Massari Giovanni

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Massari Giovanni.

D: Nato?

R: A Castiraga Vidardo. Provincia di Milano.

D: Quando sei nato?

R: 2 Aprile 1925.

D: Giovanni ci racconti la tua storia da quando sei stato arrestato?

R: Incominciamo dalla montagna. Eravamo in montagna; un grosso rastrellamento, allora ci hanno chiesto di aiutare tutti, di aiutarci a vicenda per far fronte a quelli che arrivavano, tedeschi o… Ve bene. Non volevano che andassi, ad ogni modo ho voluto andare. Vado anche io, vado anche io e siamo andati. Siamo andati su di una montagna dalla parte di Pradleves Val Grana. Sono circa 1000 – 1200 metri circa, lì c’era una casetta, dovevamo fare la guardia a tutto quel costone di montagna. Due ore per ciascuno di notte.

Lì si vedeva tutta la pianura tranne che quel mattino lì c’era nebbia. Ad ogni modo di notte non è successo niente. Viene il mattino, finito i nostri compiti Lì si vedeva tutta la pianura tranne che quel mattino lì c’era nebbia. Ad ogni modo di notte non è successo niente. Viene il mattino, finiti i nostri compiti siamo scesi, eravamo, del mio distaccamento eravamo in due, poi c’era un altro di un altro distaccamento, poi c’erano altri due di altri distaccamenti e siamo scesi tutti assieme. Diretti alla centrale.

D: Scusa Giovanni, quando avveniva questo, in che periodo, in che mese, in che anno?

R: Nel periodo di novembre principio di dicembre.

D: Di che anno?

R: Del 1944.

D: Ma quando tu parli di distaccamenti, sono distaccamenti militari o erano formazioni partigiane?

R: Partigiani. Formazione partigiana.

D: Quindi tu eri un partigiano?

R: Esatto.

D: Di che formazione eri?

R: Giustizia e Libertà.

D: Quanti anni avevi allora Giovanni?

R: 19 anni.

D: Allora siete scesi dalla montagna.

R: Siamo scesi e siamo andati al comando. Al comando non c’era più nessuno, sono andati via. Cosa è successo? La gente fa “Ma siete ancora qua? Sapete che ci sono in giro i tedeschi?” Va bene, noi andiamo al nostro distaccamento.

Strada facendo, a fianco di solito c’erano quei tronchi di albero che loro mettevano attraverso la strada per qualche incursione tedesca. Non c’erano più. Erano spostati. Se si trovava la gente diceva “Andate su per i sentieri perché ci sono in giro i tedeschi”. Noi su per il sentiero siamo andati su al nostro distaccamento. Quello là è andato al suo distaccamento che era più in alto di noi e noi due siamo andati al nostro posto al nostro distaccamento. Là non c’era più nessuno. La gente del posto ci ha detto “Hanno lasciato un biglietto, se volete raggiungerli sono al tal posto così e così, Città del Fieno”. “Dov’è?”. Il mio amico che era di Cuneo, dice “Io l’ho fatta una volta, andiamo?”. Ma sul biglietto c’era scritto “Partite di notte”. “Ma no, dice, partiamo di giorno perché altrimenti io la strada non la so più”. Come si fa? Già sparavano in giro, sparavano. Porca miseria.

Allora che cosa si fa, su per la montagna, dobbiamo cavalcare la montagna e andare giù dalla parte di là. E su, e su, e su questa montagna, quando siamo arrivati in cima non c’era più vegetazione, non c’era più niente. Non so l’altezza di preciso. Si sentiva sparare da tutte le parti, ma dove sparano. Noi andiamo giù di là, e chi si è visto, si è visto.

Strada facendo per andare giù dal costone della montagna abbiamo sentito dire “Mani in alto. Mani in alto”. Ma io sono rimasto pietrificato. “Cosa state facendo”, dicevo. Credevo erano partigiani, invece erano tutti tedeschi. Una raffica di mitra per aria, avevano quella mitraglietta lì ed abbiamo alzato le mani. Non c’era niente da fare. Sono saltati fuori, saranno stati un centinaio. Nel bosco e nei dintorni lì. Sono venuti là e prima di tutto ci hanno tolto il fucile, la cintura, che cadevano persino i pantaloni. Mi hanno preso per qua e mi hanno detto “Adesso venite con noi”. “Dove sono i partigiani, dove sono i banditi?”, loro non chiamavano partigiani, “Dove sono banditi?” Ed io “Guarda, a dire la verità arriviamo qua adesso”. Ad ogni modo lì sono venuti tutti, tedeschi, fascisti, brigate nere, ce ne erano di tutti i colori…venivano da Milano. Quei fascisti lì erano collegati con i tedeschi e venivano da Milano.

D: Giovanni ti ricordi che giorno era quando ti hanno arrestato?

R: Quando mi hanno arrestato non lo so. Lì ho perso tutte le bussole.

D: Era inverno però?

R: Sì. Era il mese di novembre, la fine di novembre. Perché mi ricordo che il 28 novembre, anzi, ottobre è nevicato e dopo un po’, eravamo in dicembre, adesso non lo so.

D: E dopo da lì dove ti hanno portato?

R: Lì ci siamo incamminati e si andava giù dalla montagna e dicevano “Tutti Kaputt”, via tutto e siamo rimasti là con i pantaloni e la giacca e basta. Porca miseria. E siamo andati giù al comando. Giù al comando c’erano radunati tutti i fascisti e tedeschi, un disastro di militari.

D: Ma dove, in che paese?

R: Era Pradleves, Val Grana. Lì hanno incominciato l’interrogatorio. “Dov’è la benzina, dove sono i banditi, da dove venite…” ed hanno incominciato a picchiare. Lì insieme ai fascisti che c’erano lì e che venivano da Milano ce ne era uno che conoscevo e mi ha detto “Ma io ti conosco, tu sei di San Donato”. Perché io abitavo a San Donato. “Sei di San Donato” e lui era di Noceto, Porto di Mare e dalle parti di Piazzale Corvetto a Milano, Cascina Grande verso Chiaravalle. Abitava lì lui. “Ma io ti conosco, sei venuto là ad aiutare a buttar giù il fieno dalla cascina quando c’erano i bombardamenti ed ha preso fuoco la cascina”. “E sì, ho detto, eravamo sbandati”. “Va bene, fa, hai fame?” “Altroché, gli ho detto” “Hai le sigarette?” “Non ho niente, sono qui così”.

Mi ha dato tre sigarette, e mi fa “Adesso parlo con il comandante, se posso tirarti dentro qua, vieni a Milano, poi te ne vai, più importante è arrivare a Milano”. ” Va bene, prova”. Difatti è andato dal comandante, ed il comandante, sentivo, in quel momento è corso là uno di loro, non tedeschi, fascisti e mi fa “Cosa hai in mano?” ” Mi ha dato tre sigarette quel signore là”, ” Ma sei pazzo, gli ha detto a quello, tu sei matto a dare la roba ai partigiani”, che loro chiamano banditi. “Ma io lo conosco quello lì”, “Non mi interessa”, mi ha preso le sigarette, le ha rovinate e le ha buttate via. Intanto il mio amico parlava con il comandante, io lo chiamo amico perché abitava nelle vicinanze di San Donato.

È andato là e gli fa “Fallo venire qua”, io sono andato là, mi sono presentato, mi fa ” Di dove sei?” “Di San Donato”, mi ha guardato in faccia “Non hai vergogna, siamo tutti di Milano noi, siamo tutti di Porta Romana, non hai vergogna ad essere qui in mezzo a questa gente qua, in mezzo ai banditi?” Cosa potevo rispondere io, io ero al militare e sono scappato dal militare, per forza ho dovuto fare, però non glielo ho detto. “Vattene a posto”, mi ha sputato in faccia e fa “Ringrazia Dio che ti hanno preso i tedeschi, se ti prendevamo noi ti fucilavamo subito.” Io sono andato a posto e lì ha cominciato a prendere anche degli altri ed interrogarli, ogni tanto venivano là: “Vieni qua, dove sono i partigiani, dov’è la benzina, dove sono le munizioni, dove sono andati banditi?” Per il momento non picchiavano.

Viene la sera. Viene la sera tutti fucilati. Difatti eravamo in tredici. Tredici tutti là contro il muro, dietro l’albergo. Perché c’era il comando, era dentro l’albergo il comando di Pradleves in Val Grana, dietro c’era la mura. Volevano fucilare l’albergatore, volevano, c’era la moglie che impazziva, noi eravamo là contro il muro così. Viene là il tedesco, fa “Banditi, sì, banditi”, uno di quelli che avevano i gradi, “Te, fucilare”, arriva uno con il moschetto, con l’elmetto, fuori. L’hanno portato non so dove e si è sentito il colpo, uno è andato.

Poi “Te, dove sono i banditi, dove sono ecc,” “Non lo so”, “Fuori, fucilare”. Fucilare e quello là va fuori e si sente il colpo anche a lui. Poi fa segno a me, “Te fuori, no te, quello di fianco”; io tiro un po’ il fiato e di fatto è uscito quello di fianco a me e stessa fine. Sentito il colpo “bum”. Bene, lì così dopo un po’, dopo che hanno interrogato tutti sono venuti fuori tutti quelli là, “Non vi hanno fucilato?” “Non lo so, ho sentito il colpo, ma vedevo ancora il muro. Ci è andata bene.” Lì allora ci hanno chiusi nella cantina quella sera lì, nella cantina ogni tanto ne buttavano dentro uno. È venuto dentro un francese. Quando sentivi aprire la cantina, ne hanno buttato uno dentro per forza, era un francese. E non si capiva che cosa diceva. Tutto così.

Al mattino altro interrogatorio. Fuori dalla cantina c’era un’osteria lì vicino, eravamo nel gioco delle bocce, tutti là ad aspettare l’interrogatorio ed andava dentro uno per volta nell’osteria e là viene fuori uno con una faccia così. Ne hanno date chissà quante. Poi sotto un altro, poi sono andato io. Dentro.

Dentro erano là in quattro, uno picchiava di qua e mi buttava su quello là, quello là mi picchiava e mi buttava sull’altro. Facevano il giro, ma pugni e pedate. Volevano sapere dove era la benzina e dove erano le armi e dove erano andati banditi. Sempre questo. “Ma io non lo so, non so niente, che ne so io dove sono andati e dove era la benzina”. Noi eravamo su in cima alla montagna, non so cosa succedeva giù qua e giù botte.

Ad ogni modo dopo mezzogiorno ci hanno caricato sul camion, sul camion via, e vai e vai siamo andati a Saluzzo. Ci hanno rinchiusi nel Castello di Saluzzo al primo piano. Si vedeva in un angolo della finestra un po’ di pianura, faceva un freddo. Si vedeva tutta la campagna bianca, tutta la brina che c’era. Lì tutti i giorni interrogatori, però non picchiavano. Siamo andati in una Chiesa, nella Chiesa del Castello. Sembrava proprio Schuster, assomigliava tutto a Schuster nel parlare e diceva “Dove sono banditi? Perché sei qua? Da dove vieni?” Interrogatori così.

D: Sempre tedeschi che ti interrogavano?

R: Eh?

D: Erano sempre i tedeschi che ti interrogavano?

R: Sì, sì. Non si andava fuori dalla stanza del Castello senza la guardia tedesca. Questo sembrava un prete. Mi interrogava e dopo alla fine gli ho detto “Io ho detto tutto, cosa volete da me, non ho niente da dire.” E poi gli ho chiesto “Cosa ci faranno a noi?” “Non si preoccupi”, mi ha detto, “vi impiccano tutti.” “Vabbè, siamo a posto allora.”

Lì niente, siamo stati lì circa una settimana, circa. A mezzogiorno suonava la campana quella grossa del Castello, era mezzogiorno, quelli che c’erano dentro, i miei compagni dicevano “Ecco quando suona il campanone grosso è uno che va”, allora veniva addosso un po’ di paura. È passata circa una settimana, circa.

Un bel giorno di mattina presto presto, era ancora buio “Fuori tutti”, fuori tutti in colonna. In colonna, tedeschi a destra e a sinistra di questa colonna. Siamo andati al trenino, lì c’era un trenino, non so da dove veniva, forse da Cuneo e faceva Cuneo – Val Grana e andava fino a Torino e lì ci hanno caricato su questo trenino e siamo andati a Torino.

Siamo venuti a Torino ed in colonna abbiamo preso il Corso, e siamo arrivati alle Nuove.

D: Scusa un attimo Giovanni, su questo treno qui, i vagoni come erano? Erano vagoni passeggeri o erano carri di bestiame?

R: Era un trenino, un tram non era, era una specie di tram, ma era un trenino, aveva tante carrozze.

D: Ma c’erano anche dei civili o solo voi?

R: No, no, solamente noi. Non c’erano civili lì. I civili avevano paura. “Il primo che tenta di scappare” dicevano, “guardate che ci andate di mezzo tutti. Spariamo anche contro gli altri.” Allora “Non scappare, non scappare. Ti raccomando che noi non c’entriamo niente”. E lì siamo andati a Torino, in colonna.

Mi ricordo che era un Corso, e c’era gente a destra e a sinistra e ci guardavano e a destra e a sinistra c’erano tedeschi armati e ci hanno condotto alle Nuove.

Ci hanno messo dentro in una cella che deve essere stata la cella… non so, era uno solo che stava dentro. C’era una branda di ferro, l’abbiamo alzata perché non ci stavamo tutti dentro, eravamo in tre e non ci stavamo. Il bagno era un buco e basta, un buco così. Poi per tavolo c’era, usciva dal muro un pezzo di asse così e sopra c’era scritta la dama.

Quel legno lì, quell’asse lì che usciva dal muro, si capisce che, tornando indietro c’erano quelli che hanno tirato via dei pezzi di mattoni per fare la dama. C’erano dentro i pidocchi, c’erano dentro le cimici, cimici rosse c’erano. Erano rossi. E lì siamo stati così.

Ho incominciato a sentire le pulci, leva tutto, guarda la camicia, non erano pulci, erano pidocchi, pidocchi neri. O porca miseria. Non erano pidocchi, avevo la scabbia.

Quando venivano a portare il rancio, qualche cosa ci davano, gli dicevo “Guarda che abbiamo la scabbia”, “Arrangiatevi”. Lì da tre siamo diventati cinque. In cinque in una cella, tutti per terra, non c’era niente, né paglia né niente, tutti per terra così con la coperta e basta, ognuno aveva la sua coperta. Quello che andava in bagno, il buco era lì, perché sarà stata due e qualche cosa di lunghezza ed uno e qualche cosa di larghezza. Ci stava la branda perché si faceva su la branda. Si agganciava al muro e c’era quel pezzo lì che era piegevole. Si poteva tirare su ed il sedile lo stesso, ma sbandava tutto perché levavano tutto.

Lì quando uno andava in bagno si sentiva, no, l’odore non era niente. Si sentiva bagnare la faccia perché non era un bagno come i nostri, era un buco e basta, però c’era l’acqua corrente. Si tirava la corda, almeno andava giù. Parlando materialmente.

Lì passa un giorno, passa due, passa tre ogni tanto venivano là le suore e ci davano un tozzo con dentro le castagne lesse. Qualche cosa ci davano da mangiare.

Veniva là il secondino e gli dicevo “Guarda che io ho la scabbia, portatemi in infermeria.” Quasi tutti i giorni ci portavano giù uno per uno a fare ancora l’interrogatorio, allora “Portatemi in infermeria, altrimenti qua ce la prendiamo tutti perché attacca quella malattia.”

Il secondino era un fascista, sarà stato uno e cinquanta, uno e sessanta, sembrava Charlotte quando camminava e gli dicevo “Capo, guarda che noi abbiamo la scabbia” “A me non interessa, tanto vi impiccano tutti”, diceva sempre così. Ed io grattavo, quello là grattava, si può immaginare che cosa c’era dentro. Eravamo tutti infestati da quella malattia lì.

Lì siamo stati lì, non so, un quindici giorni.

D: Giovanni, lì ti hanno dato un numero a Torino, ti hanno immatricolato?

R: No, no, niente, niente.

D: Dopo quindici giorni che cosa è successo?

R: Ci hanno cambiato e ci hanno dato la divisa della Decima Mas, leggerissima, molto leggera. Nera. I miei li hanno buttati via, non so che cosa hanno fatto. Ma la scabbia c’era.

D: E dopo quindici giorni delle carceri le Nuove a Torino?

R: Dopo lì quindici giorni, lì perché io l’ho saputo, ci hanno caricati fuori tutti e ci hanno caricati sul camion, alle Nuove, ci hanno caricati sul camion e destinazione chi lo sa. Chi ha avuto fortuna, chi aveva un pezzo di carta in tasca ed una matita scriveva, “Avvisate tot che noi siamo partiti, partiamo e non sappiamo dove andremo”. Insomma. Ma io non avevo niente perché dopo la guerra ho saputo che mio padre e mia sorella hanno fatto di tutto per venire a Torino a trovarmi e sono arrivati lì “Sono partiti tutti” “Per dove?” “Non si sa”. Nessuno sapeva niente.

Lì con i camion, quel giorno, partiti. Preso l’autostrada e chissà, era chiuso tutto con il telone, e c’era giù anche di dietro il telone quasi tutto, non si vedeva niente, si vedeva un pochettino e basta. Si vedeva la strada in basso e basta, ed il camion andava.

Arrivammo a Milano, penso che era Milano, si sono fermati lì, guardo c’erano i fascisti così, c’era uno, come si chiama quello… Amedeo Nazzari sembrava, tutto lui. Un trench, aveva su un trench con la mitraglietta, in mezzo a tutti i fascisti per fare la guardia, se qualcuno scappa, i camion si sono fermati, forse a fare rifornimento.

D: Ecco Giovanni, i camion erano tanti?

R: Chi lo sa. Non si vedeva niente, i teloni erano giù dappertutto.

D: Sul tuo camion eravate solamente uomini?

R: Sì, sì, donne non ce ne erano.

D: Non ce ne erano?

R: No, no. C’eravamo noi, c’erano su due tedeschi con la mitraglietta e basta. Lì si capì che hanno fatto rifornimento al camion, non lo so. Ed ho visto quel tale lì in mezzo ai fascisti e sembrava tutto Amedeo Nazzari. “Ma quello là è Amedeo Nazzari”.

Lì i camion partono ancora a colonna, penso che erano a colonna, perché non si vedeva niente, era tutto chiuso. Parte ancora e si va e si va. “Ma dove si va? Dove andiamo?” Tanti dicevano “Andiamo a Verona, forse, là ci smistano ed andiamo a lavorare.” Speriamo che sia la volta buona. Vai e vai, difatti siamo andati a Verona. Verona nel Castello. Dentro nel Castello tedeschi dappertutto.

Lì siamo scesi dal camion c’era là un pullman ma era una corriera ancora di quelle vecchie, saremmo stati su, tutti pigiati così, saremmo stati su, non lo so, circa un centinaio. Tutti ammassati dentro. Su questo pullman qua, parte. Non siamo andati neanche dentro, non ci hanno dato neanche un caffè, niente da mangiare, niente niente.

Lì su questa corriera, la corriera comincia a partire, ma dove andiamo, chi lo sa, l’altro dice “Non lo so”. L’altro dice “Forse andiamo a Bolzano, là ci distribuiscono ed andiamo a lavorare”, “Speriamo, prima di qua, e poi di là, cominciamo ad andare a Bolzano, poi vedremo”. Lì ancora su questa corriera tutti chiusi dentro. Cominciava a far freddo, andare su tra quelle montagne, fino a Bolzano.

C’erano quelli feriti, c’erano quelli che volevano andare in bagno, tutto su, un odore, insomma una puzza che non si poteva respirare. Tirare giù il finestrino non si poteva perché c’erano su i tedeschi e “Guai a voi se aprite un finestrino”. Era tutto appannato e non si vedeva niente fuori. Fuori faceva freddo, dentro si moriva dal caldo.

Lì siamo andati a Bolzano, era buio oramai, non si vedeva niente, non so se era un campo di concentramento, cosa era non lo so. Era tutto buio. Giù da questa corriera, siamo andati dentro a questo campo di concentramento a Bolzano. Io non sapevo dove era, mai stato e mai sapevo che c’era un campo di concentramento, mai sentito nominare. Dentro lì. Ci hanno chiusi dentro lì. Tutta notte lì, a dormire. C’erano le brande a castello, quella sera lì.

Al mattino, su, ci hanno dato un pochettino di caffè. Ma a cosa serve il caffè. Ho bisogno di mangiare. Prima di tutto gli dico “Guarda che io ho la scabbia”, ” Bene, bene chi ha la scabbia fuori”, da uno solo che ero io, ne sono saltati fuori ancora tre. Allora “Perché non parlate?”

Allora lì dopo che cosa hanno fatto? Dopo il caffè mi hanno messo nudo ed hanno preso il pennello con…

D: Il disinfettante.

R: Come si chiama, lo zolfo. Tutto giallo. Ha cominciato da qua sotto, tutto giallo. Tutte le mattine dovevamo fare quella pennellata lì. Ma la scabbia cominciava a fare puzza, a fare l’acqua. Non era troppo bello.

Lì siamo andati avanti un po’ così. Ad un tratto una mattina c’erano quelli vecchi, perché il capannone era così, se lo ha visto quel campo lì, sembrano quei capannoni mezzo rotondi. A sapere portavo qua il libro che mi hanno mandato.

Lì le mura non andavano fino contro là, era dopo la metà. Quelli che dormivano sopra là, guardavano dall’altra parte, c’erano le donne di là o tenevano qualche cosa da mangiare. Andavo là io e non mi volevano. “Dove vai te, non si può venire qua.” Perché volevano prenderlo loro. Noi sempre lì a fare quella vita lì. Guarda a destra e guarda a sinistra, dove dormivo io, dormivo in basso, in primo piano, piano terra, sempre su un castello, ho visto un buco. Ho visto un buco grosso un dito, grosso così. Ho guardato di là ed ho visto una donna, “Signora, signora” ma lei non rispondeva, provo a chiamare più forte, perché se sentivano guai, se mi pescavano che c’era il buco lì erano guai anche per me, allora “Signora, signora”. Si sono accorti che c’era il buco, l’hanno chiuso e io sono rimasto ancora come prima.

Una bella mattina “Fuori tutti, fuori tutti, fuori tutti”, cosa c’è, cosa non c’è, tutti in colonna, un freddo. Saranno stati sette gradi sotto zero, sei sette gradi sotto zero. Un freddo, si vedeva, ma non c’era neve. Proprio quel freddo secco lì a Bolzano, terribile. Lì cosa c’è, cosa c’è, hanno scoperto che hanno cercato di scappare.

Poco lontano da me c’erano il letto a castello, hanno fatto un buco che doveva andare sotto le fondamenta ed andare fuori di là. Se andavano fuori di là c’erano i vigneti, la campagna. Mancavano ancora due metri, dicevano, e li hanno presi. è stato scoperto un mucchio di terra, tutti i castelli e noi fuori, un freddo. Io avevo su quella divisa lì, si può immaginare, gelavo.

Lì fuori “Chi è stato? I complici?” I complici nessuno voleva parlare. “Guardate che fuciliamo tutti.” I tedeschi “Se non parlate, guardate che fuciliamo tutti.” “Allora mi raccomando chi è complice vada fuori, cercheremo di aiutarvi”, nessuno vuole andare fuori. Siamo stati lì quasi tutta la giornata. Lì era successo alla mattina, subito alla mattina presto, all’appello.

Dopo mezzogiorno eravamo ancora là ed i soldati “Fuori”, ne sono andati fuori due “Siamo stati noi”, allora noi siamo rientrati, quelli là non li abbiamo più visti. Chissà se li hanno fucilati, li hanno messi, non lo so, non si sono più visti. Poi c’erano altri complici, avranno parlato e saranno saltati fuori degli altri. Lì siamo andati avanti così.

D: Scusa Giovanni, lì a Bolzano ti hanno dato il numero di matricola?

R: No. Niente matricola. Non avevamo matricole, avevamo il triangolo. Ci hanno appiccicato un triangolo colorato così sulla giacca, un triangolo rosso.

D: Senza numero.

R: Senza numero. Ed io dicevo, “Ma cosa vuol dire questo triangolo?” “Pericolosi”. Là dicevano che questi triangoli erano così perché eravamo pericolosi, ma io vedevo quelli di là perché c’erano anche degli altri, altri compartimenti, chi lo aveva rosa, chi blu, c’erano diversi colori, “Perché noi rossi?”, “Perché noi siamo pericolosi”.

Lì siamo andati avanti così, siamo andati avanti fino dopo l’ultimo e il primo dell’anno. Lì a Bolzano sono andato circa a metà di dicembre. Lì Natale, boh, è Natale sì, è Natale no, ci hanno dato un pezzettino di pane in più. Ma io non sapevo se era Natale perché abbiamo perso il filo delle date. Poi viene l’ultimo e il primo. Il primo dell’anno, i tedeschi, erano in pochi, erano tutti a far festa, solamente le guardie e basta. Ci hanno dato ancora un pezzo di pane in più, “Come mai?” “Perché è l’ultimo dell’anno”. Allora ho cominciato a dire “E’ già l’ultimo dell’anno”, perché prima non sapevo che giorno era e niente.

Lì dopo le feste circa l’8, mi pare, all’8 gennaio, sul camion ancora e siamo andati alla stazione. “Dove ci portano? Andiamo a lavorare?” “Ma chissà dove andiamo? Chi lo sa?” ed io sempre con quella divisa là morivo dal freddo. E siamo andati alla stazione, eravamo quattrocento, cinquecento persone.

D: Come fai a dire che era la stazione. Tu hai visto una stazione ferroviaria?

R: Era la stazione, non era proprio la stazione dove andavano…

D: I civili.

R: I viaggiatori così. Doveva andare il bestiame. Nei binari morti. Così. Giù dal camion lì sui vagoni. “Dove andiamo? Chissà dove andiamo. Boh”.

Siamo andati sul mio vagone, di bestiame, eravamo su in circa una trentina, lì ci hanno chiusi dentro, basta, chiusi dentro non si poteva più.

Dunque siamo partiti circa l’8 gennaio, ed abbiamo fatto tre giorni e tre notti su lì, si vedeva appena fuori, sa che ci sono quelli sportelli che si aprono, ce ne era uno di qua ed uno di là, quello di là facevamo da… e lì facevano tutto lì. Il freddo che faceva, si alzava sempre di più. Prima la puzza e poi gelava ed era un blocco solo, un disastro, paglia per terra non ce ne era, si dormiva così, senza coperte e niente, niente. Così come si andava su. L’aria quando il treno andava, l’aria veniva dentro e si moriva allora cosa si faceva? Ci si ammucchiava tutti, tanto per tenersi un po’ caldi. Facevamo il turno appoggiati al carro e tutti là a cercare di aiutarsi per il freddo che c’era.

Lì passa un giorno, ne passano due, sentivamo, eravamo già in Germania. Noi non sapevamo se era la Germania, chi lo sa. Dove andiamo nessuno lo sapeva, non si vedeva niente fuori. Appena, appena quando era chiaro si vedeva fuori e si vedeva tutta neve, tutta neve e basta e sentivamo parlare in tedesco. “Ma cosa succede?” e lì bim bum hanno aperto. Hanno aperto, sono saliti due tedeschi con la mitraglietta e uno fa “Noi vi uccidiamo tutti, fuori quelli che hanno tentato di fuggire”. Perché chi parla un po’ il tedesco, perché noi non si capiva che cosa diceva ed allora l’interprete lo diceva “No, noi non tentiamo di scappare”, “Abbiamo visto delle luci dentro”, non si capiva cosa dicevano. Cos’era? Era uno che aveva un pezzettino di candela e l’ha accesa così si scaldava un po’ le mani così. Loro hanno visto il chiaro dentro ed hanno aperto e volevano fucilarlo. Porca miseria.

Allora fuori tutti, guarda nelle tasche di tutti, allora si sono calmati e quando hanno visto che era quel pezzettino di candela lì, sono scesi hanno chiuso di nuovo e via. Il treno parte ancora, ogni tanto si fermava, sempre così. Stava fermo magari un quarto d’ora. Poi andava dieci minuti, poi si fermava, insomma è stato in ballo tre giorni e tre notti.

Siamo arrivati a Mauthausen, non si sapeva dove eravamo. Un bel momento, era mattino, cominciava a venir chiaro, si sentiva aprire il portone. Quello là non si apriva più, perché era tutto gelato, hanno aperto questo di qua, aprendo quello lì “Tutti giù, tutti giù”, “Dove siamo, dove siamo?” C’era una stazioncina come questa di Abbiategrasso e c’era scritto Mauthausen. “Siamo arrivati a Mauthausen. è buona, è buona.” “Perché?” “Perché si sentiva che quelli che ci sono già stati vanno a lavorare e stanno bene.” “Speriamo”, ho detto, “che sia quello.”

Lì tutti in colonna, c’erano quelli feriti, quelli che non potevano camminare. C’era giù la neve pestata, tutta pestata e ghiacciata, ogni tanto c’era qualche macchia rossa, questi sono tutti feriti che sono scesi e non ce la fanno più.

Lì tutti in colonna, via “Dove andiamo?” “Chi lo sa” tutti in colonna seguivamo loro, siamo andati. Strada facendo, non c’era in giro nessuno. Nessuno c’era in giro, c’era una donna vestita di nero, deve essere stata giovane, tirava lo slittino, perché c’era giù la neve ghiacciata, c’era su un ragazzino con uno zainetto a cavalcioni allo slittino o che andava all’asilo o che andava a scuola. Tutto quello che ho visto. Aveva su gli stivali, quelli neri che c’erano una volta, povera gente, insomma.

Lì niente, non si vedeva nessuno, non faceva neanche finta quella signora là. Uno ha tentato di dire “Signora, signora”, niente, orca miseria, no, no, camminando siamo andati su a piedi, dopo tre chilometri, non so, dalla stazione, siamo andati su fino alle carceri.

D: Al campo.

R: Al campo. A piedi, su, su. Lì c’è la strada provinciale, non si sapeva se era asfaltata o no, ma era tutta pestata, perché chissà la gente che è passata di lì, prigionieri senz’altro e siamo andati su. Su siamo andati dentro nel campo, varcato il portone, subito dentro a destra.

Lì seduti sulla neve contro il muro, la neve è tutta ghiacciata e tutta pestata, stavamo là ad aspettare, “Che cosa aspettiamo?” c’erano già dentro delle altre persone, lì c’erano le docce. C’erano le docce, poi c’era il crematorio e poi c’erano le cucine, tutto lì in fila a destra. E noi aspettavamo là. Aspettavamo. Lì chiedevano “Chi ha in tasca qualche cosa, qualche cosa di personale, fuori, ammucchiare, ammucchiare tutto e poi restituire, ammucchiare tutto e poi restituire”. Chi aveva l’orologio “Io darcelo a lui, no, no”, calpestavano per terra, lì c’era il muro, la buttavano di là, di là cosa c’era? Non lo so. Forse i tedeschi c’erano. Chi lo sa cosa c’era di là. Buttavano di là, o schiacciati sotto la neve. Tutto così, non c’era niente di personale.

Svestirsi tutti completamente nudi, e là c’era una porta dentro, e riparati un po’ dall’aria, tutto fuori, svestirsi tutti, e si andava a fare, ecco, facevano tutti i peli, tutti la testa così, tagliati tutti i capelli. I capelli li hanno tagliati però in mezzo ci hanno lasciato una striscia così, partiva dalla fronte ed andava fino di dietro. E passavano con il rasoio. La macchina che tagliava i capelli strappava, il rasoio non tagliava, bruciava tutta la testa, proprio tutto in mezzo qua. Facevamo la doccia, era fredda, era calda, ogni tanto era gelata. Sotto lì non c’è niente da fare. Per asciugarsi c’era un pezzettino di tela, chissà quante persone l’hanno adoperata. Cosa vuoi asciugarti con questa cosa qua, non ti asciughi niente, anzi ti bagni.

Lì ci hanno dato una camicia, un cappello zebrato, una giacca ed un paio di pantaloni. Fortunatamente ci hanno lasciato quelli che avevamo prima, le scarpe. Quelle lì le ho trovate ancora. Ho messo su ancora i miei scarponi di quando ero dei partigiani. Allora ho messo su i miei scarponi, con in mano quella roba lì “Fuori” “Ma dove andiamo fuori?” “Fuori, fuori” buttati fuori, dovevano entrare quegli altri. Fuori un freddo, dovevamo andare alla baracca. Alla baracca c’era circa trecento metri, circa.

Strada facendo c’erano le baracche, a destra c’erano i crematori, c’erano i bagni, ecc. A sinistra c’era una fila di baracche, noi dovevamo passare in mezzo e andare dietro a quelle baracche lì, al blocco 18, alla baracca 18.

Strada facendo nudi, con in mano la camicia, tutto così, i prigionieri che c’erano là ridevano, perché eravamo tutti nudi in mezzo la neve, allora prendevano delle palle di neve e ce le buttavano. E si mettevano a ridere.

Lì si camminava, a distanza si vedeva una specie di scala e della gente che camminava su. “Ma cos’è quello là?” “Boh”, non si sapeva niente. Difatti di lì siamo andati al blocco. Siamo andati alla baracca. Alla baracca non c’era niente. Per terra c’era un pochettino di paglia, quello sì. C’erano quelli che erano feriti, non potevano starci dentro. Allora tutti per terra sulla paglia così con la coperta sopra. Se uno doveva andare in bagno così, dovevano cavalcare uno sopra l’altro. “Ma che disastro che c’è qua” “E’ così”.

Lì cosa succede? Succede che siamo andati avanti un poco e gli ho detto “Guarda che io ho la scabbia”, lì c’era un prete dentro, e mi dice “Fa vedere”, mi ha guardato e fa “Tu hai la scabbia, ma non hai solo la scabbia, tu vai zoppo, sei ferito”, “No, ho una ghiandola in mezzo all’inguine che mi fa male”, un prete, io avevo un po’ soggezione. Va bene, tiro giù i pantaloni, perché abbiamo messo quelli che ci hanno dato. La camicia non aveva i bottoni, aveva un laccio così. I pantaloni erano russi, alla cavallerizza. Si capisce che i russi mettevano gli stivaloni per il freddo. Ciao sono stato fortunato in quella parte lì.

Lì siamo andati avanti così e ad un tratto si sente una sparatoria di notte “Cosa succede?” porca miseria. Venivano le pallottole dentro, perché c’era il muro. Io ero alla baracca 18 e dalla 19 e 20 di dietro c’era il muro, le pallottole passavano oltre la mura e venivano dentro sul tetto della baracca. Si sentiva pac, pac dentro. “Ma qua sparano”. Cosa è successo? Abbiamo saputo che hanno tentato la fuga trecento, non erano russi, perché io ero al blocco 18, metà noi che eravamo circa duecentocinquanta, dopo c’era dove c’era il capo, dalla parte di là erano russi, dopo le spiego il perché.

Ad ogni modo lì alla mattina mi dice “Vieni qua a vedere” attraverso la finestra, non si poteva né uscire né entrare. “Guarda là”, attraverso la finestra una montagna di morti, “Che cosa è successo?” “Ma guarda quanti morti che ci sono là”.

Cosa è successo? Era successo che avevano tentato la fuga trecento, penso fossero ebrei. Erano ebrei. Perché ci hanno preso, i tedeschi sono venuti là e quelli un po’ in forza, “Quelli che hanno un po’ di forza addosso vengono con me” e noi siamo andati là. “C’è da andare a prendere il caffè per le baracche”, “Andiamo, non si sa mai che c’è qualche cosa da mangiare”. Allora portavamo il caffè lì, partendo dove c’è la mensa, dove c’era la cucina, quei bidoni lì che saranno stati trenta, quaranta chili, trenta litri, quaranta litri, cinquanta litri, bidoni pieni di caffè. Per noi era caldo, per loro, penso che erano ebrei, per loro c’era sopra tanto così di ghiaccio. Loro se dovevano bere il caffè dovevano rompere il ghiaccio, ma aveva uno spessore di cinque, dieci centimetri, era stato fuori tutta notte. Gelava tutto. Quando si faceva il cambio al mattino dopo, si portava indietro quello avanzato e si portava quello vuoto, era ancora intatto, ancora con il ghiaccio, non lo rompevano, non erano capaci di romperlo, non lo bevevano.

Lo stesso quello che ci davano da mangiare, quella sbobba lì, era acqua, diciamo così, c’erano dentro un po’ di rape, erano barbabietole, quelle che davano ai cavalli. Erano non le bietole quelle rosse o quelle bianche, erano barbabietole, erano amare. Ad ogni modo si andava avanti. Noi prendevano il caffè che era caldo, il loro avevano sopra il ghiaccio. Ecco perché dicevo che quelli erano ebrei.

Perché un giorno, è venuto il tedesco “Venite con me e con le barelle, dobbiamo portare al crematoio quella montagna lì di morti”. Difatti quelli un po’ in gamba uno da una parte uno dall’altra, nudi, erano già nudi perché li svestivano loro, li mettevano sulla branda e li si portava al crematorio.

Al crematorio non si andava giù, c’era lo scivolo dal piano del cortile c’era lo scivolo ed andava giù direttamente dove c’era il forno crematorio e lì si metteva là, “Vrum”, andava giù, arriva l’altro con la barella, giù e poi via tutto il giorno così. Dicono che erano trecento circa. Sono fuggiti in sei che ce l’hanno fatta. In sei, il resto tutti morti.

Dunque lì finiti i morti, finito di portare via tutti i morti, andiamo bene così, andiamo avanti e sempre si dormiva per terra. Lì viene un’altra spedizione nuova. Nuova spedizione, tutti italiani. Noi dove andiamo, fuori tutti noi, fuori di notte al freddo. Quelli del blocco di là, allora, la baracca era metà e metà, noi tutti di qua, di là erano russi perché loro, io avevo su quella camicia lì, vestito malamente, così, loro avevano quei giacconi di trapunta, quelli a quadretti, stavano bene, pantaloni lo stesso, avevano su gli stivali quelli russi che tengono i piedi caldi, almeno sembra. E si camminava, perché “Fuori tutti”, sia di là, sia i russi come noi, perché arrivata la spedizione dovevano andare dentro, loro dentro con la nuova spedizione, e noi fuori tutta notte. Noi non abituati, c’erano quelli che si sono seduti sulla neve e stavano lì così sulla neve. Là c’erano i russi “Fate come facciamo noi”, si facevano capire, “Camminare sempre” tutta notte avanti ed indietro, avanti e indietro, tutta notte, tutta notte. Uno non ne voleva sapere aveva freddo poverino, forse aveva anche la febbre. Lo hanno preso, lo hanno tirato fuori e si divertivano a buttarlo in mezzo alla neve “Se non fai così, se non ti muovi, vai in fumo, muori”. Non lo volevano capire gli italiani, perché non eravamo abituati. Io facevo come facevano loro, allora la prima notte è andata bene, la seconda ancora, finché dopo, ci hanno messo i castelli, hanno messo i castelli, hanno messo a posto un po’, hanno tirato fuori anche i nuovi arrivati, li hanno messi nella baracca 17 e noi siamo stati lì ancora.

Lì abbiamo fatto la matricola, quattro, cinque per volta scortati, scortati dai tedeschi, si usciva, non era dentro dove si andava, si usciva dal campo, sempre pochi alla volta, cinque, sei o sette, adesso non mi ricordo, là c’era il fotografo, ci hanno fotografato, di fronte, di dietro, di fianco e poi ci hanno fatto l’impronta con il dito. Ecco, lì abbiamo fatto la matricola. E dopo che sono arrivati le matricole.

D: E la tua matricola qual era?

R: Ma le volete vedere. Queste sono le matricole che ci hanno dato. Siccome là non avevano niente, allora questo doveva essere appiccicato sui pantaloni, alla destra sulla coscia dei pantaloni e doveva essere visibile bene il triangolo rosso, con in mezzo IT che vuol dire italiano e di fianco c’è la matricola. Questo è il braccialetto. Il braccialetto, questo qua non è neanche ferro, è acciaio, mi pungeva tutto, tutto il braccio così, vedi quei ganci qua, sono ancora quelli, quei ganci qua mi penetravano dentro e guai se non li portavi, volevano vedere, questa è la matricola che avevamo.

D: Il tuo numero qual era?

R: 115.607, è scritto qua. Quando ci hanno dato questo allora hanno cominciato a chiamarci come numero, nome e così non se ne parla più. Tutto il numero.

Bene lì siamo rientrati ancora nella baracca e siamo stati lì, dovevamo fare la quarantena, ma che quaranta, saranno stato venticinque, dico io, venticinque giorni. Tutti in fila un’altra volta, tutti in colonna, un freddo, tutti in colonna a marciare “Dove andiamo? Chi lo sa? Dove si va?” i tedeschi di qua di là, a destra a sinistra, però non avevano cani, cani non li avevano. Erano armati di fucile e mitraglietta e basta. Anzi, tornando indietro un pochettino, abbiamo fatto l’addestramento con su e giù il cappello. Quando si vedeva un graduato tedesco, dovevamo tirare giù il cappello e dopo metterlo su, sempre su e giù, su il cappello, giù il cappello, su il cappello, abbiamo fatto un po’ di addestramento così nella quarantena.

Ecco dove ho visto la scala della morte. A distanza quando portavamo i morti al crematorio si vedeva da lontano, ma quella là è la scala “Cosa fanno?”, non sapevamo cos’era. Siccome là motori non ce ne era, cavalli non ce ne era, tiravano tutti con la forza delle braccia dei prigionieri, era una cava di pietra. Loro dovevano portare su dalla cava su per quella scala lì delle pietre, chi aveva il martino, lo metteva su, era fortunato, sulle spalle, chi non lo aveva. Io ho fatto un giorno solo. Ma non sulla scala, lì nella baracca. Ci hanno messo un pezzo di pietra sulla spalla e mi hanno mandato fino là al crematorio, e poi tornare indietro. Basta. Solo quello, tanto per addestrarci.

Lì in colonna, tutti in colonna, via “Dove andiamo?” “Chi lo sa”. Strada facendo, sempre di notte o mattino presto, siamo andato a Gusen, non so ci saranno tre chilometri, quattro, non lo so. Strada facendo lì, c’era ancora la neve per terra ed il ghiaccio, nessuno voleva aiutare quelli feriti. Dico “Qua bisogna aiutarci qua” perché altrimenti i tedeschi calciavano con il calcio del moschetto. Vado anche io ad aiutarli, “Mettimi le braccia al collo” e sono stato l’ultimo della colonna, stavo dietro. Sono restato indietro un po’, il tedesco di dietro, ha visto che non andavo avanti perché quello era ferito, con il moschetto, con la canna del moschetto me la ha buttata addosso alla schiena, mi ha dato una spinta sulla schiena e mi ha preso proprio la spina dorsale, ho visto le stelle, porca miseria. Sono rimasto a bocca aperta per il dolore, sembrava una scossa elettrica, ho detto “Aiutatemi, aiutatemi”, allora è venuto un paio di altri, ci hanno dato il cambio ma io l’ho sentito per un po’ però quel colpo che mi ha dato con la canna del fucile il tedesco.

Lì siamo arrivati a Gusen, arrivati destinati al blocco 14. Lì di nuovo doccia, di nuovo la doccia e così.

D: Quando tu dici Gusen intendi Gusen 1 o Gusen 2?

R: Gusen 1. Dopo siamo andati a Gusen 2 perché c’è stato un disguido. A Gusen 1 è stato.

Lì alla baracca 14, dunque io ero alla baracca 14, di fronte a noi c’era la baracca 22, e c’era dentro uno di Brescia, un corridore, era un dilettante corridore e ci siamo fatti amici. E c’era dentro padre e due figli di Bologna, un certo Cervellati.

Allora ci siamo conosciuti, italiani. Sotto di me nella baracca 14, sotto c’erano due italiani Perfumo Giuseppe e Perfumo Giovanni, erano sotto di me, a fianco. Proprio sotto di me perché io ero a metà, c’erano due russi, sopra di me c’erano altri due russi, io ero in mezzo, io ed un altro italiano, un certo Marini dalle parti di Alessandria, dopo è morto poverino, dopo le spiego perché.

Lì andiamo avanti così, hanno incominciato a darci il caffè, le prime volte.

Anzi tornando indietro, quando ero a Mauthausen, la storia dell’inguine, che il prete mi ha detto “Fammi vedere”, mi ha detto “Vai all’ospedale, ti curano, altrimenti qua, hai già la scabbia, prendi l’infezione e te lasci qua la pelle, dammi retta” mi ha detto. Allora lo ho ascoltato, sono andato in infermeria, là c’erano due dottori, e uno fa “Domani vieni qua”, ed io sono andato via, e camminavo zoppo. Avevo una ghiandola in mezzo all’inguine e la gamba nel piegarsi, un male bestia.

All’indomani sono andato dietro là. “Buttarsi sul lettino”. “Non andiamo bene, medicare, medicare. Prendi in mano il lettino, stringi forte”, mi hanno spruzzato su non so cosa, una cosa senza puntura ne niente, mi hanno spruzzato qualche cosa e poi ho cominciato a sentire “zim zam” su quei scaffali di vetro, forbici e coltelli, oh Madonna, mi veniva di sentirmi male “Mi raccomando, tieni stretto il letto, stringi i denti” ed ha cominciato a tagliare. Ed io gridavo. “Italien se non ti addormenti ti addormentiamo noi con un pugno”. Allora ho resistito. Nella bacinella è uscita tanta di quella porcheria che non so cosa dire.

Lì bene, ho riposato un pochettino, forse hanno finito, hanno cominciato ancora, prendono un altro coltello ed hanno cominciato ancora a tagliare. “Che ostrega stanno facendo?” Io gridavo, facevano segno con i pugni “Ti addormentiamo noi”, erano russi, parlavano il tedesco, si facevano capire, insomma. Bene, lì finito “Domani venire qua, medicazione”, allora ho cominciato la medicazione, sono andato indietro, hanno tirato fuori la garza dalla ferita, sembrava che aveva tirato fuori un serpente, si sentiva proprio la garza a venire fuori, o mamma mia, però il dolore è cessato.

D: Ma quando ti dicevano di tornare di lì in infermeria. Quell’infermeria dove era? Dentro nel campo?

R: Sì, lì, era poco distante dalla baracca 18, non so quale baracca era. Non era troppo lontano.

D: Ma era una baracca o era in muratura?

R: Non lo so, dire la verità era come una specie di ambulatorio.

D: Ecco.

R: Non so se era in muro o se era, mi pare in muro.

D: E’ quella sulla piazza dell’appello? Era sulla piazza dell’appello?

R: Sì, sì, da quella parte lì, insomma.

D: Dopo lì sei guarito?

R: Ad ogni modo, questo è tornando indietro. Lì la terza volta, medicazione ancora. Visto che stavo bene non sono andato più. Sono guarito. Sono guarito però la scabbia ce l’avevo ancora. Ce l’avevo ancora, allora quel prete glielo ha detto al Kapò. “Guarda che questo ha la scabbia, si infetta tutto”, “Fuori, fuori”, ed io sono andato fuori, qui adesso. Sono andato fuori “Chi ha la scabbia fuori”, non ero solo io, eravamo in sei, perché attaccava tutti. Allora c’erano là gli aiutanti, quelli che aiutavano il Kapò, hanno tirato fuori un boccettino così, come le gazzose di una volta e c’era dentro un liquido marrone, e mi hanno spalmato su un po’ su tutto il corpo nudo, tre giorni. Sa che sono guarito? Sono guarito, ha cominciato a calmare, non grattavo più, non sentivo più niente. “Ma guarda un po’, di là pennellate di qua e pennellate di là e qua un pochino di quella roba lì.

Lì dopo siamo partiti per Gusen.

D: Lì a Gusen 1 che cosa è successo?

R: Come?

D: A Gusen 1 che cosa è successo? Quando sei arrivato a Gusen.

R: Sì, niente ci hanno mandato dentro la baracca 14 e lì hanno incominciato a metterci in fila e si andava alla piazza del raduno, e c’erano quelli che comandavano e ci accompagnavano loro i primi giorni, dalla baracca si andava là, dove c’era la piazza dell’appello.

Là un disastro di gente c’era là e aspettavano il turno. C’era la scalinata di sasso, che andava su per la collina e poi c’erano le baracche che facevano da stabilimento, da fabbrica. Capannoni, ma erano baracche vecchie, grosse, più grosse delle normali.

Ad ogni modo lì ci mettevano cinque per cinque, immaginarsi una fiumana, una marea di prigionieri, cinque per cinque, tante volte è facile anche sbagliare, allora andava avanti, man mano che si passava il cancello, il cancello era di filo spinato. Aprivano quel cancello lì, c’era la scalinata poi ce ne era un’altra e poi si andava dove c’era lo stabilimento.

Lì c’erano i cani di qua e di là e pestavano, legnate. Le prime volte siamo andati là tutti insieme, si andava su, l’appello lì, facevi la scalinata, si andava ancora là davanti alla baracca dove si lavorava, altro appello. A distanza, a poca distanza, c’era un’altra cava di pietre. Quando sparavano le mine, arrivavano i pezzi lì. Bisognava stare attenti perché arrivavano anche sulla testa.

Siamo andati la prima volta su, andiamo su, bastonate a destra e a sinistra fino a che non si andava su, si andava su, ci hanno mandati dentro nello stabilimento, macchine dappertutto. “Ma cosa facciamo qua?” “Te che mestiere fai?” Uno diceva “Io faccio il contadino”, l’altro diceva “Io faccio il cuoco” “Io il pasticcere”. Tutta gente che voleva mangiare. Io dicevo “Io faccio l’operaio”, loro forse cercavano qualcuno che avesse un po’ di testa, invece eravamo tutta povera gente. Tutta gente che lavorava e basta.

D: Lì cosa costruivate? Quella fabbrica lì dove hai lavorato, cosa facevi?

R: Lì, appello, e poi aprivano il portone scorrevole e si andava dentro. Si andava dentro e là c’era il capo reparto. Il capo reparto era un polacco, “Sulla macchina, lì” mi hanno messo su di una rettifica, una specie di tornio. E lì uno che non è pratico, è dura. Ho visto un po’ come si faceva roba di meccanica e dovevo arrangiarmi a molare il ferro, ad affilare il ferro da taglio per il tornio ed io facevo le sicurezze del moschetto.

Arrivavano con la barella, i prigionieri li portavano lì, ci fornivano perché arrivava dalla fonderia, passava quello là e faceva una parte, quello là me la passava ed io dovevo passarlo alle frese.

Bene, quello che doveva passarle a me doveva farne almeno quattrocento o cinquecento al giorno. Tutti lì ne facevano seicento e gli altri li mettevano via per l’indomani, perché un domani che si guastasse il ferro o che non taglia più, tu dovevi fare la consegna la sera, dovevi fare la consegna di quello che hai fatto. Allora c’era da essere abbottonati, se non funzionava qualche cosa erano dolori.

Ed io destinato su questo tornio qua, andavo bene, fortunato, a poca distanza come verso di lei, c’era una stufa che era due volte questo tavolo qua, rossa veniva, si stava bene. Quelli che ci fornivano i materiali, venivano da fuori con le bufere, neve, pioggia, vento, freddo, come entravano mettevano giù la roba, fuori, perché altrimenti se li beccavano andare alla stufa erano botte, ma che botte. Lì andavo bene, non c’è male.

Un bel giorno si capisce che dopo come lavoro tanti morivano di deperimenti, mangiare ci davano un pezzettino di quel pane nero, la metà della metà, un pezzettino, un quarto di quella metà lì. Ma i pani non erano quelli lunghi, erano quelli corti, larghi così, saranno stati 10, o 15 centimetri per 20, così. Quei pani lì, neri, un pezzettino di quelli lì e ci davano un litro o mezzo litro di acqua e c’erano dentro un po’ di barbabietole tritate che col cucchiaio, il cucchiaio doveva farselo lei. La gamella, la davano loro, finito di mangiare la si depositava e poi si arrangiavano loro a lavarle e tutto, c’erano altri prigionieri, ed il cucchiaio dovevi arrangiartelo te, dovevi metterlo qua, altrimenti se lo perdevi o te lo rubavano, saltavi e dovevi mangiare così.

Lì sono andato avanti un po’ così a lavorare in quel modo lì, un bel giorno si capisce che mancavano gli operai perché morivano, viene là il capo reparto e fa “Domani te vai insieme e Joseph”, era un operaio che era sulla fresa. Che la sicurezza del moschetto andava dentro, incastrato dentro e la fresava, doveva essere preciso. Io facevo con il tornio e poi con la fresa lo facevano bene e preciso. “Va bene domani andrò con lui”. Un giovanotto grosso, al mio posto è andato un russo, non ha mai visto un’officina, niente, prendeva di quelle botte. Perché c’era il ferro da affilare e andava sulle mole, la mola ha la coda e doveva aspettare il suo turno, quando andava sotto non era capace, tornava indietro e metteva sul ferro e non tagliava. Allora il capo reparto botte, botte, questo ragazzo “Italien com”, io pianta lì che ero alla fresa e andavo là a fargli vedere, “Fai così, così e così”. Ma lui non capiva niente. “Ma te sei nato nel bosco o sei nato in un qualche paese”. Non capiva niente. Quello che si diceva non capiva, gli spiegavo il lavoro come doveva farlo, non lo capiva, non lo so, “Te sei nato in un bosco”.

Allora lì tutte le volte che andava ad affilare il ferro, il capo reparto prima mandava lui, e stava via un quarto d’ora perché non era capace, tornava indietro, non tagliava, doveva tornare indietro, non faceva la produzione. Botte, erano botte da orbi allora mi chiamava me, io stavo via venti minuti, lo tagliavo, mettevo a posto il ferro bene, che tagliava, stavo via venti minuti e non mi diceva niente, il capo reparto. Andava via lui dieci minuti “No, non taglia” dietro ancora e botte, sempre così.

Io ero assieme a quell’operaio, erano due frese, a poca distanza come da qua e lei c’era quella stufona lì mi diceva “Italien di dove sei?” “Milan”, “Oh, good”, diceva, “Good”, “Siete bravi a lavorare” “Milan, good”, questo giovanotto così. Sotto lì allora metteva a posto la fresa e cominciava, non ero capace “Italien tu devi imparare, altrimenti vedi questo, ti pesto, io ti tiro blu, ti cambio colore”, diceva. Poco alla volta, poco alla volta ho imparato. Erano due macchine, un po’ lui ed un po’ me alla stufa, e si andava là con su la giacchetta che non c’era e si andava contro, veniva rossa la stufa, ti tiravano indietro, ma il calore non lo sentivi, perché non avevi più grasso addosso, non hai più niente. Allora facevamo un po’ per uno.

Tornando indietro, ho avuto la fortuna di andare a svestire i feriti ed i moribondi lì dove facevano le docce. Cosa è successo? Portando via la roba per portarle alla disinfezione ho trovato un paletò che ho messo su subito, era un soprabito, però era lungo. Era lungo e dopo a Gusen l’olio chimico, l’acqua chimica mi asciugavo le mani perché non c’erano stracci e non c’era niente, però le mani erano sempre belle perché non screpolavano, sempre unte. Però il paletò pesava venti chili, perché era unto e straunto.

Lì si va avanti così. è venuto un bel giorno che, sono incominciati i bombardamenti, mandavano i manifestini ed allora quelli che prendevano il manifestino erano botte, li ammazzavano a botte. Quando suonava l’allarme bisognava andare al rifugio. Il rifugio che cos’era? Erano delle gallerie sotto la collina, lì dovevano mettere l’officina, lo stabilimento. Doveva andare sotto lì, tutto lì. Allora si andava lì, come le bestie.

Dentro picchiavano per far presto ad andare dentro, quando si usciva erano botte perché non si usciva svelti, erano sempre botte. Quando si faceva la scala per andare a lavorare, botte, c’erano due tedeschi di qua e due di là, chi aveva il Gummi, se era polacco metteva il filo di piombo, una volta c’erano i fili elettrici coperti di piombo, mettevano dentro quello lì e si facevano uno più bello dell’altro e pestavano con quelli lì. Altrimenti se era un graduato aveva il frustino, quello lì tagliava, bisognava stare attenti alla faccia perché segnava, era come una frusta.

D: Giovanni, come ti ricordi la Liberazione?

R: Adesso viene. Lì siamo andati avanti così, tagliamo un po’ corto e siamo andati fino quasi alla Liberazione.

D: Come te la ricordi la Liberazione?

R: La Liberazione me la ricordo che un mattino “Arrivano gli americani” si sentivano i cannoni sparare, sono loro, si vedeva l’apparecchio che girava per perlustrazione, quegli apparecchi piccoli con un motore solo. “Arrivano gli americani” “Americani o russi?” “Arrivano prima gli americani, i russi vanno da un’altra parte”. “Se sono americani meglio”, noi ci tenevamo più con gli americani, infatti, tagliando corto.

Quel mattino “Fuori, fuori” si rubava a destra e a sinistra, era un macello, e sono andato fuori anche io, sono andato fuori, mi sono messo dietro la strada e vedo che arrivano gli americani. Chi piangeva, chi rideva, chi bestemmiava, non so cosa dire. E morti, perché? Perché i tedeschi sono scappati tutti, allora morivano tutti dietro la strada. Perché quello che trovavano portavano via e mangiavano. E allora portavano dentro con i carri e con i camion, portavano dentro prima che arrivavano gli americani. I tedeschi sono scappati tutti, sono restati i galeotti tedeschi, ma avanzi di avanzi di galera. Quelli graduati sono scappati tutti.

Lì arrivano gli americani e di fatto è arrivata una jeep con davanti la Croce Rossa, avevano una bandiera bianca ed una bandiera della Croce Rossa, due camionette, due jeep e dietro c’erano dei camion, ma non camion con su la truppa, non so cosa c’era, non so se c’erano i rifornimenti forse.

Poi sono incominciati i primi carri armati, e dopo la truppa. I camion con tutta la truppa su, negri, bianchi, non si capiva. Ad ogni modo come sono arrivati hanno cominciato a buttare giù caramelle, sigarette, cioccolato, e buttavano giù biscotti, festa. Tutti addosso, ci ammassavamo tutti per accogliere quella roba lì. Sono entrati in Gusen 1.

La storia del Gusen 2, quando si faceva l’appello per andare sulla scala, per andare a lavorare, si passava per il cancello cinque per cinque. Si camminava marciando. Allora loro facevano cinque, dieci quindici, e via via, il tedesco li segnava tutti, per i ranci. Lì ho sbagliato fila, che ne so io, era una fiumana di gente, bisognava guardare bene con chi eri, perché se sbagli fila vai in un altro posto e difatti è stato così per me. Mi sono messo in un’altra fila, non mi sono accorto, e via passa. Invece di andare a lavorare dove andavo prima, andavo dritto “Dove vado adesso?”, mi hanno mandato a Gusen 2. Là facevano le carlinghe degli apparecchi e mi hanno messo insieme agli operai a inchiodare le lamiere delle carlinghe, a fare le carlinghe, un baccano dentro lì. Là non ero segnato, mangiare non ce n’era. Fortunatamente quegli operai un pochettino per ciascuno, c’era già poco, un poco per ciascuno mi hanno dato qualche cosa da mangiare. Alla sera sono tornato indietro, non faccio più quella stupidata, prima di passare quel cancello guardo bene. Infatti sono andato avanti così fino alla Liberazione.

D: L’ultima cosa Giovanni, quando sei rientrato in Italia?

R: Siamo stati liberati il 5 maggio, lì dopo ho fatto la congestione, mangia te, mangia te, mi sono sentito male, sono andato all’ospedale, in infermeria e sono stato lì, quanto non lo so perché non ho capito più niente perché sono stato senza sensi. Mi sono buttato su una cuccetta della SS che c’era prima e basta, mi sono sentito male, e non ho capito più niente. Chi lo sa chi mi ha portato all’ospedale. Non lo so. So che mi sono svegliato, apro gli occhi, avevo davanti due dottori e un’infermiera. Non ero capace di muovere un braccio, ero sfinito. Hanno parlato tra di loro, allora l’infermiera, mi ha detto “Italien, io avere in consegna”, lì era già finita la guerra.

Sono arrivati gli americani e via, poi ho fatto la congestione, mi sono trovato all’ospedale, lì nudo mi portava in bagno, mi teneva su, allora il bagno là era diverso, ci si sedeva, mi teneva su perché cadevo da tutte le parti. Mi portava a letto, mi accompagnava a letto e mi dava una medicina verde, sembrava menta. Questo fa venir voglia di mangiare, perché la voglia di mangiare non c’era, veniva su tutto. Infatti mi dava un cucchiaio di quelli lì, due al giorno, ed io gli dicevo “Dammene tre”, “No, no”, diceva che i dottori non volevano. Allora ogni tanto me ne dava tre. Allora ho cominciato a riprendermi un po’, ho cominciato a mangiare. Mangiavo e veniva su tutto. Lo stomaco non teneva più.

Ci davano i piselli ma non in brodo, asciutti e io “Non digerisco questa roba qua”, “Mangia, mangiare” diceva l’infermiera, caccia giù e su, caccia giù e su “Mangia sempre, fa niente se viene su, quel pochettino che rimane giù quello è il tuo buono. Ti fa bene”. E difatti mangia e butta su, mangia e butta su, fino a che sono rimasto lì un mese ed ho cominciato a riprendere, però non ero capace di camminare. Ero ancora sfinito. è venuto il momento di dire “Quelli che se la sentono li mandiamo in Italia, mandiamo a casa, ci sono le spedizioni che vanno in Italia.” Io a sentire così, malato, non malato, io vado a casa. E difatti così sono uscito dall’ospedale, sono guarito, non ho più niente, barcollando sono andato in baracca, ho preso in mano la baracca, c’erano tre gradini ad andare su, ho fatto una fatica, ma ce l’ho fatta. Lì allora ho cominciato a riprendere, ci davano i pacchi americani e c’era tutto in scatola, minestrone, pasta asciutta, risotto, riso, carne, carne con dentro la cioccolata, carne con mescolata la cioccolata “Ma chi mangia questa roba?” non andava giù “Mangia, mangia, mangia” e caccia giù, mi sono ripreso un po’ e sono riuscito a prendere. “Perché chi ha la febbre e chi non si sente lo mandiamo un’altra spedizione, non va a casa”. “No, no, io mi sento bene” invece non era troppo bene, barcollavo ancora. Però ce l’ho fatta, sul camion e via a prendere il treno con il camion, gli americani ci hanno portato con il camion e siamo venuti in Italia e ci abbiamo messo altri due giorni.

D: Vi siete fermati a Bolzano?

R: Prima abbiamo fatto la linea Linz – Salisburgo, mi pare, siamo venuti a Innsbruck e siamo stati lì una notte, abbiamo dormito lì nelle case matte di un vecchio aeroporto. Poi abbiamo preso ancora il treno e siamo venuti in Italia a Bolzano, siamo scesi a Bolzano. Lì c’erano già tutte le infermiere pronte a riceverci. Io avevo inciampato nei sassi attraversando i binari, si mettono a ridere, mi veniva voglia di prendere una pietra e scagliargliela addosso. “Voi ridete, ma io non rido. Non sono capace di camminare”.

Allora lì chi si sente dopo mezzogiorno, il giorno dopo, c’è il camion che va a Milano, chi non si sente parte dopo domani alla mattina. Ho detto ” A me non conviene”, perché partendo dopo mezzogiorno arrivi alla sera ed io dove vado a Milano alla sera? Allora aspetto l’altro giorno e parto al mattino. Gli altri sono partiti e aspetto il mattino. Aspetto il mattino e non c’è il camion. Parte subito dopo mezzogiorno, è arrivato circa alle quattro o alle cinque, va bene, l’importante è che vado a Milano. E siamo partiti sul camion, verso le quattro e le cinque, non ce l’abbiamo fatta ad arrivare a Milano, abbiamo dormito a metà lago di Garda in un oratorio, c’erano le suore e siamo andati sul cascinale, c’erano le fascine di legna, abbiamo dormito su lì, mangiare niente, non avevano niente neanche loro.

D: E poi sei arrivato a casa?

R: Allora siamo partiti al mattino presto, alle cinque sveglia, si va a Milano. Alle cinque, io non ho dormito tutta notte. Alle cinque sul camion e via, quelli che scendevano a Brescia, chi scendeva a Bergamo ed io sono sceso a Milano, eravamo in quattro o cinque.

Navasa Milo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Buongiorno. Mi chiamo Milo Navasa, sono nato a Venezia il 27 maggio 1925. Figlio unico e abitavamo a Verona da parecchi anni. Mio papà lavorava alla Telve e io ero studente, scuole normali, liceo ecc.

Il 13 dicembre 1944 di notte abbiamo sentito un fracasso infernale giù alla porta d’ingresso della casa, hanno mezzo sfondato una porta ed era una pattuglia di SS. Sono venuti dentro, hanno beccato mio papà subito e stavano per portarlo via, quando girando per l’appartamento, sono capitati anche in camera mia che stavo dormendo, mi ero svegliato un po’ di soprassalto. Hanno chiesto a mio padre, il quale parlava tedesco tra l’altro e capiva, gli hanno chiesto chi ero e lui ha detto: “E’ mio figlio”. Hanno detto: “Komm” e mi hanno preso, anch’io.

Avevo diciannove anni, dunque non c’entravo un accidente, però mi hanno portato via. Ci hanno portato al sotterraneo delle SS qui in Corso Porta Nuova. Lì è cominciata la storiella. Mio padre è stato interrogato subito, io anche, però il mio interrogatorio si è risolto in una buffonata, perché allora io cascavo talmente dalle nuvole che evidentemente anche l’ufficiale che mi ha interrogato se n’è reso conto che non capivo niente, che non c’entravo un tubero. Siamo stati lì una quindicina di giorni mi pare, adesso ovviamente la memoria al giorno non ce l’ho più, ben inteso. Però un paio di settimane.

Dopodiché tutti e due ci hanno portato al Forte di San Leonardo, qua sopra Verona. Lì siamo stati due o tre settimane anche lì. Eravamo lì in carcere, avevamo un po’ di rancio, non avevamo uscite fuori, eravamo sempre dentro nella cella. Poi ci hanno trasferito al Forte di San Mattia, che è un altro forte qui di Verona, quello più alto. Anche lì tran/tran quotidiano, mio padre era fuori dalla grazia di Dio, io che non capivo cosa cavolo mi stesse succedendo. Un bel giorno ci tirano fuori tutti, ci imbarcano su un autocarro e ci portano su a Bolzano.

Mi sono ritrovato anch’io lì. Ci hanno messo nel blocco B, non sapevo niente praticamente, un po’ spaventato, un po’ tutto. Dopo due o tre giorni, adesso il giorno preciso non lo ricordo così, hanno fatto un appello e hanno chiamato assieme a tutti gli altri mio padre, non me.

Anzi, anche lì a Bolzano mi hanno fatto un altro interrogatorio così, che si è risolto in niente, una buffonata. Credo si siano accorti che non avevo le mani in pasta né con la Resistenza né con questo né con quell’altro, com’era vero infatti. Non ci pensavo. Hanno fatto l’appello, avranno chiamato due o trecento persone, fra le quali mio padre. Di fatti noi eravamo in piedi lì così e loro chiamati dovevano mettersi dall’altra parte del cortile allineati. Quello è stato l’ultimo giorno che ho visto mio padre, non ho più saputo niente là naturalmente.

Al primo maggio hanno aperto il campo, a gruppi di una trentina di persone ci hanno caricato su un autocarro che ci portava in giù. Lo sbarco, diciamo così, avveniva, l’ho saputo dopo, a paesi diversi. Hanno avuto probabilmente paura che mollando il campo di colpo ci fosse una reazione da parte nostra, perché penso saremo stati un migliaio, era affollatissimo. Allora probabilmente l’hanno fatto per questo scopo.

Allora a me hanno scaricato a Bronzolo, mi ricordo ancora. C’era tutta la retrovia tedesca che stava andando in su in ritirata, elmetti fin qua, mitra imbracciati, un inferno, qualche autoblinda ecc. Una strizza dell’accidente, però dico: “Devo andare a casa, è inutile che mi metta qua”.

Allora mi sono strappato via il distintivo, che avevamo il triangolo rosso. Tolto via quello ho cercato di apparire uno qualsiasi e ho cominciato a camminare. A camminare ci ho messo otto giorni, sono arrivato a Verona a piedi. Tra l’altro non è che avessi una gran forza, perché là sì, ci davano qualcosa da mangiare senz’altro, però non certo pasti.

Un pagnottino così al giorno. Poi tra l’altro quando ci hanno mollato avevamo già discusso tra noi che saremmo entrati in Bolzano a pescare il panettiere, perché queste pagnottelle, una al giorno, grandi così, si faceva così con le mani e strizzava fuori acqua. Pesava di più, perciò ci faceva pagare di più. Avevamo giurato di andare là e disfargli il forno. Invece, niente. Ci hanno mollato apposta, penso, per evitare rappresaglie probabilmente.

Mi ricordo ancora un episodio. Quando sono arrivato lì a Rovereto, c’era molta gente. Ad un certo momento mi vedo arrivare un carro armato in mezzo alla strada. “Porca boia”, dico, “ancora, madonna santa”. Un bestione che non finiva più. Allora va beh, mi sono messo ai margini della strada. Passerà anche questo. Ad un certo momento ha spalancato il portello di sopra, è uscito a mezzo busto un negrone, un bestione della madonna con due mani messe così. “Paisà” ha detto.

E giù sigarette in mezzo alla gente. Ho ringraziato il padreterno, “Dio ti ringrazio, qui ci sono gli americani, i primi che vengono su”. Dopo mi sono accorto che sul carro armato c’era una stella bianca dipinta, ma io non lo sapevo. Allora mi sono rilassato e ho fatto Rovereto Verona con più calma, perché ormai c’erano le truppe americane che venivano avanti e non mi facevano certo paura. Qualcuno aveva predisposto qualche posto di ristoro durante il campo e lì ho mangiato qualche minestra, ho dormito un po’ nei fienili. Sono arrivato a casa e mia madre era lì, ha visto arrivare me e non ha visto poi arrivare il mio vecchio.

Lui so che appunto è andato a Mauthausen e dopo l’hanno ammazzato, il giorno preciso non lo so, perché non sono riuscito a saperlo da nessuno. Sono andato appunto la settimana scorsa, sono andato là in pellegrinaggio perché per tutti questi anni non ho mai avuto il coraggio di andare su, non me la sono sentita. E’ da rimproverarmi, su questo d’accordo, lo capisco, ma non ce la facevo. Stavolta no, mi sono deciso, dico: “Vecchio mio”, perché quando mangio, tra l’altro, ho la fotografia del mio vecchio, ce l’ho davanti. Io sono da solo, ho la fotografia del mio vecchio e della mia vecchia davanti alla tavola della cucina, tutti e due, così che ce li ho lì tutto il giorno.

Allora dico al mio vecchio: “Stavolta vengo, stavolta vengo” e sono contento di essere andato, anche se sono ancora un po’ nei pasticci, non sono ancora uscito. La visita è stata una roba, come se mi avessero segato a pezzetti. Quello che non ho visto dentro… Mi figuro quei disgraziati cosa devono aver subito quando sono stati presi e portati lì dentro.

Ho visto i forni crematori. Hanno messo alcune fotografie che qualcuno ha fatto e ha salvato dalla distruzione, ingrandimenti così. Carri pieni di gente magra così, morti, mezzi morti e li stavano portando verso i forni. Ecco, per dire, roba del genere, sono uscito fuori da lì che ero fuori dalla grazia di Dio. Sono andato a vedere Gusen proprio e ho visto i forni crematori, ho visto le camere a gas, ho visto l’animassa che ti porta. Dopo pochi giorni fa ho visto Hayder seguito da folle osannanti e non vi dico cosa ho pensato, perché non è il caso, il turpiloquio non va bene.

D: Milo, scusa.

R: Dimmi.

D: Perché hanno arrestato il tuo babbo?

R: Adesso ti spiego questa cosa, che fa pensare proprio alla gente come può essere a volte. Mio papà con alcuni dei suoi coetanei, aveva quarantanove anni quando l’hanno preso, si erano buttati dentro, perché mio papà aveva fatto la Grande Guerra completamente dal primo all’ultimo giorno, per cui i tedeschi gli stavano qua e si era buttato nel Comitato di Liberazione.

Erano sette od otto che avevano fatto questo gruppetto, in casa non sapevamo niente e compagnia bella. Se non che si è infilato dentro uno italiano, il quale ha finto di essere dentro così e poi li ha denunciati tutti. Allora un giorno che ancora eravamo qui alle SS in Corso Porta Nuova ci hanno portato fuori a dare una mano, perché c’era il bombardamento, tirare via un po’ di macerie. Stavamo tutti e due andando insieme con gli altri, mio papà mi ha detto: “Ehi, Milo, attento. Guarda quello lì col cane. Guarda bene”. Io lo guardo bene, fissato, fotografato. “Quello è quello che ci ha fatto la cavalletta a tutti”. Quando sono tornato a casa l’ho cercato per un anno. Non so se avete visto quel film con Sordi, quando gli ammazzano il ragazzino, che poi va fino a che becca quello che…ecc… e’ “Un borghese piccolo piccolo”, mi pare che fosse. Faceva la stessa fine. Per un anno per tutte le strade ero lì che mi guardavo intorno, ma o era andato via o… Non l’ho più visto, non ho più saputo niente. Questa è la vecchia storia.

D: Quindi il tuo babbo faceva parte del gruppo…

R: Il Comitato di Liberazione di Verona.

D: Tu invece non sapevi nulla?

R: No, non sapevo niente. Ero un tataro qualsiasi, mio padre se n’è guardato bene dal parlarne a casa, perché altrimenti mia madre gli avrebbe fatto l’inferno. Allora in casa non sapevamo niente. Li hanno beccati tutti e sono crepati tutti, li conoscevo anch’io. Per fortuna hanno fatto un interrogatorio anche stringente, ma non potevo confessare, perché non avevo né fatto né pensato né niente. Ero un ragazzotto, uno stupidotto, non è che avessi delle mire a dire… Se ne sono probabilmente accorti e ne hanno tenuto conto forse, non so, perché non mi hanno cacciato in quel pasticcio, mi hanno lasciato lì fino alla fine della guerra.

D: Milo, cosa c’era su al Forte San Leonardo?

R: Niente, c’era un gruppo di SS e basta. Noi eravamo in una cella, qualche volta ci facevano prendere un po’ d’aria in alcuni passaggi che hanno lì dentro liberi. Nel forte non c’era niente, comandi, compagnia bella. Nemmeno in San Mattia. Prigioni erano, così. Ci hanno tolto dalla città e ci hanno messo là.

D: Quando vi hanno prelevato per partire per Bolzano, dove vi hanno caricato?

R: Eravamo al San Mattia, l’autocarro è venuto lì, ci ha fatto montare e poi è partito, siamo andati fin là.

D: Siete arrivati al campo di Bolzano?

R: Sì. Siamo arrivati direttamente al campo.

D: Eravate in tanti?

R: Parecchi. Non so dirti quanti, ma credo così adesso, la stima mia può essere…ma penso che dovessimo essere intorno al migliaio. Almeno credo. Io ero il numero 8.718, mio papà 8.717.

D: Durante il trasporto su a Bolzano il camion non si è mai fermato? Era un camion solo?

R: Un camion solo e basta, c’erano un paio di motociclisti, elmetto fin qua e basta. E’ andato via così.

D: Siete arrivati di sera su a Bolzano?

R: No, c’era ancora chiaro. Pomeriggio senz’altro, però c’era ancora chiaro. Ci hanno assegnato ai vari blocchi, io ero al blocco B, c’erano due grandi capannoni, erano separati per lettere, A, B, C, D, E, F era quello delle donne. Io sono stato al blocco B fino al momento che hanno aperto il campo.

D: L’immatricolazione lì a Bolzano ve l’hanno fatta subito?

R: Il giorno dopo credo, sì, sì, immediata. Col numero, triangolo rosso e il numero in bianco, 8.718.

D: Ti hanno tolto i tuoi vestiti?

R: No, mi hanno lasciato quegli stracci che avevo. In casa non mi hanno lasciato neanche vestire praticamente, ho infilato un paio di pantaloni e qualcosa addosso, basta. Non avevamo niente, così proprio… “Weg, weg, komm, komm” e basta. Insomma, fatti cosa, a dire: “Un momento”, no, no. Come adesso, fai conto.

D: Ascolta, dentro nel campo cosa ti ricordi? Altre persone, altri amici? Parlavi delle donne.

R: Sì, il blocco delle donne era appunto il blocco F. Alla mattina per esempio avevi il momento che potevi stare sul cortile, potevi stare anche fuori dai capannoni, nessuno ti rompeva le scatole. C’è stato un solo episodio di un ragazzo di Milano, che avevano mandato fuori una squadra per pulire un po’ di macerie ed era andato fuori anche lui. Dopo al ritorno non l’avevamo visto e abbiamo sentito, c’era una specie di fabbricato in fondo vicino ai blocchi nostri, e abbiamo sentito per un paio di giorni delle urla mica male. Deve avere preso una pestata. Di fatti poi è uscito, aveva segni dappertutto. Ma è stato l’unico episodio però che ho visto.

Lì a Bolzano non è successo niente, porco cane. Non è successo assolutamente niente angherie, violenza. Niente. Alla mattina sveglia presto, tutti fuori in cortile, cappelli giù, via, cappelli giù e il momento di salutare la guardia. Poi ti davano un po’ di sbobba, mezzogiorno ancora un po’ di sbobba, questo pagnocchino infernale e la sera qualcosa d’altro. Insomma, onestamente fosse stato solo Bolzano avrei detto: “Va beh, una vacanza andata male”. Non di più, sul serio.

Non immaginavo allora che i campi di là fossero tutt’altra cosa, capisci? Dopo l’ho saputo, caspita, quando sono tornato a casa, quando cominciava a tornare della gente, ho cominciato a leggere e ho cominciato a sentire. Dio Cristoforo, dico, ma com’è possibile? A Bolzano non è successo niente. Non hanno ammazzato nessuno, non hanno pestato nessuno e non hanno messo in croce nessuno. Guarda che ci ho fatto dentro un paio di mesi.

D: Ti ricordi se assieme a te nel campo di Bolzano c’erano anche dei religiosi?

R: Erano quelli più codardi di tutti noi messi assieme. Mi ricordo che c’erano un paio di frati, era uno, un frate di Via Barana. Quello era sempre a chiedere conforto, anche a me. Lui sarà stato più anziano di me, avrà avuto a quei tempi quarant’anni. Ero un ragazzetto così. “Oddio, Milo, cosa dici, che qua, che là…”. Ma dico, padre, a un certo momento, santo cielo, doveva essere lui che consola, porca di una miseria. “Ma qui, ma là, hai visto qua, hai visto là”. Tutti i giorni una balla di questo genere. Dopo lo schivavo come la peste perché non è possibile, Sant’iddio.

Uno qualsiasi può avere le sue idee, ma non un religioso. Doveva essere lui a confortare noi o dovevo essere io a diciannove anni che consolavo lui? Porca miseria, no scusa. Di fatti lo schivavo come la peste dopo. Tagliavo corto, gli dicevo: “Si, va bene”. Bon, andavo via.

D: Ti ricordi come si chiamava questo padre?

R: No, purtroppo… Ho cercato di ricordarlo ancora, ma non sono più stato capace di ricordare.

D: Ascolta, ti ricordi se c’erano, hai visto anche dei bambini, dei ragazzetti molto più giovani di te?

R: No. Io no. Direi che fossimo tutti adulti, penso.

D: Ti ricordi del blocco celle?

R: Al blocco celle non sono mai andato. Sì, c’era, è un fabbricato in fondo. Ci sono i due capannoni lunghi messi così con A, B, C, D ecc. e poi in fondo c’era un fabbricato laterale così, quello era solo per i tedeschi. Lì so che c’erano le celle, perché quel milanese lì l’hanno suonato lì dentro. Ma lì non hanno portato nessuno, è l’unico che hanno portato dentro nel periodo che sono stato lì io. Anche non potevi fare ribellioni di nessun genere, cosa volevi fare?

D: Ma parliamo dei due ucraini. Te li ricordi?

R: Sì. C’è stato recentemente qualcuno a Verona che mi ha chiamato per vedere, perché avevano recuperato sembrava una foto di questi ucraini. Dico, a cinquant’anni di distanza non ce la faccio mica. Però erano quelli addetti al pestaggio e anche nelle piccole cose, perché per esempio la mattina in adunata, chiamiamola così, se c’era da dar qualcosa sempre grintosi con le mani.

Poi se c’era da darti un calcione, quello te lo davano volentieri, perché magari un centimetro là non è che ti dice: “Weg, weg”. No, ti dava un calcione. Quella era proprio l’abitudine. Tutti e due giovani, questi figli di buona donna, erano quelli proprio addetti. Per fortuna la politica del campo non era quella, perché se appena appena avessero avuto un po’ di libertà con quei due lì venivano fuori giostre da mettersi le mani nei capelli. Appunto due o tre mesi fa mi hanno chiamato perché mi hanno fatto vedere. “Caspita”, dico, “strano che abbiate recuperato le fotografie adesso, è passato troppo tempo, non potrei”, dico. “Non posso, mi spiace”.

Dice: “Sa, abbiamo saputo che…”. “Sì, lo so, c’ero”. Proprio sarebbero stati i due addetti che se il comandante del campo fosse stato una carogna o avesse avuto ordini diversi, gli addetti erano loro due. Proprio ce l’avevano nel sangue, li vedevi da come si muovevano, da come facevano. Comunque non è successo, lì da noi non è successo niente.

D: Milo, ti ricordi che c’era una donna soprannominata “la Tigre”?

R: No. No perché lì al blocco F qualche volta ci avvicinavamo per chiacchierare un po’ con prudenza, perché non volevano mica. Sai, scrivevamo così e non so dirti come fosse o se c’era qualcuna in particolare. Erano là tutte ammucchiate in questo baraccone.

D: Milo, attorno al campo c’era un reticolato e c’erano delle sentinelle su delle garitte?

R: Sì, sì. Agli angoli del campo sì.

D: Ascolta, tu sei rimasto lì a Bolzano, nel Lager di Bolzano per diversi mesi?

R: Per lo meno guarda, fatti i conti adesso così, dei giorni ovviamente non riesco a fare il conto totale, ma penso di avere fatto un due mesi, due mesi e mezzo lì dentro. Fino al primo maggio.

D: Cosa facevate tutto il giorno dentro nel campo?

R: Niente. Non ci facevano lavorare. Eravamo lì, eravamo dentro nel nostro blocco a ciondolare, non ci hanno fatto lavorare. Qualche volta hanno preso qualcheduno a caso, lo portavano fuori, ma quando c’era qualche bombardamento magari che c’erano macerie da portare via. Così sporadico però, ma a noi come prassi del campo non ci facevano fare niente. Eravamo lì.

D: Ti ricordi qualche tuo compagno del blocco B, oltre al tuo babbo?

R: Sì, c’era Zanini che conoscevo ancora prima. Dopo, aspetta, chi c’era ancora… Accidenti, adesso dovrei fare un po’ mente locale, abbastanza difficile sai, perché di tempo ne è passato un fracco. Ricordo Zanini perché era il cosiddetto capo blocco nostro, era uno che teoricamente dava ordini a noi, va beh. Era un insegnante anche lui tra l’altro.

Dopo, un altro di Parma, un ragazzetto, Pietra, me lo ricordo ancora, un cognome stranissimo, Pietra. Ha detto: “Qui voglio scappare”. “Stai attento”, dico, “perché hai visto cos’è successo a quell’altro”. “Sì, ma io qua dentro non ci sto mica”. Avevamo fatto un po’ amicizia perché eravamo vicini di branda. Dopo, qualche altro, ma sai, è passato mezzo secolo.

D: Mentre voi del blocco B non siete mai usciti dal campo, altri uscivano dal campo per lavorare?

R: Sì, ti ho detto, qualche volta ma sporadicamente, molto poco. In generale era dopo i bombardamenti. Basta, ma non era che appunto fossero fuori per lavorare e tornare dentro alla sera, no. Episodi proprio, e basta, capisci? Magari volava una bomba, raccoglievano trenta o quaranta persone e le portavano fuori, davano una mano a pulire la strada, tirare via macerie e poi tornavano lì. Nessuno lavorava fuori dal campo di Bolzano, nessuno.

D: Ti ricordi se al campo, tu parlavi prima che avevate il triangolo rosso, c’erano altri triangoli di altri colori?

R: Triangolo giallo, che doveva essere quello degli ebrei se ben ricordo. Mi pare che fossero solo quei due colori lì. Mi pare però. Il rosso era teoricamente per loro per i politici, perciò era il nostro. Gli ebrei invece avevano il triangolo giallo, perché difatti hanno fatto un’infornata.

E pensa che dopo che hanno fatto la tradotta di mio padre, dopo dieci giorni circa hanno fatto una tradotta di ebrei, soli ebrei. Li abbiamo visti, eravamo in cortile, chiamati tutti, altre duecento persone o più. Li hanno portati, erano partiti, il giorno dopo sono tornati lì perché avevano già bombardato la linea gli americani. Da quel giorno lì hanno continuato a bombardare a Bolzano Brennero, non è più andato via nessuno. Se mio papà tardava un pelo, sarebbe ancora qui. Proprio l’ultima tradotta, porcaccia di una miseria, l’ultima. I disegni della Provvidenza sono quelli che sono, porco cane.

D: Milo, il gruppo di tuo padre ha lasciato il campo come?

R: Questo non lo so più, perché sono cose che sono avvenute dopo, io non lo so. A un certo momento li vedevi partire, tra l’altro sono morti dopo, dunque non so. Li chiamavano… Non so dirtelo questo proprio.

D: Non li hanno caricati su dei camion dal campo di Bolzano?

R: No, perché, vedi, l’ultima infornata è stata quella di mio padre e ho visto lui andare via così e basta. Non so con cosa l’abbiano portato là. Dopo non ho più visto niente, capisci? Hanno tentato qualcosa, ma non sono più riusciti a far niente, perché non potevano più. Le strade ormai erano impercorribili, perché gli americani avevano cominciato a fare sul serio, capisci? Sicché non so se li avevano portati con camion, boh. Sì, probabilmente con camion, senz’altro. Perché la distanza non è molta tra l’altro. Eri dentro, non sapevi niente.

D: Milo, durante il tuo periodo di deportazione a Bolzano tu, il babbo e gli altri compagni avevate avuto l’occasione di poter scrivere o di ricevere pacchi o posta?

R: Qualche tentativo c’è stato, ma arrivava il pacco, la carta e qualche pezzetto dentro, il resto tutto… Ti davano un cartoccetto così. Scrivere neanche a parlarne, c’è stato proprio silenzio fin quando sono tornato a casa.

D: Un’altra cosa, tu sapevi che dentro all’interno del campo di Bolzano c’era un gruppo di deportati che lavoravano per la Resistenza interna nel campo?

R: No, non te lo so dire. Anche perché io penso che sarebbe stato estremamente difficile, perché lì armi non ce n’erano ovviamente, avevi la casacchina indosso e basta. La branda era un cuccio messo lì col pagliericcio e basta, non avevi armadietti, non avevi un accidente, per cui non penso che potessero far qualcosa. Avere l’intenzione di fare senz’altro, però al lato pratico, praticamente non era possibile. Sarebbe stato come in un campo di nudisti, che vanno a scassinare casseforti. Con cosa? Con le unghie?

Per cui anche se c’era l’animo senz’altro, mi pare che c’era l’animo, ma non potevi attuare. Ogni tanto ti capitavano dentro al blocco, davano un’occhiata in giro qua e là, per cui sapevi benissimo che se ti beccavano con un pezzetto di ferro così la passavi brutta. Allora nessuno poi faceva niente. Intanto non sapevi chi te le poteva portare, perché i contatti con l’esterno… Da fuori cosa vuoi, che entrasse uno col pacchettino di roba nascosto nella tasca? No di sicuro. Per cui non c’era niente lì, eravamo così come sono io adesso.

D: Quando hai saputo della morte del tuo babbo?

R: Ce l’hanno comunicato…intanto, visto che non tornava, ho immaginato subito. Qualche mese dopo ci hanno dato la conferma ufficiale, morto a Gusen e basta. Si fermavano lì all’Adige, non mi ricordo più adesso il posto, un attimo… San Giorgio, che avevano messo fuori le fotografie di tutti quanti.

Avevano messo fuori la fotografia di mio papà, lì arrivavano dei deportati e allora si chiedeva, c’era tutta una specie di bacheca fatta così. Sono andato giù per dei mesi, fin quando si è diradato completamente il ritorno di gente, nessuno sapeva un tubo. Per cui quelli che erano con lui sono crepati con lui. La notizia precisa non l’ho avuta da nessuno, data presunta della morte e basta, niente di più.

D: Scusa, questo San Giorgio dov’è?

R: San Giorgio è in riva all’Adige. Qua a Verona, quando vieni, che so io, da Ponte Navi, tu costeggi l’Adige, ad un certo momento vieni verso borgo Trento, quella zona lì si chiama San Giorgio. Dove si aprono le strade per borgo Trento.

Lì arrivavano a volte camion di gente che era deportata là, lavoratori e compagnia bella arrivavano giù. Avevano messo…c’era un muro e avevano messo fotografie, dopo andavano là per sentire se qualcuno veniva dai campi di là. Ho fatto settimane lì, poi mi sono stufato perché capivo che non riuscivo a combinare niente, allora basta. Sono andato a sentire qualche notizia e le ho avute dopo dall’associazione.

E’ stato lì, è morto a Gusen, la data precisa non si sa ancora, perché lì facevano l’infornata, non è che tenessero conto. Probabilmente tenevano conto del numero giusto per fare un bilancio matematico, ma non di più. Adesso hanno pescato fuori sulla Gazzetta Ufficiale, la morte di mio papà col giorno, sarà vero, non sarà vero… Non lo so. Mi hanno dato un giorno, poco tempo dopo che l’avevano portato via, il giorno è risultato neanche due settimane dopo che era andato via da me.

Probabilmente sarà anche giusta, probabilmente qualche dato l’avranno trovato magari in mezzo alla fureria di questi campi, forse. Tanto lo spazio era ristretto, che fosse quella settimana o quella dopo non cambia niente, non è un anno di differenza. Purtroppo sono stati quei due mesi lì, quel mese e mezzo lì. Bastava un poco di niente e sarebbe tornato a casa anche lui, porca vacca. Scusate il termine.

D: Milo, quindi lì a San Giorgio non c’era un ufficio però?

R: No, era lo scalo di quelli che venivano giù da là. A Verona, magari portavano giù anche quelli che erano andati a lavorare, tante belle storie. Scaricavano giù lì a San Giorgio poi ognuno andava per i fatti suoi, non era una zona prestabilita. Era soltanto per abitudine, si andava lì, allora c’era sempre gente, si chiedeva, si faceva vedere la fotografia. “Per caso, eri là, hai visto qua?”. Sono andato avanti un sacco di tempo, dopo ho visto che non serviva a niente, ho smesso e si era rarefatto anche il movimento di gente che veniva in giù, ormai si era già scaricato il fiume grosso.

D: La tua Liberazione, come siete stati avvisati voi?

R: Niente, una mattina ci hanno chiamati fuori all’appello. Uno ha tradotto: “Adesso si esce dal campo, si esce a gruppi, ci sono gli autocarri che portano via”. Basta. Bene. Allora sono montato su uno degli autocarri e lì uno scaricava qua, uno di là, uno in là, uno in qua in modo da evitare l’afflusso, perché se la sono vista brutta in quel momento lì. Se la sono vista brutta veramente. Noi appena scaricati, chi si mette lì a raccogliere gente per tornare indietro? Figurati. Avevamo solo voglia di menare le tolle. Abbiamo incominciato a camminare in giù, c’era una fiumana di gente continua che andava in giù.

D: Era maggio dicevi, no?

R: primo maggio.

D: Tu sei ritornato da solo?

R: Sì.

D: A piedi?

R: Ho schivato completamente la compagnia per un semplice motivo, che quando eravamo sul mio camion, eravamo sull’autocarro scoperto, avevamo già incominciato a incrociare le prime retroguardie tedesche che venivano giù, c’è stato uno sciocco. C’è la signorina, non volevo dire la parola. “Adesso è finita, eh!”. Dio Cristoforo, come gli sono saltato addosso.

“Se muovi ancora un dito ti strangolo, cretino d’un cretino. Ma ti accorgi che sono ancora armati, hanno le armi impugnate in mano ancora, perdincibacco! Un gesto così ci sparano addosso, adesso che è finita, cretino”. “Non credevo, non credevo”. Si è messo lì in un angolo, non ha più sbuffato. Stavo strangolandolo, porca vacca. Va bene. Allora la discesa me la sono fatta per conto mio, dove c’era il gruppo o mi fermavo o andavo avanti o mi spostavo o mi sedevo da una parte della strada.

Niente, l’ho fatta tutta da solo. Almeno io vado via a testa bassa, basta. Quegli altri difatti non mi hanno mai rotto le scatole, sono andati su incavolati, perché in piena ritirata, figurati. Però perlomeno io non li ho stuzzicati. Quell’altro così gli ha fatto, madonna mia, mi aspettavo una raffica di mitra secca. Dico, crepare proprio adesso a guerra finita no ragazzi. Allora solo soletto, altri mi dicevano: “Vai giù anche tu?”. “No, no, mi fermo”. “Di dove sei tu?”. “Sono arrivato, sono qui”.

Tutto così, piano piano. Ho fatto tutta la Val d’Adige, conosco abbastanza bene la Val d’Adige. Sono centocinquanta chilometri, non è che fossi molto allenato, un po’ per la fame, un po’ per tutto, non è che fossi proprio in condizioni splendide. Però sono arrivato da mia madre, poveraccia. Era ridotta uno straccio. Mi ha visto arrivare dalla strada, perché era seduta sul poggiolo. Mi hanno detto che stava sul poggiolo delle ore tutti i giorni. Ad un certo momento: “Oddio, Miletto, oddio sei tu?”. “Sono io, sono io”. Allora un abbraccio di tre quarti d’ora.

D: Milo, ci sono degli altri particolari che adesso ti sono venuti in mente sia dell’arresto, della carcerazione o della tua deportazione nel campo di Bolzano?

R: Più o meno a grandi linee ti ho detto tutto. No, direi di no. La mia è stata… Si fosse risolta così anche quella del mio vecchio, sarebbe stato niente. Nel mio caso a parte il morale, quello che ti sentivi dentro, la bomba dentro, però fisicamente io non ho sofferto.

Fame, un po’ di fame, va beh, diavolo, capirai bene cos’è. Botte non ne ho prese, la fame vera non l’ho fatta, una cuccia per dormire ce l’avevo, non mi spaccavano l’anima per lavorare perché non mi hanno fatto lavorare. Per cui a conti fatti avevo il coso dentro, d’accordo, però sofferenze fisiologiche io obiettivamente non ne ho avute. L’ho sempre detto questo. Non è che debba vantare adesso, chi è venuto giù da Bolzano raccontando sono balle, balle sacrosante. Chi s’è fatto grande con un po’ di sofferenze, qualcuno lo conosco anch’io. “Perché noi, sapessi, ci facevano..”. Non ci facevano una madonna, non ci hanno fatto niente. E’ stata una segregazione e basta, non di più.

Geloni Italo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Italo Geloni. Sono nato a Seravezza in provincia di Lucca il 23 novembre 1924.

Ho fatto il militare nella Marina. Sono stato imbarcato su un cacciatorpediniere poi, per motivi particolari, siamo stati destinati a terra. A terra era La Spezia S. Bartolomeo. Ero in contatto costantemente con gli antifascisti perché era appena passato il 25 luglio; con gli antifascisti della località Pitelli, sempre nella provincia di La Spezia, nel comune Lerici.

Quando è arrivato l’8 settembre arrivarono nella zona di S. Bartolomeo anche i nazisti. Riuscimmo a scappare, ci volevano prendere tutti ma noi riuscimmo a scappare e andammo nelle formazioni partigiane della zona. Poi scesi giù in città ad operare.

Il 2 luglio 1944 in via XX Settembre numero 50 ci fu un’irruzione nella casa da parte delle SS e dei fascisti. Fummo arrestati, uomini e donne, e portati alla Casa del Fascio, chiusi in un gabinetto di decenza. La sera al buio fummo portati nel carcere di Villa Andreini a La Spezia.

D: Italo, dove ti hanno arrestato? In che località?

R: A La Spezia in Via XX Settembre 50, l’avevo già detto.

D: Cosa c’era in villa Andreini a La Spezia?

R: C’era il carcere; era un carcere molto brutto.

D: Stavi dicendo che era un carcere molto duro?

R: Era un carcere più che duro. Tanto è vero che, perché non avessimo noi arrestati contatti fra di noi, si veniva messi soli nelle celle al sicuro, distanti l’una dall’altra almeno di due celle in modo da non aver la possibilità di parlare. Solo uno mi chiamò e mi disse: “Italo, mi raccomando” anzi, mi disse: “Olati”, che è il mio nome anagrammato da partigiano, “Olati, mi raccomando anche se ci ammazzano stiamo zitti”. Io risposi: “Stai tranquillo che io sto zitto e non parlo”. E di fatto così fu, io non ho parlato e lui parlò. Parlò dopo e fece arrestare una seconda parte di partigiani e di antifascisti. Si è ammazzato nel ’46, si buttò sotto il treno perché la mamma e la sorella finirono nel campo di sterminio di Ravensbrück. Dopo quattro giorni che eravamo in carcere si fu interrogati dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, che era stato ricostituito dopo l’8 settembre, e ci dissero che noi uomini saremmo stati condannati a morte e le donne a trenta anni di galera.

D: Poi cosa è successo?

R: Poi è successo che non ci hanno ammazzato per nulla anche in virtù di quello che aveva parlato.

Avevano preso questo impegno siccome c’era anche la mamma e la sorella. Ora la mamma è morta, da poco, aveva quasi 100 anni, poverina.

D: Ti ricordi come si chiamavano?

R: Grosso modo, ma certi nomi non posso farli, è l’impegno preso. Proprio per quello che aveva fatto il figliolo e fratello.

D: Italino, lì siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti venti giorni.

D: E poi?

R: Poi un bel giorno ci hanno radunato tutti insieme in una cella grande e la mattina alle 5 siamo partiti per Genova, a Marassi. Entrati a Marassi eravamo scortati con camionette, motocarro e motocarrozzette armate di mitragliatrici avanti e indietro perché avevano paura che quando si passava nella zona partigiana si fosse attaccati per liberarci. Invece non ci vide nessuno, ci si fermò soltanto ad un ponte, ci permisero con i soldi che avevamo di comperare frutta e verdura, per mangiare e per far colazione.

Poi arrivammo a Marassi. Marassi era tutta piena, era domenica pomeriggio.

Era tutto pieno di soldati repubblichini armati fino ai denti, sui tetti c’erano le mitragliatrici e giù c’erano anche i mortai. Arrivammo e ci diedero il numero di matricola; a me diedero il 1.121 e l’ultimo aveva il 1.133, 1.134. Nel frattempo arrivarono delle SS, degli ufficiali: dicevano di aver bisogno di due da fucilare e, dato che eravamo stati condannati a morte e poi salvati, dissero: “Ci date due di questi”. Anziché prendere i primi due presero gli ultimi due, il 1.133 e il 1.134. Li portarono alla fucilazione insieme ad altri cinquantotto di cui avevano bisogno secondo le esigenze di poterli fucilare. Non mi ricordo come si chiamavano. Poi, lì, conobbi altri compagni.

D: Nelle carceri di Marassi di Genova quanto tempo sei rimasto, Italo?

R: Una quindicina, venti giorni; non di più, ora la date non me le ricordo.

D: E dopo?

R: Dopo siamo stati portati a S. Vittore a Milano, primo raggio, che funzionava per i deportati politici, prigionieri politici. Eravamo al terzo piano, cella numero 2, eravamo in dieci.

Un bel giorno si arrivò al 15 agosto, anzi vorrei ricordarlo perché è giusto. C’era un personaggio, che anche oggi è un personaggio, che si chiamava Mike Bongiorno il quale faceva lo scopino in carcere anziché stare nella cella addetta all’infermeria, cella di cui, come cittadino straniero, avrebbe avuto diritto e nella quale si stava molto meglio. Io avevo bisogno di determinate cure per dolori che avevo nelle gambe e nelle braccia, avevo bisogno di iniezioni. Quest’uomo convinse il medico del carcere, che era sottoposto ai nazisti, a venire a farmi tutti i giorni per una settimana le punture e me le fece. E mi sono sentito bene, anche dopo quando sono arrivato al campo di sterminio.

Poi conobbi anche Indro Montanelli il quale non è che si fosse comportato un granché bene. Ci avvertiva quando le cose andavano male, questo sì, era vero; però si seppe che lui la fine che si è fatta noi non l’ha fatta. Fu liberato perché la mamma, che era la responsabile nazionale delle donne fasciste, fece liberare il figliolo dal carcere. Non è che lui abbia fatto qualche cosa per noi.

C’è stato poi quando siamo partiti da Milano. La notte c’era stato un bombardamento e noi si urlava “Arrivano gli inglesi arrivano gli inglesi”, si sentiva all’interno del carcere un trambusto. Venivano radunati tutti quelli del primo raggio, portati fuori, caricati su dei mezzi, su autopullman e su un camion 26 con rimorchio. Le ultime celle, nell’ordine di quaranta, quarantacinque persone, andammo sul camion e davanti a noi c’erano i fascisti con un fucile mitragliatore piazzato verso di noi; partimmo per Bolzano.

Arrivati a Bolzano fummo assegnati ad un capannone insieme ad altri che c’erano già, i quali erano tutti comandanti partigiani, partigiani antifascisti che erano stati in carcere. Avevano chiuso, anche davanti, col filo spinato; era il blocco B mi pare.

D: Ti ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Sì, 2.852.

D: Italo, quanto tempo sei rimasto nel Lager di Bolzano?

R: Dal 16 agosto al 4 settembre, il giorno che siamo partiti.

D: Ti ricordi se c’erano delle donne?

R: Sì, diavolo. Ce n’era una che addirittura mi obbligava a spogliarmi in presenza sua per lavarmi le mutande e la canottiera che avevo addosso. Maria si chiamava, era anziana.

D: Italo, ti ricordi se c’erano anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, padre Giannantonio, prima di tutto, mi ha voluto tanto bene. Dopo lì, l’ho rivisto a Dachau. Il giorno stesso che mi hanno liberato era accanto a me che mi assisteva, lui e don Fortin, parroco di Terranegra di Padova.

D: Lì sei rimasto fino a settembre?

R: 4 di settembre.

D: E poi?

R: Quindi siamo partiti per Flossenbürg.

D: Cioè tu non sapevi dove andavi?

R: No, niente, si andava in Germania.

D: Italo, dal campo di Bolzano per la partenza dov’è che vi hanno portato?

R: Ci hanno portato di fianco alla conceria dei tabacchi, mi pare che fosse questo. Comunque c’era un laboratorio e c’erano delle donne che dalle finestre, con delle pezze di canna o di ramo, ci davano sigarette, fiammiferi, pane, frutta, mele in modo particolare ce n’erano tante. E poi si partiva.

D: Dopo siete andati sui vagoni?

R: Siamo andati sui vagoni e invece queste donne dalle finestre ci davano tutto.

D: Dicevi Italo siete partiti?

R: Sì, siamo partiti.

D: Quanto è durato il viaggio, più o meno, te lo ricordi?

R: Quattro giorni. Per arrivare a Flossenbürg.

D: L’arrivo a Flossenbürg come te lo ricordi?

R: Tremendo. Si arrivò alla stazione di Flossenbürg giù in basso, Flossenbürg campo era su in alto. Ci inquadrarono e ci fecero passare; fu lì che vedemmo per la prima volta le nostre divise e i nostri compagni che lavoravano e che erano deportati all’interno del campo. Si arrivò all’ingresso, erano quasi tutti uguali, abbiamo rivisto poi anche quello di Dachau. Andammo dentro il piazzale, mano a mano che si passava c’era un SS del campo con un gran bastone, lungo lungo, che mano a mano ci picchiava in testa. Io ero fortunato perché bassino; accanto a me c’erano dei compagni che le prendevano anche per me perché io ero basso. Si arrivò nel piazzale.

Ci fecero spogliare nudi. Ci fecero mettere la roba dentro ad un sacchetto e ci fecero scrivere quello che c’era dentro. Ci dicono che poi ce l’avrebbero riconsegnata ma io non ho avuto più nulla, né visto più nulla, nemmeno i soldi che avevo; avevo 130.000 lire dell’epoca che non erano solo mie ma anche degli altri compagni: non ho rivisto più nulla. Poi così, a caso, presero dieci di noi e li impiccarono davanti al campo russo cosiddetto. Poi ci portarono all’interno delle due baracche addette al ricevimento dei deportati che per la prima volta venivano al campo, ci presentarono al capo della zona che era un ex barone tedesco che aveva ammazzato tutta la famiglia e che per punizione avevano messo a fare il guardiano all’interno delle baracche, le due baracche della quarantena.

Giù, un pochino più in basso, c’era il forno crematorio, e noi si sentiva, sempre, costantemente, il latrato come se fossero dei cani e invece erano le cornacchie cra-cra-cra-cra che sentivano l’odore della carne bruciata. Si vedevano passare, lì in fondo, le barelle con i morti che venivano portati al forno crematorio.

D: L’immatricolazione quando te l’hanno fatta a Flossenbürg?

R: Dopo una decina di giorni.

D: Il tuo numero qual è?

R: Questo: 21.569. Me lo ricordo sempre, anche in tedesco. Ogni volta che mi chiamavano mi chiamavano in tedesco e se non rispondevo erano botte. Siccome le botte non le volevo perché ammazzavano con quello a forza di legnate, avevo imparato anche a rispondere in tedesco.

D: Dopo la quarantena cosa è successo?

R: Un bel giorno ci hanno chiamati e ci hanno portati al Wäscheraum: ci hanno fatto fare il bagno. Ci hanno spogliato. Ci hanno levato tutto quello che si aveva addosso che poi era una camicia e un paio di zoccoli olandesi a barca. Ci hanno portato dove c’erano i sarti e hanno dato a tutti la divisa del deportato. Ci venne messo il numero di matricola sul petto, sul berretto e qui sui pantaloni. Il giorno dopo ci hanno fatto andare giù a Flossenbürg.

Ci hanno fatto montare sul treno e ci hanno portato a Hersbruck, a 17 chilometri da Norimberga. Quello è stato il primo vero campo di sterminio. Con me c’era padre Giannantonio, Teresio Olivelli, Becciu Salvatore, Pani Mario e altri, di cui ora magari non ricordo il nome.

D: A Hersbruck eri addetto al lavoro?

R: Sì, tutti. Il giorno dopo ci assegnarono subito un lavoro. A me assegnarono allo Stollenbau in montagna, nelle gallerie; dovevo andare nel pomeriggio. Sennonché altri, alla mattina, come Pani Mario sardo partigiano li avevano assegnati al Kartoffel: Kartoffel sono patate. Chiamavano Pani Mario e lui rispondeva: “Ma io non ci voglio andare perché c’è quel mio amico, siamo paesani, voglio stare con lui, non ci voglio andare in quel commando”. Io gli faccio: “Ma sai che lì ci sono le patate” e lui: “Non mi interessa, voglio andare con lui”. Allora venne Teresio Olivelli e mi dice: “Senti, anche se ti danno due o tre ceffoni, pigliali, ma vai al comando Kartoffel e dì che l’italiano sei tu” e così feci. Quell’italiana invece dei due ceffoni per andare al comando Kartoffel la sera avevo già mangiato sei patate così grosse, cotte, non crude.

D: Italo, per andare dal campo di Hersbruck alle gallerie con cosa vi portavano?

R: A piedi.

D: Erano vicine o distanti?

R: 8 chilometri.

D: Tu cosa facevi dentro nelle gallerie?

R: Lì ci sono andato dopo, prima sono stato al Kartoffel. Spingevo vagoncini, li caricavo e li scaricavo insieme agli altri naturalmente, quei pochi che eravamo addetti.

D: E finito il lavoro?

R: A piedi si ritornava al campo. Si veniva frugati da tutte le parti per vedere se c’erano cose che non si dovevano avere. Poi ci mandavano in baracca. Nella baracca come si entrava bisognava stare attenti a non avere nemmeno un granellino di sabbia perché si sporcava.

C’era il capoblocco con i suoi scugnizzi coi bastoni e prendeva a bastonate tutti. Poi io avevo capito che non dovevo dormire in basso ma era meglio in alto perché per arrivare da me facevo in tempo anche a scappare. Difatti stavo su al quarto piano a dormire. Poi, la mattina, quando ci si svegliava non è che dicevano: “Oh oh svegliatevi che è l’ora”! Venivano coi bastoni e con gli sgabelli e sgabellate e bastonate a tutti. C’erano anche quelli che ci morivano, per i colpi in testa. Quando erano passati tutti scendevo ed ero tranquillo, cercavo di fare il furbo.

D: A Hersbruck quanto tempo sei rimasto?

R: Da settembre fino a marzo, quando poi siamo partiti per Dachau.

D: E’ stato smobilitato tutto il campo?

R: Sì tutto il campo.

D: Stiamo dimenticando un passaggio …

R: Il Kartoffel fu molto importante per me e per i miei compagni. Con un filo di ferro piegato in cima e in fondo infilavo le patate e me le mettevo nella gamba dei pantaloni perché anche se mi avessero toccato frugavano sempre quassù sulle tasche e io le portavo dentro il campo. Poi le distribuivo a quei compagni che più ne avevano bisogno, anche sulle indicazioni di Teresio Olivelli. Era una gran brava persona. Io distribuivo le patate. Però avevo un compagno veronese che si chiamava Luciano che veniva da Torino e stava in Via Vanchiglia n. 47. Ci sono stato dopo la Liberazione e non ci ho trovato nessuno della famiglia e lui invece era morto. Una volta invece gli portai le patate e lui mi disse: “Dalle a qualche altro perché io fra mezz’ora sono morto”. Eravamo stati insieme anche in carcere, nella stessa cella, e poverino non stava bene di salute.

D: Punizioni non ne hai mai subite?

R: Tante. Tanto è vero che una volta mi volevano impiccare perché avevo cercato di fuggire. Avevo già il cappio al collo, montato sullo sgabello, tesa la corda. Il capitano delle SS, il comandante del campo, guarda e vede dal mio numero di matricola che sono un italiano; mi domanda di dove ero e perché volevo scappare e rispondo: “Perché volevo andare a casa, volevo ritornare in famiglia”. E allora mi guardò un po’ e disse a quell’altro: “Mandatelo via” e difatti mi levarono il cappio. Mi fecero scendere e io me lo sento sempre addosso questo cappio.

D: Italino, e la storia della pietra quale è?

R: No, perché mi avevano messo, appunto perché avevo tentato la fuga, un disco rosso in campo bianco così davanti e di dietro. Non ci capisco perché sai tante cose mi sono passate di mente.

Dopo che avevo tentato la fuga per punizione dovevo portare una pietra sulle spalle.

D: Lavorando lo stesso?

R: Lavorando lo stesso. Poi c’era anche un sottoufficiale delle SS che quando poi andai a lavorare allo Stollenbau mi faceva: “Tu italiano” e mi indicava il forno crematorio che era in fondo al palazzo. “Tu crematorio!” e mi faceva proprio così anche con la mano. Io dentro di me gli dicevo: “Vai, vai, aspetta che poi te lo do io”. Passava sempre in cima al cordolo della montagna e sotto c’era un precipizio di 300 metri. Un bel giorno avevo la pala in mano, gli diedi una spinta e se ne andò di sotto. Non se ne accorse nessuno e morì. I compagni miei, deportati, videro tutto però non hanno mai detto una parola. Nemmeno così, di sottinteso, in modo che gli altri non mi avessero fatto del male; anzi passavano, facevano così, mi strizzavano l’occhio come dire è andata bene.

D: E l’evacuazione dal campo di Hersbruck avviene quando?

R: Nel mese di marzo del 1945. Dopo che ero già stato a Mauthausen, però, per punizione. Insieme a Teresio Olivelli, Becciu Salvatore e ad altri avevamo fondato il Comitato di Liberazione Italiano del campo, in modo che ci si seguisse dal punto di vista politico e di aiuto l’un con l’altro. All’interno del campo c’era anche la Gestapo che funzionava in mezzo ai deportati. Scoprirono un certo numero di deportati di tutte le nazionalità e in duecento un bel giorno ci presero e in presenza a tutti ci dissero che saremmo stati mandati a Mauthausen. Difatti c’erano i camion pronti, ci caricarono sui camion e ci portarono a Mauthausen; blocco numero 8.

Poi si andava a trasporto e comando, si scendeva e si montava le scale, la cosiddetta scala della morte centoottantasei gradini, col peso sulle spalle. C’era una specie di gerla che si metteva sulle spalle, mantenendola in questa posizione con la pietra che si portava in cima in cima sotto le mura del campo. Dopo lì venivano i comuni e i civili a pigliarle e le pagavano alle SS; le SS ce ne hanno fatte tante, centinaia di milioni.

D: A Mauthausen ti hanno portato quando? Te lo ricordi?

R: In febbraio. Fine di gennaio e febbraio del 1945.

D: Poi sei ritornato ancora a Hersbruck o a Flossenbürg?

R: Dei duecento, in quindici giorni, eravamo rimasti in cinque, perché c’era la punizione cui eravamo stati destinati. Noi cinque fummo riportati a Hersbruck. Era il mese di marzo. Dopo pochi giorni, mi pare dopo due o tre, fu evacuato il campo e ci portarono verso Dachau.

D: L’evacuazione del campo come è avvenuta? Vi hanno portato giù a Flossenbürg?

R: No no, a Flossenbürg portarono soltanto gli ammalati, quelli della infermeria e poi furono fatti fuori tutti, lo abbiamo saputo dagli altri. E noi lungo la strada si arrivò a Saal an der Donau, città sul Danubio, proprio sul Danubio. Era una cava dove lavoravano i deportati. Dopo due o tre giorni si riprese la strada e ci portarono a Dachau.

Appena passata la città venne una donnetta, mi sembrava la mia nonna santa. Aveva il grembiulino e sotto il grembiulino aveva un recipiente e dentro il recipiente c’erano delle patate cotte. Mi fa: “Tschüß!” e io: “Auf wiedersehen!” Tirò fuori cinque, mi pare, o sei di queste patate e me le diede, io le mangiai con la buccia e tutto, poi mi disse di distribuirle un po’ anche agli altri. Quando un Kapò la vide, fece la spia alla SS di scorta; la SS andò giù e prese la vecchietta tedesca, la mise di fianco, le sparò in testa e la ammazzò perché ci dava le patate da mangiare.

Poi per la strada non ci portarono più nulla da mangiare le SS. C’era uno, un ufficiale dell’aviazione, che ogni giorno portava a quattro o cinque che gli si erano sempre vicino dei pezzettini di carne cruda. Noi si mangiava anche quello perché si pensava ai cavalli, vacche, cani, gatti; tutti si pensava a queste cose ammazzate coi bombardamenti e mitragliamenti. Invece poi l’ultimo giorno ce lo fece vedere. La levava nelle parti molli dei nostri compagni. “Ah” mi disse: “e te cosa dici?”. “E che devo dire, che io anche se muoio non la mangio più”. Ma almeno così loro avranno cercato di portare la pellaccia a casa sapendo quello che era stato fatto nei campi di sterminio.

D: Poi siete arrivati a Dachau?

R: Siamo arrivati a Dachau. Ci hanno portati subito al Wöscehraum. Infilato in un mastello grande, di quelli da 200 litri con l’acqua calda. Chissà, forse l’acqua calda mi fece effetto: io stavo calando sotto, stavo affogando. I miei compagni mi videro e presi piano a bambinare la cosa. Si dice così nel gergo nelle cave là dove si deve muovere una piastra, un pezzo di marmo, si dice “bambina”. Allora mi fecero rovesciare con l’acqua e camminai almeno una decina di metri con questa acqua.

D: Italo, a Dachau sei stato immatricolato ancora?

R: Sì, non era più quello di Flossenbürg, era 154.749.

D: Lì non sei più andato a lavorare? Eri in qualche comando?

R: No, hanno cercato di mandarmici ma io d’accordo coi compagni me la squagliavo sempre. C’era Ettore, un tecnico della Ansaldo di Genova, antifascista, che mi diceva: “Te prima di partire rivolgiti sempre a me e ti dico cosa fare”. Io so che lui era in contatto con il Comitato di Liberazione Internazionale del campo, insieme a Giovanni Melodia, e io così ho fatto. Poi veniva a trovarmi padre Giannantonio e don Fortin e veniva anche monsignor Behran, arcivescovo di Praga, e Carlo Manziana, vescovo di Crema. Io che non sono un credente ho sempre creduto a quello che mi hanno detto, mi sono sempre comportato così come loro hanno voluto.

D: A Dachau te la ricordi la Liberazione?

R: Come no?

D: Dove eri tu?

R: Ero sdraiato in terra, sotto la finestra.

Al fianco da una parte e dall’altra c’erano padre Giannantonio e don Giovanni Fortin. Venne un americano, anzi prima di lui passarono monsignor Behran e monsignor Manziana, vescovo di Crema.

Ci avvertirono: “Siamo in contatto con la Croce Rossa internazionale”, tramite la radio clandestina che c’era nel campo, “non vi muovete per nessun motivo perché loro vogliono ammazzare tutti”, difatti ne ammazzarono diverse migliaia, “restate nella baracca anche se non si mangia perché da un momento all’altro saremo liberati”. E difatti fu così.

Il 29 aprile alle 17.45 arrivarono a liberare il campo. Mi ricordo che venne un militare vestito da americano e invece era un italiano che si era arruolato dopo l’8 settembre con gli americani. Un italiano di Lucca che io conoscevo. Appena entrò disse: “C’è qualcuno di Lucca qui?” “No, uno di Lucca no, ma ce n’è uno di Seravezza”, e glielo disse padre Giannantonio perché sapeva tutto di me. “Oh, come si chiama?” “Così e così.” “Oh, ma io lo conosco questo. Ci siamo conosciuti a Lucca in una certa occasione.” Disse anche in quale e io qui non voglio ripeterla perché si va a finire ragazzi, mi dispiace. In una certa casa ci eravamo conosciuti e si stava ben vestiti per picchiarci per questioni di precedenza. Lui è quello che venne e mi fece portare immediatamente ad un ospedaletto 150 chilometri distante dal campo. Ci sono stato quindici giorni; mi hanno curato bene e poi volli tornare a Dachau per stare con i miei compagni, perché stavo male lì dal punto di vista personale ma non dal punto di vista delle cure. Mi hanno curato bene finché poi mi hanno dimesso e volevo tornare a casa. Giovanni Melodia, che era il presidente del Comitato Italiano di tutti gli italiani rimasti che ora sta a Roma e sta molto male poverino di salute, ma molto molto, non mi voleva mandare a casa. Diceva: “Non sei neanche a posto, la salute è quella che è, bisogna che tu abbia pazienza”. Io dissi: “Voglio fare la prova; novantatre gradini e poi ridiscenderli.” Li montai così impettito che poi cascai dall’altra parte nella discesa perché non mi vedevano e allora partii e venni a casa.

D: Questo quando era?

R: Era il 24 giugno 1945.

D: Italino, ma quando tu sei arrivato a Dachau dopo un pezzo di marcia a piedi non avete preso anche un treno?

R: Sì, per gli ultimi 80 chilometri, dopo Saal an der Donau, dopo l’episodio di quella vecchietta poverina, ci fecero montare su dei vagoni. Mentre si era lì che si aspettava la partenza cominciò a piovere roba dentro il carro: erano patate crude ma noi le mangiammo anche crude pur sapendo che ci avrebbero fatto male. Io cominciai a urlare fuori: “Chi c’è fuori? c’è degli italiani?” Mi risposero di sì ma mi dissero anche: “Stai zitto” e stetti zitto, non parlai più.

Poi si partì. Eravamo cento per ogni vagone, quei vagoni che portavano il carbone, grandi, aperti, tutti così. Ogni tanto qualcuno moriva e per ripararsi dall’acqua ghiacciata che veniva giù io prendevo due morti e me li mettevo sopra così fino a che si arrivò a Dachau. Alla stazione vicina del campo ci fanno scendere. E chi va a Dachau ha delle fotografie della ferrovia con dei vagoni con cui siamo arrivati noi con tutti morti giù lungo tutta la scarpata della ferrovia. Io, di cento che eravamo su questo vagone, ci sono. Gli altri novantanove nella nottata erano morti tutti.

D: A Dachau non sei mai stato al Revier, non ti hanno mai curato?

R: Dopo che sono ritornato dall’ospedaletto americano sì, ci sono stato una quindicina, venti giorni.

Nencioni Nedo

Nota sulla trascrizione della testimonianza :

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

R: Mi chiamo Nencioni Nedo, sono nato a Livorno il 23.12.1927 e sfollai ad Empoli, fui preso dai repubblichini l’8 marzo 1944. A noi livornesi sfollati ci avevano messo in un ricovero di vecchi, da noi livornesi vennero con la scusa di dire che c’era stato un furto e che quindi ci volevano al commissariato per vedere chi aveva rubato. Io feci presente che io avevo smesso di lavorare e che quindi non c’era bisogno che andassi. Dice: A noi chi ci dice che…?”. Dico: “Voi telefonate là alla vetreria Cesa”. Perché io lavoravo alla vetreria Cesa e mio padre alla vetreria Taddei. Mia madre, povera donna, fu sì impressionata, perché erano le cinque del mattino, si alzò dicendo: “Che c’è, che non c’è?”. “No, signora, non è niente. Sa, c’è stato un furto, così e così, ma se il figliolo non ha fatto nulla si rinvia”. Sicché la mia mamma, povera donna, dice: “Nedo, se è così vai, poi ti rimanderanno”. Tant’è vero, povera donna, quando ritornai tante volte si è mangiata le mani di dire: “La colpa è mia, te non volevi andare”. Da lì scesi le scale e uscii in strada, però fuori c’erano già i pullman che ci presero, ci fecero salire sul pullman. Non so quanti ci presero, ma diversi livornesi che erano sfollati. Ci portarono alla caserma dei repubblichini che si trova nei pressi dell’ex vetreria Taddei, lì vicino. Ora la via non la ricordo. Poi apparve anche…

D: Scusa, Nedo, in quanti vi hanno presi?

R: In tutti a Empoli penso fossimo sulle cinquanta persone. Poi ci sono aggiunte di altri che non sono stati presi a Empoli, insomma oltre cinquanta persone. Fra vetreria Taddei e sfollati e altri ritenuti un po’ degli antifascisti presi nelle case.

D: Lì hanno preso anche il tuo babbo?

R: Sì, dentro la vetreria Taddei sì.

D: Dove vi hanno portati?

R: Dalla caserma dei repubblichini di Empoli ci portarono prima alla caserma degli allievi carabinieri di faccia alla stazione di Firenze. Però il comandante della stazione dei carabinieri disse: “No, non ne voglio sapere”. Allora da lì ci portarono a Villa Triste. A Villa Triste ci misero cinquanta per cella sotto e poi a uno a uno ci fecero salire. Si entrò in una stanza e c’erano due in borghese. Ci chiesero i documenti, presero la carta d’identità e dissero: “Vada, vada”. Io aspettava a uscire fuori, perché attesi anche mio padre. Arrivato anche mio padre si uscì e si fece tanto per andare via, quando invece ci chiamarono per risalire sul pullman. Io pensai che ci riportassero a casa, invece da lì ci portarono alle Scuole Leopoldine.

D: Dove questo?

R: Sempre a Firenze, alle Scuole Leopoldine. Alle Scuole Leopoldine ci misero quaranta per aula, quindi toccò a me, perché davanti a me c’era il mio babbo, dopo il mio babbo a me mi mandavano in un’altra aula. Io urlavo: “No, no, io voglio stare col mio babbo, voglio stare col mio babbo”. Assieme ai repubblichini c’erano anche gli allievi carabinieri e quest’allievo carabiniere mi fece: “Il tuo babbo? Quanti anni hai?”. “Sedici, disgraziato!”. “Come disgraziato? No, no, vai, vai dal tuo babbo”. Così entrai col mio babbo. Però a me non mi facevano tanto la guardia, via via uscivo dall’aula, guardavo e a un certo momento venne una signora in borghese. Fece: “Sono arrivati i tavolini per dare da mangiare a questi volontari?”. Io rientrai dentro l’aula e dissi: “Ci considerano volontari, ci hanno strappato dalle braccia delle nostre famiglie, sono capaci che ci portano in Germania a questo punto”. Per questi tavolini forse si intendevano queste autoblindo. Arrivate le autoblindo arrivò un ufficiale delle SS tedesco, a quello italiano gli disse: “Ma lassm andà”. Cioè in tedesco “lassm andà” vuol dire “lasciamo andare”. Quello italiano disse: “No, no, sono tutti una massa di scioperanti”. Così ci montarono su queste autoblindo e ci portarono alla stazione. Alla stazione di Firenze, lì a Santa Maria Novella, al binario numero 6, c’è anche una targa lì. Lì ci misero quaranta per vagone. Questo fu l’otto marzo intorno a mezzogiorno, non so, o la sera.

D: Scusa, Nedo, c’erano anche delle donne?

R: No, no. Erano tutti uomini, tutti presi per il motivo dello sciopero, però più che altro si vede che dovevano fare un certo numero. Fra quelli di Prato, quelli di Empoli io credo che quando si arrivò laggiù a Mauthausen saremmo stati sulle seicento persone. Però seicento perché ci si legò a quelli di Bologna, a quelli di Milano, a quelli di Torino. L’immatricolazione partì da 56.900, si arrivò a 57.500 quasi.

D: C’erano anche dei religiosi che ti ricordi?

R: Sì, ma questo si seppe dopo. Assieme a noi c’era anche un altro che era un principe inglese, che veniva chiamato Jim. A regola lui sapeva parecchie lingue, non fu messo nel blocco assieme a noi, ma fu messo nel blocco numero 1. Perché certi personaggi gli premevano, perché forse loro li tenevano in un momento e potevano scambiarli per prigionieri su, gli interessavano.

D: Allora, ti hanno caricato a Santa Maria Novella e il viaggio è durato quanto?

R: Fino all’11 marzo. Ci davano solamente durante il viaggio una scatoletta di pasta di pesce salata, però io ero giovane e avevo appetito e mangiavo anche quella che rifiutavano gli altri e un pane in tre. Questo era il vitto di tutto il giorno senza mai bere. Quando si arrivò a Mauthausen, così in aperta campagna ci fecero scendere e salire su al campo di stermino, si prendevano manate di neve per dissetarci.

D: Arrivati a Mauthausen cos’è successo?

R: Quando arrivammo a Mauthausen ci misero un pochino di dietro al muro chiamato del pianto, tutti incolonnati. Faceva freddo, perché molti presi dalle vetrerie erano in camicia, perché in fabbrica dentro coi forni c’è caldo. Quindi immaginiamoci in maniche di camicia, lì tutti sull’attenti, gelavano. Poi arrivò un branco di russi, saranno stati duecento. Li fecero spogliare nudi e quando si videro loro nudi si pensò: “Se ce lo fanno a noi, si muore tutti. Loro ci sono abituati, sono russi”. Poi purtroppo toccò anche a noi. Si andò giù, ci fecero la visita, ci depilarono il capo, sotto le braccia, davanti dove c’è la peluria. Poi le docce, in quattro per mappa, acqua ghiacciata, acqua bollente, lì botte perché si stesse sotto. Poi ogni cento si usciva, ne entravano altri cento, però si doveva stare lì fuori nudi. Ci avevano consegnato un paio di zoccoli all’olandese, una camicia e un paio di mutande, basta. Così sotto la neve che nevicava alla sera, ci toccava aspettare che tutti fossero pronti per andare verso la quarantena. Bisognava marciare diritti per bene incolonnati, perché se uno allungava il passo ci facevano fermare disciplinatamente, dieci minuti di sofferenza lì al freddo, quindi si cercava di andare incolonnati per bene, affinché non ci facessero stare fermi. Si entrò dentro alle baracche. La baracca era composta da due stanzoni, in questa baracca c’era un tedesco che era un capoblocco, era un giovane che aveva ammazzato il babbo e la mamma. Perché i suoi genitori erano un po’ dei benestanti, però lui aveva il vizio del gioco, quindi sperperava un pochino. Sicché i genitori per tenerlo un po’ al passo, questo prese e ammazzò i genitori per spogliarli dei loro beni. Tutti i Kapò e i capiblocco, la maggior parte erano tutti delinquenti, criminali per reati comuni e Hitler aveva dato a loro una possibilità di potersi riabilitare servendo la patria, facendo gli aguzzini a noi. Loro erano i nostri carnefici, loro ci potevano ammazzare senza neppure rendere conto alle SS del perché e per come. Noi dipendevamo tutto da loro. Con le SS poi a volte ci si aveva a che fare.

D: Nedo, scusa, il tuo babbo era sempre con te?

R: Sì, perché appena si arrivò a Ebensee, questo successe perché l’immatricolazione a noi fu fatta due giorni prima della partenza per Ebensee da Mauthausen. Ci fu fatta l’immatricolazione, ci rifù fatta la depilazione e tutto, ci fu dato il vestiario, camicie, mutande, scarponi, giacca, cappotto e cappello, in tedesco Muetze. Quindi ci fecero le fotografie col numero di matricola e l’indomani si partì tutti incolonnati per Ebensee.

D: Il tuo numero di matricola te lo ricordi?

R: Sì, il mio numero di matricola era 57.302, siebenfuenfzigtausenddreihundertzwei. Mentre mio padre aveva 57.301, perché lui si chiamava Nencioni Giuseppe e io Nencioni Nedo, perché l’immatricolazione andò e andava sempre per ordine alfabetico.

D: Quindi la quarantena voi l’avete fatta a Mauthausen…

R: Noi la quarantena si fece non so se appena undici giorni. Da lì si arrivò a Ebensee.

D: Dicevi, vi hanno mandato a Ebensee?

R: Sì, e siamo arrivati a Ebensee..

D: Ma come vi hanno portati a Ebensee?

R: Col treno. Da Mauthausen fino a Ebensee in treno, però il treno sempre si fermava al di fuori della stazione, un pochino. Quindi poi tutta a piedi passeggiando per sentieri dove non c’erano persone. Si arrivò a Ebensee, al campo di Ebensee.

D: Quando questo?

R: Non so se il 23 o il 24 marzo del ’44. Mi ricordo che c’era la neve alta, perché Ebensee come hai visto è un po’ in un luogo… Il capo campo incominciò a chiamare mettendo chi a destra chi a sinistra, corsero le voci, a volte lì subito correvano le voci come il vento, sentii che i giovani venivano mandati da un’altra parte. Quando fu chiamato il mio babbo e dopo io che mi mandavano da un’altra parte, iniziai a dire: “Voglio stare insieme al mio babbo, voglio stare insieme al mio babbo”.

Il capo campo, che era un politico, capì che eravamo babbo e figliolo, perché Nencioni Giuseppe e Nencioni Nedo nelle schede, quindi mi mise assieme a mio padre, anche se lo scrivano del campo non gli stava bene a mano, dicendo: “No, lui è giovane, dieser Junge, dieser …”, dicendogli che non andava bene, perché di giovani di sedici anni, io avevo sedici anni, come me ce n’era altri, ci fu il figliolo del dottor Baroncini che fu rimesso assieme al suo babbo, ci fu il figliolo del Gasparri che anche lui fu messo assieme al suo babbo e molti dei giovani furono rimessi insieme ai genitori. Infatti io stetti nel blocco assieme a mio padre. Mentre Saffo e altri, Saffo fu messo a fare lo stubedienst subito nell’infermeria, perché quando si arrivò noi c’era un’infermeria sola, dopo nacque anche la seconda infermeria. Mentre ci furono altri di Firenze o giovani che furono messi alle cucine.

Io, come ripeto, imparai presto a parlare tedesco, perché ogni volta che davano un ordine, l’ordine lo davano in tedesco, anche se dicevano: “Gehe ins Magazin und bringt Schaufel”, non dicevano in italiano: “Vai in magazzino e prendi la pala”. Quindi fra Magazin e magazzino si capiva, quindi uno andava in magazzino e si trovava un po’ inebriato, perché non sapeva cosa prendere, cosa portare, aveva paura di toccare, perché là erano botte.

E le botte non erano un ceffone e via, ma finché non vedevano il sangue non smettevano. Poi magari quello aspetta, aspetta, arrivava il Kapò e: “Das ist Schaufel”, “questa è la pala” e così erano botte, ripeto. Io imparai presto, anche il numero era tanto importante, perché quando chiamavano non chiamavano per nome, ma chiamavano per numero e c’erano tanti, come il mio babbo, che sapevano dire solamente “ja”, “nein” e basta. Poi magari il numero lo aveva, perché io gli insegnai subito e non è che fosse un uomo che non era intelligente, per carità, però non tutti erano portati.

Ripeto, io ebbi la fortuna di cominciare presto e poi anche di incontrare persone che mi hanno aiutato. Mi ricordo la prima mattina quando ci fu la sveglia, alla sveglia ci mandarono a lavarci, dopo ci diedero il caffè, che poi era una sbroccia di acqua bollita con l’erba, però purtroppo si beveva per avere un qualche cosa di caldo in corpo. Anche l’acqua appena arrivati si beveva, venne la diarrea e tanti morirono per la diarrea, poi si trovò il verso lì a Ebensee di curarla, perché là le medicine non c’erano, il vitto nemmeno, ma si curava mangiando la legnite.

Questa legnite faceva da cemento in corpo, poi si mangiava anche per fame, poi si scoprì che questa ci guariva dalla cosa. A me toccò smettere perché non andavo più di corpo. Il primo giorno quando alla piazza dell’appello il capo campo scandì: “Arbeit Kommando formen” noi si rimase un pochino tutti inebetiti, che vuole questo? Però si videro le persone che c’erano prima di noi scappare ai lati e quindi anche noi si andò ai lati. A me un Kapò mi prese e mi infilò nel suo comando, perché c’erano i comandi che erano formati da cento persone.

Il mio comando… Arrivavano carrelli fuori dalle gallerie pieni di pietre, queste pietre poi bisognava rovesciarle e fare una strada ferrata. Io inesperto com’ero vidi sganciare il carrello e lo feci anch’io, sganciai il mio carrello, poi guardavo un pochino le pietre come fare, se buttarle di sotto, se volevano alzarle. Nel frattempo venne il Kapò, incominciò a darmi manganellate nel capo, io continuavo a buttare sangue dal naso e dalla bocca, ruzzolai per tutta la scarpata e con l’acqua, un secchio d’acqua mi fece rinvenire, mi riportò su e poi mi fece: “Wiviel Jahre du?”. Io non capivo, rimasi intimorito, come? Accanto a me c’era un avvocato romano, era un ebreo e mi fece: “Ha chiesto quanti anni hai”.

Io gli dissi sedici anni e questo gli dice: “Sechzehn Jahre habe”. “Ach so” fece questo, “Ah sì” e andò via. Io però con la coda dell’occhio ogni volta che lo vedevo avvicinare prendevo la pala e mi davo da fare per dodici. Questo Kapò forse non mi avrebbe fatto più nulla, però purtroppo il timore c’era sì. L’indomani mattina quando ci rifù l’appello e fu riscandito: “Arbeit Kommando formen” io andai in un altro comando per scansarmi da questo poco di buono. Mi ricordo che in quest’altro comando si trasportava delle tavole lunghe in due. Sarà stato verso mezzogiorno, mancava poco per andare a mangiare, capita questo Kapò, mi prende, perché io ero in testa e dietro a me c’era un altro, si portava questa tavola. Mi toglie di sotto, va in terra la tavola e mi fa: “Warum kommst du nicht mit mir arbeiten?”, “Perché te non sei ritornato con me a lavorare?”. Intervenne l’altro Kapò, si presero fra di loro e io ripresi la tavola e con questa andai via. Poi mi capitò un altro comando, in quest’altro comando facevano le fosse non biologiche, ma per gli spurghi delle acque.

C’erano questi tubi di cemento grandissimi che bisognava farli rotolare e poi con dei cosi sollevarli e buttarli dentro. Io gli dissi a quest’ingegnere: “Perché non mette delle tavole così sopra a questa fossa? Si rotola ugualmente e poi si tira una tavola da destra, una da sinistra e poi si fanno scivolare”. Questo ingegnere mi guarda, mi fa: “Wiviel Jahre du?”.

“Sechzehn Jahre”, perché già cominciavo a immagazzinare tutto quello, non so, il pane “Brot”, le scarpe “Schuhe”, tutto quello che sentivo che era necessario lo immagazzinavo, ecco come ho imparato a parlare il tedesco.

Non so se tu vedi che ogni volta che vengo là parlo, per carità, non parlo come parlare l’italiano, ma mi so abbastanza difendere. Quest’uomo mi prese in simpatia, mi ritenne un ragazzo intelligente, mi disse: “Te che mestiere fai?”, io gli dissi: “Ich arbeite Glas”, io lavoro il vetro.

Mi portava rispetto. Nel mio stesso blocco c’era un Kapò che non era tedesco, era un polacco, però siccome era di quel tratto che la Germania disse: “E’ Germania” era ritenuto tedesco. Assieme a lui c’era un suo amico che era stato a lavorare in Spagna, mi disse se volevo andare a lavorare con lui, mi avrebbe messo in un posto buono. Erano già passati due mesi. Lì per lì ci pensai, perché con questo stavo bene perché ero rispettato, nemmeno il Kapò mi poteva quasi più toccare.

Solleticato un pochino da queste parole, dissi di sì. Infatti andai a lavorare con lui e questo mi mise in un magazzino. In questo magazzino conobbi questo Alexander, io che si chiamasse Alexander o come… Solamente quest’uomo quando mi vide, mi guardò un po’ perplesso, poi mi fece: “Wiviel Jahre du?”, io: “Sechzehn Jahre habe”, “Bist du Jude?”, cioè “Sei ebreo?” “No, no, io, come vede, triangolo rosso, sono considerato politico”.

Questo tentennò il capo, perché sedici anni, combinazione poi l’ho saputo dopo che anche lui aveva sedici anni quando lo misero lì a lavorare, quindi tentennò il capo a sentir parlare di politico. Quest’uomo tutti i giorni mi dava un pezzetto di pane o per esempio diceva: “Sai, oggi ho fatto i maccheroni, tieni”, insomma mi dava la pastasciutta, che poi era pasta bollita nel latte. Insomma quest’uomo mi aiutava, poi mi dava sempre notizie su quello che era il fronte russo, il fronte americano, mi dava quell’incoraggiamento, anche queste notizie mi davano la possibilità di dire “Presto finisce la guerra”. Rientravo nel campo, dicevo agli altri: “Sapete…”.

Tant’è vero anche quando ci fu che Mussolini trovò l’accordo di liberare tutti i prigionieri militari, io portai la voce dentro il campo e mi dissero: “Non ti illudere, noi da qua non usciamo più. Non siamo come prigionieri militari”. Infatti fu così. Quando fu liberata Firenze mi disse: “E’ stata liberata Firenze”, mi fece vedere il giornale.

Assieme a me c’era questo amico di questo Kapò che era stato a lavorare in Spagna. La SS aveva bisogno di un posto dove mettere delle patate, perché arrivarono tante patate e non avevano il posto. Chiesero se lui le metteva nel suo magazzino, questo disse di sì. Questo che era assieme a me mi disse: “Perché non chiedi due patate? Se gliele chiedi tu, te le dà. Si mangiano, si fa a metà io, te e il tuo babbo”.

Da principio a metà io e lui non ci sarei stato, perché mi sentivo di compromettere quest’uomo, ma sentendo dire anche mio padre… Infatti gliele chiesi. Quest’uomo mi disse: “Sì, e come le mangi?”. “Così”. “Ah no”, dice, nella mia stanzina c’era una stufa, c’era una bacinella con l’acqua.

Dice: “Fai un tappo di legno, così le metti a cuocere, tu le tappi e se anche viene il Kapò o la SS non vanno a vedere cosa c’è, lasciano perdere e tu puoi mangiare”. Così si faceva tutti i giorni, si mangiavano queste patate, ne davo la parte al mio babbo. Un giorno mentre eravamo lì a sedere e si mangiavano le patate, perché tornando un passo indietro questo tedesco mi disse: “Guarda, tanto ci sono le porte a vetri, tu ti metti lì e non fa nulla.

Se poi vedi arrivare qualcheduno, un Kapò o la SS, ti metti a ungere un dado, fai qualche cosa tanto per far vedere che fai. Quindi si vedeva la gente se arrivava o no. C’eravamo messi a sedere mentre si mangiavano queste patate, arriva un Kapò, era uno zingaro sicché quest’uomo si trovò nei guai, corse per non farci picchiare, gli offrì 1.000 marchi, gli offrì sigarette.

L’indomani purtroppo questo tedesco non c’era più. Io sentii il rimorso di dire che quest’uomo era venuto a fare la fine mia, è colpa mia. Anch’io fui mandato via da lì. Quello che entrò al posto di questo tedesco, disse: “Aspettate, aspettate, lo voglio vedere”, infatti mi guardò e disse: “Sì, va bene, vai via”.

Da lì fui mandato, erano già arrivate dentro le gallerie queste botti, cisterne per la lavorazione del petrolio, per la raffinazione, però si dovevano rivestire. Si doveva mettere prima una fascia che era larga più di un metro, lunga ,che c’era la lana di vetro, si doveva tappare così, col filo di ferro poi legarli.

Quando era tutta lavorata e rivestita di questa roba si doveva mettere una rete metallica. A questa rete metallica erano appiccicati già dei cosi di stucco, di gesso. Anche questa rete poi rivestita, poi si doveva murare col cemento e fare una specie di thermos per il freddo. Lì c’era un maresciallo dell’aviazione che era un ingegnere, avevano bisogno di manodopera, con noi c’erano civili, c’erano questi dell’aviazione, ma anche della marina che ormai l’aviazione era bell’e disfatta.

Quindi furono messi lì. Questo maresciallo fumava, a me venne voglia, vidi che era quasi alla cicca e gli feci: “Feldwebel, gibt mir deine …?”, cioè “Maresciallo, mi dai la tua cicca?”. Quest’uomo incomincia a urlare, pareva che mi mangiasse. Prese e andò via, io dissi: “Mi è andata bene”.

Ritornò e mi fece: “Guarda, vai lì di dietro che ti ho messo una sigaretta, ma stai attento, pass mal auf, stai attento”. Presi, andai a fumare questa sigaretta e anche quest’uomo mi chiese quanti anni avevo. Quando gli dissi l’età, anche lui sedici anni, guardò, rimase ancora e disse: “Ma che, sei ebreo?”.

“No, io non sono ebreo”. Sarà stato verso le quattro, mi disse: “Guarda, vammi a lavare questi gambali”. Io presi i suoi gambali, ci andai anche un po’ più contento di dire “Ho trovato una persona umana”, ci andai con più enfasi per rispetto. Ci stetti anche più del solito. Quando tornai mi guardò e mi disse: “Sei tanto scemo, ritorna a lavarli”. Proprio per farmi perdere tempo e lavorare il meno possibile.

Era già passato un mese, bisognava andare a fare i rivestimenti fuori a questi tubi, perché venivano i vagoni, il treno con questi vagoni cisterna a portare il grezzo e a prendere il raffinato. Quindi c’era il succhiò per buttare e c’erano queste tubature fuori che anche queste andavano rivestite che sennò il gelo…

Capisci? Un giorno mi disse, perché ormai aveva questa confidenza con me, si parlava del più e del meno, non di politica, per carità, però si parlava magari dell’Italia, il clima, la pastasciutta, queste cose. Quest’uomo mi disse: “Guarda, io proprio mi sento male, perché qui il lavoro va a rilento, io picchiarvi non vi voglio picchiare, però io sono nei guai, perché qui bisogna che questo lavoro vada avanti”.

Io gli dissi: “Vede, maresciallo, tutt’al più Lei c’è e se ne accorge che con questo freddo lavorare fuori alle intemperie con la neve sulle spalle o gli acquazzoni, il freddo, le mani sono rattrappite, si tocca il ferro…”.

Questo maresciallo ci fece dare una specie di tuta impermeabile che arrivava fino qui. Il comandante del campo delle SS lo richiamò al dovere, quasi lo voleva ficcare dentro al campo anche lui. Disse: “Te sei un po’ buono, vuoi fare sfuggire queste persone aiutandole. Lo sai che a questi non si deve dargli nulla”.

Questo gli disse: “Senta, prima di tutto non mi interessa delle vostre cose, a me interessa che vada avanti il lavoro, perché la ditta vuole il lavoro. Siccome io ho constatato che queste persone non possono lavorare in queste condizioni, sia questi sia che ne vengono altri, sono uguali.

Io il lavoro voglio che vada avanti. Se non vi va bene, voi gli fate un disegno dietro alla tuta che sono del campo di sterminio”. Infatti ci fecero una KZ, però queste ci rimasero.

Succede che mio padre, pover’uomo, non camminava più, perché aveva subito un infortunio sul lavoro già tanto tempo prima, mi pare verso il mese di giugno. Andò a sganciare un vagoncino, andò per sganciare l’altra parte, ma l’altra parte era bell’e sganciata, quindi tutte le pietre gli vennero addosso.

Gli furono colpite più che altro le gambe. Lo salvarono russi e polacchi, erano assieme a lui a fare questo lavoro lì fuori, lo misero in infermeria. Nell’ottobre o novembre gli si rigonfiavano queste gambe, sì, nell’ottobre. Gli si rigonfiavano e quest’uomo non camminava più. Gli facevo: “Babbo” e lo aiutavo a ritornare via, ma se non si camminava a passo ci sparavano e ci ammazzavano tutti e due. Sicché gli dicevo: “Babbo, marca visita”.

Quest’uomo però a marcare visita aveva paura, perché tanti marcavano visita anche se avevano la TBC, bastava dicessero di no che gli davano venticinque bastonate e con venticinque si moriva. Poi, pover’uomo, marcò visita, infatti fu riconosciuto. Da lì fummo presi tremila e duemila da Mauthausen e mandati a Wels. A Wels c’era la ferrovia che era stata distrutta da un bombardamento.

Ci presero e ci portarono a riattivare la ferrovia là a Wels. Passò del tempo, mi ricordo una volta, c’erano dei militari e uno gli fece: “Vedete quelli lì? Sono peggio di noi”. E questi: “Ma che, ce n’è italiani?”. Io gli dissi: “Sì”, e questo gli fece: “Non gli parlare, perché è pericoloso”. Io capii che tra di loro prigionieri militari… Un giorno, perché quando ci facevano prendere le lungarine non è che prendessero una squadra e la mettessero a…

No, diceva: nove persone, una lungarina di undici metri, come va va. Se quello non ci arrivava, ci metteva la mano e la forza non ce la faceva. Una volta, mi ricordo, ero in testa. C’erano le buche, perché i bombardamenti avevano fatto delle buche. Molti ebrei facevano i furbi, io mi intrappolai e mi sbranai una mano. Quello della SS mi prese e mi portò in infermeria, perché succedeva questo, che se ti facevi male sul lavoro, lì sì, ma a Ebensee ti mettevano da una parte e finché non si ritornava al campo…

Se eri morto dissanguato, eri morto dissanguato. Finché non si ritornava al campo in infermeria non ti portavano. Però in infermeria se ti eri fatto male, sì. Ma se ti avevano picchiato te ne davano altrettante, quindi non conveniva andare in infermeria. Ci si medicava col piscio.

Ci si pisciava in mano e ci si medicava. Uno delle SS, ma era giovane, avrà avuto venticinque, ventisei anni, col mitra mi portò dentro la stazione a medicarmi. Fui medicato, si tornò via. Quando siamo all’ultima panchina della stazione, mi fa: “Achtung! Komme zurueck und sitze”, cioè “Fermati, vieni con me a sedere”. Mi metto a sedere, quest’uomo tira fuori il portafoglio e mi fa vedere la fotografia.

C’era sua moglie, il suo bambino o la sua bambina, ora io non mi ricordo. Gli feci: “Questa è tua moglie? Sì? Questa è il tuo bambino? Sì? Sono belli”. Dice: “La guerra è orrenda. Forza, forza, tanto fra poco sta per finire. Io forse la mia famiglia non la vedrò più”. Io zitto, perché temevo che fosse anche un po’ un tranello per farmi…

Quest’uomo butta giù lo zaino, tira fuori il pane, ne fa due fette, prende la marmellata, ci mette la marmellata e me lo offre. Lì per lì indugio, poi la fame, la presi e la mangiai. A volte degli episodi anche umani si sono verificati. Da lì, siccome anche la SS scappava perché aveva paura più che altro del fronte russo, perché erano più vicini i russi. I russi non li contrastava più nemmeno l’avanzata.

Avevano paura, perché sapevano che le avevano fatte. Quindi scappavano. La resistenza era più dalla parte occidentale. Prima di abbandonarci, ci riportarono a Ebensee. A Ebensee ci fecero rimontare su vagoni, non vagoni bestiame, ma questi carri che ci portano il carbone, aperti.

Mi ricordo, erano i primi di aprile, verso il 15 aprile. Quando vidi il mio babbo l’indomani, sì, verso il 20 aprile. Però nevicava, c’era ancora freddo. Mi ricordo che si arrivò a Ebensee, vivi fummo in trecento soli, gli altri erano tutti morti in treno. Se uno scendeva per orinare, poi attaccava la rincorsa e faceva in tempo a riprendere il treno, perché andava piano. La Liberazione fu un po’… Come ti posso dire?

Presero tutti, ci misero in una baracca e non ci mandarono a lavorare. Tanto siamo alla fine, quindi non ci mandano a lavorare. L’indomani mattina ci fu l’appello, ci si accorse tutti che era prima. Si pensò che c’era qualcosa di nuovo. Il comandante del campo, delle SS chiamò tutti gli interpreti, cosa mai fatta, perché se c’era un’esecuzione veniva fatta e noi tutti sull’attenti, si doveva vedere. Quella volta, invece, volle tutti gli interpreti e disse: “Da oggi sarete tutti liberi, non perché noi siamo stanchi di tenervi, ma da un momento all’altro ci saranno i vostri liberatori.

Però, come sapete, in ogni guerra i morti ci sono da ambo le parti. Però voi avete la fortuna che avete le gallerie, entrate nelle gallerie così vi salverete”.

Poi lo dissero in francese, ecc. Tutti si disse di no. Però loro il tempo materiale non l’ebbero per costringerci a portarci, quindi finito il discorso lo stato maggiore scappò tutto. Rimasero solamente le sentinelle. Le sentinelle verso le 9.00 della mattina un fischio e andarono via anche loro.

Andate via anche loro si sentì dopo poco che avevano minato le gallerie, quindi scoppiarono le mine. Da noi: “Gli americani, gli americani” e tutti a correre da una parte, “di là gli americani” e correre dall’altra. Poi da ultimo si sfondò la porta, si sfondò, io no, diciamola franca. Io se avessero tardato qualche altro giorno non ce l’avrei fatta neppure io a ritornare.

Tant’è vero, l’ultima ferita che ebbi la medicarono gli americani con la penicillina e mi dissero: “Guarda, quando ritorni in Italia sei bell’e guarito”. Infatti in Italia era bell’e secca. Sfondata la porta entrammo nelle baracche delle SS e si trovarono le valigie con vestiti civili, mitragliatrici, macina-pistole, pistole. Si rientrò dentro il campo e si incominciò ad ammazzare i Kapò che s’incontrarono, anche se qualcheduno riuscì a svignarsela.

A me a Ebensee anche il Sindaco di Ebensee mi disse che questo Kapò zingaro è stato a Ebensee parecchio tempo, capisce? Ora, non so quanto, ma mi disse che è stato lì a Ebensee lui. Questo è un pochino il tutto.

D: Nedo, ascolta, il tuo babbo?

R: Il mio babbo, ti ripeto, lo vidi quando ritornai da Wels. Quando lo vidi ci si abbracciò dicendoci: “Forza, fra poco è finita la guerra”. Dice: “Fra un po’ è finita davvero, vedrai che io…”. “Cosa che te?”. Dice: “Sai, domani mi mandano a lavorare”. Dissi: “Meglio così perché so che le razioni saranno ridotte, a noi un pane invece di darcelo in tre ce lo daranno in sei, ma a voi dentro l’infermeria ve lo daranno in nove.

Quindi anche il mangiare è sostegno, l’alimentazione… E’ bene che tu riprenda il lavoro”. Ma lui forse se ce lo tenevano era anche perché dava una mano a fare il barbiere, perché lui quando si presentò lì al blocco che chiesero se c’era nessun barbiere, il mio babbo disse: “Io”.

E gli spagnoli: “italiani no, italiani no”. Perché, come tu sai, questi spagnoli erano tutti scappati dalla Spagna per via della rivoluzione spagnola e, come tu sai, Mussolini mandò i fascisti laggiù a combattere. Questi però non si rendevano conto che tanti italiani per non andare a combattere a fianco a loro e tanti altri italiani, come per esempio mio padre, facevano le collette per mandargli i quattrini per potersi comprare le armi per combattere. Però io tutto questo non lo sapevo, sentii “italiano no, italiano no” e quindi non fu messo. Mentre poi Grazzini era veramente barbiere e lo misero come barbiere, perché sennò si sarebbe salvato anche lui.

D: Il babbo è mancato a Ebensee?

R: Sì, lui è morto a Ebensee, però nessuno mi ha saputo dire che è morto, poi io non l’ho visto. Nessuno me l’ha saputo dire. Non me lo avranno saputo dire perché forse non me l’hanno voluto dire per le condizioni in cui ero. Ti ho detto, quando fui liberato non ero in condizioni proprio…

Poi andando in giro si trovò qualcheduno delle SS, si è riportato al campo, si è ammazzato. Poi il comandante americano ci fece l’appello dicendo che o si faceva finita o anche loro mettevano le sentinelle. Noi si disse: “Lei dice bene perché non ha subito quello che abbiamo subito noi”. “Sì, avete ragione, per carità, lo so benissimo, per carità. Però se si fa ognuno giustizia da sé, sarà un odio che andrà avanti. Invece un domani ci sarà un tribunale e poi la giustizia fatta”. Lo sai anche te quello che è stato.

D: Nedo, tu sei stato liberato il 6 maggio, no?

R: Sì.

D: Del ’45?

R: Sì.

D: Quando sei rientrato in Italia?

R: In Italia dopo un mese. So di essere arrivato a casa il 25 giugno. Perché scappai dal campo di Bologna. Arrivato a Bolzano mi volevano ricoverare e io no, perché volevo rivedere il mio babbo, perché tanti mi dicevano: “Ritorna, è capace, con la confusione che c’è stata”. Ho detto: “E’ a casa”. “Quindi sono infelici perché manchi te, è capace, via, andiamo, andiamo”. Mi convinsero a ritornare, da Bolzano io che dovevo essere ricoverato anche per questa ferita, poi fu segnato che il malato di Ebensee esce….

Uno disse: “Segnali anche la ferita”. “Si, ma lasciala fare”. “No, segnala”. Ma non me la volle segnare questa ultima ferita. Da lì portarono a Verona. Ci portarono su un camion da Bolzano a Verona. C’erano gli autisti tedeschi, loro andarono a mangiare e a noi nulla. Quando si arrivò a Bologna, io andai quando ci davano il rancio, chiedevo per me, per Nencioni e per Nedo.

Ero sempre io ma ne prendevo tre, la fame… Poi sentii che c’erano persone che erano lì da quindici giorni, dodici giorni. Io assieme a quel livornese, eravamo quattro o cinque, ci si organizzò. Si poteva uscire, però non con la roba.

Allora dissi: “Guardate, voi andate fuori, io poi vi passo la roba, poi esco anch’io e si va via. Sennò qui…”. Infatti si trovò un camion che andava a Roma, da Firenze ci passa, sentiamo se ci porta. “Sì, sì” dice. Voleva dei quattrini, ma qua quattrini non ci sono, tutt’al più ci sono due stecche di sigarette americane, perché questa roba ci avevano dato. “No, no”.

Se avessi avuto la forza, avrei rovesciato il camion. Si montò sui vagoni merce lì alla stazione, da Bologna si arrivò a Firenze, da Firenze a Empoli. Mi ricordo che strada facendo ero vestito mezzo tedesco, mezzo americano e mi guardavano alla mattina prima delle 5.00. Mi fecero: “Ma che, sei Italiano?”. “Sì, sì”. “Da dove vieni?”. Gli raccontai dalla Germania. “Dove stai? Vado ad avvertire tua mamma”. Mi pare vero, infatti questo andò.

Toselli Dina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Prego, come ti chiami?

R: Dina Toselli. Sono nata a San Giovanni in Persiceto il 5 gennaio del 1926.

Se devo raccontare il perché sono andata a finire nel campo di concentramento, vado indietro al 5 dicembre del 1944.

Eravamo a letto…

D: Dove, Dina, scusi?

R: Ad Amola di San Giovanni in Persiceto, eravamo a letto, abbiamo sentito bussare. Mio padre ha detto: Non andate ad aprire”.

E io ho detto: “Anche se sono i tedeschi, bisogna andare ad aprire papà, altrimenti questi ci fanno fuori tutti subito a letto”.

Mi sono alzata, sono andata ad aprire e c’erano i tedeschi e hanno arrestato mio padre che si chiama Aldo ed era del 1903 e mio fratello che si chiamava Dino che è del 1927 e li hanno portati fuori ammanettati.

Io mi sono alzata.

Intanto i tedeschi avevano cominciato a frugare per la casa, e una cosa che mi è rimasta molto impressa nella mente, è che due tedeschi sotto il sottoscala dove mio padre e mia madre avevano messo il granoturco sgranato, cercavano qualcosa sotto.

Naturalmente non hanno trovato niente perché non c’era niente.

Poi, una mia vicina di casa mi disse: “Vieni che andiamo a San Giovanni in Persiceto e andiamo a vedere se qualcuno ci può aiutare, qualche autorità, qualcuno”.

Allora mi sono messa il cappotto su quello che avevo, sul grembiule e ricordo che avevo le ciabatte che mi aveva fatto mia madre, con la suola di copertone.

E ci siamo avviate. Come ci siamo avviate, ci hanno preso e ci hanno arrestato.

D: Chi, in questo caso, sempre …?

R: Sempre i tedeschi. Dopo avere fatto il rastrellamento ed hanno arrestato altre persone, andarono in altre case, tutti i vicini, tutti i ragazzi. Ci hanno portato nella Chiesa di Amola.

Io non ho una buona impressione della Chiesa e mi dispiace dirlo, non si è fatto vedere nessuno.

Ci hanno portato in Chiesa, e poi ricordo che mio padre lo avevano legato con le mani dietro alla schiena e la corda al collo e lo tiravano con molta poca delicatezza.

Poi io cercavo di uscire da questo imbroglio, dicendo che avevo un passaporto, infatti lavoravo presso un’azienda ad Anzalo dell’Emilia e avevo un passaporto, un lasciapassare e l’ho presentato.

Allora sembrava quasi quasi che mi lasciassero andare via. Invece è arrivato qualcuno, che io non ho neanche idea di chi sia e non ricordo neanche come fosse che disse: “No”. Così sono rimasta con gli altri.

Poi è passato del tempo e ci hanno portato a Sant’Agata in un posto, era una palestra, ci hanno messi tutti con la faccia contro il muro e lì c’erano i tedeschi con le armi spianate, e i cani. E io ho pensato che ci facessero fuori.

Eravamo in molti, siamo passati da Anzalo dell’Emilia che avevano già fatto un’altra retata ad Anzalo dell’Emilia e ci hanno portato a San Giovanni in Monte.

E lì, io con le ciabatte in mano perché si erano sfasciate queste ciabatte, e avevo messo i piedi sotto il cappotto, il 5 dicembre, dentro un camerone di una prigione, è passata una suora e mi ha detto: “Stia composta, tiri giù le gambe” e siamo rimasti lì fino al giorno che ci hanno portato a Bolzano.

D: Quella notte che ti hanno arrestato il padre, tuo fratello e poi te e la tua vicina di casa e poi hanno proseguito il rastrellamento, in quanti, più o meno?

R: Non so, non te lo so dire. So soltanto che c’ero io, mio padre, mio fratello e mio cugino.

D: C’erano soltanto i tedeschi o anche italiani?

R: Anche dei tedeschi perché una volta, quando arrivammo dentro a San Giovanni in Monte ci hanno preso e mi hanno fatto un interrogatorio, non ricordavo più…, e volevano sapere qualcosa dell’ospedale Maggiore. Allora io ho detto: “Sì, ci sono stata nell’ospedale, ma non sono stata all’ospedale Maggiore. Sono stata all’ospedale di San Giovanni in Persiceto perché avevo una pleurite essudativa”.

Allora lui mi ha guardato e ha detto: “No, tu eri all’ospedale Maggiore, tu conosci Brunello” e dissi: “No, io non conosco nessun Brunello e all’ospedale Maggiore non ci sono stata”.

“E Brunello?” “Non lo conosco”.

“E Alfredo?” Dico: “Quello sì, abita a due passi da casa mia”.

“Brunello e Alfredo sono la stessa persona”.

“Se lo dite voi, io non lo posso sapere”.

D: Queste affermazioni chi le ha fatte, un italiano o un tedesco?

R: Due tedeschi che a un dato momento uno di quelli mi ha cominciato ad interrogare e mi ha dato un ceffone e io dopo ho chiesto di andare al bagno perché tra il ceffone e tutto il resto avevo bisogno di andare in bagno e lui aveva detto: “No, non ti lascio andare” e poi è andato via.

E l’altro che è rimasto, si sa come fanno, ci sono i buoni e i cattivi, il buono ha detto: “Perché è così arrogante?” E ho detto: “Io non sono arrogante, ho risposto alle domande che mi avevano fatto e più di dire quello che dovevo dire, non so cosa…” Ho detto: “Mi fa andare in bagno” e mi ha detto: “Adesso la faccio andare in bagno”.

Poi è finito l’interrogatorio, hanno interrogato anche gli altri e la sera ci hanno riportato a San Giovanni…

D: Scusa, nell’interrogatorio non hanno fatto…

R: No, ai Giardini Margherita. Come fa a saperlo che io non lo ricordavo più?

D: Un’altra cosa: quando ti hanno portato a San Giovanni…, tuo padre e tuo fratello…

R: Anche loro, ma gli uomini erano da una parte e le donne erano da un’altra.

Noi, quando siamo partiti, perché noi siamo partiti il 23 o il 22 e siamo arrivati il 24 dicembre, dunque eravamo lì da un bel po’, da quindici giorni circa.

Io sapevo che avevo mio padre, e c’era uno degli SS, un ragazzotto come me, a cui io dicevo: “Fammi parlare con mio padre, che cosa ti costa?” E lui diceva: “No, non posso”.

E io dicevo: “Fammi parlare con lui”.

Sembrava quasi che fosse convinto e poi avrà chiesto a qualcuno se potevo, se non potevo, non me l’ha fatto vedere.

D: Neanche tuo fratello?

R: Io non li ho più visti neanche da Sant’Agata, non ho mai più visto nessuno dei due.

D: E tu hai subito solo un interrogatorio?

R: Solo un interrogatorio.

D: E sei stata accusata di che?

R: Di fare parte dei partigiani.

D: E tu facevi parte dei partigiani?

R: Se devo dire proprio la verità ero su quella strada, ma ero su quella strada, non avevo ancora fatto niente. Mio padre era un vecchio antifascista, mio fratello sì, invece, faceva parte di un gruppo.

Mio padre era un vecchio antifascista, quando veniva su Benito Mussolini, lo prendevano e lo cacciavano in galera. Tant’è che lui non trovò mai da lavorare, in Italia, era sempre fuori a lavorare.

Prima hanno bonificato l’Agro Pontino, poi è andato in Africa, poi è andato in Albania, insomma lui poveretto non era mai a casa.

Lui voleva mantenersi, che poi in effetti…, era sempre via, stava via due anni, tre anni, poi veniva a casa e stava a casa due o tre mesi, poi tornava via, la sua vita era questo…

D: Lì, a San Giovanni …, in carcere sei rimasta quindici giorni?

R: Circa. Siamo stati arrestati il 5, siamo partiti verso il 22. Al 24, la vigilia di Natale eravamo a Bolzano il 23, adesso con esattezza le date non le ricordo molto bene.

Nel lasso di tempo siamo rimasti sempre lì.

Io non ho avuto niente altro che questo interrogatorio.

Non ricordo agli altri cosa sia successo, se hanno interrogato anche gli altri, perché non lo ricordo assolutamente, però lì ci siamo stati un po’.

D: Hai avuto contatti con i tuoi parenti?

R: No. Avevo solo la mia mamma, e la mia mamma aveva un bambino piccolo, perché fra me e il mio fratello più piccolo ci sono sedici anni di differenza e allora il bambino piccolino aveva due anni, non avrebbe neanche saputo fare, perché mia madre era una donna di una certa epoca, e non era mai andata fuori da San Giovanni in Persiceto.

Siamo stati anche a Nettuno perché papà lavorava in quei paraggi, ci siamo stati per sei mesi e poi siamo tornati a casa.

D: Dopo circa quindici giorni di carcere a San Giovanni in Monte, cosa è successo?

R: E’ successo che siamo andati a Bolzano in un camion, dove c’erano gli uomini e le donne, tutti assieme, un camion unico.

Erano più camion perché eravamo in novantanove, novanta uomini e nove donne.

D: Mentre invece durante il rastrellamento le donne erano tante?

R: No, durante il rastrellamento le donne erano sempre molto poche. Io ricordo Maria e poi un’altra, sempre dell’Amola che si chiamava Nina, noi tre e basta. Le altre erano o di Antolla o di Calderano di Reno, come la Torrini.

D: Se tu ti ricordi, sul camion con voi, c’erano delle sentinelle, delle guardie?

R: Probabilmente sì, ma anche se non ci fossero state, dove saremmo andati? Il camion correva sempre, giorno e notte.

D: Chiedo scusa, … al mattino, al pomeriggio, alla sera?

R: Non mi ricordo. Io credo di pomeriggio perché abbiamo viaggiato anche di notte.

Non ricordo con esattezza.

D: Però non ti hanno detto dove vi trovavate?

R: No, non ce l’hanno detto.

Siamo arrivati in campo di concentramento, gli uomini li hanno messi da una parte, le donne le hanno messe da un’altra parte perché erano separati i blocchi.

E poi siamo stati lì, ci hanno numerati, poi ci hanno tolto tutti i vestiti. E gli uomini sono stati tosati per bene, le donne no.

Ci hanno dato un paio di pantaloni, quelli da marinaio grigi, una mantella grigio verde, un paio di zoccoli, un paio di calzini, e la biancheria intima no, l’avevamo noi, non avevamo niente altro, solo quello che indossavamo, non avevamo niente. Poi siamo stati lì…

D: Ti ricordi di che blocco?

R: Dovrebbe essere il blocco “T”, però non ci giurerei sopra.

Il mio numero è 6998.

Io poi ero una prigioniera politica, mentre c’erano delle altre persone che erano gli ebrei l’avevano diverso. Il nostro era rosso, mentre quello degli ebrei era giallo.

C’erano delle persone, donne anche, che invece di avere il triangolino l’avevano rotondo ed erano le pericolose.

D: Questo, sempre nel tuo blocco?

R: C’erano due blocchi di donne, non ce n’erano molti.

Erano più i blocchi degli uomini.

Poi, di quello che io posso ricordare è che tutte le mattine si faceva la conta, gli uomini da una parte, tutte le donne dall’altra e il tedesco dopo avere contato i prigionieri faceva tenere i berretti in testa, e poi diceva: berretti giù.

Allora, se il rumore del berretto sulla gamba era bello, fatto bene, tutto andava bene, altrimenti si ripeteva fintanto che non veniva soddisfatto il tedesco.

Siamo stati lì e poi hanno chiesto se volevamo andare a lavorare per un’azienda, e io ho detto di sì perché non ne potevo più perché stavo impazzendo, non avevo niente da fare, io pur essendo giovanissima ho sempre lavorato, nel senso che già ero stata impiegata in un’azienda e avevo un buon impiego, ma ho sempre lavorato con le mani, e lì tutto il giorno senza fare niente, senza leggere, senza fare niente è la cosa più brutta e per me è la tortura che uno possa infliggere a una persona, perché a non fare niente si muore e io ho detto: “No, non voglio morire”. Così sono andata. Mi hanno preso e sono andata in una galleria dove passava il treno e questa galleria era stata trasformata in una fabbrica, dove c’erano molte macchine utensili.

Mi misero sopra questa macchina e ho cominciato ad usarla. La usavo bene. Era una macchina che faceva cuscinetti a sfera e io facevo l’incavo dove stava il cuscinetto e ne dovevo fare seicento al giorno. E ne facevo di più.

Allora quando vedevo che ero quasi alla fine, davo una spintina di più all’ago, che così si rompeva, aspettavo che me lo venissero ad aggiustare, poi ne facevo seicento uno, seicento due, mai più.

Per paga ci davano un pezzo di pane in più.

Siccome si mangiava tutto insipido, in quello che ci davano non c’era sale, e non era neanche sufficiente a campare, invece lì ci davano un pezzo di pane e poi eravamo in mezzo ai civili, non si vedevano mai i soldati o la SS, perché facevano la guardia ai due portoni, alle due entrate e praticamente eravamo liberi di parlare, di gestire e stavamo lì, lavoravamo e a me piaceva.

Sinceramente non posso dire che lì mi trovavo male, mi trovavo bene perché avevo fatto delle amicizie, avevo fatto delle amicizie con delle altre persone, con delle altre donne che venivano da un’altra città, tant’è che non ci si chiamava più con il nome, ci si chiamava per la città di provenienza, Bologna ci chiamavano. Quell’altro era Belluno, quell’altro era Torino, si stava bene e poi le persone che erano dentro come i civili, che erano quelli che quando noi rompevamo la macchina ce la venivano ad aggiustare, ci portavano sempre non proprio da mangiare, però i dadini per insaporire la minestra e lì ci siamo stati fino alla Liberazione.

Io però ho saltato un episodio che vorrei dire: quando eravamo nel blocco, una notte le donne ebbero lo schiribizzo di fare le cretine, ovverosia di darsi alla pazza gioia.

Una ragazza trovò un manico di scopa, un fazzoletto rosso e ci mettemmo a cantare come delle dannate “Bandiera rossa” e tutto quello che ci saltava fuori dalla mente. Una cagnara… Nessuno disse niente.

La mattina dopo, la capo blocco fu chiamata dai tedeschi, si chiamava Cicci la capo blocco.

Venne di nuovo da noi, ci radunò, ci parlò e ci disse: “Per questa volta lasciamo perdere, quest’altra volta gli uomini andranno fuori e staranno fuori senza cappello per dei giorni e dei giorni”.

Non l’abbiamo più fatto.

Questo era un episodio che mi ero dimenticata di dirvi.

D: Quando tu eri nel campo, nel blocco, insieme alle altre donne, ti ricordi se c’erano anche dei religiosi?

R: Sì, c’erano anche dei religiosi e io quella volta lì sono stata una persona molto cattiva perché quando me lo sono visto davanti, ho detto: “Guarda che bellezza, c’è un prete anche con noi”.

Non sta mica male…

Sono stata cattiva, l’ho detto con lui, non l’ho detto di dietro. Dopo mi sono pentita moltissimo perché poveretto, lui ha fatto il suo dovere, e io sono stata maleducata.

Infatti era nel blocco “E” dove c’erano quelli che dovevano partire.

Mi è dispiaciuto molto.

Non gli ho mai chiesto scusa, perché poi non l’ho più visto.

D: Ti ricordi se c’erano anche dei bambini per caso?

R: Sai che non me lo ricordo, però non credo dei bambini.

Ricordo che c’erano delle persone di una certa età, ma dei bambini no. Non lo ricordo. Non credo però.

D: Nel periodo che sei rimasta lì a Bolzano, hai assistito ad atti di violenza verso altri…

R: Nel blocco, devo dire una cosa, la Cicci mi aveva regalato un gomitolo di lana con due ferri e io lì facevo i ferri.

Poi quando avevo finito la lana, lo guastavo, tornavo a fare il gomitolo, ricominciavo da capo, perché come ho detto prima, senza fare niente si muore.

Un episodio di violenza l’ho visto, ma io non ricordo che l’abbiano picchiata. Hanno picchiato una ragazza che non ricordo cosa avesse fatto. Perché il blocco E con il blocco…, ma non credo che fosse il nostro blocco, era tagliato là sopra, e io lo so che molte donne andavano di là dagli uomini, ma ero tanto piccolina che non ci pensavo neanche.

Non so se è stato per quello o se lei ha fatto qualcos’altro. So soltanto che l’hanno ripresa e l’hanno anche bastonata e io mi sono presa una sberla sola.

Due sberle mi sono presa dai tedeschi, dalla donna che chiamavano la tigre. Ero andata fuori dal blocco, non so cosa dicesse, brontolava in tedesco, non capivo una parola di tedesco, poi una grande sberla e io sono tornata nel blocco con tutte le mani attaccate alla faccia e poi lo sa lei cosa avevo fatto. Probabilmente avrò avuto non attaccati molto bene i numerini di riconoscimento. Non ricordo più, però mi hanno picchiato.

D: Alla sera, il blocco veniva chiuso?

R: Il blocco veniva chiuso, bombardamento, non bombardamento, noi venivamo chiusi dal di fuori.

Quando era chiuso era chiuso, nessuno entrava e nessuno usciva.

D: I servizi….

R: Avevamo, come i soldati, una sfilza di lavandini, acqua fredda.

Poi qualcosa qualcuno ce l’avrà dato. O io avevo qualcosa che mi hanno mandato, io non ricordo molto bene questa cosa, però so che mi lavavo tutte le mattine e mi cambiavo.

La cosa più grave era quando tu avevi il mestruo che non avevi il cambio, quindi tu lavavi la cosa, e la mettevi sotto per asciugarla la notte, insomma ti davano qualcosa per tenerti pulita.

Magari l’avranno data anche lì, me l’avrà data la Cicci.

D: Il trasferimento dal campo a quella galleria che dicevi…

R: Oltre che essere andata a lavorare, ci portavano con il camion le prime volte, poi è avvenuto che c’è stato un incidente con il camion e una donna è andata a finire in ospedale perché si è fatta male, l’altra si era rotta una spalla. Allora, per essere più vicini alla galleria, ci avevano messo dove mettono i soldati, in una caserma, e in campo non ci andavamo più, soltanto noi che lavoravamo. No, non eravamo stretti. E lì avevamo anche contatto con gli uomini.

D: Era vicina la galleria?

R: Era vicina sì.

D: Andavate a piedi?

R: Andavamo a piedi.

D: Non ti ricordi se era una caserma ancora attiva?

R: No, c’eravamo noi, era una caserma, ma c’eravamo solo noi.

Eravamo divisi però alla sera, io ricordo che si andava fuori, si andava a vedere il cielo, non era più il campo. Era leggermente più aperta la cosa.

Era più umano, direi.

Poi, alla mattina, ciascuno andava dove aveva il suo banco, faceva la sua roba, poi a mangiare a mezzogiorno e alla sera si mangiava dentro alla caserma…

D: Volevo chiedere questo: era una caserma dove c’erano ancora dentro dei militari?

Era abbandonata la caserma?

R: No, c’eravamo solo noi.

Almeno che io mi rammenti, c’eravamo solo noi. Non c’erano civili.

D: E chi faceva la guardia?

R: Sempre la SS, ma non solo la SS, la facevano i militari.

Poi, una volta, visto che erano dei russi che probabilmente, poverini, erano giovani giovani, saranno stati arrestati, che poi loro avranno detto: “Va bene…”, per salvare la pelle si fa di tutto, e noi lo prendevamo in giro, noi bolognesi, lo chiamavamo “cipolla”, e lui ci guardava sorridendo, e noi tutte le volte lo chiamavamo “cipolla”… Ma avevamo diciotto, diciannove anni!

D: In questa caserma qui, quanti eravate fra uomini e donne deportati?

R: Non te lo so dire, ma non moltissimi.

D: Non tutti quelli che lavoravano?

R: No, perché poi c’erano quelli che erano andati da un’altra parte.

Noi siamo andati…, poi c’erano delle persone che erano andati anche in case private a fare i servizi.

Sai, non si sapevano le cose…

D: Nel periodo che tu sei rimasta a Bolzano, tu hai ricevuto da casa tua, da mamma qualche pacco, una lettera?

R: Qualche lettera sì, ma il mangiare no.

D: E tu hai potuto scrivere?

R: Io sì, non so poi se lei le ha ricevute, io credo di sì.

Ma come ti ho detto, la mia mamma non era quella che conservava le cose, la mia mamma era una donna che aveva quaranta anni, è nata nel 1903, è diversa una donna di quel periodo.

Lei teneva le fotografie quelle sì, ma gli scritti non credo, però io scrivevo.

Io ho un episodio da raccontare: io non ho mai pianto, io sono una persona che non piange mai, posso avere il terrore ma non piango mai.

Non è una bella cosa, perché se uno non piange, dopo sta male.

Per Pasqua, io ho pensato a mio fratello, non a quello grande, che quello era già andato, a mio fratellino piccolo che mi chiamava Dada, e come mi è venuto in mente mio fratello, lì ho mollato, ho cominciato a piangere come una pazza.

Allora è passato un ragazzo che era in borghese, che faceva la manutenzione degli utensili e mi ha chiesto: “Perché piangi?”

E io gli ho risposto: “Perché mi sono ricordata di mio fratello…”, perché era mio il bambino, non era di mia madre. Mia madre aveva quaranta anni, lei si credeva una donna vecchia a quaranta anni e praticamente me lo tiravo dietro sempre io se andavo io, poi in quel periodo non si andava…, e lui attaccato alla gamba… “Dada, Dada”, insomma pensare a mio fratello…, mi è sembrato che dietro alle mie spalle qualcuno mi abbia chiamato e mi abbia detto: “Dada, vieni a casa.” Mi sembrava di sentirlo.

Da quel giorno lì, quel ragazzo, sopra alla mensolina dove tenevo gli attrezzi, con un gesso “Buon giorno Dada. Stai bene Dada?” fintanto che non siamo venuti a casa.

Siamo stati liberati il 1 maggio, e non ha mancato una giornata senza mai scrivere una cosa del genere.

D: Come ti ricordi la Liberazione?

R: In un modo molto confuso perché siamo tornati nel campo di concentramento, e le due capo blocco, perché la Cicci era rimasta al campo grande e il capo blocco era un’altra ragazza e quelle del campo con quelle di fuori si erano rivoltate contro la Cicci in un modo confuso, in un modo strano.

Comunque ci hanno chiamato uno per uno e ci hanno dato una dichiarazione dove si diceva che ero entrata nel campo di concentramento il giorno tale ed ero uscita il giorno tal altro.

E poi, quando tu avevi in mano questa cosa, ti hanno messo fuori, ci siamo arrangiati noi…

Il primo tratto è stato in treno.

Poi siamo arrivati in un posto, queste sono cose molto confuse perché io mi ricordo così, un tipo aveva una macchina e ci ha detto: “Perché non ci fai venire in macchina?” Però eravamo in tanti.

E io sono andata a finire dove c’è la ruota che se si rompeva…, e siamo arrivati a Verona.

Da Verona, gli americani ci hanno portato con gli americani a Bologna.

C’era un’infinità di prigionieri che venivano dalla Germania.

Era una cosa non più come prima, c’era tutta questa gente che tornava dalla Germania, ci si incontrava per la strada e i camion erano tanti, il posto di smistamento era a Bologna, poi li mandavano…

Allora, arrivare a Verona , io sono stata sopra quell’affare che non so come si chiama, e ci hanno caricato da Verona e io ero in cabina con l’americano.

Io ho provato a chiacchierare perché sono una bella chiacchierona, ma non ha aperto bocca. Un viaggio lunghissimo Verona – Bologna, perché il camion non è che vada molto forte, e poi siamo andati a Bologna io e la Maria.

La Maria abitava a Bologna, ma ci dovevano portare in ospedale per la verifica di come eravamo, come non eravamo. Però noi abbiamo sgattaiolato via, e abbiamo detto con Maria: “Andiamo a casa tua?”

Intanto che andavamo a casa, non ci imbattiamo in una pattuglia?

Così ci hanno detto: adesso vi portiamo in prigione.

“In prigione?” abbiamo risposto. “Ma se siamo appena venute fuori dalla prigione, ci volete portare ancora in prigione?”

Ci hanno detto: “C’è il coprifuoco”.

E io ho replicato: “Ma scusate, veniamo dal campo di concentramento da Bolzano, stiamo andando a casa, e voi ci volete portare in prigione perché c’è il coprifuoco. E’ lì a due passi. Siete tutti matti?”

Quelli lì si sono guadati e hanno detto: “Siete venute dal campo di concentramento?”

E noi abbiamo detto: “Non vedete come siamo messe?”

“Però fate presto…”, hanno ancora detto, “non state sulla strada, noi vi lasciamo andare ma davvero vi tirano addosso le schioppettate”.

Così siamo andate lì, abbiamo dormito lì, ed io, il giorno dopo sono andata a casa in treno, e poi quando sono stata a San Giovanni ho trovato uno che mi aveva filato dietro, allora gli ho detto di portarmi a casa.

In bicicletta, sul cannone…., ho detto: “Poche storie perché io vengo dal campo di concentramento”.

Quello, quando mi ha sentito se l’è fatta addosso e poi mi ha portato a casa in bicicletta e mi lì mi sono vendicata tutta…

D: E la mamma?

R: La mia mamma ha perso tutto, ha perso il marito, il figlio e sei mesi di campo di concentramento della figlia. Non era molto…

D: E tuo fratello?

R: La mia Dada…

D: L’hai trovato?

R: Sì che l’ho trovato. Infatti ancora adesso mi chiama “Dada”.

D: E il babbo?

R: Il babbo l’hanno ucciso ai Colli di Paderno e anche i miei fratelli.

D: Assieme?

R: Assieme. Solo che mio fratello è stato riconosciuto da un pezzo di stoffa, mio padre no.

Siccome c’erano delle salme nude, mio padre è risultato disperso, ma l’hanno ammazzato là.

D: E quando questo?

R: E’ avvenuto il 14 dicembre circa, prima che ci portassero via. Ne hanno ammazzati tanti…

Io sono arrivata a casa a maggio e l’abbiamo scoperto ad agosto perché chi aveva visto uccidere questa gente l’avevano portato in campo di concentramento e quando è venuta a casa ha detto: “Lì ci sono dei morti”.

Li avevano uccisi e buttati giù dai calanchi. Infatti io ho visto mio fratello, c’era solo lo scheletro.

Infatti, da dicembre ad agosto…, non era la sepoltura normale…

D: E’ vicino…

R: Sì. Lì c’è nome, cognome di tutti e due. Anche poi di mio cugino.

D: Anche lui è stato fucilato?

R: Sì.

D: E si è saputo perché il babbo e tuo fratello sono stati arrestati?

R: Perché li hanno accusati di essere dei partigiani.

Io, di mio fratello sono quasi sicura che lui faceva parte…, ma io credo che si stessero organizzando delle gran cose… Non è che voglio denigrare mio fratello, ma non mi sembra che loro si stavano organizzando…, e c’erano fra loro due tedeschi e tutta la storia viene da questi due tedeschi, perché i due tedeschi hanno disertato, poi sono stati presi e loro hanno fatto la spia.

Io non ho niente altro da dire.

D: Ascolta, ti ricordi…, quando eri a San Giovanni in Monte, oltre a quella suora che ti ha detto: “Stai composta”, se c’era anche un sacerdote che parlava con voi?

R: No, io non mi ricordo di sacerdoti.

Ricordo solo che eravamo in mezzo alle prostitute. Però le suore facevano portare via dalle prostitute il buiolo, ma soltanto quella suora lì mi fece quell’osservazione.

D: Un’altra cosa: quando sei partita in camion con gli altri novantotto, da San Giovanni per andare a Bolzano, dicevi che sei partita di pomeriggio, avete fatto un viaggio unico o avete fatto delle soste?

R: Io non lo so, so soltanto che c’è un ponte sul Po che lì bombardarono, che poi non presero…, sarà stato Pippo…, quello me lo ricordo.

Ma non credo che abbiamo fatto delle soste, non lo so, non lo ricordo proprio, mi dispiace. Io credo che sia stato un viaggio unico.

D: Cioè delle soste, e magari durante le soste sono state caricate della altre persone?

R: No, questo no. Non credo.

Non ricordo neanche più se abbiamo mangiato, come abbiamo fatto per andare…, magari se scappava la pipì. Io ricordo che mi scappava la pipì e ho detto: “Mi scappa la pipì”. Allora i ragazzi hanno fatto un bel cerchio e l’ho fatta lì. Si impara ad essere maleducati, senza vergogna, tu pensi solo a te stessa, finita lì.

D: Quando eri in quella caserma, vicino a quella galleria, che andavate lì a dormire e a mangiare, ti ricordi se qualcuno raccontava che in quella caserma avevano fatto violenza, avevano picchiato?

R: E’ una cosa che io sinceramente non ho mai sentito, a parte quella ragazza…, mi sono dimenticata un’altra cosa che mi è venuta in mente.

Una notte, perché c’erano anche i turni di notte nella galleria…, una notte arrivarono i partigiani, hanno legato le due guardie che poverette…, e poi sono entrati nella galleria e hanno chiesto se c’era qualcuno che voleva andare via.

Io facevo il turno di giorno, e so che lì una ragazza aveva tanto di quel coraggio, doveva essere di Imola, non ricordo più neanche come si chiamava, e andò via, andò con i partigiani.

Se ero io non so se avrei avuto il coraggio, perché bisognava avere un grandissimo coraggio.

Dove vai? Con chi vai? Ci hai cercato? Non lo so… Lei andò via.

Anche lì ci chiamarono, ci radunarono non in campo di concentramento, poi dissero: “Stanotte è scappata una persona. Noi non facciamo niente, però ricordatevi una cosa: chi scappa ancora, uno su dieci li ammazziamo”.

Non è mai più scappato nessuno.

D: Dina, quando dicevi che siete stati portati alla Chiesa di Amola, e poi vi hanno portato a Sant’Agata, è un paese Sant’Agata?

R: Amola è una frazione di San Giovanni in Persiceto, è una frazione, invece Sant’Agata è un paese.

D: Perché vi avevano radunato in questa chiesa di Amola?

R: Pure questo non l’ho mai capito. Tant’è che poi, finita la guerra, io non so se è stata una cosa ben fatta, hanno ammazzato il prete, l’hanno fatto fuori.

D: E anche il motivo per cui vi hanno portato a Sant’Agata non è chiaro?

R: Io non lo so. So soltanto che eravamo tutti…, credevo sul serio che ci facessero fuori e basta. Invece no. Non davano spiegazioni.

D: Ascolta, anche dopo la guerra, parlando con altri, hai mai capito perché i tedeschi erano interessati all’Ospedale Maggiore? Cosa c’era di così…?

R: Perché all’Ospedale Maggiore c’era stato un tafferuglio con i partigiani, che non so se avevano…, Otello lo deve sapere più di me.

Allora, loro chiedevano se io facevo parte di quel gruppo e io dissi di no.

Perché poi io rispondevo…, ho detto: “Non ho molta paura delle cose, magari una paura feroce e folle, ed ho la faccia tosta e sono timidissima fra le altre cose. Voi non ci credete, ma è vero. Io mi sto facendo la pipì addosso”.

D: Dada, questa tua storia non l’hai mai raccontata a nessuno?

R: L’ho raccontata, ma non molto.

D: A chi l’hai raccontata? In famiglia?

R: Non molto, infatti mio fratello mi dice: “Non mi racconti mai niente”, e non so come mai sono saltate fuori tante di quelle cose. Il mio medico curante ha detto che io sono una di quelle persone che sono capace di cancellare le brutture. Infatti è vero, se sono in campo di concentramento sono in campo di concentramento, sono a casa, il campo di concentramento non c’è più. Sono in ospedale, faccio un intervento, faccio l’intervento sono in ospedale, vengo a casa, l’ospedale non c’è più. Non so spiegarvi com’è la cosa, come scatti, però è così.

D: Però questa esperienza di questi sei mesi di campo ti ha pesato nella tua vita? L’esperienza del babbo?

R: A me sinceramente quello che ha disturbato…, poi è passato tanto di quel tempo che sembra qualcosa che sia successo a qualcun altro, che io l’abbia sentita raccontare e io ve la racconti.

Quello che mi ha ferito moltissimo è la morte di mio padre e mio fratello.

Io ero legatissima a mio padre.

Con questo non voglio dire che non volevo bene a mia mamma, perché non è vero.

Mia madre è stata una donna eccezionale.

Avevo due genitori, ma non so se io sono stata una genitrice come lo era mia madre.

Mia mamma, quando mio padre era via in Africa o da qualche altra parte, non ha mai speso un soldo di quello che lui mandava a casa, lo prendeva, lo metteva via e diceva: “Quando viene a casa compriamo la casa” e ci ha sempre mantenuti lei.

Mia madre era questa donna.

A sessanta anni è morta.

Lei è morta di crepacuore.

D: Quando tu sei tornata ti ha chiesto del campo?

R: Poco e io poco ho detto.

D: E le tue amiche? La Maria?

R: Un’altra cosa che descrive come sono. Maria diceva sempre: “Ti ricordi la tal cosa?” E io dicevo: “No, non me la ricordavo”. Mi faceva venire una rabbia che l’avrei ammazzata.

C’ero io, Maria e in genere c’era anche mia cugina, mia cugina ha otto anni meno di me… e mi diceva: “Non ti ricordi?” Non mi ricordavo più e poi magari mi veniva in mente, ma io l’avevo dimenticato.

Io ho mangiato quello che ha mangiato lei. Lei quando è venuta a casa, non faceva altro che mettere delle grandi…., io no, io ero rimasta quella di sempre, seppure che ho patito la fame come ha patito lei. Non so come sono fatta, sono fatta in un modo molto strano.

D: Dina, qui a Bologna, ai giardini Margherita cosa c’era?

R: C’erano le SS, è stato lì dove mi hanno schiaffeggiato, è stato uno schiaffeggino piccolino….

D: Ascolta, se ricordi, se ti viene in mente la galleria del Virgolo, ti ricordi…, non so se c’era un portone…, in questa galleria dove andavate a lavorare per questi cuscinetti a sfera…, ti ricordi c’era un portone…

R: Prova ad immaginare questa stanza lunga lunga, poi di qua e di là c’erano due portoni che si chiudevano e basta, finita lì.

Si chiamava Virgolo…?

D: Virgolo….

R: Io non lo sapevo. Magari me l’hanno anche detto…

D: Non ricordi neanche il nome della ditta?

R: Non me lo ricordo.

Ma ero diventata brava, sapete.

D: Ascolta, visto che sei tanto brava, ti ricordi il nome di qualche altra tua campagna di deportazione?

R: No.

D: Neanche quelli del Virgolo?

R: No.

D: Ti ricordi se c’erano dei milanesi?

R: Io ricordo che c’era una ragazza di Belluno. Però, non mi ricordo come si chiamava…

D: Teresa forse?

R: Non ricordo niente.

Perché poi, fra le altre cose, come ho detto, non ci si chiamava per nome, ci si chiamava Bologna, Torino, Milano o Genova.

D: Di un milanese non ti ricordi?

R: No, non ricordo niente.

Io ricordo solo questo ragazzo, che non ricordo neanche più come si chiamasse.

D: Ascolta, ma lui era un civile?

R: Sì, era un civile.

D: Se dovessi ripensare alla galleria, all’interno, a tutte le macchine, ai macchinari, più o meno quanti potevate essere dentro a lavorare?

R: In molti. Eravamo in parecchi.

D: Parecchie decine o centinaia?

R: Centinaia forse non arrivavamo.

Però era una bella…

D: E parecchie donne, o metà donne e uomini?

R: No, le donne erano poche, erano più gli uomini.

Però facevamo lo stesso lavoro.

D: Come te la ricordi, ad un piano solo o…?

R: No, era una galleria dove passava il treno. Era una galleria.

Dunque una galleria alta, ma niente, poi era arredata….

D: Era scavata nella montagna?

R: Sì, sotto la montagna. Se queste sono le porte, lì la galleria e c’erano tutti i banchi e le macchine e qui si passava.

D: E non c’erano due piani?

R: No, non c’erano due piani.

D: Una cosa: quando tu facevi i tuoi seicento cuscinetti al giorno, li mettevi in una cassa probabilmente. Poi chi veniva a raccoglierli? Come riusciva a raccoglierli?

R: I tedeschi non c’entravano niente con il lavoro, erano tutti civili. Veniva il ragazzo, l’uomo a prenderli, quando noi andavamo via. Ne dovevamo fare seicento… Un’altra volta fecero sciopero dentro alla galleria i prigionieri, però io avevo paura perché pensavo che le prendessimo…, allora, come al solito, ho rotto la punta, e quando è arrivato il tedesco incagnato perché nessuno lavorava, ho detto: “Si è rotto, si è rotto…”, allora è passato quell’altro…, prendere delle botte non avevo voglia, ero anche una fifona…

Cassani Giorgio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Cassani Giorgio, nato ad Imola il 19 Agosto 1923.

D: Dove eri l’8 Settembre?

R: Dunque, ero con le truppe d’occupazione in Francia. Quindi dopo l’8 settembre io ed un mio amico siamo andati nei partigiani francesi, eravamo nelle formazioni francesi.

Abbiamo fatto le formazioni, eravamo gran parte italiani e francesi. Per noi c’era un comandante, un ex fuoriuscito che aveva fatto la guerra di Spagna, era quello che ci comandava.

Al 6 aprile 1944 fummo attaccati dai tedeschi, in parte morirono, in parte furono feriti e furono uccisi dopo, e parte furono presi e mandati – tra i quali c’ero io – nella caserma di Digne.

D: Scusa Giorgio, quando tu ti sei aggregato a questa formazione di partigiani francesi la vostra zona di operazione qual era?

R: Noi eravamo sopra Tolone, poi ad un certo momento, siccome ci cercavano, eravamo in continuo spostamento, lo spostamento più grosso in attesa dello sbarco fu fatto… venimmo a Nizza. Venimmo a Nizza in treno, a piccoli scaglioni. Venimmo in treno. Da Nizza ci portarono su a Lambrois, e lì siamo stati attaccati, presi dai tedeschi.

D: Solo tedeschi?

R: Tedeschi e francesi. Poi lì, dopo gli interrogatori e vari colpi ecc… ci hanno mandato a Marsiglia nelle prigioni. Prigioni nuove che hanno rinnovato sia i francesi che noi altri.

Dopo ad un certo momento ci hanno portato a Compiègne. Di lì il campo di smistamento per la Germania. Di fatti ogni lunedì c’era un trasporto per la Germania.

A Compiègne ho trovato l’organizzazione del Partito Comunista.

D: Clandestino?

R: Clandestino. Siccome io parlavo bene il francese perché l’avevo studiato a scuola, allora si parlava un po’ con i francesi, anche quando eravamo nei partigiani. C’era un antifascista italiano di Trieste che mi prendeva tutte le mattine, facevamo il giro della piazza del campo e mi dava lezioni di cultura politica.

Solo che ad un certo momento è toccato il trasporto per noi altri. Siamo andati a Dachau.

D: Scusa un attimo, quando sei entrato a Compiègne vi hanno immatricolato?

R: No.

D: Niente?

R: Lì non ci sono, non c’erano immatricolati perché Compiègne era il centro di smistamento per la Germania, venivano da tutte le parti della Francia.

D: Cosa ti ricordi del campo di Compiègne? C’erano dei blocchi? Delle baracche?

R: Sì, c’erano le baracche e poi c’era lo spiazzo, c’erano le cucine, poi c’era lì vicino un altro campo aggiunto che fu occupato da gente che veniva dalle prigioni della Francia del nord, perché si avvicinava lo sbarco, quindi…

D: Lì a Compiègne tutto il giorno… tu quanto tempo sei rimasto a Compiègne?

R: Lì, ricordarsi adesso… Aspetta…

D: Più o meno, un mese, dieci giorni?

R: Sono stati giorni, perché sono arrivato a Dachau in giugno, dove ho fatto la quarantena.

D: Un bel giorno vi chiamano…

R: Avevano già le liste, ci accompagnano alla stazione, ci caricano nei carri bestiame, voi sapete i carri bestiame chiusi ecc… Poi noi si guardava dal finestrino, ci avevano dato un pezzo di pane, uno di quei salamini tedeschi, che non avevamo però la possibilità di bere, quindi…

D: Eravate solo uomini?

R: Eravamo… eravamo uomini che venivano da Compiègne. Però quando siamo arrivati a Monaco, eravamo appena arrivati, è suonato l’allarme, c’erano già gli apparecchi sopra, allora stavano per contarci, ci hanno messo sotto un sottopassaggio vicino alla stazione, e lì c’erano altri. C’era una famiglia di Fiume… C’erano i due figli giovani, giovanissimi. Erano venuti da altre parti.

D: Poi da Monaco vi hanno portato a Dachau.

R: A Dachau.

D: Come ti ricordi il tuo ingresso a Dachau?

R: Ci siamo, eravamo lì davanti al piazzale, nel piazzale ci hanno spogliato tutti, abbiamo depositato la nostra roba e poi ci hanno mandato ai bagni. Ai bagni, che erano praticamente…veniva giù l’acqua dall’alto, nudi, e poi c’era … tutto. L’altro con un bidone ed un pennello da imbianchino che ti disinfettava tutto.

Solo che il Friseur qui ti lasciava la Strasse, che noi chiamavamo Hadolf Strasse.

Poi dopo abbiamo fatto la quarantena nel blocco della quarantena, e ci hanno anche fatto i raggi X. Siamo passati attraverso i raggi X per vedere chi era adatto al lavoro, e chi non era adatto al lavoro veniva…

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco di quarantena?

R: Quello lì non me lo ricordo, è un 40 ma… Quello lì l’ho già perso.

D: Lì quanto tempo sei rimasto, in questo blocco in quarantena, a Dachau?

R: Non certo 40 giorni perché dopo lo sbarco la situazione diventava critica perché tutti i prigionieri li raccoglievano nei campi. Sono andato a finire ad Allach che è un sottocampo vicino a Monaco.

D: Scusa, quando ti hanno immatricolato?

R: Subito.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: Non mi ricordo, ce l’ho lì nella cartella.

D: Ascolta, come ti hanno vestito?

R: Avevamo, dopo il bagno, quando ci hanno mandato in baracca, camice, giacca, pantaloni rigati blu, ed un paio di zoccoli.

D: Biancheria intima?

R: Niente.

D: Ti hanno dato anche un cappello?

R: Sì, il famoso Mütz tondo, rigato. Avevamo la targhetta qui con il numero stampato, triangolare.

D: Ed anche un triangolo ti hanno dato?

R: No, il triangolo è quello che aveva la nostra sigla, ed il numero di matricola.

D: Giorgio, ti ricordi se il triangolo era colorato?

R: Era rosso. Rosso.

D: Quindi da Dachau, dopo il periodo di quarantena, ti hanno mandato ad Allach, e ad Allach che cosa hai fatto?

R: Ad Allach ci facevano più che altro fare delle … e delle grandi… Poi è arrivato il momento di mandarci in una fabbrica, stavano costruendo una fabbrica in cemento armato a prova di bombe. Era nei dintorni di Allach, in un bosco. Lì io ho fatto di tutto, manovale, ho fatto…

D: Ecco, ma che fabbrica era questa?

R: Credo, lì c’era… parlavano della Messerschmitt che faceva i cilindri degli apparecchi.

Poi dopo siamo tornati, da lì ci hanno tolto e siamo andati sempre ad Allach. Da Allach siamo andati su per giù nel mese di novembre in un altro comando, anzi prima di novembre, molto prima di novembre, un altro comando, siamo andati nel campo di Natzweiler ai confini con la Francia, c’era un tunnel e lì si lavorava un’altra volta penso per la Messerschmitt, perché si facevano i motori proprio degli apparecchi. Io ho lavorato un po’ alla macchina, poi dopo mi hanno cambiato e mi hanno messo con un vecchio, anziano, a spingere il carrello del ferro grezzo per portarlo alle macchine.

D: Scusa Giorgio, come te lo ricordi il campo di Natzweiler?

R: Natzweiler era tra le montagne, perché il tunnel era proprio dentro la montagna. Lì abbiamo assistito purtroppo alla mattina, alle cinque abbiamo assistito all’impiccagione di un italiano.

D: Ma nel campo o nel tunnel?

R: No, fuori, lì davanti alle baracche.

D: Nel campo?

R: Sì, era un campo per modo… C’erano le baracche, poi c’era lo spazio, perché quello lì non mancava mai. Era buio, noi non abbiamo visto chi era, solo che lui disse il nome e dalla parlata mi sembrava un meridionale.

D: Il nome non te lo ricordi però?

R: No. Disse il nome, si rivolse agli amici.

D: Non sai il motivo, perché?

R: Probabilmente aveva tentato di fuggire.

D: Ritornando ancora lì al campo di Natzweiler, questo campo dicevi che era in montagna?

R: Era in mezzo ai monti perché la galleria, il tunnel era dentro la montagna. Noi non eravamo molto distanti da entrare in galleria. Poi c’era la stazione, perché arrivavano i treni e caricavano il materiale lì.

D: E dal campo alla galleria come vi portavano?

R: Incolonnati cinque per cinque. A piedi, sempre con i cani lungo il tragitto.

D: Giorgio, ti ricordi se il campo aveva delle mura, delle recinzioni, oppure c’era il reticolato?

R: Penso che… Non ho visto perché lì si lavorava dodici ore. Di notte, noi vivevamo di notte perché di notte andavi a lavorare, di notte venivi fuori e già non vedevi un tubo di niente.

D: Non ti ricordi quindi se c’era…

R: Non ho visto proprio la sagoma del campo di Natzweiler.

D: Ti ricordi se c’erano delle garitte, delle torrette di guardia?

R: Quelle c’erano dappertutto, perché l’unica volta che non c’è stato è stato l’ultimo comando, quando siamo ritornati indietro, perché naturalmente il fronte veniva avanti ed allora ci hanno riportati un’altra volta ad Allach, e poi lì ci hanno cambiati, fatto il bagno, disinfettati, e poi ci hanno dato un altro paio di… Avevamo il cappotto, sempre della stessa stoffa, e le stesse righe.

D: Ritornando sempre lì a Natzweiler, ti ricordi se le baracche erano tutte sullo stesso piano, oppure erano…

R: Come ti dico, lì…

D: Non te lo ricordi.

R: Non me lo ricordo.

D: Tu più o meno quanto tempo sei rimasto a Natzweiler?

R: Non molto. Non molto perché in novembre eravamo, siamo partiti e siamo andati a Rosenheim in un altro comando, quindi in ottobre eravamo a Natzweiler, sarà stato un mese e mezzo dopo, al massimo.

D: Il tuo lavoro nelle gallerie, nel tunnel di Natzweiler, in che cosa consisteva?

R: Io facevo all’inizio la parte esterna del cilindro rigato. Poi dopo mi hanno cambiato perché c’era un olandese, che era il capo reparto, che mi dice: “E’ meglio che tu… se no vai nei guai” e mi mise, c’era una persona anziana che spingeva il carretto del… ed allora io andai lì ad aiutarlo.

D: Le gallerie quindi erano già state scavate?

R: Quando siamo arrivati noi c’era già un’officina avanti, avanzata, in quel…

D: Lavoravate sempre di notte voi?

R: Generalmente sì.

D: Dopo un mese che siete a Natzweiler… Scusa, a Natzweiler ti hanno cambiato il numero?

R: Sì, hanno cambiato il numero, perché lì c’è scritto il numero, che non me lo ricordo, era più lungo.

D: Poi da Natzweiler ti hanno portato in un altro comando?

R: No, da Natzweiler mi hanno mandato un’altra volta ad Allach. Ad Allach siamo stati lì discretamente perché c’erano i bombardamenti. C’erano due postazioni di antiaerei attorno al campo…

Poi c’è un fatto, dopo, quando sentivi… Ci hanno mandato in un comando a Rosenheim, lì eravamo un po’ più liberi perché avevamo come guardie i riservisti, quelli a cui avevano messo addosso la divisa delle SS, però i giovani erano andati alla famosa offensiva, lì si respirava un po’ di più perché c’era gente che quando capitava il bombardamento a Rosenheim ci faceva scappare. C’è stata una volta sola che non sono riusciti a farci fuggire, ci hanno mandato nella cantina della mensa civile, dove c’era la mensa di quelli che erano in Germania a lavorare. È l’unica volta che ci hanno mandato in un ricovero.

D: Il campo di Rosenheim?

R: Rosenheim non era un campo proprio, perché eravamo affiancati dalla scuola della contraerea. Allora lì infatti io ebbi un ascesso in bocca e fui curato dal loro dottore, perché non c’era mica altro lì. Era già bancarotta. Per Natale bombardarono l’officina in cui lavoravamo. La disfecero completamente.

Dopo ci mandarono a raccogliere le macerie in città, ed anche delle volte a chiudere le buche dei contadini. Per noi era la manna, perché in città tu arrivavi sempre di nascosto, perché cercavi sempre dove i tedeschi tenevano i vasi dove ci mettevano la carne, ci mettevano la roba, per vedere di mangiare.

Quelli che andavano in campagna, una volta ci sono andato anche io, il contadino ti cucinava un bel paiolo di patate, e ti dava le patate.

Ma lì erano già cambiati i sistemi. Infatti il comandante del campo, ai francesi, ai belgi, agli olandesi arrivavano i pacchi della Croce Rossa, allora lui cosa fece? Un bel giorno si stancò e prese tutti i pacchi, fece fare da mangiare, lo diede a tutti.

D: Lì a Rosenheim …

R: A Rosenheim abbiamo praticamente avuto la Liberazione. Ma non lì, perché prima di farci liberare ci hanno fatto fare una marcia non indifferente lontano dalla città. Di fatti noi incontravamo le truppe tedesche che si ritiravano.

D: Marcia in direzione di cosa?

R: In direzione dei confini dell’Austria. Perché dopo, finito il baccano, quando sono spariti i tedeschi e poi l’8 maggio è finito… Praticamente noi siamo stati senza sentinelle, siamo stati dai primi di maggio fino all’8 maggio. Ci siamo arrangiati un po’ per mangiare, perché lì vicino c’erano anche degli italiani vestiti da tedeschi che erano a scuola.

Poi dopo sono arrivati gli americani.

D: Quando tu ti sei accorto di essere stato liberato?

R: Quando sono sparite le guardie. Sono sparite le guardie.

D: Voi avete cercato la fuga?

R: Sì. Perché dopo l’abbiamo cercata, eravamo in quattro o cinque, abbiamo cercato ed abbiamo trovato un camion che era un’autobotte, con della benzina dentro. Con quello lì siamo arrivati, siamo partiti e siamo andati a finire in Austria. Siamo arrivati ad Innsbruck il giorno in cui gli americani non facevano più le tradotte per il momento, perché chi arrivava prima poteva entrare direttamente dal Brennero in Italia, perché poi c’erano – dicevano – che c’erano ancora … dispersi che potevano anche fare dei gesti… Allora ci hanno fermato ad Innsbruck in attesa di fare le tradotte da portare in Italia.

Il 25 giugno io sono arrivato a casa.

D: Quindi sei rimasto lì da maggio fino a giugno ad Innsbruck?

R: Sì.

D: Dove eravate? In giro liberi?

R: Io sono stato anche ricoverato in ospedale ad Innsbruck perché lì si mangiava di più, e poi non è che ti curassero, perché non avevano praticamente niente, ti facevano degli esami. Sono stato un dieci, dodici giorni lì, poi quando mi hanno avvisato che stavano facendo le tradotte… e via.

D: Dopo Innsbruck quando sei arrivato in Italia dove ti sei fermato?

R: Ho fatto Bolzano, fermo. Poi dopo a Verona, fermo. A Verona ci hanno caricato sui camion, c’erano i tedeschi prigionieri che guidavano i camion. Però c’erano le camionette americane che venivano, e siamo arrivati a Modena.

D: Ascolta Giorgio, a Bolzano sei rimasto fermo quanto?

R: Poco tempo, poco, perché dopo ci hanno fatto partire. Non so, neanche un giorno. Ci hanno fatto partire per Verona.

D: Sei rimasto a Bolzano alla stazione o…?

R: Sì, eravamo fermi.

D: Perché invece a Verona dove sei rimasto fermo?

R: A Verona sempre in stazione. Poi dopo, quando ci hanno portato fuori c’erano già, arrivavano i camion e ci caricavano sui camion per portarci a Modena.

D: I camion che erano degli alleati?

R: Sì, erano degli alleati.

Poi quando sono stato a Modena, a Modena ci hanno scaricato e ci hanno messo nella piazza, allora cercavamo un mezzo per venire a Bologna. Passa un camion alleato con un negro, eravamo in cinque o sei, io avevo addosso il vestito civile preso da dove ci avevano liberati, mi avevano dato un vestito civile. Poi avevo fatto un sacco con tutta la roba, quella roba lì. Fortuna che avevo la giacca ed il berretto che dopo si è perduto, avevo la giacca, il pastrano ed i pantaloni.

Nel camion quando abbiamo caricato la nostra roba avevo ancora un piccolo fagotto, avevo poi la giacca ed anche della roba da mangiare, la tenevo sempre. Il negro ha messo la marcia nel camion e poi è partito, ci ha portato via tutto.

D: Quindi tu hai lasciato su il tuo zaino?

R: Ho portato a casa solo la giacca ed il berretto.

D: Ascolta Giorgio, ma quando sei arrivato a Bolzano ti hanno rilasciato un documento?

R: Niente, lì non c’era niente, ancora, perché era ancora da organizzare.

D: Neanche ad Innsbruck ti hanno rilasciato un documento?

R: Niente.

D: Quindi tu della tua deportazione…

R: Io ho il foglio di Rosenheim, che è lì. Ci mancano alcune date di Natzweiler.

D: E poi hai la giacca…

R: La giacca con la targhetta. È qui nel museo. Il berretto nel fare san martino due o tre volte il berretto è smarrito.

D: Ascolta Giorgio, tu non sei più ritornato a Compiègne per esempio?

R: Mai.

D: A Natzweiler?

R: Neanche.

D: A Dachau?

R: In Francia ci è andato invece quello con cui ero insieme, in Francia, il partigiano, quando ci attaccarono lui morì. Lui morì ed allora c’è stato un altro, un toscano, amico, quando siamo stati liberati lui era in un altro campo, era andato a finire non ad Allach ma era andato a finire a Kempten, perché lui veniva su con i partigiani da Marsiglia, ed a Marsiglia aveva una zia, è venuto su lui ed un suo amico perché si erano rifugiati da sua zia. Sua zia ad un certo momento poiché diventava pericoloso, gli ha indirizzato la strada dei partigiani, è venuto da noi.

Così quando è rientrato non è rientrato in Italia, è rientrato in Francia, allora mi hanno mandato la documentazione per me e per il mio amico. Tutta la documentazione del partigianato.

D: Tu eri nell’organizzazione del partigianato francese? 

R: Sì.

D: Facevi parte, eri assieme…

R: Sì, noi facevamo parte della formazione organizzate dal Partito Comunista Francese. Erano… Force Francaise Interrier, FFI.

D: Quindi neanche a Dachau tu sei più ritornato?

R: No, fortuna. Per fortuna.

D: No, dico dopo da libero, in questi anni.

R: No. I ricordi non… Anche perché a raccontare tutto quello che si è passato, perché io ho fatto il racconto dove sono stato, ma la vita interna era un inferno. Quindi tra gli appelli, il conteggio, tutto quello che veniva fatto appositamente per farti perdere completamente il senso del…

Cressina Letizia

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Letizia Cressina, sono nata a Parenzo, il paese è Radmami dove sono nata io. Hanno arrestato me e mio papà…

D: Scusa, Letizia, quando sei nata?

R: Io sono nata il 16 giugno 1924.

D: Dicevi, ti hanno arrestata a te e al tuo babbo.

R: A me e al mio babbo, alle 3.304.00 di mattina sono venuti col rastrellamento e ci hanno portati via dal letto.

D: Chi ti ha portato via?

R: I tedeschi.

D: Perché?

R: Non lo so.

D: Dove ti hanno portato?

R: Ci hanno portato in un paesino che era la caserma dei carabinieri una volta, si chiama Sbandati. Siamo rimasti là tre giorni, poi ci hanno portato a Paenze in caserma, poi siamo andati in un albergo che era il comando delle SS. Poi da là sia io sia mio papà siamo andati in carcere e il mio ragazzo dentro in questo albergo. Poi di nuovo in caserma, siamo andati a Pola in carcere e ci siamo stati due mesi in carcere a Pola.

Ero con una suora là che mi voleva un bene di vita, la aiutavo a nettare le carote così almeno mi dava un po’ di mangiare, le carote. L’amico di mio papà era cuoco dentro dei tedeschi e ci portava. Però io pregavo la suora che mandi a mio papà e a questo ragazzo questo mangiare su in caserma, perché loro non potevano arrangiarsi come mi arrangiavo io.

Siamo rimasti là non mi ricordo quanti giorni per dire la verità. Siamo andati con la nave da Pola a Trieste sempre durante la notte. Siamo venuti a Trieste nel Coroneo e là volevo a tutti costi domandare per quale motivo mi hanno arrestato. Perché poi io avevo tre fratellini piccoli a casa, mio nonno cieco di novantaquattro anni e papà invalido della prima guerra mondiale, quindi non potevo far niente di male a nessuno.

Quando siamo venuti a Udine dal Coroneo siamo partiti per la Germania. A Udine di nuovo sono andata, là c’erano i fascisti e anche i tedeschi. Volevo parlare con mio papà, prima con questo SS, questo capitano che mandi a casa mio papà, perché gli ho detto: “A casa io ho tre bambini piccoli. Chi li guarda a casa? Lui è invalido”. L’hanno preso per detto e l’hanno portato in corriera un’altra volta. Ho detto: “Fate quello che volete di me”. Poi noi siamo stati imbarcati su questo treno merci e ci hanno portato via da Udine. Siamo partiti, per dove non sapevamo. Siamo venuti a Salisburgo mi pare, sì.

Là mi hanno fatto scendere, solo noi donne. Siccome io avevo cinque lire, quella volta cinque lire valevano soldi, che mio papà mi aveva dato, ho preso questi pomi, ho alzato su la gonna così perché non avevo dove metterli e ho portato questo ragazzo in vagone, che era quell’altro.

Quella volta noi siamo partiti per Auschwitz e loro non so per dove, non l’ho mai più visto. Non ho saputo più niente di lui, neanche del suo babbo.

D: Ascolta, Letizia, quindi ti hanno portato a Trieste al Coroneo?

R: Al Coroneo, dal Coroneo siamo partiti per Udine e da Udine siamo andati col carro merci, siamo partiti per la Germania, ma non sapevamo dove andavamo. A Salisburgo c’era un croato, c’era una mia compagna che sapeva parlare in croato, ha detto: “Se avete i soldi, guardate, io vi do la cartolina, scrivete a casa dove siete, una roba e l’altra”.

Io non potevo scrivere, mi tremavano le mani, allora ha scritto questa mia amica che adesso penso che si trovi a Sidney, se è viva ancora. In questa cartolina ho scritto solo: “Saluti, siamo fermi, così e così, non sappiamo dove andiamo e saluti cari, bacioni. Vostra Letizia”. Dopo per un anno non ho sentito né visto nessuno.

D: Eravate in tante sul tuo vagone?

R: Come le sardine eravamo. C’era un buco dove dovevi fare pipì e tutto quello che c’era giù e andava per la strada. Non dovevi neanche pensare a questa roba, di mangiare. Quando siamo venuti ad Auschwitz dopo tanti giorni mi hanno portato in una stanza grande, mi hanno portato via tutto l’oro quei mascalzoni assassini, scusatemi se dico queste parole, hanno portato via tutto l’oro alle ragazze, tutti i soldi che si avevano.

Per questo oggi sono ricchi, si sono rifatti, ma non con il loro lavoro, il loro oro, ma con i nostri sacrifici, col nostro oro. Ce l’hanno portato via. Noi pensavamo di andare a lavorare là e basta, invece non era vero. Io avevo ottantasei chili quando sono andata in Germania, ero un tocco di ragazza.

Poi siamo andati in questa stanza, ci hanno denudati tutti completamente, ci hanno sbarbati tutti. A me i capelli no, solo un poco, ma non tutti i capelli, perché hanno visto che ero pulita. Dopo ci hanno messo sotto la doccia fredda che veniva sopra di noi e ci hanno dato questo unico, senza avere mutandine, senza niente, zoccoli e questo vestito con questa giacca, l’unica roba che c’era. Praticamente quando c’era freddo e neve andavamo in giro così, fino alla pancia, tutti dentro nella neve con gli zoccoli, senza calze, senza niente.

Lavoravamo, io lavoravo proprio vicino alla mia baracca. C’era un canale grande, dovevo, scusatemi, slargare le gambe abbastanza bene e tirare fuori il fango di questo canale, con questa palla pesante. C’era tipo graia, ma era fatto tutto di frasche, capisce cosa sto dicendo? Come un muro, dentro c’era cric, cric, cric facevano le ossa della gente che bruciavano.

Bruciavano la gente, perché vedendo che c’erano due carneri, quando venivano specialmente questi ebrei dentro, due carneri che parte per parte li prendevano per le spalle e per le gambe, giù dal camion e li portavano dentro.

D: Scusi un attimo, Letizia. Quando tu sei arrivata ad Auschwitz con il treno, con il Transport, il treno dove vi ha lasciati?

R: Dritto dentro in Auschwitz, dritto dentro nel campo è andato.

D: Dopo la spogliazione?

R: Siamo andati in baracca.

D: Ti hanno immatricolata?

R: Sì, prima di tutto mi hanno messo subito il numero sul braccio, poi mi hanno messo qua un numero, 120, e anche qua sul braccio. Sì, sì, me l’hanno messo.

D: Qual è il tuo numero?

R: Questo, 87062.

D: Quando ti chiamavano, come ti chiamavano?

R: Zweite Reihe italienish.

D: Poi ti hanno mandato in baracca?

R: Poi ci hanno portato in baracca. Dormivamo sulla paglia per terra, le russe avevano la loro baracca a piani, noi dormivamo per terra sulla paglia che si bagnava due o tre volte al giorno questa paglia. Quindi dormivamo in acqua. Capisce? Iole e Emma, ci credo, loro avevano lavorato nei campi però, quella che ha parlato ieri con loro.

D: Tu invece dove hai lavorato, oltre a quel fosso?

R: Vicino alla baracca, in questo canale lavoravo. Io non sono andata in campo.

D: Sei sempre stata lì a lavorare?

R: Fino a che è venuto un signore di Kirchenberg, è venuto e mi ha guardato le mani bene, così, avevo le mani forti. Poi mi ha portato lì per andare a lavorare in fabbrica di munizioni.

D: Quanto tempo sei rimasta ad Auschwitz Birkenau?

R: Penso un due mesi e qualcosa. Guarda, questa è una domanda che non mi ricordo più niente. Perdo i colpi adesso. Sul serio, sa? Perdo colpi. A Kirchenberg siamo rimasti abbastanza, camminavamo per andare dove lavoravamo dodici ore, sia di notte sia di giorno.

Cosa che non dava quel pochettino di patate marce che bollivano in acqua. Io aspettavo quando vedevo un tedesco che spellava le patate, speravo che andava via presto che le andavo a ingrumare, le mettevo in vaso tipo di conserva in cui si tiene la salsa, questa roba qua, per poterle lavare e cucinarle, mettere un goccio di sale e mangiarmele.

D: Le bucce delle patate?

R: Le bucce delle patate, sì. Quando andavamo anche a tirare fuori, perché loro facevano un fossato e dentro mettevano un tubo per dare aria alla patate dentro, un fossato grande e le patate erano marce. Però erano come impuzzate dentro queste patate, però noi facevamo così e le mangiavamo. Per non morire.

D: Ascolta, a Birkenau…

R: Non so cos’è Birkenau.

D: Auschwitz.

R: Allora parlami di Auschwitz, non di Birkenau.

D: Quando tu sei rimasta lì a Auschwitz…

R: Sono stata poco là. Siamo restati poco perché poi è venuto quel signore che mi aveva scelto e siamo andati subito là a Wittenberg.

D: In questa fabbrica di munizioni.

R: Fabbrica di munizioni.

D: Il Lager dov’era rispetto alla fabbrica? Era vicino?

R: No, la fabbrica era sul monte e giù in pianura c’era il Lager. Quando c’era il coprifuoco e quando volevano bombardare, noi eravamo in un bunker che era tutto munizioni sotto. Noi pregavamo Dio e la Madonna che mi ha salvato la vita, perché tutto in giro avevamo le munizioni e se scoppiava la bomba scoppiavamo anche noi tutti per aria.

D: Quindi voi ogni giorno lasciavate il Lager per andare in fabbrica?

R: Sì, ogni giorno. Durante il giorno dovevamo pulire intorno quando c’eravamo, dopo andare a lavorare. A me m’avevano fatto questa bua, allora le russe maledette, cattive come il diavolo, loro non volevano fare, le capisco, e quando veniva il controllo dentro e non era fatto, davano addosso a me. Ero ventiquattro ore coi miei ginocchi, che oggi non posso camminare, sulla giarina, inginocchiata finché veniva fuori il sangue con un tedesco collo schioppo davanti.

D: Questo per punizione?

R: Per la punizione. Prima le ho prese col manganello, dopo mi hanno messo a fare per punizione quella roba là, inginocchiata ventiquattro ore.

D: Ma tu cos’avevi fatto, Letizia?

R: Io ho nettato tutto sotto i nostri Lager, di Emma, di Iole, perché eravamo insieme e questa signora Anna che prima ti dicevo che è in Australia, eravamo insieme. Io e Emma eravamo sempre state insieme nella stanza. Però queste disgraziate non volevano pulire niente, allora noi le prendevamo per loro. Dopo è venuto questo signore, che siamo andate a Kirchenberg. Là avevo trovato un vecchio, povero, che faceva la guardia in fabbrica. Noi per settimana prendevamo sette sigarette per paga, allora questo tedesco vecchio mi diceva che se io gli davo le sigarette, lui mi lasciava tutto il suo mangiare. Beato Dio, che almeno ho portato trentacinque chili a casa, trentacinque chili. Come ti chiami di nome?

Così io gli dicevo di sì, perché o mi dava la polenta o le patate o qualunque cosa sia avevo qualcosa in stomaco. Poi avevamo anche le cape dentro che stavano vicino a noi, poi avevamo dei piatti così capovolti, lisci e questo era per le capsule che si mettono sulle munizioni per tirare. Guai se c’era una striscia.

Noi avevamo cinquecento lampadine sopra di noi, noi avevamo perso la vista del tutto, ma là non perderemo mai. Anche questa capa nostra a me lasciava un piccolo pomo o un goccetto di pane, mi mostrava con la mano, non poteva venire vicino a noi. Intanto non avevamo proprio lo stomaco vuoto, allora quell’altra che fumava ne diceva di tutte brutte parole, diceva: “Anche noi ti lasciamo mezzo nostro pane”.

“Ma tu mi davi mezzo così del tuo pane, mentre io avevo un bel piattino di patate. E’ facile per te stare senza fumare, ma io senza mangiare no”.

Così si è andato avanti parecchio tempo. Venivamo a casa, buttavano scorze di patate, patate neanche lavate, marce, come c’erano, e buttavano un poco di grish e questo lo mettevano in questo coso che avevamo, tipo militare, dentro e mangiavamo sempre con questa roba. Noi la chiamavamo Miska.

Ce la portavamo sempre con noi. Sul petto, per non farcela portare via. Il cucchiaio e questa roba qua. Questo lo davano alla mattina, finché non venivi a casa non ti davano più da mangiare. Venivi a casa e ti davano la stessa roba. O ti davano il tè alla mattina, acqua e basta che ti slavazzava lo stomaco e nient’altro. Là dovevi stare tante ore con quella roba.

D: Prego, Letizia.

R: Dove eravamo?

D: Lì in fabbrica di munizioni…

R: Eravamo in fabbrica dove lavoravamo. Facevamo tanto che avevamo una cara amica di passato il fiume, verso il Bona, non so poi se è viva o se è morta. Perché poi via dalla Germania, io sono andata una delle prime via, sono andata per la Jugoslavia, siamo venuti a casa.

Quando siamo venuti a Trieste col treno del bestiame naturalmente siamo scappate fuori di modo da non metterci in quarantena. Ma questo è tutto dopo. Là lavoravamo le ore che dovevamo lavorare ed eravamo per diverso tempo. Questo vecchietto che mi dava da mangiare mi diceva: “Non preoccupatevi che si avvicina il fronte russo”. Se non che dopo siamo andati a Mauthausen da là.

D: In questa fabbrica che facevate le munizioni quanto tempo sei rimasta?

R: Non lo so, so abbastanza, la maggior parte del tempo eravamo in questo Lager dove facevamo le munizioni. Assai tempo eravamo là, vedevi che morivano. Non occorre neanche pensare, poi ti racconto cosa mi è successo a me.

Là lavoravamo, venivamo a casa e facevamo lo stesso lavoro, sempre con le gambe nude, senza calze, senza niente. Poi un giorno cominciano a bombardare e questo signore mi ha detto: “Guarda che presto si avvicinano i russi verso di voi”.

Allora a noi ci hanno fatto rendere con tanti di quei carri di quattro cavalli, ne toccava menasse la poletta con le gambe, con le mani, avanti, tutto con le mani. ….Carichi questi carri, dormivamo per i fienili alla notte che ci fermavamo, finché siamo arrivati a Mauthausen.

Là ci hanno portato in un bunker giù, non su in alto, in alto c’erano gli uomini, di sotto eravamo solo donne. Io sempre con questa lattina che aspettavo per ingrumare queste scorze di patate. Le mie amiche erano dentro che dicevano: “Noi ci buttiamo un poco”. Dicevo: “Buttatevi, io vado fuori se posso prendere qualche cosetta”. Tanto che mettevo ho detto: “Madonna mia, ma qua cos’è successo?”. Guardo dappertutto, non ci sono tedeschi, non ci sono scorze di patate, non c’è niente.

Chiamo: “Iole, Emma, correte fuori. Antonia, corri fuori”. Che poi i tedeschi hanno ucciso il figlio a quest’Antonia e la nuora bruciata in Risiera. “Cos’è, Letizia?”. “Cosa sono le bandiere?” ho detto, “Cosa sono le bandiere su in alto?”

Tutte bandiere su, di tutti i colori le bandiere, non solo tedesca. Oltre il portone non c’erano tedeschi intorno al Lager, perché poi penso che sotto facevano gli aeroplani dove eravamo noi in questa baracca. Solo che era tutto un …, dormivamo uno sopra l’altro, tutto bagnato, tutto sporco, tutto quello che vuoi, le donne piene di pidocchi, povere.

C’erano tante bestie intorno, era tutta sporcizia da numero uno. Noi andiamo su, quando veniamo su troviamo tutti questi morti uno sopra l’altro. Non si capiva se erano donne o erano uomini, perché la natura dell’uomo non la vedevi, il collo era tutto dentro, ritirati i nervi, solo questa povera testa che non era né dentro, non aveva niente, cadaveri proprio.

Come se li avessi tirati proprio fuori dalla bara, ecco. “Dio, Dio”, ho detto, “quante mamme piangeranno queste creature”. Dopo questi americani ….., erano bloccati in giro, tutto attorno hanno dovuto scavare con la gru, hanno messo solo un coperchio così sopra in modo che solo il viso era coperto, chi era così, chi aveva le gambe così, erano tutti storti, poveri, uno sopra l’altro. Guardiamo come li seppelliscono e tutto.

Queste povere donne, puoi immaginare, mangiare mai né condito né cotto niente neanche, cominciano a dare margarina, tè, questo e quell’altro, una roba e l’altra, hanno preso tutti la diarrea. Io grazie a Dio no. Io e una mia amica, questa è bella, sa? Abbiamo rotto una coperta e abbiamo fatto a mano una borsa a tracolla, siamo andate fuori dal Lager.

Ho detto: “Andiamo, andiamo a domandare di darci un pochettino di cipolla, un po’ di aglio, una roba e l’altra”. Avevamo desiderio di mangiare quella roba là. “Zweite Reihe Italienish, los”, diceva, “geh mal los “. Va bene.

Se non che noi andiamo avanti, c’era un russo che lavorava in una fattoria, si è innamorato della mia amica. Io so abbastanza parole in russo, adesso magari mi sono anche dimenticata abbastanza, ho detto: “Aspetta, aspetta”. Abbiamo preso la falce, addosso a una gallina così e l’abbiamo tagliata, abbiamo messo la testa, il collo sotto l’ala, perciò non veniva fuori sangue. Siamo venute al campo, avevamo abbastanza verdura, abbiamo rotto il gabinetto, avevamo un secchio.

Io ho cucinato il brodo e l’ho portato da mangiare alle ragazze, brodo e questo. Dovresti andare a Pola, ti racconterebbero loro quello che ho fatto io per loro, non per loro, per tutte. Sempre io ho fatto per loro. Di queste ragazze che c’erano, ho detto: “Madonna mia, bisogna dargli da mangiare qualche cosetta, perché non possono stare così”. Sono andata dove c’erano quei bei lenzuoli a quadri, ho detto “Aspetta che li porto nella mia baracca, dopo a me mi portano a casa”.

Allora io ho portato a casa questa roba, signorina. Mi dicono: “Letizia, cosa pensi di fare con questa roba? Lascia stare”. Portavo tutte queste cose e mettevo tutto sopra alla baracca, sopra questo letto. Quando vedevo che questa signora stava male, ho detto: “Cosa ha, signora, che non lascia andare su?”. Corre in gabinetto e aveva tutto questo mangiare sopra la branda, prendo questa roba e tutta via in condotta, in gabinetto.

Quando via di là, mi fa: “Ma chi mi ha portato via tutto il mio mangiare?”. “Io”. “Ma perché mi hai fatto questa roba?” ha detto. “Perché l’ho fatto? Perché ti porti la testa a casa” le ho detto, “Non ti da più figlio, hai una creatura piccola a casa, bisogna che vai a casa per lei”.

Perché aveva lasciato un piccolino a casa e il marito, uno l’avevano ammazzato i tedeschi, impiccato. Ti raccontavo che ieri sera c’era il nome di questa ragazza. Siamo andate a casa per via Lubiana, Maribor, a Trieste, siamo scampate via da là.

Valcovic Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Ci dici come ti chiami?

R: Mario Valcovic, nato a Umago il 07.04.1925, allora era provincia di Trieste ma ora è Croazia.

D: Mario, quanto ti hanno arrestato, chi ti ha arrestato e perché?

R: Mi hanno arrestato le SS il 20 dicembre 1943 a Doberdò del Lago, in provincia di Gorizia.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Perché ero armato, ero con i partigiani; ad un rastrellamento sono venuti alla mattina e ci hanno arrestati tutti, tanto è vero che eravamo in un fienile, avevamo tirato su la scala, c’eravamo un po’ occultati, per dire la verità, ma dopo due o tre tentativi che cercavano in quella stalla o nella stalla vicina; noi eravamo armati.

Sono andato fuori, in quel momento è venuto un contadino che lavorava in questa piccola fattoria ed ha fatto cenno che i partigiani erano sopra: le SS erano andate in una stalla e con degli uncini cercavano nel fieno, ma non avevano trovato nessuno.

I partigiani erano sopra: noi avevamo tirato su la scala, eravamo in sei su ed uno, poveretto, si è fatto prendere dal timore, dal panico, tremava tutto, noi eravamo in cinque sopra di lui a tenerlo, per non far sentire di sotto.

Io ero ferito e sono andato su proprio quel giorno, sono rimasto lì per non tornare a Monfalcone.

C’era un giovane alpino di Bergamo, vent’anni aveva, è sepolto nel cimitero e non se ne sa ancora nome e cognome, partigiano ignoto, io ho cercato, abbiamo anche scritto ma non abbiamo mai saputo come si chiamava né niente.

Questo alpino, questo giovane di Bergamo, quando i tedeschi sono arrivati di nuovo lì ha tirato due colpi di pistola ed i tedeschi si sono ritirati, sono andati indietro cinque o sei metri ed hanno cominciato a sparare, da sotto e da una finestrella piccola.

Mi ricordo ancora che ho messo il viso e mi è passata una pallottola che mi aveva bruciato tutti i capelli.

Avevano sparato due, tre minuti: di sotto si vedevano questi tedeschi, avevano quelle bombe con il manico, se buttavano su una bomba saltavamo noi che eravamo in cinque con tutto il paese vicino.

Dopo un paio di minuti o secondi, noi avevamo messo il fieno, si sentiva sparare da tutte le parti, era tutto un fumo ed abbiamo gridato di fermarsi, “Veniamo giù, ci arrendiamo”.

Hanno smesso di sparare: poi dovevamo andare giù, ci aspettavano, abbiamo messo la scala di nuovo per andare giù.

Nessuno voleva essere il primo.

Mi ricordo come adesso, sono passati cinquantasei anni, ho buttato una giacca al tedesco che era sotto, l’ha presa nel mitra ed ha cominciato a sparare di nuovo, poi hanno cessato e niente da fare, nessuno voleva andare giù per primo.

Finalmente il più coraggioso, questo che è morto a Mauthausen, Giorgio, è andato lui per primo.

Com’è andato giù lo aspettavano, gli hanno dato col calcio del mitra e l’hanno portato dove c’era il comando partigiano, piccolo comando partigiano, l’hanno messo lì.

Poi il secondo, nessuno voleva andare giù, il terzo, intanto a fianco c’era una parete e c’era una piccola finestrella, si poteva tentare di scappare e poi saltare in un orto vicino.

Uno o due si sono messi a scappare da quella parte, ma intanto al secondo che andava giù è arrivata la stessa sorte e poi io ho tentato, uno è scappato, ma dove tentavano di scappare?, saltava nell’orto e lì c’erano i tedeschi che l’aspettavano e li portavano dentro nella cucina.

Mi ricordo che volevo anch’io saltare, ero già a metà finestrella, ma poi uno più grosso mi ha tirato indietro, io avevo diciotto anni, ma ero magro.

Due sono usciti, io sono uscito per terzo, il quarto è andato giù per questa scaletta e con i due che erano usciti dalla finestrella ci siamo ritrovati tutti nella stanzetta.

La stanzetta me la vedo ancora, una scatola di scarpe: noi eravamo tutti armati di pistole e bombe, hanno messo le pistole e le bombe in questa scatola, ma eravamo in sei ed avevamo cinque pistole, loro battevano che ne dovevamo averne sei.

Uno ha detto: “Ma io non l’avevo, non ero armato”.

Allora il tenente ha detto: “Se entro due minuti non viene fuori la sesta pistola venite uccisi tutti quanti”.

Sono tornati di sopra a cercare ma effettivamente non c’era.

La cucina era piccola, un tavolino e tutti sei in piedi, bianchi, cadaveri, perché non occorre neanche dire in che condizioni eravamo.

E’ venuto dentro un tedesco, era vestito da militare ma era metà civile, aveva un cappello da contadino e ha detto: “Questo è il comandante dei partigiani”; il comandante dei partigiani si chiamava a quei tempi, adesso è morto anche lui, Sirio Malega. Alla sera avevamo cenato lì, avevamo mangiato la minestra con i bigoli: il tedesco ha preso il tegame e l’ha rovesciato in testa. Come ha rovesciato questo tegame, l’ha preso per l’orecchio e gli ha tagliato l’orecchio, si immagini lì a vedere l’orecchio tagliato, fagioli, pasta nel viso e lui con mestolo che gli dava botte in testa.

Eravamo tutti pieni di paura, intanto i tedeschi avevano circondato tutto il paese e portavano tutta la gente in piazza, perché la piazza da lì a lì sono 20 metri.

E’ venuto un comandante che era lì ed ha detto: “Questo è il comandante dei partigiani”. Eravamo tutti e sei sulla porta, non hanno scelto, è venuto un tenente, ha preso il primo che era vicino alla porta, l’ha portato fuori dalla porta e gli ha sparato con il mitra due scariche, ci hanno fatto passare davanti a lui, intanto tutto il paese era portato fuori, ci hanno messo davanti alla chiesa, a quei tempi si vedevano i pini nel cimitero. Pensa che ci hanno preso alle 7.05 della mattina, siamo stati con le mani in alto mezz’ora, un’ora; tenere le mani in alto è difficile, se tu le tieni cinque minuti ti fanno male i nervi.

Noi per la paura eravamo sempre con le mani in alto.

Ha preso tutto il paese fuori, hanno tirato fuori quattro con la mitraglia e si pensava che tutto il paese era fuori e noi lì, uno era morto per terra, pensavamo che ci uccidessero tutti, invece è venuto Blechi, il famoso Blechi, lo ricordano tutti e poi ha tradito ed è andato con loro, ha combinato più danni lui finché è stato ucciso da noi. L’hanno preso qui, l’hanno ferito, l’hanno portato in ospedale e poi siamo dovuti andare lì ad ucciderlo, hanno ucciso lui ed anche la mamma che era vicino.

Perché è finito così, perché lui ha fatto uscire tutto il cantiere, uno ad uno, circa duecento sono stati fatti prigionieri da lui.

I due comandanti si sono messi d’accordo di portarci a Monfalcone. Sono cinque chilometri e mi ricordo ancora, non avevo neanche legato le scarpe, c’erano i lacci molli ed ero ferito al ginocchio.

Ci hanno messo una bicicletta a tracolla ed una cassetta di munizioni, con le mani in alto fino a Monfalcone, attraverso i monti. Prima di scendere, hanno tagliato il monte, “Adesso ci uccidono lì!” invece ci hanno portato fino a Monfalcone.

Uno lo hanno ucciso lì e noi ci hanno rinchiusi a Monfalcone, c’era una fabbrica di colori, ci hanno chiusi tutti in un gabinetto. Il primo interrogatorio: hanno domandato se eri partigiano, perché, per come, allora bisognava trovare delle scuse, perché ero andato prima, ma non l’ho detto a loro.

Ma perché un giovane così grande e bello è andato con i banditi, con i ribelli? L’8 settembre non veniva nessuno e siamo scappati, ma chi vi ha mandati, come siete andati. Parlavano in cantiere, siamo andati su come bambini.

Ci hanno preso e ci hanno portato con un camion.

Prima siamo andati in stazione a Monfalcone, il treno non arrivava mai, siamo scesi alla stazione, le SS hanno fermato un camion e ci hanno portato a Trieste.

Mi ricordo ancora che eravamo lì ed intanto si era propagata la voce, qualcuno di Monfalcone voleva tentare, a parte che di tedeschi ce n’erano venti, venticinque e noi eravamo in sei.

E’ sceso da un’auto, da Trieste, un piccolo repubblichino, parlava in tedesco ed ha chiesto: “Chi sono?” “Banditi”.

Uno di noi ha risposto: “Meglio essere banditi ribelli che un collaborazionista come te”, gli ha sputato ed andato via.

Hanno fermato un camion e ci hanno portati a Trieste.

A Trieste alla stazione, fino in Via Ghega a piedi, poi dove va su il tram ad Opicina, hanno fermato il tram, il manovratore, erano due donne e noi dentro, tutti sanguinanti, e le donne piangevano, ci hanno portato fino davanti a Piazza Oberdan, su ad Opicina, ci hanno fatto scendere e siamo andati su.

Poi ci hanno portato in una villa di SS, mi ricordo come adesso, abbiamo passato una notte con loro, loro erano lì che mangiavano, parlavano, fumavano, buttavano le sigarette vicino e si è passati la notte lì.

Alla mattina è venuto un camioncino, avevano quei camioncini gialli, che avevano pala e piccone dietro incrociate, “Adesso ci portano al poligono”.

Invece hanno fatto il giro per Trieste, siamo andati giù e siamo andati alla prigione

Ci hanno portato in Coroneo ed io mi sono fatto trentacinque giorni solo e gli altri erano assieme.

Lì Blechi era venuto, io ho subito un interrogatorio solo in piazza Oberdan.

Una camera imbottita, una grande carta geografica topografica della regione, la stenografa, due tavolini con la corrente elettrica, nome, cognome, perché sei andato con i partigiani ed io ho risposto a tutto.

Ad un certo punto hanno legato le mani.

Io ho visto le foto del Vietnam, un bastone qui, due sedie e ti capovolgi.

Poi mi hanno buttato un secchio d’acqua e sono rotolato giù e mi hanno portato nelle cellette piccole, buie.

Fortuna che io ho subito un solo interrogatorio, trentacinque giorni, intanto nel frattempo avevo trovato anche mio fratello, visto nel corridoio, perché andavo all’aria solo, gli altri andavano assieme a camminare, quella mezzora o un’ora.

Allora lì nelle celle, che eravamo isolati, sentivo, chi sei e nel frattempo avevano fatto prigioniero tutto il Comitato di Liberazione di Trieste, chi si ricorda c’erano tanti di loro lì.

Piccolo particolare, ero solo, il secondo giorno ero tutto ammaccato, ero seduto sul letto, perché ero pieno di piaghe, ad un tratto aprono la porta ed arriva un graduato tedesco, con il secondino ed io con le mani così chissà pensavano, non mi sono alzato, allora ha cominciato a gridare in tedesco a quell’altro. Gridavano tra di loro, verso me, poi mi sono alzato, tutto spaurito. È andato via il tedesco ed ho chiesto cosa avesse detto. Aveva detto: “Portati via il lettino con la coperta, perché non ti sei messo sull’attenti di fronte ad una SS”. E’ sei mesi che dormo nel bosco.

Un giorno: “Valcovic prendi la roba, vai a casa”. “Non prendo niente, perché mi portano a fucilare”. “Sul serio, prendi la roba che vai via”.

Malvolentieri ho preso quei quattro stracci che avevo e mi hanno portato giù e lì ho trovato tutto Monfalcone, che nel frattempo avevano fatto prigionieri. Intanto quei cinque che eravamo assieme e poi tutti gli altri e lì c’erano tutti: Quinto, Luciano Recnis, tutti gli amici.

“Ci portano in Germania, andiamo… forse si starà meglio”, perché qui c’era sempre la paura, ogni tanto li portavano a fucilare.

Una mattina, alle 3 di notte, lo hanno portato al Coroneo, con le lampade e siamo andati nel vagone e siamo andati a Mauthausen, almeno noi novantatre che eravamo siamo andati a Mauthausen, ma qualcuno è anche ad Auschwitz, come Giovanni.

D: Quanto sei partito te lo ricordi?

R: Penso il 30 gennaio del ’44. Mi hanno preso il 20 dicembre, trentacinque giorni ho fatto d’isolamento; penso il 28 il gennaio del ’44. Siamo arrivati a Mauthausen penso il 1 febbraio del ’44.

D: C’erano anche delle donne con voi, alla partenza da Trieste?

R: No.

D: Tutti uomini eravate?

R: Sì, tutti uomini.

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Due giorni, perché c’erano i bombardamenti, poi ci siamo fermati. Io sento ancora il treno che fischia in quella stazione, perché siamo stati fermi un paio d’ore o anche una giornata.

Siamo arrivati a Mauthausen.

Io sono andato a Mauthausen nel ’69 ed ho trovato due giovani e cercando da dormire in paese ho detto loro: “Quando ero giovane come voi ero in campo di concentramento”. Loro mi hanno risposto di non saper niente, non aver visto niente e non sapere nulla.

I tedeschi si erano fatti furbi, avevano messi due o tre partigiani presi nei boschi in Jugoslavia, non so come erano capitati al Coroneo a Trieste e li avevano messi davanti al nostro convoglio. I bambini ci sputavano addosso, a me avevano scritto “Banditi, ribelli”, ci sputavano e ci tiravano sassi.

Siamo arrivati davanti al portone, ci siamo spogliati, tutto in terra. Abbiamo mangiato, c’era ancora qualcosa, perché quando eravamo al Coroneo qualcosa arrivava, arrivava il pacco ogni quindici giorni.

Avevamo mangiato tutto quello che avevamo, burro, zucchero ed abbiamo fatto bene, perché poi non abbiamo mangiato più per diciotto mesi, non abbiamo mangiato più.

Hanno preso il nome, a chi l’aveva la fede, qualche catenina, qualche dente d’oro e siamo passati, ci hanno tagliato i capelli, rapato a zero, messo il numero e siamo andati in quarantena.

D: Il tuo numero di Mauthausen?

R: 50.916. Me lo ricordo perché per dire la verità, quando ero a Gusen 2, chiamavano in due o tre lingue all’appello, italiano no, tedesco, francese e polacco. Anche quello me lo ricordo. E chiamavano i numeri, gli ultimi erano inebetiti e non sapevano, non rispondevano, perché bisognava rispondere.

D: Stavi dicendo della quarantena di Mauthausen.

R: La quarantena di Mauthausen è la quarantena, l’ho raccontato anche adesso, nella baracca stavamo in mille; non c’erano castelli, si dormiva per terra e per terra facevano la fila e ti sdraiavano, testa e piedi testa e piedi; tra una fila e l’altra c’era uno spazio di 50 centimetri.

Quando ci mettevamo l’uno contro l’altro, con testa e piedi, e non ci stavamo tutti, veniva il capo e ci stringeva come le sardine; il bello era che poi di notte chi doveva andare a fare la pipì, tu ti alzavi ed il posto non lo trovavi più, perché erano tanto stretti che non vedevano l’ora che qualcuno si alzasse per recuperare un po’ di spazio.

Poi anche lì avevamo la giacchettina ed il berretto raggomitolato, le ciabatte, non mi ricordo neanche se avevamo le ciabatte. Ti alzavi e camminando toccavi qualcuno, la testa o il piede, allora da quello prendevi un morso e ti buttava avanti, quell’altro ti dava un calcio più avanti, perché la baracca era lunga 20 metri, 30 non so quanto, insomma a suon di calci e morsi arrivavi fino al gabinetto, poi era un altro problema ritornare al posto, perché il posto era occupato.

Quando arrivavi lì vedevi il posto, cercavi di allargare e loro cominciavano in tutte le lingue a bestemmiare, era un problema.

La mattina quando pulivano eravamo tutti fuori, il muro c’è ancora a Mauthausen e quando c’erano da fare le pulizie del blocco ci buttavano fuori e fuori … era gennaio e febbraio, c’erano 17 gradi sotto zero, per riscaldarci ci mettevamo l’uno sopra l’altro, appoggiati al muro, addossati al muro, ma quando eri il primo era una cosa, il secondo, il terzo, ma quando ce n’erano dieci che ti pressavano, non ti veniva più il respiro ed allora era un continuo uscire fuori e metterti davanti, era un continuo girotondo di corpi umani, questo per quelle due ore intanto che pulivano e poi ritornavamo in baracca.

In baracca sempre silenzio.

Due volte ho fatto il viaggio sulla scalinata perché dovevano allargare il campo ed ho fatto due viaggi con le pietre, l’ho fatta due volte la scalinata.

Non ho fatto quaranta giorni.

Al primo trasporto siamo andati in tre: io, Ulian Andonando e Lino Furla, in tre siamo andati, del nostro convoglio, noi che eravamo arrivati, siamo andati a Loilblpass, in treno, tutti ci guardavano, ma rimanevamo isolati. Tutti ci guardavano.

Ci hanno portato lì, poi con un camion ci hanno portato su, perché da lì a sopra saranno 12 chilometri e da una fabbrica ci buttavano pezzi di pane.

Siamo arrivati nel campo; pochi si sono fermati nel campo dalla parte jugoslava, campo sud e noi, attraverso un piccolo cunicolo, perché era già bucato dove poi si costruiva il tunnel, quando sono arrivato io avevano fatto pochi metri.

Siamo andati dalla parte di là e là eravamo adibiti a spalare neve. A quei tempi nevicava e toccava spalare la neve e buttarla in una muraglia, due o tre metri di neve, sempre buttare sopra ed ogni notte nevicava.

Le SS, i giovani, cantavano tutte canzoni partigiane, per vedere chi erano partigiani da noi, perché erano sloveni o croati e le sapevano le canzoni ed uno di noi, Ulian, rispondeva: “Ma stai zitto, vedi che fanno apposta per sapere da dove vieni e cosa hai fatto?” Invece lui era un po’ intontito e rispondeva; poi buttavano le sigarette e quando andavano per prendere la sigaretta te la schiacciavano davanti.

Lì abbiamo fatto venti giorni e poi sono andato nel comando dove tagliavano gli abeti. Tagliavano gli abeti, i più dritti, per adibirli a rinforzare le impalcature del tunnel che stavano costruendo dalla parte austriaca.

Tanto è vero che c’erano cinque baracche di qua e cinque di qua, ma una, quella verso l’Austria era quasi vuota.

C’erano gli addetti che segavano i pini, poi qualcuno era adibito a pulire i rami e poi bisognava portarli sulla strada principale.

Allora lì era un bosco, buche, non era uniforme la strada e le SS erano due o tre. Ne mettevano dieci da una parte e dieci dall’altra, o quindici e quindici, poi mettevamo il tronco sulla schiena. Quando eravamo pronti le SS sfoltivano un po’, uno sì, tre no, perché sembrava che facessimo poca fatica.

Tutti gli addetti ai lavori non erano della stessa altezza, io a quei tempi ero 1,85, qualcuno era 1,70 ed il peso non era uniforme, perché pesava sulle spalle agli altri, insomma a suon di botte si portava fin sulla strada.

Era vicino il campo, ogni giorno dovevamo portare una pietra per il campo, Mauthausen erano quelle pietre e lì, invece, il male era che dovevi prendere la pietra da solo, erano accatastate le pietre, però dovevi prenderne una media, se ne prendevi una piccola … una volta sono stato fregato. Ne ho preso una piccola e la SS mi ha buttato via quella e me ne ha messa una in spalla, non riuscivo, mi è scivolata, fortuna che sono arrivato tutto graffiato, tutto sanguinato ma sono arrivato fino all’entrata del campo.

Ogni giorno era così.

Nevicava sempre. Mi è venuta la scabbia e la scabbia si allargava sempre di più, macchie, pus. Dovevamo andare in ospedale, perché nella parte sotto c’era un piccolo ospedale: mi hanno salvato due dottori, un cecoslovacco ed un francese.

Nel frattempo un polacco è riuscito a dare la pala in testa ad un SS ed è scappato; l’hanno preso dopo tre giorni.

In quei tre giorni abbiamo fatto il campo pulito come un biliardo a suon di botte e dopo tre giorni l’hanno preso, è arrivato in campo di nuovo, ma sapete come l’hanno ucciso? Siamo tornati, la SS era ancora con la benda, tutti schierati intorno, su una pietra grande; hanno dato alla SS un martello grande e l’hanno fatto picchiare, tutti in giro a guardare e lui picchiava. I primi dieci, cento colpi, con la pistola, ogni tanto si fermava, me lo vedo ancora adesso, con quei capelli, zebrato: ha fatto un buco così nella pietra, veniva su il fumo bianco ed aveva tutte le sopracciglia bianche, ogni tanto si fermava, insomma ha resistito fino a mezzogiorno.

I suoi compagni lo hanno lavato, ma con la stanchezza, sono tornati alle due, non ne poteva più, era tutto sanguinante allora le SS gli hanno tirato con la pistola davanti a noi.

A dire la verità ne ho visti tanti, anche annegare, poi pensavo, come diceva prima Mario, alla forca: pensavo che quando impiccano uno muovesse le gambe, invece inclina solo il viso, viene fuori la lingua, a parte che sono già morti prima, perché sono cose inaudite.

Ho preso la scabbia e sono rientrato nel campo A nella parte jugoslava, là era meglio, là erano organizzati, ho trovato Lino Furlan, che parlava un po’ il francese, si è messo d’accordo con il dottore cecoslovacco, sono guarito dalla scabbia. Prima di andare via è venuto vicino, si è graffiato e si è infettato anche lui; dopo un paio di giorni è venuto anche lui di là e ci siamo rimasti tutti e due. Lino ha trovato lavoro, io sono guarito dalla scabbia e sono andato a lavorare. Lì ho trovato un bel lavoretto, il cambio turno dei minatori: avevano l’elmo con la luce e si incontrava il turno di notte a metà strada dal campo a lì sarà un chilometro e si incontrava.

In tutte le lingue chiamavano, si salutava e si incontravano alle due, solamente alla domenica ci si vedeva.

Io ero in un comando a scaricare sacchi di cemento, arrivava il camion di cemento, poi c’era una baracca ed un paio di minuti portavano questi sacchi, li stivavamo lì e poi ce ne stavamo nella baracca. Se non mi veniva la febbre non avrei patito tanto come quello che mi è toccato a Gusen 2.

Sono andato in infermeria, perché il dottore imparava l’italiano, avevo sempre febbre, mi ha tenuto quindici giorni, mi cambiava; ogni mattina arrivava alle sei, controllava tutti sul letto.

Poi sono dovuto ritornare in campo, ho preso due pleuriti e solamente ad agosto o settembre sono ritornato in campo a Mauthausen.

Andando in campo, con il cambiamento d’aria e a vedere tutti quei morti mi è sparita la febbre.

Camminavo, non avevo più febbre, sono stato dieci, quindici giorni lì.

Prima Lei ha domandato se c’erano dei preti, io ne visti in baracca a Mauthausen. Non so quanti; c’era un posto per loro, avevano un rotolo di pelle come le gomme, avevano cinque o sei rotoli di pelle attorcigliata, perché si vede che prima erano abbastanza grassi.

Sono ritornato in campo.

Poi tornato in campo di nuovo abbiamo fatto la quarantena e la prima volta ho detto di essere un meccanico aeronautico e mi hanno mandato a fare la galleria, ho dormito trentatre giorni assieme ad un ingegnere, un giovane ingegnere francese ed avevo imparato abbastanza bene. “Mario, la prossima volta vieni con me”.

Cercavano ingegneri, controllori, ho detto che lavoravo in aeronautica.

Il secondo trasporto, da Mauthausen siamo andati a piedi a Gusen, attraverso i boschi, me lo ricordo ancora: era settembre e c’erano delle mele, cercavo con i piedi di poter prenderne una, la SS guardava: niente da fare.

Sono arrivato a Gusen.

D: A quale Gusen?

R: 2, ma Gusen 2 o 1 era quasi uguale. A volte durante i bombardamenti ci portavano in galleria a Gusen 1, dove c’era una galleria in costruzione. Me lo ricordo, sa perché? Perché un giorno c’era un bombardamento e mi ero appisolato, sono caduto giù, saranno stati due metri ma c’era la sabbia.

Come primo lavoro mi hanno dato la carlinga, facevamo le carlinghe.

Mi hanno dato due rotoli da disegno, non so quanti colori… “Il primo che fa sabotaggio viene impiccato subito”. A dire la verità lavoravo all’aggiustaggio, non avevo mai visto tanti fili di tutti i colori, cose che non avevo mai visto.

Mi è venuta la febbre una mattina. Sono rimasto a casa e la sera dopo ho cambiato e sono andato a controllare i pezzettini che venivano fuori, piccoli elementi che facevano questa carlinga, era facile lì.

Non avevo un disegno, contavo i pezzi, quelli avariati li mettevo in parte, firmavo e avanti, mi sono fatto otto mesi.

Io ed un ingegnere russo fino alla fine della guerra; gli altri dovevano lavorare, c’erano tre turni, dalle 6.00 alle 14.00; dalle 14.00 alle 22.00; dalle 22.00 alle 6.00. Su Gusen io ho letto una testimonianza, ma mi hanno spiegato che c’era il treno che ci portava. Quando si usciva da Gusen ci contavano e si saliva sul vagone, avevano fatto un terrapieno che saranno due chilometri dal campo a lì ed il treno a passo d’uomo si arrivava lì.

Aprivano i vagoni ed entravi a Gusen 2, a Sant Geogen sono stato a vedere ma non si vede più dove c’erano le gallerie, è tutto brutto, sporco, hanno cercato di occultare, hanno fatto saltare tutto.

Come scendevi ti contavano. Controllo sopra controllo, contare, monta in treno, torna ad uscire dal treno, entra in quell’altra gabbia prima della galleria, tutto circondato con la corrente, poi si entrava in galleria e si lavorava.

C’erano tutti i mestieri: tornitori, lattonieri, facevano la carlinga. Il 5 maggio, finita la guerra, era ancora pieno di carlinghe, non so dove le assemblassero; lì facevano le carlinghe, da un’altra parte facevano i timoni, da un’altra parte le ali, da un’altra parte i motori.

La fabbrica non ha mai chiuso un giorno, bombardamenti sempre, si restava un’ora, mezzora senza luce: solo il tifo petecchiale ha fermato la produzione. Nel febbraio del ’45 è scoppiato il tifo petecchiale ed è stata una carneficina.

Fuori, sulla neve, ci hanno dato la puntura; c’erano morti da tutte le parti.

Quattro donne hanno rimesso in piedi il lavoro, abbiamo lavorato fino al 2 o al 3 maggio.

Mi ricordo una notte, la SS aveva un cane lupo grande, è venuta vicino e mi ha detto: “Tutti i calibri ed i disegni portarli in ufficio”.

La SS si è seduta insieme, perché erano mesi che la gente scappava. Gusen è sulla strada, a quei tempi c’era una fiumana interrotta di baracche, cavalli che scappavano da una parte, l’avanzata dei russi verso gli americani: sono venuti assieme russi ed americani a Mauthausen: l’ultima casa era il confine.

La sera siamo tornati in campo, la mattina calmi aspettavamo gli americani e sulle garitte le SS non c’erano più, c’erano quattro vecchi del Comune, quei poveretti che hanno messi lì di guardia.

Alle tre del pomeriggio mi ricordo che c’era uno di Milano, non so se era il senatore Albertini, era un avvocato, non mi ricordo: “Mario, non guardare!” ma io vedevo che qualcosa non andava bene.

Guardo fuori e vedo …. dov’era il magazzino, non so quant’era largo, cinque o sei metri, erano andati in duecento e nessuno riusciva a tornare su: appena arrivava su uno era tutto sporco di zucchero, burro, i capelli, tutto ed appena arrivava su c’erano altri quattro o cinque che lo prendevano e portavano via tutto.

Sono entrati attraverso i vetri rotti, come gli affamati.

Uno era seduto in cucina con la minestra che bolliva e lui con il cucchiaio era seduto sull’orlo che mangiava.

Un altro ha preso un bidone da 50 litri, ad andare vicino a domandare una ciotola di minestra alzava il mestolo! Come dire, paura di non saziarsi con 50 litri! Non ti dava nemmeno quello.

Portavano le patate e le rape in cucina, il campo era grande, però erano tanto ben organizzati i russi, se ne toccavi uno era grave, perché non avevano niente.

Prima c’erano gli ebrei, poi i russi e terzi gli italiani i malvisti nel campo; c’erano diciannove nazioni. Capivo quasi tutte le lingue, perché avevo il numero basso; la gente aveva un po’ di riguardo per me ma io non stavo nemmeno in piedi, avevo le ginocchia così, pesavo 40 chili. Come passavo si scansavano, perché avevano paura, come dire che ero un capo grande.

Insomma i russi, torno a ripetere, andavano all’assalto per prendere una rapa o una patata. Andare a prendere venticinque bastonate con quel tubo equivaleva a mangiare tutto il carro, niente da fare, si erano messi in testa, era il senso della sopravvivenza, stavano lì attaccati. Ma poi, vedere le spartizioni! Nei castelli si dormiva in quattro, quattro e quattro e per spartirsi un pezzetto di pane, il pane al principio era a metà, quando eravamo a Gusen, perché era come a casa a confronto di là, poi in quattro, poi in otto, poi in dodici, poi in ventiquattro. A ventiquattro avevano fatto i bilancini, grammo per grammo, come le formiche. Vedere la spartizione! Poi c’erano i kamikaze.

Non so quanto spazio ci fosse da un castello all’altro, 80 centimetri, 50: con le gambe non si riusciva, due si buttavano dentro e qualcosa dovevano arraffare, poi non spartivano lì, dovevano saltare ed andavano fuori e si spartivano tra loro.

Era una cosa vedere la sera la babele di tutte le lingue.

Poi i trucchi con le sigarette, da un campo all’altro: si doveva vendere un pacchetto di sigarette, prima di buttare, nessuno voleva buttare prima il pane e le sigarette, fare il cambio, niente, volevano cercare, “Ma è sicuro che sono buone?”, “Sì, guarda”, il russo fumava e gli dava…

Quando facevano il cambio era paglia, avevano imbrogliato.

D: Mario, tu da Gusen 2 uscivi dal campo, salivi sul treno ed andavi a Saint Georgen?

R: Sempre con il treno. Si scendeva di nuovo e si entrava, anche lì era chiuso con la corrente, si passava, contavano dieci. Devo raccontare una cosa di Gusen 2: l’ultimo mese era il mese più brutto, in aprile morivano tutti, perché il mangiare non c’era, bombardamenti, scappavano… la Croce Rossa ha mandato un paio di pacchi ai polacchi, ai francesi, agli italiani no, noi eravamo i peggiori.

L’ho detto: ebrei, russi e poi noi.

Avevano spartito questi pacchi e poi la notte non si poteva dormire più, perché dove c’era un pacco si sapeva che c’era un pezzetto di cioccolata, due sigarette. Allora sentivi di notte l’assalto: levavano le assi da sotto, crollava il castello, era tutto un fuggi fuggi, sentivi, non occorreva suonare lì, le intere zone di luce erano lo spauracchio, quanto sentivi “tic” erano tutti all’erta.

Allora quattro botte e tutto ritornava normale: due giorni, tre giorni, e i pacchi avevano già cambiato residenza: dai polacchi erano andati ai russi, dai francesi dall’altra parte. Quelli che avevano più fame e che erano più organizzati avevano rubato tutto.

Gli ultimi giorni vedevi quando scendevamo dal treno, all’entrata della galleria, c’erano 100 metri, lo vedevi quello che aveva ancora un pezzettino di cioccolata, due sigarette, un pezzo di pane. Dietro vedevi come gli squali tutti quegli altri, aspettavano di entrare in galleria e quando arrivavano in galleria sentivi urli, grida e quello rimaneva tutto stracciato, sanguinante e della porzione di pacco che gli era rimasta non aveva più nulla.

Poi quando arrivava sul lavoro prendeva anche là la dose, perché era tutto sbracato, tutto sanguinante. Ogni sera portavamo a casa i morti, cinque, sei, avvolti nei sacchi di cemento.

Una notte c’era un bombardamento, mi hanno chiamato. Erano le sei e tre di noi siamo andati fuori, perché la galleria era una montagnetta piccola, come metà della rocca, non erano tanti metri.

Insomma, sono andato vicino, sotto tiro da una carretta: uno aveva tentato di fuggire ed hanno sparato. E’ venuta la luce, è tornata la corrente ed ho domando alle SS di poter prendere, aveva un bel paio, io avevo gli zoccoli, quello un paio di belle scarpe, non so come le aveva racimolate, mi sembrava di essere di nuovo…

Poi io ero controllore, seduto: non vedevo l’ora di andare in officina per stare in pace, vicino a me c’era il gabinetto e lì venivano tutti per andare al gabinetto ed i capi, perché le SS non c’erano dentro, erano tutti capi, la SS era uno, mai uno graduato in divisa, era tutto amministrato tra loro.

Noi avevamo il nostro ….. che parlava sempre il russo, ma io capivo, parlavano tra loro e sapevo tutto, raccontava dell’avanzata ecc..

Ogni giorno hanno preso questo, hanno preso quell’altro, invece il primo maggio niente, il 2 maggio “Qua si sono messi d’accordo, dobbiamo morire!”: avrebbero minato l’entrata e tutti i buchi, avrebbero fatto saltare tutto con noi dentro, non so come non siano mai riusciti.

Ancora un particolare. Quei capi, uno aveva dieci, quindici operai ed i poveretti ebrei non avevano mestiere, erano scopini, facevano i lavori più umili, scopavano ed allora io stavo a vedere, scommettevano a sigarette quanti salti si veniva a fare, come la lana, scommettevano cinque, sei e lo facevano saltare, tiravano con la pistola e poi si vedeva che si spartivano le sigarette, quello quanti salti ha fatto, cinque, tre…

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: Una sera era il 3 maggio, hanno preso tutti i disegni e la mattina non siamo andati più a lavorare, hanno cambiato le garitte ed il pomeriggio sono passate due jeep. I russi avevano già aperto una breccia, già ritornavano in campo con mucche, capre, galline, era tutto un fumo.

Alle sei siamo scappati e verso le tre sono passate due jeep, sono andate a Mauthausen, il campo era davanti, non si sono nemmeno fermati.

Quella notte fuochi, patate, conigli, era tutto un subbuglio e la mattina era venuta la pioggia. Io ho lasciato più morti che vivi.

In pochi, in due hanno preso il comandante del campo, lo hanno impiccato con un uncino. Gli americani sono venuti in campo e filmavano.

Erano tutti vestiti in blu, cravatte ed hanno cominciato a pulire il campo.

Allora gli spagnoli con la chitarra sopra, il tedesco sotto che doveva pulire, quando tirava su il secchio dava un colpo e buttava di nuovo giù ed avanti così.

C’erano morti, cataste di morti.

Siamo partiti la mattina e vedere l’uscita di Gusen 2, migliaia di gente che torna a casa: “Dove vai?” In Italia, in Russia, altri in Polonia, altri di qua, altri là, andavano in tutte le parti d’Europa e la strada era piena di morti.

Da lì siamo andati in un fienile. Se non avessimo sentito parlare in italiano saremmo ancora lì, perché uno è morto subito per la diarrea; poi ci hanno preso e portato a Saint Georgen in alcune case che erano state abbandonate.

Abbiamo cominciato a far da mangiare, qualche gallina, qualche uovo, ma gli americani volevano che tutti i prigionieri ritornassero nel campo: non volevano che rimanessero fuori per le strade. I civili non aprivano la porta, avevano paura dei russi.

Siamo tornati in campo a Mauthausen. Intanto lì gli americani avevano detto di non fraternizzare, loro erano già con le jeep, con le “mule” tedesche e noi in campo a pelar patate, per mangiare di più. Non c’eravamo ancora saziati.

Io sono ritornato a casa il 29 giugno. Siamo partiti da Gusen, sul camion, abbiamo tirato su un nostro amico che era in ospedale, è venuto in pigiama, senza zoccoli, uno è morto a Bolzano, poi siamo andati in treno.

In treno anche lì, tre giorni, si è fermato anche nel ritorno a casa in mezzo ai campi, anche lì in cerca di mangiare.

A Bolzano in ospedale uno è morto, un nostro compagno.

Poi ancora una cosa: con il camion siamo andati a Treviso in un campo di tedeschi. Qualcuno di noi ha cominciato ad inveire contro i tedeschi, erano ufficiali, giocavano a pallone e noi stipati sul camion; a parole ci hanno gridato di tutto anche loro.

D: Poi da Treviso?

R: Da Treviso poi abbiamo sbagliato il camion e siamo andati fino a Modena, abbiamo fatto un giro, fino ad Udine

Marchesich Iolanda

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Marchesich Iolanda, sono nata a Tregara nel Comune del Pinguente il giorno 12.02.1924, il 6 giugno del 1944 sono venuti a prelevarmi i fascisti di Portole.

Il motivo è stato questo, una mia cara amica, lei era della lista che la cercavano i fascisti con altre cinque persone del paese, e lei domenica sera il 5 giugno è andata in un altro paese perché era il presidio dei fascisti tedeschi ed allora lei si è tirata fuori e ha messo dentro me.

Però questo io non lo sapevo. Alla mattina quando sono venuti i fascisti in paese ed hanno bussato alla porta, sono entrati in casa, mia madre è andata ad aprire, sono venuti direttamente su in camera ed hanno chiesto a mio padre Come ti chiami?” “Marchesich Matteo”, “Alzati e vieni con noi”, hanno detto subito. Mio padre si è alzato, si è vestito ed è andato giù.

Vengono da me “Tu come ti chiami?” “Marchesich Iolanda”, “Alzati vestiti e vieni giù”, poi hanno chiesto a mia sorella “Tu come ti chiami?” “Marchesich Maria”, per fortuna, perché lei si chiama Amalia. Siccome una Amalia era già nella lista e lei era a Trieste, allora è stata una grande fortuna, perché mio fratello, Oscar Marchesich è stato arrestato in maggio, mi pare il 17 maggio, è stato arrestato a Pinguente, lo hanno portato a Pisino, e poi è venuto anche lui a Trieste e di lì è andato a … ed io e mio padre abbiamo fatto un mese nelle carceri del presidio a Portole, io avevo ogni giorno, ogni secondo, come gli veniva a loro, interrogatori, sempre. Mi chiedevano dove sono questi che erano in lista, che cosa fanno. Io non sapevo mai niente, non ho mai saputo niente. Questo era, posso dire, non ogni giorno, ma ogni settimana due volte, anche tre.

L’ultimo interrogatorio era un capitano dei fascisti e ancora non era delle SS, erano sempre loro che mi interrogavano. Mi hanno interrogato, ed io ho dato sempre la stessa risposta, che non sapevo niente. Hanno aperto la porta dell’ufficio, era un pianerottolo, c’erano dei gradini, mi hanno dato una spinta e sono andata giù per le scale. Ho fatto così e con la testa così, ma non mi sono fatta niente. Sono tornata su.

Poche ore dopo è venuta la colonna dei tedeschi, ci hanno prelevato e ci hanno portato al Coroneo, dove siamo arrivati il 3 luglio del 1944.

Quando entriamo al Coroneo, mio padre è andato da una parte ed io in quell’altra, non ci siamo più visti.

Nella stessa sera, c’era l’allarme e ci hanno portato in un rifugio e lì ho trovato l’amica Eva e Wilma, e da quella volta siamo state sempre assieme, adesso non ricordo la data che siamo partiti da Trieste.

D: Scusa Iole, ma di cosa ti hanno accusato?

R: Che collaboravo con i partigiani. Perché questi che erano in lista collaboravano. Ma noi non avevamo mai collaborato, la mia famiglia è sempre stata rispettata. Ma questa mia amica lei si è tirata fuori perché? Perché un sacerdote del paese con altre due persone sono andate nel presidio ed hanno cancellato la sua e mi hanno messo dentro. La stessa mattina quando io ero fuori dalla porta vedo entrare questa mia amica in paese ed io non sapevo niente. E come la vedo, mi è venuta una stretta al cuore, adesso la prendono.

Quando arriviamo a Portole, dentro nel presidio dove c’erano i fascisti, il primo giorno hanno prelevato non so quanti ragazzi del paese. Ventiquattro, venticinque, ventisei, quella gioventù. La prima cosa che mi hanno detto “Guarda tu sei qui, ma questa persona è a casa perché ti ha messo te invece che lei”. Io ho fatto un mese a Portole insieme a mio padre, siamo partiti insieme per Trieste, io non ho mai più detto niente. I tedeschi ormai mi hanno detto “Kaputt”, l’ultimo interrogatorio che mi hanno fatto hanno detto “Kaputt”.

D: Scusa Iole, il Coroneo qui a Trieste che cos’era?

R: Il carcere di Trieste, il carcere di Trieste si chiama Coroneo. Ecco. E lì si aspettava, cimici a tonnellate, terrore, paura e fame e tutto assieme. Poi avevo un ascesso sotto l’ascella, mi portava in infermeria la suora ed un quattro giorni, cinque, mi portava in infermeria, mi metteva l’ittiolo e l’ultimo giorno mi porta in infermeria mi mettono su una barella con tre tedeschi in bianco, uno con una bacinella, ed uno prende come un coltello, infila dentro nell’ascesso e mi fa così e così e ne è venuta una bacinella piena di quella materia, fuori.

Poi siamo partiti, anzi mi hanno chiesto se volevo partire mercoledì, lo stesso giorno che sono andata a fare l’intervento su, ho visto mio padre che erano pronti per partire, ho chiesto la suora se mi lasciava vederlo, “Fai alla svelta, perché non devo lasciarti”, ho parlato con mio papà “Cosa fai?” “Partiamo giovedì”.

Allora quando mi hanno chiesto nelle celle, di partire giovedì, allora siamo partiti giovedì con il convoglio per Trieste, così c’era anche mio padre. L’ultima volta ci siamo visti a Villaco.

D: Vi hanno caricato sui treni. Dove?

R: In stazione centrale. Sui treni vagone, bestiame. Stivati come le bestie. Il finestrino, sa come sono i vagoni delle bestie e lì abbiamo fatto un otto giorni, non mi ricordo in modoesatto.

D: Non ti ricordi quando sei partita?

R: Da Trieste? Proprio esattamente no.

D: Sul trasporto con te, nel tuo vagone, eravate in tante?

R: Pieno. Stivati come le bestie. Non ci si poteva muovere.

D: Anche ragazzine c’erano?

R: Giovani? Sì, erano giovani, qualche donna più anziani, ma più gioventù era. Anche uomini c’erano, lo stesso dentro. Infatti hanno caricato degli ebrei, ed io ricordo che uno aveva una ciocca di capelli bianchi davanti e lo abbiamo visto anche ad Auschwitz, fino là siamo arrivati. Poi gli hanno tagliato i capelli e non si sapeva più niente.

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Io penso un otto, nove giorni, non mi ricordo esattamente. Mi pare di sì.

D: Ascolta, durante il viaggio vi siete mai fermate?

R: Sì ci saremmo fermate, ma non mi ricordo. Purtroppo il terrore, la paura, la fame, il pensiero delle famiglie era tutto.

D: Quando sei scesa dal treno dove eri?

R: La prima volta siamo scesi dal treno a Villaco. Ci hanno dato un pezzo di pane nero, quello loro. Anzi io avevo cinque lire, che mi portavo da casa, un pezzo di cioccolata ed un pezzo di pane l’ho dato a mio padre. Perché poi di lì lui è andato a Salisburgo e noi abbiamo proseguito per Auschwitz.

D: Sei arrivata ad Auschwitz 1? O ad Auschwitz Birkenau?

R: Direttamente a Birkenau, direttamente. E lì ci hanno sbarcato, eravamo in un altro mondo. Che noi non sapevano niente, siamo caduti dal cielo. Abbiamo visto gente, questi prigionieri, ma non sapevano niente.

D: Ma con il treno sei arrivata dentro nel campo?

R: Sì, dentro.

D: Poi li che cosa è successo? Raccontaci che cosa è successo.

R: Lì è successo che ci hanno sbarcati dal treno come le bestie e ci hanno portato, adesso non mi ricordo, ma non nelle baracche, sa che non mi ricordo. Mi ricordo che ci hanno portato in un grande salone, c’era un bancone grande e lì ci hanno portato via tutto l’oro, vestiti e tutto, ci hanno denudato, ci hanno dato una coperta e lì stavamo fino a che hanno finito, poi ci hanno messo in un altro grande casermone, per terra, senza acqua e senza niente e poi ci hanno messo nelle baracche. Tirati via i capelli, tutti, io avevo un dito, ci hanno rasato tutto.

D: Ti hanno immatricolato?

R: Ci hanno fatto il numero e nello stesso giorno che loro mi hanno fatto il numero che eravamo lì, mi hanno messo un velo di fascia, non garza, lo hanno messo dentro la ferita e tutti i giorni durante il viaggio, senza disinfezione, senza niente, quando eravamo su per fare il numero, mi tiravo pezzettini di fascia fuori. Una puzza.

D: Iole, ti ricordi il tuo numero?

R: 82954, non me lo dimenticherò mai. Anche se non lo avessi sulla mano, non lo dimenticherò mai.

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: Hanno messo un triangolo sulla giacca, no, sul vestito. No, no, sì hanno messo sul vestito borghese una stelletta con il numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Rosso, un triangolo rosso.

D: Perché rosso?

R: Perché il triangolo rosso era per i politici e con la “I” di italiano.

D: Poi che cosa è successo? Dove ti hanno messo?

R: Nelle baracche, ed eravamo in quattro o cinque che dormivamo assieme, con zoccoli di legno, vestiti di tutti i colori, senza calze e senza tutto il resto che mancava.

D: Ti ricordi in che blocco ti hanno messo?

R: Adesso sono due, o nel 12 o nel 24, ma nel 24 mi pare, non mi ricordo esattamente. Non mi ricordo esattamente o 12 o 24.

D: Ascolta a Birkenau quanto tempo sei rimasta?

R: Lì siamo rimasti fino a dicembre, mi pare. Abbiamo fatto il Natale a Hirtenberg, allora fino a novembre.

D: Ascolta Iole.

D: Ancora un momento. Perché quando ad Auschwitz un giorno sono andata in svenimento e mi sono ritrovata nel Revier. Mi sono ritrovata e lì c’era la paura di non ritornare mai più fuori. Ecco. Io ho conosciuto una russa, un’infermiera giovane e poi anche la dissenteria ci ha colpito, anche quella e mi portava delle pastiglie e nello stesso tempo mi diceva, “Non prenderle”, sotto voce. “Che queste ti faranno morire”, ma non si doveva parlare con nessuno e niente, lei sottovoce come mi dava le pastiglie mi diceva “Iole non prenderle” e di fatto non le prendevo ed ho fatto otto giorni in riviera, se non di più.

Poi mi hanno lasciato, sono tornata nel blocco e mi pare che il secondo o il terzo giorno, adesso non mi ricordo esattamente, sono venuti a prelevare quattrocento prigioniere per portarci a lavorare, poi la mattina nel campo alle quattro, alle cinque ci si alzava alla svelta, a pelo, anche due ore all’appello, sull’attenti fino a che facevano. Un freddo, paura. Bastonate e tutto.

Poi ci hanno trasportato a Hirtenberg con il treno, siamo arrivati là, era una piccola filiale e là ci hanno portato a lavorare nelle fabbriche delle munizioni, turni di dodici ore.

D: Quando eri ancora a Birkenau tu sei stata sottoposta a qualche selezione?

R: No, io no.

D: Hai visto altre tue compagne sottoposte a selezione?

R: No, io non ho visto, ma ritornando a casa, qualche anno fa parlando con un’amica nostra con Draga che a lei hanno fatto degli esperimenti sull’utero.

D: Io dicevo le selezioni per andare a lavorare.

R: Per andare a lavorare ci prendevano e andavamo a lavorare fuori del campo con l’orchestra, con l’orchestrina fuori del campo per contare la fila, andavamo per cinque, e come suonavano noi dovevamo andare a passo della musica e lì era il controllo ed andavamo 8 chilometri fuori dal campo, mi pare, vicino ad un fiume a tagliare, non so come dire, delle frasche, lì ti tormentavano, portavano il pranzo e fino alla sera, al pomeriggio si stava lì poi si rientrava nel campo sempre in fila, con l’orchestra, entrando dentro, sempre.

D: Ma questo a Birkenau?

R: Sì a Birkenau.

D: Anche voi cantavate?

R: No, no, solo l’orchestra suonava e noi a passo dell’orchestra dovevamo camminare. Per il conteggio e loro contavano se non mancava nessuno.

D: Invece in questo sottocampo, in questa fabbrica?

R: In questa fabbrica la mattina all’orario dovevamo andare in fabbrica a lavorare, erano due o tre chilometri via del campo, non ricordo esattamente. Erano delle baracche nel bosco, lì lavoravamo sulle capsule delle pallottole, eravamo in sei in fila e le macchine lavoravano e lì abbiamo fatto i turni di dodici ore.

D: Avevi ancora il tuo stesso numero o ti hanno dato un numero nuovo?

R: Sempre 260, ci hanno dato il numero 260 e quello scritto sulla divisa, il nostro numero era questo sulla mano.

D: Lì in fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Sì erano delle civili controllore, erano delle civili, e per quanto riguarda la fila dove ero io, anche abbastanza coccole. Abbastanza, come dovrei dire, ci portava del filo, dell’ago, non si poteva parlare con nessuno, assolutamente, neanche tra noi, tutto zitto. Non si doveva aprire bocca con nessuno.

Noi non sapevamo niente di cosa succedeva. Noi di Auschwitz abbiamo visto il fumo ed il crematorio, qualcuno forse si immaginava, forse qualcuno sapeva, ma noi, non dovevamo parlare né niente. Dovevamo stare zitti.

D: Ascolta in questo sottocampo, in questa fabbrica di munizioni eravate solo donne?

R: Solo donne, solo donne, mi pare in quattrocento ci hanno prelevato ad Auschwitz, per portarci in questa fabbrica.

D: Ascolta lì facevate i due turni, giorno e notte. L’alimentazione ad Auschwitz come era?

R: Triste. Zuppa, che non si poteva neanche mangiarla. Era lotta quando si aspettava in fila, perché fame era, loro facevano quello che volevano, amici o conoscenti che c’erano prendevano sempre qualche cosa meglio di noi. Capitava che prendevi solo l’acqua, solo il liquido, e dovevamo andare avanti. La sera era un pezzettino di margarina, un pezzo di pane. Alla mattina ci davano caffè, c’era una rottamaia. Siamo sopravvissuti non so come. Guardi noi a Hirtenberg lavoravamo in fabbrica; a pranzo restava tutto il mangiare sul tavolo, non si poteva mangiare. Non andava giù. Tanti giorni lei vedeva tutte le trenette che davano loro rimaste sul tavolo piene perché non si poteva mangiare.

D: Quando tu dici che vi hanno selezionato in quattrocento per mandarvi in questo campo in questa fabbrica di munizioni, c’erano altre donne di altri Lager?

R: No, no, solo noi di Auschwitz. Solo noi di Auschwitz, perché sono venuti lì ed hanno prelevato quattrocento ad Auschwitz. Erano slave, croate, polacche, russe, francesi, io ero con una cecoslovacca.

D: Visto che eravate tutte donne, quando sei stata nel campo, il problema delle mestruazioni?

R: Non c’era. Non c’era. Siamo arrivati su e lì è finito. Siamo tornati a casa, siamo tornati a casa in giugno e fino a settembre niente. Hanno bloccato, non so cosa mettevano dentro. Non so, bromuro o qualche cosa, non mi ricordo, cosa mettevano nel mangiare che hanno spento tutto.

Quando io sono ritornata a casa, è venuta una commissione di medici anche per questo a casa, per vedere una via, e poi hanno detto che non ci sono problemi, di fatto, dopo un anno, siamo arrivati come prima, il ciclo regolare.

D: Iole, a fianco a te, c’è una casacca. Una giacca.

R: Scusatemi. Questa era la nostra divisa con un’ostrichetta bianca con il triangolo rosso italiano. Questo è un nostro ricordo triste.

D: Iole la Liberazione come è avvenuta?

R: La liberazione è stata il 2 aprile del 1945, il fronte russo era vicino. E allora i tedeschi per non lasciarci nelle mani dei russi ci hanno trasferito ed abbiamo fatto tredici giorni per arrivare a Mauthausen, portando tutti gli attrezzi, cucina, munizioni, viveri, tutto a mano, tutto a mano, 30 chilometri al giorno per tredici giorni. Siamo arrivati a Mauthausen sfiniti poi ci hanno messo in un grande salone giù di 186 scalini, ci hanno portato in un grande casamento, però tutto aperto, per terra, dormivamo come le sardelle per terra, sul cemento. Lì non c’era, aspettare perché non si faceva niente. Se non aspettare. Poi il 3 o 4 maggio, hanno cominciato a mancare le sentinelle, ed allora si capiva che qualche cosa doveva essere successo, infatti il giorno 5 maggio del 1945 abbiamo visto entrare i primi americani nel portone centrale, da dove stavamo noi giù, abbiamo visto come sono entrati, con una bandiera bianca, lì ci ha sollevato. Ci ha sollevato, che qua non si credeva, ma nello stesso tempo, non vedendo le SS attorno a noi, avevamo una piccola speranza.

Poi lì abbiamo fatto non so quanti giorni e poi ci hanno portato su nel campo, fuori dove c’erano le baracche dei tedeschi ed eravamo lì dentro fino alla partenza.

Siccome c’era anche mio padre, ma non sapevo dove, allora ho chiesto ad una nostra collega guida, se per caso, perché per entrare nel campo dovevamo avere un lasciapassare, lei ci ha fatto questo permesso, sono andata su a vedere e domandare se mio padre era lì, ma non sapevano niente. Io non sapevo niente, non esisteva niente, nessuna roba, fino a che non sono ritornata a casa.

Mio padre lavorava a Salisburgo in una ditta di calzolai privati, sempre sotto il controllo delle SS, lui sapeva parlare il tedesco, ha chiesto ai capi, ma nessuno sapeva niente.

Lui è tornato a casa il 9 maggio del 1945 a piedi da Salisburgo a casa.

D: Invece tu?

R: Noi siamo partiti il giorno 29 maggio da Mauthausen e siamo arrivati il giorno 6 a Trieste, 6 giugno.

Abbiamo fatto sosta a Vienna, a Lubiana, e poi Trieste. Quando siamo arrivati a Trieste alla stazione, siamo scesi tutti e dicevano che dovevamo fare la quarantena, ma siccome a noi ci hanno fermato a Maribor, ed hanno fatto le visite, ci hanno rilasciato un documento che diceva che non avevamo malattie contagiose. Però io, Emma ed un’altra amica nostra è stata la fortuna, ho trovato il militare che era la guardia di servizio che non si doveva neanche andargli vicino a quello, pian piano gli hanno chiesto, ha detto “Non si può”, poi mi ha detto “Guarda che noi veniamo così, così e così”, infatti, è stato, ha detto ” Quando io passo giù, voi filate di qua” e così abbiamo fatto. Siamo andate noi tre, fuori dalla stazione abbiamo preso il tram n. 1, non avevamo soldi, viene il bigliettaio, e chiede i biglietti, e noi abbiamo detto che non abbiamo soldi perché veniamo da così così e così e lui si è opposto e ci ha fatto pagare i biglietti. Poi c’era della gente che se poteva lo linciavano. “Come hai il coraggio di chiederle? Non vedi in che condizioni sono ?” Una è scesa ed è andata sopra la Galleria che aveva una zia, ed io ed Emma siamo partite verso Sant’Anna e qua per andare a Viscosa che io avevo una zia che stava lì, lei ha proseguito avanti ed io mi sono fermata da questa zia. Quando arrivo da questa mia zia, erano tutti giù in corte, erano pieni di partigiani e militari quella volta, pieni, quando arrivo giù, avevo uno zainetto, lo butto là per terra e mi sono bloccata. Questa mia zia mi guarda e mi chiede cosa volessi, io al momento non potevo risponderle perché ero completamente bloccata, guardavo e poi “Zia, ma non mi conosci?” “No, chi sei tu? “Sono Iolanda”, “No, Iolanda è morta”, diceva mia zia. “No, zia sono io, così e così”, poi pian piano si è resa conto.

Quando siamo a Sant’Anna fuori dal tram, ho visto delle mie paesane, ho mandato a dire a casa mia, perché per il telefono non c’erano possibilità, ho detto di avvisare la mia famiglia di venirmi a prendere dalla zia, ma questa signora, rimasta anche lei scioccata, non mi conosceva, l’ho chiamata tre volte, poi mi ha promesso “Io vado a casa domani mattina o questa sera ed avviserò”, il secondo giorno la gioventù del paese aveva una conferenza a Capo d’Istria. Quella volta io ero da mia zia, avevo le gambe gonfie così, non mi sono più potuta muovere, allora questa signora è andata a casa, subito quella stessa sera, ha detto alla figlia, “Domani mattina andate a Capo d’Istria ed avvisa Amalia”, perché ci conoscevamo tutti.

Quando sono arrivate in questa sala riunioni la segretaria chiama “Chi è di Pregara?”, allora mia sorella ha detto “Sono io”, allora questo presidente gli ha detto: “Vai a casa e andate a prendere tua sorella a Trieste dalla zia Maria”. Mia sorella è rimasta con la bocca aperta. Gli hanno detto “Vai subito a casa”, altre due amiche l’hanno accompagnata a casa, sono venute a casa nostra, e mia mamma è rimasta. “Amalia che cosa è successo che sei già qui?” Mia sorella piangendo, “Iolanda è da zia Maria, andiamola a prendere”, “Ma viva o morta?” “Viva, viva”.

Infatti la stessa sera mio padre è andato, perché non c’erano mezzi, qualche cavallo, due famiglie li avevano e sono venuti il giovedì mattina, il giorno 8 giugno, sono venuti da mia zia a prendermi con il cavallo e con il carro, per portarmi a casa. Mi hanno messo sul carro e lì sono rimasta come un pezzo di legno.

Prima di venire in casa in paese, mi ha aspettato tutta la gioventù con le bandiere, tutti, ma due chilometri e mezzo fuori dal paese.

Quando siamo alle porte del paese erano tutti i bambini con le bandiere, tutti. Chi poteva camminare. Mi hanno aspettato, sono venuta a casa, mi hanno messo giù dal carro, sono andata in casa, mi sono seduta sulla panchina grande in cucina, e c’era gente che andavano uno sulle spalle all’altro per vedermi. Perché non si rendevano conto che non ero più io. E mio papà è venuto prima, lui mi ha dato un po’ di forza.

Di mio fratello non sapevamo niente. Io ho pensato “Non ritornerà più”, perché avevamo visto che cosa era. Invece loro sono stati liberati dai russi e lui è venuto a casa appena in agosto. Ma lui è venuto a casa ben nutrito, tutto sistemato bene. E così. Ma io pesavo 36 chili quando sono arrivata a casa.

Io andavo a dormire la sera in letto, perché non c’erano materassi di lana, né permaflex purtroppo, i paioni con le foglie del granoturco, e si dormiva. Io di notte mi alzavo e andavo per terra a dormire, mia madre due o tre volte la notte si alzava e mi metteva in letto. Ed io facevo così. Fino a che pian piano mi sono sistemata.

Poi andavo fuori dalla porta e cadevo per terra perché non avevo forza nelle gambe, era un calvario. Poi pian piano mi sono ripresa e poi sono venuti da Capo d’Istria le Commissioni della polizia, perché loro sapevano tutto, sapevano la storia, chi mi ha fatto andare e tutto. Mi portavano il verbale, basta firmare per farla sparire, ed io ho detto “Mi sono fatto una promessa, di non fargli del male a nessuno” e infatti non gli ho fatto del male, non ho voluto denunciarla, è viva ancora oggi. Però non ci vediamo. Non poco, niente. Gli anni indietro, se poteva mi schivava, ma non mi interessa.

Ed io pensavo che nessuno sapeva niente di queste cose, invece in marzo quest’anno sono stata da un mio parente e mi ha detto “Sai Iolanda tutti sapevamo. Tutti subito. Come è stato, chi è andato. Cosa ti hanno fatto. Ma hai avuto la fortuna che sei ritornata ed hai riportato a casa la tua pelle. Questo forse è un grande smacco per chi ti ha fatto questo” e infatti, guardi.

Tintorri Romolo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

Intanto dico le mie generalità. Sono Romolo Tintorri, sono nato a Loiano in Provincia di Bologna il 18 marzo 1928.

D: Quando ti hanno arrestato, Romolo?

R: Dunque, io sono nato a Loiano però mi hanno portato subito via perché mia mamma aveva sposato una persona di Sestola in Provincia di Modena, che è un paese climatico a 1.000 metri d’altezza, e mi hanno riportato lì dopo pochi giorni che ero nato. Quindi la mia vita l’ho passata sempre a Sestola, dove mio padre aveva un negozio di ferramenta.

Il mio paese, che è vicinissimo anche alla Repubblica, quella che è stata la Repubblica di Monte Fiorino, nei paraggi del modenese, era stato occupato da una formazione di Tomaso, che era un distaccamento della grande Formazione di Armando da Pavullo, e si viveva proprio, mi ricordo benissimo, addirittura abbiamo fatto una partita anche con i partigiani, quindi vivevamo in un momento quasi irreale, proprio al di fuori.

Naturalmente io sentivo che avevano fatto dei rastrellamenti a Pollinago, in tutti i paesi vicini, a Fanano dove addirittura avevano ucciso tre persone. Avevano impiccato ai lampioni della strada tre persone.

Vivevamo proprio… Però il mio paese, occupato dai partigiani, distava pochissimo, 25 chilometri da Pievepelago, dove c’erano le SS.

Una mattina, dunque il paese è stato occupato. sono stato preso verso la fine di giugno, verso la fine di giugno.

D: Di che anno?

R: Del 1944. Il mio paese è stato occupato, anzi è stato sostituito il vecchio podestà con un sindaco, sono stati attaccati i manifesti della Liberazione al campanile della chiesa, inneggiando a questa nuova e ritrovata libertà. Si viveva proprio come ho detto prima, in uno stato irreale.

Però una mattina alle 4 del mattino da Pievepelago, che distava 25 chilometri da Sestola, sono arrivati su tre camion questi SS, e questi uomini della gendarmeria. C’è stata una battaglia, mi ricordo, furibonda, veramente furibonda. A Sestola ci sono dei portici lungo il corso principale, mi ricordo una battaglia veramente tremenda, queste pallottole che fischiavano, una cosa veramente…

Io praticamente ero giovanissimo, avevo neanche sedici anni, pensavo che naturalmente non succedesse niente. Io sono rimasto in casa ed ho sentito ad un determinato momento che hanno bussato violentemente con il calcio del fucile nel portone, una volta nelle ferramenta, nei negozi ai vecchi tempi c’erano ancora i portoni di legno, ed allora mio padre poveretto ha tardato, sebbene fosse abbastanza giovane, ha tardato ad aprire, allora i tedeschi lo hanno colpito violentemente con il calcio del fucile e gli hanno rotto tre costole.

Poi dopo naturalmente io sono rimasto in casa, invece sono venuti di sopra e mi hanno preso, mi hanno buttato giù perché noi avevamo la scaletta che finiva nella ferramenta. Mi hanno buttato giù in ferramenta e poi mi hanno portato nel centro del paese, proprio lunga la mura della Piazza della Vittoria, della piazza principale di Sestola, tuttora esistente, e ci hanno messi tutti lì in fila.

Hanno incendiato tre alberghi di Sestola, ho visto che hanno fatto razzia di quei pochi apparecchi radio che c’erano una volta, alcune biciclette. Poi naturalmente aspettavamo con trepidazione quello che sarebbe successo.

Per fortuna non c’è stato nessun morto da nessuna parte, né dalla parte dei partigiani né dalla parte dei tedeschi. Praticamente noi pensavamo che poi ci liberassero.

Invece no, siamo stati caricati su dei camion, siamo stati caricati.

Mio padre non era stato preso, ha voluto venire via con me. Ho visto mio padre che trascinandosi, perché era stato colpito qui dietro, trascinandosi tra lo stupore mio e degli stessi tedeschi è salito anche lui sul camion ed ha voluto seguirmi. Uno di quegli eroismi sconosciuti che quando racconto ai bambini delle scuole, vado a fare le testimonianze, rimane molto impresso questo amore paterno così grande.

D: Romolo, scusa, oltre a te quante altre persone hanno preso?

R: Hanno preso anche delle altre persone, però alcuni, non so perché, prima di partire i camion sono state liberate, non so per intercessione di chi, o del parroco, mi sembra di Don Pedroni che c’era il parroco lì. Noi invece siamo stati portati a Pievepelago, nel famoso carcere della Gestapo, che si chiamava la Direttoria, pensate.

Siamo rimasti in questa prigione per cinque giorni. Hanno incominciato ad interrogarci. Anche a me hanno dato uno schiaffo, mi prendevano, mi strattonavano per sapere certe cose che alla mia età poi non è che sapessi.

Invece mio padre forse chissà, si vede che qualcuno aveva parlato, aiutava un po’ i partigiani perché era in condizioni, noi eravamo in condizioni abbastanza buone, quindi avevamo la possibilità di dare qualcosa a questi movimenti partigiani.

Lì siamo rimasti cinque giorni. Pensate che con noi c’era anche uno che poi è diventato un senatore democristiano, pensate, ha avuto degli incarichi di governo, un certo Bisori, che è diventato poi senatore della Repubblica.

Dopo cinque giorni siamo stati caricati, ci hanno caricati su un camion, eravamo rimaste una decina di persone, non di più.

D: C’erano anche delle donne?

R: Niente, nessuna donna. Solo uomini. Nessuna donna.

Ci hanno portato in camion a Fossoli, a Fossoli di Carpi.

Appena arrivati naturalmente a Fossoli di Carpi le solite cose che fanno nei campi di concentramento, rasatura, depilarci e via, interrogatori, e poi ci hanno assegnato nelle diverse baracche. Io ero nella baracca 18 A, ed avevo questo numero che conservo con particolare… Sì, l’avevo anche perso addirittura durante una testimonianza, ma poi l’ho ritrovato. Avevo il 2548, mi padre 2547. Questo è originale, è l’originale del campo di concentramento di Fossoli di Carpi.

D: Scusa Romolo, il babbo non l’hanno rilasciato?

R: No, il babbo non l’hanno rilasciato, è sempre rimasto con me. L’hanno interrogato, pensavo: “Magari potrebbero anche rilasciarlo”, invece l’hanno portato a Fossoli anche lui.

D: Tu durante gli interrogatori sei stato accusato di qualcosa?

R: No, non sono stato accusato, volevano assolutamente sapere di questi movimenti partigiani, specialmente le posizioni, specialmente le case dove a Sestola erano ospitati i partigiani e l’albergo dove naturalmente fino all’ultimo sono stati dentro i partigiani. Quelle cose lì più che altro. A mio padre non so, hanno chiesto altre cose, se lui aveva aiutato i partigiani, perché avevano saputo che mio padre qualcosa dava, quello che poteva dava ai partigiani.

D: Fossoli, baracca 18 A.

R: Baracca 18 A, campo lungo un chilometro per due, anticamera dei campi di sterminio, Fossoli. Lì abbiamo passato uno dei periodi più tremendi della mia storia di deportazione. Perché l’11 luglio del 1944, come dice Collotti anche nel libro… forse io sono uno dei pochi superstiti di quel famoso giorno dove hanno chiamato queste persone.

Però eravamo tutti, naturalmente avevamo l’appello alle 19, nella piazza dell’appello, che lì non si chiamava ancora Appel Platz, ci trovavamo tutti lì, ha incominciato il maresciallo Haage, che comandava più… Il comandante del campo era Thito, il tenente Thito, però naturalmente chi comandava e chi faceva era il maresciallo Haage…

Ha incominciato a chiamare ed io mi ricordo, chiamavano nominalmente e non per numero. Mio padre mi ha detto: “Guarda Romolo”, quasi prevedesse quello che poi sarebbe successo, oppure chissà cosa pensava, mi ha detto: “Romolo, se chiamano te ci vado io”. Un’altra cosa meravigliosa da parte di un padre.

Comunque non ci hanno chiamato e ne hanno tirati fuori settantuno, vero?

D: Ma chiamavano con una lista?

R: Con una lista già. Perché poi ho letto dopo, perché leggo come un pazzo tutti questi libri della deportazione, perché è un po’ la mia vita ormai rimasta, era un ordine che era arrivato da Verona, dal comando di Verona. Perché Haage e Tito andavamo lì, ogni tanto Thito si spostava a Verona ed andava a prendere ordini su quello. Infatti Gasparotto che è stato ucciso in giugno è stato un ordine che è arrivato da Verona.

Dopo naturalmente questi settantuno chiamati sono stati messi dentro in una baracca, rinchiusi in una baracca. Il nostro comandante di campo italiano, quello che faceva un po’ chiamiamoli “”interessi, era Maltagliati del Partito d’Azione, del Partito d’Azione, ed ha avvisato questa gente: “Guardate che purtroppo vi succederà qualcosa di non simpatico, cercate di fare qualcosa”.

Allora durante la notte si è sentita questa gente che urlava, che batteva contro questa baracca, una notte veramente tremenda.

Di questi settantuno adesso… Teresio Olivelli si nascose, l’ho visto, lo conosco benissimo, un uomo meraviglioso, un esponente dell’Azione Cattolica, credo che ci sia il processo di beatificazione presto, vero? Teresio Olivelli si nascose nella baracca 15, nella baracca dei pagliericci, nella baracca dei pagliericci sotto.

Così naturalmente i tedeschi non avevano, erano talmente portati… e poi consideravano anche quello che stavano facendo, si vede che non ci hanno più pensato, non li hanno più contati, loro sono partiti, sono partiti alle quattro, il primo è partito alle quattro del mattino con venticinque deportati.

Pensa che io li conoscevo tutti, conoscevo il generale Robolotti, perché ero uno dei più giovani e quindi sai, qualche scherzo, qualche piccola cosa, “ragazzo” mi chiamavano. Robolotti, Panceri, di vista così li vedevo tutti.

Il primo è stato alle 4.00, sono partiti e li hanno portati al poligono di Carpi di Cibeno. Il primo gruppo li hanno uccisi, li hanno fatti inginocchiare vicino ad una buca che era stata fatta da degli ebrei, otto ebrei, l’avevano fatta il giorno prima o due giorni prima, avevano scavato questa buca al poligono, li hanno fatti inginocchiare. Anzi no, seduti così con le gambe accavallate li avevano messi. Poi il primo gruppo li hanno uccisi subito, però il secondo gruppo naturalmente hanno sentito gli altri, hanno capito quello che succedeva, alcuni si sono ribellati ed infatti gli Emina e poi Mario Fasoli, il muratore, sono riusciti a scappare, tanto che Fasoli è stato anche colpito in una gamba ed ha continuato lo stesso questa corsa pazzesca in mezzo ai campi per parecchio tempo. Così loro sono stati liberati, nonostante che un russo, un guardiano russo, di quelli che naturalmente lavoravano per la Germania, delle SS, sparava come un pazzo contro questa povera gente.

Così due sono riusciti a fuggire. Di questi settantuno ne hanno ammazzati sessantasette, perché Caremini fu levato via dalla lista per l’intercessione di un’impiegata che forse aveva un debole, non so. Ed un’altra persona che è Baroncini mi sembra, non mi ricordo il numero, che è stato levato all’ultimo momento dal maresciallo Thito perché era una persona che faceva dei piccoli… era muratore e faceva dei lavori nel campo, quindi era utilissimo alla continuazione di questo.

Di questi settantuno ne hanno ammazzati sessantasette.

Poi per ingannarli avevano caricato anche un camion con tutte le valigie, e questo camion… Mi ricordo che sono tornati, questi li abbiamo visti proprio noi, che uno di questi tedeschi, di queste SS, aveva un braccio fasciato, poi tutti graffiati. Poi avevano preso, rubato gli orologi ed altre cose che aveva questa povera gente, se le erano messe loro.

Io avevo la baracca 18 A, dietro c’era una specie di prato libero dove hanno buttato tutte le valigie. Questo mucchio di valige poi l’hanno bruciato, e noi dopo abbiamo capito, abbiamo capito anche prima, però abbiamo visto che naturalmente era successa una cosa terribile.

Da quel giorno lì un silenzio di morte è proprio sceso nel nostro campo, perché avevamo la paura di finire tutti in quella maniera lì.

Mentre invece poi la sera dopo il maresciallo Haage ci disse che naturalmente una rappresaglia non sarebbe più stata fatta, però saremmo stati mandati tutti in Germania, ci disse, però non sarebbe più successa questa rappresaglia. Dicono che fosse per l’uccisione di sei alti… al bar Olanda di Genova, uccisi. Perché forse facendola in Liguria era troppo in mezzo alla gente, questa cosa si sarebbe saputa. Mentre invece lì pensavano che la cosa non si sapesse, oppure arrivasse in ritardo.

D: Romolo, ti posso chiedere due cose?

R: Sì, è meglio che mi fai qualche domanda.

D: Come ti ricordi tu il campo di Fossoli? C’erano dei reticolati?

R: Sì, me lo ricordo, guarda, me lo ricordo. Era un campo di un chilometro per due, solo da una parte mancavano un po’ di reticolati. Per il resto su tutte le altre parti anche dietro alle nostre baracche c’era un doppio reticolato, e nel mezzo naturalmente c’erano queste luci violente. Mi ricordo benissimo che c’erano nove garitte con le mitragliatrici sopra. Nove, questo me lo ricordo, nove garitte con le mitragliatrici, ed il campo era circondato da questi reticolati doppi. Nel mezzo questa luce.

D: Ecco, ed a fare le guardie c’erano solamente germanici o anche italiani?

R: No, ecco, benissimo, è importantissimo. Naturalmente c’erano degli ucraini dentro, come c’erano… Ma c’erano anche delle guardie Repubblichine, verissimo. Perché la prima volta, prima che ci fosse questa chiamata, questa rappresaglia, mi ricordo che misero una mitragliatrice, ed erano dei Repubblichini, misero una mitragliatrice proprio nella piazza dell’appello, me lo ricordo benissimo. Non so perché, forse avevano paura che succedesse… Però il giorno dopo è sparita.

Poi io vi racconto una cosa che in nessun libro è mai stata detta. Dentro da noi naturalmente funzionava anche una specie di Comitato di Liberazione, non era proprio… però si pensava, hai capito, anzi avevano detto in questo comitato che ad un determinato momento, adesso proprio il giorno non me lo ricordo, un apparecchio sarebbe passato ed avrebbe sganciato una bomba sul reticolato, e noi saremmo riusciti a fuggire.

Quindi ci hanno detto preparatevi tutti, vestitevi, preparatevi con scarpe… Ancora avevamo le scarpe, non avevamo gli zoccoli come in Germania, che poi scapperete.

Cosa che è successa. Però la bomba invece di colpire il reticolato ha colpito la lavanderia, quindi non è successo assolutamente niente, capite? Quando noi siamo usciti hanno cominciato subito a sparare, a sparare, allora ci siamo tutti messi velocissimi a spogliarci, a rimetterci sotto il letto per far finta di dormire, oppure di non essere mai usciti.

Alcuni naturalmente sono stati presi, che avevano ancora i vestiti, mi ricordo che li hanno fatti passare attraverso le nostre camerate battendoli a morte. Guardi, una cosa tremenda, percuotendoli a morte, mi ricordo ancora di un giovane, non mi ricordo i nomi, sono tanti, che era pieno di sangue, di lividi. Era stato trovato vestito e naturalmente loro hanno capito che questo qui tentava di scappare.

Quella lì è stata una delle cose di cui mai nessuno parla, sono stato anche con Varini, con degli altri nel campo di concentramento a portare i ragazzi, ma nessuno ne parla mai di queste cose qui.

D: Durante il tuo periodo di deportazione di Fossoli dentro nel campo ti ricordi se c’erano anche dei religiosi?

R: Sì, ecco, religiosi ce n’erano tre o quattro, anche di più. C’era Don Liggeri, e poi c’era il nostro parroco di Sestola, di Ronco Scaglia.

D: Te lo ricordi come si chiamava? Don Dinamite?

R: Don Crovetti. Me lo ricordo benissimo, il nostro Don Crovetti. Perché lo chiamavano Dinamite?

D: Lo sai perché?

R: Sì, sì, perché avevano trovato la dinamite in casa, un po’ di miccia e capite… i parroci di montagna avevano i fondi, avevano i poderi che si tenevano dietro forse più della chiesa. Lui aveva questo qui ed è stato accusato. Quando ci hanno caricato e siamo andati verso Pievepelago dovevamo passare attraverso il paese Ronco Scaglia, ed allora l’hanno caricato prima, mi ricordo che il ponte era distrutto, lo chiamavano il ponte del prete, e lui l’hanno picchiato in una maniera terribile perché naturalmente mettesse giù alcune tavole per far passare questo camionaccio, questo camion con carico di queste persone che c’erano dentro.

D: Quindi ti ricordi di Don Paolino…

R: Sì, mi ricordo. Quello poi… e di Don Crovetti. Però altri non me li ricordo sai?

D: Ecco, l’altra cosa che volevo chiederti è questa: durante sempre la permanenza del babbo e tua a Fossoli siete riusciti a comunicare con l’esterno?

R: Sì, siamo riusciti a comunicare con l’esterno perché… queste qui le cose di mio padre, … di Fossoli questo, questo qui. No, questo qui non c’entra, è per far vedere ai ragazzi. Questi qui sono… ne ho delle altre lettere, le ho portate così.

Questa qui era anche che non si poteva scrivere, è una comunicazione, una Commissione Provinciale di censura, una di quelle lettere lì l’hanno cestinata perché non potevano …che mia madre poverina l’aveva scritta, o noi l’avevamo scritta in carta quadrettata. Loro pensavano che naturalmente… ecc… avessimo dette certe cose.

Che poi purtroppo anche se si stava male ai genitori si scriveva sempre “Stiamo bene”. È vero che è così?

D: Hai ricevuto dei pacchi da mamma?

R: Ho ricevuto dei pacchi solo a Fossoli. Ho ricevuto un pacco solo, no, due pacchi, uno da mia mamma ed uno da un altro signore di Modena, un certo Benatti, che naturalmente serviva mio papà nel negozio al quale ci eravamo rivolti. “Per favore, dato che è più vicino ci mandi qualcosa”, ci aveva mandato un pacco. Due pacchi abbiamo ricevuto, quello è vero.

D: Ascolta, avevate i vostri abiti civili?

R: Sì, avevamo gli abiti civili, avevamo solo qui davanti sulla sinistra e sul pantalone, e su quel poco che avevamo, quello che avevamo da casa, questo numero qui appunto, che vi ho fatto vedere, questo. Questo è proprio l’originale, questo.

D: Poi da Fossoli cosa è successo?

R: Poi da Fossoli, dunque, da Fossoli voi sapete che sono partite addirittura sette Transport, tra i quali in quello di febbraio c’era anche Primo Levi, formato da seicentocinquanta persone, di cui ne sono rimaste vive soltanto tre. Comunque ne sono partiti parecchi, per Auschwitz, per Mauthausen, per Bergen-Belsen anche. Poi naturalmente verso la fine di luglio abbiamo saputo che dovevamo prepararci per andare. Ma così, da parte del nostro Maltagliati, non da loro, perché naturalmente non dicevano, ti prendevano e via…

Siamo stati caricati su dei camion. Quando siamo arrivati al Po’ il Po’ era completamente… Non c’erano più ponti, non c’era niente. Siamo stati fatti traghettare su un barcone e via, tra le urla di “Vigliacchi, partigiani, banditi”, perché ci chiamavano banditi, vigliacchi, canaglie, “troverete un ambiente ben diverso da quello che avete trovato a Fossoli”. Perché Fossoli per quanto sia praticamente si riusciva ancora a vivere. Come mangiare era pochissimo anche lì, però c’era una comunicazione, si parlava tra di noi, qualche giornale addirittura arrivava. Non avevamo contatti però con gli ebrei perché erano dalla parte di là. Lì chi li comandava era un certo Finzi, che poi non so se sia stato portato in Germania e che fine abbia fatto, non ho mai saputo più niente.

Poi siamo stati portati a Verona. A Verona ci hanno messi in una caserma, siamo stati lì due notti e poi una mattina ci hanno fatti alzare…

D: Due giorni in una caserma?

R: In una caserma, però non ricordo dove sia questa caserma. Sono stato ultimamente… Comunque siamo stati messi lì dentro, tutti insieme, non c’erano letti, non c’era niente, buttati sulla paglia aspettando di essere caricati per essere portati in Germania.

Poi siamo stati messi in fila, naturalmente abbiamo attraversato, questa è una cosa terribile, abbiamo attraversato una strada di Verona ed alcuni di questi veronesi, di queste persone veronesi addirittura aprivano anche le porte per riuscire a far salvare qualcuno di questa colonna, che loro capivano dove sarebbe andata. Però noi non siamo riusciti, abbiamo continuato, siamo arrivati fino a Pescantina a piedi, e poi siamo stati caricati su quei famosi vagoni. Quaranta uomini, cavalli e bestiame, non so, in quei carri siamo stati caricati sopra, in questi vagoni piombati.

Lì è un po’ la solita vita che molti esempi hanno raccontato nei loro libri. Eravamo chiusi in questo vagone con un piccolo recipiente da una parte dove dovevamo fare… Quindi abbiamo vissuto veramente dei momenti tremendi, questa gente che urlava, chi piangeva, chi bestemmiava, proprio vivevo come inebetito questo viaggio senza sapere in quale destinazione…

Quando siamo arrivati…

D: Scusa Romolo, c’era anche il babbo con te?

R: Sì, c’era anche mio padre, sì.

D: Sullo stesso…

R: Sullo stesso… pensa, dopo ti spiego tante altre cose.

Qui un signore, guardate un po’, quando siamo arrivati in questo paese, noi abbiamo fatto il Tarvisio per andare, Santa Maria di Salonicco era, un signore ci ha buttato dentro questa cartolina e noi, cose bellissime, io ci ho messo subito “Alla mia cara mamma, Tintori Alfonsina, ricevi tanti saluti e baci dal tuo Romolo e Fernando” perché c’era mio padre. Questa l’ho conservata. Pensa, questo signore che sapeva naturalmente la tragedia, perché molti passavano dal Tarvisio, mi mise dentro questa cartolina.

Prima di arrivare ai confini con la Germania uno dei nostri è riuscito ad aprire, a farsi una piccola apertura da una parte, ed alcuni sono saltati giù. Che poi ne parlano anche nei libri di questa fuga. Però quando naturalmente io e mio padre ci siamo avvicinati, anche noi, abbiamo sentito le mitragliatrici, gli spari dei fucili e compagnia bella, allora abbiamo pensato di seguire il nostro destino.

Chissà se il mio amico Tubino di Genova si è salvato, perché lui si è buttato giù, un carissimo amico. Non ho mai più saputo niente, Tubino di Genova, mai più saputo niente.

Così abbiamo seguito il nostro destino. Abbiamo fatto quattro giorni, due notti e due giorni sempre su questo vagone. Poi siamo arrivati in un grande campo, era un campo nei pressi di Berlino. Prima di arrivare a questo campo guardavo questa città che era completamente distrutta, erano colpite casa per casa, c’erano delle pareti che sembravano quinte di teatro, dentro non c’era niente. Una cosa terribile.

Siamo arrivati in questo enorme campo dove arrivava quest’umanità disperata da tutte le parti d’Europa. Intere famiglie arrivavano, dalla Russia, dalla Polonia, da altri paesi, anche molti francesi. Un enorme campo.

Prima di destinarci ai diversi campi si era fatta una specie di interrogatorio, così ci interrogavano. Mi si è avvicinato un italiano, non so cosa fosse, o lavorava lì da tanto tempo, forse un lavoratore libero addetto alle cucine, non so, di questo enorme campo, mi ha detto: “Romolo, guarda, sei studente?” dico: “Sì, ho appena finito a Bologna”. “Non dire mai che sei studente” perché gli studenti naturalmente vanno incontro ad una brutta esperienza perché vengono considerati non capaci di lavorare. Allora dico: “Cosa devo dire?” “Dì che sei falegname”. Così abbiamo detto che eravamo falegnami tutti e due, ma questo penso non abbia contato niente perché non abbiamo mai fatto il lavoro di falegname, siamo stati messi subito nelle industrie di guerra e quindi il falegname non l’abbiamo mai fatto.

D: Il nome di questo campo non te lo ricordi?

R: Non me lo ricordo proprio, non me lo ricordo. Ma era enorme, un campo enorme. Avrei voluto… Pensa, ho tante cose ma di quello lì…

D: Più o meno in questo campo sei rimasto quanto tempo?

R: Pochissimo tempo, pochissimo tempo.

D: Quindi non ti ricordi la disposizione dei blocchi?

R: No, niente, perché poi si dormiva in condizioni disperate, non c’era più niente, si dormiva giusto per passare la notte.

D: Ecco, ma ti hanno immatricolato in quel campo?

R: No. Poi dopo naturalmente una mattina siamo stati caricati sopra… Adesso non mi ricordo questo particolare però, se ci hanno caricato su dei camion o su dei vagoni, non mi ricordo. Perché noi siamo andati a Neuengamme. Ci hanno portato a Neuengamme. Con me c’erano dei francesi, c’erano dei partigiani friulani, mi ricordo il vecchio Sonov ecc… e ci hanno portato tutti a Neuengamme.

Però a Neuengamme siamo stati pochissimo, dormivamo per terra su delle tavole con della paglia, perché ancora non siamo stati immatricolati a Neuengamme. Siamo rimasti lì soltanto per un po’ di tempo perché poi siamo stati portati poi, assieme a dei francesi, a dei polacchi, a questi partigiani del Friuli, e noi, quei tre o quattro del modenese, siamo stati portati in uno degli ottanta, perché aveva ottanta sottocampi Neuengamme. In questo campo che si chiamava Wittenberg. Qui ci sono i sottocampi di Neuengamme nel mezzo, e qui ci sono i sottocampi.

Perché poi la letteratura della concentrazione parla sempre dei grossi campi, ma invece anche nei piccoli campi praticamente c’era la stessa situazione che c’era nei grossi campi. Anzi, le SS le vedevi di più perché li avevi pronti ad ogni minuto, perché il nostro campo era più piccolo. Praticamente lo stesso trattamento che avevamo lì l’avevano a Neuengamme, l’avevano negli altri campi, … non se ne parli. Delle volte si parla di Gusen, Gusen era forse peggiore dello stesso Mauthausen, vero?

D: Ecco, e lì sei stato immatricolato?

R: Dunque, lì siamo stati immatricolati, io avevo il… 12603, perché era un campo più piccolo. Avevamo solo le piastrine e basta, non avevamo altro.

D: E poi?

R: E poi nei primi tempi ci avevano dato quella divisa zebrata, poi l’abbiamo persa perché praticamente eravamo abbandonati a noi stessi, poi vi spiegherò un po’…

Siamo andati a lavorare, ci hanno immesso a lavorare in una fabbrica proprio un po’ fuori, in periferia di Wittenberg, tanto che il nostro campo distava io penso un chilometro e mezzo, due anche da dove avevamo il nostro campo. Dover andare ciabattando con questi zoccoli, con queste pezze ai piedi era una cosa terribile, una zona freddissima, avevamo delle sciarpe di nebbia attorno perché c’era sempre la nebbia.

Ciabattando andavamo a questo campo. Io ho notato sempre che non ho mai notato in un tedesco un senso di… non so, qualche pensiero, qualche riflessione, anche qualche parola che ci avesse fatto pensare che eravamo considerati dei prigionieri, oppure delle persone che avevano fatto il loro dovere però naturalmente erano stati messe in questi campi. I bambini ci sputavano addosso, specialmente anche mio padre poverino che raccoglieva le cicche, infatti raccoglievamo le cicche perché c’era questa mania del fumo, e questa gente per una sigaretta, per fumare ti dava anche quel po’ di niente, quel po’ di niente che davano. Allora mio padre si chinava, anche io, a prendere queste cicche, le raccoglievamo e facevamo questi scambi che nel campo erano chiamati la valuta, perché naturalmente era un modo di scambio.

D: In questo campo piccolo c’erano delle baracche?

R: C’erano delle baracche però in muratura erano, in muratura, ad un piano solo, letti a castello a due piani. Con questo terribile tormento delle cimici e dei pidocchi che proprio era una cosa che non ti lasciavano vivere.

Adesso entro in un particolare, erano pidocchi non nella testa, erano pidocchi del pube, pensate, noi li avevamo lì, pensate un po’. Non ti lasciavano vivere, una cosa terribile. Poi queste cimici che erano una cosa terribile, ce ne erano a iosa. Come ce n’erano anche a Fossoli. Anche a Fossoli era proprio…

D: Ed era un campo solo maschile però?

R: Quello era un campo solo maschile, vicino a noi c’era un altro campo di donne polacche. Ho visto delle cose terribili veramente in queste donne. Ho visto una mattina una donna polacca che non aveva ubbidito, qualcosa, è stata pestata da una di queste … come le chiamavano, queste che erano più tremende degli stessi uomini, avevamo solo il campo di queste donne polacche. Con noi c’erano francesi che avevano un trattamento molto meglio di noi, perché noi avevamo un trattamento pessimo. Noi …maccaroni, traditori due volte. Invece i francesi avevano una certa libertà anche, pensate, in fabbrica. Anche una certa libertà. Quella che non avevamo noi, nel modo più assoluto.

D: Quanti italiani eravate lì?

R: Lì eravamo direi sui quattrocentocinquanta, sì, tra italiani e… C’erano poi anche i partigiani friulani, però con noi c’erano anche dei francesi, non so stabilire proprio l’esatta…

D: Sì, ma italiani ce n’erano?

R: Sì, ce n’erano parecchi di italiani, sì, ce n’erano parecchi.

D: Ed il babbo sempre con te?

R: E mio padre sempre con me, pensate.

D: In fabbrica cosa facevate?

R: In fabbrica, noi lavoravamo in una fabbrica che faceva i pezzi per le mitragliatrici leggere, nelle catene di montaggio. Pensate un ragazzo di sedici anni abituato magari ad andare a scuola, a studiare, messo, buttato dentro questa catena di montaggio impressionante, facevamo una settimana di giorno ed una settimana di notte. Sempre assieme a mio padre, sempre, eravamo addirittura nello stesso reparto. Chissà il destino, cosa che è successa a pochi, perché di solito li dividevano subito, madre, padre, zii, parenti, sorelle, li dividevano. Qui il destino delle volte ti può dare…

D: Ti ricordi il nome della fabbrica per caso?

R: Sì che me la ricordo, la mia fabbrica era una volta la Singer, che facevano le macchine da cucire, che era stata trasformata in industria di guerra.

D: C’erano anche dei civili in fabbrica?

R: Sì, c’erano anche dei civili, verissimo, c’erano anche dei civili. Infatti io penso che uno del nostro reparto, fossero addirittura due o tre i civili nel nostro reparto, solo nel nostro reparto, e ce n’erano parecchi, ce n’erano tre. Noi non abbiamo mai avuto contatti perché sapevo anche poco il tedesco, specialmente nei primi tempi. Non abbiamo mai avuto veramente contatti con queste persone civili, mai contatti.

D: Ed in fabbrica sieste rimasti quanto?

R: In fabbrica siamo rimasti, siamo arrivati… Aspetta un po’ perché abbiamo fatto tutto luglio, alla fine di agosto siamo partiti… siamo rimasti fino… So che tra Fossoli e la fabbrica ho fatto dieci mesi di prigionia. Saremo rimasti otto mesi, no, sette mesi in fabbrica.

D: Sempre in quel campo lì?

R: Sempre in quel campo lì siamo rimasti. Abbiamo avuto parecchi bombardamenti, ma i primi bombardamenti, adesso vi racconterò, non hanno fatto niente, siamo sempre rimasti in questa fabbrica assieme ai francesi e polacchi, lavoravamo in questa fabbrica.

D: Il primo grosso Lager è forse Sachsenhausen?

R: Quello proprio non lo so, era enorme, grandissimo. So che Sachsenhausen è uno dei più grossi lager della Germania, può darsi che fosse anche quello, io penso… Di grande Lager non ce n’erano mica, lì era veramente enorme, può darsi benissimo. Mi hai messo in mente una cosa che può darsi benissimo fosse Sachsenhausen.

D: Non vorrei deviarti.

R: Hai ragione. Ma io poi di questo grande Lager non mi ricordo niente, so che abbiamo subito dei bombardamenti feroci dentro lì. Naturalmente loro avevano i rifugi e compagnia bella, a noi ci sbattevano durante questi bombardamenti, quindi saremo rimasti tre o quattro giorni, non di più. C’erano delle buche scavate nel terreno con delle tavole sopra e ci cacciavano lì dentro, ci facevano andare lì e non so perché, potevano anche lasciarci fuori, non è che contassero molto. Ma di questo Lager proprio non mi ricordo niente, ma pensa. Sarebbe stato bello…

D: Riprendiamo dalla fabbrica.

R: Io sono rimasto lì, sì, perché dunque siamo arrivati… siamo rimasti lì fino ad aprile. … Siamo rimasti dal settembre fino all’aprile dell’altro anno. Quanti mesi sono?

D: Tanti.

R: Tanti mesi, tanti mesi. Quasi otto mesi.

D: Ecco, nell’arco di questi otto mesi non ti sei mai ammalato tu?

D: L’importante, come sempre si dice, è di non ammalarsi mai, se no si finiva nel Revier e naturalmente la nostra vita era attaccata proprio ad un filo, perché loro potevano disporre di te come volevano e finivi anche nelle camere a gas. Nel nostro campo non esistevano le camere a gas e neanche i forni crematori. Dopo fu distrutto completamente.

Naturalmente è un po’ la vita di tutti i deportati, nel nostro campo alzata alle cinque d’estate ed alle sei d’inverno, avevamo questi orari qui. Il solito caffè tremendo che loro chiamavano caffè, questa brodaglia nera con delle erbe essiccate dentro che loro chiamavano caffè. Poi verso le 13 si smetteva di lavorare e prendevamo mezzora per questo pasto, chiamiamolo così, tra virgolette, questo pasto, era una brodaglia, una zuppa di rape da foraggio con qualche patata che galleggiava dentro qualche volta.

Allora i miei amici che vedevano questo ragazzo giovane: “Fatti furbo, non devi andare all’inizio”, perché all’inizio naturalmente prendi l’acqua, lo sapevano già tutti. C’era un lavoro, chi si spingeva di qua, di là, il sottoscritto parecchie volte… Mio padre no, ma parecchie volte mi bevevo dell’acqua perché non riuscivo mai… A sedici anni come si fa…

Però guardate, non ho mai avuto paura della morte proprio. Perché? Perché avevo il grande appoggio morale di mio padre. E poi come può aver paura della morte un ragazzo di sedici anni? Non può pensare già alla morte, non può. Quindi mi sono sempre, con questo grande aiuto di mio padre…

Negli ultimi tempi no perché la demoralizzazione era arrivata anche lì, perché vedevamo che era tanto… Perché pensate che sono stato quasi otto mesi dentro e vedevamo che questa Liberazione non arrivava mai. Si sapevano certe notizie, riuscivamo a capire da altri che erano più furbi di me che riuscivano a capire qualcosa. Ma vedevamo che i russi, perché eravamo dalla parte dei russi, non arrivavano mai. Allora dopo la demoralizzazione.

Alla sera, facevamo dodici ore una settimana di giorno ed una settimana di notte. Per le punizioni, una piccola cosa, una qualsiasi cosa, perché i tedeschi avevano una forma maniacale, ..cinque per cinque, una forma maniacale in tutto. Mi ricordo che io ho avuto due punizioni, la prima volta perché non avevo capito un ordine di uno di questi tedeschi, di uno di questi capi del nostro campo. Lì mi ha colpito con il Gummi, il famoso Gummi, quest’anima d’acciaio rivestita di gomma. Ma non è arrivato a venticinque, me ne ha date alcune e poi dopo mi ha lasciato andare.

Poi un’altra volta durante la notte perché avevamo i gabinetti, chiamiamoli cessi proprio che rende più la parola, con un’apertura davanti, ogni tanto passava il capo e guardava dentro se uno s’addormentava durante la notte. Io una notte mi sono addormentato, ero talmente stanco che mi sono addormentato, lui mi ha preso, mi ha tirato fuori, e poi picchiandomi mi ha fatto andare per tutto il reparto. Pensate mio padre che mi ha visto in quelle condizioni. Però mi avevano detto di stare dritto, di non prenderle mai sui reni, perché sui reni sarebbe stata una cosa… Di prenderla tipo sulle spalle. Io ho applicato un po’ alla mia maniera, come potevo, e questi colpi sì mi hanno fatto stare per parecchi giorni… però non sono stato a letto. Perché doversi ammalare oppure saltare il lavoro per loro diventavi una bocca inutile da sfamare e ti colpivano, non avevano mica nessuna pietà per nessuno.

D: Appunto, nessuna pietà per nessuno. Dicevi di quella donna che hai visto nell’altro campo, lì nel vostro campo oppure durante la fabbrica sei stato testimone di atti di violenza?

R: Sì, sono stato testimone più che di atti e di cose di grandi… picchiavano questi prigionieri in una maniera pazzesca. Però proprio atti che si arrivasse a colpirli e ad ammazzarli io questi non li ho mai visti nel mio campo.

Però ho visto alcuni che sparivano, per esempio loro ci dicevano che erano stati mandati a lavorare in altri posti, però io ho avuto sempre dei dubbi sulla loro sorte, ho sempre avuto dei dubbi. Infatti nel nostro campo ne sono mancati parecchi, non so se andavano a lavorare nei campi o fossero trasferiti, oppure avessero fatto un’altra… Perché c’era un tipo di … naturalmente che era stato partigiano, era stato nel partito comunista, quindi era un personaggio piuttosto pericoloso magari per loro. Quello non l’ho più visto. Sono dubbi che mi sono entrati nella memoria, nella mia testa.

D: Dicevi che c’erano molti francesi.

R: Molti francesi, molti francesi sì.

D: Ricevevano pacchi questi?

R: I francesi ricevevano pacchi. Tanto che uno di questi qui una volta mi diede un cioccolatino anche a me, questo grande… mi diede questo cioccolatino. Ricevevano pacchi, ricevevano pacchi. Poi stavano meglio, addirittura alcuni avevano intrecciato anche delle relazioni con delle donne tedesche, addirittura. Sì.

D: Accennavi prima Romolo ai bombardamenti, in questo campo dipendente da Neuengamme. Ecco, cosa succedeva? Eravate in fabbrica o nel campo?

R: Tutti i bombardamenti che abbiamo subito, che io ho subito nella Wittenberg sono stati tutti sempre dentro alla fabbrica. Eravamo sempre dentro alla fabbrica. Nella fabbrica avevano dei rifugi un pochino più decenti, avevano delle gallerie scavate ed allora i prigionieri li mettevano lì sotto, forse c’era un pochino più di sicurezza. Ma la Wittenberg è stata quasi completamente distrutta, parecchie volte ha avuto dei bombardamenti. Allora lì ci prendevano fuori dalla fabbrica e ci mettevano, ci regimentavano, ci portavano a sgomberare le macerie. Sempre, due o tre volte l’ho fatto assieme a mio padre, andavamo… Anzi, pensavamo: “Forse ci fanno fare i falegnami questa volta”. Mentre invece non ci facevano fare niente, lavoravamo solo a spostare mattoni e basta, a tirare su cadaveri e basta.

D: Il momento della Liberazione come te lo ricordi?

R: Ma c’è ancora da parlare. Dunque, poi il mio campo, eravamo in fabbrica, assieme a mio padre ed a tutti gli altri, è stato un bombardamento feroce che ha distrutto quasi completamente Wittenberg, le ultime case che erano rimaste, ed ha distrutto completamente anche il nostro campo. Quando siamo arrivati non abbiamo più trovato niente, niente. Anche mio padre poveretto aveva nascosto un po’ di pane e non ha più trovato niente. Delle calze, un paio di calze che io non so dove fosse riuscito ad averle perché mio padre cercava sempre. Io invece li subivo, ma mio padre invece…

Il mio campo è stato completamente… Ma pensate che siamo stati rinchiusi poi lì mentre arrivavano i russi, i cannoni dei russi erano a pochissima distanza, ci hanno rinchiusi in un campo per due o tre giorni, una cosa terribile. Nascondevamo la testa dentro la sabbia, a questa terra, delle cose terribili.

Poi siamo stati portati fuori, siamo stati messi in quelle famose colonne che poi ho saputo in seguito che si chiamavano le marce della morte, e perché dopo ho identificato? Perché durante questa marcia è stata una cosa veramente terribile, guardate, uccidevano questi vecchi che non riuscivano a camminare e li abbandonavano lungo i marciapiedi delle strade. Io ho visto delle cose terribili. Un ragazzo a sedici anni che vive delle cose così ti rimangono impresse per tutta la vita, perché c’è qualcosa di disumano, di criminale, di pazzesco proprio. Questi vecchi che naturalmente non riuscivano più a camminare li uccidevano e li abbandonavano lungo la strada.

Poi un’altra cosa che mi ha colpito, quando si dice che naturalmente c’era in Germania molti che non la pensavano… Pensate che lì da noi c’erano lungo le strade, quando passavamo, c’erano i ragazzi della Hitler-Jugend che avranno avuto quindici anni che aspettavano i carri armati russi. Pensate l’indottrinamento di quella gente lì, pensate un po’. Per loro era morte certa perché i tedeschi naturalmente non facevano più prigionieri, ma anche i russi avevano ragione, non ne facevano più di prigionieri, ammazzavano tutti quelli che trovavano. Quindi pensate un po’ l’indottrinamento di questi giovani. A quindici anni ancora ad aspettare lì… era la loro morte, sapevano che dovevano morire.

Allora in questa marcia della morte durata tre o quattro giorni, perché si andava piano, ci si fermava delle volte per delle cose più strane. Una sera siamo stati messi in una grande masseria, in una grande azienda agricola, chiusi dentro in questo fienile che era enorme, chissà che azienda grande era. Tutti questi prigionieri della nostra colonna messi lì dentro.

Io e mio padre abbiamo avuto un momento di coraggio veramente, e durante la notte siamo scappati, io e mio padre soli siamo scappati. Non so, o non ci hanno visti o è stato il destino, io non so come sia stata questa cosa qui, siamo riusciti a scappare e ci siamo buttati subito nella campagna, c’era un boschetto lì vicino, l’abbiamo attraversato, e poi abbiamo continuato a camminare, camminare. Siamo riusciti a scappare.

D: Camminare fino a dove?

R: Poi dopo siamo arrivati verso …, abbiamo fatto tanti paesi che adesso non ricordo. Ma lì noi siamo riusciti anche a mangiare qualcosa perché i tedeschi hanno un particolare modo di conservare le patate, fanno una specie di paglia, sabbia, paglia, poi una specie di piramide, paglia ancora e sabbia, e si conservano benissimo da un anno all’altro. Allora io e mio padre uscivamo a prendere queste patate, nei primi tempi si mangiavano addirittura crude senza pelarle, senza niente perché la fame era paurosa.

Poi in un secondo tempo siamo entrati anche in certe case, perché i tedeschi avevano una paura mortale dei russi, li avevano indottrinati in una maniera che avevano una paura mortale dei russi, quindi le case le abbiamo trovate addirittura abbandonate, moltissime case. Siamo entrati con mio padre e qualcosa siamo riusciti naturalmente a cuocere magari qualche patata, perché ormai non si trovava quasi più niente.

Lì c’è stato un momento terribile perché mio padre durante questi sette, otto giorni che abbiamo camminato è stato preso da una febbre altissima, non riusciva più a camminare. Allora io ho preso quest’uomo, un uomo meraviglioso, l’ho messo sotto ad un carretto, pensate, avevo sedici anni, sotto un carro bestiame che era fermo in una di queste case di contadini o di padroni, non so, di agricoltori. Tre giorni è restato così, tanto che non pensavo di portarlo più a casa. È stato un momento terribile della mia vita quello lì.

Poi il destino che aiuta sempre si è ripreso, pensate, dopo una febbre feroce, sragionava “Allora cosa c’è, la mamma, mia moglie ecc…” una cosa terribile per un… Durante la notte stavo lì vicino a lui. È stato tre giorni, poi è riuscito, si è rialzato e così abbiamo proseguito il nostro cammino. Verso che cosa? Scappavamo solo, per paura di essere ripresi.

Durante questo passaggio attraverso i boschi abbiamo incontrato altri cinque militari che erano scappati da un campo militare, ci siamo messi con loro tanto che poi abbiamo poi trovato un cavallo, ammazzato, e finalmente lì abbiamo fatto una mangiata bellissima con questo.

Pensi che io ho ancora delle memorie scritte in un librettino che ho trovato, adesso bisognerebbe che facessi stampare.

D: Memorie scritte da chi?

R: Da me.

D: In quel momento? Tipo diario?

R: In quel momento. Tipo diario, ma solo negli ultimi giorni perché prima non potevo mica scrivere io, non potevo mica durante la prigionia perché non avevi matite, né fogli, niente. L’ho trovato in una di queste case, allora ho scritto le ultime mie impressioni di questa prigionia finale, della Liberazione e tutto. Adesso bisogna che lo faccia stampare, è un libricino grande così.

D: Romolo, da quando siete scappati sei riuscito a recuperare il percorso, la direzione?

R: Sì, un pochino sono riuscito a recuperarla. Sono passato da …, sono passato verso… Io sono stato liberato vicino a Perleberg credo, penso di sì.

Poi una mattina eravamo lì in una capanna, in una specie di baracca lì fuori, abbiamo sentito un grande rumore, uno sferragliare, un passaggio di cavalli, di cavalleria. Allora abbiamo pensato di uscire verso la strada che era sulla destra di questo bosco. Allora siamo stati liberati dall’esercito russo.

Era il 2 maggio, un mercoledì, alle 10.30, siamo stati liberati dai russi, mercoledì alle 10.30, 2 Maggio.

D: Cosa ti ricordi di quel momento?

R: Un momento fantastico, guarda. Fantastico. Perché dopo ci hanno rifocillato, ci hanno dato anche da mangiare. Siamo rimasti così, “Pensate siamo liberi”, “Pensa papà siamo liberi, è una cosa grandissima”. Grande, enorme è stata. Veramente grande.

Poi siamo andati in paese, che penso fosse Perleberg, e lì abbiamo avuto una disavventura perché abbiamo trovato un magazzino della SS della… sapete che il nostro stomaco era ridotto ai minimi, allora abbiamo trovato dentro questo grande magazzino scarpe ed altro che non ci interessava più, abbiamo trovato del latte condensato della Nestlé, tubetti, allora io e mio padre li abbiamo ingurgitati in una maniera esagerata, è stata una cosa pazzesca, abbiamo rischiato lì di finire con il latte condensato nei nostri giorni della Germania.

Poi la nostra zona dai russi è passata agli americani naturalmente hanno diviso in zone la Germania, è passata sotto agli americani, siamo stati lì un po’ di tempo. Poi siamo stati messi nella zona inglese, e lì ci siamo stati parecchio. Perché io sono stato liberato il 2 maggio del ’45, sono rimasto lì fino all’inizio di settembre. Anche di lì siamo scappati con il nostro capo campo che si chiamava Bedosti, ho ancora tutti i proclami a casa di Bedosti che ci diceva di stare calmi, di stare buoni ancora perché naturalmente… “Siete liberi ormai, però tra poco arriverà…”. Noi aspettavamo sempre di tornare dalle nostre famiglie ma non arrivava mai.

Allora anche lì siamo scappati.

D: Dove era questo campo qui?

R: Aspetta un po’…

D: Questo campo degli inglesi.

R: Chissà poi dove era… non lo so. Io ho una fotografia… se mi verrà in mente…

D: Dicevi questo capo campo che tu hai a casa ancora i proclami.

R: Pensa, ho i proclami di questo Bedosti dove ci dice di stare calmi perché la nostra libertà finalmente l’avevamo avuta, però di stare calmi che sarebbe arrivato il momento.

Invece siamo scappati anche da lì, siamo scappati prendendo i più strani treni che non si sapeva dove andavano, …poi tornavi indietro, poi andavi avanti, finalmente siamo arrivati fino, questo me lo ricordo benissimo, siamo arrivati al campo di Mulenberg, che era un campo degli americani, e lì siamo stati disinfettati con il famoso DDT, irrorati da capo a piedi di questo DDT, poi di lì abbiamo avuto la possibilità di prendere un treno che ci avrebbe portato al di fuori della Germania e poi in Italia. Ma siamo stati in questo campo alcuni giorni. Io ho a casa ancora proprio DDT ecc… quando siamo stati spolverati.

D: Il percorso di ritorno dal Brennero?

R: Dal Brennero. Anche lì… Lì abbiamo fatto aprire… trovavamo dei camion, montavamo lì, siamo arrivati, abbiamo fatto tanti paesi, tanti paesi, prendevamo il camion che andava… Il nostro punto era sempre Verona, e finalmente siamo arrivati a Verona.

Da Verona anche lì siamo arrivati con un camion a rimorchio che portava dei sacchi non so a chi, siamo arrivati fino a Modena. Poi da Modena ancora su un camion di autotrasportatori siamo arrivati a casa mia a Sestola.

D: La mamma?

R: Pensate un po’, mia madre naturalmente non ha mai saputo niente, i paesani… guarda, sono arrivati Romolo e Fernando. Adesso mia madre… Mia madre pensate un po’ non si reggeva in piedi, anche noi questa gioia di tornare, di vedere… Perché a casa avevamo lasciato la mamma e la nonna. La nonna centenaria, ha vissuto fino a cento anni. È stata una cosa… Veramente in quel momento mio padre più di me era in condizioni disastrose poveretto, era proprio una larva di uomo, era diventato, perché si privava delle volte di quel poco o di quel niente che ci davano per darlo a me. Quindi sono di quelle cose che non si dimenticheranno mai.

Ditemi qualcos’altro.

D: Quand’era quando sei arrivato a casa? A settembre?

R: Sì, sono arrivato a casa a settembre proprio, a settembre, verso il 10 di settembre.

D: Ascolta un attimo, come hai visto che avevi diciassette anni…

R: Sì, diciassette anni.

D: Con i tuoi amici, i tuoi amici di… compagni di scuola, raccontavi? Ti chiedevano?

R: Sì, perché naturalmente alcuni di loro si erano salvati perché si erano nascosti, quel famoso giorno dell’arrivo dei tedeschi a Sestola, alcuni si erano nascosti. Invece io stupidamente… ma non stupidamente, perché come si fa a prendere un ragazzo di quell’età lì. Le raccontavo e stavano a sentire quello che mi era successo.

Però dopo per un po’ di tempo anche io ho smesso di parlare perché raccontavo delle cose talmente grandi, talmente al di fuori della realtà che molti sì, quasi non le capivano.