio era abbastanza sensibile, attivo con il discorso legato al movimento della Resistenza?

R: Guarda, quella fabbrica era quasi una fabbrica militare. Basta dire che il direttore ed il vicedirettore erano due alti ufficiali dell’aviazione. Pertanto non bisognava assolutamente pronunciare una parola che andasse contro la guerra o addirittura contro il fascismo. Abbiamo capito che tutto andava per il peggio, bombardamenti, e la guerra si pensava che non potesse finire a breve. Arrivò addirittura il primo sciopero del ’43. Il primissimo, anche se non fu un gran sciopero, però fu sempre uno sciopero per protestare contro la guerra, cioè per la pace, e soprattutto anche per il pane. Perché avevamo le tessere e mi sembra che fossero due etti di pane al giorno, pertanto era soltanto fame.

D: A persona?

R: A persona. Però avevamo solo quello, non è da dire che noi potevamo avere una buona bistecca oppure un piatto di spaghetti, era solo quello.

D: Ma lì, il movimento operaio, dentro in fabbrica, i tuoi compagni di lavoro, quelli più grandi?

R: Quelli più grandi. Avevamo capito che dovevamo prepararci per questo sciopero. Ed in pratica io, oltre che essere un portaordini, con il grosso rischio perché avevamo l’ordine di non allontanarci dal nostro reparto, e questo fu a metà febbraio del ’44, e quando incontrai, per puro caso, il mio capo reparto che lui viaggiava sempre in bicicletta quando faceva gli spostamenti, e lo incontrai, mi fermò e mi disse: “È questo il tuo posto di lavoro?” “Ma sono andato così a salutare un mio amico”, però lui non mi credette, in pratica. Lui non mi credette, tant’è vero che dopo 2 o forse 3 giorni vennero a cercarmi a casa i fascisti ed i tedeschi.

Fortuna volle, era il pomeriggio verso le 17.30, che davanti al mio portone di casa c’era Olivo Favaron, che lavorava insieme a me. Era a casa in malattia da diversi giorni e mi doveva consegnare il certificato della malattia perché noi avevamo la mutua interna, quando vide arrivare i fascisti ed i tedeschi che gli chiesero: “Abita qui un certo Capuzzo Bacio Emilio?” “Sì, abita sopra”. Ma nel frattempo lui prese la bicicletta e mi venne incontro, e mi trovò, perché noi smettevamo più o meno alle cinque e mezza di lavorare, e mi dice: “Guarda che ci sono i fascisti ed i tedeschi a casa a cercarti”. Allora io, alla sera, non andai a casa neanche a dormire, niente, e trovai un piccolo posto sicuro, diciamo. Andai addirittura dal fidanzato di una mia sorella, e lì rimasi per qualche giorno.

D: Scusa Bacio, i fascisti ed i tedeschi che sono venuti a casa tua, di che piazza erano, non lo sai? Non erano di Nova?

R: Non si sa. Venivano chissà da dove.

D: Da fuori?

R: Sì. Da fuori, sicuro.

D: E cosa volevano?

R: Non lo so. Loro mi cercavano, e allora io poi andai in diversi cascinotti perché oramai il fidanzato di mia sorella non è che potesse rischiare a tenermi lì per diversi giorni ancora, allora mi avvicinai ai primi gruppi di partigiani.

D: In fabbrica?

R: No, qui a Nova. Infatti andai, il primo cascinotto fu quello di Felice Beretta, ed il secondo quello di Luigi Erba. Trascorsi dai 15 ai 20 giorni.

D: Scusa Bacio, però tu in fabbrica andavi lo stesso a lavorare?

R: No, niente, adesso ti spiego.

Trascorsi, mi sembra 15 giorni, eravamo verso il 15 marzo, quando la bufera dello sciopero era già superata in pratica, allora io mi presentai all’ufficio del capo reparto. A dire la verità ero anche armato perché il rischio lo avevo già previsto. Mi presentai addirittura armato. Come mi vide, mi disse: “Come mai sei qua?” Ho detto: “Perché, lei non sa niente?”. “A cosa vuoi alludere?” “Non sa che sono venuti i tedeschi ed i fascisti a casa, a cercarmi? E lei ne sa qualcosa. Si ricorda quando mi ha trovato sulla strada e mi aveva chiesto dove ero andato, e che il mio posto doveva essere sul banco del lavoro? Dopo tre giorni sono venuti a casa a cercarmi i fascisti ed i tedeschi.” Mi ha detto: “Cosa vuoi dire con questo?” “Lei mi deve dire cosa posso fare, adesso, io”. E allora lui mi guardò in faccia e mi disse: “Guarda, se tu mi prometti che continuerai a far sempre quello che hai fatto, cioè a non spostarti più dal tuo posto di lavoro, dammi la mano e io ti giuro, come un padre di famiglia, che sarai tranquillo”. Purtroppo questo durò poco più di un mese.

D: Sei ritornato in fabbrica?

R: Sì, sono ritornato. Oh, mi ha dato la parola. E allora quando poi sembrava quasi tutto tranquillo purtroppo, il 24 aprile era di domenica, una domenica mattina verso le 11, arrivarono le super fortezze volanti, a ondate successive, e rasero, diciamo quasi completamente, quella fabbrica. Dopo alcuni giorni mi arrivò una cartolina di presentarmi al comando tedesco per essere mandato a lavorare nella fabbrica della Junker che si trova in Germania. Mi feci subito un’idea diversa e non esitai un solo giorno per fare una scelta, quella di aggregarmi ai gruppi di combattimento partigiani, cioè la GAP.

D: Ma sempre di Nova erano?

R: Sì, sempre qui, la GAP in pratica, le sue azioni non le faceva in montagna, c’era la GAP e la SAP che più o meno facevano le stesse cose. Il nostro compito era quello di tentare i sabotaggi, tagliare i fili del telefono, volantinaggio, scritte sui muri e possibilmente disarmare, perché avevamo assoluto bisogno di armi.

D: Ti ricordi qualche nome degli altri partigiani novesi?

R: Qui ce n’è diversi.

D: Quelli del tuo gruppo, prima.

R: Sì, quelli del mio gruppo, noi eravamo circa 12. Posso subito fare i nomi. I primi sono andati in montagna. In Valdossola, che furono Olivo Favaron, Giulio Villa, Renato Tagliabue, Attilio Sereni, e Biondi Giorgio.

D: Dove vi trovavate qui a Nova?

R: Il nostro cascinotto era, almeno per gli ultimi giorni, era il cascinotto di Vanzati Emilio, che si trovava nelle vicinanze di Desio. Però quando arrivò l’ordine di prepararsi per partire, perché era la fine di giugno del 1944, come prima cosa dovevamo procurarci un camion, per caricare non solo tutti noi, ma addirittura le armi ed il vestiario e soprattutto una macchina che doveva segnalare il pericolo in caso ci fosse stato.

D: Sapevate dove dovevate andare in montagna?

R: Dovevamo andare verso Dongo, quella era la nostra zona. Però il giorno prima era arrivato un segnale che, almeno dicevano, che noi eravamo segnalati in pratica, allora abbiamo avuto l’ordine di spostarci, e ci siamo spostati al Bosco della Valera, che è un bosco grandissimo. Lì siamo stati due notti in assoluto segreto. Purtroppo dopo due giorni accadde un fatto gravissimo.

D: Ascolta Bacio, quindi voi eravate lì cosa è successo?

R: Eravamo verso le 12.30, dopo pranzo, io ero di guardia, con il mio mitra in spalla, ed arrivò una ragazza in bicicletta. Era ormai troppo tardi per ritirarmi, mi aveva già visto, io la fermai e le chiesi subito: “Come mai ti trovi qui, dove stai andando?” “Ho un appuntamento con il mio fidanzato” “A che ora hai appuntamento?” Mi ha risposto: “Verso la una meno un quarto, dovevamo trovarci qui”. Gli altri, che erano nell’interno del bosco, sentendomi parlare con questa ragazza, vennero fuori e mi chiesero subito: “Chi è questa ragazza?” Io risposi che non lo sapevo, che l’avevo trovata lì e che mi aveva detto che aveva l’appuntamento con il fidanzato. Però passavano i minuti ed il fidanzato non si vedeva, allora Giorgio, che aveva l’arma in mano con il famoso difetto che non teneva la sicurezza, lui forse credeva di non avere il colpo in canna ed in modo scherzoso ha detto: “Guarda che se sei venuta per fare la spia, fai una brutta fine”. Ma lo diceva in modo scherzoso, appoggiò la canna della rivoltella sulla fronte e partì un colpo. Io ho visto il fatto che era sicuramente gravissimo perché veniva fuori addirittura il cervello, e allora io ebbi subito il compito di recarmi ad avvertire il comandante.

D: Bacio, lui si era appoggiato la pistola alla sua fronte?

R: Sì, se l’era appoggiata.

D: Alla sua testa?

R: Alla sua testa.

D: Non alla ragazza?

R: No, alla sua testa, ecco quale fu il fatto grave. Io ebbi subito il compito di recarmi ad avvertire il comandante, che abitava a Muggiò. Si chiamava Merati Enrico ed io ero l’unico a conoscere l’abitazione del comandante. Arrivato a Muggiò, entrai, era ancora a tavola che pranzava, gli raccontai il fatto, si mise le mani nei capelli. Allora io ed un altro suo amico, che poi è morto nel campo di Mauthausen

D: Robecchi.

R: Ecco, io non sapevo il nome, poi ho saputo che era Robecchi. Prima di entrare nel bosco della Valera, io sono ritornato a questo bosco per sentire le novità, cosa avevano fatto in poche parole e 100 metri prima credo di arrivare al bosco della Valera, dissi a Robecchi: “Tu fermati perché non si sa mai, potrebbe essere pericoloso”. Come io misi piede dentro il bosco della Valera, sentii sparare alcuni colpi per intimarmi di fermarmi. Mi chiesero subito perché ero andato in quel bosco e chi ero e perché ero andato in quel bosco della Valera. Io dissi subito che avevo sentito delle voci che si era ferito un ragazzo, addirittura Biondi Giorgio che abitava nel mio stesso cortile, e che ero venuto per vedere. “Tu non sai niente di tutto quello che c’era qua?” “Io no, perché dovrei sapere qualcosa?”. Allora visto che loro non si decidevano a lasciarmi andare dissi: “Dovete lasciarmi andare, perché i miei genitori saranno preoccupati”. Allora lui ha ordinato a due, perché lui era il comandante, era un brigadiere, ha ordinato a due della Guardia Nazionale Repubblicana: “Portatelo in Caserma, guardate che se fa brutti scherzi o tenta di scappare, non dovete aver paura a sparare”.

D: Bacio scusa, questi erano di Nova o di Desio?

R: Era la Guardia Nazionale Repubblicana di Desio perché lì c’era la caserma.

D: E ti ricordi quando era venuto qui a Nova il Battaglione Azzurro germanico?

R: Ecco, loro in pratica, sono venuti, credo verso la fine del 1944. Perché all’inizio non c’erano, all’inizio.

D: Ma tu te li ricordi questi?

R: Io a dire la verità non li avevo mai visti perché dopo quello che era accaduto io mi allontanai da Nova e rimasi alle cascine di San Fruttuoso.

D: Beh, dopo ci arriviamo. Quindi quelli erano di Desio.

R: Sì, erano della caserma della Guardia Nazionale Repubblicana.

D: Ma c’erano solo italiani, non c’erano tedeschi lì al bosco della Valera?

R: No, no. C’erano solo loro.

D: Ascolta, lì eravate te, Biondi?

R: Eravamo io, Biondi, Attilio Sereni, Macciantelli Maurizio, Erba Luigi.

D: Ma quando è successo il fatto lì di Biondi, della pistola, tu sei andato a Muggiò, gli altri cosa hanno fatto?

R: Gli altri hanno telefonato alla Croce Rossa, perché pensavano, almeno, c’era un filo di speranza per cercare di salvarlo.

D: Biondi lo hanno portato in ospedale?

R: Sì, loro hanno telefonato subito alla Croce Rossa. Lo hanno portato all’ospedale di Desio, gli altri hanno fatto sparire tutto quello che avevamo, era un piccolo accampamento, non è che c’era un granché, le armi e allora dopo in pratica io ho dimostrato di essere tranquillo al massimo, anzi continuavo a dire: “Ma dopo mi lasciate andare a casa, perché io non ho fatto niente, non so niente”.

E allora arrivato sulla via Milano, che è la via della circonvallazione di Desio, uno dei due disse all’altro: “Tu portalo pure in caserma, tanto vedo che è tranquillo”. Come arrivai sulla via Garibaldi, che è quella che ti porta in centro a Desio, c’erano sì e no 200 metri ad arrivare alla caserma, ho detto: “Questo è il momento buono”. Perché io nel frattempo macinavo come fare questa fuga, perché ero deciso a tutto, perché o mi ammazzano oppure dovevo tentare in tutti i modi a scappare. Allora presa la via Garibaldi gli ho dato sicuramente 100 metri di distacco. Arrivai alla Foppa.

D: Eravate in bicicletta?

R: Ero sulla bicicletta di Macciantelli Maurizio che era una bicicletta da donna. Quando arrivai alla Foppa nel fare una curva mi saltarono tutti e due i freni, andai a sbattere contro il marciapiede, ebbi la forza di alzarmi, e in quella arrivava lui con l’arma in pugno e mi intimava ancora l’Alt e mi disse che se tentavo ancora di scappare mi sparava. Ma proprio con l’arma appoggiata.

Però nel frattempo si avvicinarono decine di persone, addirittura c’era uno in borghese, avrà avuto una trentina d’anni, e disse subito: “Ma non vedi che è un ragazzo spaventato, toglili almeno l’arma puntata”. Era un poliziotto in borghese. Pensa un po’. Allora lui disse, “Sì, ma non è necessario tenere l’arma puntata”. Allora lui ritirò l’arma, ma nel frattempo voleva portarmi in caserma. “Io in caserma non voglio venire”, ho detto, “perché io non ho fatto niente, perché devo venire in caserma?” E allora, in pochi minuti, si riempì la strada, perché era domenica, e hanno cominciato a gridare: “Lo lasci stare, non vede che è un ragazzo?”. Sentì che la popolazione era solidale con me, però ha avuto il coraggio di dire: “No, non è un ragazzino, questo qui ha commesso un reato grave”. Io allora gli dissi che non era vero. Allora lui mi rispose: “Perché allora non vuoi venire in caserma, se non hai fatto niente?” Allora io trovai un’altra scusa, e dissi: “Se io vengo in caserma, siccome mi è arrivata una cartolina che dovevo andare in Germania ed ho rifiutato, pertanto potrebbe essere grave venire in caserma, pertanto io non ci verrò mai in caserma”. La popolazione ha iniziato a gridare: “Lo lasci andare, lo lasci andare”.

Nel frattempo si era aperto un varco, io naturalmente sono partito come una freccia, si può dire. Entrai in un cortile, scavalcai un muro, adesso l’altezza precisa non la so, ma ancora oggi stento a credere come io abbia fatto a scavalcare quel muro. Scavalcando quel muro addirittura entrai in un giardino privato dove c’era il negozio della famosa Maddalena che era una merceria, sulla via Garibaldi. Lei in pratica era in strada che guardava anche lei cosa succedeva, allora io le toccai una spalla e dissi: “Adesso lei mi deve nascondere”. “No, io ho paura”. Mi ha aperto il cancello e sono arrivato a Muggiò, dove erano tutti in stato d’allarme, pensando che mi avrebbero torturato, che avrei parlato, chissà che fine avrei fatto. Come mi hanno visto, un respiro di sollievo, in pratica. Mi dissero subito che lì di posto sicuro non ce n’era, partire per la montagna diventava sicuramente più difficile. “Tu non ce l’hai un posto, non dico sicuro, ma almeno tranquillo dove andare?” Io dissi di sì. “Io vado a Borgomisto, lì ho la fidanzatina, e in pratica tenterò almeno di farmi vedere il meno possibile”.

Passarono circa 10 giorni; io avevo cambiato già diversi cascinotti, perché non volevo dare il minimo sospetto, continuavo a spostarmi. Mentre ero su un sentiero che va verso le cascine di San Fruttuoso, arrivarono due persone, che dopo ho saputo chi erano, uno era Enrico Carpani che adesso spiegherò chi era. Come mi vide, mi dice subito: “Non avere paura, siamo dei tuoi”. E allora io presi coraggio, mi dice: “Ma non ti ho mai visto, da che parte arrivi, chi sei, con chi sei…” e gli spiegai il fatto. Allora lui mi ha detto subito chi era. “Io comando un gruppo così e così, alle cascine di San Fruttuoso, della SAP”. Non più della GAP, ma erano squadre di azione partigiana. “Se vuoi venire con me, adesso ti porto dove puoi dormire e se sarà possibile magari trovarti qualche cosa da mangiare”. Allora andò a casa sua, mi prese un pezzo di pane giallo, forse un pezzetto di formaggio, mi spiegò tutto quello che dovevamo fare, e allora tutto sembrava tranquillo, perché addirittura lui aveva il collegamento con la montagna, con la divisione di Moscatelli, figurati un po’.

Il compito della SAP non era solo quello di procurare armi, o di disarmare, per portarle in montagna, ma possibilmente anche di vedere di trovare indumenti. Io sono rimasti lì 4 mesi, a San Fruttuoso. Abbiamo fatto un’azione perché avevamo bisogno assolutamente di un camion per spedire la roba in montagna, avevamo indumenti di prima necessità, diciamo. Io addirittura dovevo segnalare se era possibile fermare il camion o lasciarlo andare. Eravamo sul viale Monza, io ebbi un sospetto, perché aveva il tendone, allora io non lo segnalai. Infatti, lo sai chi c’era su quel camion? Fascisti e tedeschi che sono andati a svaligiare quel magazzino che ci aveva promesso che ci dava un po’ di roba. Allora in pratica il sospetto del proprietario del magazzino cadde sul nostro comandante. Allora noi cercavamo di trovare la verità. Infatti venne un sospetto, perché con i tedeschi ed i fascisti che erano andati a svaligiare il magazzino, sicuramente c’era qualcuno del posto. Solo io non lo sapevo, ma lui sapeva che tre di San Fruttuoso facevano servizio alla caserma dei fascisti di San Fruttuoso. Io addirittura ero andato a trovare la mia fidanzatina, loro tre si avvicinarono ma non sono riusciti a bloccarlo e a disarmarlo. È partito un colpo, in pratica due se la sono cavata bene ed uno riuscirono a prenderlo, lo hanno torturato ed ha fatto tutti i nomi.

Allora io, forse dopo qualche ora, ritornai e vidi addirittura che il cascinotto dove dormivo io, era in fiamme, che era il cascinotto di Enrico Carpani. Non c’era più nessuno, erano scappati tutti. Lui era venuto a Nova, perché aveva dei parenti a Nova, ed a Nova ha subito organizzato il primo gruppo che ha trovato a Nova, che sono stati quelli che poi hanno arrestato, e ti dico subito chi erano, in pratica si arrivò verso la fine di ottobre.

D: Di che anno?

R: Del 1944. Erano 4 mesi che non andavo a casa.

D: La caserma che tu dicevi dei repubblichini, era quella di San Fruttuoso?

R: Sì, c’era proprio la caserma dei repubblichini.

D: E loro hanno tentato di fare l’assalto alla caserma?

R: No, di prendere uno di questi tre.

D: Che era lì in caserma.

R: Sì, era di sentinella, hai capito?

D: Ho capito. Quindi tu era già 4 mesi e più che non venivi a casa.

R: Sì, che non andavo a casa. Erano tutto luglio, agosto, settembre ed ottobre.

D: Di qua non sapevi niente?

R: Di qua io non ho saputo più niente, perché io mi sono aggregato con la SAP.

D: Che Biondi era morto?

R: Sì, per sentito dire. Biondi era morto dopo 2 o addirittura 3 giorni.

D: E gli hanno fatto il funerale qua?

R: Sì, hanno fatto il funerale.

D: A Nova?

R: Sì.

D: Degli altri invece tu non sapevi?

R: Non ho saputo più niente.

D: Contatti non ne avevi più?

R: No, completamente.

D: Una cosa, a casa tua non era andato nessuno a cercarti?

R: Più volte sono andati, sempre quelli della Guardia Nazionale Repubblicana. Mi cercavano e addirittura il giornale aveva anche esagerato, mi cercavano addirittura per omicidio. Quando io ho testimoniato davanti ai genitori di Biondi e avevo detto come era accaduto il fatto, cioè che si era puntato la rivoltella alla fronte ed era partito il colpo, gli altri avevano testimoniato la verità come ho fatto io, ma loro non mi hanno mai creduto, lo sai perché? Perché il dottor Oglio che era il primario dell’ospedale di Desio, ha dichiarato verbalmente che quello che avevamo detto noi non era vero, e cioè che il colpo lo aveva ricevuto alla nuca, ed era uscito dal davanti. Pertanto loro avevano il dubbio che fossi stato io. Perché lui continuava a dire: “Tu devi dire la verità, anche se ti è partito un colpo involontario.” “Ma la verità è questa”, dicevo. Il mio mandato di cattura, se c’era poi, era questo; l’imputazione era ricercato per omicidio, addirittura.

Allora loro hanno messo sul giornale di presentarsi, mi hanno dato un termine che scadeva, di presentarmi entro 48 ore, altrimenti dovevo essere catturato morto o vivo. Ma io non potevo presentarmi, vado a presentarmi per correre tutto questo rischio?

Allora la burrasca momentaneamente venne superata, diciamo così. In pratica dopo questi 4 mesi, che si era alla fine di ottobre, Benito Mussolini emanò un bando di perdono per tutti, partigiani, sbandati, renitenti, che non avevano commesso reati di sangue, se si presentavo entro 10 giorni venivano perdonati. Io approfittai per andare a casa, per salutare i miei, dopo circa mezz’ora che ero in casa, sarà stato verso le 9 credo, cioè le 21.00, vidi arrivare quelli delle Brigate Nere. Io come li vidi ho detto subito: “Sono venuto a casa per presentarmi”. “No, vieni con noi che c’è da chiarire qualcosa”. Infatti mi portano alle Brigate Nere di Cesano Maderno, e lì ebbi una grossa sorpresa, vidi addirittura Tagliabue Renato, grondante di sangue, perché lo avevano torturato a morte, come? Durante un’azione che andò male, perché si bloccò la macchina addirittura nelle vicinanze della caserma di Cesano Maderno. Lui tentò la fuga, perché erano in quattro, purtroppo rimase chiuso in una via cieca, lo arrestarono, lo torturarono e lui ha fatto tutti i nomi, anche il mio perché loro volevano soprattutto sapere chi era questo Carpani Enrico, e allora: “Chi lo conosce?” “Dov’è la sua abitazione e chi ha collaborato con lui?” Ha fatto anche il mio nome, e allora quando io sono arrivato e l’ho visto conciato così, gli ho detto subito: “Ma chi te l’ha fatto fare a te? Ma come mai hai fatto anche il mio nome?” “Perché io non capivo più niente”. Ma io avevo sempre un filo di speranza, cioè firmare che mi lasciassero, hai capito? E invece no, non fu così. Addirittura ci presero, io, Sironi Mario e Frigerio Mario, ci caricarono su un motocarro e ci portarono a Monza, alla caserma, non so se era delle SS o della Wehrmacht.

D: Alla caserma o al carcere?

R: No, no, alla caserma. Perché loro non potevano, quelli della Brigata Nera, portarmi al carcere. E mi consegnarono ai tedeschi, in una villa, che adesso io non so dov’era questa villa. Mi sembra che mi abbiano tenuto lì sì e no 5,10 minuti. Loro ci hanno consegnati, poi ci hanno caricati su un camion e ci portarono al carcere di Monza. Siamo stati lì più di un mese, sì almeno 40 giorni.

D: In cella?

R: In cella. Eravamo io, Sironi Mario e Frigerio Mario.

D: E loro perché li avevano presi?

R: Perché aveva fatto i loro nomi, prima del mio, aveva fatto i loro nomi. Loro non erano nella macchina che ha fatto l’azione, erano in casa tranquilli che dormivano. Li hanno presi, arrestati, in pratica, anche loro pensavano che forse firmando si sarebbero salvati, no, ci hanno consegnato ai tedeschi. E si salvò proprio Renato Tagliabue. In pratica, lo fecero firmare, rimase nelle Brigate Nere solo lui, solo lui.

D: Ascolta, quando tu eri giù a Monza, nelle carceri di Monza, siete mai stati interrogati, voi?

R: No, niente, il verbale lo hanno fatto le Brigate Nere.

D: E basta?

R: Sì, basta dopo.

D: I tuoi genitori sono venuti a Monza, in carcere?

R: Non potevano, non potevamo parlare né ricevere. Ricevere per esempio un pacco, oppure parlare per un colloquio qualunque e siamo rimasti lì più di 40 giorni. Molto prima di Natale, verso il 20 di dicembre, credo, ci caricarono su di un camion e ci portarono al carcere di San Vittore.

D: Solamente voi tre o c’erano degli altri?

R: C’erano degli altri che noi non conoscevamo. Arrivati al carcere di San Vittore, chiusi in una cella, dopo forse poco più di mezz’ora o un’ora, passò la guardia carceraria e io gli dissi subito: “Ho bisogno di parlare” “Cosa c’è?” “Guardi se io trovo da fare qualsiasi lavoro, non so, pulire i corridoi, distribuire il rancio, basta che ci sia da uscire da questa cella” e dopo un’ora venne e mi disse: “Guarda da domani mattina tu vai a distribuire il rancio, pulisci i corridoi, distribuisci il rancio, ti va bene?” “Sì, ho detto, va benissimo”.

D: Ti ricordi in che raggio eri?

R: Ma adesso non so se era il terzo o il quarto. Perché tu come entri a San Vittore era, tu non puoi immaginare, sì ma forse era il quarto raggio, perché il quinto era quello sopra. Nei cameroni c’erano gli ebrei, me lo ricordo perché andavo a distribuire il rancio, e allora mi hanno detto subito queste prime parole: “Guarda che c’è da distribuire il rancio anche agli ebrei, ci sono famiglie intere, ma tu non devi pronunciare una parola, devi solo dare il rancio”. “Sì” ho detto io.

Infatti quando ho distribuito il rancio uno di questi ebrei si allontanò un momento dalla guardia e mi disse subito, perché lui forse pensava che io fossi un civile, uno di servizio lì, e mi disse: “Non sai se c’è la possibilità di corrompere?” e gli ho risposto “Ma io sono come voi, corrompere cosa?” E loro si sono convinti subito che ero un carcerato come loro, che distribuivo il rancio. Si sono scusati e basta. Allora lì rimanemmo credo fino al 20 o al 21, forse il 20 o il 19 di gennaio,poi ci caricarono.

D: Gennaio di che anno?

R: Del 1945, il 19 o forse il 20, ci caricarono su due pullman, adesso non ricordo bene che pullman erano, ma poi ho saputo…

D: Dell’azienda tranviaria?

R: Ecco, dell’azienda tranviaria, l’ho saputo poi dopo, io. La partenza era sempre verso l’imbrunire, verso sera, perché c’erano i caccia che mitragliavano. Siamo arrivati alle porte di Brescia, si guastò il pullman e allora piano piano ci misero in fila e siamo andati verso il carcere di Brescia, aprirono il portone e ci hanno fatto dormire tutta la notte sul corridoio.

D: Eravate in tanti lì?

R: Sì, un pullman pieno, era.

D: Chi c’era a fare la guardia?

R: La SS. Abbiamo dormito, e alla mattina prestissimo, forse erano le cinque, partenza per Bolzano, si viaggiava su questo pullman, che nel frattempo avevano sistemato; sul pullman c’era un ufficiale delle SS che parlava un italiano perfetto, e allora mi è venuto un dubbio: “Come mai un ufficiale delle SS parla così bene?” Poi venni a sapere che Bolzano e tutto l’Alto Altesino se l’era annesso la Germania e loro si presentavano o con la Wehrmacht o con le SS. Ma poi ho saputo tutto questo.

Beh, siamo arrivati a Bolzano, era quasi mezzogiorno. La prima sorpresa fu un po’ di orzo cotto nell’acqua, neanche il sale c’era, e allora noi per assaporarlo un momentino c’era uno che aveva una scatoletta di estratto di sardine, e mi metteva mezzo cucchiaino, però il sapore non era simpatico. Era una specie di filoncino, di pane nero, sembrava quasi piombo, d’ogni modo queste erano cose normalissime. Allora venne poi la sera. Io mi ricorderò sempre, alla mattina ci svegliavano sempre prestissimo, ho fatto due mattine la conta sul cortile.

D: Ascolta, quando siete entrati a Bolzano vi hanno fatto la spoliazione, vi hanno dato qualcosa?

R: No, niente, solo rasati con la macchinetta, solo i capelli.

D: E basta?

R: Sì che poi li avevo lunghi un dito, perché appena arrivato a San Vittore mi avevano rasato

D: Un numero non te lo hanno dato?

R: No, niente numero, perché forse pensavano già che la partenza era a breve.

D: Ti ricordi in che blocco ti hanno messo?

R: Come fai? Avevo fatto due notti lì, in pratica. Perché la terza notte alla sera, verso le cinque mi hanno portato…

D: E con te c’era anche Mario?

R: Sì, Mario Sironi e Frigerio Mario, adesso ti spiego, allora ci prendono, ci portano alla stazione.

D: Questo il terzo giorno.

R: Questo al terzo giorno, di sera, ci chiudono dentro i vagoni, dopo qualche minuto sai cosa ci è venuto in mente? Di cantare “O mia bella Madonnina” guarda che, questo me lo ero dimenticato, questi come ci sentono cantare, “Smettetela di cantare”. Dopo un minuto o due aprono il portellone e ci fanno scendere in due. Ho pensato “Porca miseria!” invece no, era arrivato il camion del pane, dentro i sacchi. Dovevamo svuotarlo dai sacchi e accatastarlo sulla motrice davanti. In due eravamo. Io avevo fatto il mio dovere. Come si finisce, lo sai cosa fa il tedesco? Ci guarda se avevamo il pane. Quello che era insieme a me aveva nascosto un filone di pane, glielo ha portato via e poi gli ha dato quattro calci. “Tu niente?” Il filone che aveva portato via lo ha dato a me. Io come sono arrivato sul vagone l’ho distribuito.

D: Eravate in tanti sul vagone?

R: Guarda, senza esagerare, eravamo minimo una cinquantina.

D: C’era anche gente più anziana di te?

R: C’erano addirittura due o tre, forse anche quattro che avevano sui sessant’anni. C’era un avvocato, un ingegnere, un dottore chimico ed in pratica chiusi su questo vagone, la partenza al rallentatore, poi ci siamo fermati, eravamo quasi sempre fermi tra una stazione e l’altra, non si sa il perché. Lì non potevi tentare la fuga, perché erano lì con i mitra spianati. Come si parte, si mette in moto il treno, sento che c’è un mormorio e ho scoperto che si stavano preparando per tentare la fuga. Un gruppetto, e soprattutto uno di Bovisio, l’ho saputo adesso il nome, perché non si conosceva neanche i nomi in pratica, adesso ho saputo che si chiama Bignami, stavano scassando il lucchetto, perché il lucchetto era quello dello sportello, hai capito? Non quello del portellone grande, quello dello sportello.

Allora io pensavo che forse era una lima a triangolo, non lo so, e invece lui ha detto che era una specie di piede di porco, non so dove l’aveva, che poi lui lo ha confessato qui in Comune, ha detto che lo aveva messo dentro ad una pagnotta di pane, subito dalla partenza da San Vittore, lui così raccontava. Io tutto questo non potevo saperlo. Beh, scassato questo lucchetto, aperto il catenaccio c’era anche da tagliare, ecco perché io avevo pensato ad una lima a triangolo, perché c’era da tagliare anche tutti i reticolati, perché nella parte esterna avevano messo delle file di reticolato, come hanno fatto, so solo che sono riusciti a tagliarlo, e si sono buttati giù i primi due. Questo di Bovisio ed un altro che era di Ferrara.

Poi il treno comincia a viaggiare, io ero in terza posizione, incominciano a dire, “Ma perché ti devi buttare, rischiare la vita, sei giovane, ancora tante speranze”, che poi come hanno visto che io ero deciso a buttarmi giù dal treno, piuttosto che niente hanno detto: “Possono fare la rappresaglia, visto che ne mancano tre”. E allora ho pensato: “Perché non avete proibito anche agli altri due di buttarsi?” Qualcuno ha cominciato a dire: “Se lui ha preso questa decisione, perché noi dobbiamo impedirglielo? Tra due o tre non cambia niente, è volontà sua, lo deve fare e basta”. In pratica oramai eravamo quasi al Brennero, lì ha rallentato un po’ il treno, ma in piena notte, sai com’è, vai a sbattere contro qualcosa, era la morte sicura, ma anche ferirsi era morte sicura, perché poi ti torturavamo anche a morte, anche questo devi dire, però che mi salvò sai cosa fu? Il mezzo metro di neve, e forse anche qualcosa in più. Nel buttarmi sono scivolato giù dalla scarpata, e non mi sono fatto niente, solo un po’ graffiato.

Ho camminato diverse ore. Mi sono accorto di essere in Italia quando ho visto la Fortezza, ho visto un vecchietto, una persona anziana, e ho chiesto se c’erano molti chilometri per arrivare a Bolzano. Adesso non mi ricordo più quanti chilometri saranno una quarantina forse, più o meno. Ma insomma mi aveva detto i chilometri, che adesso non ricordo più, e allora mentre sto camminando arriva un camion tedesco, e si ferma un cento metri davanti a me. Lì c’era forse un bar, un tabaccaio, non mi ricordo più adesso, magari si sono fermati a bere un bicchierino di grappa, e allora mentre loro salgono sul camion, io arrivo proprio lì, ho rallentato un momento perché mi era venuto subito l’idea di saltare, anche se non riuscivo a salire, di saltare sul camion, magari di non farmi vedere per la seconda volta, e invece quando arrivo lì mettono in motto il camion io ho visto che dove c’era la ruota di scorta c’era spazio e allora mi sono infilato sotto, e prima di arrivare alle porte di Bolzano, sai chi ho trovato? Quello di Bovisio che era saltato giù prima di me. Ma molti chilometri prima perché lui l’aveva fatta tutta a piedi.

D: Quindi tu quando eri sul camion hai visto Bignami.

R: Bignami. E allora io gli ho fatto un segno, come a dire, appena posso saltare giù, perché il camion viaggiava, che lo aspettavo in poche parole, ho fatto solo segno così e basta. Come sono arrivato alle porte di Bolzano, il camion rallenta, perché c’erano le strade ghiacciate, non mi sono fatto niente, mi sono buttato giù dal camion, era già forse poco più di mezzogiorno, perché ho visto un gruppetto di operai davanti ad una piccola fabbrica. Parlavano veneto, io mi sono avvicinato, ed ho chiesto, come inizio, se avevano qualche bollino da darmi per comperarmi il pane. Loro mi guardavano in faccia e mi hanno detto: “Ma dove lavori, chi sei?”. Io ho risposto: “Lavoro lungo la ferrovia, sotto i tedeschi, però mi danno poco da mangiare. Se avete un bollino, due, tre, quattro, quello che avete”: Allora loro hanno aperto il borsellino e mi hanno dato forse due bollini mi sembra, ma adesso non lo ricordo bene, e al primo forno del pane, sono entrato e per la prima volta lo sai cosa ho visto? Lo strudel. Allora io gli ho fatto segno, “ma per questo ci vuole?” “No, questo può prenderlo senza bollini”. Nel frattempo avevo atteso sì e no dieci minuti, però mi è venuta un’altra idea, se hanno fatto questo buon gesto, ho pensato, provo a vedere se mi danno un’informazione per vedere come posso arrivare a Milano, e con quale scusa? E allora mi è venuto in mente di dire che mia mamma non stava bene, che però i tedeschi non volevano lasciarmi nessun permesso per andare a casa a Milano, ho chiesto: “Voialtri non sapete per caso se c’è qualche minima possibilità…”

D: Ma questo a chi lo hai detto?

R: Ai ragazzi lì. Sempre ai ragazzi, che sono tornati lì.

D: Della fabbrica?

R: Sì, quella piccola fabbrica, loro erano fuori. E mi hanno detto che sapevano per sicuro che tutte le settimane arrivava un camion della Montecatini da Milano e che poi tornava con un secondo carico, ma che loro non sapevano, di provare ad andare e chiedere informazioni.

Allora nel frattempo, dopo mezz’ora circa arriva il Bignami; per prima cosa gli ho dato il pane e gli ho spiegato il fatto che tutte le settimane partiva un camion della Montecatini che andava a Milano. Ci siamo appostati, più o meno quei ragazzi mi avevano spiegato la strada. “E allora tu vai avanti che non dai sospetto”. Ha suonato un campanello, io sono rimasto in strada; suona il campanello si presenta davanti alle guardie “Ho saputo che parte un camion tutte le settimane, non possiamo avere almeno un passaggio?” “Qui passaggi non ce n’è per nessuno” ha detto. Però il camion partiva la sera dopo, e allora dovevo informarmi come arrivare là. Noi alla sera giravamo, tanto per tirare sera, e all’imbrunire abbiamo visto un tramvai fermo, e siamo saliti. Siamo arrivati ad un piccolo paese, adesso chi è che se lo ricorda, entriamo, là era quasi tutto scritto in tedesco, in una trattoria e chiediamo se avevano qualcosa da darci. “No, non c’è niente”. Allora abbiamo trovato una scusa, “Perché noi vogliamo vedere se troviamo anche un posticino dove dormire, lei qui non ce l’ha?” “No, qui camere per dormire non ce ne sono”. “Perché siamo due camionisti, ci si è guastato il camion, eravamo a Bolzano ed in pratica fino a domani mattina non può consegnarcelo”. Lì c’era uno di loro che ci fa: “Guardate, io posso aiutarvi se vi accontentate, ho una bella stalla, ho dentro un cavallo, vi porto un po’ di paglia e delle coperte, se vi accontentate”. Abbiamo risposto di sì, che bastava riposarsi. Alla mattina addirittura ci hanno portati su in casa e ci hanno dato il caffelatte, pensa un po’. Riprendiamo il tranvai, e andiamo ancora a Bolzano, là eri in mezzo ai tedeschi, perché erano SS e Wehrmacht. Ad un certo punto io ho pensato, perché il mio pallino era Montecatini, o salto su di dietro o salto su in qualche modo io devo andare a Milano, allora sai cosa ho fatto? Ho detto a questo di Bovisio, “Guarda per dare meno sospetto, sai cosa facciamo? Dividiamoci, tu vai per conto tuo, io vado per conto mio”. Mi sono incamminato e sono andato verso la Montecatini. Suono il campanello, era verso mezzogiorno, come mi vede la guardia mi dice: “Ha bisogno?” Io rispondo: “Ho saputo che stasera parte il camion per Milano, se potete darmi un passaggio”. Allora mi guarda in faccia e mi dice: “Però devi dirmi la verità”. “Sì certo.” “Sei scappato dal campo di concentramento?” Io ho detto: “Dal campo di concentramento no, ma sono saltato giù dal treno che non cambia niente. Adesso se volete salvarmi bene, altrimenti me lo dite che troverò qualche altra possibilità”. Lui mi ha detto che ne avevano salvati diversi, e che avrebbero salvato anche me.

Mi chiese se avevo fame, se avevo mangiato, è andato in mensa, mi ha portato un bel piatto di minestrone, e poi mi ha detto che il camion partiva alla sera, verso l’imbrunire, perché viaggiare di giorno era pericolosissimo, perché veniva mitragliato. Là c’erano le brandine delle guardie: “Sdraiati lì, riposati, quando è l’orario giusto, ti chiamiamo”. Verso le cinque e mezza sento alcuni passi, infatti non solo la guardia, ma addirittura cinque o sei in borghese, mi sembra che ci fosse anche una donna, adesso non ricordo bene, ma erano in 5, 6 o 7 non ricordo più. “No, non spaventarti, siamo così e così e vogliamo solo sapere”. Allora mi hanno chiesto come, perché mi avevano arrestato, il treno, e ho spiegato qualcosa. “Noi ne abbiamo già salvati tanti, siamo in contatto con CLN Alta Italia”, adesso io non ho chiesto perché, come mai, e loro mi dissero subito, “Hai qualche soldo in tasca?” “Sì”, ho risposto. Avevo una piccola miseria, hanno fatto una colletta, avevano tirato su circa 400 lire, mi sembra, a quei tempi là non era poco, e in più la guardia mi ha dato una piccola borraccia di grappa, perché diceva che viaggiando su un camion avrei sentito freddo. Perché mi avevano nascosto …

D: Nel cassone?

R: Ecco. “Sul cassone, se senti freddo ti bevi un goccio di grappa”. E allora ogni tanto, “Alt, fermati”, c’erano i controlli, i blocchi, loro guardavano i documenti, e ti lasciavano andare. Quando siamo arrivati alle porte di Usmate, prima di Monza, arrivano i caccia che mitragliavano tutto quello che vedevano in movimento, allora blocca il camion, salta giù, io sono saltato anch’io e ho salutato. “Io me ne vado per conto mio”, ho fatto tutto il giro del parco di Monza, perché passare per Monza poteva essere pericoloso, e nella Piazza di Biassono non trovo, non vedo proprio uno che lavorava insieme a me al Campovolo? Allora lo guardo, sì, è lui, e lui mi chiama e gli spiego tutto. Mi ha portato a casa sua, e alla sera con due biciclette, anzi no, una bicicletta, io in canna, mi ha portato. Come arrivo a casa, verso le sei e mezza, perché siamo partiti verso sera, mia mamma è rimasta, perché mai più lei pensava di vedermi così. Mi dice subito: “Guarda che un’ora fa sono venuti quelli della Guardia Nazionale a cercarti”. “Ma tu non gli hai detto che mi avevano arrestato e mi avevano consegnato ai tedeschi?” Loro agivano tutti in modo autonomo e questo è stato.

D: Ti ricordi quando sei arrivato qui a Nova, che giorno era, più o meno? Quando sei scappato, quando ti hanno lasciato giù dal camion?

R: Guarda, era verso il 26 o il 27 gennaio, del ’45.

D: E poi sei rimasto qui a Nova?

R: No, sono tornato subito là, perché avevo diversi amici.

D: Dove là?

R: A Borgomisto. E infatti qualcosa ho potuto almeno trovare, mi hanno dato un pezzettino di pane, dello stracchino, una cosa e l’altra. In pratica lì si tentava ancora di organizzarsi. E abbiamo fatto una piccola squadra, eravamo in 5. Però diciamo che 3 non erano proprio tranquilli, perché lì a Borgomisto dormiva un ufficiale dei Repubblichini, lui era siciliano, però lì aveva la fidanzata e allora veniva a casa, ma era uno dei nostri, per cui ho detto io: “In montagna non posso andare”, e in pratica ci ha dato le armi e due bombe a mano. Perché lui diceva che era impossibile andare in montagna, perché era arrivata una nevicata, alla fine di gennaio del ’45. “Allora adesso state lì tranquilli, e poi vedremo”, freddo faceva freddo, però verso il 15 di febbraio ho saputo che lì vicino a Cinisello si era avvicinato questo tizio, era un parente di questo mio amico, che poi era venuto anche lui in montagna, si chiamava Bellotti, questo qui aveva uno zio che abitava in una fattoria vicino a Magenta e suo figlio era su in montagna. Allora lui ha fissato un appuntamento, e siamo partiti in tre, questi qui davanti ed io e il mio amico di dietro, con le biciclette, a Rho non ci ferma una squadra di fascisti con il suo comandante? “Fermi. Dove andate?” E allora noi niente, ma proprio sinceri al massimo, ci hanno chiesto i documenti, la carta d’identità, la mia era un po’ falsata, no? Al posto della data 01.02.26 davanti al 2 il mio amico aveva messo 1, perché le carte d’identità si scrivevano tutte a mano a quei tempi. E allora: “Quando sei nato?” “Sono nato l’1 del 12” “E allora perché non ti presenti?” mi ha detto quest’ufficiale. “Perché non mi hanno ancora chiamato, adesso come mi chiamano, vado.” “Ma puoi anche presentarti prima”. “Sì ma siccome siamo in 7 fratelli, e c’è solo mio padre ed una sorella che lavorano, e uno è nell’aviazione e l’altro è nella X MAS per adesso sto a casa per aiutare un po’ la famiglia” “Va bene ha detto, ma dove state andando?” “Stiamo andando da un amico del mio socio, qui, che ha una fattoria e diverse risaie e vogliamo vedere se possiamo avere qualche chilo di riso”. Pensa un po’. Ma ti racconto proprio la verità, eh, qualche chilo di riso. “Sì”,ha detto, “andate pure” E siamo arrivati a questa fattoria, in questa fattoria dopo due giorni arrivò la staffetta a prenderci, sempre a piedi, e la prima tappa l’ho fatta a Suno, lì c’era il comandante di distaccamento, il comandante era Lupo.

E lì ci ha tenuto tre giorni, però ha detto “Io qui non posso tenervi, perché il distaccamento non può superare i 34, 35 uomini, vi devo consegnare al comando di battaglione che si trova a Cavaglio d’Agogna.” E allora alla mattina presto ci siamo incamminati e siamo arrivati al comando di battaglione, il comandante di battaglione si chiamava Scacchi. Alla seconda o terza mattina mi ha detto: “Te la senti di andare giù insieme agli altri che dovete portare su il pane?” Perché ci facevano il pane fresco, eh? Giù al forno, farina requisita ad un mulino dove c’era un presidio fascista, sai chi ti vedo? Carpani Enrico. Come mi vede, mi ha chiesto, e allora gli ho spiegato il fatto, lui andò subito dal comandante di battaglione a spiegare chi ero e chi non ero, come arrivo su mi chiama il comandante di battaglione e mi dice “Guarda è venuto il tuo ex comandante che lo hai visto giù in paese e vuole portarti con sé, io ti terrei, vorrei che tu rimanessi qui, perché ho saputo quello che hai fatto e in pratica siccome adesso ne arrivano moltissimi di nuovi, in montagna, pensiamo di fare un altro distaccamento. Se rimani qui, con la formazione di questo nuovo distaccamento tu farai il vice comandante.” All’inizio io accettai, accettai perché io non ho mai voluto grosse responsabilità, “Si” ho detto, “io rimango”. Però il comandante del distaccamento non c’era mai lì perché era il comandante della Volante che sequestrava gli ufficiali per darli in cambio ai partigiani. Allora in pratica, dopo credo neanche 15 giorni, si pensava ad un grosso rastrellamento, cioè l’allarme era quello, avevamo capito che la responsabilità era troppo grossa, perché io sì potevo rischiare per conto mio, perché con quello che avevo fatto avevo rischiato diverse volte, ma era quel peso lì, la responsabilità degli altri, io non me la sentivo, e allora ho detto “Mi avete fatto vice comandante, ma il comandante non c’è mai? Perché io devo avere tutte queste preoccupazioni e questo peso di essere responsabile anche per gli altri?” E allora mi ha detto: “Sai cosa facciamo? Dobbiamo formare la squadra dei guastatori, aggregata al comando di battaglione”. Uno addirittura, Fieramosca, era un comandante di distaccamento, e durante un’azione aveva lasciato diversi morti, e anche lui non se la sentiva più. Gli altri erano tre capi squadra e in più il Topo che lo avevano dato in cambio, sì, lo avevano fatto prigioniero e dato in cambio. “Se tu accetti di far parte di questa squadra”. “Sì”, ho detto.

E allora lì ho accettato, e sono rimasto con la squadra dei guastatori. Ma in un certo senso potevamo essere in certi casi tra i più fortunati. Adesso ti spiego perché. Quando attaccavamo i presidi, Borgomanero, Cressa, Romagnano, dovevamo noi bloccare la strada in caso di rinforzi. Lo sai come si minava la strada? Con le bombole di ossigeno, si riempivano di dinamite, soprattutto la gelatina e avevamo tritolo, gelatina, miccia detonante, miccia lenta ed i detonatori. Guarda che c’era un grosso rischio, la mettevamo da un lato della strada e con il percussore, eravamo sempre in due, uno tirava il percussore e tirava il filo di là della strada, quando arrivava il rinforzo che poteva essere un autoblindo, e se partiva era un disastro, ma dovevamo sempre scegliere un posto dove potevamo, in caso, difenderci. Hai capito? O attraverso un canale, un fosso o una casa, perché dovevamo stare lì più o meno, per curare, anche un cane poteva avrebbe potuto far saltare.

Perciò il pericolo c’era e in caso se arrivava il camion che erano magari duo o anche tre, saltava sì il primo, ma gli altri due cominciavano a sparare, e in quel caso lì bisognava non scappare ma anche difendersi e avevamo delle armi che erano abbastanza micidiali, perché lo Sten era un grosso rischio perché poteva fare bersaglio a 50 metri, non di più. Lo Sten era un’arma sicurissima perché non si inceppava mai, ma il Bren faceva bersaglio a 200 metri. Era un’arma potentissima. In ogni modo ci andò benissimo, il rischio peggiore lo abbiamo corso al presidio di Arona, quando abbiamo attaccato il Presidio di Arona, io ed un altro dei guastatori, il giorno prima, avevamo lì due prigionieri, un maresciallo ed un tenente; erano due padri di famiglia, e non sapevamo come poterli salvare, perché mandarli a casa, tenerli lì non potevamo, beh è arrivato l’ordine di portarli su al comando di divisione che era su a Bocca, sempre a piedi, allora li consegniamo e nel frattempo però ci viene consegnato il primo bazooka che lo avevano lanciato tre giorni prima.

E con quello abbiamo anche fatto l’attacco del presidio di Arona. Lì ci sono stati solo 14 morti, perché sono arrivati tutti i rinforzi da Meina, che erano più di 100 tedeschi, e quei famosi 100 tedeschi lo sai chi erano? Quelli che quando sono arrivati dopo l’8 settembre e hanno rastrellato, mi sembra più di 200 ebrei, donne, bambini e vecchi, li hanno massacrati e buttati dentro al lago. Allora è successo così, quelli erano animali in pratica, non erano esseri umani, erano animali.

Allora poi è arrivato il rinforzo della Folgore da Novara, abbiamo resistito quasi 3 ore, ma poi abbiamo dovuto ritirarci e ci abbiamo lasciato 14 morti, più 3 civili. Ad ogni modo il rischio peggiore io l’ho avuto alla fine, quando sembrava che tutto fosse finito, non so se era il 23 aprile, perché noi, in pratica al 23 aprile avevamo già in mano i carri armati della Folgore di Borgomanero. E’ riuscito un prete a convincerli alla resa, perché oramai era la fine, era inutile resistere, spargere sangue. Erano i peggiori che c’erano, basta dire che al presidio di Borgomanero tre volte abbiamo tentato e non hanno mai ceduto. L’ultima volta che pensavamo di farcela, lo sai come? D’accordo con gli americani che dovevano gettarci due o tre bombe, e invece era una giornata di vento e le bombe non hanno centrato in pieno il presidio e abbiamo dovuto ritirarci.

Avevamo addirittura i loro carri armati, mi sembra il 23 aprile o forse il 24 arriva un ordine che a Castellazzo di Novara si sono concentrati, allora si diceva, più di 2000 fascisti. C’era la Monte Rosa, la Folgore, le Brigate Nere; noi come guastatori dovevamo perlustrare prima le cascine, prima di arrivare lì. Arriviamo nella prima, non troviamo niente, senza chiedere permesso, un colpo alla porta e si sfondava. Arriviamo alla seconda, io do un colpo alla porta e mi vedo due, avevano la nostra divisa, la divisa cachi che l’avevamo messa su 15 giorni prima. Quelli del Monte Rosa avevano il color cachi come la nostra e io stavo per dire: “Ma sono i nostri” no, invece loro avevano le fiamme bianche, noi invece avevamo le stellette bordeaux, “Ma no questi sono fascisti!” Il Topo lì mi dice di disarmarli, io li disarmo e fuori c’era Mosca, “Voi altri chiedete rinforzi, tentate di accerchiarli, io rimango qua dentro”, però un minuto prima, disarmati questi, al Topo viene in mente di guardare nell’altra stanza, e stavano venendo giù diversi fascisti. Sempre quelli, e allora scarica, si può dire, una raffica di mitra, e allora diciamo ai due che erano rimasti: “Ce ne sono altri?” “Sono sopra che preparano la mitraglia per la difesa”. E quindi loro, Fieramosca, il Topo hanno costeggiato il muro e hanno portato questi due fascisti dove c’era il grosso, per avvertire che bisognava accerchiarli. Io ero in trappola, cosa faccio, cosa non faccio, di là sentivi i lamenti perché qualcuno era ferito, in poche parole, in pochissimi minuti cominci a sentire sparare a destra, a sinistra, e sai cosa è stato il miracolo, diciamo così? Che quelli che erano sopra, come hanno sentito che stavamo per accerchiarli, sono saltati giù, perché erano al piano superiore, li vedo volare dalla finestra, meno male. Lì mi sono salvato.

D: Il 25 aprile come te lo ricordi?

R: Il 25 Aprile poi era una festa, perché oramai la guerra era finita, gioia, qualche piccolo divertimento, era normalissimo.

D: Voi siete entrati a Novara, però?

R: Sì. Dopo è arrivato l’ordine, io per 2 o 3 serate ho dormito con una famiglia privata, dopo il 25 aprile. Due notti mi sembra. Poi è arrivato l’ordine, ho caricato il camion e abbiamo dormito in una caserma a Novara, al 29 mi sembra, siamo saliti su un treno e siamo venuti alla grandissima manifestazione di Milano.

Io però, ti dico la verità, quando sono arrivato in stazione al posto di stare insieme a tutti gli altri, lo sai cosa ho fatto? Mi sono preso il tranvai, la gioia è stata quella, sono venuto a casa. Quando sono sceso, arrivato in piazza, perché io abitavo in quella che chiamavano la piazzetta, quasi in centro, vedo mio padre con mezzo toscanino in bocca, e io non sapevo quello che era successo a Nova, che c’erano state le sparatorie ed i morti. Allora io nella contentezza, mi è venuto in mente di sparare 4 colpi, con lo Sten, perché mio padre era là, indifferente, che si fumava il sigaro. Allora come mi ha visto, dopo 10 minuti arriva Luigi Erba, mi ha detto, “Sì, sei arrivato, pienamente d’accordo, la gioia di essere arrivato, però non dovevi fare quello che hai fatto perché è successo così e così, la gente è ancora spaventata, abbiamo avuto 3 morti…”, o 4 mi sembra, quella del Poldelmengo e 2 civili, minimo. Ecco, ma io cosa ne sapevo? Allora diciamo così sono tornato ancora in Valsesia, mi hanno dato il mio diploma, era verso il 10 maggio, tornai a casa, e purtroppo il lavoro non c’era più. Bisognava ricostruire la Breda Campovolo, e tutti si erano dati da fare per ricostruirla con picche, pale, carriole. Io ho lavorato una quindicina di giorni, poi è arrivato il capo del personale, mi guarda e mi dice: “Tu sei così e così?” “Sì”. Mi ha detto: “Guarda vedo che non è il tuo mestiere, lo fai perché lo fanno tutti gli altri, però in attesa che venga ricostruito il nuovo capannone, se vuoi, io sono amico del comandante della piazza di Como, vai su e per un po’ rimani nella polizia partigiana. Già c’era Luigi Erba, era andato su già 4 o 5 giorni prima, allora a metà o alla fine di giugno, no a metà giugno, sono partito e sono andato là, ho presentato il diploma che mi avevano dato in Valsesia e una cosa e l’altra. “Sì, sì”, mi ha detto, “allora dimmi adesso qui ci sono due posti dove andare. Vuoi andare alla caserma dove sono tutti gli altri, ma visto chi sei, io preferirei che tu rimanessi alla caserma delle finanze, perché lì abbiamo diversi prigionieri fascisti pericolosi, che non abbiamo potuto metterli nel carcere di Sant’Antonino. E siccome tu ci dai la massima fiducia perché lì abbiamo bisogno di gente sicura”. “Sì, ho risposto, per me va bene”.

Lì ho fatto 4 mesi, nella polizia partigiana, fino alla fine di novembre. Ma dopo quando sono venuto via, io non è che ho chiesto il diploma, i documenti, li ho lasciati là e basta.

De Bastiani Argentina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

D: Nata?

R: Nata a Cesiomaggiore il 4.11.1927, provincia di Belluno.

D: Argentina, com’è stata la tua scelta di aderire alle formazioni?

R: La mia scelta è stata che l’8 settembre sono entrati i tedeschi in Feltre. Da lì i soldati che erano militari lì sono andati in montagna. Lì si sono formate le formazioni partigiane.

Mio padre che è sempre stato un antifascista ha aderito a queste cose anche perché quando c’era Pippo che buttava giù le armi, i vestiti, il latte condensato, lui aiutava le persone che erano non in montagna, in paese, a nascondere le armi.

Poi i partigiani si sono fermati in Pedavena, Monte Grappa, ma io ero su Pedavena, non sul Monte Grappa.

Un bel giorno sono passati a casa mia, dovevano andare alla Feltrina di Feltre a far saltare questo piccolo stabilimento.

Mio padre ha fatto da mangiare a questi partigiani, una quindicina di partigiani che sono passati di lì.

Io lì ho conosciuto il comandante della Brigata Gramsci che si chiamava Bruno. Il suo nome è Brunetti Davide.

Da lì ho incominciato a fare la staffetta. Andavo a Feltre a vedere il movimento dei tedeschi. Andavo in montagna a portare dei bigliettini che il Comitato di Liberazione giù…

D: Dicevi, andavi su in montagna…

R: Andavo su in montagna a portare i bigliettini e a portare anche qualche cosa da mangiare perché su non ne avevano tanta. Con me c’erano anche tante altre staffette che facevano il mio stesso lavoro.

Però il primo tempo sono stata in piano col Comitato di Liberazione, si andava a Feltre a portare gli avvisi che dovevano portarci i soldi.

Poi si andava sulla Feltre-Belluno a fermare i tedeschi e a portargli via le armi.

È sempre stato così fin quando non mi hanno arrestato.

D: Ascolta, questi spostamenti con cosa li facevi?

R: In bicicletta.

D: Quanti chilometri facevi?

R: Non so, sono andata anche a Treviso, andata e ritorno in un giorno. Robe da non essere normali. Tant’è vero che mi sono fatta anche male perché andando in bicicletta c’erano le rotaie, la bicicletta è scivolata, però io dovevo andare per forza a Treviso.

Lì c’è stato anche un bombardamento mentre sono andata. Non sapevo che via prendere. Ho messo a posto il manubrio e sono andata e tornata.

D: Il tuo nome di battaglia?

R: Zara.

D: E quando te l’hanno dato? Chi te l’ha dato?

R: Subito i partigiani quando mi sono presentata al comandante.

D: Ma l’hai scelto tu o te l’hanno dato?

R: No, me l’hanno scelto loro.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Allora avevo sedici anni.

D: Quando ti hanno arrestato?

R: Il primo novembre.

D: Del?

R: 1944, alle 2.00.

D: E dove ti hanno arrestato?

R: In casa di Sempronio che era un comandante di partigiani. Lì ero andata per prendere una carta d’identità di un comandante di un’altra brigata.

Io avevo la carta d’identità. Mentre eravamo lì, eravamo una quindicina, abbiamo sentito i tedeschi.

Allora sette sono riusciti a scappare. La Luigia, l’Amalia, la Piera, io più cinque o sei ci hanno portati via.

Tant’è vero che c’era un professore che si chiamava Pingo. Questo l’hanno legato ad un palo e lui gli ha detto di non picchiarlo che poteva essergli utile. Difatti ha fatto poi la spia.

Da lì mi hanno portato nella caserma degli alpini a Feltre.

D: C’erano sempre i tedeschi?

R: Sì, anche i fascisti, c’era dentro uno che è stato liberato dalle prigioni di Belluno, Baldenich, hanno liberato due russi e altri tre che dovevano essere fucilati.

Questo era dentro insieme a loro, era un delinquente, è andato con i partigiani e si chiamava Roccia.

Da lì poi lui s’è messo con i tedeschi e ha detto tutte le persone che conosceva. Tant’è vero che quando mi hanno chiamato per l’interrogatorio il 4 novembre c’era lui e mi ha detto: “Stai meglio adesso o quando ci hai fatto da mangiare?” subito me l’ha detto, però prima di arrivare all’interrogatorio quando mi hanno arrestato, la nipote di Sempronio che è una che è venuta poi a Bolzano con me si è messa a letto.

Io facevo finta di darle da bere. Nel frattempo ho inghiottito la carta d’identità, perché se mi prendevano con quella carta d’identità ero fucilata all’istante.

Però il comandante del gruppo di questi fascisti, tedeschi m’ha detto: “Tu piccola vai”. Invece questo Roccia ha detto: “No, lei non deve andare perché lei è una partigiana”. Capito? Allora…

D: Scusa, Zara, cosa volevano sapere da te?

R: Sapere i nomi dei partigiani, dove si trovavano, se erano armati, tutte queste cose.

D. Sotto interrogatorio.

R: Sotto interrogatorio, poi era il 4 novembre, il giorno del mio compleanno, mi hanno interrogato.

Però la sera prima è venuto in cella un tedesco, che poi era venuto anche a Bolzano con un cane così.

Si è rivolto a me e mi ha detto: “Tu sei una partigiana?” Ho detto: “No”. Tu sei una partigiana, io ho detto sempre no, lui mi ha dato quattro o cinque schiaffi e il giorno dopo mi ha portato lì.

In cella eravamo in sei con una branda sola.

D: Tutte donne?

R: No, avevano messo dentro un trentino militare per sentire cosa dicevamo noi e un altro comandante dei partigiani insieme a noi per vedere se gli parlavamo, però questo che si chiamava Cimati mi conosceva, ma non mi ha mai guardato. E io non ho guardato lui. Capito?

D: Lì fino a quando sei rimasta? Lì alle carceri.

R: A Feltre otto giorni. Il giorno 8 alle 2.00 di notte ci hanno portato via su un camion, ma non ero solo io, eravamo una ventina.

D: Oltre a te c’erano altre donne?

R: Uomini e donne. Ci hanno portato al Corpo d’Armata di Bolzano. Lì ci hanno tenuto tre giorni, poi ci hanno portato in campo.

D: Scusa, Zara, la strada che avete fatto di notte… Avete fatto la Valsugana?

R. Sì, la Valsugana.

D: E non vi siete fermati?

R: Mai.

D: Mai?

R: Mai.

D: Siete arrivati al corpo, lì ti hanno ancora interrogato?

R: No, lì no. Lì non mi hanno interrogato. Da lì poi non mi hanno più interrogato, altri sì, però io no.

D: Quindi ti hanno portato nel campo di Bolzano?

R: Di Bolzano.

D: Come ti ricordi l’ingresso nel Lager di Bolzano?

R: Mi ricordo che erano lì con i mitra appena dentro il cancello. Mi hanno portato dentro in una stanzetta. Lì mi hanno tolto i vestiti borghesi, mi hanno dato la tuta da militare con la croce dietro e il triangolino e mi hanno messo nel luogo dove c’era la Cicci.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Il mio bianco e rosso.

D: E ti hanno dato anche il numero?

R: 5944.

D: Ti hanno tagliato i capelli?

R: No.

D: Non te li hanno tagliati?

R: No, non me li hanno tagliati.

D: La tua biancheria, hai potuto tenere qualcosa?

R: No, no, hanno portato via tutto loro. Noi avevamo su una camicia da militare, la divisa militare era, una mantella militare, gli zoccoli, però freddo da morire, perché senza maglie né niente, non c’era il riscaldamento dentro.

D: Nel blocco hai trovato altre persone, altre donne?

R: Nel blocco, non mi ricordo più quante eravamo, però ho incontrato Laura Ponti e Ada Bufalini che mi hanno fatto da mamma diciamo. Laura aveva dieci anni più di me, ne aveva ventisei, era del ’17 mi sembra Laura Corti.

Lì ho incominciato… Hanno chiamato i più giovani ad andare a lavorare. In un primo tempo sono andata in un ospedale militare a pulire patate e ad assistere i feriti tedeschi che c’erano dentro.

D: Sempre a Bolzano?

R: Sempre a Bolzano. Sarà stato un chilometro a piedi, andata e ritorno. Stavamo lì a pulire le patate. Andavamo a turno perché almeno si mangiavano le bucce.

D: Senza farvi vedere.

R: No, vedere, erano lì, dovevi buttarle via perché le buttavano ai maiali loro le bucce, ma noi eravamo peggio dei maiali.

Lì sono andata poco perché poi sono andata in un altro magazzino a mettere bottoni sulle divise militari.

Da lì sono andata poi vicino al campo dove c’era un magazzino che si spostava con attrezzi, tenaglie, martelli, cose varie, viti.

Lì sono rimasta poco. Lì abbiamo portato dentro del materiale per quel blocco che era vicino a noi, perché quando andavano via, perché non venivano più perquisiti quando partivano e noi avevamo avuto la fortuna di prendere questi attrezzi, tenaglie, martelli in modo che il primo vagone che è partito sono riusciti a scappare prima di arrivare al Brennero grazie a noi insomma.

Poi dopo non potevano più andare in Germania perché avevano bombardato la linea. Da lì poi sono andata in un altro posto dove sono andata con quello che sono scappata, col Sicilia, gli ho detto di scappare con me perché era uno delle SS.

Non mi ricordo più cosa facevamo in quel posto.

D: Sempre fuori del campo?

R: Sempre a piedi fuori del campo.

D: Ascolta, te li ricordi gli appelli nel campo?

R: No.

D: Al mattino non facevano l’appello?

R: Sempre, perché quando andavamo al Virgolo non so se cinque/sei volte facevano l’appello, perché lì in galleria potevi nasconderti benissimo, capisci?

Noi lì in galleria si lavorava dodici ore su dodici, da mezzogiorno a mezzanotte, da mezzanotte a mezzogiorno con un etto di pane e un po’ di sbobba con vermi dentro, quella roba lì.

D: Ascolta, quindi quando ti hanno chiamato per andare al Virgolo, dal campo vi portavano al Virgolo come?

R: In un primo tempo sì, andavamo a piedi. Poi dopo alcune notti si sono presentati dei partigiani che volevano liberarci. Allora hanno visto che la cosa non andava bene, ci hanno messo in una caserma vicino al Virgolo, eravamo a due passi come da qui al centro Bovisio.

D: C’erano anche gli uomini, altri deportati lì al Virgolo o solo voi donne?

R: No, quello di Limbiate era lì, c’erano di tutte le razze, eravamo in tanti a lavorare in questo stabilimento.

D: Cosa facevate?

R: Cuscinetti a sfera per una ditta di Imola, si chiamava la IMI

D: Lì al Virgolo cos’è successo? Tu sei stata tanto tempo lì al Virgolo?

R: Sì, sono stata finché sono scappata. Abbiamo fatto anche uno sciopero perché ci davano tre sigarette al giorno. Non avevi da mangiare… Una sigaretta si fumava in dieci. Lì ho cominciato a fumare.

Abbiamo fatto lo sciopero, è venuto il comandante del campo di concentramento, ci ha detto che poteva fucilarci tutti e noi gli abbiamo detto: “Siamo coscienti di quello che abbiamo fatto, però noi lavoriamo dodici ore”, sapevamo che questa ditta era l’unica che faceva cuscinetti a sfere, almeno dateci cinque sigarette al giorno, su dodici ore che lavoravi, era giusto che ci dessero questo.

Pane no, perché il pane non te lo dava nessuno, però il pane qualche cosa ce lo portavano dentro quelli di Ferrara della IMI. Sì, ci portavano dentro qualche cosa, qualche pezzettino di pane.

D: Dentro nella fabbrica, nella IMI, c’erano solo tedeschi a fare la guardia o anche i fascisti?

R: Quelli delle SS, tanto italiani che tedeschi, erano quelli delle SS che c’erano lì. Ma dentro, ce n’erano due all’entrata da una parte e due dall’altra. Passavano. Se vedevano che non lavoravi, venivano lì a farti il frustino sulle spalle. Io l’ho ricevuto tre volte.

D: Perché?

R: Perché non hai la forza di stare in piedi. Se le macchine non funzionano e dovevano funzionare, capisci? Come fai a stare in piedi?

D: Allora ti menavano?

R: sì, col frustino grosso così.

D: Ti hanno menato?

R: Tre volte. Però quella volta…Mi sono dimenticata di dire che sono andata fuori a bere dai miei genitori, c’era questo Sicilia, ritornando hanno chiesto chi era andata a bere l’aranciata al bar.

Io ho detto: “Sono stata io”, non potevo mettere a repentaglio le altre ragazze. Allora la Tigre ha incominciato a picchiarmi in faccia, anche due uomini tipo mio marito, sempre in faccia. Da lì sono andata dieci giorni in infermeria perché mi era uscito sangue dappertutto in faccia, poi avevo una faccia grossa così.

D: L’infermeria del campo?

R: Sì.

D: Quando arrivavano i tuoi genitori, cosa ti davano?

R: I miei genitori mi portavano su marmellata e latte condensato.

D: Poi?

R: La polenta una volta.

D: E lettere non te ne davano?

R: Sì. A Feltre oltre che per il rastrellamento eravamo in tanti arrestati. Nel rastrellamento sono stati 1.500. Poi tutti gli altri. C’era un camion di un industriale di Feltre che veniva su col camion, aveva un figlio anche lui lì.

Allora portavano su un po’ per tutti, si distribuiva fra di noi. Però sai quando tu sei lì non puoi dare niente a nessuno. Invece c’era gente che si nascondeva e faceva anche venire il nervoso.

Cosa ti costa dare un cucchiaio di latte condensato ad un’altra persona? Invece c’erano quelle che erano state arrestate con me che non davano niente a nessuno, tant’è vero che avevo rotto un po’ i rapporti.

D: Quindi ti davano le lettere da distribuire?

R: Distribuire, sì e quella volta che ho preso le botte, questo Sicilia con cui poi sono scappata, mi ha portato dentro lui le lettere nel blocco.

Poi volevano sapere chi era la guardia. Dovevo dirlo prima forse.

D: Non ha importanza.

R: Volevano sapere chi era la guardia che mi ha portato a bere l’aranciata. Ho detto: “Guardi, in tre sono venuti dentro, sono in tanti, non li riconosco. Può venire chiunque, ma non li riconosco. Ne ho approfittato ad andare a bere un’aranciata. Voi se foste stati al mio posto, non sareste andati? Però, dato che sono qui, non sono scappata, non ho fatto niente di male”.

Loro volevano sapere chi erano le guardie, ma non gliel’ho detto. No, tanto, oggi o domani ci avrebbero fatti fuori tutti. Si pensava che ci avrebbero uccisi in massa lì a Bolzano. C’era il forno crematorio anche lì, ultimamente hanno detto che c’era. Io non l’ho visto, però hanno detto che c’era.

D: Zara, quindi quella volta le lettere…

R: Le ha portate dentro lui in blocco.

D: Tu però le portavi anche fuori le lettere?

R: Sì, da Laura Ponti, le portavo al caporeparto della IMI, era Laura. In un foglietto così ci saranno state cento parole, però lei si fidava di noi, non ci perquisivano quando andavamo fuori, perché le lettere non sono mai state portate dentro da noi.

Quando noi eravamo in campo ci perquisivano.

D: Quando tornavate?

R: Sì, fuori no, ma dentro sì.

D: Nel tuo blocco avevate i letti a castello?

R: Sì, a quattro castelli.

D: In quanti dormivate per ogni ripiano?

R: Non so. So che c’erano quaranta prostitute.

D: Con voi?

R: Con noi, sì, venute da Genova, tutte malate. Infatti avevamo anche fatto un po’ di appello perché erano malate con noi. Noi eravamo politiche, non ne volevamo sapere di queste, perché loro non andavano a lavorare. Noi sì.

Ad esempio Laura Ponti lavorava in lavanderia. La Bufalini era in infermeria. Loro non potevano uscire perché erano pericolose.

D: Dentro nel blocco avevate i servizi igienici?

R: Sì, c’era il gabinetto e un rubinetto d’acqua per lavarsi la faccia, ma non per lavarsi sotto.

D: Le docce te le ricordi?

R: Erano fuori, andavamo dentro una trentina alla volta a fare la doccia. Lì è stata la prima volta che sono andata a fare la doccia. Vedermi lì nuda con tutte queste donne. Mi sono messa un affare addosso. Ho detto: “Qui ti fanno morire.”

Appena dopo due giorni che sono arrivata ho lavato le mie mutandine. Le ho messe sul reticolato, le ho tirate giù che erano nere di pidocchi, nere.

D: Ti ricordi se nel Lager di Bolzano c’era anche il blocco celle?

R: Sì, il blocco celle, poverine! Quella che ti ho detto che doveva scappare, si è confidata con la ragazza di uno delle SS e quando era il momento di scappare, sono arrivati quelli del campo e l’hanno portata via, l’hanno portata in cella e anche torturata.

D: Tu te lo ricordi quello?

R: Si sentivano le urla, perché le celle erano così, noi eravamo qui, quando ci facevano l’appello, c’erano i finestrini aperti, si sentivano le urla.

C’era una di Padova che ha buttato fuori i suoi ori tutti a pezzettini. Lì portavano dentro anche i bambini ebrei a picchiarli.

D: Il primo tentativo di fuga tuo?

R: Il primo tentativo di fuga è stato… De Luca si chiamava il comandante dei partigiani, lì aveva la moglie. Lei mi ha detto: “Vuoi scappare con me?” Ho detto: “Sì, sì”, perché io avevo sempre intenzione di scappare.

Allora mi dice: “Guarda che alle 2.00 di questa notte noi dobbiamo essere a un imbocco della galleria”.

Noi avevamo capito che era all’imbocco, all’entrata, invece era all’altro imbocco. Lì quelli della IMI ci hanno procurato mezzo litro di Vov, l’abbiamo bevuto tutto.

Alle 2.00 di notte hanno cominciato: “I banditi, i banditi. I partigiani, i partigiani”. Noi che eravamo messe con i vestiti borghesi, perché i miei genitori poi mi hanno portato su ancora dei vestiti borghesi, abbiamo appena fatto in tempo a toglierci i vestiti, a metterci la tuta.

“Banditi, banditi”. Però c’era un macchinario a quell’imbocco della galleria, c’era un prigioniero che faceva andare questo macchinario. Hanno interrogato lui. Questo marito di questa gli ha chiesto il mio nome. Emma si chiamava lei. Sono venuti subito a cercarci.

Notare che lui ha disarmato una guardia, per tre giorni, sicché qui era un sottopassaggio, noi si passava di qui, per tre giorni lui è rimasto lì sul marciapiede mentre noi passavamo.

C’era questa guardia che era un cecoslovacco, non l’ha mai fatto arrestare. Lui per tre giorni ha cercato di far sì che sua moglie potesse scappare.

Infatti, lei si è tinta i capelli, si è nascosta mentre stavano sorvegliando la galleria in un cassetto della scrivania. Ci saranno stati trecento militari fuori. Lei cosa ha fatto? È passata fuori assieme ai borghesi. Ha avuto una forza grande, grande, però sono venuti a cercare me.

Lì mi hanno picchiato un po’, mi hanno detto: “Tu devi sapere dov’è”. Io non so, non so, non mi hanno fatto niente, però ero sorvegliata giorno e notte, con chi parlavo e cosa dicevo. Per un po’ di tempo, poi mi hanno lasciata libera. Libera, nel senso che non mi sorvegliavano più.

D: Zara, quando vi hanno spostato dal Lager di Bolzano e vi hanno messo in questa caserma vicino al Virgolo, voi facevate quante ore al giorno di lavoro?

R: Dodici.

D: Al mattino e dodici di notte?

R: Sì, si partiva da mezzogiorno a mezzanotte, da mezzanotte a mezzogiorno.

D: E quando vi fermavate per mangiare?

R: Fuori, nella galleria.

D: E cosa vi davano da mangiare?

R: Ci davano un etto di pane. Al mattino ci davano un po’ di caffè sporco di orzo senza pane né niente. Il pasto maggiore era una tazza di sbobba con dentro il pane raffermo, gli avanzi del pane e dell’orzo e i vermi che galleggiavano.

D: Questo a mezzogiorno?

R: Che fosse stato mezzogiorno o mezzanotte, era il pasto maggiore questo.

D: E poi?

R: La sera un po’ di brodo e basta.

D: E basta?

R: Basta. Non si poteva stare in piedi.

D: Lì in questa caserma dove dormivate voi? Sempre sui letti a castello?

R: No, eravamo tutti nelle brande. Sì, lì si stava bene a dormire, solo che il giorno di Pasqua noi ci siamo affacciate alla finestra e loro continuavano a spararci su da basso perché non volevano che noi ci affacciassimo neanche alla finestra.

D: Il giorno di Pasqua di che anno? Del ’45?

R: Del ’45, sì. Io sono scappata, non mi ricordo più se il 22 o il 23 di aprile.

D: Eri dentro ancora al Virgolo?

R: Sì, sempre al Virgolo.

D: Come hai fatto a scappare quella volta? Poi non sei scappata da sola?

R: No, sono scappata con tre donne, una di Imola, la Gina, la Ester di Vercelli e sette uomini.

Al cambio di guardia ho detto al Sicilia: “Adesso dammi il mitra perché adesso è ora di andare. Guarda, se vuoi venire con me, gli ho detto io, tu sai che finita la guerra, perché la guerra finisce, tu verrai messo in prigione, se vuoi venire con me, ho detto, io ti salverò, dirò quello che hai fatto tu”.

“Io ho fiducia in te perché ho conosciuto anche i tuoi genitori, però preferisco stare a Bolzano perché ho la fidanzata qua”.

Da lì subito fuori c’erano i partigiani e ci hanno accompagnato, noi tre donne in una stanza quasi vicina al Virgolo e gli uomini li hanno portati alla Lancia.

Da lì loro sono partiti a destinazione. Invece sono venuti a prendermi dopo tre giorni. Ho lasciato lì la Gina e la Ester, non so più come sono andate a finire.

Io so che sono venuti a prendermi con una macchina nera, mi ricordo e mi hanno portato in un negozio di scarpe. Avevo già un documento falso che venivo da Innsbruck.

Sono stata lì un po’. Da lì arrivava un camion dell’alimentazione di Merano con dentro un altro prigioniero che aveva rotto le braccia, sotto il sedile dove ero seduta io c’era questo qui.

Niente, mentre stavo per salire sul camion sono passati due delle SS, gli aguzzini del campo. Non sapevo se andar su nel camion o consegnarmi.

Mi sono decisa ad andare su, mi hanno dato un pastrano nero. Loro mi avrebbero riconosciuto, sì, perché era quello che mi aveva fatto prendere le botte.

Da lì mi hanno portato a Feltre e sono andata proprio nel covo degli assassini. Uno, non mi ricordo più come si chiamava, questo era un fascista che ha fatto portar via tanti partigiani.

Tant’è vero che è stato processato, ha preso venticinque anni, dopo neanche un anno è stato liberato, è andato a finire in Argentina.

D: Tu sei andata a testimoniare?

R: Sono andata a testimoniare perché uno di santa Giustina, era un partigiano, mi ha detto: “Senti, Zara, se tu riesci a portare a casa la pelle, dì ai miei genitori che chi mi ha fatto arrestare è un tizio”. Adesso non mi ricordo più come si chiamava.

Difatti quando c’è stato il processo, c’era Meneghelli, direttore del manicomio di Feltre, che è stato portato a Mestre. Questo qui li ha portati a Mestre. Lui era un ex comandante. Quel comandante dei partigiani che era dentro in cella con me che poi è riuscito a scappare, li hanno portati a Mestre.

Arrivati a Mestre, dentro c’erano già i tedeschi e in prigione c’era lui che è andato a testimoniare, questo tizio dove io mi sono fermata a testimoniare, che lui era un partigiano, che è andato poi a morire a Mauthausen negli ultimi giorni.

D: Era con te nel campo di Bolzano?

R: Sì.

D: Poi hanno fatto il Transport a Mauthausen?

R: Sì, perché il blocco che c’era vicino a noi era il blocco dove c’erano i provvisori. Dopo due o tre giorni partivano. Fin quando la ferrovia funzionava, poi c’erano i camion che li portavano avanti e indietro.

D: Del Lager ancora cosa ti ricordi? C’era il muro di cinta con il filo spinato attorno?

R: Sì, tant’è vero che uno ha tentato di scappare, sua madre l’ha visto impigliato nei fili, nel filo spinato.

D: C’erano le garitte con le guardie?

R: Sì.

D: Queste te le ricordi?

R: Sì. Mi ricordo dove c’era il comando, dove c’erano le celle, dove ci portavano a lavarci la faccia, perché non tutte potevano lavarsi la faccia dentro lì, dove facevamo il bagno in trenta/quaranta persone.

D: Sempre dentro nel campo ti ricordi se quando tu eri nel campo c’erano anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Si, infatti io dal Corpo d’Armata ad andare al campo ero assieme a un prete. Ho detto alle mie compagne di sventura, “Qui adesso ci portano a uccidere”, abbiamo pensato, perché dal Corpo d’Armata ci hanno portato, era lunga dal Corpo d’Armata ad andare dove c’era il campo, fuori per queste strade di campagna.

Abbiamo detto: “Ci portano ad uccidere”. Quando ti prendono, sei sicura che fai una brutta fine. Uno non spera più di vivere. Quando uno cerca di scappare, allora sì, ci riesce, ma sai che se va male ti fanno fuori, questo era il detto.

D: E questo sacerdote era uno di che parti?

R: Non lo so.

D: Non te lo ricordi?

R: No, perché noi una volta che eravamo dentro, le donne da una parte e gli uomini dall’altra.

D: Ma questo sacerdote che era assieme a voi era anche lui deportato però?

R: Sì, un deportato anche lui. Ce n’erano diversi dentro.

D: Dei bambini l’hai già detto. Di donne eravate in tante?

R: Adesso non mi ricordo quante, ma un due/trecento sì. Quaranta/cinquanta erano delle prostitute. Il resto eravamo tutte di noi.

D: Questo nel tuo blocco.

R: Sì, non soltanto politiche, anche quelle di rastrellamento, eravamo tutte assieme come donne.

Ho lasciato fuori una cosa, che nel blocco vicino a noi avevano fatto una galleria a mano, mancava mezzo metro per scappare.

Il capo blocco che era un bolzanino ha avvisato e lì sono stati portati fuori. Noi siamo state la vigilia di Natale, la notte di Natale in piedi fuori del campo, perché portavano fuori questi prigionieri, ogni dieci frustati, buttavano addosso un secchio d’acqua e rinvenivano.

Avevano detto “Siamo stati noi”, invece tutti avevano fatto il lavoro e quel disgraziato di bolzanino ha fatto questa cosa.

Poi abbiamo saputo che dal campo guardando c’era un castello in alto, li portavano lì a fucilare. Quelli che hanno picchiato, li hanno fucilati, così abbiamo saputo.

Perché ci hanno lasciate fuori? Perché abbiamo tolto i mattoni per dare da mangiare a loro. Loro non ci hanno dato niente. Noi siamo state con metà mangiare per darlo a loro.

A noi per castigo ci hanno fatto star fuori del campo.

D: All’appello.

R: All’appello. Giorno e notte in piedi. Se cadevi, erano lì col frustino a dartele addosso.

D: Una bella notte di Natale!

R: Oh, sì.

D: L’albero di Natale non è stato fatto?

R: L’albero di Natale con quei poveri che erano lì appesi.

D: Zara, ti ricordi quando è venuto il vescovo di Belluno dentro nel campo a celebrare messa?

R: Sì, me lo ricordo, ho anche il santino.

D: Ma tu sei andata a sentire la messa?

R: Sì, sono andata a sentire la messa, soltanto che, ti ho detto, io sapevo tramite i partigiani che i partigiani di Belluno avrebbero dato un golfino per tutti noi bellunesi, però lui ha detto: “A chi non fa la comunione non do il golfino”.

Io ho detto: “Qui non si deve venire a fare queste cose. Tu non devi guardare chi ha un’idea diversa dalla tua. Dato che lui fa queste cose, io non faccio la comunione”.

D: E non hai preso il golfino.

R: No.

D: Faceva freddo però.

R: Faceva freddo con niente da mangiare, figurati te, altro che freddo. Avevamo una copertina grossa così e sotto avevamo il crine, questi castelli che poi hanno tutte … Quando ti alzavi la mattina eri più rotta che altro.

D: Zara, per una ragazza di sedici anni, diciassette anni, l’esperienza del campo di concentramento cosa vuol dire?

R: Vuol dire che impari tante cose, amare un po’ il prossimo che oggi non c’è più. Impari a soffrire, impari anche a soffrire per sopravvivere.

Non ti so spiegare cosa si prova con tutta sincerità. È una cosa che non so spiegarmelo, non so proprio spiegarmelo.

So che quando sono tornata e ho visto tante persone che erano contro noi, contro noi partigiani, avevano il fazzoletto rosso, mi sono messa a piangere. Io ho detto: “Forse non ne è valsa la pena del nostro sacrificio”. Lo giuro.

Fra questi c’era uno, io ho saputo, che è lui che è andato dai tedeschi a dire che la mia famiglia era rossa e che io ero partigiana.

D: E’ stato lui a fare la spia?

R: Sì, tant’è vero che mio padre finita la guerra è andato, gli ha sputato in faccia e gli ha detto: “Se moriva mia figlia, tu a quest’ora non ci saresti più stato”.

Però lui non ha reagito, no.

D: Zara, prima tu dicevi che la prima volta che hai fatto la doccia lì al campo sei rimasta un po’ scioccata perché nuda, assieme ad altre trenta donne…

R: Io avevo vergogna a vedermi in sottoveste con mio padre. Una volta era così.

D: Quel pudore, cosa voleva dire nel campo perdere il pudore?

R: Non so, io mi sarei lasciata ammazzare piuttosto che andare lì. E’ stata per me una cosa più forte di quando mi hanno picchiata.

D: Un’umiliazione più forte?

R: Sì, più forte, perché io fino a che è morto mio padre, adesso è un discorso diverso, ho ottantatré anni, gli ho sempre dato del voi.

Per me che con mio padre avevo una vergogna di parlare, di farmi vedere solo in sottoveste e trovarmi lì nuda così, con donne di tutte le età.

Ce n’era una poverina di venti anni che aveva un gran bel seno, si chiamava Piera e mi ha detto: “Mamma, a cosa devo assistere. Anche questo ci fanno fare?” Lei non voleva spogliarsi. L’hanno picchiata perché non voleva spogliarsi. Anche lei ha detto queste cose.

Io posso dire che oltre alle botte non mi hanno fatto nient’altro. Le botte sì, ma nient’altro mi hanno fatto. Hanno tentato qualche cosa? No.

C’era questo ucraino, quello che mi picchiava, forse io gli piacevo, ma io tutt’altro che star lì a fargli il sorriso. Erano cattivi, erano proprio cattivi.

D: Ti consideri fortunata?

R: Sì, di essere tornata sì, però avrei preferito morire lì.

Sì, perché quando ho visto le persone che veramente ci odiavano perché noi portavamo da mangiare ai partigiani e poi vedermeli col fazzoletto rosso, è stata una cosa brutta, brutta, brutta.

Tu devi pensare che io per tre mesi dovevo mettermi i guanti perché mi graffiavo dappertutto, perché dicevo “Adesso mi picchiano, adesso mi torturano, adesso mi ammazzano”. Per tre mesi una vita così ho fatto.

D: Questo dopo che sei scappata?

R: Sì, quando sono tornata a casa.

D: Dopo la Liberazione?

R: Sì. Ma vedere queste persone proprio… Noi abbiamo avuto anche degli inglesi, abbiamo portato da mangiare anche a degli inglesi, questi sono venuti in Italia dopo finita la guerra.

D: Questo a casa però.

R: Sì, a casa.

D: Prima di essere arrestata?

R: Sì, nel… Prima, prima di essere arrestata, sì. C’era mio fratello che era, lui ha quattro anni meno di me, aveva tredici anni, lui e un altro mio cugino andavano in montagna a portare da mangiare a questi inglesi, erano scappati a Bologna e si erano rifugiati lì.

Cinque erano insieme a noi partigiani, gli altri, questi non hanno voluto andare dai partigiani, però vivevano in paese così, senza riguardo per noi, vedevano e non interessava niente. Diciamo anche questo, che noi abbiamo rischiato la vita più di una volta per loro, perché loro si esponevano, andavano in giro e sapevano… Capito?

Mio padre è stato tre ore nella mangiatoia della mucca.

D: Nascosto?

R: Sì. Perché l’avevano cercato per portarlo via. Mia madre al muro e mio fratello e mio padre nella mangiatoia della mucca.

Il giorno in cui io sono andata a Bolzano, loro sono andati lì a fare rastrellamento a casa mia. Capito?

Tante persone anche oggi. Sai cosa avevano detto? Che mi avevano portato a Bolzano perché ero incinta. La cattiveria delle persone. Hanno detto che mi avevano portato a Bolzano perché ero incinta. Non sapevo neanche cosa voleva dire avere un bambino!

D: Questo passaggio. Tu dicevi che a Pasqua c’è stata la messa nel campo, però a Pasqua quando vi affacciavate dalla finestra…

R: Sparavano su.

D: Ma sempre lì nel campo questo?

R: No, lì vicino al Virgolo, nella caserma.

D: Perché non dovevate guardare fuori della finestra?

R: No, non dovevamo guardare fuori della finestra.

D: Per vedere il paesaggio.

R: Non dovevamo, anche se era Pasqua, non dovevamo guardare fuori. Poi c’era quella Tigre lì che viaggiava continuamente con un cane grosso così, oltre ad avere paura di lei avevamo paura del cane.

D: Oltre a queste tue amiche, quella di Imola, quella di Vercelli, la Laura di Milano e la Bufalini, ti ricordi altri deportati? Anche uomini?

R: No, di uomini non mi ricordo.

D: Il Tarvisio non te lo ricordi?

R: No, perché anche se lui lavorava al Virgolo, gli uomini da una parte e anche quando eravamo a fare l’appello, gli uomini davanti, noi dietro, ma non eravamo insieme. Non c’era contatto tra uomini e donne. Non ci lasciavano il contatto.

D: Questo Virgolo in sostanza in che cosa consisteva?

R: Una galleria.

D: Una galleria per fare una strada?

R: No, qui passa l’Isarco e la ferrovia che va al Brennero, qui c’è una galleria con tre crocefissi in alto e dentro lì c’era questo stabilimento.

D: Lo stabilimento dentro la galleria.

R: Sì.

Dovevano tracciare una strada, hanno fatto questa galleria e dentro lì hanno messo questa fabbrica. Adesso è la strada che si fa per andare al Brennero, passi sotto il Virgolo, passi dentro la galleria del Virgolo. È una strada. Prima invece avevano messo dentro questa fabbrica.

D: Come mai in tutti questi anni a Bovisio non c’è mai stata l’occasione per parlare ai ragazzi delle scuole?

R: Perché nessuno mi ha mai interpellato, perché nessuno a Bovisio sapeva che io sono stata in campo di concentramento.

D: Perché non l’hai detto tu?

R: No, a nessuno. Perché io venuta qui sono andata a lavorare, avevo i figli da mantenere, farli studiare, non avevo certo tempo di andare in giro. Anche perché io appena venuta qui sono andata alla Snia, avevo ventisette anni.

D: Alla Snia di Varedo?

R: Di Varedo. Sono andata tramite i sindacati, non mi ricordo più. Ero andata a Milano, all’ANPI, mi avevano fatto il certificato che ero stata partigiana e avrebbero dovuto assumermi. Mi hanno fatto la visita e tutto. Il giorno in cui dovevo presentarmi per andare a lavorare mi hanno detto che ero troppo vecchia a ventisette anni e io non ho mai avuto aiuto da nessuno, a parte che io non ho chiesto niente a nessuno, però io non ho mai avuto niente da nessuno.

D: Zara, dopo il Lager, dopo la liberazione, tu hai mai avuto paura di questa tua esperienza che avevi fatto? Di questa tua esperienza del Lager?

R: No. Io non avevo paura, ero diventata forte. Diciamo la verità, sei bambina a sedici anni, si è bambini. Vai davanti al pericolo senza renderti conto che c’è il pericolo, perché andando a fare la staffetta io non sapevo niente cosa voleva dire, però era il mio istinto di andare, non per far vedere alla gente, per il mio desiderio di poter aiutare.

Ti dirò di più, finita la guerra, quando c’è stata la ritirata dei tedeschi, sono venuti nella montagna, qui c’è il mio paese, qui una piccola montagna. Io sono andata a portare del pane ai tedeschi e c’erano due che erano a Bolzano della Wermacht e mi hanno riconosciuto.

Mi hanno detto: “Noi ti abbiamo trattata male e tu vieni a portarci questo?” “Sì, perché io so cosa vuol dire essere prigionieri”. Ho portato le lamette, sapone e del pane, due cesti di pane. Mi sono fatta aiutare da mio fratello, però loro si sono meravigliati che io avessi fatto quel gesto.

Io so cosa vuol dire essere prigionieri. Tu hai un’idea, io ne ho un’altra, però siamo sempre prigionieri.

Ma non ho avuto aiuto da nessuno.

Nulli Mariuccia e Rosetta

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: C’era una canzone che voi cantavate nel campo?

Mariuccia: Sì, c’era una canzone che era il rifacimento di una canzone di moda. Il rifacimento delle parole.

Rosetta: L’aveva fatta Funaro, lei non ha mai sentito parlare di Funaro? Era un… aveva delle orchestre.

D: Importanti?

Rosetta: Importantissime.

D: Ed era anche lui un deportato lì con voi?

Rosetta: Sì, era un ebreo.

Mariuccia: Sì, è partito in ottobre, in mutande.

Rosetta: No, in novembre, forse.

Mariuccia: Sì, insomma, una delle prime partenze, completamente in mutande.

Rosetta: E allora noi con Funaro, con grande ira delle guardie, lui Funaro si nascondeva nella nostra cella, ti ricordi? Veniva e si nascondeva in modo che lo avvisavamo quando c’era una guardia, lui si metteva dietro un castello e stava lì ad aspettare, e poi noi lì delle celle ad un certo punto ci mettevamo insieme, lui ci dirigeva e cantavamo la canzoncina.

D: E com’era questa canzone, ve la ricordate?

Rosetta: Sì, sì.

Mariuccia: Era una canzone che nella realtà diceva: “Tutto passa e si scorda, tutto deve finir, è partito il mio amore” qualcosa di simile.

Rosetta: E invece la parodia era: “Tutto passa e si scorda, tutto deve finir, se verrà l’armistizio, ce ne andremo di qui”. Della tuta con croce, un pacchetto farem”

D: Va avanti, però!

Mariuccia e Rosetta: Ed ai repubblichini, volentier la darem. Proveranno la sveglia, delle cinque al mattin, proveranno il buiolo, proveranno il frustin. Non ve n’è più di tedeschi, fame non avrem più, scorderemo l’appello, se torniamo laggiù. Fine.

D: Non vi hanno mai scoperte a cantare?

Mariuccia: Sì, ci picchiavano nella cella col calcio del fucile.

Rosetta: Ma guardi che questa era una roba da bambini, eh? Lei ci fa fare…

Mariuccia: Ma la cantavano tutti.

D: Non è una cosa da bambini, aveva un significato. Era molto eversivo dentro lì.

Mariuccia: Sì, però, era molto eversivo, però se lei si mette in un posto con tremila o quattromila persone che vanno in giro canticchiando così, magari in cinque o sei, poi quando arriva la guardia tedesca smettono, cosa vuol fare? Non era proibito né ridere né canticchiare. Se uno aveva la forza di farlo. E poi comunque si cantava sottovoce.

Rosetta: Aveva un profondo significato. Poi loro forse non capivano.

Mariuccia: Non è che si facessero i cori.

Rosetta: No, ma Mari, non proprio sottovoce perché cantavamo in dieci, dodici persone, e quelli che non potevano uscire dalla cella cantavano dal buco, dallo spioncino.

D: Quindi si era diffusa subito questa canzone?

Mariuccia: Sì, ma era una canzone praticamente molto in voga in Italia, allora. Io le parole della canzone reale non le ricordo, però è facile trovarle.

Rosetta: E penso che l’avesse scritta lo stesso, l’avesse composta lo stesso Funari.

Mariuccia: Funaro? Può darsi.

Rosetta: Ho detto Funari? Per l’amor di Dio, mi correggo: Funaro.

D: Ma ditemi un po’, sorelle, come mai voi siete finite in Via Resia, a Bolzano, quando, perché?

Rosetta: Siamo finite a Bolzano, perché mio marito, che era stato arrestato a Genova dalla Gestapo, faceva parte di una missione….

D: Suo marito è stato arrestato a Genova?

Rosetta: Sì, a Genova, dove stava lavorando con altri che facevano parte di questa missione alleata, e poi dopo aver passato un giorno nella casa di questo studente era stato trasportato nelle celle sotterrane della Gestapo di Verona.

D: Quindi da Genova a Verona.

Rosetta: Sì, alla Gestapo di Verona. E lì proprio per una fortuna incredibile, inspiegabile, mentre lo facevano lavorare per scaricare delle carte che i tedeschi stavano ammassando perché cominciavano a partire, Firenze non era stata occupata allora, gli alleati erano poco sopra Roma ma erano ancora abbastanza lontani. Comunque quel giorno, lui che non avrebbe dovuto assolutamente uscire dalla cella, per uno sbaglio del maresciallo che faceva servizio, è uscito e lo hanno mandato in un garage lì vicino alle celle a scaricare un camion. Lui ha aperto una porta, ha visto che c’era un finestrino, ha visto che il salto era di circa due metri e mezzo o tre metri, si è buttato ed è scappato.

D: Da Verona?

Rosetta: Sì, lui è scappato l’11 settembre.

D: Del ’44?

Rosetta: Del ’44 e la mattina del 12 settembre, alle cinque, sono venuti nella casa di campagna di mio padre, che si chiama “Il Ronco”, sono venuti, è venuto un tenente della Gestapo che mi pare, me lo hanno detto quelli della Digos, si chiamava Martin Engmann, insieme con altri soldati, quanti soldati saranno stati? Tre o quattro.

Mariuccia: Tu stai parlando del Ronco? C’era uno che si chiamava Otto, io di Martin Engmann non so niente.

Rosetta: Il tenente si chiamava Martin Engmann.

Mariuccia: Che è venuto al Ronco?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: Comunque lui si è presentato, era un capitano che si chiamava Otto.

Rosetta: No, non era, ah, c’era anche un capitano?

Mariuccia: C’era un capitano che si chiamava Otto, quello me lo ricordo come fosse vero oggi, e ti spiego anche perché. Tu puoi dire di no, ma io questa volta insisto. Perché poi quando io sono ritornata alla SS di Brescia, il capitano Otto, che io credevo si chiamasse Otto, non mi ha mica fatto vedere la carta d’identità. Non si è neanche presentato. Mi ha detto, mi ha chiesto come si stava a Bolzano. E io, in presenza di lui e di quello che era seduto dietro al tavolo, che noi credevamo fosse Leo, ma non si sa chi fosse…

Rosetta: Ma dove, qui a Brescia?

Mariuccia: A Brescia, gli ho detto: “Si stava benissimo”. E loro mi hanno guardato un po’ stupiti, però quel capitano Otto, come mi ha visto entrare nel comando delle SS di Brescia mi è venuto incontro, sorridendo e quasi contento perché mi vedeva lì ancora in carne e ossa, penso. E sono sicura che si chiamava Otto, perché l’ho scritto in due o tre appunti che ho preso.

Rosetta: Di nome o di cognome?

Mariuccia: Lui si è presentato come Otto, dopo poi che si chiamasse Martin Engmann io non lo so. Era chiamato Otto, tu sai benissimo che le persone hanno dei nomi e poi hanno dei nomignoli, diciamo. Ecco, questo sono sicura. Che poi fosse Martin Engmann forse quelli della Digos lo avranno poi appurato in seguito. Lì da noi lui si è presentato come capitano Otto e le dico anche perché: perché mio padre cercava d’ammansirlo, perché inizialmente era piuttosto arrabbiato e gli offriva la colazione, gli offriva, così lui si è seduto a mangiare, ha detto che si chiamava Otto, immagino fosse il nome, il prenome, insomma ha fatto colazione, si è ammansito, poi siamo andati via, si può dire in rapporti cordiali, ecco.

Rosetta: Sì, ci hanno internato.

D: Ah, vi hanno preso subito lì al Ronco?

Mariuccia: Aveva l’espressione di uno fortemente disturbato dal compito che gli avevano dato, questa è la mia impressione, e non l’ho più dimenticata. È un’impressione.

D: Quindi sono venuti il giorno dopo, praticamente?

Rosetta: La mattina alle cinque, quattro e mezza o cinque, ho sentito dei passi pesanti, sono andata alla finestra e ho visto che giù nel prato davanti a casa e sul terrazzo c’erano, al primo momento ho pensato che fossero i soldati della Todt che lavoravano lì di fronte, poco lontano. Ma poi ho guardato, ho visto che avevano i gambali rigidi e ho detto: “No, qui è tutta un’altra categoria di soldati”. Allora ci siamo alzati, siamo scesi, loro hanno cercato subito il bambino perché io l’avevo lasciato su e lo avevo coperto. Pensando che era meglio se non lo vedevano; invece loro mi hanno chiesto se ero la signora Bonomelli, ho detto di sì. “Dov’è il bambino?” Io non ho risposto niente, e loro mi hanno fatto tornare di sopra e hanno scoperchiato, io ero in una stanza, in un lettino c’era mio figlio e nell’altro io, loro hanno scoperchiato lo hanno visto e lui che era già stato piuttosto scioccato per altre circostanze, era stato scioccato perché avevano sparato a suo nonno con lui in braccio. E lui era stato ferito di striscio, nel vedere questi in divisa è diventato un pezzo di ferro, e poi, niente, ci hanno incolonnati e a piedi da lì siamo andati in piazza a Iseo, vero? Poi siamo andati su in municipio, ti ricordi Mariuccia?

Mariuccia: Sì, sì quello mi ricordo molto bene.

D: In casa chi si trovava in quel momento?

Rosetta: In casa c’era mio padre, mia madre, mia sorella, mia suocera, mio figlio ed io.

Mariuccia: E i contadini che abitavano lì, nella stessa casa, in un settore, sa? Era una cascina praticamente di campagna. In una metà ci stavamo noi a fare le vacanze nell’altra metà abitavano i contadini.

D: E vi hanno presi tutti?

Mariuccia: Tutti.

D: L’accusa qual era? Vi hanno presi perché?

Rosetta: Ah, non ci hanno detto niente. Assolutamente. Anzi, noi eravamo molto preoccupati, perché non sapevamo assolutamente il motivo per cui ci avessero preso. E mentre camminavamo a piedi, e stavamo andando in paese, all’altezza del cimitero d’Iseo, io ho visto che dalla parte opposta della strada venivano due donne.

Mariuccia: Le Tanzi, erano.

Rosetta: Le ho guardate, e ho detto a qualcuno che stava vicino a me, non so se a te o a mio padre, “Ma quelle sono le sorelle di Tanzi.” Quell’amico di mio marito e di mio cognato che era andato con loro quando loro avevano passato il fronte. Allora è successo qualcosa. Allora ho chiesto a questo, Otto dice lei, io pensavo un tenente ma insomma, ho chiesto a questo Otto di lasciarmi salutare quelle signore perché erano le mie cugine. Lui mi ha detto: “Sì, sì”. Ha fatto fermare il drappello perché eravamo, saremmo state dieci o dodici persone.

Mariuccia: Se non lo avessimo ammansito, non faceva una cosa così.

Rosetta: “Mi lasci salutare le mie cugine”, allora sono andata da loro e ho chiesto “Ma cosa è successo?” e dicono: “Siamo arrivate tardi, è stato il treno che non è partito al momento giusto, perché noi avremmo dovuto essere qui prima delle cinque, e invece il treno è arrivato in ritardo”. “Ma cosa è successo?” “Ma, Bruno e Paride sono scappati dalla Gestapo a Verona e Paride non sa dove sia andato a finire Bruno. Perché uno dei due si è sbagliato sull’accordo che avevano preso al momento” e allora dice “È venuto subito da noi a piedi da Verona e quando lui è arrivato noi siamo partite perché lui ha detto di andare ad avvisare tutti i Nulli, mia madre, mia cognata, che si nascondano, che scappino. E invece siamo arrivate tardi”. Così abbiamo saputo perché ci avevano prese.

D: Dopodiché, da Iseo, dove vi hanno condotte?

Rosetta: Da Iseo ci hanno condotte nelle celle sotterrane della Gestapo. Abbiamo fatto una breve fermata qui dove c’era il maresciallo Leo.

Mariuccia: Prima ci hanno portate nella sede del comune d’Iseo.

Rosetta: Sì, ma prima di andare.

Mariuccia: Questo non so perché. E mi ricordo che era giorno di mercato, c’erano le macchine, le Volkswagen tedesche in piazza, e non c’era nessuno in piazza. Tutta la gente era nascosta sotto i portici, ci hanno fatto fermare lì e noi abbiamo chiesto, sempre a questo capitano, se ci permetteva di andare a prendere qualche abito, perché era settembre, faceva ancora caldo, avevamo gli zoccoletti a casa, perché mio padre ha detto: “Qui sarà una faccenda lunga, cercate di portare qualche vestito”. Io e lei siamo andate a casa, che abitavamo poco lontano, abbiamo raccolto qualche straccio da metterci e siamo tornate lì in comune. Nel frattempo una delle mie zie è venuta a chiamare mia madre ed ha chiesto il permesso d’accompagnarla a salutare sua madre che era morente. È poi morta due ore dopo. Allora in mezzo a due col fucile…

Rosetta: Anch’io sono andata con la mamma.

Mariuccia: Sei andata anche tu? Io non mi ricordo.

Rosetta: Sì, con la mamma e penso sono andata io con Ennio.

Mariuccia: A salutare questa donna che stava morendo di polmonite.

Rosetta: Comunque lì dal municipio dopo siamo andate alla casa in paese, la nostra casa, di quando eravamo ragazze.

Mariuccia: Io e lei da sole.

Rosetta: Sì, siamo andate lì.

Mariuccia: Poi siamo andate a Brescia, dove c’era questo Leo che non sanno se è Leo o un altro, o si chiamasse in un altro modo.

Rosetta: Il quale si è comportato in un modo così, veramente, assurdo. Io non lo avevo mai visto. Siamo entrate, sono entrata io e tenevo per mano il bambino, poi è entrata dietro di me mia suocera e poi loro. Lui è andato lì vicino a mia suocera e ha chiesto: “Bonomelli?” E lei si è rivolta verso di me per dire: “Perché?” e pam! Le ha dato una sberla, te la ricordi?

Mariuccia: Sì.

Rosetta: Una sberla, ma proprio, e io ho reagito un po’, ho detto: “Ma cosa sta facendo, ma non ha fatto niente. Ma che cosa sta facendo?” “Ssst”, ha detto, “sedetevi tutti”.

Mariuccia: E ci hanno messi in una stanzetta. Ma io voglio tornare indietro a fare una considerazione, non so quanto valore possa avere. Che noi non eravamo degli illustri sconosciuti, diciamo, gente tranquilla che non si sa se esiste, perché mio padre era già stato arrestato una volta dai fascisti per attività partigiana, perché aiutava i partigiani ed organizzava anche un po’ la Resistenza della valle. Tant’è vero che mia sorella, che forniva i partigiani d’armi, era già in prigione a Brescia, qui, agli Spalti di San Marco, nel suo piccolo faceva qualcosa anche mia madre perché preparava i viveri, glieli faceva portare e la nostra casa era un po’ un viavai di gente di questo genere. Con questi precedenti e con la conoscenza precisa che avevano delle nostre opinioni nei loro riguardi, forse hanno preso ancora di più la palla al balzo per fare imbarcare tutta la famiglia, perché penso che se fossimo stati dei contadini tranquilli, che non avevano mai fatto niente, non si sarebbero neanche scomodati.

Rosetta: Veramente, lì nel campo di concentramento dove eravamo noi, c’erano tantissimi ostaggi, gente che era stata presa esclusivamente perché i loro figli erano andati ad arruolarsi o con i partigiani o con l’Esercito Italiano passando le linee, beh, comunque loro per venire a prenderci hanno scelto quel momento.

Mariuccia: Quella è stata senz’altro la causa determinante, ma anche in paese, noi non eravamo visti con grande giubilo, perché io le dico solo un particolare, per venire a prenderci in quel posto lì ci voleva uno che spiegava molto bene dove si doveva andare, e ripeto, se noi fossimo state persone ammanicate col potere o semplicemente persone tranquille, forse anche le autorità comunali di allora sarebbero state meno sollecite a dare una mano, questa è la mia opinione.

D: Mariuccia, quanti anni avevate voi allora?

Mariuccia: Io sono del ’22, allora avevo 22 anni.

D: E voi Rosetta?

Rosetta: Io sono del ’18, allora avevo 26 anni.

Mariuccia: Comunque dopo questo episodio mia sorella Agata, che era stata arrestata dai fascisti, ed era in prigione e aveva avuto il processo e la condanna a trent’anni per attività partigiana, è stata interrogata da Priebke e passata sotto la giurisdizione anche lei delle SS.

D: Era stata processata al Tribunale Speciale?

Rosetta: No, non era stata ancora, non lo hanno mai fatto il processo di Agata.

Mariuccia: Ma perché dici così?

Rosetta: No, non l’hanno mai fatto.

Mariuccia: L’hanno condannata a trent’anni, vuoi che la chiamiamo al telefono per domandarglielo?

Rosetta: Ma se diceva, coso, come si chiama quello là? Streparara.

Mariuccia: Quello che dice Streparara lascialo perdere, Streparara era un imbecille qualsiasi. Agata è stata condannata ad anni trenta di prigione.

D: Quindi vi hanno portate a Brescia?

Mariuccia: Sì, a Brescia

D: Nel comando delle SS?

Rosetta: Sì, al comando delle SS. Siamo state lì una mezz’ora, poi ci hanno ricaricato su due macchine e siamo andate alla Gestapo a Verona, il Palazzo dell’INA, in via di Porta Nuova, c’è tuttora. Lì sotto, nelle cantine avevano ricavato delle celle dove, se si staccava la rete dalla parete e si tirava giù, non ci si poteva più neanche muovere. Io ero in cella con il mio bambino, la Mariuccia era in cella con… no? Da sola? Mia suocera? Come dici, eri in cella con mia suocera? Tu?

Mariuccia: No, eravamo in cella uno per uno. Perché forse volevano che qualcuno di noi dicesse quel che sapeva, che poi non si sapeva niente.

Rosetta: Sì, assolutamente niente, e poi fra l’altro, questi agenti dell’Intelligence Force dell’8^ Armata Britannica avevano anche delle disposizioni, ed era questo: “Se voi siete presi od arrestati, voi dite esattamente come sta la situazione, cioè da dove partite, come siete organizzati perché”, dicevano, “è inutile fare gli eroi”. Loro intanto queste cose le sanno già benissimo. Voi diteglielo esattamente, tranquillamente. Quindi è per questo che è strano che loro continuassero a fare degli interrogatori anche a me, in quei due giorni che sono stata lì mi hanno chiamato non so quante volte per dirmi: “Ma lei lo sa dov’è suo marito?” “Ma cosa vuoi che sappia io dov’è mio marito” “Ma dove potrebbe nascondersi?” “Ma non lo so”.

D: Perché lui nel frattempo era scappato e non si sapeva dov’era? Voi non lo sapevate?

Rosetta: No, io l’ho saputo soltanto dopo che è finita la guerra.

D: Dopo questi due giorni di interrogatori, lì a Verona, cosa è successo?

Rosetta: Ci hanno caricato su una corriera insieme con altri detenuti che venivano da altre carceri di Verona.

Mariuccia: Ci hanno presi e messi sulla corriera. La corriera è partita e si è fermata alla prigione Degli Scalzi. Sono saliti venti o ventidue individui, tutti uomini, non so perché, qualcuno forse era lì proveniente ancora dal campo di Fossoli, qualcuno. Però, non so. Dopo di che siamo andati a Bolzano.

D: Ecco, ma vi avevano detto che vi avrebbero portati a Bolzano?

Mariuccia: Sì, perché la mattina, quando mi sono alzata e sono andata a lavarmi al bagno, alla fontanina, questo ufficiale, Tito? Quest’ufficiale che aveva presieduto tutti gli interrogatori e che insisteva con “Nicht rappresaglia, Nicht rappresaglia”, quello me lo ricordo molto bene, mi è venuto vicino e mi ha detto: “Niente buono campo di concentramento per donne e bambini, niente buono”

Rosetta: Sì, sì, l’ho sentito anch’io.

Mariuccia: Ma mi ha quasi fatto capire che lui avrebbe continuato ad interessarsi al nostro caso. Io non capivo perché, allora veramente non si capiva quasi niente di tutta questa storia. Perché, lei lo sa, forse non lo sa meglio di me, ma lo sa come me, che avvenivano arresti in tutti i modi strani. Avvenivano esecuzioni sommarie, a piacere, come era successo a suo suocero, avvenivano deportazioni di cui uno non si rendeva conto del perché venivano fatte, quindi uno accettava quello che gli capitava sulle spalle, in una specie di fatalismo, e con la speranza che non fosse poi così drammatica la cosa come si profilava. Comunque questa frase me la ricordo, “Niente buono campo di concentramento”. E io mi ricordo di aver pensato: “Sarà sempre meglio di una cella senza finestra”, ho pensato questo. Ignara del fatto che se questo Eisenstein non ci avesse fatto mettere il cartellino di ostaggi, ma si fosse incattivito e ci avesse fatto mettere quello dei prigionieri politici, noi partivamo per la Germania. Perché quando siamo entrati negli uffici del campo, dove ci ricevevano, c’erano lì parecchi tedeschi, e io allora non sapevo neanche chi erano. Ho l’impressione che questa situazione fosse stata voluta proprio dalla Gestapo di Verona. Perché la notte ci hanno messo nei blocchi delle celle, delle donne a Bolzano, e a notte alta, saranno state le undici, si è aperta la porta, i chiavistelli, è comparso questo Hans che io ho visto per la prima volta, e ha dato ordine, ci ha chiamato per numero, “Blocco celle” ha detto. Allora noi siamo scesi dai nostri panconi, che non ricordo più neanche se erano i terzi, i quinti, i terzi o i quarti, e gli siamo andati dietro. Siamo andati dietro a questo signore, ci ha aperto la porta delle celle appena costruite, ci ha messo in una cella tutti insieme.

D: Tutta la vostra famiglia?

Mariuccia: Tutta la famiglia. E c’era un mormorio, quello me lo ricordo, “Ma poverini, vanno nelle celle”, perché giorni prima, e qui lo vedo riportato, proprio da quelle celle lì erano stati portati fuori questi ventitré italiani che erano stati fucilati. Il giorno 12 settembre. E noi siamo arrivati il giorno 14, quindi le celle erano vuote, in una era rimasto il famoso capitano Barda, alias Enzo Sereni, e il giovane Vittorio Duca, figlio di quel Duca, non so il cognome, il nome proprio, che era stato ucciso.

Rosetta: Quando siamo andate noi alle celle c’era già il capitano Barda?

Mariuccia: Perbacco! C’era il capitano Barda, e Vittorio Duca, erano loro due in quella cella lì, dopo Vittorio Duca lo hanno passato capo blocco, nel blocco E, è andato via, ma è stato lì qualche giorno. Questo è quello che ricordo, molto esattamente.

D: Possiamo fare un pezzettino di passo indietro?

Mariuccia: Sì. Come vuole.

D: Da Verona siete partite in corriera?

Rosetta: Sì, con un pullman.

Mariuccia: Lei lo chiama pullman, era un autobus tutto sgangherato, bianco, era. Pullman di gran turismo!

D: Con il pullman e siete arrivate, c’eravate su voi, e poi quegli altri prigionieri che….

Rosetta: Eravamo circa una cinquantina, non voglio proprio ostinarmi sul numero preciso, ma mi sembra di aver contato e aver detto “Siamo in quarantasette”.

Mariuccia: Lì a Verona però eravamo saliti solo noi. Non ti ricordi? Che non c’era nessuno dalle celle di Verona che era salito.

Rosetta: Siamo saliti soltanto noi.

Mariuccia: Solo noi. Il pullman, il bus, chiamalo come vuoi, quella specie di carcassa bianca, ha girato per la città e si è fermato davanti alla prigione Degli Scalzi. Io, la prigione degli Scalzi la conoscevo attraverso don Chiot, quel famoso prete che confessava i condannati a morte e li comunicava, ed insieme all’ostia gli dava la sigaretta. È un personaggio famosissimo questo don Chiot, era noto perché in questa prigione lui aveva…

D: Com’è che faceva a nascondere?

Mariuccia: Questo è un fatto vero. Nascondeva la sigaretta in mano, in modo che i condannati andavano a fare la comunione e lui gli faceva scivolare la sigaretta da fumare, adesso non so in che modo, queste informazioni più precise le può prendere lì dalla procura di Verona o da associazioni partigiane di Verona. Mi ricordo che conoscevo la prigione Degli Scalzi attraverso quello che mi dicevano, già allora, attraverso le esperienze di quelli che sapevano, insomma. Per cui mi fece molto effetto questo portone, una casa antica, un portone in pietra, dentro si è spalancato e hanno fatto salire questa gente, in abiti civili. Si capiva che era gente che era lì da parecchio tempo, niente, questo mi ricordo.

D: E poi siete partite per Bolzano.

Mariuccia: Siamo partite per Bolzano.

Rosetta: Siamo andate a Bolzano.

D: Senza nessun altra fermata?

Mariuccia: Sì, a Rovereto ci siamo fermati. Abbiamo fatto una fermata a Rovereto, ci hanno fatti scendere dal pullman. Tutti. Per motivi anche igienici e lì ho saputo che avevano progettato la cattura, diciamo, delle guardie che c’erano sulla corriera. E la liberazione di tutti attraverso un colpo di mano, insomma, che non è stato attuato perché hanno visto che, mentre loro non se lo aspettavano, che c’erano delle donne ed un bambino, e per paura che nel conflitto, che ci sarebbe stato di sicuro, a fuoco, con i sorveglianti armati di mitra, succedesse, ci fossero delle vittime, donne e bambini, così siamo andati a Bolzano, dopo ci siamo fermati un’oretta.

D: Siete arrivati a Bolzano, più o meno a che ora? Ve lo ricordate?

Mariuccia: Io mi ricordo che erano verso le cinque di sera.

Rosetta: Sì.

D: E quando siete entrate in Via Resia vi hanno dato subito l’immatricolazione?

Mariuccia: Dunque, sì è spalancato questo cancello, siamo entrati con la corriera e ci hanno fatto scendere, poi qui io ho dei ricordi un po’…, mi ricordo che gli uomini li hanno portati da una parte e li hanno fatti rapare.

D: Subito?

Mariuccia: Penso subito, perché noi siamo entrate e non ci hanno rapato. Né me, né lei, né mio padre, perché come siamo entrati io ho visto subito questa gente con le tute blu, tutte rapate e mi ha fatto un effetto impressionante, proprio un’impressione, un colpo ho avuto nell’entrare, era un mondo diverso. Un mondo completamente diverso da quello a cui eravamo abituate, sia pure in mezzo alle vicende piuttosto drammatiche o complesse che si vedevano anche fuori dal Lager, se ne vedevano parecchie.

Rosetta: Ma mentre ancora eravamo nelle celle della Gestapo, lì a Verona, proprio la prima sera che siamo arrivati, io ero nella cella con Ennio, la cella si è aperta e c’erano due soldatesse tedesche ed una interprete. L’interprete mi ha detto che dovevo dare il bambino perché sarebbe stato portato in un posto più adatto, che non poteva stare lì. Allora io ho preso in braccio mio figlio e ho detto: “Ma no, sta qui, lo lasci qui.” “No, lo deve dare, deve lasciarlo andare”. Lui si era attaccato al mio collo, molto fortemente, però penso che senz’altro sarebbero riuscite a staccargli le braccia, non diceva niente e stringeva sempre di più, quella ho visto che si era veramente arrabbiata, e ha detto all’interprete di dirmi che se io non glielo davo lei me lo avrebbe strappato. In quel momento ho sentito i passi sulla scala a chiocciola ed è sceso un maresciallo che si chiamava Eisenstein.

Mariuccia: È quello che ci ha salvato, praticamente.

Rosetta: Quel maresciallo prussiano, dopo mi ha detto che era un maresciallo prussiano, ha detto a queste due di andarsene, mi ha detto: “Stare tranquilla, bambino insieme con lei”.

Mariuccia: E come, come lato umoristico le dirò che mio padre, mentre avveniva questa scena, che tutti definirebbero tragica, continuava a dire: “Te mologhe mai el gnaro”, cioè la incitava a non lasciarglielo. E forse senza questa insistenza, chi lo sa? Non sappiamo cosa sarebbe successo. Questa scena è durata, nel silenzio più totale, almeno dieci minuti.

Rosetta: Questo maresciallo mi ha detto, per la prima volta, perché poi me lo avrà ripetuto cento volte, mi ha detto: “Lei venire mio piccolo chalet Germania”, vero? “Lei e bambino, venire mio piccolo chalet in Germania”.

Mariuccia: Si vede che sperava di portarla fuori.

Rosetta: Sì, e allora io attribuivo questo al mio, non so, a qualcosa di non so, “Si vede che forse gli piaccio”, pensavo. E invece poi sono rimasta molto delusa, perché quando ho raccontato queste cose a mio marito, finita la guerra, lui mi ha detto: “Ah, il maresciallo prussiano, ma non lo sai che lavorava con gli inglesi?”

Mariuccia: Ma questo noi lo abbiamo immaginato, perché quando stavamo salendo tutti in fila, sul predellino della corriera, lui si è avvicinato a mio padre, ed in italiano ha detto: “Io questa sera mandare mio uomo a Firenze”. Noi eravamo tutti presi da questa vicenda, che ci portavano via, no? Al momento non ci abbiamo fatto caso, poi mio padre fa: “Ma a Firenze ci sono gli alleati”.

Rosetta: No, non c’erano ancora gli alleati. A Firenze gli alleati sono arrivati due o tre giorni prima di Natale.

Mariuccia: Beh, comunque “Io mandare mio uomo a Firenze” voleva dire che aveva dei contatti con gli alleati e che da Firenze qualcuno avrebbe… e allora lì abbiamo capito che c’era una situazione, che a noi sfuggiva, ma che era molto, molto più complessa di quanto si pensasse, ecco.

Rosetta: Sì, poi quella insistenza, “Venire mio piccolo chalet in Germania”.

Mariuccia: Questa qui “Stasera mandare mio uomo a Firenze” mio padre si è scervellato per tutto il viaggio. Comunque in settembre non erano ancora a Firenze, gli alleati.

D: Non me lo ricordo.

Rosetta: No, no, no.

Mariuccia: Nel settembre del ’44.

Rosetta: Roma è stata occupata nel giugno, il 20 giugno del 1944.

Mariuccia: Guarda che Roma è stata occupata nel ’43, Rosetta. È stato l’8 settembre.

Rosetta: Del ’44, è stata liberata nel ’44.

D: Liberata.

Rosetta: Roma è stata occupata dagli alleati il giugno 1944.

Mariuccia: Ah, sì, nel ’44.

Rosetta: L’8 settembre è stato nel ’43, allora c’erano gli italiani, e poi è stata occupata dai tedeschi.

D: Quindi l’ingresso di Via Resia, gli uomini sono stati messi, li hanno portati dall’altra parte.

Mariuccia: Non ho più guardato, confesso che non mi ricordo.

D: Il vostro gruppo, la vostra famiglia è rimasta tutta unita, diciamo.

Mariuccia: Sì.

D: L’immatricolazione ve l’hanno fatta subito?

Mariuccia: Subito, ci hanno dato il cartellino, io non mi ricordo però se mi hanno dato subito il cartellino. Questo non me lo ricordo.

Rosetta: Ma io credo che quando siamo arrivati la sera…

D: Neanche il numero?

Mariuccia: No, perché il cartellino ed il numero avevano, erano inscindibili. C’era il numero ed cartellino del colore X o Y. E probabilmente il cartellino ce l’hanno dato il giorno dopo. Perché se no non ci avrebbero messo nel blocco delle donne, se non c’era qualche cosa di…

Rosetta: Io mi ricordo che la prima notte che ho dormito a Bolzano avevo ancora il vestito che avevo quando ci hanno portati via.

Mariuccia: Sì. Il giorno dopo ci hanno dato…

Rosetta: Quindi quella sera lì loro a noi non ci hanno dato la tuta o altro, io non mi ricordo niente, mi ricordo però che sono venuti a prenderci al mattino e siamo andati al comando.

D: Il vostro babbo, è venuto anche lui con voi?

Mariuccia: Sì, quella notte lì, sì. Dopo lo hanno messo nella cella vicina, dove c’erano i cosiddetti prigionieri civili. Di nazionalità diversa, c’era lì uno di San Marino, per esempio, poi c’era un marocchino, poi c’era, ogni tanto, qualcheduno che stava lì magari due giorni, come Mike Bongiorno, che poi è andato via.

Rosetta: Io non l’ho visto.

D: A Bolzano, Mike Bongiorno?

Mariuccia: Sì, a Bolzano. E Mike Bongiorno è un illustre cafone. E adesso le spiego perché. Perché mio padre, che era un uomo molto aperto, aveva fatto amicizia con parecchie persone, tra le quali Virgilio Ferrari, alla liberazione lui, Virgilio Ferrari è diventato sindaco di Milano, e mio padre sindaco della liberazione ad Iseo.Allora lui gli ha scritto e si è congratulato, con questo dottor Virgilio Ferrari, e lui ha risposto. Come hanno fatto molti altri. Poi mio papà ha scritto anche a Mike Bongiorno, perché Mike Bongiorno aveva la dissenteria, ed i suoi compagni di cella lo aiutavano ad alzarsi e sedersi dal buiolo, ma dico, ma Mike Bongiorno non ha mai risposto, non ha detto: “Sì, mi ricordo che stavo male e mi avete aiutato”. Per dire la differenza tra le persone.

D: Poi vi hanno messo nel reparto celle, vi hanno fatto l’immatricolazione, vi hanno dato il triangolo, che era di che colore, il vostro?

Mariuccia: Verde.

D: Verde. Rosetta, il tuo numero te lo ricordi?

Rosetta: 4131.

D: Anche ad Ennio hanno dato un numero?

Rosetta: Sì, 4132.

Mariuccia: I triangoli sono questi. Quelli che sono riuscita a salvare.

Rosetta: Io avevo il 4131 ed Ennio il 4132, ecco.

D: Dove li mettevate questi?

Rosetta: Questi erano attaccati sulla tuta, sulla tuta blu con la croce di pittura ad olio dietro, così che da dietro era proprio come se si fosse in una specie di piccola corazza, perché resistesse ne avevano dato una quantità enorme.

D: Quindi vi hanno dato anche delle tute dopo, allora?

Rosetta: Sì, ci hanno dato una tuta e ci hanno portato via tutti gli abiti, abbiamo dovuto darli a loro gli abiti che avevamo, nostri, …

D: Tutto vi hanno portato via?

Rosetta: Sì, ci hanno portato via gli abiti, e…

Mariuccia: No, gli abiti non ce li hanno portati via.

Rosetta: Ma certamente Mariuccia, dopo io ti spiego.

Mariuccia: Io avevo il cappotto.

Rosetta: Dopo hanno dato qualcosa al bambino e poi hanno anche permesso che l’amico di mio padre portasse la roba che hanno mandato da Iseo al bambino perché il bambino non aveva una cosettina pesante, niente.

D: Quindi nella vostra cella c’era solamente la vostra famiglia? I componenti della vostra famiglia?

Rosetta: Sì, della nostra famiglia, eravamo in sei.

D: E tutto il giorno, cosa facevate lì a Bolzano?

Rosetta: Beh, i primi giorni, non so, non abbiamo fatto niente. Comunque io avevo chiesto alla Margherita, che era la prima moglie di Montanelli, una bella signora austriaca, che era incaricata di formare i gruppi di donne che andavano a lavorare. L’avevo pregata di mettermi negli elenchi perché lì non avrei saputo che cosa fare. E invece quando lei ha portato questo elenco al comando, il mio nome è stato cancellato. Hanno detto che io non potevo uscire a lavorare. Dovevo stare nel campo.

Mariuccia: Nessuno di noi poteva fare niente. Né io, né lei, né la signora Bonomelli, nessuno.

D: Quindi stavate nel campo tutto il giorno?

Rosetta: Sì, noi stavamo nel campo tutto il giorno, qualche volta…

D: Cioè, ma non tutto il giorno in cella?

Rosetta: No, potevamo… sì, ma non erano molto contenti se ci vedevano in giro. Noi ci andavamo, però stavamo un po’ attenti che in quei momenti non ci fossero vicino delle guardie.

Mariuccia: Guardi, nella prima cella c’era il capo campo.

Rosetta: Sì, nella prima cella c’era il capo campo.

Mariuccia: Ed il comandante Baccigaluppo della marina militare.

Rosetta: Ma dopo è andato via il comandante Baccigaluppo.

Mariuccia: È andato via dopo che sono andata via io, perché è sempre stato lì.

Rosetta: Ah, no, no, quando…

Mariuccia: Comunque era per spiegarle una cosa. Siccome lì c’era la sede del capo campo, aveva il diritto d’andare e venire a dirigere il campo, quindi il portone che dava sul cortile del Lager era sempre aperto di giorno. Veniva chiuso a chiave di notte. Come chiudevano a chiave di notte tutte le celle, ecco. Qualche volta non le chiudevano, ma per una pura negligenza, così qualche volta non la chiudevano. Ma nel novanta per cento dei casi chiudevano a chiave e si stava chiusi dentro. Fino a sera, si poteva anche parlare tra noi. Non so, c’erano dei giorni in cui chiudevano presto, degli altri in cui addirittura non chiudevano, questo non saprei dirle da che cosa…

D: Voi contatti però con gli altri deportati ne avete avuti?

Mariuccia: Moltissimi.

Rosetta: Sì, molti. Ma non con tutti insomma.

Mariuccia: Noi per esempio non potevamo mai andare, non avremmo potuto andare nei blocchi. Non ci siamo mai neanche azzardati ad andare nei blocchi degli uomini o nei blocchi delle donne. Io personalmente sapevo che era una cosa che non si poteva fare, ecco.

Rosetta: No, io sono andata due o tre volte nel blocco delle donne.

Mariuccia: Sì, ci sarai andata due o tre volte in sei, sette mesi, capirai.

Rosetta: Sì, sì, perché c’era uno lì, un nostro amico che lavorava nel reparto dell’elettricità e si era ammalato.

D: Lì a Bolzano?

Rosetta: Sì, lì a Bolzano. Ho visto, si chiamava Chiesa Federico. Era di Torino e la dottoressa Buffalini che era di Torino aveva mandato a chiamarmi e mi aveva detto: “Vai a trovare Chiesa che è ammalato, ha la febbre.” Allora io l’ho detto ad Hans, e lui mi ha permesso d’andare due minuti, mi ha detto: “Ti lascio andare due minuti, fai alla svelta”. Poi ci sono andata ancora altre volte, ma certo per pochi minuti perché non…

Mariuccia: Ecco, Pietro San, ecco un altro che mi ricordo. Me lo scrivo.

Rosetta: L’episodio bello che ricordo, non bello, insomma un episodio curioso, è la storia di mio figlio ed il fischietto. Un pomeriggio ho portato a spasso mio figlio intorno al campo.

D: Ma dentro al campo?

Rosetta: Sì, sì, dentro. Dentro. Poi quando stiamo per entrare nel corridoio delle celle, lui mi sfugge di mano e si mette a correre. “Fermati!” dico io, “Ma dove vai? Fermati! Guarda che adesso devi andare dentro, è tardi, fa freddo”. Lui invece d’ascoltarmi, continua a correre. Io sto un attimo a guardarlo e penso: “Beh, ritornerà. Farà il giro intorno all’edificio e poi verrà su dall’altro cortile dove fanno le adunate.” Nello stesso tempo sento un suono di fischietto, che era il suono classico che facevano le guardie quando c’era un’adunata. “Pfiii”, e poi dopo un momento, “Pfiii”, allora dico: “Ma Dio, quel bambino mi è scappato e adesso fischiano anche per un’adunata, bisogna che io vada a vedere che cosa è successo”.Intanto cominciavano ad uscire quelli che, non erano ancora tornati dal lavoro, ma quelli che lavoravano vicino, alcuni sono rientrati per dire: “Cosa succede? Sentiamo il fischio”. Insomma, si era fatta una bella folla di gente. Finalmente io sono riuscita ad acchiappare mio figlio, era lui che fischiava. Allora lì erano intervenute anche alcune guardie perché non capivano neppure loro che cosa stesse succedendo, allora io lo prendo e dico: “Dammi quel fischietto, ma che cosa ti viene in mente, ma hai visto che cosa hai fatto? Ma non sai adesso che cosa succederà? Vieni, andiamo nelle celle.” Allora lui si era reso conto che la cosa era veramente …, andiamo nella cella ed io dico: “Dammi il fischietto” “Non ce l’ho più” e faceva così con le mani. “Ma dove lo hai buttato?” “Non ce l’ho più”. Dopo dieci minuti è arrivato il maresciallo Haage con altri due tedeschi a volere il fischietto. Lui diceva “Non ce l’ho più. Non ce l’ho più”. Allora il maresciallo Haage è uscito ed ha ordinato di chiudere la cella. Te lo ricordi? Mio figlio si è messo ad urlare come un matto, “Scheisse, los”.

D: Era l’unico bimbo che c’era nel campo, di quell’età lì?

Rosetta: Sì, era l’unico bambino, penso che non erano molti i bambini ariani internati di quattro anni.

D: Ma quando siete arrivati voi, altri bambini non c’erano?

Rosetta: Sono passati alcuni, erano tutte bambine o bambini, quegli ebrei? Erano tre bambine.

Mariuccia: Sono state messe nella cella di fronte alla nostra con la mamma. Poi sono partite. Sono indicate anche nel libro che avete fatto voi. Le ho trovate indicate.

D: Quindi era l’unico bambino che c’era?

Rosetta: Era l’unico bambino, sì. E lì un accademico di Francia ha scritto per lui quella famosa poesia.

D: Un accademico di Francia che era deportato anche lui?

Rosetta: Sì, era un ebreo. Sì.

D: E ha dedicato questa poesia a Ennio?

Rosetta: Sì, carina, in francese logicamente.

D: Beh, certo.

Rosetta: Molto carina. Dopo la guerra siamo andate a cercarlo a Parigi.

D: E che cos’era quella riflessione lì, Mariuccia?

Mariuccia: Modestissima riflessione, dell’influenza che ha l’ambiente sulle persone, sui bambini. Mio nipote, che non aveva ancora cinque anni, s’era fatto, come modello, la figura del capo campo del Lager. Aveva voluto la fascia di capo campo ed era riuscito persino a rubare un fischietto per comandare le adunate, eccetera. Quello era il modello che lui aveva sotto gli occhi, il potere massimo che gli si presentava. Il massimo della felicità. Il capo campo oltre tutto andava fuori, faceva tutto quello che voleva ma soprattutto comandava, in quel luogo comandava.

D: Voi però dovevate comunque partecipare agli appelli?

Mariuccia: Noi non partecipavamo, a noi era proibito qualsiasi movimento che non fosse magari quello delle celle, a venti metri dalle celle. Tanto noi ci andavamo lo stesso, sa com’è? Si è anche un po’ incoscienti, e guardi, mio padre ha corso anche dei rischi, perché si affrettava sempre quando c’erano le partenze per farsi dare indirizzi, nomi, cose da scrivere alle famiglie. Si dava da fare in questo modo, tant’è vero che il maresciallo Haage lo ha picchiato per questo. Lo ha picchiato, gli ha dato due ceffoni perché aveva in mano un notes e scriveva quello che poteva, come poteva aiutare insomma, questi poveri disgraziati, lo faceva rischiando anche di suo. Rischiando la sua incolumità, perché lì non scherzavano, eh? Io sono sempre del parere che noi abbiamo evitato molti guai perché eravamo dei prigionieri speciali. La mia impressione è che noi fossimo un granellino dentro un ingranaggio bellico che era mille volte più grande di noi. Perché questo maresciallo Eisenstein che mandava il suo uomo a Firenze, forse si serviva di noi e ci proteggeva per avere in contro parte qualche cosa da parte degli alleati. Lei sa molto bene che il generale Wolff stava trattando la resa delle SS in Italia, no? All’insaputa di Hitler. Quindi si vede, nel patto tra gli alleati e le SS c’era anche quello di non fare rappresaglie e anzi di cessare le rappresaglie e magari di far vedere la buona volontà anche del corpo delle SS d’aiutare quelli che potevano essere aiutati. Questa è una cosa garantita, guardi. Ha visto poi l’articolo su Priebke? Dove c’è scritto che il tribunale aveva condannato mia sorella a trent’anni? Lo ha letto? Mi scusi. (Legge): Dopo quell’interrogatorio Agata Nulli non vide più Erich Priebke, dell’interrogatorio si parla sopra, ma il capitano delle SS si interessò ancora di lei, ed il 22 marzo 1945, poche settimane prima della liberazione, l’Hauptsturmführer scrisse dalla sede delle Gestapo di Brescia, in via Panoramica 10 al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato di Bergamo. La Nulli, diceva la missiva di Priebke scritta in tedesco, è confessa d’aver favorito i ribelli con alimenti e sigarette; inoltre ha distribuito foglietti caduti da aeroplani, il procedimento è stato trasmesso dalla Guardia Nazionale Repubblicana al Tribunale per il giudizio. Prego di comunicare, chiedeva Priebke, se la Nulli è stata processata ed a quale pena è stata condannata. Il tribunale le aveva inflitto trent’anni di carcere per favoreggiamento nei riguardi dei partigiani. A questa richiesta di Priebke il tribunale ha ufficialmente risposto che aveva avuto trent’anni di carcere per favoreggiamento dei partigiani. Quindi lei è stata processata e condannata a trent’anni, come appare da questa corrispondenza tra Priebke, che non è l’ultimo arrivato, e il tribunale di Bergamo. Quindi non mi pare una cosa da poco, però se noi fossimo state delle persone totalmente fuori dal gioco, avrebbero aspettato tre giorni a venire a prenderci, ecco. Per far dire che non eravamo totalmente fuori dal gioco, ho fatto presente che il papà era già stato arrestato dai fascisti, tu lo sai molto bene, in agosto, e l’Agata era già stata arrestata, era già a Brescia.

D: Però vostra sorella non è venuta nel campo?

Mariuccia: No, lei è sempre stata qui.

D: È sempre stata nelle carceri qui?

Mariuccia: Sì.

Rosetta: Sì.

Mariuccia: Loro hanno detto: “Prendiamoli tutti, così non c’è più nessuno fuori, non so”. Loro sono venuti ad arrestarci per quel fatto lì. È chiaro, poi ho anche aggiunto che siccome arrivare a quel posto lì non è tanto facile, le autorità comunali fasciste d’Iseo, hanno dato una mano. Se noi fossimo state persone qualsiasi, forse non s’interessavano neanche.

Rosetta: Probabilmente loro erano venuti per arrestare la moglie di Bonomelli ed il figlio, a prendere la moglie di Bonomelli ed il figlio di Bonomelli, siccome c’era lì dell’altra gente avranno detto: “Meglio che li portiamo via tutti, che sarà una cosa…”

Mariuccia: Sì, a me se mi lasciava a casa non mi faceva nessun dispetto.

Rosetta: Eh?

Mariuccia: Io non ci tengo ad avere titoli di martirio e d’eroismo, proprio non ci ho mai tenuto.

D: Ma dentro al campo, quando spiegavi che il babbo metteva in atto questa forma di solidarietà.

Mariuccia: Sì, poverino. Ma non ha letto le lettere di quei due ebrei sopravvissuti? Di quell’ebreo sopravvissuto? Quella è una testimonianza inequivocabile che quello che poteva fare là, lo faceva.

D: Avete trovato o conosciuto altre persone dentro nel campo?

Mariuccia: Madonna, io ne ho conosciute tantissime, di cui ho solo i nomi, ormai.

D: Tipo?

Mariuccia: Ma uno è questo Gurtler, poi l’elenco l’avevo dato alla signora, adesso l’ho lasciato a casa.

D: Ma così, a memoria?

Mariuccia: Mi ricordo Elmo Spreafico, quel Chiesa lì, Vittorio Duca, Ermando Sacchetta, tanti, guardi in questo momento mi sfuggono.

D: Con Vittorio Duca avevate stabilito un…

Mariuccia: Un vero rapporto di grande amicizia.

D: Che alla fine poi lui, che cosa ha fatto, vi ha dato?

Mariuccia: Io sono uscita prima, a lei ha dato, quando l’hanno mandata in Germania … e poi Vittorio Sereni, abbiamo conosciuto. Il capo comandante Baccigaluppo. I due fratelli Momigliano, Attilio ed Emilio Momigliano.

Rosetta: Vittorio Duca è arrivato, l’ultima partenza, perché dopo non è più partito nessuno.

Mariuccia: Altre persone di cui non ho conosciuto il nome ma che erano evidentemente persone di un’evidenza notevole, insomma persone di grande valore, professori universitari, studiosi, poi i nomi non me li ricordo più.

Rosetta: Abbiamo conosciuto don Gaggero, un prete di Bergamo, quello grande e magro.

Mariuccia: Don Vismara, don Berselli. Poi quando avevano ucciso il sig. Bonomelli, mio padre si è dato molto da fare, perché loro, i tedeschi, lo volevano seppellire nell’orto, lui è intervenuto e lo ha impedito.

D: Ma lì a Bolzano?

Mariuccia: No, qui a casa di mia sorella. Questo era antecedente.

D: Ecco Mariuccia, padre Gaggero, lui usciva dal campo?

Mariuccia: Andava a lavorare. Dopo io mi ricordo che ho scritto che non ero a conoscenza di un’attività clandestina d’aiuto ai deportati, non ero a conoscenza. Però so, da alcune vicende di don Gaggero, che lui era in contatto con qualcuno fuori che gli dava dei soldi e delle cose, per cui pigliava sempre, aveva preso un sacco di botte, era stato ridotto una palla, perché volevano fargli dire chi era che gli dava queste cose. E lui non lo ha mai detto. Io ricordo che ero molto ammirata dal suo comportamento, che passava, dopo lo hanno chiuso in cella, e lo facevano uscire e passava nel campo, io dallo spioncino lo vedevo passare con la faccia tutta livida e tutto zoppicante perché effettivamente era stato molto picchiato per quel motivo lì. Non saprei dirle altro perché non era molto opportuno andargli a parlare ad un certo punto.

D: Quindi c’erano anche sacerdoti dentro nel Lager?

Mariuccia: Eh, sì. Poi è entrato in prigione anche il parroco di Bolzano, che era quello che si diceva, si sapeva, che portava, non so se desse dei viveri o avesse dei contatti d’altro genere, o del denaro, non so. Non saprei. E io ricordo che mio papà rideva, perché diceva: “Tu vedrai, me lo diceva in dialetto, vedrai quanto tempo passerà prima che entri dentro anche quell’altro prete che gli dà i soldi”. Perché poi le cose si sapevano, in maniera trasversale, come dicono, si sapeva che don Gaggero usciva a lavorare, che c’era un prete che gli dava dei soldi da dare ai prigionieri, e si sapeva che anche quello là un bel giorno sarebbe entrato dentro, e difatti così è stato. Non so altro perché poi, ripeto con don Gaggero quando era in cella e veniva fuori a fare la passeggiata, non si poteva parlare.

Rosetta: Io don Gaggero l’ho visto dopo. A Genova. Apparteneva ad un ordine sacerdotale.

D: Erano i Filippini di Genova.

Rosetta: Erano i Filippini di Genova, ecco, io sono andata alla chiesa di San Lorenzo a Genova e l’ho incontrato.

D: Sì, ha anche subito un processo.

Mariuccia: E’ uscito dalla Chiesa, diciamo ufficiale, ed ha fondato un movimento che allora ha avuto anche molto seguito. Poi è scomparso.

D: Sì, sì, era stato a Praga, eh, ma è stato per due anni poi a Roma perché il Sant’Uffizio lo aveva processato.

Mariuccia: Sì, sì, ma era un tipo molto originale, non era un uomo comune.

D: Mi sembra che era anche vivace.

Mariuccia: Io lo avevo notato come una personalità spiccatissima e diversa da tutte. Forse era la personalità che mi ha colpito di più di tutti gli uomini che ho conosciuto nel campo.

D: Rosetta? Ah, no, sta prendendo un appunto. Se no si dimentica.

Rosetta: No, no. Mi dica.

D: Quindi avete conosciuto queste persone qui, contatti quindi all’interno del campo però, all’interno del Lager di Via Resia, c’era un movimento diciamo così, resistenziale? C’erano delle persone che si davano da fare, che aiutavano gli altri?

Mariuccia: Ah, questo sì.

Rosetta: Ma aiutavano in che senso?

D: In tutti i modi, magari anche conforto, perché stare in un Lager non penso che sia la cosa più bella di questo mondo. Cioè essere privati della propria personalità, per esempio, il fatto di non essere più una persona ma di essere un numero.

Rosetta: Io le dico sinceramente che ho assistito a certe scene di litigi proprio per delle cose, delle cattiverie.

Mariuccia: Beh, questo sì.

Rosetta: Di cose veramente, che mi sembrava che il senso della solidarietà non fosse per niente diffuso, ecco.

D: Ah, no?

Rosetta: No, no.

D: Cioè?

Rosetta: Sì, se uno aveva un pezzettino di pane e vedeva un altro in parte che stava crepando di fame, sarebbe stato molto difficile, perché comunque noi abbiamo vissuto un po’ fuori da quei giorni lì.

Mariuccia: Però le dirò anche che gli spazzini per esempio, che ad un certo punto erano quasi sempre ebrei, e ad un certo punto i capo cessi che erano i due fratelli Momigliano, desideravano ardentemente tutti di venire a fare gli spazzini nel nostro corridoio perché lì beccavano qualche cosa, gli si dava qualche cosa di quello che avanzava a noi o un goccio di caffè, poi se avevano bisogno d’aggiustare le mutande o qualche cosa di simile, la mia mamma, la signora Lina, si faceva quello che si poteva, insomma.

Rosetta: Anche la sottoscritta.

Mariuccia: Noi facevano quello che potevamo, potevamo fare molto poco, ma…

D: Lì c’era una donna?

Rosetta: Una iena, la chiamavamo la iena.

Mariuccia: E la Marge, dov’era la Marge? Io ho segnato nei miei appunti una certa Marge.

D: La iena? C’era la iena, la Tigre lì, no? E poi c’era anche un’italiana, piccolina, che era un capo baracca.

Rosetta: La capo blocco? Beh, ma la capo blocco era un’internata italiana.

Mariuccia: Io non me la ricordo.

D: No?

Rosetta: Anch’io non me la ricordo molto, io ricordo molto la Montanelli, perché ci s’incontrava.

Mariuccia: Sì, quella piccolina, ha ragione.

Rosetta: Quella piccolina.

Mariuccia: Mi farò venire dalla nebbia della memoria qualche …

D: Cicci, si chiamava.

Mariuccia e Rosetta: Ah, la Cicci, la Cicci.

Rosetta: Ma c’è ancora? Vive ancora?

D: Ed ha sposato il capo campo maschile.

Mariuccia: E chi era, Maltagliati?

D: No, Gigi Novello.

Rosetta: Ah, il Gigi Novello.

Mariuccia: Anche quel Novello lì me lo ricordo, io.

Rosetta: Gigi Novello, ah, è un amore che è sorto nel Lager?

D: A San Vittore, prima del Lager.

Mariuccia: Eh, ma Gigi Novello ha fatto il capo campo per pochissimo, io non l’ho mai visto capo campo, il Gigi.

Rosetta: Comunque, ma lei sa che da lì, dal Polizei Durchgangslager di Bozen, alla metà di marzo, sono state portate via diciannove donne perché erano incinta di quattro mesi?

Mariuccia: Robe da pazzi.

D: No, questa cosa non…

Rosetta: Questo mi ricordo, dunque li troverò, perché quel coso di appunti…

Mariuccia: Che fine abbiano fatto non si sa.

Rosetta: Hanno detto che le portavano in un ospedale a Merano.

D: Più o meno, il periodo quand’era, Rosetta? Quando è avvenuto, questo?

Rosetta: Questo deve essere avvenuto, era ancora marzo, deve essere stato, non so, poco prima o poco dopo la metà di marzo. A me hanno detto che erano in diciannove, facciamo anche fossero nove, però questo è veramente successo, io ne conoscevo tre o quattro di donne incinte ed una era la figlia di quella di Vicenza, ti ricordi quella signora anziana di Vicenza che era dentro con la figlia, anche loro come ostaggi?

Mariuccia: No. E quella di Piacenza, come si chiamava quella di Piacenza zoppa?

Rosetta: Ah, quella di Piacenza zoppa.

Mariuccia: Era un personaggio, che poi ha fatto carriera nel Partito Comunista.

Rosetta: Ma non avevate mai sentito questo, che c’erano le donne incinte?

D: No.

Rosetta: No, no, guardi, glielo assicuro proprio.

D: Non si sa che fine abbiano fatto?

Rosetta: Io so che queste donne sono uscite, hanno detto che sarebbero andate all’ospedale, ecco. E poi un giorno sono state portate all’ospedale, mi sembra perfino ai primi di marzo? Perché insomma faceva ancora freddo, qualcuna non stava bene, e così, dopo, di due sono sicura, perché me lo hanno detto loro che erano incinte e sono andate, una era questa, mi verrà in mente il nome del paese, lì delle vicinanze…

D: Voi vi ricordate un trasporto che dal campo sono partiti con un camion?

Mariuccia: Beh, ma partivano sempre con il camion.

D: Ah, sempre con il camion?

Mariuccia: Io li ho sempre visti con i camion.

Rosetta: Perché li portavano alla stazione poi quelli che partivano, no?

D: Ecco, lì invece dovevano partire con il trasporto della stazione, poi invece Pippo aveva bombardato, e allora lì non hanno fatto più il treno, e c’è questo camion con su delle persone, portate ammanettate e non si sa più che fine abbia fatto questo camion. E c’era anche un sacerdote su questo camion, che era anche lui claudicante, aveva una malformazione ad una…

Mariuccia: Un sacerdote?

D: Un sacerdote di Padova era.

Mariuccia: Non si ricorda il nome?

D: Sì, me lo ricordo sì.

Mariuccia: Il nome?

D: Don Placido, si chiamava.

Rosetta: Io non mi ricordo.

Mariuccia: E si ricorda in che data?

D: Lui è stato preso a Padova.

Mariuccia: In che data è stato questo camion? Perché noi vedevamo i camion partire, poi dopo non si sapeva se partivano o non partivano per la Germania.

D: Don Gian Antonio Cortese, si chiamava.

Mariuccia: Si sapeva solo che non erano partiti quando era interrotta la linea ferroviaria, dopo dove andassero i camion, perché tornavano indietro, … nel campo.

Rosetta: Questo senz’altro lo saprete anche voi, che poi lì in quel campo lì, verso la metà di marzo, non era più partito nessuno, eravamo dentro in 3.250, perché neppure con i camion potevano partire.

Mariuccia: Non potevano più partire.

Rosetta: La linea ferroviaria era interrotta, ed andare in giro con i camion così con su i prigionieri era pericoloso, eh?

Mariuccia: C’era un sacerdote zoppo, quello me lo ricordo io. Piccolo di statura.

D: Mariuccia, cos’è un Lager?

Mariuccia: Ah, santo cielo, mi fa una domanda molto difficile, perché il Lager comunemente è un posto dove uno va, chiuso dentro in mezzo al … non è più una persona, è un oggetto a disposizione di qualche d’uno d’altro, però soprattutto per me un Lager è una prigione psicologica, è l’annullamento della personalità, la privazione dei propri diritti, non dico i diritti del vivere, del mangiare, del dormire, ma dei diritti di essere se stessi. E di vedere gli altri essere persone.

D: Per una donna un Lager cos’è? Cos’è stato per una donna un Lager?

Mariuccia: Per me il Lager è la negazione della vita, siccome io la vita l’intendo non solo in senso materiale, prima di tutto è la negazione della vita in senso materiale e poi la negazione della vita in senso spirituale, totale proprio, e questa è la cosa secondo me più terribile, è quella dalla quale dobbiamo guardarci molto di più che da tutte le privazioni di tipo materiale. Sa poi, involontariamente si fa della retorica quando si parla di queste cose, perché sono argomenti pesanti, se uno non usa parole pesanti forse non viene neanche capito. E poi per me il Lager è anche una forma d’interiorità deviata. Mancanza d’amore della verità, mancanza d’amore della libertà, mancanza di consapevolezza, tutte queste cose, che ci possono non essere prima e succedere dopo, cioè venire dopo. Comunque il Lager è una cosa orrenda, diciamo. È proprio l’ombra del buio, come avete scritto voi nel vostro libro.

D: Vi ricordate in aprile la celebrazione della messa per la Pasqua, nel Lager?

Mariuccia: Io mi ricordo la celebrazione della messa, che si faceva sotto le ultime celle in fondo, nella vostra piantina sono ben indicate.

Rosetta: Sì, qualche volta hanno celebrato la messa.

Mariuccia: E mi ricordo, me lo ricordo perché ho scritto una lettera, nella quale descrivo questa celebrazione della messa, che è avvenuta così, noi eravamo andate là e c’era parecchia gente, perché la celebrazione della messa anche per uno che non è credente, in un Lager acquista un significato, un significato come dire di contatto umano fuori dalla prigione, fuori dall’imposizione, fuori dalla consuetudine negativa che ti comporta l’essere nel Lager. Eravamo in tanti, avevamo deciso di cantare, di cantare la messa. E invece nessuno è riuscito a cantare la messa perché si è visto come una specie d’emozione inibitrice che ha impedito alla gente, era poi la prima che si faceva, di cantata, poi le altre messe non le abbiamo cantate perché in quelle celle mettevano i prigionieri che poi venivano picchiati o torturati e molto spesso c’erano dei lamenti e delle urla che non facevano sentire neanche la celebrazione.

D: Come si chiamava il prete celebrante?

Mariuccia: Io non mi ricordo, me lo aveva detto lei, veniva da fuori, mi pare. Si chiamava Piola.

Rosetta: Lei ha chiesto della messa che hanno celebrato in aprile?

D: A Pasqua del ’45, c’è stata una funzione religiosa, sulla piazza dell’appello.

Mariuccia: La Pasqua, l’aprile del ’45? Io non c’ero.

Rosetta: Sì.

D: Vi ricordate?

Rosetta: Sì, me la ricordo. Sì, avevano fatto un altare che voltava, il celebrante voltava le spalle alle celle.

Mariuccia: Allora il rito era così.

Rosetta: Poi i particolari, ricordo vagamente.

D: Come facevate a sapere le informazioni dall’esterno, voi eravate al corrente d’informazioni dall’esterno?

Mariuccia e Rosetta: Sì, le chiedevamo a quelli che uscivano a lavorare.

D: E poi c’era, non so, una stampa clandestina dentro?

Mariuccia e Rosetta: Io non l’ho mai vista.

Mariuccia: Guardi, secondo me il motivo è che quello non era un Lager dove la gente si fermava, cioè era impossibile organizzare qualche cosa di consolidato, perché andavano e venivano, c’erano le partenze, e quando ormai non c’erano le partenze c’era una tale confusione di persone, ed anche un numero così eccessivo di persone che era impossibile insomma, secondo me, organizzare una cosa d’informazioni. Noi avevamo i nostri informatori privati, per esempio i falegnami, sapevamo quando c’era qualche morto perché venivano da mio papà e dicevano: signor Nulli, oggi abbiamo fatto cinque casse.

Rosetta: Palmiro, un falegname milanese, si chiamava Palmiro.

Mariuccia: Palmiro?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: E veniva da mio padre e diceva “Signor Nulli, oggi cinque casse”. “Oggi tre casse”. Per questo che sappiamo che c’erano state o delle esecuzioni o delle morti naturali.

D: Ah, ecco, morti naturali, no, però?

Rosetta: No, ce ne sono state.

D: Anche morti naturali?

Mariuccia: Anche morti naturali, però.

Rosetta: Le due ebree delle celle che sono state fatte morire.

Mariuccia: Beh, ma quella non era una morte naturale, quella è stata un’esecuzione.

Rosetta: No, sono morte di broncopolmonite.

Mariuccia: Sì, va beh. Però ci sono state anche delle morti naturali, secondo me, gente vecchia, io non lo so, penso che ci fossero state, però le notizie delle casse si riferivano sempre a qualche prigioniero scomodo o che aveva dato dei problemi o che era lì per essere eliminato. C’erano perché mio padre, un giorno sì e un giorno no, riceveva la notizia dai falegnami che avevano fatto le casse. Sono sicurissima.

Rosetta: Ma questo d’un giorno sì e un giorno no, mi sembra un po’ esagerato.

Mariuccia: Loro venivano a dare le notizie, dopo fosse un giorno sì e uno no, o una settimana, non mi ricordo, so che venivano lì perché avevano confidenza.

Rosetta: E si vedevano anche le casse che uscivano fuori dalle celle, erano delle casse fatte di legno, una specie d’assi, ma non una parete completa, erano delle listarelle larghe, alte quattordici centimetri, e si vedevano, le portavano fuori dal Lager.

Mariuccia: Allora i falegnami le fabbricavano, dopo io non so dove andavano a seppellire queste gente.

Rosetta: E si vedevano, le portavano fuori dal Lager.

D: Dicevo questo perché, ad esempio in alcuni Lager abbiamo sentito che avevano organizzato per esempio Radio Scarpa no? Riuscivano a mettersi in contatto con la radio, avevano fatto una radio a galena, eccetera, a Bolzano questo non era successo?

Mariuccia: Io dico che il motivo è semplicemente questo, ed è anche più serio per il fatto che lì c’erano personalità della Resistenza che non rivelavano la loro vera identità, ed è giusto, quindi non si sarebbero di sicuro compromessi ad organizzare una Resistenza in un Lager; una Resistenza, diciamo un servizio di formazione, la chiami come vuole, gente che era già in bilico, che non voleva essere riconosciuta.

Rosetta: E poi al mattino quando uscivano queste squadre di lavoro guardi che il Lager si svuotava completamente, eh?

Mariuccia: Andavano tutti a lavorare.

Rosetta: Andavano fuori a lavorare nelle gallerie per fabbricare le bombe degli aerei, oppure le …

Mariuccia: Non so cosa facessero, facevano le traversine delle ferrovie.

Rosetta: Ed anche bombe, c’erano delle gallerie dove si facevano delle munizioni di vario genere, bombe a mano, questo lo dicevano quelli che andavano a lavorare, e quindi dalla mattina, perché poi a questi, a mezzogiorno, il rancio glielo portavano sui posti di lavoro. Alcune volte, in casi eccezionali, ma forse se c’era, non so, ogni tanto facevano un’adunata per qualche comunicazione, ma deve essere successo pochissime volte, comunque questa gente partiva alla mattina alle sei e mezza, sette e dopo ritornava alle quattro e mezza.

Mariuccia: Quello che non ricordo è se andavano a lavorare anche nei giorni in cui c’erano le partenze per la Germania. Quello non me lo ricordo.

Rosetta: No, nei giorni in cui c’erano le partenza per la Germania, non usciva nessuno.

D: Con che frequenza venivano fatte queste partenze per la Germania?

Mariuccia: Ah, io dico ogni quindici giorni, inizialmente.

Rosetta: Dieci, quindici giorni.

D: Cosa succedeva? Chiamavano i numeri?

Rosetta: Adunavano tutti e poi chiamavano.

Mariuccia: E poi al controllo, io non so come facevo ad essere lì, io ho visto come facevano ad organizzare la partenza. Loro facevano, schieravano tutti i prigionieri nel recinto, davanti al blocco delle donne, quello più vicino al cancello. C’era un tavolino, fuori dai reticolati, liberi così, c’era un tavolino come questo, qui c’era seduto uno con una penna, io adesso non ricordo se era un qualsiasi esecutore materiale, scribacchino. E qui c’era il maresciallo Haage. La persona seduta chiamava il numero, il numero chiamato usciva, si presentava davanti al tavolino con il suo fagotto, il maresciallo Haage gli dava due sberle e poi lo mandava dall’altra parte.

Rosetta: Venivano chiusi tutti, questi che partivano, in un blocco che veniva vuotato.

Mariuccia: Ma prima di partire li mettevano lì, li schieravano, li ho visti io.

D: Quindi uomini e donne.

Mariuccia: È chiaro che prima, per farli andare sul camion li dovevano pur far uscire dal blocco. E facevano questo appello, io non so che significato avesse, e mi ricordo che mi faceva un’impressione spaventosa la forza di quest’uomo che stava lì a dare duecento, centocinquanta, centosessanta sberle alla gente, ma deve avere una forza da leone, perché l’ho visto. Non è che l’ho visto tutte le volte, l’ho visto un paio di volte.

D: Uscivano a piedi dal campo?

Mariuccia: No, no, venivano caricati sui camion. Ed un altro particolare che le dico io, che ho visto con i miei occhi, le poche cose che ricordo, non sono per niente eroiche, le pedate nel sedere che davano agli ebrei per farli salire. Io pensavo, penso fossero ebrei, perché uno di quelli presi a calci nel culo si chiamava Levi. E suppongo che anche gli altri, che come lui venivano fatti salire sui camion a pedate, fossero ebrei, perché alcuni sapevo che erano ebrei, perché come dico, delle volte venivano lì nel nostro corridoio a dire il loro nome, mio papà prendeva il nome, a dire la loro famiglia, e così via dicendo. E questo Levi, uno piccolino così, aveva detto d’essere l’unico sopravvissuto, che i suoi familiari erano già stati deportati e non sapeva più dov’erano. E quello lì lo hanno fatto salire proprio a calci nel culo, sul camion, questo l’ho visto con i miei occhi.

D: Dentro nel campo poi c’erano delle officine, no? Si lavorava all’interno del campo.

Mariuccia: Sì, c’era la lavanderia, c’era la falegnameria, c’era il magazzino, non so se ci fosse l’officina meccanica, quello non me lo ricordo.

Rosetta: C’era tutto quello che si riferiva all’elettricità, dove si aggiustava, si facevano dei lavori per quelli della Gestapo, aggiustavano le loro radio, tutte le apparecchiature.

Mariuccia: Gli elettricisti. Credo ci fosse anche una specie di sartoria, o guardaroba, dove aggiustavano la roba.

Rosetta: Sì, c’era la sartoria, sì. Ho lavorato anch’io una settimana.

D: In sartoria?

Rosetta: Sì, dopo mi hanno proibito di farlo.

Mariuccia: Per fare qualche cosa, perché era micidiale non fare niente.

D: Certo.

Mariuccia: Adesso che hanno riaperto il processo Priebke sono venuti a cercare informazioni di tutti i tipi.

D: Da voi?

Mariuccia: Sì, perché pare che tutte queste vicende fossero in parte anche connesse con il caso Priebke.

D: Ho capito.

Mariuccia: Perché questo Priebke, secondo me, anche lui era un agente segreto alla fine. Erano tutti, diciamo, sospetti di connivenza con gli alleati, a loro premeva di salvare la pelle, di salvare il loro corpo dalle SS. Quindi bisogna orientarsi su questa mentalità.

D: Dicevo, Mariuccia, la liberazione quando è arrivata?

Mariuccia: Ma io sono stata scarcerata, mi hanno chiamata al comando, 4134, è venuto Haage in cella e mi ha detto: “Nulli Maria, nacht Verona”. Io ho detto “Cosa mi portano a Verona”, perché erano i primi di marzo, “cosa vado a fare a Verona?” Niente, mi hanno messa su un camion, questa è la mia, dopo la sua la racconterà lei, alle due del pomeriggio. Alle quattro di mattina siamo arrivate a Verona, ma io avevo capito, su quel tragitto lì, perché ci siamo fermati non so dove, in mezzo a due soldati, che c’era già un’aria di sfacelo. Si vede che loro avevano paura dei partigiani, non so, andavano, siamo arrivati alle quattro di mattina a Verona, ma non siamo entrati in città. Siamo stati molto lontano. Mi hanno fatto portare una cassetta di munizioni, e mi hanno fatto andare, io non ce la facevo, avevo la febbre, mi hanno fatto entrare in una specie d’ufficio, dove c’era un nanerottolo così, quelli dell’ultima ora, un giovincello, che ha cominciato a dirmi: “Partisan, partisan”. Io ho detto di no, “No partigiano, sono un ostaggio”. Ed ha cominciato a sfottermi perché io studiavo filosofia e mi diceva: “Solo Germania grande filosofia”. Mi ha fatto un effettaccio, poi niente, mi hanno mandata giù nelle celle e mi hanno lasciata lì. Non so, tre, quattro giorni, non diceva niente nessuno. Io chiedevo di questo Eisenstein e nessuno mi diceva niente, poi ad un certo punto hanno aperto la porta, io sono andata con una, il biglietto non ce l’ho più, con una scritta nella quale c’era che io dovevo presentarmi tutte le mattine alla SS di Brescia, dove c’era questo Leo, una cosa che per me era totalmente insensata, e cosa che io facevo tutti i giorni, perché mi premeva di stare tranquilla. Ecco, questa è stata la mia liberazione.

D: Mentre invece la vostra, Rosetta?

Rosetta: La nostra è avvenuta…

D: Quindi Mariuccia è partita.

Mariuccia: Io sono partita, ho qui due lettere che ho scritto a loro, ma che non sono mai arrivate.

D: Mariuccia è partita e voi vi siete trovati soli in cella?

Rosetta: Soli per modo di dire, perché eravamo ancora in cinque.

D:Della famiglia?

Rosetta: Sì, della famiglia.

D: Cioè non vi hanno dato motivazioni del perché Mariuccia era stata mandata a Verona?

Rosetta: No, no, mai. Niente.

Mariuccia: Che poi a me avevano detto che poi avrebbero liberato anche loro, presto, entro un mese, avrebbero liberato anche loro, mi dicevano così. Però mi chiedevano di collaborare, di dire se sapevo dove erano i Bonomelli, di andare nelle Ausiliarie, insomma mi facevano delle cose che non avevano senso, perché dopo un mese e mezzo è finita la guerra. Si preparavano il terreno per non farsi ammazzare, secondo me.

Rosetta: Dopo il 20 di aprile abbiamo visto che sul camminatoio intorno piazzavano delle mitragliette in più, chiedevamo a quelli che uscivano che cosa succedeva, “Ah, niente”, dicevano, “niente, noi vediamo sempre i tedeschi e qui ci sono sempre i tedeschi”. “Ma cosa dicono sui giornali?” “Ma”, dice, “dove andiamo a lavorare noi ci sono dei giornali tedeschi, ma non si sa niente. Dicono che resistono.” Verso il 23 o il 24 aprile non è più uscito nessuno a lavorare, più nessuno. Si faceva però sempre la solita adunata della mattina, la prima sirena, la seconda sirena, eccetera, però bisognava stare molto, ma molto chiusi, si poteva uscire solo un paio di volte, anch’io con il bambino non potevo andare in giro come facevo prima. Ci aprivano poco la porta in fondo alle celle, si poteva stare lì nel corridoio. Il 29 aprile era domenica, perché l’ho proprio scritto. Verso le quattro sentiamo che si apre la porta in fondo, passi un po’ pesanti, e si spalanca la porta della cella e c’è il maresciallo Haage e dietro due soldati, me lo ricordo benissimo perché uno aveva in mano sulle due braccia i vestiti, e l’altro aveva un secchiello dove c’erano dentro le nostre scarpe. Allora ci dicono di vestirci,l’interprete dice: “Vestitevi che andate al comando”. Lì nella cella di fronte alla nostra, non mi ricordo più chi c’era dentro, qualcuno che ha assistito dallo spioncino alla scena e ci diceva: “Non muovetevi, ma dove andate? Ma non sapete che vi fanno fuori? Non andate, non dovete uscire.” Comunque i soldati hanno aspettato, quando noi ci siamo rivestiti con le nostre cose, hanno preso le tute e ci hanno accompagnati al comando, e siamo andati su al comando, c’era il maresciallo Thito, siamo andati dentro ed ha fatto una carezza a mio figlio sulla guancia, lui tutto, è stato molto contento, e poi ci ha dato il foglio di scarcerazione a ciascuno di noi e ci hanno messo fuori dalla porta. Allora noi, insomma anche sollevati da un lato, perché dicevamo: “Va beh, ci hanno lasciato così, senza neanche una lira in tasca, senza sapere neanche dove siamo esattamente comunque adesso vedremo”. Noi eravamo convinti che andando per esempio a Bolzano avremmo trovato non so, i liberatori dell’Italia, ed invece ci siamo accorti che lì c’erano tutti tedeschi, tutti, tutto era ancora occupato.

Mariuccia: È per quello che vi hanno dato il foglio di scarcerazione.

Rosetta: Eh beh certo, però avevamo anche paura di far vedere quel foglio di scarcerazione nei quattro giorni che abbiamo impiegato per arrivare a casa, e caspita…

D: Con cosa siete arrivati a casa?

Rosetta: Con i mezzi un po’ di fortuna, mezzi di fortuna e parecchia strada a piedi, ti faccio vedere dov’è Mori?

Mariuccia: Sì, l’ho visto, ho guardato sulla cartina.

Rosetta: È a 12 chilometri da Riva.

D: Tra Rovereto e Riva del Garda, Mori.

Rosetta: Sì, tra Rovereto e Riva del Garda ma più vicino a Riva del Garda che a Rovereto.

Mariuccia: Ma non passa la ferrovia, da Mori, però.

D: Sì, passa.

Rosetta: Sì, passa.

Mariuccia: La ferrovia Verona – Brennero passa da Mori?

Rosetta: Anche la strada passa, andando in macchina vedi che c’è scritto Mori. Sì, anche sull’autostrada c’è l’uscita.

D: Quindi avete fatto tutto il viaggio…

Rosetta: Prima siamo andati all’Aprica, con l’idea di dire che forse là all’Aprica, alla Mendola, oh, mi scusi, alla Mendola, con l’idea che alla Mendola, pensavamo che dopo, allontanandoci dalla Mendola avremmo trovato il sistema per andare a casa. Invece lì alla Mendola abbiamo visto che non c’era niente da fare. A parte il fatto che mio padre non voleva neanche che io fermassi i camion con i tedeschi, perché diceva “No, non li devi fermare, non devi farti prendere su, non devi fare niente.”

Mariuccia: Eh, sì, aveva ragione.

Rosetta: Poi dalla Mendola siamo tornati a Bolzano, a Bolzano ci siamo incamminati verso Trento, appena uscita da Bolzano un camion tedesco era fermo e lì c’era un tedesco che parlava italiano, sì insomma parlava, allora io ho detto: “Non potrebbe portarci un pochino in giù che siamo qui”, eccetera, però mio padre mi diceva: “Non fargli vedere il foglio di scarcerazione, eh?” Allora lui ci ha caricati e ci ha portati ad una decina di chilometri da Trento. Poi siamo arrivati, intanto era venuta sera, lì ci siamo internati dentro e abbiamo dormito in un cascinale, ci hanno lasciati dormire in una specie di veranda semi vuota, ma un freddo dell’accidente, perché non avevamo neanche niente per coprirci. La mattina ci siamo alzati presto, e sempre all’interno, siamo andati verso Rovereto. È stato a quel punto che abbiamo visto che c’era, tutto il territorio intorno, dove non c’erano più soldati. I tedeschi non c’erano più. Abbiamo incontrato soltanto una pattuglia di tre persone ed era la cosiddetta terra di nessuno. Attraversato questo abbiamo dormito lì vicino a Rovereto in un monopolio, in una specie di fabbricato dove c’erano i monopoli, c’erano le sigarette, che non c’erano più, sale e quella roba lì. Lì c’era parecchia gente che dormiva, anzi qualcuno ci ha anche dato una copertina per coprire mio figlio e la mattina del giorno dopo da lì abbiamo camminato e siamo arrivati a Mori, e quindi eravamo al 3 di maggio. A Mori il prete ci ha permesso di dormire in una sacrestia, ma è stata una nottata terribile, perché si sentivano delle cannonate ininterrotte e poi verso le tre o le quattro di notte come uno scalpiccio continuo di piedi, perché questa chiesa è quella che si vede passando; c’è un campanile, lì a Mori, provi a guardare, lei vede una chiesa che adesso è stata ritinteggiata di bianco, e vicino c’è un piccolo fabbricato che era la sacrestia, allora mi sono alzata e ho visto che lì passavano i tedeschi, proprio come si vede nei film, con le giacche aperte, disarmati, e si stavano ritirando. Sono andati avanti, per parecchie ore, saranno state le tre, le quattro del mattino, poi verso le sei e mezza o le sette, ci siamo incamminati, abbiamo detto “Andiamo a Riva”, arrivati dopo un paio di chilometri da Mori invece non si poteva più passare, cioè si poteva passare ma bisognava andare a fare un giro, siamo rimasti lì. Ad un certo punto, dalla parte opposta di questo cratere che oramai era un cratere enorme, abbiamo visto due camionette americane. Allora questi hanno fatto, una è venuta giù perché era un cingolato, e l’altra invece ha fatto il giro e ho detto: “Basta, adesso non andiamo più a piedi”. Infatti sono venuti lì, e allora abbiamo tirato fuori i nostri fogli di scarcerazione, ma quei due bei ragazzi lì americani, hanno preso, sulla camionetta, mia madre, mia suocera e mio figlio, ed io e mio padre ci hanno lasciati lì e ci hanno dato il nome della caserma dove potevamo andare a rintracciare mia suocera, mia madre e mio figlio e se ne sono andati. Noi siamo arrivati a Riva verso l’una o le due del pomeriggio, a piedi, insieme a tutta l’altra gente.

D: Quando vi siete ritrovati, poi?

Rosetta: Al 4 maggio ad Iseo.

D: Ad Iseo?

Mariuccia: Eravamo io e mia sorella che era uscita al 25, mi pare.

D: Dalla prigione?

Mariuccia: Dalla prigione, eravamo andate su in campagna dove eravamo poi in quel posto là perché c’era un casotto ad Iseo e ci hanno detto di venire a casa che erano arrivati.

D: Invece tuo marito?

Rosetta: Mio marito lo hanno lasciato andare quando hanno firmato il trattato di pace.

D: Perché lo avevano riarrestato?

Rosetta: No, no, no, mio marito aveva passato le linee e si era ripresentato un’altra volta al suo comando.

D: Ah. Lui sapeva che eravate a Bolzano?

Rosetta: Sì, lo sapeva perché quando lui è andato nelle montagne, a Piacenza, si è rivolto ad un sacerdote che si chiamava Bonomelli. Questo sacerdote gli ha detto: “Vai in questa località, con questo biglietto, vedrai lì c’è una formazione partigiana e loro potranno metterti in contatto con il tuo comando”. Lui è andato lì, si sono messi in contatto con il comando ma il comando ha dato subito ordine di tenerlo chiuso. Perché, caspita…

Mariuccia: Poteva anche essere una spia. Ma è successo anche a me, sa? Ah, ecco, questa è una cosa che mi ero dimenticata.

D: Cioè?

Mariuccia: Io sono andata dalla Magda, quando sono uscita, treni non ce n’erano, sono stata lì una notte o due a dormire. Lei aveva un amico che era un socialista, e mi ha detto: “Come mai tu sei uscita? Fammi un favore, fammi una relazione.” Io ho fatto una relazione, e quello tergiversava. Insomma pensavano che io fossi uscita prima perché avevo aderito a qualche …

Rosetta: Ah, sì, certo.

Mariuccia: Un altro particolare che mi viene in mente, quando il maresciallo Haage è venuto a dire “Nacht Verona”, il capo campo, era Alfi, è venuto lì con dei bigliettini, ti ricordi?

Rosetta: Sì.

Mariuccia: E me li aveva fatti cucire nella cintura, perché la paura che avevano loro era che alla liberazione del campo li mitragliassero tutti. Allora lui mi detto: “Tu fai così, qui non si può avere contatti con nessuno, allora vai a Venezia, vai dal tale”, un tizio che si chiamava Battistella, “il quale ti indirizzerà”, non so poi perché avrei dovuto andare fino a Trieste, “dal direttore del manicomio di Trieste che è in contatto con …” Non so. Io diligentemente sono sfuggita ai controlli delle SS che poi dopo mi hanno mandata a chiamare, perché dicevo “Devo andare a fare un esame a Milano”, facevo finta di andare a Milano e con mezzi di fortuna sono andata a Venezia, con questi biglietti che dovevano essere recapitati a chi veniva poi a difendere qui, penso io, il campo. Tutte robe che si fanno da giovani perché non si pensa alla stupidità delle cose che si fanno, comunque io ho rischiato di mio perché sono saltata sui camion, ho preso i bombardamenti, sono andata a Venezia, lì mi sono trovata sola, senza soldi anch’io, non sapevo cosa fare, sono andata da questo Battistella il quale non ha voluto assolutamente saperne di ricevermi. E dopo, non so come, da Iseo, attraverso mia cognata Magda e mio cognato che lavoravano a Verona, nell’Ufficio Tecnico Erariale, mi hanno detto di tornare immediatamente perché quelli delle SS mi avevano cercata. E qui finisce la mia storia. Perché le persone a cui io a Trieste avrei dovuto consegnare quello che mi avevano messo dentro nella cintura erano state uccise tutte. Dopo io non ho più pensato d’andare a sentire com’era questa storia, ma mi sarebbe piaciuto sapere che fine avevano fatto questi personaggi.

Rosetta: E quel Battistella?

Mariuccia: E quel Battistella lì, antipatico, io non sono più andata a cercarlo. Perché se fossi andata a cercarlo gli avrei detto: “Ma lei è un imbecille, è un cretino.” Forse aveva paura. Dopo sempre lui, Alfi, mi ha dato un indirizzo di una certa signorina Boato, che mi avrebbe ospitato, io sono andata da questa Boato e ho detto: “Senta, mi manda il tal dei tali” “Ah no, no ma io…”. “Senta, io in strada non ci sto, io vengo a dormire a casa sua”. Sono andata lì e ho dormito due notti, e poi sono tornata a casa.

D: Questo a Verona?

Mariuccia: A Venezia, in questa casa, e poi io non potevo stare via tanto, perché mi cercavano, va beh, se non fossi più tornata non mi facevano niente, per carità, però loro erano là dentro, cosa ne so io? Che si mettono a fare i pazzi. E questa tizia aveva nascosto in casa suo fratello, mi verrebbe il gusto di sapere se quel Marco Boato che è un personaggio del parlamento, non so di che corrente, è imparentato con questa tizia qui, Marco Boato, si chiama.

D: Sì, sì, Boato.

Rosetta: Però è giovane, non può essere lui.

D: No, non è lui, lui è giovane.

Mariuccia: Sarà di quella famiglia lì?

D: Ah, può darsi.

Mariuccia: Guardi, adesso le faccio fare una risata. Abitavano a Venezia al Ponte delle Tette. Che io, ero una ragazzina, lì sperduta, e mi vergognavo a chiedere dov’era il Ponte delle Tette, adesso non si vergognerebbe più nessuno, ma allora ai miei tempi era così. E tutti, quando chiedevo il Ponte delle Tette, si spatasciavano dal ridere. E la situazione non era ridicola.

D: Certo.

Mariuccia: Non c’era niente da mangiare, non c’era niente da dormire. Non si sapeva come fare a campare. Questo Gian Antonio era di Milano?

D: Era un trentino, della Val di Non che però era al convento dei frati cappuccini di Milano, in che via, questo non me lo ricordo, ce l’ho scritto, però eh. Sant’Ambrogio, mi pare.

Mariuccia: All’interno, avevo disegnato il maresciallo Haage che faceva l’appello, perché mia sorella non si ricorda, forse perché lei stava nella cella, ma io con la curiosità di fare i disegni mi ero nascosta dietro gli angoli delle baracche, siccome godevo di una certa autonomia, essendo un prigioniero speciale come lei, non mi dicevano niente, però non mi avevano visto disegnare. Poi ho disegnato la punizione che hanno fatto ad un tizio che aveva rubato, al quale hanno legato le braccia dietro e gliele hanno rotte a legnate. Insomma avevo, guardi, saranno stati una ventina di schizzi di questo genere. E c’era una signorina inglese, che era l’istitutrice di casa Besana, quello dei panettoni, che mi insegnava un po’ l’inglese, veniva lì nella nostra cella.

D: Ma lì nel campo era?

Mariuccia: Sì, nel campo, era come prigioniera civile, inglese. Era ammiratissima di questi fogli, mi diceva di non perderli. Perché erano molto belli, poi ho fatto altri ritratti, alle persone alle quali poi li ho dati, una era questa Luciana Menici di cui non riesco a trovare l’indirizzo e uno era un certo Bianco.

D: Com’è la storia del sabbiolino, allora?

Mariuccia: Certo, siccome mio nipote piangeva sempre, quando chiudevano la cella ed andava avanti un’ora a dire “Aprimi, aprimi, aprimi” e poi si metteva a cantare, bisognava cantare. Allora io, anche perché di giorno non si sapeva cosa fare con questo bambino, facevo sempre i disegni delle fiabe. L’unico che mi era rimasto era questo disegno del nano sabbiolino, c’era un gran castello, ma era piccolissimo, grande come questo foglio, favoloso con tutte le stradine rotonde un ponte, e su questo ponte passava il nano sabbiolino, con il suo berretto a punta e la lanterna in mano, e il sacchetto della sabbia, lui guardando questo disegno, si divertiva e si quietava. Poi avevo fatto altri disegni che sono andati persi, sempre per il mio nipotino li facevo. Ma quelli che mi dispiace di più sono i disegni delle adunate, delle partenze, perché quelli erano veramente. Mi ricordo che ne ho fatto uno una volta, con il maresciallo Haage con il frustino dietro, gli stivali e avevo fatto il sedere quadratissimo, proprio sembrava un quadro cubista, con questo culo grosso, tutto dritto, quello me lo ricordo ancora. Li facevo con la matita o con la penna, ma purtroppo io non li ho più. Mi è rimasto questo.

D: Che cos’è quello?

Mariuccia: Questa era la cella dove eravamo, fatta là. Dopo, siccome vedevo che si stava cancellando, perché la matita è molto delicata, c’era una mostra intitolata “Il convivio”, aveva come tema il convivio. Ho detto, pensa, ti faccio vedere io il convivio. Allora ho fatto, un paio d’anni fa, ho preso questo disegno e da questo ho tratto quell’incisione che è lì, e l’ho intitolato: “Natale nel Lager”, più bel convivio di quello.

D: Prima, Mariuccia, raccontavi un episodio molto importante di don Berselli, che veniva nella vostra cella.

Rosetta: A grattarsi il formaggio sulla zuppa.

Mariuccia: Se la mangiava solo, solo, non ha mai dato un cucchiaio neanche al ragazzino.

D: Neanche?

Mariuccia: Mi ero fatto un’idea negativa di questo don Berselli, però adesso che sono più vecchia, diciamo che sono vecchia, capisco che l’essere umano è così prevalentemente, e se uno vuole sopravvivere deve essere così.

D: Ti ricordi anche di don Vismara?

Mariuccia: Di don Vismara mi ricordo poco, perché era uno che parlava poco, era una persona sempre depressa, non aveva niente da dire. A mia impressione non comunicava insomma, mentre don Berselli era un uomo intelligente che comunicava, don Gaggero lo stesso, don Vismara era proprio un prete, non so come dire, può darsi che fosse anche intelligente, nel senso che in quei posti lì è meglio parlare poco, delle volte una parola detta in più.

D: Mariuccia, che cos’è che ti ha aiutato a sopravvivere all’interno del Lager?

Mariuccia: Ma sa, da giovani si hanno delle risorse spirituali e psicologiche pazzesche, che mi ha aiutato a sopravvivere era la convinzione che tutte le cose finiscono, e che se avessi avuto pazienza sarebbe finita anche quella lì. Poi mi ha aiutato a sopravvivere il sentirmi, guardi che questo è un concetto che può sembrare, come dire, romantico. Il sentirmi parte di un tutto che era coinvolto in una grande tragedia, e quasi quasi stavo meglio lì, di quando sono uscita. Perché quando sono uscita mi sono trovata così sbandata, sola, con questi fascisti che mi correvano dietro a tutte le ore, avevo sempre due fascisti davanti alla casa che mi sorvegliavano. Volevo dire che avevo perso il mio essere ingranaggio, il mio essere piccola rotella in un ingranaggio, che faceva, che macinava un qualche cosa e di cui io facevo parte. E di cui avevo anche una parte non puramente passiva, perché fa questa faccia?

D: Perché occorre essere molto saldi nelle proprie convinzioni.

Mariuccia: Le dirò che per me il Lager è stata una sofferenza morale pesantissima, perché io di notte avevo delle forme d’angoscia che non dipendevano dal fatto che io avevo paura o avevo fame, ma dall’incapacità che avevo di rendermi conto del perché succedessero queste cose, del perché una persona venisse presa, portata in Germania, presa a calci mentre saliva su un camion, usciva proprio fuori da una mia capacità di comprensione umana quello che vedevo.

D: Cioè non c’era nessuna spiegazione logica, razionale.

Mariuccia: No. E non c’è neanche adesso. Non l’ho mai trovata.

D: Infatti.

Mariuccia: E poi l’angoscia, perché io avevo anche un ragazzo, col quale ero molto affezionata, che sua madre lo aveva obbligato ad arruolarsi nella Monte Rosa, e lui si era fatto mandare in Piemonte, sulle vette, se lei conoscerà mio marito vedrà che uomo è, ha capito? E lui era disperato perché ha capito che io ero nel Lager e cercava di fare di tutto per farmi uscire, ha capito? Beh, questa è un’altra cosa, poi dopo io non sapevo niente di dove era lui, cioè sapevo che era là, che non faceva per carità i rastrellamenti, era stato mandato a costruire, alla guerra contro i francesi, mi dica lei il senso. Quindi c’era anche questa assoluta mancanza d’un senso nelle cose che vedevo fare, perché, mi dica la verità? Ha senso prendere la gente, caricarla sui camion, mandarla in Germania, ha un senso impiegare energie pazzesche per tenere tutta questa gente nei Lager? Anche da un punto di vista pratico non ha senso. Se loro non avessero sprecato tutte le loro energie in questa costruzione abnorme, impiegato uomini, armi, forse forse riuscivano a fare meglio la guerra, penso io. Addirittura da un punto di vista pratico, secondo me era una cosa cretina.

D: Beh, ma lì dovevano eliminarli tutti, eh? E l’unico modo per eliminarli era …

Mariuccia: Ma è questo che non ha senso.

D: Lo so che non ha senso. Però il loro progetto, la loro ideologia era quella lì.

Mariuccia: Sì, l’ho letta, ho letto la storia del Terzo Reich e l’Ordine Nuovo di Hitler. Dopo, quello che non capisco, è che ci fossero, anche nel comunismo ci fosse questa, guardi, io le dico subito che non sono una comunista, non lo sono e non lo sarò mai perché purtroppo il mio spirito è più anarcoide. Io mi definisco liberale ma forse sono più anarcoide che liberale, poi una mia convinzione di tipo più profondo m’impedisce d’accettare qualsiasi ideologia che minacci la libertà, anche di pensiero. Preferisco il disordine, la confusione, la difficoltà del vivere, l’errore a qualsiasi cornice che mi obbliga a vedere la verità che mi vogliono far vedere gli altri. Questo è il mio modo di pensare.

D: Ritornando un attimo ai disegni del Lager, la documentazione che voi siete riuscite a portare via, portare fuori è, oltre a quell’originale lì, il testo…

Mariuccia: Alcune lettere che ho scritto al mio moroso e che lui ha conservato, e che sono anche abbastanza interessanti perché parlano di queste cose di cui ho parlato io adesso. Naturalmente non si poteva scrivere quello che si vedeva, però s’intravede l’atmosfera di questo campo, si intravede molto bene. E poi questi disegni, il rigaudon, poi ho questa lettera che hanno scritto gli ebrei a mio padre.

D: Gli ebrei hanno scritto questa lettera al babbo?

Mariuccia: Questo tizio era un ebreo di Genova, perché finita la guerra, dopo mio padre si è dato da fare per rintracciare quelli che aveva conosciuto. Questa lettera, scritta da questo ebreo di Genova, lei legga. Qui parla di molti che sono partiti da Bolzano. Dice: “Non so se la presente la raggiungerà, ma l’invio ugualmente per dare loro mie nuove. Dopo la mia partenza avvenuta, come loro si ricorderanno, il 14 dicembre ’44, credo di essere l’unico superstite di quella spedizione di ebrei, tutti gli altri, da quanto ho potuto sapere, sono periti a Flossenbürg ed altrove. Io ho percorso un ben duro calvario a Flossenbürg, Hersbruck e Dachau portando in spalla macigni e tronchi d’albero, facendo una fame nera. Sono tornato il 4 luglio in Italia dove ho ritrovato la famiglia al completo, ossia la mamma ed il mio maggior fratello con moglie e figli che poterono nascondersi e non ebbero noie. Athos Polacco, a Bolzano nella squadra dei gabinetti, è perito a Hersbruck di tifo e diarrea sanguinosa. Mentre gli altri li lasciai tutti a Flossenbürg dove furono visti ancora in vita il 23 gennaio. Pare che anche la mamma di Athos e sua sorella Iride siano perite. Altri dicono che sono illesi, altri ancora a Fürstenberg, vicino a Berlino, ma notizie precise non ce ne sono. Quanto a me ho avuto parecchie fortune, soprattutto quella di stare a lungo nell’infermeria a causa del congelamento dei piedi. Non solo, ma di esserci potuto entrare ed esserci stato molto lungo ed intanto è avvenuta la liberazione. […] Non mi dilungo in altri particolari perché sono tutti orribili, a raccontarli tutti ci vorrebbe un romanzo. Ora sono di nuovo con la mamma e ieri sera essa ha voluto festeggiare con speciale rassegna di vivande la data anniversario della mia partenza per la Germania. Chissà che cosa saprà fare ancora il 4 luglio del ’46, data del mio arrivo. Vi saluto e sto bene, come condizioni generali, ma il piede sinistro mi dà ancora parecchie noie, il medico dice che sono cose lunghe ma alla fine guarirà. Il piede destro invece, che pure era congelato, mi ci hanno amputato il terzo dito, in quell’infermeria che non capivo bene se fosse una stalla o un bordello. Sarò ben lieto se vorranno darmi loro notizie, ho saputo che qualcuno che era a Bolzano con loro è stato liberato a Natale insieme con quel musicista tedesco alto come una cattedrale e grosso in relazione […]”.

D: Mariuccia, questa lettera qui, questo Paolo, l’ha scritta al vostro babbo per l’aiuto?

Mariuccia: Per l’aiuto che aveva dato …. Anche in questa lettera ci sono delle cose pazzesche. “Ho ricevuto la di lei graditissima lettera del 7 corrente e la ringrazio, con vivo piacere ho appreso che loro tutti sono in ottima condizione di salute e hanno ripreso la solita vita. Ho letto con interesse tutto ciò che ella mi scrisse, ma quando avrà tempo e volontà la prego pure d’informarmi delle circostanze nelle quali fu liberato il campo di Bolzano. Che ne fu di Hans e di Werner? Dove sono andati a finire quei figli di cani d’ucraini? È vero che il maresciallo Haage è stato impiccato dagli internati? E dove finì quella sua famosa moglie, quella grassa impiegata del comando? Intanto posso dirle che si è salvato Stefano Vela, il calzolaio napoletano che lavorava a Bolzano nella calzoleria e che fu inviato in Germania in seguito, pare ai dissidi col capo calzolaio. Fu a Flossenbürg e vi arrivò pochi giorni dopo la mia partenza e vi conobbe Fontanella e tutta la compagnia. E’ tornato a Genova, molto malandato in salute e ora si è assai rimesso. Però ci ha rimesso i denti, buttatigli giù a pugni dalle SS del campo. Quel tal giudice piemontese di cui lei accenna, Emilio Sacerdote, che si spacciava per Emilio Dote, l’ho lasciato a Flossenbürg e altro non so. Quasi tutti i parenti di quei disgraziati mi hanno scritto chiedendo notizie dei loro cari, ma non certo quelli del predetto sacerdote. Per quanto riguarda Danilo Panciatici, temo forte che sia perito. La vigilia di Natale del ’44 eravamo tutti quanti, gli ebrei italiani, i più validi, in un punto del cortile del campo ed eravamo occupati a impilare baracche smontate agli ordini dell’ingegner Lowenthal che funzionava in certo senso da Vorarbeiter. Mentre io ero da una parte del cortile vennero delle SS, prelevarono Dante e Italo Momigliano, l’ingegner Italia, l’ingegner Schoenberg, Viro Endrec, Curiel, Sauro Ascoli, Danilo Panciatici e li portarono via. Ho saputo che l’ingegner Italia ed i due Momigliano risultano deceduti dagli archivi di Flossenbürg, ma degli altri non so nulla. Io mi salvai da quella spedizione perché non mi videro. Ciò che mi meraviglia è che manchino pure notizie di Lowenthal, in quanto a Flossenbürg era riuscito a farsi aiutare dai capi del blocco e gli avevano levato il nastro giallo da ebreo e lo avevano mandato niente meno che a controllare la locale fabbrica di aeroplani Messerschmitt. Quanto a me, Iocas, a Flossenbürg ero riuscito a lavorare in sartoria, lavoro assai ambito perché retribuito con viveri supplementari. Quando arrivai a Milano seppi di sicuro che allora, il 5 luglio, ancora non vi erano nuove. Jovel Liss e quell’altro turco poco simpatico e bigotto erano riusciti a far entrare dei pezzetti d’oro nel campo e a Flossenbürg con quel sistema si era procurato un incarico, non so quale, al famigerato blocco dei morti dove venivano inviati gli incurabili, i vecchi, i minorati ai quali veniva fatta fare una cura intensiva di calci nel petto e altrove, nonché a sei ore giornaliere di gelo bavarese fuori baracca. Il capo blocco era il più ricco di tutti, potendo contare su venticinque, trenta morti giornalieri aveva a disposizione venticinque, trenta minestre in più al giorno, venticinque, trenta pezzi di pane e margarina in più al giorno che commerciati con gli altri blocchi gli davano un benessere particolare. La ringrazio tanto per le sue frasi cortesi ma non fui io ad afferrare la fortuna, fu lei stessa che si sbracciò ad afferrare me con una serie di casi e coincidenze una meglio combinata dell’altra”. Dopo dice che sarebbe venuto a trovarci, invece non è venuto, e poi fa un’offerta commerciale. Mio padre faceva il conciapelli, e dice che vende, “Vendiamo un fottio d’olio di pesce in alcune concerie, ne avremo dell’altro, se l’offerta le interessa mi avverta, possiamo disporre anche di altri prodotti chimici. Lascio di scrivere per non farla tanto lunga, che ci sarebbe materia per un romanzo intero, ricorda fra i genovesi Emilio Terreni, quello così grande e grosso ed il commendatore Roberto Lepetit, sono periti tutti e due in Germania. Tanti cordialissimi saluti a lei e famiglia”. Paolo Weisser.

D: È sempre lui, è sempre Paolo?

Mariuccia: Sempre lo stesso. Perché mio padre poi ha risposto, ha chiesto, e purtroppo di queste lettere ce n’erano tante, sono andate perse quando è morto mio padre, perché io non ho avuto l’accortezza di fare subito lo spoglio di tutto quello che c’era in casa. Ho fatto lo spoglio ma molte cose, ero sola, ho impiegato tre mesi a mettere a posto le carte. Molte cose mi sono sfuggite. Comunque sono interessanti, vero?

D: Parecchio interessanti. Sono documenti importantissimi.

D: Quelli sono documenti, non sono fantasie. Questi Momigliano…

Mariuccia: Erano i cugini del famoso Momigliano.

D: Ma loro sono originari di dove?

Mariuccia: Io credo di Torino.

D: Perché Arnaldo Momigliano è di Caraglio, provincia di Cuneo, lo storico.

Mariuccia: Erano cugini diritti dello storico Momigliano.

D: Allora sono piemontesi, insomma.

Mariuccia: Io li ho conosciuti perché erano capo cessi, e siccome si avvicinavano spesso alle nostre celle, perché gli si dava qualcosa, poi scambiando le parole, scambiando discorso, ci si conosceva, si capiva che erano persone con le quali era possibile avere un contatto un po’ umano, diciamo, ci si erano affezionati molto.

D: Poi avete recuperato la poesia del francese dedicata a Ennio?

Mariuccia: Sì, che mi dispiace non avere più il testo della canzone dei prigionieri che aveva scritto Gurtler. E l’aveva scritta, mi aveva promesso che me l’avrebbe data, io non ricordo guardi, penso che non ci fosse perché se no l’avrei conservata come ho conservato questa.

D: Poi c’è il diario.

Mariuccia: Il diario di Vittorio Duca. Vittorio Duca, quando io sono uscita, mi ha accompagnato sulla porta della cella e mi ha detto: “Ti raccomando Mariuccia, vai a casa e datti da fare per la Resistenza, guarda che bisogna fare qualcosa.” E infatti io così ho fatto, e ho cercato poi di fare quello che potevo fare, rifornivo i partigiani di cartucce, perché oramai mia sorella era in prigione, andavo a prenderle al poligono di tiro, e dopo, si chiamava Boccacci, Leone Boccacci, il 25 aprile nei pressi del poligono transitava una camionetta di tedeschi, con su due tedeschi. Hanno alzato le mani perché hanno visto della gente armata, facendo segno che si arrendevano. Uno di quegli imbecilli, mai sufficientemente classificati come tali, del 25 aprile con i fazzoletti della liberazione, hanno sparato ad uno e lo hanno ucciso, l’altro ha preso la camionetta e l’ha girata ed è andato via. Dopo un’ora sono arrivati lì in un drappello e hanno facilitato tutti quelli che c’erano nel poligono, sedici persone, c’era anche un ragazzo di quattordici anni, una ragazza di quattordici anni che era mia amica, perché si andava lì a fare gli allenamenti, si andava lì a sparare. Per dire le cose che succedevano. E questo tizio che durante tutta la Resistenza aveva procurato cartucce sottobanco, che si andavano a prendere là in bicicletta e si mettevano nello zaino e si portavano fuori ad Iseo, che poi venivano a prenderle dal monte, lì alla nostra casa, ecco perché dicevo che eravamo già noti come rompiscatole diciamo. Io non ho fatto niente per carità, zero, però c’era questa situazione.

D: Mariuccia, dopo il Lager, in questi anni dopo il Lager, cosa è rimasto dentro di voi di quell’esperienza? Cioè vi è costata, durante la vita, nel ristabilire i rapporti, per esempio con gli amici a Iseo, con i conoscenti, con altri?

Mariuccia: Guardi, c’è stato un periodo in cui avevo un certo fastidio a parlare con gente che sapevo che era d’idee piuttosto di destra, diciamo, fasciste. Perché io ho constatato che la mentalità fascista, non è perché uno sia fascista, ma è proprio la rotella del cervello che fa essere fascista uno anche se è comunista o se repubblicano. Perché è una specie di volontà di sopraffazione, di mancanza di senso critico, di atteggiamento autoritario. Questa è la mentalità fascista, il non voler ascoltare le ragioni altrui, d’aver in mano la verità, io la penso così. Poi la prima cosa che ci ha afferrato è il ritmo del vivere che dovevamo riprendere e che avevamo tralasciato. Io per esempio avevo fatto cinque o sei esami in tutto all’università; la mia preoccupazione è stata quella, in due anni ho finito dodici, tredici esami d’università di filosofia, quindi avevo sempre la testa sui libri e non mi sono neanche…, e poi ci si interessava un po’ della vita politica. Mio padre era un vecchio liberale, era stato ai tempi di Giolitti, un giolittiano anti, come si dice? Contro l’entrata in guerra insomma, neutralista, sa che allora c’erano. Poi ci siamo messi a fare anche lo sport e credo che uno psicologo direbbe che c’era la volontà di rimuovere quest’esperienza che in fondo poi è stata un’esperienza breve, profonda fin che vuole, però era stata un’esperienza breve non ci aveva costretti, eravamo sopravvissuti. Prima cosa che io ho detto, noi siamo degli esseri fortunati, questo ho pensato. Abbiamo avuto questa esperienza ma siamo persone felici, perché siamo venuti a casa integri, non ci hanno picchiato, non ci hanno ammazzato, ci hanno privato d’un paio d’anni di vita, ma adesso noi ce la riprendiamo. Questo era il discorso che si faceva. Poi c’era un certo ottimismo verso la costruzione di una nuova società, che era quella che ci aveva un po’ sostenuto, perché nella mia famiglia noi abbiamo sempre ricevuto un’educazione di tipo liberale. Noi la dittatura da ragazzi la guardavamo con simpatia perché eravamo un po’ scemi, mettevamo la camicetta, andavamo a fare l’adunata, ma in casa ci davano degli imbecilli. “Voi non sapete che cosa vuol dire vivere in un regime di libertà. Questa è dittatura”. Mio padre quelle cose lì ce le aveva spiegate. Poi dopo invece un po’ alla volta ho capito che erano imbecilli i fascisti ma erano imbecilli anche gli antifascisti. Cioè che la stupidità si divideva in parti uguali nell’umanità. Anche se si tenta di costruire una società democratica e libera ci sono sempre delle cose che io non capisco e che perlomeno non rispondono a quello che io pensavo fosse una società democratica e libera. E come dico dopo c’è stato anche un periodo, non vorrei dire una stupidaggine, in cui quasi la gente non voleva sentir parlare di queste cose. E la gente non ne vuole sentir parlare neanche adesso. La gente non vuole essere disturbata, vuole mangiare, bere, dormire e fare il week-end, possibilmente rimanere ignorante perché se uno non è ignorante affina anche la sensibilità e quindi è esposto di più ai colpi di fortuna come diceva Dante. Quello che ho notato io è che eravamo come degli estranei. Non entravamo, io non sono mai entrata nella società a pieno ritmo, mi sono sempre sentito un po’ diversa, mi scusi, sarà una forma di presunzione.

D: Ma oltre a sentirsi diversa…

Mariuccia: Sarà anche per il mio carattere, intendiamoci, non perché sia stata nel Lager, perché forse sarei stata la stessa cosa. Io per esempio certe forme d’insensibilità verso le cose che si vedono non riesco a capirle, mi danno fastidio. Una cosa che mi emoziona e agli altri non dice niente, ce ne sono moltissime di cose, io m’interesso, mi emoziono, mi agito per questo o per quello, benché sia già una vecchia, voglio dire, non ho perso la capacità d’indignarmi, la capacità di ammirare … Appena usciti, a casa abbiamo ripreso a vivere come tutti, no? Non siamo andati a cercare, non so, a dire “Noi siamo gli eroi, noi siamo i martiri”, perché non è neanche vero tra l’altro, perché quando uno salva la sua pelle viene fuori un po’ intero, che eroismo è? Però quello che, forse è una cosa curiosa quella che le racconto, che è emblematica. Io ho fatto l’esame di latino con un professore severissimo, era un luminare della lingua, il professor Castiglioni, nientemeno che autore. Vado dentro, tutti avevano una paura matta perché bocciava di brutto, io avevo questa specie di sicurezza che mi veniva un po’ dal fatto che avevo fatto lo sport, e avevo il senso sportivo anche della sconfitta, e un po’ dal fatto che avevo sulle spalle delle esperienze, di fronte alle quali l’esame di latino, sì, era una cosa preoccupante, ma non drammatica. Allora vado dentro, ho fatto bene tutto il mio esame, e lui mi fa leggere un brano di Seneca. Io l’ho letto e tradotto correttamente, mi guarda e mi fa: “Signorina, la potenza del latino lei non sa neanche dove sta di casa”. Io ho fatto un pensiero, non so se si può dire, internamente un turpiloquio, ho detto: “Va a farti friggere te e la tua potenza del latino, perché a me in questo momento non me ne frega niente”. Ero uscita dal Lager da sei o sette mesi. Ed un’altra volta, durante una lezione di filosofia teoretica, era sorta una discussione, e io non riuscivo più a capirla la filosofia teoretica, una discussione tra il professore ed il suo assistente, il quale si domandava se, adesso io non ricordo se si trattasse di Leibniz o dell’Idealismo, se in quel caso, di quell’espressione che lui aveva appena illustrato, l’io si ipostatizzava. Questa frase mi ha fatto male, “Ma come”, dico, “questi qui stanno a pensare se l’io si ipostatizza e ci sono milioni di cadaveri sepolti sotto terra. E io ho visto Armando Sacchetta senza gamba, Vittorio Duca che è morto a Buchenwald, mio fratello che è precipitato in mare, è morto in mare, sei milioni di ebrei gassati, tutta l’Europa per aria, dicevo, le mamme con i bambini che non sapevano come fare ad entrare nella camera a gas…”, ho fatto tutto una carrellata. Che l’io si ipostatizzasse come dicevano loro, per me è stato un motivo d’aprire uno scenario spaventoso e di farmi rifiutare l’io che si ipostatizza. Poi ho fatto lo stesso i miei esami, benissimo, ho preso un bellissimo voto. Ecco, che lei mi ha chiesto cos’è stato il dopo Lager. Sono stati tutti questi episodi.

D: Ecco, ma gli amici, pesava molto il fatto di essere stata nel Lager?

Mariuccia: Ma no, guardi che noi abbiamo avuto degli amici, io ho visto anche la strage dei miei amici che sono andati in guerra, ne abbiamo persi molti. E’ quello che le ho già detto prima, ho avuto la sensazione di una frattura, di un mondo che prima era così e poi non poteva più essere così. Perché noi poi ci siamo sempre portati in mente anche il dolore per queste persone scomparse, questa gente che era giovane come noi e che è morta mentre noi eravamo vivi, ecco, c’è poco da dire. Certo che il mondo non è più stato come prima, non perché siamo stati nel Lager, ma per quello che è successo. Non poteva più essere uguale.

D: Dopo il Lager, non può più essere uguale?

Mariuccia: No, non si poteva più pensare, fare poesia, fare pittura, fare musica, fare filosofia allo stesso modo.

D: Questo è un pezzo che dice Adorno, eh?

Mariuccia: Può darsi che sia anche detto da Adorno. Salvo poi recuperare i vecchi valori in una maniera diversa, inserirli in una maniera diversa nella società, non so come spiegarmi, non più come pura e semplice cultura ma come supporto per la fondazione di un mondo un po’ meno circondato da filo spinato, io non sono mai stata capace d’odiare. Non ho odiato mai nessuno. Una cosa che mi ha insegnato ad odiare è stato il Lager, io posso dire che ho imparato a odiare nel Lager. Io ho imparato a odiare i tedeschi, ho imparato a odiare i torturatori, gli ucraini, i violenti. Ho imparato a odiare lì, perché non sopportavo la crudeltà che vedevo esercitare. Questa è una cosa che nasceva dal mio carattere. L’odio verso la crudeltà, il senso di compassione che forse è anche una cosa che mi sminuisce come persona, mi impoverisce. Io credo che non sia vero, però. Però io nel Lager ho imparato a odiare. Non sono più stata capace di non odiare le cose che secondo me non erano giuste. E quindi quando anche adesso vedo un atto di violenza gratuita, anche un atto di violenza verso un animale, un comportamento disumano verso qualcuno, verso qualche cosa, io mi emoziono, mi imbestialisco, e intervengo. Tanto che mio marito mi dice, “Ma stai calma, ma cosa fai? Ma no, ma stai zitta”. “Ma come devo stare zitta? Non sai che il mondo va male perché tutti stanno zitti? Se tutti parlassero e dicessero quando è il momento giusto”. Mi è venuta in mente una riflessione molto profonda che fa il Manzoni nel suo romanzo, quando parla dell’uomo perseguitato e dice che il persecutore è doppiamente colpevole, perché perseguita un altro e suscita nel perseguitato dei sentimenti di odio.