Rudolf Maria

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Rudolf Maria, sono nata a Gorizia il 17 agosto del 1926.

Quando ero piccola, ci siamo trasferiti a 35 km di distanza da Gorizia verso il confine dell’allora Iugoslavia. Lì ho vissuto per sedici anni e lì sono stata arrestata.

D: Scusa, Maria. Chi ti ha arrestato?

R: Mi hanno arrestato i tedeschi perché io ero corriere dei partigiani e sono stata denunciata dai paesani.

Mi hanno portata nelle carceri di Gorizia e lì sono rimasta per tre mesi.

D: Quando? Ti ricordi la data?

R: Il 12 aprile del 1944.

D: Chi ti ha interrogato?

R: I tedeschi.

D: Nelle carceri di Gorizia.

R: Nelle carceri di Gorizia.

D: E cosa ti chiedevano?

R: Volevano sapere delle organizzazioni ecc., ma io ho fatto finta di non sapere assolutamente niente, perché i nomi dei partigiani erano tutti nomi di battaglia ed erano organizzati in maniera che non potevano dimostrare che io sapessi qualcosa.

Comunque, nonostante l’età, io devo congratularmi con me stessa perché non ho mai detto niente.

D: Hai subìto anche delle torture?

R: Se non avessi riconosciuto, no, non è giusto. Ho riconosciuto.

Se avessi detto che io non ero il corriere dei partigiani, sicuramente mi avrebbero torturata, ma io non potevo negarlo perché lì c’erano dei testimoni che mi hanno denunciato e non potevo smentire.

D: Nelle carceri, quanto tempo sei rimasta?

R: Sono rimasta tre mesi a Gorizia e dopo il processo mi hanno portato al Coroneo, nelle carceri di Trieste.

Il 12 settembre del 1944, con un carro bestiame, mi hanno portata ad Auschwitz.

D: Eri da sola o c’erano anche delle tue compagne?

R: C’erano tante mie compagne perché le conoscevo già in carcere a Gorizia e poi ci siamo ritrovate a Trieste e da Trieste ci hanno portato in questo campo di concentramento di Auschwitz.

D: Scusa, Maria, ti ricordi dal Coroneo al carico del Transport, dove vi hanno portato?

R: Non ci hanno mai detto niente, perché loro facevano tutto senza che noi sapessimo qualcosa.

Quando sono arrivata ad Auschwitz, mi è venuto un colpo perché sentivo qualcuno che mi chiamava ma non riconoscevo nessuno e poi sento: “Maria, Maria, sono io, non mi riconosci?”.

Le mie compagne che erano partite prima di me, erano già ridotte a delle larve.

Io non le ho riconosciute.

E poi la cosa che più mi ricordo e che più mi è rimasta impressa è quando mi hanno fatto spogliare tutta davanti ai tedeschi, io avrei preferito essere morta in quel momento, perché avendo vissuto in un paese, senza avere visto prima un cinema, qualsiasi cosa, per me era talmente da morire di vergogna, dovermi spogliare davanti a tutti.

Poi ci hanno dato un vestito, quello che capitava, un paio di zoccoli di legno, tipo olandese, e niente altro.

Ci hanno tagliato i capelli, portato via tutto quello che avevamo con noi, che poi non era molto. Ci hanno raggruppato in una baracca dove non si poteva stare seduti così come sto adesso seduta io. Era tanto basso, chiamiamolo il tetto, che dovevano stare seduti così.

Dunque immaginate quale tortura per noi a diciotto anni.

E la notte si dormiva in otto in un piccolo spazio, dove per rimanere tutti dovevamo avere uno la testa qui e uno la testa dall’altra parte, altrimenti non ci si stava.

Alla mattina dovevamo spogliarci completamente nudi e fare l’appello davanti alla baracca, che poi era già autunno, i primi di ottobre e faceva freddo.

In una di queste mattine, ricordo che passava davanti a noi un camion che al momento non sapevamo cos’era e poi ci siamo accorti che era un camion pieno di cadaveri nudi, perché quando si stava all’appello, di tanto in tanto qualcuno cadeva a terra, e lo raccoglievano e lo portavano nel forno.

Tutte le mattine dovevamo stare così in piedi nudi per diverse ore.

Ci davano un mangiare che io definirei per i maiali e una sola volta al giorno e se tu non avevi una bacinella, qualcosa del genere per mettere dentro questa minestra, rimanevi anche senza quella.

Io ricordo che per la gran fame mi rotolavo sotto il reticolato di ferro, di filo spinato, per andare a mangiare quel poco che rimaneva alle persone ammalate di tifo.

Io rischiavo la vita, ma la fame era tanta che non ci pensavo due volte e c’era una specie di baracca che fungeva da ospedale e lì c’erano queste persone che non riuscivano più a mangiare perché erano mezze morte.

Io andavo a raccogliere gli avanzi di quelle persone.

D: Scusa, Maria, il viaggio da Trieste ad Auschwitz quanto è durato? Te lo ricordi?

R: E’ durato parecchi giorni, ma io non saprei dire con esattezza quanti.

D: Eravate in tanti, nel tuo vagone?

R: Eravamo in tanti e quando siamo arrivati ad Auschwitz, io ho riconosciuto una persona ebrea che invece lei non conosceva me, e c’era anche il suo nipotino.

Quella volta, io avrei preferito…, peccato che non gliel’ho detto che la conoscevo ecc. perché quando sono ritornata da Auschwitz, ho raccontato di avere visto questa signora con il nipotino e il figlio di questa signora è venuto da me a chiedermi cosa so di preciso.

Mi è dispiaciuto tantissimo perché non potevo raccontargli niente più del fatto che l’avevo vista e basta.

Perché io ero tanto convinta del fatto che non sarei ritornata a casa, che non valeva la pena di dirle che la conoscevo.

D: Scusa, Maria, quando tu parli di Auschwitz 1 o di Birkenau?

R: Proprio Auschwitz 1.

Io sono rimasta lì ma soltanto 40 giorni…

D: Hai detto che quando sei entrata vi hanno fatto la spogliazione…

Vi hanno dato dei vestitacci…

R: Quello che capitava…

D: Senza biancheria intima…

R: Senza biancheria intima…

D: L’immatricolazione, quando ve l’hanno fatta?

R: Quando ci siamo spogliati in fila, tutti quanti, ci hanno fatto il numero che io da quel momento sono diventata un numero, non più un nome e cognome, un numero.

D: Il tuo numero qual è?

R: Il mio numero è 88.492.

D: Ti hanno dato anche un triangolo?

R: Sì, io sul vestito avevo un triangolo rosso “IT” che significava “italiana”. Gli ebrei invece avevano un triangolo giallo che non ricordo bene se era una stella.

D: Quindi tu sei rimasta ad Auschwitz 1 per quaranta giorni?

R: Per quaranta giorni.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: No.

D: Non te lo ricordi.

R: No, perché non siamo rimasti sempre nello stesso blocco, ci hanno trasferito più volte.

Per questo quando si rischiava di rimanere senza bacinella per il mangiare non mangiavi proprio.

D: Dovevi digiunare?

R: Eccome. Io ho visto episodi terribili di questa fame perché lei sa quanta fame si ha a diciotto anni e poi c’erano anche persone già molto ammalate che finivano lì, come avevo già detto, in questo ospedale. E io andavo lì sperando di trovare qualcosa.

D: Hai detto che hai visto quella signora ebrea con il nipotino.

Hai visto altri bambini?

R: No, perché lei è partita proprio con il mio trasporto, per cui l’ho vista lì quando ci dovevamo spogliare e ho visto quanto era dispiaciuta a doversi svestire davanti al suo nipotino.

D: Nel tuo trasporto non ricordi i numeri, quanti eravate più o meno?

R: No, perché eravamo in diversi vagoni e poi io ero così disperata, che non mi interessavo di niente.

D: In questi 40 giorni che sei rimasti ad Auschwitz 1, cosa hai fatto?

R: Praticamente non ho fatto niente, perché loro già preparavano dei trasporti, dopo la quarantena per portare quelle persone che erano ancora in grado di lavorare più verso il centro della Germania.

E a me, dopo quaranta giorni, con questo trasporto mi hanno portato a Plauen, in una città che si chiamava Plauen e ci hanno sistemati in una fabbrica di lampadine.

Lì, il mangiare era pochissimo. Non solo, dovevamo fare dei turni di lavoro anche la notte e poi c’erano bombardamenti in continuazione.

Io, oltre al ricordo della fame, ricordo quanto bisogno di dormire avevo.

Io ero stanca da morire, un po’ forse per la debolezza perché non si mangiava, ma soprattutto perché non c’era mai pace: o si doveva lavorare o c’erano i bombardamenti e bisognava correre in rifugio.

Insomma ho dei ricordi tremendi. E non bastava tutto questo, ma tante volte ci mettevano in fila per qualsiasi sciocchezza e dovevamo stare lì, non solo in piedi per delle ore, ma dovevamo anche cantare.

D: Cantare cosa?

R: Mi facevano cantare l’Ave Maria di Schubert. E poi tutte le altre facevano il coro.

Si figuri come lo potevamo cantare, così deboli, stanchi e soprattutto umiliati in tutte le maniere, quanta voglia di cantare avevamo.

D: Ascolta, Maria, quando hai lasciato Auschwitz 1 per quella fabbrica lì, quel sotto campo lì, tu hai passato una selezione?

R: Era questo il loro… Quelli che si presentavano ancora in grado di lavorare andavano da una parte e gli altri dall’altra. Tanto è vero che due persone che io conoscevo sono partite con me, sono rimaste lì dopo di me, perché erano intanto più anziane, e poi deboli, da non potere lavorare.

D: E sono rimaste al campo queste?

R: Sono rimaste al campo e so che una di queste persone non è mai tornata a casa. Per la seconda, a dire il vero, non lo so.

D: Quando tu hai lasciato il campo c’erano anche altre tue compagne con te?

R: Sì, diverse. Perché noi, in 40 giorni abbiamo sì sofferto la fame, ma non ci siamo ridotte ancora a degli scheletri.

La maggior parte delle mie compagne è venuta con me in fabbrica.

D: Lì, il campo dov’era rispetto alla fabbrica?

R: Noi eravamo lì, segregate nella fabbrica. Si dormiva lì, si mangiava e si lavorava.

Io non sono mai uscita da quella fabbrica fino all’aprile del 1945, quando hanno bombardato la nostra fabbrica abbiamo dovuto abbandonarla perché non si poteva rimanere lì e non avevano più dove portarci, era distrutto completamente tutto e queste persone che si sono ammalate in fabbrica dovevamo portarle noi, si figuri con quale fatica.

Perché già noi eravamo tanto deboli che portare anche queste persone ammalate era una tale fatica, impossibile da sopportare. Non ce la facevamo proprio.

Poi, quando hanno buttato via un po’ di detriti, ci hanno ributtato nella fabbrica sotto il sotterraneo.

E da lì io e quattro mie compagne siamo scappate.

Siamo scappate in un bosco, e lì ci siamo preparate un letto di rami di alberi, e siamo rimaste lì per quattro giorni, però poi la fame era all’estremo, eravamo all’estremo delle forze.

Sapevamo che vicino alla nostra fabbrica c’erano degli italiani che però non erano prigionieri come noi, ma erano lavoratori.

Così, io e un’altra mia compagna, pur essendo vestite da prigioniere con il vestito a righe e sulla schiena un “KL”, abbiamo rischiato perché dovevamo o morire di fame o fare qualcosa.

Siamo andate da questi italiani che poi c’era anche un triestino tra di loro e loro ci hanno dato non solo da mangiare, adesso io non ricordo bene che cosa, ma qualcosa da mangiare e ci hanno consigliato di andare almeno sotto un ponte per non essere bagnate e per ripararci un po’.

Questo ponte non era molto lontano e comunque ormai c’era tanta confusione, che nessuno ci badava più.

Anche se eravamo vestiti da prigionieri, nessuno ci guardava, nessuno ci ha mai fermati comunque siamo arrivati il 25 aprile e sono arrivati gli americani.

Lì, loro ci hanno messo in una baracca e hanno cercato di curarci alla meglio.

Comunque sono morte tante mie compagne anche dopo, perché ormai erano così rovinate, così esaurite che non ce la facevano più.

Siamo rimaste lì un paio di mesi e poi sono arrivati i russi.

Siamo partiti da lì, in luglio, non saprei dire il giorno preciso, e siamo rimasti in viaggio per un mese intero. Era tutto distrutto: le ferrovie… Sono tornata a casa il 12 agosto del 1945, quando nessuno si aspettava più di vedermi.

D: E che giro hai fatto per arrivare in Italia?

R: Addirittura siamo passati per l’Ungheria: Budapest, però noi non abbiamo mai visto niente perché noi dovevamo rimanere lì altrimenti non avevamo altri mezzi per tornare a casa. Poi Ungheria, Iugoslavia, poi Postumia e io sono tornata a casa finalmente, il 12 agosto del 1945, cioè tutti quei mesi dopo la fine della guerra.

D: Maria, tu quando eri ad Auschwitz e poi lì nella fabbrica, dicevi che eravate molte donne…

R: Tutte donne, solo donne.

D: Come vi hanno risolto il problema delle mestruazioni?

R: Non avevamo le mestruazioni, o ci davano qualcosa, o a causa di questa fame non avevo mestruazioni, tanto è vero che ero terrorizzata all’idea di non potere averi figli perché dicevano che eravamo rovinate, che non potevamo avere figli. Invece non era così, io ne ho avuti tre.

D: Quando eri ad Auschwitz o in fabbrica, soprattutto in fabbrica di lampadine, c’erano anche dei civili con voi a lavorare ?

R: Soltanto il nostro capo, era un tedesco perché si vede che era stato ferito in guerra, non era in grado di camminare e lui era il nostro capo.

D: Quando ti hanno portato in fabbrica, ti hanno cambiato il numero di immatricolazione?

R: No, è rimasto sempre lo stesso.

Io adesso non ricordo tanto bene se lì avevamo un altro numero in fabbrica, ma se ce l’avevamo non è che ce l’avevamo tatuato, può darsi, non ricordo proprio che se l’avevamo, l’avevamo sulla veste, ma non ricordo bene.

D: Lì, in fabbrica facevate degli appelli?

R: Tutte le mattine si faceva l’appello, come in campo di concentramento.

D: Ti ricordi se nel campo ad Auschwitz 1 hai visto anche dei religiosi?

R: No.

Perché noi lì eravamo segregate in questa baracca e lì non ci si poteva muovere. Noi non avevamo la possibilità di poter girare e andare da una fabbrica all’altra. Dovevamo stare lì, sedute come le ho già raccontato in quella maniera e poi quando, alla mattina, c’era questo appello che bisognava stare lì delle ore, poi fino all’ora di pasto, eravamo lì seduti come le avevo fatto vedere, senza poterci muovere, senza poter camminare e andare da un posto all’altro.

D: Scusa, Maria, un’altra cosa, quando eravate in fabbrica, o anche nel campo, tu sei mai andata all’infermeria?

R: Sì, ma avevamo tutto in fabbrica, c’era una stanza che fungeva da infermeria.

Io avevo un eczema terribile.

Ho cominciato con un pochino all’orecchio e poi avevo mezza faccia completamente rovinata da questo eczema.

Addirittura mi scolavo questo liquido.

E avevo paura di rimanere così, con la faccia sfigurata per tutta la vita e invece con delle pomate mi è un po’ migliorata.

Però, quando sono ritornata a casa avevo un po’ di eczema non soltanto sulla faccia ma anche sul seno e quello mi è durato per un anno ancora, perché dicono che è la mancanza di vitamine, non so cosa bisognava fare per aiutare.

Quando sono tornata a casa, in farmacia mi hanno dato l’olio di fegato di merluzzo, che però non mi è servito.

Poi invece con una pomata per l’eczema, ma ci sono voluti due anni prima che guarissi completamente.

D: Ad Auschwitz non sei più ritornata?

R: No. Ho visto un film su Auschwitz, ho pianto tutto il tempo del film, e non era tanto brutto quanto quello che ho vissuto io.

Mi viene un nodo alla gola se penso a quello che ho passato a diciotto anni.

Non solo tutte le umiliazioni, la fame.

Io adesso ho una nipote della mia età, dell’età di quando io ero in prigione, penso se lei dovesse passare quello che ho passato io.

Mi dispiace che i giovani non sanno che godono della libertà che abbiamo loro procurato noi, con tante sofferenze.

D: Maria, tu non hai mai testimoniato?

Non sei mai stata intervistata?

R: No, non vorrei esserlo.

Io volevo dimenticare a tutti i costi questo, non è così, purtroppo, le guerre continuano.

Lei non sa cosa ho sofferto adesso quando c’era questa guerra nel Kosovo perché mi ricordava tutto quello che ho passato io, che poi le guerre non risolvono mai niente.

D: Ma è importante che i giovani conoscano la tua testimonianza.

R: Guardi, io spero che non succedano mai più di queste cose, e non ho mai parlato con i miei figli, però li ho educati al rispetto di tutte le persone, indifferente il colore della pelle e della religione, perché soltanto chi ha provato e visto quello che ho provato io, non potrà mai essere un razzista.

Bisogna viverle certe cose per sapere cosa sono in realtà.

Casanova Virginio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Casanova Virginio, nato a Santo Stefano di Cadore il 3 aprile 1924.

D: Lei, Signor Casanova, è stato arrestato quando?

R: A Campolongo di Cadore, alla mattina presto, dalla SS.

D: Che giorno era?

R: Giorno 12 di ottobre 1944.

D: Per quale motivo?

R: Un rastrellamento.

D: Cioè, ce lo può spiegare, se si ricorda?

R: Un rastrellamento, ho pensato come partigiano; io collaboravo con i partigiani ma il partigiano non l’ho mai fatto. Mi hanno preso nel letto la mattina alle 5,30, un ufficiale della SS e due militari, mi hanno preso in camera; hanno trovato la divisa di alpino che avevo nell’armadio e mi hanno chiesto: “Perché lei è scappato a casa?”, come sono scappati tutti. Andavano in cerca sotto il letto, sotto il materasso per vedere se avevo qualcosa, poi ha detto: “Venga con me”. Mi hanno fatto venir giù, abitavo al piano sopra, ho visto mia nonna che piangeva a vedermi fra due tedeschi con il fucile spianato e mi hanno portato davanti alla chiesa, davanti a sette, otto amici.

Continuava ad arrivare gente, ci hanno portati alle scuole, al piano superiore, sempre a Campolongo.

D: Questa gente che continuava ad arrivare chi era?

R: Tutti rastrellati, miei paesani.

Ad un certo punto hanno fatto venire altri militari, ci hanno messo in fila e ci hanno portato a Santo Stefano di Cadore. Lì siamo stati nella sala del cinema un giorno.

So che siamo stati interrogati, perché avevano preso due partigiani dal Friuli e ci hanno chiesto se li conoscevamo. Non li conoscevamo.

Ogni tanto si sentivano delle botte date a questi due ragazzi.

Siamo stati lì fino a domenica, mi ricordo sempre, hanno fatto arrivare due macchine militari e ci hanno tirato fuori tutti.

Anzi, quando ci hanno interrogato in piazza, hanno chiesto se lavoravamo da qualche parte. Io sono scappato dalla Lancia, perché lavorato in Lancia dal ’44, febbraio. Sono stato quattro o cinque mesi poi sono scappato.

D: Alla Lancia di dove?

R: Qui a Bolzano.

D: Chi vi ha interrogato in piazza?

R: No, nella sala del cinema, gli ufficiali tedeschi.

D: Parlavano in tedesco?

R: No, c’era anche l’interprete. Poi hanno portato via tutti, due camion ed abbiamo fatto il passo di Monte Croce.

Si aspettava sempre che arrivasse qualche partigiano a fermare questi camion, perché si passava proprio in mezzo al bosco, ma non ho visto nessuno.

Ci hanno portati a San Candido, alla Caserma del Sesto Alpini, all’ultimo piano, abbiamo riposato un po’ e dopopranzo siamo partiti dalla caserma e siamo andati al treno.

Ci hanno caricato su un vagone normale, c’erano circa una cinquantina di persone e siamo partiti da lì e siamo arrivati qui a Bolzano, sono venuti a prenderci al treno altri due camion.

Ci hanno portato al Corpo d’Armata; lì hanno chiesto un po’ di informazioni e di domande di questo e quell’altro, poi ci hanno caricati sulle macchine e ci hanno portato nel campo di concentramento. Tutto di notte, dopo la mezzanotte.

D: Eravate solo uomini o c’erano anche donne?

R: No, solo uomini.

D: Eravate tutti più o meno della stessa età?

R: Differenza di sei, sette anni.

D: Il motivo per cui vi avevano arrestati era per tutti uguale o c’erano differenze?

R: Tutti uguale, era un rastrellamento, hanno portato via tutti dal paese, tutti di Campolongo. Poi sono arrivati quelli dei paesi vicini, anche.

D: Questo nel cinema?

R: No, nel cinema siamo stati solo noi dei paesi del Comune. Poi siamo andati nel campo di concentramento. Sento l’odore di calcina, meno male che andiamo a lavorare! Ci hanno portato lì, le celle non erano ancora finite, ci hanno messo in due sale, in due stanze, c’erano già dentro prigionieri, abbiamo chiesto informazioni, dove li avevano presi ecc..

Abbiamo fatto la notte; la mattina sveglia presto e siamo andati al campo e ci hanno portato le … due volte mi hanno tagliato i capelli.

Poi ci hanno dato un numero, triangolo rosso ed il numero di matricola.

Io sono andato nel blocco H, con anche altri due o tre miei paesani e gli altri al gruppo G, che era sotto, c’era uno scalone di legno che andava su, come una mansarda.

D: Questa era il blocco?

R: Blocco H, quello dov’ero io.

D: Si ricorda il suo numero di matricola?

R: 5.112. Mi ricordo 5.112 avevo e triangolo rosso, perseguitato politico. I primi giorni sono andato a lavorare per terminare le celle, sono andato ad aiutarli, c’era più manovalanza dalle mie parti. Abbiamo fatto il primo giorno lì, poi alla sera ci hanno lasciato mezzora per andare ai gabinetti, c’erano i gabinetti aperti, immaginate, donne e uomini, tutti insieme.

D: C’erano anche donne nel campo di Bolzano?

R: Tante donne. Lì ne abbiamo trovate tante. Poi hanno cominciato a dividere, a fare squadre, noi ci hanno portato alla galleria che stavano facendo, vicino al comando tedesco.

D: Si ricorda dove?

R: In Via Fago c’era l’ospedale, l’avevano spostato dal centro e l’avevano portato all’Hotel Margherita. Lì ho lavorato per un mese, un mese e mezzo. Poi ci hanno cambiato.

D: Quando andavate alla galleria che lavoro facevate?

R: In galleria a spostare materiale, liberare la galleria, buttar fuori materiale. Per fortuna c’era una ditta, la Faifer, a mezzogiorno ci davano da mangiare e si mangiava da cristiani allora, perché si mangiava quello che mangiavano gli operai.

D: C’era anche il personale della ditta con voi? La ditta Faifer lavorava con voi o no?

R: Sì, si lavorava. Poi quando si è finito in galleria, io ho lavorato al frantoio e ho parlato con uno che era di Merano, era diplomato, ma non ricordo. Lì ho lavorato un mese, un mese e mezzo.

Poi ci hanno portato alla Galleria del Virgolo. Lì facevo lavori di manovalanza sempre, si faceva la pavimentazione della galleria, dove c’era la fabbrica. Lì c’erano le donne, c’erano parecchie donne lì.

Lì ho lavorato fino al 23 marzo.

Poi siamo stati richiesti dalla ditta Forst e ci hanno tirati via, una ventina e più e ci hanno portato alla caserma Mignone.

Nel frattempo, prima di essere libero, alla caserma Mignone abbiamo dormito per un po’, uomini e donne divisi, all’ultimo piano della caserma.

D: Quanti potevate essere più o meno? Decine o centinaia?

R: Un centinaio, perché so che quando si partiva dal campo di concentramento in principio c’erano due camion che portavano via gli operai, donne e uomini, e poi hanno tolto i camion e ci hanno fatto andare a piedi: si passava per la campagna, si passava dal ponte e si entrava in galleria a lavorare.

D: Questo quando eravate alla Galleria del Virgolo.

R: Galleria del Virgolo.

D: Invece quando andavate alla galleria di Via Fago andavate a piedi o…

R: A piedi si faceva tutto l’attraversamento, allora c’erano tutte le casette, quelle piccole ed in mezzo alle casette si passava….

D: Le Semirurali?

R: Si attraversavano le Semirurali, poi si andava verso Gries, poi si passava alla sera, ritornando, dal magazzino dei frutti, preparavano un sacchetto di mele da portar dentro agli amici che erano nel campo di concentramento.

D: Eravate sempre la vostra squadra di cinquanta o c’erano anche altri non bellunesi in questi lavori?

R: No, c’erano altri.

D: Quanti potevate essere nella galleria di Via Fago?

R: Non posso dire quanti… so che eravamo in tanti, perché c’era una fila, quando si passava a piedi era una fila lunga.

D: Com’eravate vestiti?

R: La tuta, con un paio di mutande lunghe.

D: La gente vi vedeva passare?

R: Sì, in Piazza Don Bosco quando si passava di lì c’era la gente che veniva a buttare del pane sulle macchine; avevamo paura per i tedeschi, avevi la scorta, avevi tre o quattro tedeschi.

Poi anche qui … avevo trovato una signora, la moglie di un tenente dell’esercito che abitava in Via Claudia Augusta e ci portava dei dadi per salare quella cosa che si mangiava.

So che questa donna aveva una bambina e veniva lì nei dintorni e cercava di gettare questi dadi.

D: Quando eravate alle caserme Mignone come si strutturava la giornata? Facevate l’appello, era come nel campo, o era diverso?

R: Lì era diverso, perché c’erano due stanzoni, uno a destra ed uno a sinistra, uno era degli uomini e l’altro delle donne. Ci portavano via tutti, ci volevano pochi passi per andare alla Galleria.

D: Eravate tutti triangoli rossi?

R: Tutti triangoli rossi.

D: Non facevano mai l’appello alla Caserma Mignone?

R: Non mi ricordo se facevano l’appello, perché lì sono stato poco. Però ci controllavano, perché la sera c’era la chiamata, poi facevano l’appello fuori dalla Galleria prima di…

D: Si ricorda che turni facevate?

R: Solo di giorno, di notte non c’era nessuno che lavorava.

D: Quante ore lavoravate?

R: So che si andava lì alle 7 e si veniva a casa verso le 7 di sera, perché era ancora chiaro.

D: Si ricorda se c’erano dei comandanti con voi alla Caserma Mignone o eravate solo voi prigionieri.

R: Non mi ricordo di questo, se ci fosse qualche stratega fra loro.

D: Quindi potevate anche parlare tra di voi?

R: Sì, questo sì. Si parlava.

D: Che tipo di lavoro facevate nella Galleria?

R: Io con tre o quattro miei amici ci avevano messi insieme dei polacchi, quelli addetti al controllo, erano operai anche quelli, avevano il fucile, ma erano operai e lì si lavorava per fare la pavimentazione. Donne e uomini erano sulle macchine della IMI e lavoravano.

D: Ma c’era un’unica galleria o ce n’erano due al Virgolo?

R: Una sopra, dove c’era un uomo grande, sempre con la sciarpa rossa, un pezzo di omone e so che faceva il minatore quello.

So che c’erano due o tre che lavoravano nella Galleria e noi tutti sotto, nella galleria bassa, dove c’è la strada adesso.

D: Allora ce n’era un’altra sopra?

R: Sopra c’era una galleria non so di che cosa, ma roba piccola. So che lavorava quest’uomo, lo si vedeva passare, era sempre con la sua bottiglia di vino.

D: I macchinari erano sotto?

R: Sempre nella galleria. So che poi lì è venuto un bombardamento, noi si facevano le vasche fuori davanti alla galleria, delle vasche di rifiuti di cose, è suonato l’allarme e c’era un certo Max che era cattivello, però qualche volta buono, e ci ha mandati tutti in galleria.

Come siamo andati in galleria è venuta giù una bomba davanti alla galleria e a Max è saltata una mano, allora portalo ai ripari! Il pompiere mi aveva insegnato di stare attento ai bombardamenti; mi sono buttato in terra e mi sono trovato una trave sopra la vita, c’era un altro che si lamentava, un mio paesano, ma io stavo bene, era tutto buio ed abbiamo pensato di essere rimasti chiusi dentro, hanno bloccato e chissà chi viene a liberarci, a tirarci fuori.

D: Questo Max dormiva con voi alla Caserma Mignone?

R: Era al concentramento. Questo Max l’ho trovato dopo la guerra, l’ho trovato in Aldo Adige; stava lì da solo e mi sono fatto riconoscere, lui cercava di non conoscermi. Però dico la verità, non era cattivo, era severo, perché aveva sempre il frustino in mano e girava con quello. Poi l’ho trovato, in un bar.

D: Si ricorda qualche altro nome o figura di guardiano o di guardiana?

R: Cologna, lo chiamavo Cologna, era un bell’uomo, grosso, diceva che era dalle parti di Verona. Quello faceva la sveglia la mattina presto. So che le donne quando camminava dicevano sempre: “Che belle scarpe hai”, lo prendevano in giro, scherzavano.

Ma non so dov’è, se è morto, l’ho visto ancora per Bolzano. Quel Cologna era il padrone, aveva un comando, ma le donne dicevano “Stai attento”, era sempre vestito bene. Si vede che poteva lui.

D: Il nome della Forst di cui parlava se lo ricorda per quale motivo?

R: Ci hanno portati a lavorare lungo la ferrovia, a riparare la ferrovia.

D: Quando?

R: Dopo il 23, ho cominciato a lavorare e si andava ad aggiustare la ferrovia, lungo i binari per riparare la ferrovia.

Poi ci hanno messo di fronte alla Caserma Mignone, a quella casermetta rossa che era di fronte alla caserma, so che era una distilleria. Lì si mangiava assieme a quei tedeschi che erano nel concentramento con me e lì ho fatto amicizia con un polacco; lì si mangiava sempre insieme sul tavolo e si mangiava abbastanza bene, davano la margarina, a quelli che lavoravano.

D: Lavoravano al Virgolo?

R: No, per la ferrovia, quand’ero fuori dal campo di concentramento.

Abbiamo detto a questi polacchi: “Buttate via il fucile, andiamo senza fucile a lavorare”; si rideva sempre, anche loro erano sottomessi ai tedeschi.

D: Ma quando andava a lavorare lungo la ferrovia non tornava la sera nel campo?

R: No, di fronte alla Caserma Mignone; si era liberi noi, ci avevano levato il numero e tutto.

D: E questo a partire da quando?

R: Dal 20 o 23, prima della Liberazione.

D: Marzo o aprile?

R: Fine aprile, perché ero lì.

D: Cos’è successo, un giorno sono arrivati e vi hanno detto siete liberi? Com’è successa questa cosa?

R: Sono venuti, hanno scelto quasi tutti dei paesi vicini del Cadore e ci hanno portato all’Ospedale Militare. Ci hanno fatto pulizia, una specie di quarantena e poi siamo andati ad Oltrisarco, in questa casetta.

D: Avete dovuto firmare qualcosa? Avete ricevuto un modulo?

R: Noi no; quelli che erano nel concentramento che sono stati lasciati liberi hanno ricevuto delle carte, invece noi ci hanno liberato e basta.

D: Vi hanno detto “Siete liberi”?

R: Quando ci siamo visti liberi, senza la divisa.

D: L’avete restituita la divisa?

R: Lasciata lì e ritirato le nostre cose che si avevano; avevamo messo in deposito tutto quando eravamo entrati nel concentramento, ci hanno portato via tutto.

D: Ve li hanno portati lì i vostri vestiti o siete tornati voi nel campo a prenderveli?

R: Ci hanno portato in campo, c’erano i vestiti e ci hanno mandato alla Caserma, all’Ospedale Militare per fare la pulizia di tutto quello che si aveva attorno.

D: Cosa avevate attorno?

R: Pidocchi…

D: Lei si ricorda di aver visto o lavorato lì nel campo al Virgolo con dei sacerdoti?

R: Al campo c’era uno che ha detto la messa il giorno di Natale e di Pasqua, ma non mi ricordo più che prete era.

D: Un prete deportato come voi?

R: Sì. Dico la verità, sono sempre andato da una parte o dall’altra a lavorare. Stavo poco nel concentramento, solo la notte, perché ho fatto tanti lavori. Ci avevano portato anche a Castel Firmiano, c’erano due o tre baracche e dentro c’erano tutti i macchinari di meccanica e si andava lì a pulire. So che sono andato un giorno o due lì.

D: A Castel Firmiano dov’erano queste baracche?

R: Dopo il castello c’era un piano, so che c’era un contadino lì, che ho conosciuto dopo, con la famiglia; lavoravano la campagna e so che poi sono entrato in confidenza con i figli. La posizione non ce l’ho più presente, so che era un piano quasi in cima al colle dove erano queste due o tre baracche.

D: Non è più tornato a vedere?

R: No, neanche il concentramento sono andato mai a vedere.

D: Ma Lei era qui a Bolzano o è tornato in provincia di Belluno?

E’ rimasto qui a Bolzano dopo la guerra?

R: Sono andato al paese perché non vedevo l’ora di vedere mia nonna: da quando mi avevano portato via, cinque o sei mesi che sono stato via, non vedevo l’ora di tornare a casa a trovare mia nonna e sono andato giù al paese, sono stato giù neanche un mese. Mio zio mi ha scritto: “Vieni alla Lancia di nuovo”. Sono andato alla Lancia e mi hanno assunto ancora. C’era il Comitato di Liberazione, c’erano già dei miei amici che sapevano che mi avevano portato in concentramento e poi sono stato alla Lancia. Non sono più scappato.

D: Ma la sua famiglia sapeva quando Lei è stato portato via dove era stato portato, sapevano qualcosa di Lei o no?

R: Io avevo uno zio a Bolzano che lavorava alla Lancia e qualche volta di sfuggita si vedeva.

D: Come si vedeva?

R: Si vedeva quando si passava per andare alla Galleria del Virgolo.

D: Lei vedeva suo zio?

R: Vedevo mio zio, ma si aveva tanta paura, perché se succedeva qualcosa portavano via anche mio zio.

D: Ma suo zio le dava qualcosa, del cibo, o la vedeva da lontano?

R: Lo vedevo da lontano. C’era una signora di Santo Stefano che portava il pacco nel campo di concentramento, so che c’era questa donna.

D: Una deportata?

R: No, una… abitava alla banca di Via Orazio a Bolzano. So che questa portava… ma io, le dico la verità, noi si andava fuori e qualche cosa si riusciva a prendere dalla gente.

D: La gente aiutava?

R: Sì, aiutava. Per esempio la signora che adesso è morta, che portava i dadi per salare la minestra, anche con pericolo: si avvicinava quasi a noi, dove si lavorava, e ci buttava i dadi.

D: Lei ha mai potuto scrivere a casa sua?

R: No, mai scritto. Una volta uno ha scritto una lettera e me l’ha data da spedire, siccome andavo fuori a lavorare. Io avevo un cappello da carabiniere, lo avevo tagliato tutto attorno, dentro c’era la fodera ed infilavo sempre qualche lettera di qualcuno che mi davano. L’ho lasciata nel taschino della tuta e mi fa: “Che cosa hai lì?” Sono rimasto perché poi… Ho fatto due o tre ore con quel freddo che c’era vicino al portone sull’attenti. Poi mi ha chiamato e me ne ha detto di tutti i colori: “Ignorante, perché ti sei fatto prendere?” Tante parole e finalmente poi mi ha lasciato libero, fortuna che quello non aveva scritto le cose, aveva scritto a sua mamma, ma cose da poter leggere.

D: Come faceva Lei a spedire? Aveva i francobolli?

R: No, si davano a qualche persona, che veniva vicino alla galleria. Si buttavano, poi le raccoglievano e mettevano il bollo loro, noi no.

D: Chi era la iena?

R: Era il più cattivo degli uomini, la iena: quando lo si sentiva parlare si aveva paura.

D: Era una SS?

R: Sì, una di quelle giuste anche. Era lui che comandava quasi più dell’ufficiale.

D: Lei era qui a Bolzano quando hanno abbattuto le baracche negli anni ’60? Non è andato a vedere che cosa stavano facendo?

R: Sì, sono andato a vedere.

D: Ha fatto delle fotografie?

R: Sì, io ho la fotografia io, i miei cognati ed altri due amici, abbiamo fatto la piramide.

D: Delle fotografie delle baracche ne ha fatta qualcuna?

R: Sì, sugli avanzi della baracca la piramide nostra che…

D: Ce l’ha qui?

R: No, è la moglie che mette via tutto. Abbiamo un libro con fotografie in grande della gente che era lì alla baracca.

D: Lei ha mai assistito in questi mesi nel campo di Bolzano a degli atti di violenza?

R: Noi no, che ricordo no, però si diceva fra di noi che c’erano quelli votati alla morte, avevano il disco bianco ed il centro rosso: quelli li portavano a morire da qualche parte ed ogni tanto di notte qualcuno partiva. Li portavano dietro la caserma, li uccidevano lì o… ma si parlava fra di noi. Però hanno sempre fatto delle pagliacciate, c’era una squadra di Verona che era gente… si faceva i gavettini, si bruciava il coso fra le dita, si facevano i processi ad uno che faceva qualcosa. Veniva condannato se aveva portato via qualcosa al suo amico, la coperta, allora botte.

D: Tra di voi?

R: Tra di noi.

D: Volevo chiederle ancora una cosa. Prima parlava della Forst.

R: Forst, ingegner Forst. So che ho due marchette ed ho su ingegner Forst, ma il nome non lo so. C’era un ufficio di fianco alle Caserme Mignone.

D: Invece quella ditta che era in Via Fago?

R: La Faifer, la ditta Faifer: quella ci dava da mangiare, anche bene.

D: Si ricorda questo nome per quale motivo? C’erano delle scritte?

R: Si parlava anche con gli operai, qualche parola si faceva. Ditta Faifer.

D: Di Bolzano?

R: Non so se era di Bolzano, dal cognome è più o meno vicino.

D: Sono tornati tutti a casa quei cinquanta più o meno che erano stati rastrellati con Lei? Vi siete più rivisti?

R: Ne è morto uno, perché in Germania sono andati due fratelli, quelli sono tornati, in un altro paese quello è morto dentro i forni. Poi ho trovato ancora degli amici, adesso siamo dimezzati, non so neanche chi è vivo ancora di quelli che c’erano.

Riello Elio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Sono Elio Riello, nato a Ventimiglia il 10 luglio ’22 e sono stato arrestato a Ventimiglia il 21 maggio del 1944.

Ero il segretario del costituendo Comitato di Liberazione, perché qui eravamo proprio in fase iniziale allora, si parlava poco dei partigiani e di altre cose.

Sono stato arrestato dalla Guardia Repubblichina. Sono stato portato ad Imperia dopo un interrogatorio a Ventimiglia.

Ad Imperia siamo stati alcuni giorni e poi siamo stati portati nel carcere di Marassi a Genova. Da Marassi dopo un po’ siamo stati trasferiti a Fossoli.

D: Durante il periodo di carcerazione, Elio, sei mai stato interrogato?

R: A Ventimiglia e ad Imperia. Sono stato interrogato a Ventimiglia e ad Imperia. A Ventimiglia quando hanno fatto la retata e poi ad Imperia quando hanno proseguito nei particolari.

D: Da chi?

R: Diciamo dalla polizia di allora.

D: Italiani erano?

R: Sì, sì, tutti italiani. I tedeschi sono entrati in funzione solo dopo Mauthausen praticamente.

D: Quindi dal carcere di Marassi siete stati poi trasferiti…

R: Tutti a Fossoli.

D: Più o meno quando?

R: A Fossoli saremo stati… Non mi ricordo più… So che siamo partiti da Fossoli mi pare l’8 giugno, ho tutto scritto là, però non ricordo esattamente.

D: Con cosa siete stati portati a Fossoli?

R: Siamo stati portati sempre a Genova in pullman e a Fossoli su un camion. Da Fossoli invece a Mauthausen …

D: Nel campo di Fossoli è stato immatricolato?

R: Non mi ricordo.

D: E neanche il blocco, la baracca?

R: No, assolutamente.

D: E’ stato molto tempo a Fossoli?

R: Non molto.

D: Lavoravate?

R: No, assolutamente. A Fossoli non facevamo niente. A Fossoli praticamente, aspetti un momento, mi pare che l’8 giugno se non sbaglio siamo stati portati a Mauthausen, mi pare, ma non sono sicuro, non mi ricordo più…

D: Si ricorda se a Fossoli ha visto anche dei religiosi tra i deportati?

R: No, non ricordo.

D: Poi quindi all’8 giugno…

R: Mi pare che sia l’8 giugno, trenta.

D: Il 21 giugno circa.

R: Ecco.

D: Dovrebbe essere.

R: Trasferito da Genova a Fossoli.

D: No, da Fossoli partiti per il Lager d’oltralpe.

R: Allora l’8 giugno probabilmente siamo stati trasferiti a Fossoli. C’era un 8 giugno.

D: Durante il trasporto da Fossoli a Mauthausen com’è…?

R: E’ stato un po’ movimentato perché avevamo con noi un prigioniero della guerra del 1915/1918, il quale ci ha presentato Mauthausen come la fine del mondo, poi in realtà rispetto a quello che abbiamo vissuto noi erano rose e fiori quello che diceva lui. Quello del 1915/1918 in fondo era un campo militare, il nostro era un campo di sterminio.

Qualcuno ha tentato la fuga. Di questi tutti meno uno sono stati poi presi e portati a Mauthausen senza alcuna pena particolare. Li hanno riportati nel campo. Uno invece, un certo Airaldi di Ventimiglia è riuscito a scappare e non l’hanno più preso insomma.

D: Elio, come ti ricordi l’arrivo a Mauthausen?

R: L’arrivo a Mauthausen è stata una cosa deprimente diciamo perché è stato togliere tutta la personalità dell’individuo in definitiva, questo è il discorso. Ti hanno spogliato completamente, ti hanno dato degli altri vestiti, ti hanno rasato e tutto il resto. Da quel momento praticamente siamo diventati dei numeri.

D: Il tuo numero di Mauthausen?

R: E’ facile ricordarsi: 76543, 76.543.

D: E dopo vi hanno messo nel blocco di quarantena?

R: Il blocco di quarantena.

D: Che era il numero? Te lo ricordi?

R: Era uno dei più famigerati, non mi ricordo se era il 15, credo che fosse il 15, era il più famigerato. So che quando siamo andati a Mauthausen l’ultima volta ho detto un numero, ma mi hanno detto guarda che non ti ricordi è l’altro. C’era un Kapò terribile.

Diciamo che contrariamente a quanto si diceva sono state ancora rose e fiori rispetto a quello che è venuto fuori dopo.

D: Lì nel blocco di quarantena quanto tempo sei rimasto?

R: Siamo rimasti… Io sono rimasto… Credo verso la fine di luglio perché l’attentato a Hitler l’ho sentito ancora a Mauthausen, quindi mi pare che fosse il 20 luglio l’attentato a Hitler, no? Quindi qualche giorno dopo sono stato trasferito a Peggau.

Il periodo di quarantena, a parte che si dormiva come le bestie perché eravamo messi uno contro l’altro in fila indiana, incrociavamo, ci mettevamo a terra con i piedi davanti e dietro la testa. Ognuno s’arrangiava come poteva. Io sono riuscito anche a dormire perché c’era una stufa che serviva per l’inverno naturalmente, ma eravamo d’estate, dormivo tutto attorno alla stufa, curvo, di modo che riuscivo a dormire rispetto agli altri che avevano i piedi davanti e i piedi dietro. Qualche volta ho dormito anch’io con i piedi davanti.

E’ stato poi il momento decisivo dopo, direi che c’è stata anche un po’ di fortuna. In questo senso, che una sera eravamo destinati ad andare credo a Gusen, Gusen era l’infermo. Perché il problema qual era? Evitare Gusen, i campi più grossi, Mauthausen perché c’era la cava e tutto il resto e aver la fortuna di andare in un campo piccolo.

Quella sera che dovevamo essere trasferiti a Gusen non mi sono sentito bene. Qui ho rischiato grosso, perché se andavo a finire all’ospedale ero cotto, non uscivo più. Invece mi hanno tenuto lì, mi sono ripreso.

Dopo due giorni stavo abbastanza bene e invece di andare a finire a Gusen ho avuto la fortuna di andare a finire a Peggau. Fortuna che non mi hanno mandato in infermeria e fortuna che sono andato a finire a Peggau.

A Peggau si lavorava in galleria. Facevamo gallerie, costruivamo fabbriche, dei tunnel che servivano a fabbriche contro i bombardamenti aerei.

Lì ho preso una volta anche una serie di frustate di quelle come si devono perché io mi sono qualificato come studente d’ingegneria, poi mi hanno detto se sapevo fare il muratore, ho avuto la faccia tosta di dire di sì.

Ho provato a fare il muratore. Se ne sono accorti. Per fortuna che il capo che era un civile tedesco me l’ha mezza ancora aggiustata, ma qualche frustata me l’hanno data.

D: Com’era il campo di Peggau?

R: Il campo di Peggau in se stesso era abbastanza piccolino, insomma, tenuto conto della situazione degli altri campi si stava diciamo… Non che si stesse bene, ma era indubbiamente forse migliore degli altri.

Naturalmente lì si andava ad esaurimento, cioè quando uno non ce la faceva più… Lì per fortuna c’era un’infermeria, finché potevano ti facevano riuscire. Questo è stato…

D: Il campo era grande, c’erano molte baracche?

R: Eravamo due gruppi per esempio, eravamo mi pare quattro baracche più i servizi naturalmente.

D: C’erano molti italiani?

R: Eravamo mi pare circa otto/dieci non di più. Poi c’era qualche francese e poi russi “a gogò”.

D: E il campo era molto distante dal luogo?

R: Il campo… Eravamo a circa due chilometri e mezzo a piedi tutti i giorni. Il che era sotto un certo punto di vista una camminata, ma d’inverno era un affare serio perché mentre di giorno ti lasciavano anche dei vestiti di civili, basta con la targa dietro, la famosa striscia dietro, di notte dovevi andare con quei vestiti fatti da loro, erano vestiti praticamente di carta.

Siamo arrivati nell’inverno a circa 30/35 gradi sotto zero. Quando si faceva il turno di notte uscendo la sera verso mi pare le 18.00 o le 20.00 e al mattino rientrando dopo dodici ore, erano turni di dodoci ore, si aveva un freddo da matti, tenuto conto che le calorie che assorbivamo non erano molte.

D: Le gallerie che scavavate erano molte?

R: Perlomeno mi pare tre che però non sono servite a niente perché poi quando siamo andati via non erano ancora finite praticamente.

D: Elio, come avveniva lo scavo della galleria?

R: Con criteri, col martello pneumatico, sistemi moderni per allora. Io che sono abbastanza pratico, avevano le pale meccaniche. I criteri erano abbastanza moderni insomma. I martelli pneumatici e pale meccaniche … dietro. Non c’era niente di particolare. Noi facevamo tutto il lavoro manuale di caricare i carrelli, completare, spingere i carrelli, quell’affare lì ed era faticoso.

Qui ho avuto un altro colpo di fortuna perché… Il colpo di fortuna è stato questo. Una sera avevano rubato qualcosa nel campo e ci hanno messo tutti di fuori, ci hanno fatto spogliare praticamente.

Io avevo avuto da militari italiani che lavoravano lì delle coperte che mi facevano da pezze da piedi come si dice. M’è andata bene perché ho detto qui sono suonato, mi vedono con queste, mi dicono dove le ho rubate.

Invece per fortuna non mi hanno detto niente. Lì è stato un altro di quei colpi perché oltretutto con quelle specie di pezze da piedi andavamo, mi scaldavo i piedi che era una cosa importantissima.

Poi il problema di vivere e di sopravvivere era una questione anche di volontà per conto mio. Io per esempio ero riuscito a farmi un coltellino con della latta. Mi davano del pane alla sera, non lo mangiavo, lo tenevo tutta la notte, poi al mattino lo tagliavo in file sottili che neanche il coltello più affilato attualmente riuscirebbe a tagliare.

Era la questione di dire, beh, ho ancora qualcosa da mangiare. Era una cosa importantissima. Per conto mio, a parte che contava la salute che uno aveva, ma per resistere bisognava anche combattere moralmente.

D: Ti ricordi qualche nome degli altri italiani che c’erano con te a Peggau?

R: Non mi ricordo. Quello di Genova, come si chiama? Mi sfugge il nome. Ce ne sono diversi, li ho tutti presenti davanti ma ormai la memoria mi ha mollato, non solo per quello, per altre cose anche.

D: Lì a Peggau dopo il lavoro facevate sempre l’appello?

R: Sì, sempre l’appello. Al rientro in campo, al mattino e alla sera. Gli appelli erano due, prima di partire e quando si arrivava.

D: Nelle gallerie avevate contatto con i civili dicevi?

R: Sì, avevamo contatto con alcuni civili, ma militari. I militari italiani che erano stati arrestati come militari. Lavoravano anche loro e noi riuscivamo ad avere quei contatti lì, un po’ di straforo, ma riuscivamo ad averli.

D: E invece altri civili niente?

R: No, altri civili niente. C’era il capo loro, il capo dell’impresa, soprattutto ricordo quello che era il capo, lo ricordo molto bene.

D: Sai per che ditta lavoravate voi?

R: No, questo proprio no. Questo assolutamente.

D: Non c’era nessun segnale, nessuna indicazione?

R: No. Anzi due anni fa un tedesco che si è occupato di quel campo lì, un austriaco è venuto qua e abbiamo avuto una certa corrispondenza, poi ci siamo persi. Lui aveva avuto notizie molto precise su Peggau, aveva fatto un’indagine. A Peggau non c’è più niente, hanno fatto sparire tutto, come del resto hanno fatto sparire a Gusen. A Gusen non c’è più niente. L’unico che si salva è Mauthausen ridotto alla parte centrale e l’altro vicino a Monaco, Dachau anche, ma a Gusen hanno fatto sparire completamente tutto. Poi mi pare che siamo stati a Ebensee. A Ebensee facevano le gallerie tipo noi, uguali, erano le stesse gallerie.

D: Che dovevano servire queste gallerie per delle fabbriche?

R: Per fabbricati, erano come capannoni praticamente, erano destinati a quello. Andavamo ad esaurimento. Man mano che eravamo giù si passava dall’altra parte della barricata. Era tutto lì il discorso.

D: Il campo era vicino, nei pressi del centro abitato oppure no?

R: No. Nel campo io non ricordo praticamente di aver visto, né nel posto delle gallerie. La mia impressione, quella che mi è rimasta è che fosse un paesino allora assai piccolino. Può darsi che poi mi sia sbagliato completamente.

D: Lì nel campo tra i deportati c’erano anche dei ragazzini, dei giovanetti?

R: No, giovanetti no. C’erano dei russi giovani, ma non ragazzini, almeno, non mi risulta che ci fossero dei…

D: E lì a Peggau siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti fino mi pare all’1 o al 2 aprile, cioè all’indomani di Pasqua del ’45. Lì è stato di nuovo un altro viaggio avventuroso, perché siamo partiti da Peggau a piedi. Ad un certo momento ci hanno bombardato i russi, ci abbiamo lasciato due dei nostri di tutto il gruppo. Poi ci ha preso un acquazzone infernale, abbiamo continuato ad andare a piedi fino ad una certa stazione, non so quale sia.

Poi ci hanno caricato sul treno, vagoni scoperti, abbiamo attraversato un valico, nevicava. Io so che ad un certo momento ho detto, sono cotto. Mi hanno stretto in due, mi hanno scaldato, mi hanno dato una manciata di ricotta mentre eravamo su lì e mi sono salvato.

Quello che è stato doloroso è che uno dei due che mi ha salvato dopo che siamo arrivati a Mauthausen, a Mauthausen si va a piedi al campo, durante la camminata per andare al campo è caduto lì. Non si poteva far niente perché ti costringevano ad andare via ed è morto. Questa è una cosa che uno ce l’ha qui. Ma d’altra parte…

D: Quanto è durato questo viaggio di ritorno a Mauthausen?

R: Adesso non ricordo più, ma è durato una giornata mi pare. Ripeto, mi ha salvato una manciata di ricotta e gli altri fra i quali questo qui che mi hanno stretto in mezzo. Poi invece quando arrivavamo a Mauthausen, o camminare, o ti facevano fuori subito.

D: Ritornato a Mauthausen cos’è successo?

R: Ritornato a Mauthausen praticamente non abbiamo fatto più niente. Sono successi degli episodi perché ad un certo momento, un altro episodio di quelli che ti rimangono impressi lì. Arriva un gruppo nel quale c’era uno di Genova, essendo liguri ci siamo messi a parlare, finalmente sono arrivato lì, me ne vengo fuori. Quelli sono andati tutti a finire nel crematorio. Si vede che erano destinati. Lì avevano già fatto delle scelte.

Una volta ci hanno fatto una visita, ero indeciso tra quelli che dovevano stare e non dovevano stare. Fame, si mangiava pochissimo. Se moriva qualcuno ce lo tenevamo lì per pigliare il pane. Finché poi sono arrivati gli americani… No, no, pardon, noi siamo stati liberati il 5 maggio dagli americani di Patton.

Due giorni prima hanno abbandonato il campo, cioè abbiamo preso in mano noi il campo, noi, quelli che erano in grado di farlo. Anche lì tutto il mondo è paese, quelli che stavano a Mauthausen erano in fondo una specie d’imboscati rispetto… Fortunati loro, ma erano riusciti a tenersi in salute come in tutti i casi della vita.

Lì allora abbiamo cominciato… Dopo due giorni sono arrivati gli americani. Io non li ho visti perché con un altro mio collega qui di Ventimiglia stavamo curando due amici di Isolabona, dei quali uno è morto esattamente un anno dopo a Isolabona qui.

Non li ho visti gli americani, abbiamo visto che erano, cioè abbiamo sentito che erano arrivati, ma stavamo curando questo qui che era… Poi niente. Siamo stati lì finché sono arrivati, allora hanno cominciato a darci da mangiare, hanno cominciato a disinfettarci perché eravamo carichi di pidocchi da morire.

Poi lì sono cominciate le dissenterie, la TBC chi l’aveva. Io sono tornato a casa che avevo 39 di febbre. Ho detto questa qui è una bella TBC, invece per fortuna era solo colite. E crescevo di mezzo chilo al giorno a casa. Sono arrivato qua dopo un mese perché da Mauthausen gli americani ci hanno portato sul lago di Costanza. Gli svizzeri non ci hanno fatto passare. Ci hanno rimandato al Brennero.

Poi dal Brennero sono arrivato, ci hanno portato a Milano. No, dal Brennero ci hanno portato direttamente a Milano. E’ arrivata l’Opera Pontificia di Brescia. Poi da Milano sono riuscito ad arrivare a Genova in treno. Quando sono arrivato a Genova ho avuto già notizie dei miei. Ho trovato un amico, mi ha detto: “Stanno tutti bene”.

Poi da Genova a Ventimiglia è stato di nuovo un viaggio mezzo su un camion che si trovava, l’ultimo pezzo un mio vecchio conoscente mi ha portato in bicicletta da San Remo a Bordighera.

La cosa sarà strana, il mio cane se l’è fatta addosso quando sono arrivato.

D: Cioè in totale quanti mesi hai fatto nei Lager?

R: Praticamente io sono stato arrestato a maggio e sono arrivato a casa, beh, facciamo il 5 di maggio, quasi un anno.

D: E con te questo amico che accennavi di Ventimiglia?

R: E’ mancato due anni fa.

D: Ma è stato arrestato anche lui con te?

R: No, era di un altro gruppo. Del mio gruppo eravamo, io ho di là una relazione perché avevo fatto una relazione, eravamo un certo numero, siamo tornati a casa, mi pare, quattro o cinque, adesso di quel gruppo sono rimasto solo io. Invece questo mio amico era di un altro gruppo.

D: Che è sopravvissuto anche lui?

R: Sì, siamo tornati insieme. Lui è stato quello che appena… Siccome lui era a Mauthausen da un po’ prima, era riuscito ad intrufolarsi nelle cucine, faceva il macellaio. Allora mi ha fatto entrare nelle cucine, ecco perché curavamo il nostro amico, perché riuscivamo a prendere patate, qualcosa in cucina per dare a questo.

D: Ecco, di Peggau cosa ti ricordi ancora, di questo sottocampo di Mauthausen?

R: Mi ricordo com’era fatto, diciamo la parte delle gallerie, tutto quell’affare lì. Le linee generali me le ricordo. Poi i dettagli ormai, ripeto, anche per l’età stanno sparendo.

D: Ed eravate solo pochissimi italiani?

R: Eravamo non più di dieci penso.

D: Però oltre a queste baracche che dicevi, le vostre, c’era anche un’infermeria lì a Peggau?

R: Sì, c’era un’infermeria. Era un’infermeria dove però uno entrava, non è che lo facessero fuori, se riusciva a guarire… Meno quando siamo partiti che quelli che erano in infermeria li hanno fatti tutti fuori. Li hanno fucilati tutti.

Corazza Osvaldo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io sono Osvaldo Corazza, sono nato il 9 gennaio 1927 e risiedo a Bologna.

Il mio arresto avverrà ad Anzola dell’Emilia, anzi più precisamente a San Giacomo del Martinone, sempre considerando che noi eravamo usciti, eravamo sfollati da Bologna a San Giacomo del Martinone ed eravamo ospiti di uno zio.

Poi, per effetto dei bombardamenti, le operazioni aeree di Pippo, dato che la casa di mio zio era al lato del ponte Samoggia, allora decidemmo di cambiare il luogo ed andammo in una casa colonica, a casa di un contadino lì vicino, era della famiglia Guermandi e in questa casa, in questo luogo era sinonimo che lì c’era un’operazione resistenziale ed era una base partigiana, era un punto di incontro, di arrivo e di partenza delle varie formazioni che erano in movimento, le staffette che arrivavano portavano comunicazioni, quindi era un’operosità di quel genere.

Noi vivevamo in quella casa e non è che avessimo delle grandi funzioni in quest’operazione resistenziale, però operavamo insieme ai figli del contadino, nel conservare il materiale, armi ed altre cose, che le varie squadre, partigiani di passaggio, dopo le operazioni che svolgevano, quello che recuperavano lo portavano lì.

Noi raccoglievamo le armi, le tenevamo pulite, ed era un modo per dare continuità a questo movimento.

Diciamo così che noi ormai lo ritenevamo una cosa abbastanza normale perché spiritualmente, idealmente, la mia famiglia è sempre stata antifascista.

Mio padre era stato nel 1916 – 1918 consigliere comunale socialista di Anzola dell’Emilia, era stato anche bastonato ecc.

Quando, a Bologna avvenivano delle manifestazioni fasciste, lui veniva preso e poi portato dentro al gruppo rionale di Santa Viola, per esempio quando passava Mussolini in treno che da Roma andava a Milano, veniva preso e lo tenevano là, un giorno, una notte, due, a secondo.

Quindi, c’era da parte nostra già una predisposizione a questo movimento, quindi vivevamo nella paura, tenevamo sempre conto di questo perché chi ha vissuto quei momenti si rende conto di quale era la malvagità delle forze di occupazione, le SS, i luoghi fascisti e quindi si consideravano queste cose, però le operazioni venivano svolte.

Lì, come dicevo, la nostra collaborazione consisteva in questo: noi avevamo rapporti anche con altri contadini, altre basi, e noi dicevamo ai contadini che avevamo intorno, considerando che allora era tutto razionato: carne, fagioli, patate, latte, i contadini quando nascevano un vitello, due vitelli, tre vitelli, li dovevano denunciare al Comune.

Allora noi dicevamo: “Non denunciateli tutti quando arrivano due vitelli”. Così noi, dopo un certo periodo, andavamo a prendere questi animali, facevamo la macellazione, suddividevamo i pezzi, li mettevamo dentro dei sacchi di tela juta perché fosse una cosa grezza e quelli poi li portavamo alle altre basi che svolgevano questo tipo di operazioni, perché in questi luoghi non è che c’era una casa abbandonata. Voi pensate che c’era mezzo paese in quella casa, e anzi dirò che siamo stati fino a quarantatré residenti in quella casa e quindi c’era un movimento abbastanza aperto.

Quando facevamo queste operazioni di rifornimento alle altre basi, io o altri, andavano dal contadino sopra, nei luoghi in cui bisognava andare, con le armi, lì radunavamo e quando c’era un certo numero di armi, le mettevamo dentro ai carretti in mezzo a fascine ecc. e poi li portavamo in su, due o tre o quattro contadini, poi là abbandonavamo la cosa e lui pensava a fare la stessa cosa per riuscire al rifornimento delle armi alle formazioni partigiane di montagna, che erano tante in montagna, però l’unico difetto era proprio questo: la mancanza delle armi, perché nelle zone intorno, dove noi operavamo, qui operava la sessantatreesima brigata Bolerno, non è che sono avvenuti dei lanci di armi, rifornimento.

Questo è avvenuto, più che altro, nelle cime, ma soprattutto in Romagna. In Romagna sono avvenuti questi lanci, ma qui nell’Appennino nostro poco, nel Modenese, Monte Fiorino ed altro.

Diciamo che era una base che aveva questo carattere: era abbastanza operativa.

Direi anzi che la sera stessa che noi siamo stati arrestati all’interno della stalla, c’era una squadra di otto, dieci, dodici partigiani, non ricordo bene, che al momento in cui siamo stati circondati, loro riuscirono attraverso il portone dietro della stalla, a rifugiarsi dentro a un rifugio che noi avevamo preparato precedentemente in mezzo alle balle di paglia, avevamo lasciato un vuoto che sarà stato tre metri, due metri per due metri e mezzo circa e si tirava fuori una di quelle balle, entravano e poi si ritiravano dentro le balle.

Avevano spazio per respirare, perché filtrava aria.

E si rifugiarono lì perché subito dopo l’operazione di accerchiamento della casa e della stalla non avrebbero più fatto in tempo.

Il nostro arresto avviene a causa di una soffiata, diciamo così, ed è avvenuto un rastrellamento un po’ di giorni prima di questo rastrellamento, a San Giovanni in Persiceto, hanno arrestato moltissime persone, tra i quali c’erano anche alcuni partigiani che vedremo poi che sulla deportazione, noi troveremo i Comuni di San Giovanni in Persiceto e Anzola dell’Emilia, i due Comuni che hanno più deportati per effetto di questi arresti generalizzati e poi selezionati attraverso questi soggetti che erano i delatori.

Infatti ad Anzola dell’Emilia c’era un ex partigiano che era diventato il delatore.

Molti confronti sono stati fatti in carcere con noi e lui diceva: “Questo sì, questo no”, questo vestito con delle maglie, che le formazioni partigiane avevano distribuito e allora dicevano: “Questo è vestito…”, e tutte le volte che tu uscivi da questi confronti erano botte, ti dicevano: “Dove hai preso quella maglia?”

E io che ero un ragazzetto con una fisionomia abbastanza infantile, io dicevo: “Non so, me l’ha dato mia mamma, non so dove l’ha preso” e poi sberle, sganassoni, pugni.

Insomma lo svolgimento era questo.

Per tornare al periodo dell’accerchiamento, questi partigiani verso la mattina romperanno l’accerchiamento.

Premetto che nel mese di ottobre, questo avviene il 2 dicembre del 1944, nel mese di ottobre, per effetto della rottura degli argini del Samoggia, si era prodotto un grande allagamento e anche lì da noi nel cortile c’era così tanto di malta nella campagna, ancora di più.

Loro, alla mattina presto, aprirono il buco, aprirono il varco e fuggirono e riuscirono a fuggire tutti fuori che uno si sentì sparare.

Questo non riuscì a scappare e si andò a rifugiare nell’orto, e lì venne visto, trovato e portato in casa.

In quella mattina, mattina molto presto, venimmo arrestati, gli uomini che erano in quella casa. Il figlio del contadino Gaetano e un altro, un certo Bruno Baiesi che erano anche loro nelle formazioni, erano in casa a dormire e quando hanno sentito tutta questa cosa, sono fuggiti per una porticina e si sono nascosti sotto un sottoscala dove la donna di casa teneva le fascine di biancospino, le fascine adatte per cuocere il pane nel forno. E si andarono a nascondere là.

E sono stati nascosti lì per due giorni.

Infine, in un momento di calma, di tranquillità, che le SS avevano allentato la vigilanza, uscirono dalla porticina dietro e si andarono a rifugiare dentro un altro rifugio che avevamo scavato in un argine del Samoggia, con una botola, che quando era chiusa non si vedeva niente, e stettero là fino a un giorno o due prima che i tedeschi abbandonassero perché dovettero decidere, perché era pericolosissimo perché il portare loro da mangiare… Una notte uscirono dalla botola, entrarono dentro il letto del fiume ed uscirono nel sotto argine, la barlaida, la chiamavano e sono fuggiti verso Anzola e si sono nascosti in altri luoghi fuori dall’accerchiamento.

Questo che avevano trovato l’hanno portato in casa e hanno cominciato a interrogarlo con botte, calci, pugni, faceva sangue dappertutto e volevano sapere chi era il comandante e tutte queste.

Poi infine ci legarono con un cappio da contadino per il collo e in fila ci portarono fuori.

D: Chi è che hanno legato Dado? Te…

R: Tutti. Ci legarono..

D: Anche il tuo babbo?

R: Eravamo in otto, come ho detto, ci legarono con questo canapo e poi in fila ci portarono fuori, ci caricarono su un camion e ci portarono fuori.

Usciti dalla cavedania di questo contadino c’era già la strada della Persicetana, lì a fianco c’è il cimitero. Lì c’erano due o tre camion, siamo arrivati con il nostro camion e cominciarono: alt…, parlavano, discutevano e siamo stati lì un bel po’ e questo ci faceva pensare, c’erano le grandi paure, perché si pensava che poi ti avrebbero fucilato al cimitero.

Dopo un pezzo, invece decidono e ci portano a San Giovanni in Persiceto.

A San Giovanni in Persiceto avemmo prima un interrogatorio, alla casa del fascio, dove c’era….

D: Ma questo sempre le SS.?

R: Lì vorrei precisare che hanno fatto il nostro arresto le SS.

Dietro alla delazione di ogni soldato tedesco che era fuggito dalla formazione militare ed era entro entrato nelle formazioni partigiane.

Ora, tutto fa pensare che fosse stata una mossa politica per fare spionaggio.

Io non lo so, per il tipo, il soggetto che era, un ragazzo abbastanza mite, non credo che fosse stato .., comunque a parte questo…

Fatta questa operazione ci portarono via, arrivammo in San Giovanni in Persiceto e subito ci portarono al Comando dei fascisti, delle brigate nere che fecero un primo sommario, interrogatorio.

Poi ci portarono dentro alla Caserma dei Carabinieri, c’erano delle cellette e lì stettimo due giorni.

C’erano le cassapanche, c’era la paglia, si dormiva lì e ogni tanto dallo spioncino del portone passava un tedesco e diceva: “Domani tutti kaputt”, e questo non è che…

Questo incoraggiava sempre di più il pensiero che saremmo stati fucilati, impiccati perché già sapevamo di questa operazione dei tedeschi, quindi vivevamo in una grande paura. Quando sono arrivati i tedeschi in casa, nell’arresto, io ero timoroso, pauroso, anzi direi che a malapena riuscivo ad allacciarmi le scarpe dalla paura, perché bisogna immaginare l’atteggiamento di queste persone quando arrivavano, con i calci del fucile, ad ogni mossa, e questo soprattutto per dei ginetti come eravamo noi, non incoraggiava un granché.

Di fatto stiamo due giorni a San Giovanni in Persiceto, poi una sera, verso le nove, le dieci ci ricaricano in camion e partiamo.

Quando si arriva a Bologna, noi vedevamo dalle fessure, si fermarono sulla via Emilia davanti all’entrata della via Gucchi che in fondo alla via Gucchi c’era il tira a segno dove normalmente facevano le operazioni di fucilazione, ci sono oltre duecento fucilati nel tiro a segno.

Anche lì ci fermarono, discutevano, parlavano, solo che noi non capivamo niente di tutto questo.

Vivevamo solo nella paura.

Dopo un lungo periodo ripartirono e ci portarono su.

A noi è parso di aver fiancheggiato i portici per andare a San Luca.

Però questo è un po’ incerto.

Solo che a un certo momento, avanti un pezzo su per la collina ci fermano davanti a una grande villa, con dei cancelli grandissimi, che in fondo a questa villa c’erano delle piante rampicanti, lo ricordo bene perché c’era Carlo Nepoti che poi morirà a Mauthausen e diceva: “Qui ci fermano, qui c’impiccano, andiamo sulle corde”.

Erano piante rampicanti che io vedrò poi, dopo la guerra, andando a percorrere per vedere quei luoghi e ci portarono infine su nella casa di Sabbiuno.

Lì c’era una camera, una grande pagliata, e ci chiusero dentro.

Alla notte ci diedero anche da mangiare, una brocca, di quelle alte, piena di brodaglia, pezzi di carne e dovevamo mangiare con un cucchiaio solo e facevamo un po’ per uno a mangiare.

Ricordo che l’unico indizio che mi fa pensare, e non lo dico con l’assoluto però, perché di notte mi venne il bisogno di andare al gabinetto, e allora a forza di insistere, viene uno con me, un militare, e mi porta là dietro in un posto vicino alla siepe, intanto mi curava, io facevo le mie cose, infine ritorno dentro…

Quindi noi eravamo lì in attesa, senza sapere qual era la destinazione.

D: Scusa, Dado, invece di portarvi a Bologna vi hanno portato a Sabbiuno.

Sabbiuno è una località in un paese….

R: No, è una zona di collina sopra a Casaglia, sopra a Monte Donato, diciamo e, passata la notte, ci ricaricano sul camion e ci riportano a Bologna, al Comando della Gestapo, vicino alla strada …

D: Il Comando della Gestapo era qui ai giardini?

R: Era lì ai giardini, si chiama via Santa Chiara, a lato dei giardini Margherita.

Dalla botola della cantina dove noi eravamo, noi vedevamo, dietro agli alberi dei giardini, il monumento di Carlo Alberto che una volta era nella piazza maggiore, venne tolto durante la guerra.

Come arrivammo giù, lì ci misero dentro in due cantine e incominciarono gli interrogatori.

Mi presero subito e mi portarono su a pulire tutti i gabinetti del Comando e tutta la mattinata rimasi a fare quelle cose.

Poi il pomeriggio iniziarono gli interrogatori.

Ti chiamavano su e ti mettevano a sedere, di fronte a un ufficiale delle SS, su una sedia e incominciavano a dirti: “Tu sei della GAP e della SAP, e io dicevo: “Io non so neanche cos’è la SAP e la GAP”, io non ero niente, ero sfollato là. E cominciarono: “Chi era il Comandante della formazione del GAP?” Noi…, però resistevamo. Alla fine si scoccia, si alza su e si avvicina e ricomincia: “Tu eri della GAP o della SAP?”

Io dissi: “Non lo so”. Così mi diede dei grandi sberlone, dei pugni e allora si infiammò tutto nel parlare.

Dopo un po’ arriva dentro un ufficiale della brigata nera che disse: “Cosa c’è?” E io dissi: “Mi chiede se sono della GAP o della SAP, vuole sapere delle cose che io non so”.

Andammo avanti ancora, lui cercava bonariamente di dire: “E’ meglio che dici, perché è l’unico modo perché tu puoi salvaguardarti” ecc. e così.

Io non dissi niente.

Dicevo sempre la stessa cosa, come un disco.

Finalmente finì.

Io, da questi interrogatori, me la caverò con pugni e schiaffi, però gli altri venivano malmenati molto forte.

D: Scusa, Dado, ritorniamo a Sabbiuno, è una località dove non ci sono abitazioni?

R: No. Dove c’è ora il monumento, il monumento è un arco di cemento con le bocchette dove stavano quelli che fucilavano.

Lì c’era una casa da contadino, una casetta, poi c’erano delle altre, in collina.

La frazione come tale era prima e noi non sapevamo…

D: Perché vi hanno portato lì? Cos’era quel luogo?

R: Te lo stavo dicendo.

A Sabbiuno, poi si scoprirà dopo la guerra, che in quel luogo erano stati fucilati cento partigiani.

Sono stati ritrovati nel giugno del 1945, quindi un mese e mezzo dopo la fine della guerra, giù per questi calanchi che sono calanchi di terra maltosa, erano tutti seppelliti nella malta, per quello ci hanno impiegato tanto a trovarli. Di questi martiri ce ne sono quarantasette riconosciuti e cinquantatre sconosciuti.

Sappiamo che erano in quel gruppo ma non si sono potuti individuare.

Quando portarono su questi gruppi di partigiani arrivava il camion al carcere di San Giovanni in Monte a Bologna, lo mettevano davanti, veniva fatto l’appello all’interno, li portavano fuori e li legavano, gli toglievano tutto, quel pane che avevano, quel pane che avevano racimolato e gli legavano le mani dietro alla schiena. Li cacciavano sul camion e partivano.

Ricordo molto bene queste cose perché io vidi partire mio cugino Bruno che sarà uno di questi fucilati. Poi conoscevo bene il muretto, una medaglia d’oro, perché eravamo Dante e Dusiani, dove eravamo stati a scuola elementare insieme, non sapevo che erano partigiani quelli, però li vedevo, perché io ero nella cella di transito, proprio di fronte all’entrata o all’uscita di San Giovanni in Monte.

D: Scusa, queste fucilazioni condotte lì a Sabbiuno, sono state eseguite da chi?

R: Dalle SS, potrebbero esserci anche delle brigate nere, ma quando uno andava nelle mani della Gestapo, quelli rimanevano in mano alla Gestapo.

Finiti gli interrogatori alla Gestapo, lì c’era la selezione o chi era fucilato o chi era eventualmente deportato, se non alcuni, come dirò, di noi otto che eravamo, tre di questi saranno rilasciati dopo gli interrogatori perché erano vecchi, due erano vecchissimi, poi c’era il garzone del contadino che era un montanarino che allora usava così, andavano a prendere i poveri ragazzi, però forti per lavorare, era un po’ semplicione, e anche quello viene rilasciato, Toni si chiamava.

Io lo ricordo molto bene perché molte volte lo schernivamo anche perché era un po’ semplicione.

Degli altri cinque, due saranno fucilati in Sabbiuno, quel famoso Baiesi che trovarono quando ci hanno arrestato e l’anziano contadino, era un omone, un vecchietto, era un uomo forte come forza, pieno di arroganza.

Quando durante il periodo dell’occupazione, le brigate nere venivano nel cortile dei contadini, venivano lì e cominciavano a sparare alle galline, derubavano, e lui veniva fuori dalla stalla con il forcale: se torni a tirare un colpo di fucile te lo pianto… Diceva così. Non aveva paura.

Dicevo che due sono stati fucilati lì, altri due, io e Nepoti Carlo saremo invece mandati a Mauthausen.

Mio padre, che era in carcere con me, quando sono venuti a chiamare all’interno della cella, cominciarono a chiamare Corazza Osvaldo e quando arrivarono alla fine Corazza Gaetano non l’avevano chiamato, però dentro all’ufficio matricola, dove c’era il salone in cui ci avevano radunato per deportarci in Bolzano, chiamarono anche Corazza Gaetano.

Non c’era, si vede che nel chiamare, lui avrà letto: “Corazza l’ho già chiamato ed è passato giù, immagino io”.

Lì, all’ufficio matricola chiamano “Corazza Gaetano, Corazza Gaetano”, non c’era. Ne avevo altri due di Corazza insieme a noi, che erano due cugini miei, che uno poi morirà a Gusen, l’altro invece verrà a casa e lì dice che ci fanno partire.

Mio padre rimane in carcere, che dopo una ventina di giorni, partiti noi, lo mandarono ai confini della Svizzera, a badare a dei cavalli, dopo alcuni giorni che era là abbandonò i cavalli e arrivò a casa, arrivò a casa prima della Liberazione.

A noi invece ci caricarono il 22 dicembre, se ricordo bene, arrivammo all’antivigilia di Natale a Bolzano, però facemmo una notte fermi in una scuola a Pecognaga, perché ci portarono via, si partì si vede tardino, verso la mattina eravamo nei dintorni e ci portarono a Pecognaga.

Lì ci portarono dentro quella scuola e stemmo lì tutto il giorno, sempre guardati dalla SS.

Si vedeva la piazza di Pecognaga.

Alla sera ci ricaricarono sui camion e via. Si parte, si passa il Po su questi ponti fatti di barche e giungemmo a Bolzano in mattinata.

D: In quanti eravate più o meno, Dado?

R: Eravamo novantun uomini e nove donne. Erano due o tre camion.

Mi ricordo che sul camion avevo l’avvocato Costa vicino che aveva una gamba diritta e mi diceva che gli stavo addosso alla gamba. Ci avevano pigiati lì dentro così e così si doveva andare.

Arrivati a Bolzano, lì comincerà l’operazione di tosatura e anche l’immatricolazione.

Io avevo il numero 7.973, detto così me lo ricordo un po’ meglio. Poi pensate che ci sono degli amici miei che non si ricordano che li avevano numerati perché poi i ricordi sfuggono dopo tanto tempo.

Lì fu la prima volta che ci dissero: “Da oggi in avanti voi avrete questo numero, non avrete più nome e cognome”, la prima volta.

Poi di nuovo, ci rinnovarono questa espressione quando arrivammo a Mauthausen.

Dal 22 di mattina stemmo fino al 6 di gennaio in Bolzano.

Lì non facevamo niente, non si faceva niente e al mio arrivo, racconto questo episodio perché simpatico, incontrerò il mio amico Balboni, che era amico mio perché eravamo vicini di casa, eravamo nel bar insieme.

Quando eravamo lì in fila, diritti così, arrivò un gruppo che veniva da fuori, allora si avvicinò a Balboni e disse: “Siete di Bologna?” E noi rispondemmo: “Sì, siamo di Bologna”. “Non c’è nessuno di Santaviola?”

C’ero io, Balboni… “Ma com’è che sei qui?” Allora parlarono in fretta, perché lì menavano… Poi ci portarono dentro al posto.

Ricordo che di tanto in tanto, lui che veniva di fuori riusciva a recuperare qualche po’ di miele o cose del genere e ogni tanto ce lo portava.

Insomma lì passammo questi giorni in Bolzano, sembrava che si fosse aperta la prospettiva di poter andare a lavorare dietro il campo, che stavano allargandolo, sembrava ci fosse un ufficiale americano, un pilota e dicevano che era il capo che conduceva i lavori di carpenteria e allora noi chiedemmo se si poteva andare a lavorare lì. E non ci dissero neanche di no e si arrivò che ci spedirono via e non riuscimmo a combinare niente.

Da Bolzano ci caricarono il 6 di gennaio…

D: Dado, ti ricordi, scusa, nella tua brevissima permanenza a Bolzano, se hai trovato anche dei religiosi?

R: Io dirò questo: dei ricordi di Bolzano, di espressioni spirituali no…, poi neanche nel resto.

Ricordo bene che facevamo arrabbiare un nostro amico, che era deportato lui, era molto religioso.

Ogni tanto qualcuno si metteva una gabbana nera e diceva: “Pietro, vieni qui che ti voglio confessare”.

Stiamo facendo un monumento dedicato a lui e a un altro.

Si chiamava Pietro…

D: Ma di sacerdoti non ne ricordi?

R: Ne troveremo due quando arriveremo a Mauthausen.

Comunque lì, una delle cose impressionanti che vidi, alla mattina veniva fuori dalla baracca, dalla baracchetta per andare a fare il bagno, in mezzo, in fondo al piazzale di Bolzano c’erano le celle.

C’erano le celle e dentro a queste celle, ricordo, quando passavamo, c’erano dei mongoli che erano quelli che dalle truppe russe erano passati alla collaborazione. E li avevano arrestati perché chissà cosa avevano fatto. Comunque facevano degli urli che sembravano dei selvaggi.

Un giorno, mi capitò una mattina, che passando di lì, uno di questi venne di lì dall’inferriata e portò un deportato e gli fece vedere che aveva del pane. Quando si avvicinò lo prese per il collo e se lo tenne lì, io vidi che cadde in terra. Non so se era morto o quasi morto perché io tagliai la corda.

Secondo me era morto, ma non ho la certezza.

Così imparai che quella era gente così.

Una delle cose più grosse erano quelle lì.

Del resto lì abbiamo vissuto una vita da niente.

Il 6 gennaio venimmo ricaricati e portati in stazione. Lì ci stringeranno dentro i vagoni, non lo so quanti eravamo, sessanta o sessantacinque, so che non c’era posto per tutti, solo in metà vagone ci si poteva sedere e bisognava fare i turni, arrivammo a Mauthausen l’11 gennaio, alla mattina presto.

D: Scusa, Dado, siete partiti da Bolzano da dove?

R: Dalla stazione ferroviaria di Bolzano, con il camion, da dentro il campo ci portarono alla stazione e da lì ci ricaricarono dentro i vagoni bestiame.

Il viaggio fu molto lungo, perché voi pensate che da Bolzano ad arrivare a Mauthausen ci sono 400 km, per treno penso ci saranno 350 km e stemmo nove, dieci giorni in viaggio.

E ci hanno dato da mangiare una volta, a metà del viaggio che fu il 9 gennaio che io compivo diciotto anni quel giorno.

Fu un viaggio molto penoso e non ci furono dei morti nel mio vagone, ma in altri vagoni sì.

Mi ricordo bene che una delle cose penose era la sete, c’era il fiato pesante.

Allora, per rinfrescarci la bocca leccavamo i bulloni che fissavano le piastre che tenevano ferme le aste del vagone e facevano una brina, e le cavavo quelle o con le dita…

Da mangiare ci diedero un bussolotto di carne tritata, una specie di Simmenthal, e una pagnotta di pane, ogni due.

Dopo, con quei bussolotti, con le cinture, dal mezzo del finestrino che c’erano i fili, aprivamo i fili reticolati, mettevamo giù i bussolotti per raccogliere un po’ di neve, a volte ci andava bene e delle volte ci andava male.

A volte si raccoglieva un po’ di neve, a volte dei sassi, a volte anche dello sterco che dietro alle ferrovie non mancava.

Durante questi giorni e notti ci lasciavano fermi delle ore.

Non era freddo, neanche se era gennaio, all’interno del vagone, e poi eravamo anche abbastanza vestiti perché in carcere, durante il periodo della permanenza in carcere, un giorno alla settimana potevano venire dei familiari a portarci qualcosa da mangiare, vestiti, quindi eravamo abbastanza vestiti. Non era neanche freddo, almeno non ricordo che era freddo.

Arrivammo a Mauthausen, ci scaricarono a Mauthausen e finita l’operazione di scarico, ci avviarono. Passammo dentro alla cittadina di Mauthausen che non è come era adesso.

Adesso c’è il viale di circonvallazione. Allora non c’era.

Il viale di circonvallazione che costeggia il Danubio non c’era. C’era solo la strada che passava al centro.

Al lato destro c’è una rupe, una grande collina dove sopra ci sarà il campo e a destra tutte le residenze.

Ricordo che quando passavamo dalla città, si vedevano i bambini che guardavano e curiosavano e le donne, quando vedevano che passavamo, chiudevano gli scuri, si tiravano dentro, insomma. Non avevamo delle scherni, altri amici miei mi hanno detto che invece trovavano dei bambini che tiravano loro i sassi, sputavano, ma io questo non l’ho verificato.

Arrivati a Mauthausen ci fecero percorrere la strada all’interno, come dicevo, di quella gente che era lì in giro e cercava di allontanarsi più che di curiosare o tanto meno di solidarizzare, che non sarebbe stata cosa facile, è vero, tanto per chi fosse stato nazista o antinazista, venire a solidarizzare era una cosa pericolosa.

Passato il paese c’è una mulattiera che va su dal paese, non è più la strada normale che si fa ora, su per questa mulattiera finalmente arriviamo sopra, come arriviamo sopra nella strada, a sinistra c’era una casa del contadino che c’è ancora e subito a destra tu vedi la facciata del campo, c’era la neve.

Le mura che sono belle grigie adesso, ma nel confronto con la neve erano mura scure.

Sopra al campo c’erano dei nugoli di corvi che urlavano perché lì intorno c’erano le famose fosse comuni, di cui noi sapremo dopo, e di cui io non ho mai saputo.

Arrivammo dentro al campo e come arrivati al campo, un episodio simpatico, appena dentro il portone, fermano tutta la fila e io rimango lì tra il dentro e il fuori del portone.

Lì di fianco c’era un marocchino, un francese, era un mulatto che spazzava. “Italiani…, good maccheroni…”, diceva e continuava a spazzare.

Poi ci portarono dietro alla prima baracca di destra e lì ci fermarono e incominciarono l’operazione della spoliazione, la rasatura e infatti in venticinque o in trenta andavamo giù, ci fecero fare la spoliazione e dissero: “Mettete lì la roba che poi quando uscite dalle docce…”. Intanto ci facciamo avanti, di qua e di là c’erano due barbieri che ci tosarono da capo a piedi.

Noi eravamo già rasati da Bolzano e lì ci fecero la prima riga, la Strasse.

Così, spogliati, nudi, comincia quest’operazione.

Io ho assistito alla prima operazione di punizione di due preti, che erano due preti di Milano, uno di qua e uno di là e non volevano farsi tosare sotto e hanno preso tante di quelle botte da fare paura, perché lì ti tosavano la parte sopra, io non avevo niente da tosare, non avevo la barba, nel petto non avevo il pelo, ci fecero salire su un mensolino alto come una sedia, e poi ti tosavano sotto. Poi ti davano la creolina, questo dopo che venivi fuori dalle docce.

Fatta la rasatura, si andava dentro. Quando eravamo tutti dentro, ti facevano fare la doccia, e fuori di là quando uscivi la tua roba non c’era più.

Lì c’era un bancone, ti davano un paio di mutande, una maglia, un paio di scarpacce e fuori.

C’era la neve fuori, ci portarono fuori e lì aspettavamo perché finché non si era raggiunto un certo numero non si andava in baracca.

Finita l’operazione di questo, allora ci portarono in baracca, dentro il campo di quarantena.

Come arrivammo là ci diedero da mangiare, una sbobba dolcina, una cosa proprio che non si poteva mangiare e sopra, perché erano tutti castelli, file di castelli e qui c’era la… che ti dava questa roba e noi facevamo gli schizzinosi perché nonostante tutto, venivano dal carcere, da Bolzano e qualcosa mangiucchiavamo.

Così c’era un deportato spagnolo, lì sopra a sedere, al terzo piano del castello che diceva: “Mangiatela perché non la mangerete mai più. C’era dentro del semolino, della roba…”

D: Dado, il blocco di quarantena, ti ricordi il numero del tuo blocco?

R: No, il numero non lo ricordo.

Ricordo che appena entrati dal cancello eravamo nel primo blocco. Non so venti, ventuno, ventidue, erano tre, credo, i blocchi di quarantena, però alla quarantena stemmo solo pochi giorni.

Nei blocchi di quarantena c’erano i castelli a tre piani, quelli dove l’ultimo batteva la testa sopra.

Ricordo bene che c’era anche uno di questi spagnoli, un certo Eolo, ci cantava “Limon Limonero”, una canzone spagnola, bella…, voi siete giovani, non la sapete.

E lì fu la prima esperienza della baracca. Arrivò poi il giorno dopo che ci diedero la numerazione.

Come vi dicevo, ci misero a sedere contro il muro della baracca, lì ci misero a sedere e poi una piastrina con il numero: 115.453.

E ci fecero la foto, perché questo rimaneva il documento del campo, cosa che non troveremo mai.

Non credo nessuno abbia trovato le foto di Mauthausen, quindi credo siano state distrutte, a meno che non saltino fuori tra altri cinquanta anni.

Solo che non possiamo vedere se siamo venuti bene!

Ora, lì fatta quest’operazione, noi rimaniamo in attesa…

Dirò, ritornando indietro, che dei cento che siamo arrivati a Bolzano, le donne rimarranno a Bolzano e partono solo gli uomini e alla fine della Liberazione torneremo a casa dodici, tredici, quattordici, il numero preciso non lo so, non lo ricordo.

Fatta quell’operazione, noi al campo non saremo adoperati per andare alla scala, alla scala della morte, anzi io dirò che della cava ne avevo sentito parlare perché vedevamo, alla mattina, quando sull’Appel Place ci facevano la conta, vedevamo che arrivavano verso le 6, i deportati del blocco di eliminazione, laddove c’erano quei russi, che poi avverrà il tentativo di fuga e arrivavano su moribondi, stramazzavano in terra insieme ai sassi, si accatastavano in terra.

Allora mi dissero che quelli andavano nella cava per prendere questi sassi, ma io non l’ho mai vista, anche quando sono stato liberato.

Sono stato liberato a Gusen, ma non l’ho mai vista la cava. L’ho vista solo dopo la guerra. Quindi lì non facevamo niente.

L’unico impegno per cui io sono stato utilizzato all’interno del campo è quando è avvenuto il tentativo di fuga.

Noi usciremo dopo tre o quattro giorni dal blocco di quarantena, entriamo lì, credo nella seconda baracca, fuori dal campo di quarantena, credo fosse il blocco dodici, tredici, era il secondo dietro.

E lì, invece noi non avevamo più i castelli, ma avevamo i pagliericci in terra.

Alla sera, entriamo in questa baracca, era tutta vuota, solo lì in fondo c’era una pila, una catasta di questi materassini che poi, alla sera, i Kapò ci dicevano: “Via, stendere…”, ci facevano stendere i materassini e loro ci mettevano a letto.

In fila, così, testa e piedi, tutto il piano coperto di deportati, solo il sentiero in mezzo, che poi loro per divertimento, quando giravano ci giravano sopra.

Quando le notti sono rumorose, alla mattina, alle quattro ci svegliavano e ci mettevano in fila sull’attenti fuori, accanto alla baracca e a me è capitato una volta di essere fuori. Ti lasciavano lì, alle cinque, alle sei, alle sette, tre, quattro ore, finché volevano e stavamo lì sull’attenti.

Quando qualcuno non resisteva e cadeva mettevano là il mucchio di neve, se rinveniva tornava in fila, altrimenti lo portavano via.

A me è capitato una volta, in quel periodo che eravamo lì, avvenne il famoso tentativo di fuga, là dal blocco di eliminazione, in quella baracca che era definita di eliminazione perché là ai deportati che c’erano il mangiare lo portavano solo quando rimaneva, quando rimaneva del mangiare dalla quarantena, allora passavano dietro, perché questo era dietro alla quarantena, e gli davano da mangiare. Altrimenti andavano alla sera a caricare i cadaveri e via.

Nei primi giorni del febbraio del 1945, sarà il 4, il 5, o il 3 febbraio, avvenne questo tentativo di fuga.

Nel pieno della notte cominciammo a sentire sparare, sembrava il terremoto, le mitragliatici, i fucili.

Noi eravamo rinchiusi nelle baracche.

Durò un paio d’ore tutta quest’operazione. Verso mattina, appena giorno incominciarono a prendere degli uomini e con i carri, i carriacci che erano là, sempre trainati, andarono fuori dal campo a caricare i cadaveri.

Io vedevo, quando tornavano che erano insanguinati, dei pezzi di carne ecc., ma noi eravamo ancora lì in baracca.

Arrivarono lì, verso le nove, le dieci, a mattina fatta insomma, anzi forse anche un po’ più tardi, perché prima sgombrarono tutti i cadaveri che poi li portavano nelle botole, che li davano ai forni crematori e ci vennero a prendere a me e a un altro. Ci diedero una specie di barella fatta a cassa e con uno delle SS dietro ci porta fuori dal carro e andammo là fuori a raccogliere gli zoccoli, gli stracci, voi immaginate il pandemonio.

Se da questo tentativo di fuga, la storia dice che ci saranno circa seicento morti, i superstiti sono una decina, poco più o poco meno.

E’ vero, c’era un pandemonio.

Noi andammo fuori, caricammo questa cassa e poi tornammo dentro.

Ci fecero andare giù dalla scala dei forni crematori, passammo dentro, davanti ai crematori e poi ci portarono là in fondo che c’era un magazzino di carbone a vuotare la roba là dentro e poi tornammo fuori.

Fu l’unica occasione in cui vidi i forni crematori, poco lontano c’era anche la camera a gas, però questa è una storia che credo siano pochi che la possano raccontare perché chi ha lavorato nei forni, chi ha lavorato nelle camere a gas veniva eliminato. Quindi era difficile trovare qualcuno che potesse testimoniare di queste cose.

Forse sarà qualcuno di sopravvissuto probabilmente, un tedesco.

Insomma, una storia molto sconosciuta.

Quindi torniamo in baracca.

Io assistetti all’arrivo prima di questo tentativo di fuga, all’arrivo dei deportati che arrivavano da Auschwitz tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, L’1, 2 o 3 febbraio, non ricordo bene. Ricordo bene però che Teo Ducci mi disse che arrivò il primo di febbraio. Noi vedemmo arrivare questi deportati e li portarono là dietro, dove portarono noi.

Tieni conto, quando arrivammo noi, che ci misero lì, c’erano dei deportati che erano già dentro. Arrivavano là dietro, di nascosto, e dicevano: “Avete degli orologi, degli anelli, dateci tutto, perché ci tolgono tutto…” ma chi ci credeva? Noi pensavamo che questi facevano i furbi per poi dopo trafugarci e questo non potevano farlo con quelli di Auschwitz perché quelli avevano meno di quello che avremmo avuto noi.

Insomma lì arrivarono alla sera, e il pomeriggio verso sera erano tanti, tantissimi, non so quanti.

Però lì morirono tre, quattro, cinquecento deportati morirono assiderati nella notte, là fuori, aspettando di fare quest’operazione di tosatura, disinfezione, uno potrebbe dire: che tosavano se venivano dai campi? Però avevano scrupolo di ripulire e poi ci disinfettavano con quella creolina, una roba puzzolente, che bruciava.

Facevano quest’operazione, per dirvi che io non ho mai avuto i pidocchi, neanche a Gusen.

Avevo una scabbia spaventosa, forse era per quello che non si rigiravano.

Però non ho mai avuto gli insetti.

Verso il 5 o il 6 febbraio ci incolonnarono e ci portarono giù a Gusen.

Ai primi di febbraio, ci incolonnano a piedi, scenderemo da Mauthausen e per strada arriviamo a Gusen.

Ci fanno entrare tutti a Gusen 1, poi lì a Gusen fanno la selezione di quelli che rimangono a Gusen 1, noi usciamo di nuovo e andiamo a Gusen 2.

A Gusen 2 ci suddividono nelle varie baracche.

Quando io arrivo nella mia baracca, di cui non ricordo il numero, ma penso il 10, non ne sono certo, perché ero un cinazzo e me ne fregavo di quello che avveniva intorno e cercavo solo la strada per non essere picchiato e trovare il mangiare.

Infatti mi portarono dentro a questa baracca ed era vuota, si vede che erano già partiti per Saint George, per il lavoro. Andai dentro questa baracca, guardavo, e ad un certo momento sentii dire, guardavo, andai a vedere, là in fondo, al piano di sotto del castello, c’era un deportato, mi avvicinai e parlava in francese, e io ho detto: “Sono italiano”. E mi ha chiesto: “Italiano?” Lui era un professore francese di italiano. Mi ha detto: “Com’è che sei qui?” Allora io tergiversavo e dicevo: “Non so, sono stato preso, mi hanno portato…”

Così lui mi parlava un po’ da padre dicendo: “Questo è un posto in cui è difficile sopravvivere, quindi tu stai attento, cerca di capire subito le cose che ti dicono, perché altrimenti sarai bastonato continuamente, quindi cerca di intendere tutto quello che ti dicono”.

La sera che arrivarono a casa, mi diedero il pasto e dove dormire, dormivo con un forestiero, non era uno dei nostri.

Passò la notte e alla mattina già ero in squadra per andare a lavorare. Quando sono tornato, alla sera dal lavoro, non c’era più. Non so se l’hanno portato all’ospedale o se l’hanno portato invece al Revier perché a Gusen 2 c’era la parte davanti con tutta una fila di baracche, undici, dodici, credo che l’infermeria era il dodici o il tredici. Dietro all’infermeria, fuori dal recinto c’era il blocco di eliminazione, con una grande piazza e c’erano i binari del trenino che ci portavano a Saint George dove c’era la galleria con la fabbrica della…., ogni mattina, ogni sera, a secondo del turno che si faceva, arrivavamo nella piazza, e ci mettevano davanti ai vagoni tutti preparati, aprivano il vagone e a bastonate ti facevano salire sul vagone. Non ci stavano mai tutti.

Allora, chiudevano, facevano andare su tutti, poi quando avevano finito l’operazione ce ne erano ancora sette, otto, dieci, riaprivano il vagone, risalivano la scaletta, incominciavano a bastonare dentro, si faceva il vuoto, due legnate a quelli che erano giù per andare su.

Erano legnate tutte le volte lì.

Una mia esperienza all’interno di questi carichi, per Saint George fu questa, qui c’era l’entrata del vagone, nell’angolo a destra, io ero proprio là nell’angolo.

In uno di questi momenti che ricaricavano quelli sotto…, gli altri si allargano e venivo schiacciato, quasi stavo per soffocare perché mi spingevano in questo angolo. Finalmente si allentò un po’ la cosa e mi ripresi, per dire come poteva essere l’operazione di carico.

Il percorso di questo trenino, con un soldato della SS di qua, e di là, e seguivano a passo d’uomo il trenino. Di notte, avevano i cani, avevano dei fari a pila per vedere. Poi, avevano la macchina che non trainava, ma spingeva, andava indietro con la raspa che raspava sui binari per evitare eventuali fughe ecc.

Quella era l’operazione di carico quando si arrivava dentro al piazzale della fabbrica e si scendeva incolonnati, ci portavamo davanti al primo stallen, la prima galleria, e lì c’erano quelli che contavano alla sera, alla mattina.

La conta è sinonimo di una delle pene a carattere psicologico perché ti tenevano alla conta anche delle ore, delle volte e ti tenevano lì e ricontavano, così facevano perché tanti entravano nell’officina e tanti dovevano uscire. A volte si rimaneva lì delle mezze ore, ancora più, che ne mancavano uno, due o tre, che li andavano a cercare e li trovavano già morti, dietro delle lamiere, degli angoli bui. Li trovavano là, erano andati per riposare e poi morivano. Quando c’erano tutti, allora si ritornava.

Io, in fabbrica, ero a banco e facevamo gli sbavatori.

Le lamiere che venivano tranciate, facevano la bava e noi, nella morsa, mettevamo queste lamiere e poi con la lima limavamo queste.

Eravamo in quattro, c’ero io qui a destra, c’era un triestino che non ho mai più rivisto, non ricordo, non so se è vivo o morto ma non l’ho mai più trovato.

Di fronte a noi c’erano due rossi che erano due rossi che erano in carcere con noi nel carcere di San Giovanni in Monte, che erano nelle formazioni della Stella Rossa, erano di Sesia Bologna perché dovevano venire alla liberazione di Bologna, poi sono stati arrestati, trovati e poi hanno fatto il percorso della deportazione. Erano lì, lavoravano con noi.

Si lavorava, sbavava ecc.

Una delle pene era andare al gabinetto perché quando andavi al gabinetto c’era sempre la fila, c’era la fila perché c’era un mucchio di deportati che aveva la diarrea.

Ricordo che una volta avevo davanti a me uno di quei bimbetti che erano poi gli amanti dei Kapò e girando gli presi nel tacco della scarpa e gli si sfilò la scarpa, si girò indietro e mi diede due sganassoni. Allora, io mi tirai indietro, perché se tu toccavi uno di quelli lì eri spacciato. Anche se arrivavano che litigavano, lì loro menavano tutti, lì per andare al gabinetto…, per dire com’erano le varie peripezie.

Un altro episodio all’interno dello stallen, del reparto di lavoro fu quando veniva l’allarme e toglievano la corrente dall’interno. Noi potevamo riposarci, stare lì, ma non potevamo muoverci dal banco e un giorno venne l’allarme, tolsero le luci, ci misero lì a riposare.

Era un bisogno estremo per noi sederci in terra. Dopo un’ora, un’ora e mezza venne la luce, cominciammo a lavorare, da lì arrivava il responsabile della SS del reparto perché in ogni reparto c’era una SS più il Kapò. Di civili c’era uno solo che era il capo reparto tecnico, bell’omone, moro.

Arrivò la SS da lì sotto, da me veniva fuori un rivolo di acqua e allora lui disse: “Chi ha fatto pipì?” Io no, lui no, nessuno, manda a prendere il Gummi, comincia a bastonare il primo rosso di qui, dopo otto, dieci botte, si alzò su e gli picchiarono nella testa, cadde in terra, lo massacrarono di calci la SS e il Kapò, poi portarono via quello lì massacrato e sotto l’altro che fece la stessa fine.

Delle volte, i ragazzi mi chiedono: “Quali sono stati i momenti in cui lei ha avuto paura?”

Io paura l’ho avuta sempre dal momento che mi hanno arrestato, sempre.

Lascio immaginare a voi, in questo momento che tu eri in attesa di quest’operazione. Anche questo rosso che non vedremo mai più.

Dopo andò sotto il triestino, gli cacciarono dieci colpi di Gummi e lo mandarono al posto a lavorare. Poi andai sotto io, sei colpi di Gummi, un calcio nel culo e a posto e cominciammo a lavorare e vi dirò che con soli sei colpi di Gummi, per quindici giorni non potevo sedermi, perché picchiavano forte.

C’erano i Kapò che picchiavano forte perché erano malvagi, perché lo sanno tutti, ma anche il più bonario doveva picchiare, altrimenti la SS diceva: “Te le do a te”.

E questo fu uno degli episodi più drammatici all’interno della galleria di Saint George.

D: Dado, scusa un attimo, queste gallerie dove erano allestite le officine, erano molto grandi?

R: Vi dirò, le gallerie di questa officina io non le conosco perché arrivavamo dentro dopo che ci avevano contati, arrivavamo dentro e ognuno si smistava per i suoi reparti. Gli stallen erano i vari reparti. Passando per andare là in fondo dove lavoravo, vedevo che qui a destra e a sinistra c’erano altre gallerie. Io non ho mai visto. Ho visto, due anni fa, a Gusen che c’è un plastico adesso. Sono rimasto strabiliato, non meravigliato, perché è una fabbrica di una grandezza immane, con tutti questi reparti, queste gallerie, era bucata quella montagna e d’altra parte il nostro treno era un treno bello lungo, che ci portava dentro, ci scaricava nel cortile. Voglio dire che c’erano molti deportati, quindi doveva essere grande, però il problema della deportazione si può anche dire poco perché quando tu vivevi nel campo non è che tu potevi andare a girare, curiosare, che c’era il pericolo dei Kapò e delle SS.

Quando eri in fabbrica ancora peggio, non potevi andare a girare perché lì c’erano i Kapò che sorvegliavano…

D: Dado, voi lavorate dentro nelle gallerie, nelle officine installate nelle gallerie per quante ore?

R: Dodici ore facevamo dalle sei del mattino alle sei di sera.

D: C’era umidità? Il clima com’era? Si respirava? Era caldo?

R: Dove ero io si stava abbastanza bene, perché era proprio di fronte all’entrata, era molto lungo ma comunque era arieggiato abbastanza bene, umidità non ce n’era. La vita era quella.

Una vola assistetti, non era del nostro reparto, ma di un altro reparto, un operaio veniva punito non so cosa aveva fatto e lo misero su un banchetto alto così e poi lo misero in piedi e gli diedero un altro banchetto e gli facevano fare le flessione.

Voi lo vedrete non nelle foto del museo di Mauthausen, ma nei disegni, quei disegni li hanno fatti dei deportati, altrimenti non si possono fare delle cose così espressive alla realtà e lo misero lì e una flessione, una, due, dopo tre o quattro flessioni cadde giù e lì venne massacrato come hanno fatto con quel rosso.

Dico queste cose non tanto per impressionare, ma per dare dimostrazione dell’ambiente com’era, il lavoro non era né difficile, né massacrante.

Però, il problema era questo: tu eri costretto a questo tipo di ambiente, quindi non era tanto la fatica, quanto invece la condizione di sopravvivenza Anzi, io dirò che penso che il motivo della mia sopravvivenza, come di altri, sia dato dal fatto che noi abbiamo lavorato in galleria ed eravamo coperti dalle intemperie, da tutte le fatiche, perché chi lavorava nelle cave, chi lavorava a fare le gallerie, quella era roba da schiavi.

E io penso che uno dei due o tre elementi fondamentali per cui siamo sopravvissuti è questo dell’avere lavorato in galleria, questo sia uno dei punti fondamentali. Perché dovere lavorare fuori, mezzo svestito, sotto l’acqua gelida, al ghiaccio è difficile sopravvivere.

E questo avviene fino a pochi giorni dalla Liberazione.

D: Dado chi era Carlo Manzi?

R: Carlo Manzi era un amico nostro, che era in carcere con noi. Era di Decima di Persiceto. Carlo Manzi…

E la sua fine è stata una fine brutta.

Anche se lui muore inconsapevole perché ormai era ridotto in coma, era sfinito, perché lì tu morivi di sfinimento.

Quando noi parliamo di musulmani, Manzi sarebbe stato un musulmano. Solo che ci sono dei musulmani che prima di arrivare al coma totale riescono anche a girare, però quando tu incontravi uno di questi, gli parlavi, come io parlo a te, ti guardavano con degli occhi così ma non capivano niente di quello che tu gli dicevi.

Manzi era ormai ridotto in quel modo e l’occasione in cui l’ho visto finire è stato quando, una sera, tornando dal lavoro, venne il Kapò come responsabile della SS, il Manzi non era venuto al lavoro perché ormai era…, l’avevano tirato giù perché dormiva al primo piano basso, hanno preso via un assetto da sotto, gliel’hanno messo sul collo e poi il Kapò gli ha messo il piede sopra intanto che loro due parlavano, intanto che lui era spirato.

Poi lo portarono via e non lo vedemmo più.

Carlo Manzi…, ho avuto un problema, quando sono tornato a casa, le sue sorelle sono venute a trovarmi in ospedale, però si sono raccomandate che non andassi a casa sua perché la mamma soffriva di cuore. Io ho detto che era morto, ma non ho detto così perché non aveva importanza dire queste cose. Può avere importanza a livello testimoniale per dare esempio, ma sul piano sentimentale non serve a niente.

D: Dado, tu con altri, avete mai pensato alla fuga?

R: Sì, questa è una cosa…

Direi che è quasi ridicolo pensare nell’ambiente in cui vivevamo…

Avanti un pezzo, in fabbrica, Stanghellini che era un anziano che là c’è morto suo figlio, lui ha assistito alla morte di suo figlio, Stanghellini Adelio che verrà a casa, anzi sarà quello che mi porta a casa, era stato nel blocco di eliminazione, al Riviere perché suo figlio era andato all’infermeria, all’ospedale e dopo un pezzo non arrivava più in baracca e allora si sapeva che dopo due o tre giorni che erano all’infermeria, o tornavano al lavoro o venivano inviati al Riviere. Allora Stanghellini che parlava un bel po’ il tedesco perché nel 1939, lui era immigrato a lavorare in Germania, 1938 – 1939, poi venne a casa, quindi lui parlava un po’ il tedesco.

Una volta si avvicinò al capo tecnico, il civile e gli disse: “Guarda che noi siamo italiani, ecc. siamo qui…, non siamo dei delinquenti”, lui stava lì e disse: “Guarda, noi abbiamo due persone che hanno un mucchio di oro”. Glielo raccontavano, abbiamo due amici milanesi che sono pieni di oro, insomma siamo una squadretta di sette, otto.

“Se tu ci porti fuori a lavorare alle macerie, dietro alla ferrovie… “Allora lui disse: “Ma…”, non si scandalizzò.

Il fatto che non si impaurì.., però lasciò una porta aperta nel senso che non si arrabbiò ed affrontò il discorso.

Una settimana dopo ritornò alla carica dicendo: “Allora, cosa dici?”

“Noi abbiamo quest’oro e te lo diamo tutto”.

Gli disse intanto che non poteva perché non aveva queste funzioni di portare fuori la gente, ma disse: “Anzi, se potessimo fare una cosa del genere, io vorrei venire con voi”. E così il discorso rimase lì.

E passò il tempo, la cosa non andava.

Finalmente lui disse, una volta: “Tu decidi, altrimenti noi tentiamo una fuga disperata”.

Avevamo preparato già un paio di cesoie che avevamo fasciato con degli stracci perché c’era un gabinetto che era fuori dal campo, si andava sopra alla collinetta, c’era anche la collinetta, tanto morire dovevi, eravamo già all’estremo. Non saremmo fuggiti, perché non ce la facevamo neanche a correre, però la disperazione ti fa fare di tutto.

Allora lui ci disse: “Non fate delle sciocchezze, delle stupidaggini perché fra cinque, sei giorni ci sarà la Liberazione”. E la Liberazione avvenne davvero.

E’ stato onesto.

Stanghellini che poi mi porterà a casa ha assistito all’uccisione di suo figlio in questo modo, quando era anche lui al Riviere una sera, vanno dentro due Kapò, chiamano Atos, suo figlio e lo portano fuori.

Com’era fuori dalla porticina, gli cacciarono una legnata nel collo e li ammazzavano così e li portavano nel piazzale là fuori, che quando noi prendevamo il treno, ogni mattina, vedevamo delle centinaia là fuori.

Atos venne portato fuori verso la mattina, però di nascosto ritornò in baracca. Aveva il collo che era più grosso della testa. Era impossibile che potesse sopravvivere. Però arrivò e tornò a letto alla sera. Ripercorsero la stessa cosa, andarono a riprenderlo e così lo uccideranno.

Il padre uscirà dal Riviere perché in quei giorni doveva venire la visita della Croce Rossa Internazionale, che noi non sappiamo, io non ho mai visto niente, noi eravamo gli ultimi e allora per effetto di questa eventuale visita, vuotarono il blocco di eliminazione in Riviere, lo vuotarono e lui tornò in baracca.

Arrivai una sera io da casa da lavorare perché lui dormiva con me, e c’era un altro nel mio piano, andai lì, gli diedi una… , come vedeva che lo scuotevo, mi guardava, quasi cadavere dicendo: “Corazzino…”, era disfatto…, non l’avevo conosciuto. Era a letto che tremava, aveva un paio di mutandine corte e una camiciola e basta.

Io mi ero organizzato un paio di mutande felpate e gli diedi queste mutande, poi andai a letto …, insomma nel giro di due o tre giorni si riprese. Lui si riprendeva e invece io calavo sempre…

D: Scusa, un attimo, Dado, queste punizioni che tu accennavi, tipo Atos e tipo gli altri che andavano a prenderli, che venivano puniti. Le ragioni quali erano?

R: Nel Riviere non erano punizioni, erano uccisioni. Venivano eliminati, invece di dare un colpo alla nuca, gli davano una legnata, così non facevano sangue, così non si sentivano i rumori. Così risolvevano le loro cose.

Questa è la conoscenza che ho del Riviere, perché quando Stanghellini tornerà, lui mi racconterà questa cosa e un bel po’ della mia sopravvivenza è anche dato da questo perché lui mi prenderà come sostituto di Atos, guai se qualcuno mi avesse fatto un dispetto, altrimenti imbestialiva.

E mi ha praticamente portato a casa, perché io non riuscivo a girare tanto e dove mi trovavo, dopo due minuti già dormivo e dovevano prendermi e andare.

D: La Liberazione. Tu dov’eri al momento della Liberazione?

R: Dalla Liberazione a venire avanti c’è un po’ di storia tragicomica.

Io ero a Gusen 2, alla baracca dove mi misero all’arrivo ed erano già due giorni che non andavamo a lavorare e si sentiva dire da Radio Scarpa che era morto il Furher. Ma il fatto che non lavoravamo, non ci davano neanche da mangiare.

Così, ad un certo momento, dopo due giorni ci accorgemmo, una mattina, che fuori dai reticolati c’era lo steccato dei reticolati, al di fuori due o tre metri, c’era lo steccato di legno fitto, che non si vedeva. Noi sentimmo i contadini che passavano con il carico, ma non li vedevamo perché era molto alto e il campo rimaneva in basso. E’ ancora così adesso.

Vedemmo che da là sopra c’è una torretta con un autoblindo con una stella bianca, noi dicevamo: è la stella russa, invece quella era rossa, quella era bianca e incominciò a sparare verso la campagna, fuori dal campo. Allora lì si aprì il cancello, proprio nella vicinanza, a metà c’era un cancello nel reticolato, venne aperto perché corrente non c’era più e abbattuto l’altro steccato di legno, io andai fuori e c’erano tutti i soldati della SS in fila per tre o quattro e c’era un carro davanti con il cavallo e tutti gli zaini sopra e la camionetta sparava fuori dove c’erano i camminamenti antiaerei che ci hanno portato una volta o due, perché questi non fuggissero.

Come sono arrivati fuori i deportati, hanno cominciato a togliere gli assi dello steccato. Li hanno massacrati tutti, io ho assistito a quella scena, ho assistito a quella scena un attimo e poi sono venuto via, perché andavo a cercare da mangiare.

D: Questo ti ricordi quando è avvenuta la Liberazione?

R: Il 5 di maggio.

Intanto che venni giù da questa scena, lì a fianco c’erano due deportati che litigavano per una scatoletta aperta, che uno tirava di qui e uno di lì e si tagliavano le dita, ma nessuno la lasciava andare.

Andai in cucina e dentro la cucina c’erano i deportati, uno, due, con i piedi dentro alle marmitte si tiravano su quella brodaglia che era rimasta sotto, in fondo e andai avanti nella sussistenza nel magazzino. C’era uno scompiglio di gente che faceva paura, si tiravano addosso le scansie. C’erano delle scansie, con dei pani di verdura secca, dei cubi rettangolari grandi così di verze secche, pressate.

Andare là dentro era un pericolo.

Mi avvicino lì, stavano vuotando un sacco di zucchero in dieci o dodici.

Sopra a questo sacco, uno o due ci hanno lasciato le penne senz’altro.

Io ho fatto un tentativo o due, e ho preso un pugno… però sono tornato indietro e me lo sono mangiato. Poi mi sono messo fuori da questo posto e aspettavo che venissero quei cubi, mi mettevo lì, e come ne arrivava uno, gli davo una manata e gliene portavo via un pezzo e me la mangiavo, che era poi quella che loro cuocevano nelle brodaglie.

Infine uscimmo, ci trovammo in sei o sette perché ci fecero uscire per andare a Gusen 1.

Noi arrivammo a Gusen 1, e c’ero io, Gasiani, Franchini, questi di Anzola, ci trovammo in sei o sette e cosa abbiamo fatto? Invece di andare dentro al campo, girammo intorno alla camionetta e poi fuggimmo, andammo via di nascosto. Noi da Gusen a Linz l’abbiamo fatto a piedi. Partito da lì, a me scoppia una diarrea che ogni duecento metri dovevo fermarmi.

Comunque andammo. Cercavamo da mangiare, dovunque ma non si trovava un granché perché la gente si nascondeva. Allora visto che arrivavamo vicino alla sera, ci siamo messi a raccogliere vicino al Danubio, abbiamo trovato un bidone di lumache, poi andammo avanti e a un certo punto cominciammo a sentire dei colpi di fucile, e ci nascondemmo dietro a un argine, ci alzammo, guardammo e di là c’era una casa di contadini. Vedemmo che dei soldati italiani venivano fuori dalla stalla, uno aveva una gallina sotto il braccio, il secchio con il latte.

Allora anche noi dentro a questa casa, eravamo in cento lì dentro, c’era la gente dentro il pollaio, il maiale che urlava, Stanghellini andò dentro il pollaio e riuscì a beccare una gallina.

Io arrivai al piano sopra e come arrivai sopra, c’erano due donne che piangevano, erano disperate. Ho dato una guardata così e poi ho cominciato ad aprire i cassetti dei comò e degli armadi. C’erano dei cassetti dove c’erano anche dei soldi, dei marchi.

Non ce ne fregava dei soldi. Finalmente arrivai in uno sgabuzzino grande così, alto così con dei cassetti, aprii un cassetto e c’era della roba color nocciola, color cammello e pensai: questa è farina. Allora ho cavato il cassetto… però avevo già trovato prima, in un altro cassetto, dei vasetti con della carne, sotto grasso.

E allora me ne ero messo dentro alla giubba e presi questa cassetta di farina e mi avviai giù. Intanto, mentre andavo giù mi assalirono.

Della farina mi è rimasto solo quello che c’era negli angoli, un po’ era rimasta. I bussolotti me li tolsero tutti, me ne era rimasto uno solo. E così andammo.

Appena fatta questa razzia ci avviammo. Dopo un pezzo attraversammo il Danubio sopra un vecchio ponte ferroviario, attivo, c’erano i bombardamenti in corso, ma quello funzionava.

Siamo passati di là, subito di là, voi avete presente dove ci sono le grandi fabbriche siderurgiche lì dentro, andammo dentro una baracchetta lì, da una parte c’erano i fabbri e dall’altra c’erano i falegnami.

Di là c’erano già due o tre russi, in quella dei falegnami, di qua in quella dei fabbri andammo noi.

Poi cominciammo a parlare, loro erano là che provavano a cuocersi qualcosa.

Allora loro ci hanno dato un po’ di pastina, di robina e noi abbiamo dato loro un po’ di farina. Con la gallina abbiamo fatto il brodo e con il grasso del vaso abbiamo fritto le lumache, quando le bollivamo facevano…, hai mai visto cuocere le lumache? Sono buone, allora erano buonissime. Io le mangio ancora adesso.

Comunque, quelle prese e mangiate avevano un saporaccio.

Abbiamo mangiato un bel po’. Quando erano le dieci, le undici della notte abbiamo cominciato a stare male, sembrava di crepare e io capisco quelli che sono morti il giorno della Liberazione, erano centinaia.

Sembrava che lo stomaco si aprisse come una camicia, con dei dolori spaventosi.

Finalmente siamo riusciti a rimettere e ce la siamo cavata e abbiamo passato la notte. Il giorno dopo siamo andati in città e abbiamo trovato rifugio in una casa abbandonata, lì andavamo a frugare dappertutto, rubacchiavamo dove arrivavamo e trovammo una cantina, in una casa bombardata, andammo giù dalle scale, e c’erano delle reti, dei materassi, si vede che ci vivevano i cittadini prima del bombardamenti e ci siamo collocati là.

Poi andavamo fuori tre o quattro alla volta, a fare delle operazioni nelle cantine e rubacchiavamo dove trovavamo.

Una cosa bella, mi ricordo un giorno che giravamo sul marciapiede a Linz, incontrammo due vecchiettini di settanta, ottanta anni, ci parlavano in tedesco e non capivamo cosa dicessero perché non c’era Stanghellini con me, insomma abbiamo capito che ci dicevano: “Eravate prigionieri”. Insomma ci chiamarono dentro una porta, ci portarono in casa e ci misero a tavola. Ci hanno dato un pezzo di pane e un tegame con una specie di ragù dentro. Abbiamo mangiato, li abbiamo ringraziati e siamo venuti via.

Voglio dire che ce ne sono stati di atti di solidarietà e così iniziò la nostra peripezia del ritorno.

Staremo due o tre giorni a Linz, abbandonammo Gasiani perché una mattina eravamo lì, in giro alla ricerca sempre di mangiare, appoggiati contro una muraglia. Ad un certo momento Gasiani cominciò a cambiare colore: verde, giallo, stava male, poi cominciò ad avere una diarrea spaventosa, finalmente passò un soldato americano e abbiamo detto: “Lui male…” Lo prese e disse: “Vieni con me, anche voi venite con me”.

Allora ci avviammo dentro, avanti un pezzo, lui andò avanti e noi scappammo, eravamo lì in giro. Anzi, non scappiamo lì, lui venne con noi. Lo portammo nella cantina, volevamo offrirgli da bere perché avevamo rubacchiato in una cantina delle bottiglie di quel vino fatto di mele. Volevamo offrirgli da bere, quando ha visto… mi era parso che avesse un po’ paura.

Disse: “Andiamo all’ospedale, venite anche voi”.

E noi abbiamo detto: “Arriviamo”. Noi abbiamo preso la nostra roba e siamo andati.

Uscimmo da Linz e dopo un pezzo sulla strada per venire a casa, ci arrivò dietro un cavallo a galoppo e dopo un pezzo si fermò giù in un campo di fieno e allora ho detto: “Tenete che prendiamo il cavallo”.

Ho dato i fagotti che avevo io agli altri e mi sono avviato.

Io avevo abbastanza confidenza con i cavalli perché mio papà era stato anche birocciaio, avevamo tre cavalli noi. Mi avvicinai a lui…

D: Ti avvicini al cavallo…

R: Mi avvicinai al cavallo, lo presi per l’orecchio e poi con la corda che avevo di traverso gliela misi al collo e pian piano lo portai sulla strada.

Come arrivai sulla strada…, e di là urlavano, c’era il contadino che arrivava che veniva a cercare il cavallo, così io gli ho dato due colpi nelle costole e lui ha mollato.

Allora, finché ho potuto tenerci dietro, ci tenevo dietro, dopo rimanevo attaccato, mi dava delle ginocchiate intanto che andava.

Andavo finché potevo andare, avrò fatto più o meno mezzo chilometro, poi sono andato fuori strada, c’era una casona e andai a nascondermi là con il cavallo.

Dopo un pezzo sono arrivati questi miei amici e ho detto: “Allora com’è andata?… quando ha visto che scappavi, lui è tornato indietro”.

Allora lì ci siamo fermati un po’ a riposare e ci siamo avviati. Intanto mettemmo tutti i nostri fagotti sulla schiena del cavallo e poi gira, gira, dovremmo trovare pure una roccia per poter starci sopra, metterci qualcosa.

Dopo un paio di giorni che girammo così, andammo fuori strada e lì c’era una casa, ci girammo intorno, andammo di dietro e c’erano due fiacre, sai i fiacre cosa sono? Le carrozzelle della stazione di Roma, ce n’era uno grande, si vede che era da cerimonia, e uno normale.

Allora noi andammo lì, c’erano delle donne abbastanza giovani, trenta, trentacinquenni. Ci tiriamo fuori il biroccio e non trovavamo i finimenti, perché loro non avevano neanche i cavalli, altrimenti prendevamo uno dei loro e incominciamo con dei fili, degli stracci, dei sacchi a fare i finimenti, la briglia con degli stracci di sacco, il collare e le tirelle.

Insomma riusciamo a farla.

Tieni conto che quel fiacre aveva una stanga solo in mezzo, non è che come i birocci nostri.

Quando stiamo per partire, arrivò una jeep della Militar …, ci fece togliere tutto e così noi ci sdraiammo in terra, piangevamo lì come dei disperati. Finalmente uno di quelli lì che parlava un po’ d’italiano, un mezzo italiano, o i genitori erano italiani, convinse gli altri a raccogliere tutti i soldi che avevano per darli a queste donne.

Così li diedero a queste donne, ma non li vollero, loro non vollero dare…, allora si consultano e dissero: “Attaccate…” però noi non ci siamo visti.

Attaccammo questo cavallo, tutti sopra, ma quando stavamo per partire, incominciò ad alzarsi con le zampe davanti, non tirava, era un cavallo da sella, non era un cavallo da tiro. Allora fummo costretti a fare scendere giù uno e andare avanti, tenerlo per la briglia, andammo in strada e ci avviammo.

Per tutti i giorni facemmo così con uno davanti.

Una volta arrivammo in una salita, sopra, e ci toccò saltare giù perché non riusciva a tirarci sopra.

Comunque saltammo giù e arrivammo sopra su una discesa lunga.

Montammo tutti e Stanghellini guidava e io ero al freno, solo che era un freno che non frenava dolcemente, quando attaccava bloccava.

Allora ci avviammo, questo cavallo pian piano si avvia sempre un po’ più forte, arrivava un momento che lui non teneva più e allora disse: “Corazza, frena!” e io: “Se freno, si rompe la stanga”.

A un certo momento, il cavallo girò la strada, saltò il fosso e noi con le routine davanti rimanemmo impantanati dentro al fosso.

Uno di quelli che era a sedere là sopra, saltò contro il cavallo, Franceschini piangeva e sembrava si fosse rotto la spalla. Invece era solo la botta.

Ma guarda qui cosa facciamo? Cosa facciamo? Tiriamo su tutto, prendiamo il carro, andiamo dentro, tiriamo su il cavallo e andiamo dentro perché la stanga si era spaccata.

Andammo dentro da un contadino, prendemmo un palo, e cominciammo a legare questa stanga e ci avviammo.

Però il giorno dopo arrivammo in una salita, sopra c’era un valico, un passo, gli americani erano là e fermavano tutti i prigionieri perché volevano raccoglierli.

Poi per la strada tutti dicevano: “State attenti che ci sono le SS nascoste nei boschi che sparano sulla strada”. Allora, visto che non potevamo passare, andammo da un contadino a dire: “Ti diamo il cavallo e il biroccio, se tu ci dai del pane”.

“Ma non ho del pane”.

Insomma ci diede una tessera per dieci chili di pane, c’era la tessera come da noi e poi ci diede dei marchi, ma cosa ce ne facevamo?

Comunque prendemmo questa roba.

Cavalcammo fuori dalla strada, cavalcammo la montagna e andammo giù dall’altra parte, quando arrivammo di là c’era un campo di concentramento di militari italiani e andammo là dentro.

Allora dissero: com’è, come non è…. Quando si arrivò, c’era confusione… E dissi: “Noi abbiamo un papiro che si può viaggiare, solo che non abbiamo il mezzo che è rimasto di là”.

Saltarono fuori due di Ravenna dicendo: noi abbiamo i cavalli, il biroccio. Avevano il biroccio carico di sacchi di zucchero. E noi abbiamo il papiro.

Ci mettemmo d’accordo, loro vennero con noi, là rimasero due o tre dei nostri, credo Castellani e due di Imola. Li lasciammo lì al campo perché non ce la facevano più, ma il papiro era già scaduto perché aveva solo sei o sette giorni di validità e ci avviammo. Noi, con quel biroccio arrivammo al Brennero.

Al Brennero gli americani ci fermarono e ci tolsero tutto: cavalli, biroccio. Ci arrestarono. Non avevamo documenti, niente.

Ci hanno preso, ci hanno riportato al campo di raccolta di Innsbruck, e ci restammo cinque o sei giorni e lì ci siamo caricati di cimici, quelle erano grandi come le mosche.

Stemmo lì sei giorni ed infine un’auto colonna ci portò all’ospedale di Bolzano, di lì noi fuggimmo, venimmo via io e Stanghellini, ci portarono a Verona, con i due di Ravenna, con dei mezzi di fortuna a Ravenna.

Quando calammo dal camion a Verona ci portarono dentro una caserma, i due di Ravenna andarono dentro e io e Stanghellini fuggimmo e venimmo via. Trovammo un carbonaio, chiedemmo se ci portava verso Bologna, ma lui rispose: “Io vado a Isola della Scala”. Era già qualcosa.

Stanghellini andò dentro e io sopra, in mezzo al carbone a dormire e arrivammo a Isola della Scala.

Lì ci ospitarono le suore.

Ci dissero: “Volete da mangiare?” E ci ospitarono le suore.

Andammo là, e ci diedero da mangiare un bel po’ di pane, della minestra, ci hanno dato da mangiare.

Tornammo lì nel parco che c’è ad Isola della Scala, c’era un’autocolonna americana che stava venendo a Modena, andammo lì ad informarci, allora dicemmo: “Se ci prendono su questi qui, andiamo bene…” Cominciammo a pregare l’uno, l’altro, ma non ci volevano…

Finalmente Stanghellini trovò uno che lo caricò, e allora dissero: “Come facciamo?”

Allora Stanghellini e l’autista di Stanghellini l’hanno pregato dicendo: “Vai a dire a lui, che carichi lui quello di dietro…”, era un negro. E venne lì…, mi caricarono. Era uno di quei Chevrolet, e la cisterna era vuota. Montammo su, lui che andava, ogni tanto con la bottiglia del cognac, o non so che cosa, sentivo che puzzava e che beveva, con i piedi sul cruscotto, il camion faceva così, perché dietro quando è vuoto, se vai forte sbanda.

E pensavo: “Questo qui mi vuole ammazzare prima di arrivare a casa, che sono già qui”, pieno di paura anche lì.

Con tutte quelle strade con i canali di bonifiche di qua e di là faceva paura.

Arrivammo a Modena, come arrivati, appena mi scaricò saltai una siepe, andai di là e ne feci tanta, tutta quella che avevo.

Poi andammo via, e li ringraziammo.

Fuori di Modena, andammo dentro da un contadino, dicevamo qualcosa, ma nessuno diceva niente, allora andammo nella stalla, era aperta, ci mettemmo a dormire nel fienile, dove raccolgono il fieno, ci mettemmo a dormire, alla mattina, appena giorno, e sentimmo gridare, era il contadino che veniva a governare le bestie e ci trovò là, e gli spiegammo che eravamo prigionieri, che eravamo arrivati…

D: Come eravate vestiti voi?

R: Io ero vestito con della robaccia che avevo procurato nella fabbrica. E’ stata la prima cosa che ho fatto quando arrivammo all’officina, andammo su negli uffici a vedere, curiosare e trovai dei vestiti, mi cavai tutto quello che avevo io e mi misi della roba. Tu pensa, mio papà era un omone, era grande a mio padre e quando la metteva a casa, mi toccava tirargliela su delle volte.

Allora lui ci disse: “Noi non abbiamo da darvi da mangiare, fate una cosa: andate di là da quella strada, c’è quel contadino, vedrete che lui vi darà qualcosa”.

Andammo da quel contadino e gli dicemmo: “Guardate, siamo di ritorno dalla prigionia”. E così ci misero a tavola una bella caraffa di latte con del pane bianco, una zuppa… che abbiamo fatto una mangiata!

Abbiamo mangiato e siamo tornati lì. Lì abbiamo trovato un altro negro di quelli dalle scope sul camion, gli abbiamo detto che noi volevamo andare a Bologna, ci ha preso nel cassone e ci ha portati fino a Santa Viola, e lì ci ha scaricati, lì vicino al mulino, dopo a piedi, io e Stanghellini a braccetto, tutti stracciati, come degli zingari, avevamo il fagottino con i resti, gli avanzi di pane.

Quando ci avvicinammo a casa mia, vidi là davanti mia madre che venne fuori dal cortile dove abitava mia sorella e dissi: “C’è mia mamma con il mio fratellino”. E mi dissero: “Tu ti avvicini a casa e cominci a vedere tua mamma”. Ma come no?

Arrivammo come da lì a te, e dissi: “Mamma, non mi riconosci più?”

Allora cominciò ad urlare, venne tutta la gente.

Andammo in casa, mi spogliano di tutto ecc., cacciano la roba in un cantone, che attaccherò la scabbia a tutta la famiglia. Poi mangiammo e mi portarono al centro di raccolta dei reduci, andai all’infermeria di questo centro di raccolta e quando fui dentro che mi spogliai, la dottoressa mi cacciò fuori perché disse: “Tu mi vieni ad impestare tutto il gabinetto medico”.

Mi mise fuori, mi diede del cotone, dell’olio che bruciava, e disse: “Non posso tenerti.”

Allora mio padre cosa fece? Mi prese, saltammo in tram e andammo all’ospedale Sant’Orsola, ma anche là non mi volevano. Solo che da là non venivamo via.

Andò a parlare con le suore, intanto io dopo due minuti che ero là mi addormentavo, non disturbavo nessuno.

Finalmente lì mi tennero, ci misero in una camera in mezzo, in un letto provvisorio e così dopo aver fatto quarantadue giorni di ospedale, poi tornerò a casa.

Komel Maria

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Komel Maria, nata a Loca, Gorizia…

D: Quando Maria?

R: 01.06.1927

D: Prima della deportazione quando sei stata arrestata, perché e da chi sei stata arrestata?

R: Sono stata arrestata dai tedeschi insieme con i fascisti, il 25 giugno 1944

D: Dove ti hanno portata?

R: A Loca, dove sono nata, ma ci hanno portato a Moncorona, un paese vicino a Gorizia, ci hanno portati in una casa, in uno spazio grande, presso una casa e là hanno scelto gente per Germania, gente per torturare, hanno preso anche i partigiani, li hanno torturati … pazzesco!

D: Tu, Maria, perché sei stata arrestata?

R: Sono stata arrestata perché tutto il paese Loca, compresa Moncorona, hanno fatto un rastrellamento, hanno portato via tutta la gioventù, non solo, anche persone anziane che non sono più tornate, sono andate a finire, come noi, in campo di sterminio e non sono più tornate.

D: Un paese di quanti abitanti?

R: Moncorona è abbastanza grande, non saprei dire quanti perché è molto larga, non sono fitte le case, sono sparse di qua e di là, ma il mio paese, proprio dove sono nata, allora erano trentatre case, Moncorona non so dire quante.

D: Lì hanno arrestato tutti?

R: Tutti, anche i genitori, solamente i genitori li hanno mandati a casa ma a me hanno portato in campo di sterminio.

D: A Moncorona ti hanno interrogato?

R: No, ci hanno portato insieme con altri del mio paese, la mamma di un bambino di tre anni, nelle prigioni a Gorizia dove sono stati solo una notte perché si sono accorti che era uno sbaglio, il mio nome corrispondeva con il nome della signora che era con me. Mi hanno trasferito con le altre ragazze nella caserma dei fascisti sloveni, Domobranzi Belagarda, una notte. Il giorno 28 giugno con trasporto siamo andate a finire ad Auschwitz, il 1 luglio siamo arrivate.

D: Tu sei partita da Gorizia.

R: Da Gorizia!

D: In quante eravate sul tuo Transport?

R: Un Transport pieno perché non era solo la gente di Moncorona ma anche di altri posti, era pieno.

D: Vi erano anche uomini?

R: Sì, uomini e ci hanno divisi dopo, in Germania, noi donne siamo andate a finire ad Auschwitz mentre gli uomini in un altro posto, vi era anche un ragazzo della mia età, del mio paese, vicini di casa, non ricordo in che posto ci hanno divisi.

D: Nel vagone con te eravate tutte donne?

R: Sì, tutte ragazze!

D: Vi erano anche ragazze giovani, dei bambini?

R: No, vi era una ragazza incinta e non lo voleva dire perché suo marito era austriaco militare tedesco. Quando ha saputo cosa fanno in Germania è scappato ed è andato con i partigiani e i tedeschi lo sapevano, per quello questa ragazza non voleva dire con chi era sposata ed è andata a finire in campo di sterminio con me, ha partorito il bambino nel mese di gennaio con la neve alta, il bambino aveva dieci giorni ed è morto.

D: Avevate cibo e acqua a mangiare durante il trasporto?

R: Niente! Ci hanno portato solo acqua.

D: Quando dici che sei arrivata ad Auschwitz con il treno, intendi direttamente nel campo?

R: Sì, direttamente in campo, siamo arrivati ad Auschwitz, questo camino grande si pensava fossero fabbriche, ci siamo dette qua ci sarà da mangiare e faranno il pane, invece, proprio questa che era incinta incominciava a piangere, le abbiamo chiesto perché e ha risposto “Ragazze mie non sapete dove siamo arrivate”, infatti, sotto vi erano i militari SS che ci aspettavano per accompagnarci (siamo arrivate di notte), Auschwitz era suddivisa in tanti posti e uno di queste SS sapeva il serbo-croato e ci ha domandato a che religione appartenevamo e abbiamo risposto che appartenevamo alla religione cattolica. Ci ha risposto “Siete fortunate perché vedete quel fuoco? Se foste state ebree questa notte sareste andate dritte lì “.

Ci hanno portate dritte in una baracca, per terra era piena di acqua e ci hanno detto di distenderci per terra. “Come si fa?” .. “O così o resti in piedi”, questa gente che era nella camera che dormiva ci camminava di sopra di notte perché doveva anche andare alla toilette così abbiamo passato la prima notte.

Il giorno dopo ci hanno portato in un’altra baracca e lì ci facevano i numeri ……. Scusate, devo tornare indietro, quando siamo arrivati ci hanno fatti andare in questa baracca, in un grande salone, ci hanno spogliati nudi, tagliati i capelli, ci hanno tagliati dappertutto, ci hanno fatto andare su un lungo corridoio e alla fine ci hanno tagliato i capelli e là si doveva entrare in una vasca ma non si sapeva quanto era profonda per cui si aveva paura di entrare.

Dietro vi era un ufficiale tedesco che ci scortava, era una specie di disinfettante e di lì si passava dentro in un bagno grandioso con le docce e là ho visto delle ragazze senza i capelli, a me li hanno lasciati corti, senza capelli, e abbiamo preso paura perché si pensava che ci avrebbero messo insieme con gli uomini, invece, erano le ragazze con i capelli tagliati a zero e lì ci hanno aperto l’acqua un po’ calda e un po’ fredda e appena insaponate hanno chiuso l’acqua e si doveva passare avanti.

Nello spazio da dove siamo venuti vi era un mucchio di abiti sporchi di sangue e di tutto e ci si doveva vestire, più avanti un mucchio di scarpe, il paio nemmeno a parlarne, ti dovevi scegliere subito, di lì ci hanno portato in questo reparto e ci hanno fermati per dormire di notte.

Il giorno dopo ci hanno messi in fila e ci hanno tatuati i numeri e certe hanno stretto per cancellare ma se cancellavi erano botte perché loro ti chiamavano per numero, il nome non esisteva, tu eri un numero come le bestie per il macello perché là si aspettava la morte.

Ci hanno disinfettato sotto le braccia e sotto, un disinfettante che era una tortura, tanto male e non avevi niente per pulirti e lacrime che venivano giù, era veramente una tortura.

D: Ti hanno tolto tutto?

R: Tutto, tutto, non mi hanno lasciato nemmeno uno spillo, nemmeno un fazzoletto, hanno tolto tutto dicendo di mettere nelle nostre valigie tutte le cose che poi verranno restituite, chi le ha mai viste?

D: Maria, ti ricordi il tuo numero?

R: 82453

D: Ti chiamavano sempre con quel numero?

R: Sì, in appello, dappertutto quel numero, se non lo sapevi potevi anche finire male.

D: Lo chiamavano in tedesco?

R: Sì, in tedesco, anche in polacco perché le polacche erano tremende, erano veramente cattive forse più dei tedeschi.

D: A te che vestito hanno dato?

R: Mi hanno dato una specie di vestaglia tutta sporca ma disinfettata, dietro era una striscia, gli ebrei mettevano la striscia con la croce e a noi la striscia lunga.

Volevo precisare che insieme a noi c’erano anche gli ebrei per cui il trattamento era preciso, la differenza era che loro più facilmente andavano in crematorio.

D: Ti hanno dato anche un numero da mettere sul vestito?

R: Sì, sempre questo, il triangolo rosso “IT” Italia, erano diversi triangoli, triangolo rosso significava politica, triangolo nero criminali, triangolo verde prostitute, se non sbaglio.

D: Poi ti hanno mandato nel blocco?

R: Sì, nel blocco n. 8, nel reparto A vi erano i bambini, nel reparto B eravamo noi ecc., ogni giorno si doveva fare il bagno. Si doveva stare sempre nudi in file fuori e dall’altra parte del reticolato c’erano uomini nudi, ormai ci eravamo abituati altrimenti si prendevano botte, appena davanti al bagno ci facevano spogliare nudi e là si aspettava la fila dove si andava a fare i bagni, acqua calda bollente e non si arriva mai a sciacquarsi, si era sempre insaponati, se si aveva il sapone, altrimenti niente perché distribuivano le saponette ma non si portavano in baracca, si dovevano lasciare lì per gli altri e là vi erano altri vestiti, sempre sporchi ma disinfettati, per quello erano bravi perché se vi era sporco arrivavano le malattie.

D: Come ti ricordi il blocco, era grande, eravate dentro in tante donne?

R: Era grande, con le camere da letto, erano al piano, era uno spazio di pochi metri, 1,5 x 1,5 e si dormiva in dieci come sardelle, quando si alzavano le coperte si doveva mettere a posto perché poi passava il controllo, se una coperta era malmessa si prendevano legnate.

D: Maria, non sei mai stata punita?

R: Non solo io, con il gruppo. Dove si lavorava si andava fuori, un giorno ci distribuivano i coltelli per tagliare gli alberi grossi, era vicino al fiume e si tagliavano questi alberi; un giorno a queste SS mancano le sigarette e non si sapeva chi era stato ma ci hanno fatto inginocchiare su una sabbia fine per due ore, quando ci siamo alzati il sangue veniva fuori dalle ginocchia. Fino a che non è venuto fuori chi ha preso le sigarette, notte e giorno si doveva stare lì o andare tutti a finire in crematorio, è venuto fuori che le sigarette le ha prese una signora che non so se era ebrea o cattolica, quella è andata finire in crematorio. Dove si lavorava distribuivano la mensa …. Quelle pignatte grandiose che ci facevano portare a noi, facendoci ogni tot metri cambiare per non stancarsi troppo, solo che quella persona tutto quel tratto di strada doveva portare la pignatta da sola senza cambiare e non appena siamo arrivati al portone ci hanno fatti andare avanti e l’hanno portata via di là immediatamente in crematorio. Ora non importava se era cattolica, per venire nel campo la banda suonava e ci accompagnava, erano tutte le donne che suonavano…

D: Lasciavate il campo per andare a lavorare, a tagliare questi alberi lungo un fiume ?

R: Vi erano anche altri posti perché ogni tanto ci cambiavano posto, era bruttissimo, erano 27° sotto zero d’inverno senza mutande, senza calze, senza cappotti, come siamo rimasti vivi non lo so!

Il lavoro era di scaricare nella stazione i treni, portavano queste grandiose pietre, si doveva scaricare questi sassi, sono scivolata e mi sono tagliata qua, il tendine, infatti non posso piegare il dito. Lì c’era una baracca dove vi erano anche operai civili, il comandante degli operai mi ha fatto andare in baracca, mi hanno disinfettato e accompagnato e a questo comandante gli sono venute le lacrime agli occhi.

D: Quanto tempo sei rimasta in questo comando di pietre che dicevi a meno 20°?

R: 27° sotto zero, tutto il giorno, per andare a mangiare si andava in un grande spazio, una baracca e là si veniva da tutte le parti, deportati da tutte le parti, uomini e donne e là ci davano da mangiare. Un giorno abbiamo visto da lontano una fila di uomini e uno era messo in parte, non era insieme agli altri. Appena siamo arrivati là ci hanno fermati, non hanno distribuito da mangiare, quel giorno da mangiare è tornato tutto dentro il campo. Questo giovane già era pieno di sangue, come esempio per tutti hanno incominciato a picchiarlo, questo SS era ufficiale, prima ha spaccato le sedie, pezzi di legno, poi schiaffi, calci, è caduto per terra ….. mi viene da piangere …. Faccio uno sforzo per dirvi questo, è caduto per terra tutto insanguinato, non aveva più forza per muoversi ma lui ha spaccato le sedie, i tavoli, era tutto un sangue, poi sono venuti con una barella e l’hanno portato direttamente nella camera del forno e l’hanno finito solo perché ha preso due patate. Quel gruppo ha lavorato Kartofell bunker che era da fare con patate, perché loro mettevano le patate sotto terra e questo poveretto ha preso due patate per mangiarle e questo ufficiale ha detto “Che questo vi sia da esempio a tutti”.

D: Una volta hai preso il Gummi? Perché?

R: Quando non serviva portarci fuori a lavorare si restava dentro in campo e si andava in cerca di qualche cosa da mangiare. Ho visto in un fosso non profondo, ogni tanto vi erano dei fossi per buttare le immondizie, ho visto questo biscotto … avevo una fame! … sono andata dentro e ho preso questo biscotto. Come sono uscita la capa SS del campo di sterminio, aveva un manganello sempre qua legato, era di gomma e con quello bastonava ed è corsa dietro a un’ebrea che non so che cosa ha fatto.

Disgraziatamente sono arrivata davanti ai suoi piedi, mi ha dato uno di questo sulla schiena e sono caduta per terra con un dolore pazzesco, le mie compaesane mi hanno tirata su e mi hanno fatto sedere e mi hanno calmato. E’ stato terribile!

Quando non si andava a lavorare si andava a veder che portavano i morti, era una baracca solo per questo, per portare questi morti e noi curiose siamo andate a vedere dentro, vi era un mucchio di morti e questa ragazza era giovane, una bella ragazza e ha messo giù questo braccio, era ancora viva, loro sono andati via, se non eri morta morivii lì perché ti portavano altri cadaveri di sopra.

Vi dico le torture più impressionanti: quando finivano di distribuire il mangiare che non bastava mai perché era pochissimo, si andava in giro quando mettevano fuori questi bidoni grandi, si andava a cercare di prendere qualche cosa, vi era una mia compaesana anche lei giovanissima come me, si guardava in giro per mangiare, dopo viene fuori il capo del blocco e ci ha cacciato via ed è caduta per terra su una pietra rompendosi un ginocchio e non so quanti punti hanno dato in ambulatorio, punti di ferro. Nel frattempo, otto giorni, che doveva togliersi i punti sono venuti nel campo a scegliere le ragazze più forti ed è stata scelta sua sorella. Dalla disperazione che sua sorella è andata via ha pianto tanto, non voleva nemmeno tirarsi via i punti, l’abbiamo sforzata tutti e ormai andava già in cancrena. Nel frattempo ci hanno trasportati sempre ad Auschwitz ma in un posto dove vi erano gli ebrei che sono rimasti e li hanno messi in crematorio e noi in quel campo. Questa ragazza non è più tornata, lì è morta, l’hanno portata in una specie di ospedale sempre dentro in campo ma abbiamo saputo dopo dalle ragazze che hanno lavorato lì che hanno portato i fiori. In questo campo un’altra tortura, si vedeva ogni giorno passare i camion pieni di cadaveri ma tutti questi cadaveri erano pieni di lividi, grandi, blu, neri, non si sa se li torturavano. Si stava male, veramente male, il mangiare era sempre meno e non si desiderava altro che saziarsi e morire perché loro ti riducevano in una maniera che desideravi la morte, la tua liberazione, la morte che venga prima possibile per morire. Quante volte ho detto “Mamma, perché mi hai fatto, se sapevi quanto soffro!”

D: Maria, parli di mangiare, ma in realtà che cosa vi davano?

R: Con rispetto parlando, io sono contadina ma i maiali a casa mia mangiavano meglio di noi. Le patate con il mestolo, con la sabbia te le buttavano là, non vi erano forchette, cucchiai, magari di notte, con rispetto parlando, certe che non andavano lontano al gabinetto perché era lontano la facevano là, magari tu mangiavi senza acqua, senza niente, l’acqua era come avvelenamento perché se la lasciavi lì un quarto d’ora venivano gocce di ruggine di sopra. Infatti, era proibito bere l’acqua, si mangiava neve in inverno e si calmava anche la sete.

Volevo dirvi questo del campo, ho dimenticato gli appelli, si stava ore e ore dritti su un appello, in estate che era caldo cascava per terra chi era più debole, non vi era via di scampo, si tentava di tenere su la persona ma non appena venivano a contarti vedevano subito, magari si metteva dietro la persona seduta e loro vedevano subito, la tiravano fuori e poi di quella persona non si sapeva più niente.

Un giorno vi era un rastrellamento, quel giorno si andava a lavorare. Un ufficiale con la tavola, quelli più sani li mandava da una parte, gli altri andavano a finire in crematorio. Vi era una mia amica che è di qua, di Trieste, fuori Trieste e prima di venire su era da 15 giorni a Trieste torturata dalla banda Collotti; ora non vogliono dire queste cose ma vogliono nasconderle. Questa donna mandava ogni giorno i vestiti a mamma a casa pieni di sangue. Quando l’hanno trasportata in campo ad Auschwitz, dopo tanto tempo le sono venute vesciche e croste. L’hanno vista e messa da una parte per il crematorio. la capa del blocco ha visto, dopo questi ufficiali consegnava alla Blockowa le liste e ha visto questo numero e l’ha scelta fuori, a rischio suo l’ha presa fuori da quella fila ed era cecoslovacca, non polacca altrimenti andava a finire dentro, oggi vi era solo cenere di lei e così l’ha salvata.

D: Maria, sei rimasta tutto il tempo ad Auschwitz, la Liberazione come te la ricordi?

R: Volevo dire ancora una cosa: negli appelli era una tortura perché venendo dal lavoro si veniva ancora con il chiaro e si restava ore e ore in quell’appello, d’inverno al freddo, ci si stringeva una con l’altra per farsi caldo, nevicava, eravamo già inzuppate dall’acqua, freddo ai piedi, quando i signori comandanti ci venivano a contare se mancava uno si poteva stare anche tutta la notte fino a che non trovavano la persona. Quando siamo arrivati in baracche, la tortura che era dei piedi, prima ghiacciati poi si scaldavano perché erano al riparo, era tutto un piangere dal tanto dolore e quello che era peggio è che il giorno dopo dovevi mettere i vestiti bagnati e stare sugli appelli ore, ore e ore, era una grande tortura, si diceva “Quando finirà questa tortura?”. Vi dico le cose che mi ricordo.

D: Come lavoro a Birkenau sei uscita dal campo per tagliare quegli alberi?

R: Poi scaricare quelle pietre, nei campi si lavorava, lavori brutti, pesanti ma quello era tutto sopportabile, quello che non si arrivava a sopportare, quando passavi vicino a qualcuno che pendeva, l’impiccavano. Ho visto una ragazza mancare, l’hanno trovata i cani, si era nascosta sotto le radici di un albero e i cani l’hanno trovata e sbranata, era tutto un pezzo di carne che pendeva di qua e di là.

D: Maria, la Liberazione?

R: Il 20 gennaio del 1945 ci hanno portati via da Auschwitz, hanno distribuito i viveri, a ognuno hanno dato una pagnotta di pane, poi un salame dolce, non so che cosa era, poi una specie di margarina e basta. Si portava una pignatta del latte per l’acqua per strada e abbiamo camminato tre giorni. Di notte ci fermavano sul posto e per strada ogni tanto alle fontanelle dell’acqua e le signore aspettavano con i mastelli di acqua per darcela. Chi era fortunato ma le SS le mandavano via e le bastonavano anche, erano civili di campagna, per strada ogni tanto vedevi sulla neve del sangue perché chi cascava per terra non si poteva tirarlo su, lo fucilavano sul colpo e lo spingevano fuori dalla strada dove vi erano dei fossati e lì finiva.

Per fortuna di notte ci fermavano, altrimenti, non si poteva perché tra indeboliti di tutto, mancava l’acqua, si arrivava a mangiare un po’ di neve ma non lasciavano fare nemmeno quello. Dopo tanti giorni si arrivava finalmente in una stazione ferroviaria, si aspettava il treno e si prendeva l’acqua che si riempiva per i treni, per i macchinari e lì ci hanno fatto andare sul treno, vagoni aperti dove trasportavano carbone, legna, e veniva giù neve ma si stava insieme, ci si scaldava e ogni vagone aveva il suo comandante, il suo militare che ci faceva la guardia. Da un vagone si è buttata una ragazza, questo ha sparato e finalmente siamo arrivati a Ravensbrück dove siamo stati tre settimane dove ci hanno dato solo tre volte da mangiare, per fortuna avevamo roba ancora da Auschwitz ed eravamo abituati a mangiare pochissimo, lì vi era quella giovane sposa che ha partorito sul treno, era sul vagone insieme a me, incominciava con le doglie e questo militare non sapeva che cosa fare, eravamo fermi alla stazione di Ravensbruk, un campo di sterminio solo di donne. Incominciava a perdere acqua e sangue, l’hanno portata dentro e ha partorito questo bambino, diceva che era un bambino bellissimo ma dopo dieci giorni è morto. La sua preoccupazione era cosa dire a suo marito quando sarebbe tornata a casa, se fosse tornata.

Quando lei è tornata a casa ha saputo che hanno fucilato il fratello, il marito e il papà non è più tornato a casa, ha perso tre persone care, infatti, non è più normale.

Dopo Ravensbrück siamo andati a Neustadt-Glewe

D: Scusa, a Ravensbrück siete rimaste tre settimane?

R: Tre settimane, e ci hanno dato tre volte da mangiare.

D: Ti hanno dato anche un altro numero?

R: Sì, ma non me lo ricordo, 73 o 79 …. Non lo ricordo.

D: Andavate a lavorare a Ravensbrück?

R: No, sempre dentro, baracche chiuse, ci hanno lasciato solo visitare qualche baracca, infatti, ho visto una famiglia che era di un paese vicino al mio, tutta la famiglia, mamma e tre figli, la mamma è morta lì, mi ha chiamata e mi ha detto “Dove siamo venuti?”, piangevamo insieme e non ho più visto questa mamma. Una è tornata erché le altre due sono morte dopo libere, hanno mangiato roba con diarrea, con rispetto parlando, e sono morte.

Non è finita ancora, siamo andate a Neustadt-Glewe che era in un posto più che brutto pericolosissimo perché le nostre baracche erano proprio messe in un posto, dietro di noi vi era l’aeronautica, nel nostro campo vi era un magazzino di armamenti, dall’altra parte vi era un campo aeronautico…

A Neustadt-Glewe la distribuzione del mangiare, quello che ad Auschwitz distribuivano per quattro persone lì per dodici persone, era un quarto di acqua, nemmeno, un bicchiere di acqua sporca e una fettina di quel pane sottilissimo che si poteva vedere oltre, ogni ventiquattro ore, ci mancava tutto.

Ci facevano anche andare a lavorare. All’appello ci si aiutava una con l’altra, pieni di cimici e di pidocchi, una cosa impressionante, non ci si lavava mai perché non vi era acqua, di corpo, con rispetto parlando, non si andava, prima di tutto perché era fuori, era fatto a pali e vi erano questi militari che camminavano di qua e di là, l’intestino non funzionava più.

Per andare all’appello eravamo tutte sedute per terra, queste SS erano donne, capivano che non si poteva stare su e dicevano “Tutte sedute”. Ci facevano alzare, andare nei boschi a lavorare e a scavare le trincee. Quando vi erano le SS facevano lavorare, ma quando vi erano i militari e altri no; dicevano di stare seduti e lui diceva sempre “Come volete che Hitler non vinca la guerra, guardate cosa ci danno da mangiare!”

Quello che ci davano ad Auschwitz davano i militari, le patate buttate per terra ma da mangiare era una cosa, nemmeno ai maiali davano cose così cattive da mangiare, quando ad Auschwitz davano da mangiare una certa cosa bianca, nessuno la mangiava, non so che cosa fosse, con tutta la fame ma veniva da rimettere, non abbiamo mai saputo che cosa fosse.

Finendo con Neustadt-Glewe quando si usciva, si vedevano per strada uomini ma non si arriva a capire se erano nel nostro campo o in altri campi, si vedeva questa gente, civili che portavano pagnotte di pane sotto le ascelle. Figuriamo questi uomini affamati, una volta li hanno assaliti e hanno preso questo pane, erano senza mangiare da non so quanto tempo e hanno preso questo pane, tutti senza mangiare da non so quanto tempo per castigo.

Un giorno di aprile, maggio, hanno fatto uscire tutti dalle baracche e ha parlato il capo del campo perché Neustadt-Glewe era comandata sempre da Ravensbrück ma il nostro comandante aveva l’ordine di mettere tutta la gente nelle baracche, sparpagliare la benzina e dare fuoco sul vivo. Lui ha risposto che non avrebbe mai fatto questo e noi siamo stati contenti di salvarlo perché se voleva poteva anche ammazzarci e ha detto “State tutti in appello e vi distribuiremo tutto il mangiare che abbiamo in magazzino”.

Quando ha detto così chi restava fermo con tutte le nostre forze andava, ma se si cadeva per terra nessuno ci salvava perché ci si calpestava. Siamo arrivati nel magazzino, ho mangiato miele, carne e zucchero, tutto era asciutto dentro e poi ho avuto terribili dolori di pancia, un dolore pazzesco, con rispetto parlando sono andata al gabinetto delle cape che era dentro, sono stata dentro più di due ore e non riuscivo poi finalmente mi ha preso, con rispetto parlando, la diarrea per non so quanto tempo. Tutti questi tre giorni tutti con questa diarrea fortissima e tanti sono morti, tantissimi, dopo liberi, tutte quelle sofferenze durante la guerra per poi morire lì ma volevamo solo saziarci, nemmeno sognarci più di andare a casa, solo saziarci.

A mio marito fa tanta pena quella donna, l’ha conosciuta per parte mia. Fa veramente pena a tutti perché ha sofferto, ho sofferto io, lei ha sofferto il massimo dei massimi perché a lei non bastava perché aveva il latte e non potendo allattare marciva dentro, una cosa pazzesca, quella donna ha sofferto terribilmente.

D: Maria, dopo che sei andata a mangiare il miele in magazzino che cosa è successo?

R: Non eravamo ancora liberi, era verso sera, tutto ad un colpo si vedeva il portone dove sono venuti tanti uomini in aiuto con picconi perché il portone non era ancora aperto e dopo incominciava ad aprirsi ma loro spaccavano i fili elettrici, a parte che non c’era più l’elettricità, per farci uscire più presto possibile. Poi ci hanno trasferiti dall’altra parte nelle baracche degli aviatori, eravamo liberi dai russi perché nemmeno loro avevano da mangiare. il comandante ci ha fatti andare a Neustadt-Glewe città, eravamo cinque persone con un militare russo, ci accompagnava per non lasciarci soli, perché era tutto vuoto, non vi erano persone, si cercava da mangiare. Siamo capitati in un appartamento, vi era un vecchio, una giovane, non so se figlia, con un bambino piccolo in culla, a questo militare è venuto da piangere nel vedere questo bambino piccolo, ha pensato ai suoi a casa, e ha detto “Se avete da mangiare dateglielo”. Si è messo in ginocchio per lasciare in vita questa giovane, non per me ma per loro, ha detto, infatti, abbiamo dato il nostro mangiare.

Ci ha ringraziati tanto, ci ha stretti e baciati, poi siamo andati via, ad un colpo mi sento sola, sono entrata in un appartamento, ho visto l’armadio aperto, ho preso paura perché sono rimasta sola, sono corsa fuori e finalmente ci siamo ritrovati e siamo andati via e siamo tornati in campo e abbiamo dormito, abbiamo cucinato sole, sempre nella baracca, in una stanza dove vi era un militare russo, siamo stati tre giorni poi ci hanno trasferite in un posto sotto gli americani, siamo stati quindici giorni e ci hanno dato bene da mangiare e poi di nuovo sotto gli inglesi a Lubecca, il 3 maggio, giugno, luglio, agosto, siamo stati tre mesi e mezzo, ed eravamo insieme con gli ex militari italiani, era veramente bello perché ci invitavano queste donne a pranzo, abbiamo anche ballato, era veramente, veramente bello, ho bellissimi ricordi dei nostri ex militari …. Veramente bello perché ci guardavano come fossimo sorelle e lì si nascondevano anche degli SS. Ogni tanto veniva il rastrellamento, sotto gli inglesi era tremendo e avevano ragione. Sotto la finestra della nostra camera si fermavano sempre in due perché noi si parlava lo sloveno, questi erano croati istriani, nessuno li lasciava entrare perché era anche ordine degli inglesi di non lasciare nessuno dentro, venivano i nostri ex militari italiani a trovarci ma altri non lasciavano entrare nessuno. Con i nostri ragazzi eravamo come fratelli e sorelle, era tutto un ben volersi, non amori ma una fratellanza bellissima, andavamo veramente d’accordo.

Tutto a un tratto uno degli ufficiali ha detto “Sapete quello che veniva sotto alla vostra finestra cosa era? Un militare ma non sapete che militare era”, poi ha detto “era in camera degli altri compagni di camera, quell’ex ufficiale italiano …” non ricordo i nomi, solo di uno che si chiamava Gianni. Questo ufficiale ha detto “Ecco perché non si spogliava mai la maglietta di sotto, aveva il tatuaggio SS” e così sono andati a finire… perché se erano sotto gli americani potrebbero essere ancora vivi.

Ci sarebbero altre cose ma dopo libere non credo che abbia tanto …..

D: Quando sei rientrata in Italia?

R: Non avevano i mezzi per portarci via, Amburgo era tanto lontano, questa era Lubecca ma doveva portarci fin su, finalmente hanno riparato i binari e si poteva rientrare a casa con il treno.

Sono tornata a casa il 1 settembre del 1945, il viaggio era molto lungo, non ricordo nemmeno quanti giorni ma era un viaggio felicissimo.

D: Ti ricordi che viaggio hai fatto?

R: Siamo venuti nel nord Italia dall’Austria, dal Brennero, ci siamo fermati al confine con l’Austria parecchie ore e mi ricordo che vi era un fiumicello stretto, siamo andate a fare il bagno, non si vedeva il fondo ma almeno per lavarsi un po’. Dopo tanto tempo ci siamo finalmente lavate dopo che siamo state liberate, pensate quanti mesi senza lavarsi, come può una persona stare così sporca, piena di cimici, di pidocchi.

D: Sei poi arrivata a Trieste?

R: No, Trieste, a Gorizia perché sono nativa di là, poi siamo rimasti sotto la Jugoslavia, il mio territorio era sotto la Jugoslavia, poi sono andata a Capo d’Istria dove ho conosciuto mio marito, ci siamo sposati e siamo venuti a Trieste nel 1956 perché si voleva andare in America ma non vi era più spazio, in Australia era troppo lontano ma mi dispiace non essere andata.

Massari Giovanni

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Massari Giovanni.

D: Nato?

R: A Castiraga Vidardo. Provincia di Milano.

D: Quando sei nato?

R: 2 Aprile 1925.

D: Giovanni ci racconti la tua storia da quando sei stato arrestato?

R: Incominciamo dalla montagna. Eravamo in montagna; un grosso rastrellamento, allora ci hanno chiesto di aiutare tutti, di aiutarci a vicenda per far fronte a quelli che arrivavano, tedeschi o… Ve bene. Non volevano che andassi, ad ogni modo ho voluto andare. Vado anche io, vado anche io e siamo andati. Siamo andati su di una montagna dalla parte di Pradleves Val Grana. Sono circa 1000 – 1200 metri circa, lì c’era una casetta, dovevamo fare la guardia a tutto quel costone di montagna. Due ore per ciascuno di notte.

Lì si vedeva tutta la pianura tranne che quel mattino lì c’era nebbia. Ad ogni modo di notte non è successo niente. Viene il mattino, finito i nostri compiti Lì si vedeva tutta la pianura tranne che quel mattino lì c’era nebbia. Ad ogni modo di notte non è successo niente. Viene il mattino, finiti i nostri compiti siamo scesi, eravamo, del mio distaccamento eravamo in due, poi c’era un altro di un altro distaccamento, poi c’erano altri due di altri distaccamenti e siamo scesi tutti assieme. Diretti alla centrale.

D: Scusa Giovanni, quando avveniva questo, in che periodo, in che mese, in che anno?

R: Nel periodo di novembre principio di dicembre.

D: Di che anno?

R: Del 1944.

D: Ma quando tu parli di distaccamenti, sono distaccamenti militari o erano formazioni partigiane?

R: Partigiani. Formazione partigiana.

D: Quindi tu eri un partigiano?

R: Esatto.

D: Di che formazione eri?

R: Giustizia e Libertà.

D: Quanti anni avevi allora Giovanni?

R: 19 anni.

D: Allora siete scesi dalla montagna.

R: Siamo scesi e siamo andati al comando. Al comando non c’era più nessuno, sono andati via. Cosa è successo? La gente fa “Ma siete ancora qua? Sapete che ci sono in giro i tedeschi?” Va bene, noi andiamo al nostro distaccamento.

Strada facendo, a fianco di solito c’erano quei tronchi di albero che loro mettevano attraverso la strada per qualche incursione tedesca. Non c’erano più. Erano spostati. Se si trovava la gente diceva “Andate su per i sentieri perché ci sono in giro i tedeschi”. Noi su per il sentiero siamo andati su al nostro distaccamento. Quello là è andato al suo distaccamento che era più in alto di noi e noi due siamo andati al nostro posto al nostro distaccamento. Là non c’era più nessuno. La gente del posto ci ha detto “Hanno lasciato un biglietto, se volete raggiungerli sono al tal posto così e così, Città del Fieno”. “Dov’è?”. Il mio amico che era di Cuneo, dice “Io l’ho fatta una volta, andiamo?”. Ma sul biglietto c’era scritto “Partite di notte”. “Ma no, dice, partiamo di giorno perché altrimenti io la strada non la so più”. Come si fa? Già sparavano in giro, sparavano. Porca miseria.

Allora che cosa si fa, su per la montagna, dobbiamo cavalcare la montagna e andare giù dalla parte di là. E su, e su, e su questa montagna, quando siamo arrivati in cima non c’era più vegetazione, non c’era più niente. Non so l’altezza di preciso. Si sentiva sparare da tutte le parti, ma dove sparano. Noi andiamo giù di là, e chi si è visto, si è visto.

Strada facendo per andare giù dal costone della montagna abbiamo sentito dire “Mani in alto. Mani in alto”. Ma io sono rimasto pietrificato. “Cosa state facendo”, dicevo. Credevo erano partigiani, invece erano tutti tedeschi. Una raffica di mitra per aria, avevano quella mitraglietta lì ed abbiamo alzato le mani. Non c’era niente da fare. Sono saltati fuori, saranno stati un centinaio. Nel bosco e nei dintorni lì. Sono venuti là e prima di tutto ci hanno tolto il fucile, la cintura, che cadevano persino i pantaloni. Mi hanno preso per qua e mi hanno detto “Adesso venite con noi”. “Dove sono i partigiani, dove sono i banditi?”, loro non chiamavano partigiani, “Dove sono banditi?” Ed io “Guarda, a dire la verità arriviamo qua adesso”. Ad ogni modo lì sono venuti tutti, tedeschi, fascisti, brigate nere, ce ne erano di tutti i colori…venivano da Milano. Quei fascisti lì erano collegati con i tedeschi e venivano da Milano.

D: Giovanni ti ricordi che giorno era quando ti hanno arrestato?

R: Quando mi hanno arrestato non lo so. Lì ho perso tutte le bussole.

D: Era inverno però?

R: Sì. Era il mese di novembre, la fine di novembre. Perché mi ricordo che il 28 novembre, anzi, ottobre è nevicato e dopo un po’, eravamo in dicembre, adesso non lo so.

D: E dopo da lì dove ti hanno portato?

R: Lì ci siamo incamminati e si andava giù dalla montagna e dicevano “Tutti Kaputt”, via tutto e siamo rimasti là con i pantaloni e la giacca e basta. Porca miseria. E siamo andati giù al comando. Giù al comando c’erano radunati tutti i fascisti e tedeschi, un disastro di militari.

D: Ma dove, in che paese?

R: Era Pradleves, Val Grana. Lì hanno incominciato l’interrogatorio. “Dov’è la benzina, dove sono i banditi, da dove venite…” ed hanno incominciato a picchiare. Lì insieme ai fascisti che c’erano lì e che venivano da Milano ce ne era uno che conoscevo e mi ha detto “Ma io ti conosco, tu sei di San Donato”. Perché io abitavo a San Donato. “Sei di San Donato” e lui era di Noceto, Porto di Mare e dalle parti di Piazzale Corvetto a Milano, Cascina Grande verso Chiaravalle. Abitava lì lui. “Ma io ti conosco, sei venuto là ad aiutare a buttar giù il fieno dalla cascina quando c’erano i bombardamenti ed ha preso fuoco la cascina”. “E sì, ho detto, eravamo sbandati”. “Va bene, fa, hai fame?” “Altroché, gli ho detto” “Hai le sigarette?” “Non ho niente, sono qui così”.

Mi ha dato tre sigarette, e mi fa “Adesso parlo con il comandante, se posso tirarti dentro qua, vieni a Milano, poi te ne vai, più importante è arrivare a Milano”. ” Va bene, prova”. Difatti è andato dal comandante, ed il comandante, sentivo, in quel momento è corso là uno di loro, non tedeschi, fascisti e mi fa “Cosa hai in mano?” ” Mi ha dato tre sigarette quel signore là”, ” Ma sei pazzo, gli ha detto a quello, tu sei matto a dare la roba ai partigiani”, che loro chiamano banditi. “Ma io lo conosco quello lì”, “Non mi interessa”, mi ha preso le sigarette, le ha rovinate e le ha buttate via. Intanto il mio amico parlava con il comandante, io lo chiamo amico perché abitava nelle vicinanze di San Donato.

È andato là e gli fa “Fallo venire qua”, io sono andato là, mi sono presentato, mi fa ” Di dove sei?” “Di San Donato”, mi ha guardato in faccia “Non hai vergogna, siamo tutti di Milano noi, siamo tutti di Porta Romana, non hai vergogna ad essere qui in mezzo a questa gente qua, in mezzo ai banditi?” Cosa potevo rispondere io, io ero al militare e sono scappato dal militare, per forza ho dovuto fare, però non glielo ho detto. “Vattene a posto”, mi ha sputato in faccia e fa “Ringrazia Dio che ti hanno preso i tedeschi, se ti prendevamo noi ti fucilavamo subito.” Io sono andato a posto e lì ha cominciato a prendere anche degli altri ed interrogarli, ogni tanto venivano là: “Vieni qua, dove sono i partigiani, dov’è la benzina, dove sono le munizioni, dove sono andati banditi?” Per il momento non picchiavano.

Viene la sera. Viene la sera tutti fucilati. Difatti eravamo in tredici. Tredici tutti là contro il muro, dietro l’albergo. Perché c’era il comando, era dentro l’albergo il comando di Pradleves in Val Grana, dietro c’era la mura. Volevano fucilare l’albergatore, volevano, c’era la moglie che impazziva, noi eravamo là contro il muro così. Viene là il tedesco, fa “Banditi, sì, banditi”, uno di quelli che avevano i gradi, “Te, fucilare”, arriva uno con il moschetto, con l’elmetto, fuori. L’hanno portato non so dove e si è sentito il colpo, uno è andato.

Poi “Te, dove sono i banditi, dove sono ecc,” “Non lo so”, “Fuori, fucilare”. Fucilare e quello là va fuori e si sente il colpo anche a lui. Poi fa segno a me, “Te fuori, no te, quello di fianco”; io tiro un po’ il fiato e di fatto è uscito quello di fianco a me e stessa fine. Sentito il colpo “bum”. Bene, lì così dopo un po’, dopo che hanno interrogato tutti sono venuti fuori tutti quelli là, “Non vi hanno fucilato?” “Non lo so, ho sentito il colpo, ma vedevo ancora il muro. Ci è andata bene.” Lì allora ci hanno chiusi nella cantina quella sera lì, nella cantina ogni tanto ne buttavano dentro uno. È venuto dentro un francese. Quando sentivi aprire la cantina, ne hanno buttato uno dentro per forza, era un francese. E non si capiva che cosa diceva. Tutto così.

Al mattino altro interrogatorio. Fuori dalla cantina c’era un’osteria lì vicino, eravamo nel gioco delle bocce, tutti là ad aspettare l’interrogatorio ed andava dentro uno per volta nell’osteria e là viene fuori uno con una faccia così. Ne hanno date chissà quante. Poi sotto un altro, poi sono andato io. Dentro.

Dentro erano là in quattro, uno picchiava di qua e mi buttava su quello là, quello là mi picchiava e mi buttava sull’altro. Facevano il giro, ma pugni e pedate. Volevano sapere dove era la benzina e dove erano le armi e dove erano andati banditi. Sempre questo. “Ma io non lo so, non so niente, che ne so io dove sono andati e dove era la benzina”. Noi eravamo su in cima alla montagna, non so cosa succedeva giù qua e giù botte.

Ad ogni modo dopo mezzogiorno ci hanno caricato sul camion, sul camion via, e vai e vai siamo andati a Saluzzo. Ci hanno rinchiusi nel Castello di Saluzzo al primo piano. Si vedeva in un angolo della finestra un po’ di pianura, faceva un freddo. Si vedeva tutta la campagna bianca, tutta la brina che c’era. Lì tutti i giorni interrogatori, però non picchiavano. Siamo andati in una Chiesa, nella Chiesa del Castello. Sembrava proprio Schuster, assomigliava tutto a Schuster nel parlare e diceva “Dove sono banditi? Perché sei qua? Da dove vieni?” Interrogatori così.

D: Sempre tedeschi che ti interrogavano?

R: Eh?

D: Erano sempre i tedeschi che ti interrogavano?

R: Sì, sì. Non si andava fuori dalla stanza del Castello senza la guardia tedesca. Questo sembrava un prete. Mi interrogava e dopo alla fine gli ho detto “Io ho detto tutto, cosa volete da me, non ho niente da dire.” E poi gli ho chiesto “Cosa ci faranno a noi?” “Non si preoccupi”, mi ha detto, “vi impiccano tutti.” “Vabbè, siamo a posto allora.”

Lì niente, siamo stati lì circa una settimana, circa. A mezzogiorno suonava la campana quella grossa del Castello, era mezzogiorno, quelli che c’erano dentro, i miei compagni dicevano “Ecco quando suona il campanone grosso è uno che va”, allora veniva addosso un po’ di paura. È passata circa una settimana, circa.

Un bel giorno di mattina presto presto, era ancora buio “Fuori tutti”, fuori tutti in colonna. In colonna, tedeschi a destra e a sinistra di questa colonna. Siamo andati al trenino, lì c’era un trenino, non so da dove veniva, forse da Cuneo e faceva Cuneo – Val Grana e andava fino a Torino e lì ci hanno caricato su questo trenino e siamo andati a Torino.

Siamo venuti a Torino ed in colonna abbiamo preso il Corso, e siamo arrivati alle Nuove.

D: Scusa un attimo Giovanni, su questo treno qui, i vagoni come erano? Erano vagoni passeggeri o erano carri di bestiame?

R: Era un trenino, un tram non era, era una specie di tram, ma era un trenino, aveva tante carrozze.

D: Ma c’erano anche dei civili o solo voi?

R: No, no, solamente noi. Non c’erano civili lì. I civili avevano paura. “Il primo che tenta di scappare” dicevano, “guardate che ci andate di mezzo tutti. Spariamo anche contro gli altri.” Allora “Non scappare, non scappare. Ti raccomando che noi non c’entriamo niente”. E lì siamo andati a Torino, in colonna.

Mi ricordo che era un Corso, e c’era gente a destra e a sinistra e ci guardavano e a destra e a sinistra c’erano tedeschi armati e ci hanno condotto alle Nuove.

Ci hanno messo dentro in una cella che deve essere stata la cella… non so, era uno solo che stava dentro. C’era una branda di ferro, l’abbiamo alzata perché non ci stavamo tutti dentro, eravamo in tre e non ci stavamo. Il bagno era un buco e basta, un buco così. Poi per tavolo c’era, usciva dal muro un pezzo di asse così e sopra c’era scritta la dama.

Quel legno lì, quell’asse lì che usciva dal muro, si capisce che, tornando indietro c’erano quelli che hanno tirato via dei pezzi di mattoni per fare la dama. C’erano dentro i pidocchi, c’erano dentro le cimici, cimici rosse c’erano. Erano rossi. E lì siamo stati così.

Ho incominciato a sentire le pulci, leva tutto, guarda la camicia, non erano pulci, erano pidocchi, pidocchi neri. O porca miseria. Non erano pidocchi, avevo la scabbia.

Quando venivano a portare il rancio, qualche cosa ci davano, gli dicevo “Guarda che abbiamo la scabbia”, “Arrangiatevi”. Lì da tre siamo diventati cinque. In cinque in una cella, tutti per terra, non c’era niente, né paglia né niente, tutti per terra così con la coperta e basta, ognuno aveva la sua coperta. Quello che andava in bagno, il buco era lì, perché sarà stata due e qualche cosa di lunghezza ed uno e qualche cosa di larghezza. Ci stava la branda perché si faceva su la branda. Si agganciava al muro e c’era quel pezzo lì che era piegevole. Si poteva tirare su ed il sedile lo stesso, ma sbandava tutto perché levavano tutto.

Lì quando uno andava in bagno si sentiva, no, l’odore non era niente. Si sentiva bagnare la faccia perché non era un bagno come i nostri, era un buco e basta, però c’era l’acqua corrente. Si tirava la corda, almeno andava giù. Parlando materialmente.

Lì passa un giorno, passa due, passa tre ogni tanto venivano là le suore e ci davano un tozzo con dentro le castagne lesse. Qualche cosa ci davano da mangiare.

Veniva là il secondino e gli dicevo “Guarda che io ho la scabbia, portatemi in infermeria.” Quasi tutti i giorni ci portavano giù uno per uno a fare ancora l’interrogatorio, allora “Portatemi in infermeria, altrimenti qua ce la prendiamo tutti perché attacca quella malattia.”

Il secondino era un fascista, sarà stato uno e cinquanta, uno e sessanta, sembrava Charlotte quando camminava e gli dicevo “Capo, guarda che noi abbiamo la scabbia” “A me non interessa, tanto vi impiccano tutti”, diceva sempre così. Ed io grattavo, quello là grattava, si può immaginare che cosa c’era dentro. Eravamo tutti infestati da quella malattia lì.

Lì siamo stati lì, non so, un quindici giorni.

D: Giovanni, lì ti hanno dato un numero a Torino, ti hanno immatricolato?

R: No, no, niente, niente.

D: Dopo quindici giorni che cosa è successo?

R: Ci hanno cambiato e ci hanno dato la divisa della Decima Mas, leggerissima, molto leggera. Nera. I miei li hanno buttati via, non so che cosa hanno fatto. Ma la scabbia c’era.

D: E dopo quindici giorni delle carceri le Nuove a Torino?

R: Dopo lì quindici giorni, lì perché io l’ho saputo, ci hanno caricati fuori tutti e ci hanno caricati sul camion, alle Nuove, ci hanno caricati sul camion e destinazione chi lo sa. Chi ha avuto fortuna, chi aveva un pezzo di carta in tasca ed una matita scriveva, “Avvisate tot che noi siamo partiti, partiamo e non sappiamo dove andremo”. Insomma. Ma io non avevo niente perché dopo la guerra ho saputo che mio padre e mia sorella hanno fatto di tutto per venire a Torino a trovarmi e sono arrivati lì “Sono partiti tutti” “Per dove?” “Non si sa”. Nessuno sapeva niente.

Lì con i camion, quel giorno, partiti. Preso l’autostrada e chissà, era chiuso tutto con il telone, e c’era giù anche di dietro il telone quasi tutto, non si vedeva niente, si vedeva un pochettino e basta. Si vedeva la strada in basso e basta, ed il camion andava.

Arrivammo a Milano, penso che era Milano, si sono fermati lì, guardo c’erano i fascisti così, c’era uno, come si chiama quello… Amedeo Nazzari sembrava, tutto lui. Un trench, aveva su un trench con la mitraglietta, in mezzo a tutti i fascisti per fare la guardia, se qualcuno scappa, i camion si sono fermati, forse a fare rifornimento.

D: Ecco Giovanni, i camion erano tanti?

R: Chi lo sa. Non si vedeva niente, i teloni erano giù dappertutto.

D: Sul tuo camion eravate solamente uomini?

R: Sì, sì, donne non ce ne erano.

D: Non ce ne erano?

R: No, no. C’eravamo noi, c’erano su due tedeschi con la mitraglietta e basta. Lì si capì che hanno fatto rifornimento al camion, non lo so. Ed ho visto quel tale lì in mezzo ai fascisti e sembrava tutto Amedeo Nazzari. “Ma quello là è Amedeo Nazzari”.

Lì i camion partono ancora a colonna, penso che erano a colonna, perché non si vedeva niente, era tutto chiuso. Parte ancora e si va e si va. “Ma dove si va? Dove andiamo?” Tanti dicevano “Andiamo a Verona, forse, là ci smistano ed andiamo a lavorare.” Speriamo che sia la volta buona. Vai e vai, difatti siamo andati a Verona. Verona nel Castello. Dentro nel Castello tedeschi dappertutto.

Lì siamo scesi dal camion c’era là un pullman ma era una corriera ancora di quelle vecchie, saremmo stati su, tutti pigiati così, saremmo stati su, non lo so, circa un centinaio. Tutti ammassati dentro. Su questo pullman qua, parte. Non siamo andati neanche dentro, non ci hanno dato neanche un caffè, niente da mangiare, niente niente.

Lì su questa corriera, la corriera comincia a partire, ma dove andiamo, chi lo sa, l’altro dice “Non lo so”. L’altro dice “Forse andiamo a Bolzano, là ci distribuiscono ed andiamo a lavorare”, “Speriamo, prima di qua, e poi di là, cominciamo ad andare a Bolzano, poi vedremo”. Lì ancora su questa corriera tutti chiusi dentro. Cominciava a far freddo, andare su tra quelle montagne, fino a Bolzano.

C’erano quelli feriti, c’erano quelli che volevano andare in bagno, tutto su, un odore, insomma una puzza che non si poteva respirare. Tirare giù il finestrino non si poteva perché c’erano su i tedeschi e “Guai a voi se aprite un finestrino”. Era tutto appannato e non si vedeva niente fuori. Fuori faceva freddo, dentro si moriva dal caldo.

Lì siamo andati a Bolzano, era buio oramai, non si vedeva niente, non so se era un campo di concentramento, cosa era non lo so. Era tutto buio. Giù da questa corriera, siamo andati dentro a questo campo di concentramento a Bolzano. Io non sapevo dove era, mai stato e mai sapevo che c’era un campo di concentramento, mai sentito nominare. Dentro lì. Ci hanno chiusi dentro lì. Tutta notte lì, a dormire. C’erano le brande a castello, quella sera lì.

Al mattino, su, ci hanno dato un pochettino di caffè. Ma a cosa serve il caffè. Ho bisogno di mangiare. Prima di tutto gli dico “Guarda che io ho la scabbia”, ” Bene, bene chi ha la scabbia fuori”, da uno solo che ero io, ne sono saltati fuori ancora tre. Allora “Perché non parlate?”

Allora lì dopo che cosa hanno fatto? Dopo il caffè mi hanno messo nudo ed hanno preso il pennello con…

D: Il disinfettante.

R: Come si chiama, lo zolfo. Tutto giallo. Ha cominciato da qua sotto, tutto giallo. Tutte le mattine dovevamo fare quella pennellata lì. Ma la scabbia cominciava a fare puzza, a fare l’acqua. Non era troppo bello.

Lì siamo andati avanti un po’ così. Ad un tratto una mattina c’erano quelli vecchi, perché il capannone era così, se lo ha visto quel campo lì, sembrano quei capannoni mezzo rotondi. A sapere portavo qua il libro che mi hanno mandato.

Lì le mura non andavano fino contro là, era dopo la metà. Quelli che dormivano sopra là, guardavano dall’altra parte, c’erano le donne di là o tenevano qualche cosa da mangiare. Andavo là io e non mi volevano. “Dove vai te, non si può venire qua.” Perché volevano prenderlo loro. Noi sempre lì a fare quella vita lì. Guarda a destra e guarda a sinistra, dove dormivo io, dormivo in basso, in primo piano, piano terra, sempre su un castello, ho visto un buco. Ho visto un buco grosso un dito, grosso così. Ho guardato di là ed ho visto una donna, “Signora, signora” ma lei non rispondeva, provo a chiamare più forte, perché se sentivano guai, se mi pescavano che c’era il buco lì erano guai anche per me, allora “Signora, signora”. Si sono accorti che c’era il buco, l’hanno chiuso e io sono rimasto ancora come prima.

Una bella mattina “Fuori tutti, fuori tutti, fuori tutti”, cosa c’è, cosa non c’è, tutti in colonna, un freddo. Saranno stati sette gradi sotto zero, sei sette gradi sotto zero. Un freddo, si vedeva, ma non c’era neve. Proprio quel freddo secco lì a Bolzano, terribile. Lì cosa c’è, cosa c’è, hanno scoperto che hanno cercato di scappare.

Poco lontano da me c’erano il letto a castello, hanno fatto un buco che doveva andare sotto le fondamenta ed andare fuori di là. Se andavano fuori di là c’erano i vigneti, la campagna. Mancavano ancora due metri, dicevano, e li hanno presi. è stato scoperto un mucchio di terra, tutti i castelli e noi fuori, un freddo. Io avevo su quella divisa lì, si può immaginare, gelavo.

Lì fuori “Chi è stato? I complici?” I complici nessuno voleva parlare. “Guardate che fuciliamo tutti.” I tedeschi “Se non parlate, guardate che fuciliamo tutti.” “Allora mi raccomando chi è complice vada fuori, cercheremo di aiutarvi”, nessuno vuole andare fuori. Siamo stati lì quasi tutta la giornata. Lì era successo alla mattina, subito alla mattina presto, all’appello.

Dopo mezzogiorno eravamo ancora là ed i soldati “Fuori”, ne sono andati fuori due “Siamo stati noi”, allora noi siamo rientrati, quelli là non li abbiamo più visti. Chissà se li hanno fucilati, li hanno messi, non lo so, non si sono più visti. Poi c’erano altri complici, avranno parlato e saranno saltati fuori degli altri. Lì siamo andati avanti così.

D: Scusa Giovanni, lì a Bolzano ti hanno dato il numero di matricola?

R: No. Niente matricola. Non avevamo matricole, avevamo il triangolo. Ci hanno appiccicato un triangolo colorato così sulla giacca, un triangolo rosso.

D: Senza numero.

R: Senza numero. Ed io dicevo, “Ma cosa vuol dire questo triangolo?” “Pericolosi”. Là dicevano che questi triangoli erano così perché eravamo pericolosi, ma io vedevo quelli di là perché c’erano anche degli altri, altri compartimenti, chi lo aveva rosa, chi blu, c’erano diversi colori, “Perché noi rossi?”, “Perché noi siamo pericolosi”.

Lì siamo andati avanti così, siamo andati avanti fino dopo l’ultimo e il primo dell’anno. Lì a Bolzano sono andato circa a metà di dicembre. Lì Natale, boh, è Natale sì, è Natale no, ci hanno dato un pezzettino di pane in più. Ma io non sapevo se era Natale perché abbiamo perso il filo delle date. Poi viene l’ultimo e il primo. Il primo dell’anno, i tedeschi, erano in pochi, erano tutti a far festa, solamente le guardie e basta. Ci hanno dato ancora un pezzo di pane in più, “Come mai?” “Perché è l’ultimo dell’anno”. Allora ho cominciato a dire “E’ già l’ultimo dell’anno”, perché prima non sapevo che giorno era e niente.

Lì dopo le feste circa l’8, mi pare, all’8 gennaio, sul camion ancora e siamo andati alla stazione. “Dove ci portano? Andiamo a lavorare?” “Ma chissà dove andiamo? Chi lo sa?” ed io sempre con quella divisa là morivo dal freddo. E siamo andati alla stazione, eravamo quattrocento, cinquecento persone.

D: Come fai a dire che era la stazione. Tu hai visto una stazione ferroviaria?

R: Era la stazione, non era proprio la stazione dove andavano…

D: I civili.

R: I viaggiatori così. Doveva andare il bestiame. Nei binari morti. Così. Giù dal camion lì sui vagoni. “Dove andiamo? Chissà dove andiamo. Boh”.

Siamo andati sul mio vagone, di bestiame, eravamo su in circa una trentina, lì ci hanno chiusi dentro, basta, chiusi dentro non si poteva più.

Dunque siamo partiti circa l’8 gennaio, ed abbiamo fatto tre giorni e tre notti su lì, si vedeva appena fuori, sa che ci sono quelli sportelli che si aprono, ce ne era uno di qua ed uno di là, quello di là facevamo da… e lì facevano tutto lì. Il freddo che faceva, si alzava sempre di più. Prima la puzza e poi gelava ed era un blocco solo, un disastro, paglia per terra non ce ne era, si dormiva così, senza coperte e niente, niente. Così come si andava su. L’aria quando il treno andava, l’aria veniva dentro e si moriva allora cosa si faceva? Ci si ammucchiava tutti, tanto per tenersi un po’ caldi. Facevamo il turno appoggiati al carro e tutti là a cercare di aiutarsi per il freddo che c’era.

Lì passa un giorno, ne passano due, sentivamo, eravamo già in Germania. Noi non sapevamo se era la Germania, chi lo sa. Dove andiamo nessuno lo sapeva, non si vedeva niente fuori. Appena, appena quando era chiaro si vedeva fuori e si vedeva tutta neve, tutta neve e basta e sentivamo parlare in tedesco. “Ma cosa succede?” e lì bim bum hanno aperto. Hanno aperto, sono saliti due tedeschi con la mitraglietta e uno fa “Noi vi uccidiamo tutti, fuori quelli che hanno tentato di fuggire”. Perché chi parla un po’ il tedesco, perché noi non si capiva che cosa diceva ed allora l’interprete lo diceva “No, noi non tentiamo di scappare”, “Abbiamo visto delle luci dentro”, non si capiva cosa dicevano. Cos’era? Era uno che aveva un pezzettino di candela e l’ha accesa così si scaldava un po’ le mani così. Loro hanno visto il chiaro dentro ed hanno aperto e volevano fucilarlo. Porca miseria.

Allora fuori tutti, guarda nelle tasche di tutti, allora si sono calmati e quando hanno visto che era quel pezzettino di candela lì, sono scesi hanno chiuso di nuovo e via. Il treno parte ancora, ogni tanto si fermava, sempre così. Stava fermo magari un quarto d’ora. Poi andava dieci minuti, poi si fermava, insomma è stato in ballo tre giorni e tre notti.

Siamo arrivati a Mauthausen, non si sapeva dove eravamo. Un bel momento, era mattino, cominciava a venir chiaro, si sentiva aprire il portone. Quello là non si apriva più, perché era tutto gelato, hanno aperto questo di qua, aprendo quello lì “Tutti giù, tutti giù”, “Dove siamo, dove siamo?” C’era una stazioncina come questa di Abbiategrasso e c’era scritto Mauthausen. “Siamo arrivati a Mauthausen. è buona, è buona.” “Perché?” “Perché si sentiva che quelli che ci sono già stati vanno a lavorare e stanno bene.” “Speriamo”, ho detto, “che sia quello.”

Lì tutti in colonna, c’erano quelli feriti, quelli che non potevano camminare. C’era giù la neve pestata, tutta pestata e ghiacciata, ogni tanto c’era qualche macchia rossa, questi sono tutti feriti che sono scesi e non ce la fanno più.

Lì tutti in colonna, via “Dove andiamo?” “Chi lo sa” tutti in colonna seguivamo loro, siamo andati. Strada facendo, non c’era in giro nessuno. Nessuno c’era in giro, c’era una donna vestita di nero, deve essere stata giovane, tirava lo slittino, perché c’era giù la neve ghiacciata, c’era su un ragazzino con uno zainetto a cavalcioni allo slittino o che andava all’asilo o che andava a scuola. Tutto quello che ho visto. Aveva su gli stivali, quelli neri che c’erano una volta, povera gente, insomma.

Lì niente, non si vedeva nessuno, non faceva neanche finta quella signora là. Uno ha tentato di dire “Signora, signora”, niente, orca miseria, no, no, camminando siamo andati su a piedi, dopo tre chilometri, non so, dalla stazione, siamo andati su fino alle carceri.

D: Al campo.

R: Al campo. A piedi, su, su. Lì c’è la strada provinciale, non si sapeva se era asfaltata o no, ma era tutta pestata, perché chissà la gente che è passata di lì, prigionieri senz’altro e siamo andati su. Su siamo andati dentro nel campo, varcato il portone, subito dentro a destra.

Lì seduti sulla neve contro il muro, la neve è tutta ghiacciata e tutta pestata, stavamo là ad aspettare, “Che cosa aspettiamo?” c’erano già dentro delle altre persone, lì c’erano le docce. C’erano le docce, poi c’era il crematorio e poi c’erano le cucine, tutto lì in fila a destra. E noi aspettavamo là. Aspettavamo. Lì chiedevano “Chi ha in tasca qualche cosa, qualche cosa di personale, fuori, ammucchiare, ammucchiare tutto e poi restituire, ammucchiare tutto e poi restituire”. Chi aveva l’orologio “Io darcelo a lui, no, no”, calpestavano per terra, lì c’era il muro, la buttavano di là, di là cosa c’era? Non lo so. Forse i tedeschi c’erano. Chi lo sa cosa c’era di là. Buttavano di là, o schiacciati sotto la neve. Tutto così, non c’era niente di personale.

Svestirsi tutti completamente nudi, e là c’era una porta dentro, e riparati un po’ dall’aria, tutto fuori, svestirsi tutti, e si andava a fare, ecco, facevano tutti i peli, tutti la testa così, tagliati tutti i capelli. I capelli li hanno tagliati però in mezzo ci hanno lasciato una striscia così, partiva dalla fronte ed andava fino di dietro. E passavano con il rasoio. La macchina che tagliava i capelli strappava, il rasoio non tagliava, bruciava tutta la testa, proprio tutto in mezzo qua. Facevamo la doccia, era fredda, era calda, ogni tanto era gelata. Sotto lì non c’è niente da fare. Per asciugarsi c’era un pezzettino di tela, chissà quante persone l’hanno adoperata. Cosa vuoi asciugarti con questa cosa qua, non ti asciughi niente, anzi ti bagni.

Lì ci hanno dato una camicia, un cappello zebrato, una giacca ed un paio di pantaloni. Fortunatamente ci hanno lasciato quelli che avevamo prima, le scarpe. Quelle lì le ho trovate ancora. Ho messo su ancora i miei scarponi di quando ero dei partigiani. Allora ho messo su i miei scarponi, con in mano quella roba lì “Fuori” “Ma dove andiamo fuori?” “Fuori, fuori” buttati fuori, dovevano entrare quegli altri. Fuori un freddo, dovevamo andare alla baracca. Alla baracca c’era circa trecento metri, circa.

Strada facendo c’erano le baracche, a destra c’erano i crematori, c’erano i bagni, ecc. A sinistra c’era una fila di baracche, noi dovevamo passare in mezzo e andare dietro a quelle baracche lì, al blocco 18, alla baracca 18.

Strada facendo nudi, con in mano la camicia, tutto così, i prigionieri che c’erano là ridevano, perché eravamo tutti nudi in mezzo la neve, allora prendevano delle palle di neve e ce le buttavano. E si mettevano a ridere.

Lì si camminava, a distanza si vedeva una specie di scala e della gente che camminava su. “Ma cos’è quello là?” “Boh”, non si sapeva niente. Difatti di lì siamo andati al blocco. Siamo andati alla baracca. Alla baracca non c’era niente. Per terra c’era un pochettino di paglia, quello sì. C’erano quelli che erano feriti, non potevano starci dentro. Allora tutti per terra sulla paglia così con la coperta sopra. Se uno doveva andare in bagno così, dovevano cavalcare uno sopra l’altro. “Ma che disastro che c’è qua” “E’ così”.

Lì cosa succede? Succede che siamo andati avanti un poco e gli ho detto “Guarda che io ho la scabbia”, lì c’era un prete dentro, e mi dice “Fa vedere”, mi ha guardato e fa “Tu hai la scabbia, ma non hai solo la scabbia, tu vai zoppo, sei ferito”, “No, ho una ghiandola in mezzo all’inguine che mi fa male”, un prete, io avevo un po’ soggezione. Va bene, tiro giù i pantaloni, perché abbiamo messo quelli che ci hanno dato. La camicia non aveva i bottoni, aveva un laccio così. I pantaloni erano russi, alla cavallerizza. Si capisce che i russi mettevano gli stivaloni per il freddo. Ciao sono stato fortunato in quella parte lì.

Lì siamo andati avanti così e ad un tratto si sente una sparatoria di notte “Cosa succede?” porca miseria. Venivano le pallottole dentro, perché c’era il muro. Io ero alla baracca 18 e dalla 19 e 20 di dietro c’era il muro, le pallottole passavano oltre la mura e venivano dentro sul tetto della baracca. Si sentiva pac, pac dentro. “Ma qua sparano”. Cosa è successo? Abbiamo saputo che hanno tentato la fuga trecento, non erano russi, perché io ero al blocco 18, metà noi che eravamo circa duecentocinquanta, dopo c’era dove c’era il capo, dalla parte di là erano russi, dopo le spiego il perché.

Ad ogni modo lì alla mattina mi dice “Vieni qua a vedere” attraverso la finestra, non si poteva né uscire né entrare. “Guarda là”, attraverso la finestra una montagna di morti, “Che cosa è successo?” “Ma guarda quanti morti che ci sono là”.

Cosa è successo? Era successo che avevano tentato la fuga trecento, penso fossero ebrei. Erano ebrei. Perché ci hanno preso, i tedeschi sono venuti là e quelli un po’ in forza, “Quelli che hanno un po’ di forza addosso vengono con me” e noi siamo andati là. “C’è da andare a prendere il caffè per le baracche”, “Andiamo, non si sa mai che c’è qualche cosa da mangiare”. Allora portavamo il caffè lì, partendo dove c’è la mensa, dove c’era la cucina, quei bidoni lì che saranno stati trenta, quaranta chili, trenta litri, quaranta litri, cinquanta litri, bidoni pieni di caffè. Per noi era caldo, per loro, penso che erano ebrei, per loro c’era sopra tanto così di ghiaccio. Loro se dovevano bere il caffè dovevano rompere il ghiaccio, ma aveva uno spessore di cinque, dieci centimetri, era stato fuori tutta notte. Gelava tutto. Quando si faceva il cambio al mattino dopo, si portava indietro quello avanzato e si portava quello vuoto, era ancora intatto, ancora con il ghiaccio, non lo rompevano, non erano capaci di romperlo, non lo bevevano.

Lo stesso quello che ci davano da mangiare, quella sbobba lì, era acqua, diciamo così, c’erano dentro un po’ di rape, erano barbabietole, quelle che davano ai cavalli. Erano non le bietole quelle rosse o quelle bianche, erano barbabietole, erano amare. Ad ogni modo si andava avanti. Noi prendevano il caffè che era caldo, il loro avevano sopra il ghiaccio. Ecco perché dicevo che quelli erano ebrei.

Perché un giorno, è venuto il tedesco “Venite con me e con le barelle, dobbiamo portare al crematoio quella montagna lì di morti”. Difatti quelli un po’ in gamba uno da una parte uno dall’altra, nudi, erano già nudi perché li svestivano loro, li mettevano sulla branda e li si portava al crematorio.

Al crematorio non si andava giù, c’era lo scivolo dal piano del cortile c’era lo scivolo ed andava giù direttamente dove c’era il forno crematorio e lì si metteva là, “Vrum”, andava giù, arriva l’altro con la barella, giù e poi via tutto il giorno così. Dicono che erano trecento circa. Sono fuggiti in sei che ce l’hanno fatta. In sei, il resto tutti morti.

Dunque lì finiti i morti, finito di portare via tutti i morti, andiamo bene così, andiamo avanti e sempre si dormiva per terra. Lì viene un’altra spedizione nuova. Nuova spedizione, tutti italiani. Noi dove andiamo, fuori tutti noi, fuori di notte al freddo. Quelli del blocco di là, allora, la baracca era metà e metà, noi tutti di qua, di là erano russi perché loro, io avevo su quella camicia lì, vestito malamente, così, loro avevano quei giacconi di trapunta, quelli a quadretti, stavano bene, pantaloni lo stesso, avevano su gli stivali quelli russi che tengono i piedi caldi, almeno sembra. E si camminava, perché “Fuori tutti”, sia di là, sia i russi come noi, perché arrivata la spedizione dovevano andare dentro, loro dentro con la nuova spedizione, e noi fuori tutta notte. Noi non abituati, c’erano quelli che si sono seduti sulla neve e stavano lì così sulla neve. Là c’erano i russi “Fate come facciamo noi”, si facevano capire, “Camminare sempre” tutta notte avanti ed indietro, avanti e indietro, tutta notte, tutta notte. Uno non ne voleva sapere aveva freddo poverino, forse aveva anche la febbre. Lo hanno preso, lo hanno tirato fuori e si divertivano a buttarlo in mezzo alla neve “Se non fai così, se non ti muovi, vai in fumo, muori”. Non lo volevano capire gli italiani, perché non eravamo abituati. Io facevo come facevano loro, allora la prima notte è andata bene, la seconda ancora, finché dopo, ci hanno messo i castelli, hanno messo i castelli, hanno messo a posto un po’, hanno tirato fuori anche i nuovi arrivati, li hanno messi nella baracca 17 e noi siamo stati lì ancora.

Lì abbiamo fatto la matricola, quattro, cinque per volta scortati, scortati dai tedeschi, si usciva, non era dentro dove si andava, si usciva dal campo, sempre pochi alla volta, cinque, sei o sette, adesso non mi ricordo, là c’era il fotografo, ci hanno fotografato, di fronte, di dietro, di fianco e poi ci hanno fatto l’impronta con il dito. Ecco, lì abbiamo fatto la matricola. E dopo che sono arrivati le matricole.

D: E la tua matricola qual era?

R: Ma le volete vedere. Queste sono le matricole che ci hanno dato. Siccome là non avevano niente, allora questo doveva essere appiccicato sui pantaloni, alla destra sulla coscia dei pantaloni e doveva essere visibile bene il triangolo rosso, con in mezzo IT che vuol dire italiano e di fianco c’è la matricola. Questo è il braccialetto. Il braccialetto, questo qua non è neanche ferro, è acciaio, mi pungeva tutto, tutto il braccio così, vedi quei ganci qua, sono ancora quelli, quei ganci qua mi penetravano dentro e guai se non li portavi, volevano vedere, questa è la matricola che avevamo.

D: Il tuo numero qual era?

R: 115.607, è scritto qua. Quando ci hanno dato questo allora hanno cominciato a chiamarci come numero, nome e così non se ne parla più. Tutto il numero.

Bene lì siamo rientrati ancora nella baracca e siamo stati lì, dovevamo fare la quarantena, ma che quaranta, saranno stato venticinque, dico io, venticinque giorni. Tutti in fila un’altra volta, tutti in colonna, un freddo, tutti in colonna a marciare “Dove andiamo? Chi lo sa? Dove si va?” i tedeschi di qua di là, a destra a sinistra, però non avevano cani, cani non li avevano. Erano armati di fucile e mitraglietta e basta. Anzi, tornando indietro un pochettino, abbiamo fatto l’addestramento con su e giù il cappello. Quando si vedeva un graduato tedesco, dovevamo tirare giù il cappello e dopo metterlo su, sempre su e giù, su il cappello, giù il cappello, su il cappello, abbiamo fatto un po’ di addestramento così nella quarantena.

Ecco dove ho visto la scala della morte. A distanza quando portavamo i morti al crematorio si vedeva da lontano, ma quella là è la scala “Cosa fanno?”, non sapevamo cos’era. Siccome là motori non ce ne era, cavalli non ce ne era, tiravano tutti con la forza delle braccia dei prigionieri, era una cava di pietra. Loro dovevano portare su dalla cava su per quella scala lì delle pietre, chi aveva il martino, lo metteva su, era fortunato, sulle spalle, chi non lo aveva. Io ho fatto un giorno solo. Ma non sulla scala, lì nella baracca. Ci hanno messo un pezzo di pietra sulla spalla e mi hanno mandato fino là al crematorio, e poi tornare indietro. Basta. Solo quello, tanto per addestrarci.

Lì in colonna, tutti in colonna, via “Dove andiamo?” “Chi lo sa”. Strada facendo, sempre di notte o mattino presto, siamo andato a Gusen, non so ci saranno tre chilometri, quattro, non lo so. Strada facendo lì, c’era ancora la neve per terra ed il ghiaccio, nessuno voleva aiutare quelli feriti. Dico “Qua bisogna aiutarci qua” perché altrimenti i tedeschi calciavano con il calcio del moschetto. Vado anche io ad aiutarli, “Mettimi le braccia al collo” e sono stato l’ultimo della colonna, stavo dietro. Sono restato indietro un po’, il tedesco di dietro, ha visto che non andavo avanti perché quello era ferito, con il moschetto, con la canna del moschetto me la ha buttata addosso alla schiena, mi ha dato una spinta sulla schiena e mi ha preso proprio la spina dorsale, ho visto le stelle, porca miseria. Sono rimasto a bocca aperta per il dolore, sembrava una scossa elettrica, ho detto “Aiutatemi, aiutatemi”, allora è venuto un paio di altri, ci hanno dato il cambio ma io l’ho sentito per un po’ però quel colpo che mi ha dato con la canna del fucile il tedesco.

Lì siamo arrivati a Gusen, arrivati destinati al blocco 14. Lì di nuovo doccia, di nuovo la doccia e così.

D: Quando tu dici Gusen intendi Gusen 1 o Gusen 2?

R: Gusen 1. Dopo siamo andati a Gusen 2 perché c’è stato un disguido. A Gusen 1 è stato.

Lì alla baracca 14, dunque io ero alla baracca 14, di fronte a noi c’era la baracca 22, e c’era dentro uno di Brescia, un corridore, era un dilettante corridore e ci siamo fatti amici. E c’era dentro padre e due figli di Bologna, un certo Cervellati.

Allora ci siamo conosciuti, italiani. Sotto di me nella baracca 14, sotto c’erano due italiani Perfumo Giuseppe e Perfumo Giovanni, erano sotto di me, a fianco. Proprio sotto di me perché io ero a metà, c’erano due russi, sopra di me c’erano altri due russi, io ero in mezzo, io ed un altro italiano, un certo Marini dalle parti di Alessandria, dopo è morto poverino, dopo le spiego perché.

Lì andiamo avanti così, hanno incominciato a darci il caffè, le prime volte.

Anzi tornando indietro, quando ero a Mauthausen, la storia dell’inguine, che il prete mi ha detto “Fammi vedere”, mi ha detto “Vai all’ospedale, ti curano, altrimenti qua, hai già la scabbia, prendi l’infezione e te lasci qua la pelle, dammi retta” mi ha detto. Allora lo ho ascoltato, sono andato in infermeria, là c’erano due dottori, e uno fa “Domani vieni qua”, ed io sono andato via, e camminavo zoppo. Avevo una ghiandola in mezzo all’inguine e la gamba nel piegarsi, un male bestia.

All’indomani sono andato dietro là. “Buttarsi sul lettino”. “Non andiamo bene, medicare, medicare. Prendi in mano il lettino, stringi forte”, mi hanno spruzzato su non so cosa, una cosa senza puntura ne niente, mi hanno spruzzato qualche cosa e poi ho cominciato a sentire “zim zam” su quei scaffali di vetro, forbici e coltelli, oh Madonna, mi veniva di sentirmi male “Mi raccomando, tieni stretto il letto, stringi i denti” ed ha cominciato a tagliare. Ed io gridavo. “Italien se non ti addormenti ti addormentiamo noi con un pugno”. Allora ho resistito. Nella bacinella è uscita tanta di quella porcheria che non so cosa dire.

Lì bene, ho riposato un pochettino, forse hanno finito, hanno cominciato ancora, prendono un altro coltello ed hanno cominciato ancora a tagliare. “Che ostrega stanno facendo?” Io gridavo, facevano segno con i pugni “Ti addormentiamo noi”, erano russi, parlavano il tedesco, si facevano capire, insomma. Bene, lì finito “Domani venire qua, medicazione”, allora ho cominciato la medicazione, sono andato indietro, hanno tirato fuori la garza dalla ferita, sembrava che aveva tirato fuori un serpente, si sentiva proprio la garza a venire fuori, o mamma mia, però il dolore è cessato.

D: Ma quando ti dicevano di tornare di lì in infermeria. Quell’infermeria dove era? Dentro nel campo?

R: Sì, lì, era poco distante dalla baracca 18, non so quale baracca era. Non era troppo lontano.

D: Ma era una baracca o era in muratura?

R: Non lo so, dire la verità era come una specie di ambulatorio.

D: Ecco.

R: Non so se era in muro o se era, mi pare in muro.

D: E’ quella sulla piazza dell’appello? Era sulla piazza dell’appello?

R: Sì, sì, da quella parte lì, insomma.

D: Dopo lì sei guarito?

R: Ad ogni modo, questo è tornando indietro. Lì la terza volta, medicazione ancora. Visto che stavo bene non sono andato più. Sono guarito. Sono guarito però la scabbia ce l’avevo ancora. Ce l’avevo ancora, allora quel prete glielo ha detto al Kapò. “Guarda che questo ha la scabbia, si infetta tutto”, “Fuori, fuori”, ed io sono andato fuori, qui adesso. Sono andato fuori “Chi ha la scabbia fuori”, non ero solo io, eravamo in sei, perché attaccava tutti. Allora c’erano là gli aiutanti, quelli che aiutavano il Kapò, hanno tirato fuori un boccettino così, come le gazzose di una volta e c’era dentro un liquido marrone, e mi hanno spalmato su un po’ su tutto il corpo nudo, tre giorni. Sa che sono guarito? Sono guarito, ha cominciato a calmare, non grattavo più, non sentivo più niente. “Ma guarda un po’, di là pennellate di qua e pennellate di là e qua un pochino di quella roba lì.

Lì dopo siamo partiti per Gusen.

D: Lì a Gusen 1 che cosa è successo?

R: Come?

D: A Gusen 1 che cosa è successo? Quando sei arrivato a Gusen.

R: Sì, niente ci hanno mandato dentro la baracca 14 e lì hanno incominciato a metterci in fila e si andava alla piazza del raduno, e c’erano quelli che comandavano e ci accompagnavano loro i primi giorni, dalla baracca si andava là, dove c’era la piazza dell’appello.

Là un disastro di gente c’era là e aspettavano il turno. C’era la scalinata di sasso, che andava su per la collina e poi c’erano le baracche che facevano da stabilimento, da fabbrica. Capannoni, ma erano baracche vecchie, grosse, più grosse delle normali.

Ad ogni modo lì ci mettevano cinque per cinque, immaginarsi una fiumana, una marea di prigionieri, cinque per cinque, tante volte è facile anche sbagliare, allora andava avanti, man mano che si passava il cancello, il cancello era di filo spinato. Aprivano quel cancello lì, c’era la scalinata poi ce ne era un’altra e poi si andava dove c’era lo stabilimento.

Lì c’erano i cani di qua e di là e pestavano, legnate. Le prime volte siamo andati là tutti insieme, si andava su, l’appello lì, facevi la scalinata, si andava ancora là davanti alla baracca dove si lavorava, altro appello. A distanza, a poca distanza, c’era un’altra cava di pietre. Quando sparavano le mine, arrivavano i pezzi lì. Bisognava stare attenti perché arrivavano anche sulla testa.

Siamo andati la prima volta su, andiamo su, bastonate a destra e a sinistra fino a che non si andava su, si andava su, ci hanno mandati dentro nello stabilimento, macchine dappertutto. “Ma cosa facciamo qua?” “Te che mestiere fai?” Uno diceva “Io faccio il contadino”, l’altro diceva “Io faccio il cuoco” “Io il pasticcere”. Tutta gente che voleva mangiare. Io dicevo “Io faccio l’operaio”, loro forse cercavano qualcuno che avesse un po’ di testa, invece eravamo tutta povera gente. Tutta gente che lavorava e basta.

D: Lì cosa costruivate? Quella fabbrica lì dove hai lavorato, cosa facevi?

R: Lì, appello, e poi aprivano il portone scorrevole e si andava dentro. Si andava dentro e là c’era il capo reparto. Il capo reparto era un polacco, “Sulla macchina, lì” mi hanno messo su di una rettifica, una specie di tornio. E lì uno che non è pratico, è dura. Ho visto un po’ come si faceva roba di meccanica e dovevo arrangiarmi a molare il ferro, ad affilare il ferro da taglio per il tornio ed io facevo le sicurezze del moschetto.

Arrivavano con la barella, i prigionieri li portavano lì, ci fornivano perché arrivava dalla fonderia, passava quello là e faceva una parte, quello là me la passava ed io dovevo passarlo alle frese.

Bene, quello che doveva passarle a me doveva farne almeno quattrocento o cinquecento al giorno. Tutti lì ne facevano seicento e gli altri li mettevano via per l’indomani, perché un domani che si guastasse il ferro o che non taglia più, tu dovevi fare la consegna la sera, dovevi fare la consegna di quello che hai fatto. Allora c’era da essere abbottonati, se non funzionava qualche cosa erano dolori.

Ed io destinato su questo tornio qua, andavo bene, fortunato, a poca distanza come verso di lei, c’era una stufa che era due volte questo tavolo qua, rossa veniva, si stava bene. Quelli che ci fornivano i materiali, venivano da fuori con le bufere, neve, pioggia, vento, freddo, come entravano mettevano giù la roba, fuori, perché altrimenti se li beccavano andare alla stufa erano botte, ma che botte. Lì andavo bene, non c’è male.

Un bel giorno si capisce che dopo come lavoro tanti morivano di deperimenti, mangiare ci davano un pezzettino di quel pane nero, la metà della metà, un pezzettino, un quarto di quella metà lì. Ma i pani non erano quelli lunghi, erano quelli corti, larghi così, saranno stati 10, o 15 centimetri per 20, così. Quei pani lì, neri, un pezzettino di quelli lì e ci davano un litro o mezzo litro di acqua e c’erano dentro un po’ di barbabietole tritate che col cucchiaio, il cucchiaio doveva farselo lei. La gamella, la davano loro, finito di mangiare la si depositava e poi si arrangiavano loro a lavarle e tutto, c’erano altri prigionieri, ed il cucchiaio dovevi arrangiartelo te, dovevi metterlo qua, altrimenti se lo perdevi o te lo rubavano, saltavi e dovevi mangiare così.

Lì sono andato avanti un po’ così a lavorare in quel modo lì, un bel giorno si capisce che mancavano gli operai perché morivano, viene là il capo reparto e fa “Domani te vai insieme e Joseph”, era un operaio che era sulla fresa. Che la sicurezza del moschetto andava dentro, incastrato dentro e la fresava, doveva essere preciso. Io facevo con il tornio e poi con la fresa lo facevano bene e preciso. “Va bene domani andrò con lui”. Un giovanotto grosso, al mio posto è andato un russo, non ha mai visto un’officina, niente, prendeva di quelle botte. Perché c’era il ferro da affilare e andava sulle mole, la mola ha la coda e doveva aspettare il suo turno, quando andava sotto non era capace, tornava indietro e metteva sul ferro e non tagliava. Allora il capo reparto botte, botte, questo ragazzo “Italien com”, io pianta lì che ero alla fresa e andavo là a fargli vedere, “Fai così, così e così”. Ma lui non capiva niente. “Ma te sei nato nel bosco o sei nato in un qualche paese”. Non capiva niente. Quello che si diceva non capiva, gli spiegavo il lavoro come doveva farlo, non lo capiva, non lo so, “Te sei nato in un bosco”.

Allora lì tutte le volte che andava ad affilare il ferro, il capo reparto prima mandava lui, e stava via un quarto d’ora perché non era capace, tornava indietro, non tagliava, doveva tornare indietro, non faceva la produzione. Botte, erano botte da orbi allora mi chiamava me, io stavo via venti minuti, lo tagliavo, mettevo a posto il ferro bene, che tagliava, stavo via venti minuti e non mi diceva niente, il capo reparto. Andava via lui dieci minuti “No, non taglia” dietro ancora e botte, sempre così.

Io ero assieme a quell’operaio, erano due frese, a poca distanza come da qua e lei c’era quella stufona lì mi diceva “Italien di dove sei?” “Milan”, “Oh, good”, diceva, “Good”, “Siete bravi a lavorare” “Milan, good”, questo giovanotto così. Sotto lì allora metteva a posto la fresa e cominciava, non ero capace “Italien tu devi imparare, altrimenti vedi questo, ti pesto, io ti tiro blu, ti cambio colore”, diceva. Poco alla volta, poco alla volta ho imparato. Erano due macchine, un po’ lui ed un po’ me alla stufa, e si andava là con su la giacchetta che non c’era e si andava contro, veniva rossa la stufa, ti tiravano indietro, ma il calore non lo sentivi, perché non avevi più grasso addosso, non hai più niente. Allora facevamo un po’ per uno.

Tornando indietro, ho avuto la fortuna di andare a svestire i feriti ed i moribondi lì dove facevano le docce. Cosa è successo? Portando via la roba per portarle alla disinfezione ho trovato un paletò che ho messo su subito, era un soprabito, però era lungo. Era lungo e dopo a Gusen l’olio chimico, l’acqua chimica mi asciugavo le mani perché non c’erano stracci e non c’era niente, però le mani erano sempre belle perché non screpolavano, sempre unte. Però il paletò pesava venti chili, perché era unto e straunto.

Lì si va avanti così. è venuto un bel giorno che, sono incominciati i bombardamenti, mandavano i manifestini ed allora quelli che prendevano il manifestino erano botte, li ammazzavano a botte. Quando suonava l’allarme bisognava andare al rifugio. Il rifugio che cos’era? Erano delle gallerie sotto la collina, lì dovevano mettere l’officina, lo stabilimento. Doveva andare sotto lì, tutto lì. Allora si andava lì, come le bestie.

Dentro picchiavano per far presto ad andare dentro, quando si usciva erano botte perché non si usciva svelti, erano sempre botte. Quando si faceva la scala per andare a lavorare, botte, c’erano due tedeschi di qua e due di là, chi aveva il Gummi, se era polacco metteva il filo di piombo, una volta c’erano i fili elettrici coperti di piombo, mettevano dentro quello lì e si facevano uno più bello dell’altro e pestavano con quelli lì. Altrimenti se era un graduato aveva il frustino, quello lì tagliava, bisognava stare attenti alla faccia perché segnava, era come una frusta.

D: Giovanni, come ti ricordi la Liberazione?

R: Adesso viene. Lì siamo andati avanti così, tagliamo un po’ corto e siamo andati fino quasi alla Liberazione.

D: Come te la ricordi la Liberazione?

R: La Liberazione me la ricordo che un mattino “Arrivano gli americani” si sentivano i cannoni sparare, sono loro, si vedeva l’apparecchio che girava per perlustrazione, quegli apparecchi piccoli con un motore solo. “Arrivano gli americani” “Americani o russi?” “Arrivano prima gli americani, i russi vanno da un’altra parte”. “Se sono americani meglio”, noi ci tenevamo più con gli americani, infatti, tagliando corto.

Quel mattino “Fuori, fuori” si rubava a destra e a sinistra, era un macello, e sono andato fuori anche io, sono andato fuori, mi sono messo dietro la strada e vedo che arrivano gli americani. Chi piangeva, chi rideva, chi bestemmiava, non so cosa dire. E morti, perché? Perché i tedeschi sono scappati tutti, allora morivano tutti dietro la strada. Perché quello che trovavano portavano via e mangiavano. E allora portavano dentro con i carri e con i camion, portavano dentro prima che arrivavano gli americani. I tedeschi sono scappati tutti, sono restati i galeotti tedeschi, ma avanzi di avanzi di galera. Quelli graduati sono scappati tutti.

Lì arrivano gli americani e di fatto è arrivata una jeep con davanti la Croce Rossa, avevano una bandiera bianca ed una bandiera della Croce Rossa, due camionette, due jeep e dietro c’erano dei camion, ma non camion con su la truppa, non so cosa c’era, non so se c’erano i rifornimenti forse.

Poi sono incominciati i primi carri armati, e dopo la truppa. I camion con tutta la truppa su, negri, bianchi, non si capiva. Ad ogni modo come sono arrivati hanno cominciato a buttare giù caramelle, sigarette, cioccolato, e buttavano giù biscotti, festa. Tutti addosso, ci ammassavamo tutti per accogliere quella roba lì. Sono entrati in Gusen 1.

La storia del Gusen 2, quando si faceva l’appello per andare sulla scala, per andare a lavorare, si passava per il cancello cinque per cinque. Si camminava marciando. Allora loro facevano cinque, dieci quindici, e via via, il tedesco li segnava tutti, per i ranci. Lì ho sbagliato fila, che ne so io, era una fiumana di gente, bisognava guardare bene con chi eri, perché se sbagli fila vai in un altro posto e difatti è stato così per me. Mi sono messo in un’altra fila, non mi sono accorto, e via passa. Invece di andare a lavorare dove andavo prima, andavo dritto “Dove vado adesso?”, mi hanno mandato a Gusen 2. Là facevano le carlinghe degli apparecchi e mi hanno messo insieme agli operai a inchiodare le lamiere delle carlinghe, a fare le carlinghe, un baccano dentro lì. Là non ero segnato, mangiare non ce n’era. Fortunatamente quegli operai un pochettino per ciascuno, c’era già poco, un poco per ciascuno mi hanno dato qualche cosa da mangiare. Alla sera sono tornato indietro, non faccio più quella stupidata, prima di passare quel cancello guardo bene. Infatti sono andato avanti così fino alla Liberazione.

D: L’ultima cosa Giovanni, quando sei rientrato in Italia?

R: Siamo stati liberati il 5 maggio, lì dopo ho fatto la congestione, mangia te, mangia te, mi sono sentito male, sono andato all’ospedale, in infermeria e sono stato lì, quanto non lo so perché non ho capito più niente perché sono stato senza sensi. Mi sono buttato su una cuccetta della SS che c’era prima e basta, mi sono sentito male, e non ho capito più niente. Chi lo sa chi mi ha portato all’ospedale. Non lo so. So che mi sono svegliato, apro gli occhi, avevo davanti due dottori e un’infermiera. Non ero capace di muovere un braccio, ero sfinito. Hanno parlato tra di loro, allora l’infermiera, mi ha detto “Italien, io avere in consegna”, lì era già finita la guerra.

Sono arrivati gli americani e via, poi ho fatto la congestione, mi sono trovato all’ospedale, lì nudo mi portava in bagno, mi teneva su, allora il bagno là era diverso, ci si sedeva, mi teneva su perché cadevo da tutte le parti. Mi portava a letto, mi accompagnava a letto e mi dava una medicina verde, sembrava menta. Questo fa venir voglia di mangiare, perché la voglia di mangiare non c’era, veniva su tutto. Infatti mi dava un cucchiaio di quelli lì, due al giorno, ed io gli dicevo “Dammene tre”, “No, no”, diceva che i dottori non volevano. Allora ogni tanto me ne dava tre. Allora ho cominciato a riprendermi un po’, ho cominciato a mangiare. Mangiavo e veniva su tutto. Lo stomaco non teneva più.

Ci davano i piselli ma non in brodo, asciutti e io “Non digerisco questa roba qua”, “Mangia, mangiare” diceva l’infermiera, caccia giù e su, caccia giù e su “Mangia sempre, fa niente se viene su, quel pochettino che rimane giù quello è il tuo buono. Ti fa bene”. E difatti mangia e butta su, mangia e butta su, fino a che sono rimasto lì un mese ed ho cominciato a riprendere, però non ero capace di camminare. Ero ancora sfinito. è venuto il momento di dire “Quelli che se la sentono li mandiamo in Italia, mandiamo a casa, ci sono le spedizioni che vanno in Italia.” Io a sentire così, malato, non malato, io vado a casa. E difatti così sono uscito dall’ospedale, sono guarito, non ho più niente, barcollando sono andato in baracca, ho preso in mano la baracca, c’erano tre gradini ad andare su, ho fatto una fatica, ma ce l’ho fatta. Lì allora ho cominciato a riprendere, ci davano i pacchi americani e c’era tutto in scatola, minestrone, pasta asciutta, risotto, riso, carne, carne con dentro la cioccolata, carne con mescolata la cioccolata “Ma chi mangia questa roba?” non andava giù “Mangia, mangia, mangia” e caccia giù, mi sono ripreso un po’ e sono riuscito a prendere. “Perché chi ha la febbre e chi non si sente lo mandiamo un’altra spedizione, non va a casa”. “No, no, io mi sento bene” invece non era troppo bene, barcollavo ancora. Però ce l’ho fatta, sul camion e via a prendere il treno con il camion, gli americani ci hanno portato con il camion e siamo venuti in Italia e ci abbiamo messo altri due giorni.

D: Vi siete fermati a Bolzano?

R: Prima abbiamo fatto la linea Linz – Salisburgo, mi pare, siamo venuti a Innsbruck e siamo stati lì una notte, abbiamo dormito lì nelle case matte di un vecchio aeroporto. Poi abbiamo preso ancora il treno e siamo venuti in Italia a Bolzano, siamo scesi a Bolzano. Lì c’erano già tutte le infermiere pronte a riceverci. Io avevo inciampato nei sassi attraversando i binari, si mettono a ridere, mi veniva voglia di prendere una pietra e scagliargliela addosso. “Voi ridete, ma io non rido. Non sono capace di camminare”.

Allora lì chi si sente dopo mezzogiorno, il giorno dopo, c’è il camion che va a Milano, chi non si sente parte dopo domani alla mattina. Ho detto ” A me non conviene”, perché partendo dopo mezzogiorno arrivi alla sera ed io dove vado a Milano alla sera? Allora aspetto l’altro giorno e parto al mattino. Gli altri sono partiti e aspetto il mattino. Aspetto il mattino e non c’è il camion. Parte subito dopo mezzogiorno, è arrivato circa alle quattro o alle cinque, va bene, l’importante è che vado a Milano. E siamo partiti sul camion, verso le quattro e le cinque, non ce l’abbiamo fatta ad arrivare a Milano, abbiamo dormito a metà lago di Garda in un oratorio, c’erano le suore e siamo andati sul cascinale, c’erano le fascine di legna, abbiamo dormito su lì, mangiare niente, non avevano niente neanche loro.

D: E poi sei arrivato a casa?

R: Allora siamo partiti al mattino presto, alle cinque sveglia, si va a Milano. Alle cinque, io non ho dormito tutta notte. Alle cinque sul camion e via, quelli che scendevano a Brescia, chi scendeva a Bergamo ed io sono sceso a Milano, eravamo in quattro o cinque.

Navasa Milo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Buongiorno. Mi chiamo Milo Navasa, sono nato a Venezia il 27 maggio 1925. Figlio unico e abitavamo a Verona da parecchi anni. Mio papà lavorava alla Telve e io ero studente, scuole normali, liceo ecc.

Il 13 dicembre 1944 di notte abbiamo sentito un fracasso infernale giù alla porta d’ingresso della casa, hanno mezzo sfondato una porta ed era una pattuglia di SS. Sono venuti dentro, hanno beccato mio papà subito e stavano per portarlo via, quando girando per l’appartamento, sono capitati anche in camera mia che stavo dormendo, mi ero svegliato un po’ di soprassalto. Hanno chiesto a mio padre, il quale parlava tedesco tra l’altro e capiva, gli hanno chiesto chi ero e lui ha detto: “E’ mio figlio”. Hanno detto: “Komm” e mi hanno preso, anch’io.

Avevo diciannove anni, dunque non c’entravo un accidente, però mi hanno portato via. Ci hanno portato al sotterraneo delle SS qui in Corso Porta Nuova. Lì è cominciata la storiella. Mio padre è stato interrogato subito, io anche, però il mio interrogatorio si è risolto in una buffonata, perché allora io cascavo talmente dalle nuvole che evidentemente anche l’ufficiale che mi ha interrogato se n’è reso conto che non capivo niente, che non c’entravo un tubero. Siamo stati lì una quindicina di giorni mi pare, adesso ovviamente la memoria al giorno non ce l’ho più, ben inteso. Però un paio di settimane.

Dopodiché tutti e due ci hanno portato al Forte di San Leonardo, qua sopra Verona. Lì siamo stati due o tre settimane anche lì. Eravamo lì in carcere, avevamo un po’ di rancio, non avevamo uscite fuori, eravamo sempre dentro nella cella. Poi ci hanno trasferito al Forte di San Mattia, che è un altro forte qui di Verona, quello più alto. Anche lì tran/tran quotidiano, mio padre era fuori dalla grazia di Dio, io che non capivo cosa cavolo mi stesse succedendo. Un bel giorno ci tirano fuori tutti, ci imbarcano su un autocarro e ci portano su a Bolzano.

Mi sono ritrovato anch’io lì. Ci hanno messo nel blocco B, non sapevo niente praticamente, un po’ spaventato, un po’ tutto. Dopo due o tre giorni, adesso il giorno preciso non lo ricordo così, hanno fatto un appello e hanno chiamato assieme a tutti gli altri mio padre, non me.

Anzi, anche lì a Bolzano mi hanno fatto un altro interrogatorio così, che si è risolto in niente, una buffonata. Credo si siano accorti che non avevo le mani in pasta né con la Resistenza né con questo né con quell’altro, com’era vero infatti. Non ci pensavo. Hanno fatto l’appello, avranno chiamato due o trecento persone, fra le quali mio padre. Di fatti noi eravamo in piedi lì così e loro chiamati dovevano mettersi dall’altra parte del cortile allineati. Quello è stato l’ultimo giorno che ho visto mio padre, non ho più saputo niente là naturalmente.

Al primo maggio hanno aperto il campo, a gruppi di una trentina di persone ci hanno caricato su un autocarro che ci portava in giù. Lo sbarco, diciamo così, avveniva, l’ho saputo dopo, a paesi diversi. Hanno avuto probabilmente paura che mollando il campo di colpo ci fosse una reazione da parte nostra, perché penso saremo stati un migliaio, era affollatissimo. Allora probabilmente l’hanno fatto per questo scopo.

Allora a me hanno scaricato a Bronzolo, mi ricordo ancora. C’era tutta la retrovia tedesca che stava andando in su in ritirata, elmetti fin qua, mitra imbracciati, un inferno, qualche autoblinda ecc. Una strizza dell’accidente, però dico: “Devo andare a casa, è inutile che mi metta qua”.

Allora mi sono strappato via il distintivo, che avevamo il triangolo rosso. Tolto via quello ho cercato di apparire uno qualsiasi e ho cominciato a camminare. A camminare ci ho messo otto giorni, sono arrivato a Verona a piedi. Tra l’altro non è che avessi una gran forza, perché là sì, ci davano qualcosa da mangiare senz’altro, però non certo pasti.

Un pagnottino così al giorno. Poi tra l’altro quando ci hanno mollato avevamo già discusso tra noi che saremmo entrati in Bolzano a pescare il panettiere, perché queste pagnottelle, una al giorno, grandi così, si faceva così con le mani e strizzava fuori acqua. Pesava di più, perciò ci faceva pagare di più. Avevamo giurato di andare là e disfargli il forno. Invece, niente. Ci hanno mollato apposta, penso, per evitare rappresaglie probabilmente.

Mi ricordo ancora un episodio. Quando sono arrivato lì a Rovereto, c’era molta gente. Ad un certo momento mi vedo arrivare un carro armato in mezzo alla strada. “Porca boia”, dico, “ancora, madonna santa”. Un bestione che non finiva più. Allora va beh, mi sono messo ai margini della strada. Passerà anche questo. Ad un certo momento ha spalancato il portello di sopra, è uscito a mezzo busto un negrone, un bestione della madonna con due mani messe così. “Paisà” ha detto.

E giù sigarette in mezzo alla gente. Ho ringraziato il padreterno, “Dio ti ringrazio, qui ci sono gli americani, i primi che vengono su”. Dopo mi sono accorto che sul carro armato c’era una stella bianca dipinta, ma io non lo sapevo. Allora mi sono rilassato e ho fatto Rovereto Verona con più calma, perché ormai c’erano le truppe americane che venivano avanti e non mi facevano certo paura. Qualcuno aveva predisposto qualche posto di ristoro durante il campo e lì ho mangiato qualche minestra, ho dormito un po’ nei fienili. Sono arrivato a casa e mia madre era lì, ha visto arrivare me e non ha visto poi arrivare il mio vecchio.

Lui so che appunto è andato a Mauthausen e dopo l’hanno ammazzato, il giorno preciso non lo so, perché non sono riuscito a saperlo da nessuno. Sono andato appunto la settimana scorsa, sono andato là in pellegrinaggio perché per tutti questi anni non ho mai avuto il coraggio di andare su, non me la sono sentita. E’ da rimproverarmi, su questo d’accordo, lo capisco, ma non ce la facevo. Stavolta no, mi sono deciso, dico: “Vecchio mio”, perché quando mangio, tra l’altro, ho la fotografia del mio vecchio, ce l’ho davanti. Io sono da solo, ho la fotografia del mio vecchio e della mia vecchia davanti alla tavola della cucina, tutti e due, così che ce li ho lì tutto il giorno.

Allora dico al mio vecchio: “Stavolta vengo, stavolta vengo” e sono contento di essere andato, anche se sono ancora un po’ nei pasticci, non sono ancora uscito. La visita è stata una roba, come se mi avessero segato a pezzetti. Quello che non ho visto dentro… Mi figuro quei disgraziati cosa devono aver subito quando sono stati presi e portati lì dentro.

Ho visto i forni crematori. Hanno messo alcune fotografie che qualcuno ha fatto e ha salvato dalla distruzione, ingrandimenti così. Carri pieni di gente magra così, morti, mezzi morti e li stavano portando verso i forni. Ecco, per dire, roba del genere, sono uscito fuori da lì che ero fuori dalla grazia di Dio. Sono andato a vedere Gusen proprio e ho visto i forni crematori, ho visto le camere a gas, ho visto l’animassa che ti porta. Dopo pochi giorni fa ho visto Hayder seguito da folle osannanti e non vi dico cosa ho pensato, perché non è il caso, il turpiloquio non va bene.

D: Milo, scusa.

R: Dimmi.

D: Perché hanno arrestato il tuo babbo?

R: Adesso ti spiego questa cosa, che fa pensare proprio alla gente come può essere a volte. Mio papà con alcuni dei suoi coetanei, aveva quarantanove anni quando l’hanno preso, si erano buttati dentro, perché mio papà aveva fatto la Grande Guerra completamente dal primo all’ultimo giorno, per cui i tedeschi gli stavano qua e si era buttato nel Comitato di Liberazione.

Erano sette od otto che avevano fatto questo gruppetto, in casa non sapevamo niente e compagnia bella. Se non che si è infilato dentro uno italiano, il quale ha finto di essere dentro così e poi li ha denunciati tutti. Allora un giorno che ancora eravamo qui alle SS in Corso Porta Nuova ci hanno portato fuori a dare una mano, perché c’era il bombardamento, tirare via un po’ di macerie. Stavamo tutti e due andando insieme con gli altri, mio papà mi ha detto: “Ehi, Milo, attento. Guarda quello lì col cane. Guarda bene”. Io lo guardo bene, fissato, fotografato. “Quello è quello che ci ha fatto la cavalletta a tutti”. Quando sono tornato a casa l’ho cercato per un anno. Non so se avete visto quel film con Sordi, quando gli ammazzano il ragazzino, che poi va fino a che becca quello che…ecc… e’ “Un borghese piccolo piccolo”, mi pare che fosse. Faceva la stessa fine. Per un anno per tutte le strade ero lì che mi guardavo intorno, ma o era andato via o… Non l’ho più visto, non ho più saputo niente. Questa è la vecchia storia.

D: Quindi il tuo babbo faceva parte del gruppo…

R: Il Comitato di Liberazione di Verona.

D: Tu invece non sapevi nulla?

R: No, non sapevo niente. Ero un tataro qualsiasi, mio padre se n’è guardato bene dal parlarne a casa, perché altrimenti mia madre gli avrebbe fatto l’inferno. Allora in casa non sapevamo niente. Li hanno beccati tutti e sono crepati tutti, li conoscevo anch’io. Per fortuna hanno fatto un interrogatorio anche stringente, ma non potevo confessare, perché non avevo né fatto né pensato né niente. Ero un ragazzotto, uno stupidotto, non è che avessi delle mire a dire… Se ne sono probabilmente accorti e ne hanno tenuto conto forse, non so, perché non mi hanno cacciato in quel pasticcio, mi hanno lasciato lì fino alla fine della guerra.

D: Milo, cosa c’era su al Forte San Leonardo?

R: Niente, c’era un gruppo di SS e basta. Noi eravamo in una cella, qualche volta ci facevano prendere un po’ d’aria in alcuni passaggi che hanno lì dentro liberi. Nel forte non c’era niente, comandi, compagnia bella. Nemmeno in San Mattia. Prigioni erano, così. Ci hanno tolto dalla città e ci hanno messo là.

D: Quando vi hanno prelevato per partire per Bolzano, dove vi hanno caricato?

R: Eravamo al San Mattia, l’autocarro è venuto lì, ci ha fatto montare e poi è partito, siamo andati fin là.

D: Siete arrivati al campo di Bolzano?

R: Sì. Siamo arrivati direttamente al campo.

D: Eravate in tanti?

R: Parecchi. Non so dirti quanti, ma credo così adesso, la stima mia può essere…ma penso che dovessimo essere intorno al migliaio. Almeno credo. Io ero il numero 8.718, mio papà 8.717.

D: Durante il trasporto su a Bolzano il camion non si è mai fermato? Era un camion solo?

R: Un camion solo e basta, c’erano un paio di motociclisti, elmetto fin qua e basta. E’ andato via così.

D: Siete arrivati di sera su a Bolzano?

R: No, c’era ancora chiaro. Pomeriggio senz’altro, però c’era ancora chiaro. Ci hanno assegnato ai vari blocchi, io ero al blocco B, c’erano due grandi capannoni, erano separati per lettere, A, B, C, D, E, F era quello delle donne. Io sono stato al blocco B fino al momento che hanno aperto il campo.

D: L’immatricolazione lì a Bolzano ve l’hanno fatta subito?

R: Il giorno dopo credo, sì, sì, immediata. Col numero, triangolo rosso e il numero in bianco, 8.718.

D: Ti hanno tolto i tuoi vestiti?

R: No, mi hanno lasciato quegli stracci che avevo. In casa non mi hanno lasciato neanche vestire praticamente, ho infilato un paio di pantaloni e qualcosa addosso, basta. Non avevamo niente, così proprio… “Weg, weg, komm, komm” e basta. Insomma, fatti cosa, a dire: “Un momento”, no, no. Come adesso, fai conto.

D: Ascolta, dentro nel campo cosa ti ricordi? Altre persone, altri amici? Parlavi delle donne.

R: Sì, il blocco delle donne era appunto il blocco F. Alla mattina per esempio avevi il momento che potevi stare sul cortile, potevi stare anche fuori dai capannoni, nessuno ti rompeva le scatole. C’è stato un solo episodio di un ragazzo di Milano, che avevano mandato fuori una squadra per pulire un po’ di macerie ed era andato fuori anche lui. Dopo al ritorno non l’avevamo visto e abbiamo sentito, c’era una specie di fabbricato in fondo vicino ai blocchi nostri, e abbiamo sentito per un paio di giorni delle urla mica male. Deve avere preso una pestata. Di fatti poi è uscito, aveva segni dappertutto. Ma è stato l’unico episodio però che ho visto.

Lì a Bolzano non è successo niente, porco cane. Non è successo assolutamente niente angherie, violenza. Niente. Alla mattina sveglia presto, tutti fuori in cortile, cappelli giù, via, cappelli giù e il momento di salutare la guardia. Poi ti davano un po’ di sbobba, mezzogiorno ancora un po’ di sbobba, questo pagnocchino infernale e la sera qualcosa d’altro. Insomma, onestamente fosse stato solo Bolzano avrei detto: “Va beh, una vacanza andata male”. Non di più, sul serio.

Non immaginavo allora che i campi di là fossero tutt’altra cosa, capisci? Dopo l’ho saputo, caspita, quando sono tornato a casa, quando cominciava a tornare della gente, ho cominciato a leggere e ho cominciato a sentire. Dio Cristoforo, dico, ma com’è possibile? A Bolzano non è successo niente. Non hanno ammazzato nessuno, non hanno pestato nessuno e non hanno messo in croce nessuno. Guarda che ci ho fatto dentro un paio di mesi.

D: Ti ricordi se assieme a te nel campo di Bolzano c’erano anche dei religiosi?

R: Erano quelli più codardi di tutti noi messi assieme. Mi ricordo che c’erano un paio di frati, era uno, un frate di Via Barana. Quello era sempre a chiedere conforto, anche a me. Lui sarà stato più anziano di me, avrà avuto a quei tempi quarant’anni. Ero un ragazzetto così. “Oddio, Milo, cosa dici, che qua, che là…”. Ma dico, padre, a un certo momento, santo cielo, doveva essere lui che consola, porca di una miseria. “Ma qui, ma là, hai visto qua, hai visto là”. Tutti i giorni una balla di questo genere. Dopo lo schivavo come la peste perché non è possibile, Sant’iddio.

Uno qualsiasi può avere le sue idee, ma non un religioso. Doveva essere lui a confortare noi o dovevo essere io a diciannove anni che consolavo lui? Porca miseria, no scusa. Di fatti lo schivavo come la peste dopo. Tagliavo corto, gli dicevo: “Si, va bene”. Bon, andavo via.

D: Ti ricordi come si chiamava questo padre?

R: No, purtroppo… Ho cercato di ricordarlo ancora, ma non sono più stato capace di ricordare.

D: Ascolta, ti ricordi se c’erano, hai visto anche dei bambini, dei ragazzetti molto più giovani di te?

R: No. Io no. Direi che fossimo tutti adulti, penso.

D: Ti ricordi del blocco celle?

R: Al blocco celle non sono mai andato. Sì, c’era, è un fabbricato in fondo. Ci sono i due capannoni lunghi messi così con A, B, C, D ecc. e poi in fondo c’era un fabbricato laterale così, quello era solo per i tedeschi. Lì so che c’erano le celle, perché quel milanese lì l’hanno suonato lì dentro. Ma lì non hanno portato nessuno, è l’unico che hanno portato dentro nel periodo che sono stato lì io. Anche non potevi fare ribellioni di nessun genere, cosa volevi fare?

D: Ma parliamo dei due ucraini. Te li ricordi?

R: Sì. C’è stato recentemente qualcuno a Verona che mi ha chiamato per vedere, perché avevano recuperato sembrava una foto di questi ucraini. Dico, a cinquant’anni di distanza non ce la faccio mica. Però erano quelli addetti al pestaggio e anche nelle piccole cose, perché per esempio la mattina in adunata, chiamiamola così, se c’era da dar qualcosa sempre grintosi con le mani.

Poi se c’era da darti un calcione, quello te lo davano volentieri, perché magari un centimetro là non è che ti dice: “Weg, weg”. No, ti dava un calcione. Quella era proprio l’abitudine. Tutti e due giovani, questi figli di buona donna, erano quelli proprio addetti. Per fortuna la politica del campo non era quella, perché se appena appena avessero avuto un po’ di libertà con quei due lì venivano fuori giostre da mettersi le mani nei capelli. Appunto due o tre mesi fa mi hanno chiamato perché mi hanno fatto vedere. “Caspita”, dico, “strano che abbiate recuperato le fotografie adesso, è passato troppo tempo, non potrei”, dico. “Non posso, mi spiace”.

Dice: “Sa, abbiamo saputo che…”. “Sì, lo so, c’ero”. Proprio sarebbero stati i due addetti che se il comandante del campo fosse stato una carogna o avesse avuto ordini diversi, gli addetti erano loro due. Proprio ce l’avevano nel sangue, li vedevi da come si muovevano, da come facevano. Comunque non è successo, lì da noi non è successo niente.

D: Milo, ti ricordi che c’era una donna soprannominata “la Tigre”?

R: No. No perché lì al blocco F qualche volta ci avvicinavamo per chiacchierare un po’ con prudenza, perché non volevano mica. Sai, scrivevamo così e non so dirti come fosse o se c’era qualcuna in particolare. Erano là tutte ammucchiate in questo baraccone.

D: Milo, attorno al campo c’era un reticolato e c’erano delle sentinelle su delle garitte?

R: Sì, sì. Agli angoli del campo sì.

D: Ascolta, tu sei rimasto lì a Bolzano, nel Lager di Bolzano per diversi mesi?

R: Per lo meno guarda, fatti i conti adesso così, dei giorni ovviamente non riesco a fare il conto totale, ma penso di avere fatto un due mesi, due mesi e mezzo lì dentro. Fino al primo maggio.

D: Cosa facevate tutto il giorno dentro nel campo?

R: Niente. Non ci facevano lavorare. Eravamo lì, eravamo dentro nel nostro blocco a ciondolare, non ci hanno fatto lavorare. Qualche volta hanno preso qualcheduno a caso, lo portavano fuori, ma quando c’era qualche bombardamento magari che c’erano macerie da portare via. Così sporadico però, ma a noi come prassi del campo non ci facevano fare niente. Eravamo lì.

D: Ti ricordi qualche tuo compagno del blocco B, oltre al tuo babbo?

R: Sì, c’era Zanini che conoscevo ancora prima. Dopo, aspetta, chi c’era ancora… Accidenti, adesso dovrei fare un po’ mente locale, abbastanza difficile sai, perché di tempo ne è passato un fracco. Ricordo Zanini perché era il cosiddetto capo blocco nostro, era uno che teoricamente dava ordini a noi, va beh. Era un insegnante anche lui tra l’altro.

Dopo, un altro di Parma, un ragazzetto, Pietra, me lo ricordo ancora, un cognome stranissimo, Pietra. Ha detto: “Qui voglio scappare”. “Stai attento”, dico, “perché hai visto cos’è successo a quell’altro”. “Sì, ma io qua dentro non ci sto mica”. Avevamo fatto un po’ amicizia perché eravamo vicini di branda. Dopo, qualche altro, ma sai, è passato mezzo secolo.

D: Mentre voi del blocco B non siete mai usciti dal campo, altri uscivano dal campo per lavorare?

R: Sì, ti ho detto, qualche volta ma sporadicamente, molto poco. In generale era dopo i bombardamenti. Basta, ma non era che appunto fossero fuori per lavorare e tornare dentro alla sera, no. Episodi proprio, e basta, capisci? Magari volava una bomba, raccoglievano trenta o quaranta persone e le portavano fuori, davano una mano a pulire la strada, tirare via macerie e poi tornavano lì. Nessuno lavorava fuori dal campo di Bolzano, nessuno.

D: Ti ricordi se al campo, tu parlavi prima che avevate il triangolo rosso, c’erano altri triangoli di altri colori?

R: Triangolo giallo, che doveva essere quello degli ebrei se ben ricordo. Mi pare che fossero solo quei due colori lì. Mi pare però. Il rosso era teoricamente per loro per i politici, perciò era il nostro. Gli ebrei invece avevano il triangolo giallo, perché difatti hanno fatto un’infornata.

E pensa che dopo che hanno fatto la tradotta di mio padre, dopo dieci giorni circa hanno fatto una tradotta di ebrei, soli ebrei. Li abbiamo visti, eravamo in cortile, chiamati tutti, altre duecento persone o più. Li hanno portati, erano partiti, il giorno dopo sono tornati lì perché avevano già bombardato la linea gli americani. Da quel giorno lì hanno continuato a bombardare a Bolzano Brennero, non è più andato via nessuno. Se mio papà tardava un pelo, sarebbe ancora qui. Proprio l’ultima tradotta, porcaccia di una miseria, l’ultima. I disegni della Provvidenza sono quelli che sono, porco cane.

D: Milo, il gruppo di tuo padre ha lasciato il campo come?

R: Questo non lo so più, perché sono cose che sono avvenute dopo, io non lo so. A un certo momento li vedevi partire, tra l’altro sono morti dopo, dunque non so. Li chiamavano… Non so dirtelo questo proprio.

D: Non li hanno caricati su dei camion dal campo di Bolzano?

R: No, perché, vedi, l’ultima infornata è stata quella di mio padre e ho visto lui andare via così e basta. Non so con cosa l’abbiano portato là. Dopo non ho più visto niente, capisci? Hanno tentato qualcosa, ma non sono più riusciti a far niente, perché non potevano più. Le strade ormai erano impercorribili, perché gli americani avevano cominciato a fare sul serio, capisci? Sicché non so se li avevano portati con camion, boh. Sì, probabilmente con camion, senz’altro. Perché la distanza non è molta tra l’altro. Eri dentro, non sapevi niente.

D: Milo, durante il tuo periodo di deportazione a Bolzano tu, il babbo e gli altri compagni avevate avuto l’occasione di poter scrivere o di ricevere pacchi o posta?

R: Qualche tentativo c’è stato, ma arrivava il pacco, la carta e qualche pezzetto dentro, il resto tutto… Ti davano un cartoccetto così. Scrivere neanche a parlarne, c’è stato proprio silenzio fin quando sono tornato a casa.

D: Un’altra cosa, tu sapevi che dentro all’interno del campo di Bolzano c’era un gruppo di deportati che lavoravano per la Resistenza interna nel campo?

R: No, non te lo so dire. Anche perché io penso che sarebbe stato estremamente difficile, perché lì armi non ce n’erano ovviamente, avevi la casacchina indosso e basta. La branda era un cuccio messo lì col pagliericcio e basta, non avevi armadietti, non avevi un accidente, per cui non penso che potessero far qualcosa. Avere l’intenzione di fare senz’altro, però al lato pratico, praticamente non era possibile. Sarebbe stato come in un campo di nudisti, che vanno a scassinare casseforti. Con cosa? Con le unghie?

Per cui anche se c’era l’animo senz’altro, mi pare che c’era l’animo, ma non potevi attuare. Ogni tanto ti capitavano dentro al blocco, davano un’occhiata in giro qua e là, per cui sapevi benissimo che se ti beccavano con un pezzetto di ferro così la passavi brutta. Allora nessuno poi faceva niente. Intanto non sapevi chi te le poteva portare, perché i contatti con l’esterno… Da fuori cosa vuoi, che entrasse uno col pacchettino di roba nascosto nella tasca? No di sicuro. Per cui non c’era niente lì, eravamo così come sono io adesso.

D: Quando hai saputo della morte del tuo babbo?

R: Ce l’hanno comunicato…intanto, visto che non tornava, ho immaginato subito. Qualche mese dopo ci hanno dato la conferma ufficiale, morto a Gusen e basta. Si fermavano lì all’Adige, non mi ricordo più adesso il posto, un attimo… San Giorgio, che avevano messo fuori le fotografie di tutti quanti.

Avevano messo fuori la fotografia di mio papà, lì arrivavano dei deportati e allora si chiedeva, c’era tutta una specie di bacheca fatta così. Sono andato giù per dei mesi, fin quando si è diradato completamente il ritorno di gente, nessuno sapeva un tubo. Per cui quelli che erano con lui sono crepati con lui. La notizia precisa non l’ho avuta da nessuno, data presunta della morte e basta, niente di più.

D: Scusa, questo San Giorgio dov’è?

R: San Giorgio è in riva all’Adige. Qua a Verona, quando vieni, che so io, da Ponte Navi, tu costeggi l’Adige, ad un certo momento vieni verso borgo Trento, quella zona lì si chiama San Giorgio. Dove si aprono le strade per borgo Trento.

Lì arrivavano a volte camion di gente che era deportata là, lavoratori e compagnia bella arrivavano giù. Avevano messo…c’era un muro e avevano messo fotografie, dopo andavano là per sentire se qualcuno veniva dai campi di là. Ho fatto settimane lì, poi mi sono stufato perché capivo che non riuscivo a combinare niente, allora basta. Sono andato a sentire qualche notizia e le ho avute dopo dall’associazione.

E’ stato lì, è morto a Gusen, la data precisa non si sa ancora, perché lì facevano l’infornata, non è che tenessero conto. Probabilmente tenevano conto del numero giusto per fare un bilancio matematico, ma non di più. Adesso hanno pescato fuori sulla Gazzetta Ufficiale, la morte di mio papà col giorno, sarà vero, non sarà vero… Non lo so. Mi hanno dato un giorno, poco tempo dopo che l’avevano portato via, il giorno è risultato neanche due settimane dopo che era andato via da me.

Probabilmente sarà anche giusta, probabilmente qualche dato l’avranno trovato magari in mezzo alla fureria di questi campi, forse. Tanto lo spazio era ristretto, che fosse quella settimana o quella dopo non cambia niente, non è un anno di differenza. Purtroppo sono stati quei due mesi lì, quel mese e mezzo lì. Bastava un poco di niente e sarebbe tornato a casa anche lui, porca vacca. Scusate il termine.

D: Milo, quindi lì a San Giorgio non c’era un ufficio però?

R: No, era lo scalo di quelli che venivano giù da là. A Verona, magari portavano giù anche quelli che erano andati a lavorare, tante belle storie. Scaricavano giù lì a San Giorgio poi ognuno andava per i fatti suoi, non era una zona prestabilita. Era soltanto per abitudine, si andava lì, allora c’era sempre gente, si chiedeva, si faceva vedere la fotografia. “Per caso, eri là, hai visto qua?”. Sono andato avanti un sacco di tempo, dopo ho visto che non serviva a niente, ho smesso e si era rarefatto anche il movimento di gente che veniva in giù, ormai si era già scaricato il fiume grosso.

D: La tua Liberazione, come siete stati avvisati voi?

R: Niente, una mattina ci hanno chiamati fuori all’appello. Uno ha tradotto: “Adesso si esce dal campo, si esce a gruppi, ci sono gli autocarri che portano via”. Basta. Bene. Allora sono montato su uno degli autocarri e lì uno scaricava qua, uno di là, uno in là, uno in qua in modo da evitare l’afflusso, perché se la sono vista brutta in quel momento lì. Se la sono vista brutta veramente. Noi appena scaricati, chi si mette lì a raccogliere gente per tornare indietro? Figurati. Avevamo solo voglia di menare le tolle. Abbiamo incominciato a camminare in giù, c’era una fiumana di gente continua che andava in giù.

D: Era maggio dicevi, no?

R: primo maggio.

D: Tu sei ritornato da solo?

R: Sì.

D: A piedi?

R: Ho schivato completamente la compagnia per un semplice motivo, che quando eravamo sul mio camion, eravamo sull’autocarro scoperto, avevamo già incominciato a incrociare le prime retroguardie tedesche che venivano giù, c’è stato uno sciocco. C’è la signorina, non volevo dire la parola. “Adesso è finita, eh!”. Dio Cristoforo, come gli sono saltato addosso.

“Se muovi ancora un dito ti strangolo, cretino d’un cretino. Ma ti accorgi che sono ancora armati, hanno le armi impugnate in mano ancora, perdincibacco! Un gesto così ci sparano addosso, adesso che è finita, cretino”. “Non credevo, non credevo”. Si è messo lì in un angolo, non ha più sbuffato. Stavo strangolandolo, porca vacca. Va bene. Allora la discesa me la sono fatta per conto mio, dove c’era il gruppo o mi fermavo o andavo avanti o mi spostavo o mi sedevo da una parte della strada.

Niente, l’ho fatta tutta da solo. Almeno io vado via a testa bassa, basta. Quegli altri difatti non mi hanno mai rotto le scatole, sono andati su incavolati, perché in piena ritirata, figurati. Però perlomeno io non li ho stuzzicati. Quell’altro così gli ha fatto, madonna mia, mi aspettavo una raffica di mitra secca. Dico, crepare proprio adesso a guerra finita no ragazzi. Allora solo soletto, altri mi dicevano: “Vai giù anche tu?”. “No, no, mi fermo”. “Di dove sei tu?”. “Sono arrivato, sono qui”.

Tutto così, piano piano. Ho fatto tutta la Val d’Adige, conosco abbastanza bene la Val d’Adige. Sono centocinquanta chilometri, non è che fossi molto allenato, un po’ per la fame, un po’ per tutto, non è che fossi proprio in condizioni splendide. Però sono arrivato da mia madre, poveraccia. Era ridotta uno straccio. Mi ha visto arrivare dalla strada, perché era seduta sul poggiolo. Mi hanno detto che stava sul poggiolo delle ore tutti i giorni. Ad un certo momento: “Oddio, Miletto, oddio sei tu?”. “Sono io, sono io”. Allora un abbraccio di tre quarti d’ora.

D: Milo, ci sono degli altri particolari che adesso ti sono venuti in mente sia dell’arresto, della carcerazione o della tua deportazione nel campo di Bolzano?

R: Più o meno a grandi linee ti ho detto tutto. No, direi di no. La mia è stata… Si fosse risolta così anche quella del mio vecchio, sarebbe stato niente. Nel mio caso a parte il morale, quello che ti sentivi dentro, la bomba dentro, però fisicamente io non ho sofferto.

Fame, un po’ di fame, va beh, diavolo, capirai bene cos’è. Botte non ne ho prese, la fame vera non l’ho fatta, una cuccia per dormire ce l’avevo, non mi spaccavano l’anima per lavorare perché non mi hanno fatto lavorare. Per cui a conti fatti avevo il coso dentro, d’accordo, però sofferenze fisiologiche io obiettivamente non ne ho avute. L’ho sempre detto questo. Non è che debba vantare adesso, chi è venuto giù da Bolzano raccontando sono balle, balle sacrosante. Chi s’è fatto grande con un po’ di sofferenze, qualcuno lo conosco anch’io. “Perché noi, sapessi, ci facevano..”. Non ci facevano una madonna, non ci hanno fatto niente. E’ stata una segregazione e basta, non di più.

Geloni Italo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Italo Geloni. Sono nato a Seravezza in provincia di Lucca il 23 novembre 1924.

Ho fatto il militare nella Marina. Sono stato imbarcato su un cacciatorpediniere poi, per motivi particolari, siamo stati destinati a terra. A terra era La Spezia S. Bartolomeo. Ero in contatto costantemente con gli antifascisti perché era appena passato il 25 luglio; con gli antifascisti della località Pitelli, sempre nella provincia di La Spezia, nel comune Lerici.

Quando è arrivato l’8 settembre arrivarono nella zona di S. Bartolomeo anche i nazisti. Riuscimmo a scappare, ci volevano prendere tutti ma noi riuscimmo a scappare e andammo nelle formazioni partigiane della zona. Poi scesi giù in città ad operare.

Il 2 luglio 1944 in via XX Settembre numero 50 ci fu un’irruzione nella casa da parte delle SS e dei fascisti. Fummo arrestati, uomini e donne, e portati alla Casa del Fascio, chiusi in un gabinetto di decenza. La sera al buio fummo portati nel carcere di Villa Andreini a La Spezia.

D: Italo, dove ti hanno arrestato? In che località?

R: A La Spezia in Via XX Settembre 50, l’avevo già detto.

D: Cosa c’era in villa Andreini a La Spezia?

R: C’era il carcere; era un carcere molto brutto.

D: Stavi dicendo che era un carcere molto duro?

R: Era un carcere più che duro. Tanto è vero che, perché non avessimo noi arrestati contatti fra di noi, si veniva messi soli nelle celle al sicuro, distanti l’una dall’altra almeno di due celle in modo da non aver la possibilità di parlare. Solo uno mi chiamò e mi disse: “Italo, mi raccomando” anzi, mi disse: “Olati”, che è il mio nome anagrammato da partigiano, “Olati, mi raccomando anche se ci ammazzano stiamo zitti”. Io risposi: “Stai tranquillo che io sto zitto e non parlo”. E di fatto così fu, io non ho parlato e lui parlò. Parlò dopo e fece arrestare una seconda parte di partigiani e di antifascisti. Si è ammazzato nel ’46, si buttò sotto il treno perché la mamma e la sorella finirono nel campo di sterminio di Ravensbrück. Dopo quattro giorni che eravamo in carcere si fu interrogati dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, che era stato ricostituito dopo l’8 settembre, e ci dissero che noi uomini saremmo stati condannati a morte e le donne a trenta anni di galera.

D: Poi cosa è successo?

R: Poi è successo che non ci hanno ammazzato per nulla anche in virtù di quello che aveva parlato.

Avevano preso questo impegno siccome c’era anche la mamma e la sorella. Ora la mamma è morta, da poco, aveva quasi 100 anni, poverina.

D: Ti ricordi come si chiamavano?

R: Grosso modo, ma certi nomi non posso farli, è l’impegno preso. Proprio per quello che aveva fatto il figliolo e fratello.

D: Italino, lì siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti venti giorni.

D: E poi?

R: Poi un bel giorno ci hanno radunato tutti insieme in una cella grande e la mattina alle 5 siamo partiti per Genova, a Marassi. Entrati a Marassi eravamo scortati con camionette, motocarro e motocarrozzette armate di mitragliatrici avanti e indietro perché avevano paura che quando si passava nella zona partigiana si fosse attaccati per liberarci. Invece non ci vide nessuno, ci si fermò soltanto ad un ponte, ci permisero con i soldi che avevamo di comperare frutta e verdura, per mangiare e per far colazione.

Poi arrivammo a Marassi. Marassi era tutta piena, era domenica pomeriggio.

Era tutto pieno di soldati repubblichini armati fino ai denti, sui tetti c’erano le mitragliatrici e giù c’erano anche i mortai. Arrivammo e ci diedero il numero di matricola; a me diedero il 1.121 e l’ultimo aveva il 1.133, 1.134. Nel frattempo arrivarono delle SS, degli ufficiali: dicevano di aver bisogno di due da fucilare e, dato che eravamo stati condannati a morte e poi salvati, dissero: “Ci date due di questi”. Anziché prendere i primi due presero gli ultimi due, il 1.133 e il 1.134. Li portarono alla fucilazione insieme ad altri cinquantotto di cui avevano bisogno secondo le esigenze di poterli fucilare. Non mi ricordo come si chiamavano. Poi, lì, conobbi altri compagni.

D: Nelle carceri di Marassi di Genova quanto tempo sei rimasto, Italo?

R: Una quindicina, venti giorni; non di più, ora la date non me le ricordo.

D: E dopo?

R: Dopo siamo stati portati a S. Vittore a Milano, primo raggio, che funzionava per i deportati politici, prigionieri politici. Eravamo al terzo piano, cella numero 2, eravamo in dieci.

Un bel giorno si arrivò al 15 agosto, anzi vorrei ricordarlo perché è giusto. C’era un personaggio, che anche oggi è un personaggio, che si chiamava Mike Bongiorno il quale faceva lo scopino in carcere anziché stare nella cella addetta all’infermeria, cella di cui, come cittadino straniero, avrebbe avuto diritto e nella quale si stava molto meglio. Io avevo bisogno di determinate cure per dolori che avevo nelle gambe e nelle braccia, avevo bisogno di iniezioni. Quest’uomo convinse il medico del carcere, che era sottoposto ai nazisti, a venire a farmi tutti i giorni per una settimana le punture e me le fece. E mi sono sentito bene, anche dopo quando sono arrivato al campo di sterminio.

Poi conobbi anche Indro Montanelli il quale non è che si fosse comportato un granché bene. Ci avvertiva quando le cose andavano male, questo sì, era vero; però si seppe che lui la fine che si è fatta noi non l’ha fatta. Fu liberato perché la mamma, che era la responsabile nazionale delle donne fasciste, fece liberare il figliolo dal carcere. Non è che lui abbia fatto qualche cosa per noi.

C’è stato poi quando siamo partiti da Milano. La notte c’era stato un bombardamento e noi si urlava “Arrivano gli inglesi arrivano gli inglesi”, si sentiva all’interno del carcere un trambusto. Venivano radunati tutti quelli del primo raggio, portati fuori, caricati su dei mezzi, su autopullman e su un camion 26 con rimorchio. Le ultime celle, nell’ordine di quaranta, quarantacinque persone, andammo sul camion e davanti a noi c’erano i fascisti con un fucile mitragliatore piazzato verso di noi; partimmo per Bolzano.

Arrivati a Bolzano fummo assegnati ad un capannone insieme ad altri che c’erano già, i quali erano tutti comandanti partigiani, partigiani antifascisti che erano stati in carcere. Avevano chiuso, anche davanti, col filo spinato; era il blocco B mi pare.

D: Ti ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Sì, 2.852.

D: Italo, quanto tempo sei rimasto nel Lager di Bolzano?

R: Dal 16 agosto al 4 settembre, il giorno che siamo partiti.

D: Ti ricordi se c’erano delle donne?

R: Sì, diavolo. Ce n’era una che addirittura mi obbligava a spogliarmi in presenza sua per lavarmi le mutande e la canottiera che avevo addosso. Maria si chiamava, era anziana.

D: Italo, ti ricordi se c’erano anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, padre Giannantonio, prima di tutto, mi ha voluto tanto bene. Dopo lì, l’ho rivisto a Dachau. Il giorno stesso che mi hanno liberato era accanto a me che mi assisteva, lui e don Fortin, parroco di Terranegra di Padova.

D: Lì sei rimasto fino a settembre?

R: 4 di settembre.

D: E poi?

R: Quindi siamo partiti per Flossenbürg.

D: Cioè tu non sapevi dove andavi?

R: No, niente, si andava in Germania.

D: Italo, dal campo di Bolzano per la partenza dov’è che vi hanno portato?

R: Ci hanno portato di fianco alla conceria dei tabacchi, mi pare che fosse questo. Comunque c’era un laboratorio e c’erano delle donne che dalle finestre, con delle pezze di canna o di ramo, ci davano sigarette, fiammiferi, pane, frutta, mele in modo particolare ce n’erano tante. E poi si partiva.

D: Dopo siete andati sui vagoni?

R: Siamo andati sui vagoni e invece queste donne dalle finestre ci davano tutto.

D: Dicevi Italo siete partiti?

R: Sì, siamo partiti.

D: Quanto è durato il viaggio, più o meno, te lo ricordi?

R: Quattro giorni. Per arrivare a Flossenbürg.

D: L’arrivo a Flossenbürg come te lo ricordi?

R: Tremendo. Si arrivò alla stazione di Flossenbürg giù in basso, Flossenbürg campo era su in alto. Ci inquadrarono e ci fecero passare; fu lì che vedemmo per la prima volta le nostre divise e i nostri compagni che lavoravano e che erano deportati all’interno del campo. Si arrivò all’ingresso, erano quasi tutti uguali, abbiamo rivisto poi anche quello di Dachau. Andammo dentro il piazzale, mano a mano che si passava c’era un SS del campo con un gran bastone, lungo lungo, che mano a mano ci picchiava in testa. Io ero fortunato perché bassino; accanto a me c’erano dei compagni che le prendevano anche per me perché io ero basso. Si arrivò nel piazzale.

Ci fecero spogliare nudi. Ci fecero mettere la roba dentro ad un sacchetto e ci fecero scrivere quello che c’era dentro. Ci dicono che poi ce l’avrebbero riconsegnata ma io non ho avuto più nulla, né visto più nulla, nemmeno i soldi che avevo; avevo 130.000 lire dell’epoca che non erano solo mie ma anche degli altri compagni: non ho rivisto più nulla. Poi così, a caso, presero dieci di noi e li impiccarono davanti al campo russo cosiddetto. Poi ci portarono all’interno delle due baracche addette al ricevimento dei deportati che per la prima volta venivano al campo, ci presentarono al capo della zona che era un ex barone tedesco che aveva ammazzato tutta la famiglia e che per punizione avevano messo a fare il guardiano all’interno delle baracche, le due baracche della quarantena.

Giù, un pochino più in basso, c’era il forno crematorio, e noi si sentiva, sempre, costantemente, il latrato come se fossero dei cani e invece erano le cornacchie cra-cra-cra-cra che sentivano l’odore della carne bruciata. Si vedevano passare, lì in fondo, le barelle con i morti che venivano portati al forno crematorio.

D: L’immatricolazione quando te l’hanno fatta a Flossenbürg?

R: Dopo una decina di giorni.

D: Il tuo numero qual è?

R: Questo: 21.569. Me lo ricordo sempre, anche in tedesco. Ogni volta che mi chiamavano mi chiamavano in tedesco e se non rispondevo erano botte. Siccome le botte non le volevo perché ammazzavano con quello a forza di legnate, avevo imparato anche a rispondere in tedesco.

D: Dopo la quarantena cosa è successo?

R: Un bel giorno ci hanno chiamati e ci hanno portati al Wäscheraum: ci hanno fatto fare il bagno. Ci hanno spogliato. Ci hanno levato tutto quello che si aveva addosso che poi era una camicia e un paio di zoccoli olandesi a barca. Ci hanno portato dove c’erano i sarti e hanno dato a tutti la divisa del deportato. Ci venne messo il numero di matricola sul petto, sul berretto e qui sui pantaloni. Il giorno dopo ci hanno fatto andare giù a Flossenbürg.

Ci hanno fatto montare sul treno e ci hanno portato a Hersbruck, a 17 chilometri da Norimberga. Quello è stato il primo vero campo di sterminio. Con me c’era padre Giannantonio, Teresio Olivelli, Becciu Salvatore, Pani Mario e altri, di cui ora magari non ricordo il nome.

D: A Hersbruck eri addetto al lavoro?

R: Sì, tutti. Il giorno dopo ci assegnarono subito un lavoro. A me assegnarono allo Stollenbau in montagna, nelle gallerie; dovevo andare nel pomeriggio. Sennonché altri, alla mattina, come Pani Mario sardo partigiano li avevano assegnati al Kartoffel: Kartoffel sono patate. Chiamavano Pani Mario e lui rispondeva: “Ma io non ci voglio andare perché c’è quel mio amico, siamo paesani, voglio stare con lui, non ci voglio andare in quel commando”. Io gli faccio: “Ma sai che lì ci sono le patate” e lui: “Non mi interessa, voglio andare con lui”. Allora venne Teresio Olivelli e mi dice: “Senti, anche se ti danno due o tre ceffoni, pigliali, ma vai al comando Kartoffel e dì che l’italiano sei tu” e così feci. Quell’italiana invece dei due ceffoni per andare al comando Kartoffel la sera avevo già mangiato sei patate così grosse, cotte, non crude.

D: Italo, per andare dal campo di Hersbruck alle gallerie con cosa vi portavano?

R: A piedi.

D: Erano vicine o distanti?

R: 8 chilometri.

D: Tu cosa facevi dentro nelle gallerie?

R: Lì ci sono andato dopo, prima sono stato al Kartoffel. Spingevo vagoncini, li caricavo e li scaricavo insieme agli altri naturalmente, quei pochi che eravamo addetti.

D: E finito il lavoro?

R: A piedi si ritornava al campo. Si veniva frugati da tutte le parti per vedere se c’erano cose che non si dovevano avere. Poi ci mandavano in baracca. Nella baracca come si entrava bisognava stare attenti a non avere nemmeno un granellino di sabbia perché si sporcava.

C’era il capoblocco con i suoi scugnizzi coi bastoni e prendeva a bastonate tutti. Poi io avevo capito che non dovevo dormire in basso ma era meglio in alto perché per arrivare da me facevo in tempo anche a scappare. Difatti stavo su al quarto piano a dormire. Poi, la mattina, quando ci si svegliava non è che dicevano: “Oh oh svegliatevi che è l’ora”! Venivano coi bastoni e con gli sgabelli e sgabellate e bastonate a tutti. C’erano anche quelli che ci morivano, per i colpi in testa. Quando erano passati tutti scendevo ed ero tranquillo, cercavo di fare il furbo.

D: A Hersbruck quanto tempo sei rimasto?

R: Da settembre fino a marzo, quando poi siamo partiti per Dachau.

D: E’ stato smobilitato tutto il campo?

R: Sì tutto il campo.

D: Stiamo dimenticando un passaggio …

R: Il Kartoffel fu molto importante per me e per i miei compagni. Con un filo di ferro piegato in cima e in fondo infilavo le patate e me le mettevo nella gamba dei pantaloni perché anche se mi avessero toccato frugavano sempre quassù sulle tasche e io le portavo dentro il campo. Poi le distribuivo a quei compagni che più ne avevano bisogno, anche sulle indicazioni di Teresio Olivelli. Era una gran brava persona. Io distribuivo le patate. Però avevo un compagno veronese che si chiamava Luciano che veniva da Torino e stava in Via Vanchiglia n. 47. Ci sono stato dopo la Liberazione e non ci ho trovato nessuno della famiglia e lui invece era morto. Una volta invece gli portai le patate e lui mi disse: “Dalle a qualche altro perché io fra mezz’ora sono morto”. Eravamo stati insieme anche in carcere, nella stessa cella, e poverino non stava bene di salute.

D: Punizioni non ne hai mai subite?

R: Tante. Tanto è vero che una volta mi volevano impiccare perché avevo cercato di fuggire. Avevo già il cappio al collo, montato sullo sgabello, tesa la corda. Il capitano delle SS, il comandante del campo, guarda e vede dal mio numero di matricola che sono un italiano; mi domanda di dove ero e perché volevo scappare e rispondo: “Perché volevo andare a casa, volevo ritornare in famiglia”. E allora mi guardò un po’ e disse a quell’altro: “Mandatelo via” e difatti mi levarono il cappio. Mi fecero scendere e io me lo sento sempre addosso questo cappio.

D: Italino, e la storia della pietra quale è?

R: No, perché mi avevano messo, appunto perché avevo tentato la fuga, un disco rosso in campo bianco così davanti e di dietro. Non ci capisco perché sai tante cose mi sono passate di mente.

Dopo che avevo tentato la fuga per punizione dovevo portare una pietra sulle spalle.

D: Lavorando lo stesso?

R: Lavorando lo stesso. Poi c’era anche un sottoufficiale delle SS che quando poi andai a lavorare allo Stollenbau mi faceva: “Tu italiano” e mi indicava il forno crematorio che era in fondo al palazzo. “Tu crematorio!” e mi faceva proprio così anche con la mano. Io dentro di me gli dicevo: “Vai, vai, aspetta che poi te lo do io”. Passava sempre in cima al cordolo della montagna e sotto c’era un precipizio di 300 metri. Un bel giorno avevo la pala in mano, gli diedi una spinta e se ne andò di sotto. Non se ne accorse nessuno e morì. I compagni miei, deportati, videro tutto però non hanno mai detto una parola. Nemmeno così, di sottinteso, in modo che gli altri non mi avessero fatto del male; anzi passavano, facevano così, mi strizzavano l’occhio come dire è andata bene.

D: E l’evacuazione dal campo di Hersbruck avviene quando?

R: Nel mese di marzo del 1945. Dopo che ero già stato a Mauthausen, però, per punizione. Insieme a Teresio Olivelli, Becciu Salvatore e ad altri avevamo fondato il Comitato di Liberazione Italiano del campo, in modo che ci si seguisse dal punto di vista politico e di aiuto l’un con l’altro. All’interno del campo c’era anche la Gestapo che funzionava in mezzo ai deportati. Scoprirono un certo numero di deportati di tutte le nazionalità e in duecento un bel giorno ci presero e in presenza a tutti ci dissero che saremmo stati mandati a Mauthausen. Difatti c’erano i camion pronti, ci caricarono sui camion e ci portarono a Mauthausen; blocco numero 8.

Poi si andava a trasporto e comando, si scendeva e si montava le scale, la cosiddetta scala della morte centoottantasei gradini, col peso sulle spalle. C’era una specie di gerla che si metteva sulle spalle, mantenendola in questa posizione con la pietra che si portava in cima in cima sotto le mura del campo. Dopo lì venivano i comuni e i civili a pigliarle e le pagavano alle SS; le SS ce ne hanno fatte tante, centinaia di milioni.

D: A Mauthausen ti hanno portato quando? Te lo ricordi?

R: In febbraio. Fine di gennaio e febbraio del 1945.

D: Poi sei ritornato ancora a Hersbruck o a Flossenbürg?

R: Dei duecento, in quindici giorni, eravamo rimasti in cinque, perché c’era la punizione cui eravamo stati destinati. Noi cinque fummo riportati a Hersbruck. Era il mese di marzo. Dopo pochi giorni, mi pare dopo due o tre, fu evacuato il campo e ci portarono verso Dachau.

D: L’evacuazione del campo come è avvenuta? Vi hanno portato giù a Flossenbürg?

R: No no, a Flossenbürg portarono soltanto gli ammalati, quelli della infermeria e poi furono fatti fuori tutti, lo abbiamo saputo dagli altri. E noi lungo la strada si arrivò a Saal an der Donau, città sul Danubio, proprio sul Danubio. Era una cava dove lavoravano i deportati. Dopo due o tre giorni si riprese la strada e ci portarono a Dachau.

Appena passata la città venne una donnetta, mi sembrava la mia nonna santa. Aveva il grembiulino e sotto il grembiulino aveva un recipiente e dentro il recipiente c’erano delle patate cotte. Mi fa: “Tschüß!” e io: “Auf wiedersehen!” Tirò fuori cinque, mi pare, o sei di queste patate e me le diede, io le mangiai con la buccia e tutto, poi mi disse di distribuirle un po’ anche agli altri. Quando un Kapò la vide, fece la spia alla SS di scorta; la SS andò giù e prese la vecchietta tedesca, la mise di fianco, le sparò in testa e la ammazzò perché ci dava le patate da mangiare.

Poi per la strada non ci portarono più nulla da mangiare le SS. C’era uno, un ufficiale dell’aviazione, che ogni giorno portava a quattro o cinque che gli si erano sempre vicino dei pezzettini di carne cruda. Noi si mangiava anche quello perché si pensava ai cavalli, vacche, cani, gatti; tutti si pensava a queste cose ammazzate coi bombardamenti e mitragliamenti. Invece poi l’ultimo giorno ce lo fece vedere. La levava nelle parti molli dei nostri compagni. “Ah” mi disse: “e te cosa dici?”. “E che devo dire, che io anche se muoio non la mangio più”. Ma almeno così loro avranno cercato di portare la pellaccia a casa sapendo quello che era stato fatto nei campi di sterminio.

D: Poi siete arrivati a Dachau?

R: Siamo arrivati a Dachau. Ci hanno portati subito al Wöscehraum. Infilato in un mastello grande, di quelli da 200 litri con l’acqua calda. Chissà, forse l’acqua calda mi fece effetto: io stavo calando sotto, stavo affogando. I miei compagni mi videro e presi piano a bambinare la cosa. Si dice così nel gergo nelle cave là dove si deve muovere una piastra, un pezzo di marmo, si dice “bambina”. Allora mi fecero rovesciare con l’acqua e camminai almeno una decina di metri con questa acqua.

D: Italo, a Dachau sei stato immatricolato ancora?

R: Sì, non era più quello di Flossenbürg, era 154.749.

D: Lì non sei più andato a lavorare? Eri in qualche comando?

R: No, hanno cercato di mandarmici ma io d’accordo coi compagni me la squagliavo sempre. C’era Ettore, un tecnico della Ansaldo di Genova, antifascista, che mi diceva: “Te prima di partire rivolgiti sempre a me e ti dico cosa fare”. Io so che lui era in contatto con il Comitato di Liberazione Internazionale del campo, insieme a Giovanni Melodia, e io così ho fatto. Poi veniva a trovarmi padre Giannantonio e don Fortin e veniva anche monsignor Behran, arcivescovo di Praga, e Carlo Manziana, vescovo di Crema. Io che non sono un credente ho sempre creduto a quello che mi hanno detto, mi sono sempre comportato così come loro hanno voluto.

D: A Dachau te la ricordi la Liberazione?

R: Come no?

D: Dove eri tu?

R: Ero sdraiato in terra, sotto la finestra.

Al fianco da una parte e dall’altra c’erano padre Giannantonio e don Giovanni Fortin. Venne un americano, anzi prima di lui passarono monsignor Behran e monsignor Manziana, vescovo di Crema.

Ci avvertirono: “Siamo in contatto con la Croce Rossa internazionale”, tramite la radio clandestina che c’era nel campo, “non vi muovete per nessun motivo perché loro vogliono ammazzare tutti”, difatti ne ammazzarono diverse migliaia, “restate nella baracca anche se non si mangia perché da un momento all’altro saremo liberati”. E difatti fu così.

Il 29 aprile alle 17.45 arrivarono a liberare il campo. Mi ricordo che venne un militare vestito da americano e invece era un italiano che si era arruolato dopo l’8 settembre con gli americani. Un italiano di Lucca che io conoscevo. Appena entrò disse: “C’è qualcuno di Lucca qui?” “No, uno di Lucca no, ma ce n’è uno di Seravezza”, e glielo disse padre Giannantonio perché sapeva tutto di me. “Oh, come si chiama?” “Così e così.” “Oh, ma io lo conosco questo. Ci siamo conosciuti a Lucca in una certa occasione.” Disse anche in quale e io qui non voglio ripeterla perché si va a finire ragazzi, mi dispiace. In una certa casa ci eravamo conosciuti e si stava ben vestiti per picchiarci per questioni di precedenza. Lui è quello che venne e mi fece portare immediatamente ad un ospedaletto 150 chilometri distante dal campo. Ci sono stato quindici giorni; mi hanno curato bene e poi volli tornare a Dachau per stare con i miei compagni, perché stavo male lì dal punto di vista personale ma non dal punto di vista delle cure. Mi hanno curato bene finché poi mi hanno dimesso e volevo tornare a casa. Giovanni Melodia, che era il presidente del Comitato Italiano di tutti gli italiani rimasti che ora sta a Roma e sta molto male poverino di salute, ma molto molto, non mi voleva mandare a casa. Diceva: “Non sei neanche a posto, la salute è quella che è, bisogna che tu abbia pazienza”. Io dissi: “Voglio fare la prova; novantatre gradini e poi ridiscenderli.” Li montai così impettito che poi cascai dall’altra parte nella discesa perché non mi vedevano e allora partii e venni a casa.

D: Questo quando era?

R: Era il 24 giugno 1945.

D: Italino, ma quando tu sei arrivato a Dachau dopo un pezzo di marcia a piedi non avete preso anche un treno?

R: Sì, per gli ultimi 80 chilometri, dopo Saal an der Donau, dopo l’episodio di quella vecchietta poverina, ci fecero montare su dei vagoni. Mentre si era lì che si aspettava la partenza cominciò a piovere roba dentro il carro: erano patate crude ma noi le mangiammo anche crude pur sapendo che ci avrebbero fatto male. Io cominciai a urlare fuori: “Chi c’è fuori? c’è degli italiani?” Mi risposero di sì ma mi dissero anche: “Stai zitto” e stetti zitto, non parlai più.

Poi si partì. Eravamo cento per ogni vagone, quei vagoni che portavano il carbone, grandi, aperti, tutti così. Ogni tanto qualcuno moriva e per ripararsi dall’acqua ghiacciata che veniva giù io prendevo due morti e me li mettevo sopra così fino a che si arrivò a Dachau. Alla stazione vicina del campo ci fanno scendere. E chi va a Dachau ha delle fotografie della ferrovia con dei vagoni con cui siamo arrivati noi con tutti morti giù lungo tutta la scarpata della ferrovia. Io, di cento che eravamo su questo vagone, ci sono. Gli altri novantanove nella nottata erano morti tutti.

D: A Dachau non sei mai stato al Revier, non ti hanno mai curato?

R: Dopo che sono ritornato dall’ospedaletto americano sì, ci sono stato una quindicina, venti giorni.

Nencioni Nedo

Nota sulla trascrizione della testimonianza :

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

R: Mi chiamo Nencioni Nedo, sono nato a Livorno il 23.12.1927 e sfollai ad Empoli, fui preso dai repubblichini l’8 marzo 1944. A noi livornesi sfollati ci avevano messo in un ricovero di vecchi, da noi livornesi vennero con la scusa di dire che c’era stato un furto e che quindi ci volevano al commissariato per vedere chi aveva rubato. Io feci presente che io avevo smesso di lavorare e che quindi non c’era bisogno che andassi. Dice: A noi chi ci dice che…?”. Dico: “Voi telefonate là alla vetreria Cesa”. Perché io lavoravo alla vetreria Cesa e mio padre alla vetreria Taddei. Mia madre, povera donna, fu sì impressionata, perché erano le cinque del mattino, si alzò dicendo: “Che c’è, che non c’è?”. “No, signora, non è niente. Sa, c’è stato un furto, così e così, ma se il figliolo non ha fatto nulla si rinvia”. Sicché la mia mamma, povera donna, dice: “Nedo, se è così vai, poi ti rimanderanno”. Tant’è vero, povera donna, quando ritornai tante volte si è mangiata le mani di dire: “La colpa è mia, te non volevi andare”. Da lì scesi le scale e uscii in strada, però fuori c’erano già i pullman che ci presero, ci fecero salire sul pullman. Non so quanti ci presero, ma diversi livornesi che erano sfollati. Ci portarono alla caserma dei repubblichini che si trova nei pressi dell’ex vetreria Taddei, lì vicino. Ora la via non la ricordo. Poi apparve anche…

D: Scusa, Nedo, in quanti vi hanno presi?

R: In tutti a Empoli penso fossimo sulle cinquanta persone. Poi ci sono aggiunte di altri che non sono stati presi a Empoli, insomma oltre cinquanta persone. Fra vetreria Taddei e sfollati e altri ritenuti un po’ degli antifascisti presi nelle case.

D: Lì hanno preso anche il tuo babbo?

R: Sì, dentro la vetreria Taddei sì.

D: Dove vi hanno portati?

R: Dalla caserma dei repubblichini di Empoli ci portarono prima alla caserma degli allievi carabinieri di faccia alla stazione di Firenze. Però il comandante della stazione dei carabinieri disse: “No, non ne voglio sapere”. Allora da lì ci portarono a Villa Triste. A Villa Triste ci misero cinquanta per cella sotto e poi a uno a uno ci fecero salire. Si entrò in una stanza e c’erano due in borghese. Ci chiesero i documenti, presero la carta d’identità e dissero: “Vada, vada”. Io aspettava a uscire fuori, perché attesi anche mio padre. Arrivato anche mio padre si uscì e si fece tanto per andare via, quando invece ci chiamarono per risalire sul pullman. Io pensai che ci riportassero a casa, invece da lì ci portarono alle Scuole Leopoldine.

D: Dove questo?

R: Sempre a Firenze, alle Scuole Leopoldine. Alle Scuole Leopoldine ci misero quaranta per aula, quindi toccò a me, perché davanti a me c’era il mio babbo, dopo il mio babbo a me mi mandavano in un’altra aula. Io urlavo: “No, no, io voglio stare col mio babbo, voglio stare col mio babbo”. Assieme ai repubblichini c’erano anche gli allievi carabinieri e quest’allievo carabiniere mi fece: “Il tuo babbo? Quanti anni hai?”. “Sedici, disgraziato!”. “Come disgraziato? No, no, vai, vai dal tuo babbo”. Così entrai col mio babbo. Però a me non mi facevano tanto la guardia, via via uscivo dall’aula, guardavo e a un certo momento venne una signora in borghese. Fece: “Sono arrivati i tavolini per dare da mangiare a questi volontari?”. Io rientrai dentro l’aula e dissi: “Ci considerano volontari, ci hanno strappato dalle braccia delle nostre famiglie, sono capaci che ci portano in Germania a questo punto”. Per questi tavolini forse si intendevano queste autoblindo. Arrivate le autoblindo arrivò un ufficiale delle SS tedesco, a quello italiano gli disse: “Ma lassm andà”. Cioè in tedesco “lassm andà” vuol dire “lasciamo andare”. Quello italiano disse: “No, no, sono tutti una massa di scioperanti”. Così ci montarono su queste autoblindo e ci portarono alla stazione. Alla stazione di Firenze, lì a Santa Maria Novella, al binario numero 6, c’è anche una targa lì. Lì ci misero quaranta per vagone. Questo fu l’otto marzo intorno a mezzogiorno, non so, o la sera.

D: Scusa, Nedo, c’erano anche delle donne?

R: No, no. Erano tutti uomini, tutti presi per il motivo dello sciopero, però più che altro si vede che dovevano fare un certo numero. Fra quelli di Prato, quelli di Empoli io credo che quando si arrivò laggiù a Mauthausen saremmo stati sulle seicento persone. Però seicento perché ci si legò a quelli di Bologna, a quelli di Milano, a quelli di Torino. L’immatricolazione partì da 56.900, si arrivò a 57.500 quasi.

D: C’erano anche dei religiosi che ti ricordi?

R: Sì, ma questo si seppe dopo. Assieme a noi c’era anche un altro che era un principe inglese, che veniva chiamato Jim. A regola lui sapeva parecchie lingue, non fu messo nel blocco assieme a noi, ma fu messo nel blocco numero 1. Perché certi personaggi gli premevano, perché forse loro li tenevano in un momento e potevano scambiarli per prigionieri su, gli interessavano.

D: Allora, ti hanno caricato a Santa Maria Novella e il viaggio è durato quanto?

R: Fino all’11 marzo. Ci davano solamente durante il viaggio una scatoletta di pasta di pesce salata, però io ero giovane e avevo appetito e mangiavo anche quella che rifiutavano gli altri e un pane in tre. Questo era il vitto di tutto il giorno senza mai bere. Quando si arrivò a Mauthausen, così in aperta campagna ci fecero scendere e salire su al campo di stermino, si prendevano manate di neve per dissetarci.

D: Arrivati a Mauthausen cos’è successo?

R: Quando arrivammo a Mauthausen ci misero un pochino di dietro al muro chiamato del pianto, tutti incolonnati. Faceva freddo, perché molti presi dalle vetrerie erano in camicia, perché in fabbrica dentro coi forni c’è caldo. Quindi immaginiamoci in maniche di camicia, lì tutti sull’attenti, gelavano. Poi arrivò un branco di russi, saranno stati duecento. Li fecero spogliare nudi e quando si videro loro nudi si pensò: “Se ce lo fanno a noi, si muore tutti. Loro ci sono abituati, sono russi”. Poi purtroppo toccò anche a noi. Si andò giù, ci fecero la visita, ci depilarono il capo, sotto le braccia, davanti dove c’è la peluria. Poi le docce, in quattro per mappa, acqua ghiacciata, acqua bollente, lì botte perché si stesse sotto. Poi ogni cento si usciva, ne entravano altri cento, però si doveva stare lì fuori nudi. Ci avevano consegnato un paio di zoccoli all’olandese, una camicia e un paio di mutande, basta. Così sotto la neve che nevicava alla sera, ci toccava aspettare che tutti fossero pronti per andare verso la quarantena. Bisognava marciare diritti per bene incolonnati, perché se uno allungava il passo ci facevano fermare disciplinatamente, dieci minuti di sofferenza lì al freddo, quindi si cercava di andare incolonnati per bene, affinché non ci facessero stare fermi. Si entrò dentro alle baracche. La baracca era composta da due stanzoni, in questa baracca c’era un tedesco che era un capoblocco, era un giovane che aveva ammazzato il babbo e la mamma. Perché i suoi genitori erano un po’ dei benestanti, però lui aveva il vizio del gioco, quindi sperperava un pochino. Sicché i genitori per tenerlo un po’ al passo, questo prese e ammazzò i genitori per spogliarli dei loro beni. Tutti i Kapò e i capiblocco, la maggior parte erano tutti delinquenti, criminali per reati comuni e Hitler aveva dato a loro una possibilità di potersi riabilitare servendo la patria, facendo gli aguzzini a noi. Loro erano i nostri carnefici, loro ci potevano ammazzare senza neppure rendere conto alle SS del perché e per come. Noi dipendevamo tutto da loro. Con le SS poi a volte ci si aveva a che fare.

D: Nedo, scusa, il tuo babbo era sempre con te?

R: Sì, perché appena si arrivò a Ebensee, questo successe perché l’immatricolazione a noi fu fatta due giorni prima della partenza per Ebensee da Mauthausen. Ci fu fatta l’immatricolazione, ci rifù fatta la depilazione e tutto, ci fu dato il vestiario, camicie, mutande, scarponi, giacca, cappotto e cappello, in tedesco Muetze. Quindi ci fecero le fotografie col numero di matricola e l’indomani si partì tutti incolonnati per Ebensee.

D: Il tuo numero di matricola te lo ricordi?

R: Sì, il mio numero di matricola era 57.302, siebenfuenfzigtausenddreihundertzwei. Mentre mio padre aveva 57.301, perché lui si chiamava Nencioni Giuseppe e io Nencioni Nedo, perché l’immatricolazione andò e andava sempre per ordine alfabetico.

D: Quindi la quarantena voi l’avete fatta a Mauthausen…

R: Noi la quarantena si fece non so se appena undici giorni. Da lì si arrivò a Ebensee.

D: Dicevi, vi hanno mandato a Ebensee?

R: Sì, e siamo arrivati a Ebensee..

D: Ma come vi hanno portati a Ebensee?

R: Col treno. Da Mauthausen fino a Ebensee in treno, però il treno sempre si fermava al di fuori della stazione, un pochino. Quindi poi tutta a piedi passeggiando per sentieri dove non c’erano persone. Si arrivò a Ebensee, al campo di Ebensee.

D: Quando questo?

R: Non so se il 23 o il 24 marzo del ’44. Mi ricordo che c’era la neve alta, perché Ebensee come hai visto è un po’ in un luogo… Il capo campo incominciò a chiamare mettendo chi a destra chi a sinistra, corsero le voci, a volte lì subito correvano le voci come il vento, sentii che i giovani venivano mandati da un’altra parte. Quando fu chiamato il mio babbo e dopo io che mi mandavano da un’altra parte, iniziai a dire: “Voglio stare insieme al mio babbo, voglio stare insieme al mio babbo”.

Il capo campo, che era un politico, capì che eravamo babbo e figliolo, perché Nencioni Giuseppe e Nencioni Nedo nelle schede, quindi mi mise assieme a mio padre, anche se lo scrivano del campo non gli stava bene a mano, dicendo: “No, lui è giovane, dieser Junge, dieser …”, dicendogli che non andava bene, perché di giovani di sedici anni, io avevo sedici anni, come me ce n’era altri, ci fu il figliolo del dottor Baroncini che fu rimesso assieme al suo babbo, ci fu il figliolo del Gasparri che anche lui fu messo assieme al suo babbo e molti dei giovani furono rimessi insieme ai genitori. Infatti io stetti nel blocco assieme a mio padre. Mentre Saffo e altri, Saffo fu messo a fare lo stubedienst subito nell’infermeria, perché quando si arrivò noi c’era un’infermeria sola, dopo nacque anche la seconda infermeria. Mentre ci furono altri di Firenze o giovani che furono messi alle cucine.

Io, come ripeto, imparai presto a parlare tedesco, perché ogni volta che davano un ordine, l’ordine lo davano in tedesco, anche se dicevano: “Gehe ins Magazin und bringt Schaufel”, non dicevano in italiano: “Vai in magazzino e prendi la pala”. Quindi fra Magazin e magazzino si capiva, quindi uno andava in magazzino e si trovava un po’ inebriato, perché non sapeva cosa prendere, cosa portare, aveva paura di toccare, perché là erano botte.

E le botte non erano un ceffone e via, ma finché non vedevano il sangue non smettevano. Poi magari quello aspetta, aspetta, arrivava il Kapò e: “Das ist Schaufel”, “questa è la pala” e così erano botte, ripeto. Io imparai presto, anche il numero era tanto importante, perché quando chiamavano non chiamavano per nome, ma chiamavano per numero e c’erano tanti, come il mio babbo, che sapevano dire solamente “ja”, “nein” e basta. Poi magari il numero lo aveva, perché io gli insegnai subito e non è che fosse un uomo che non era intelligente, per carità, però non tutti erano portati.

Ripeto, io ebbi la fortuna di cominciare presto e poi anche di incontrare persone che mi hanno aiutato. Mi ricordo la prima mattina quando ci fu la sveglia, alla sveglia ci mandarono a lavarci, dopo ci diedero il caffè, che poi era una sbroccia di acqua bollita con l’erba, però purtroppo si beveva per avere un qualche cosa di caldo in corpo. Anche l’acqua appena arrivati si beveva, venne la diarrea e tanti morirono per la diarrea, poi si trovò il verso lì a Ebensee di curarla, perché là le medicine non c’erano, il vitto nemmeno, ma si curava mangiando la legnite.

Questa legnite faceva da cemento in corpo, poi si mangiava anche per fame, poi si scoprì che questa ci guariva dalla cosa. A me toccò smettere perché non andavo più di corpo. Il primo giorno quando alla piazza dell’appello il capo campo scandì: “Arbeit Kommando formen” noi si rimase un pochino tutti inebetiti, che vuole questo? Però si videro le persone che c’erano prima di noi scappare ai lati e quindi anche noi si andò ai lati. A me un Kapò mi prese e mi infilò nel suo comando, perché c’erano i comandi che erano formati da cento persone.

Il mio comando… Arrivavano carrelli fuori dalle gallerie pieni di pietre, queste pietre poi bisognava rovesciarle e fare una strada ferrata. Io inesperto com’ero vidi sganciare il carrello e lo feci anch’io, sganciai il mio carrello, poi guardavo un pochino le pietre come fare, se buttarle di sotto, se volevano alzarle. Nel frattempo venne il Kapò, incominciò a darmi manganellate nel capo, io continuavo a buttare sangue dal naso e dalla bocca, ruzzolai per tutta la scarpata e con l’acqua, un secchio d’acqua mi fece rinvenire, mi riportò su e poi mi fece: “Wiviel Jahre du?”. Io non capivo, rimasi intimorito, come? Accanto a me c’era un avvocato romano, era un ebreo e mi fece: “Ha chiesto quanti anni hai”.

Io gli dissi sedici anni e questo gli dice: “Sechzehn Jahre habe”. “Ach so” fece questo, “Ah sì” e andò via. Io però con la coda dell’occhio ogni volta che lo vedevo avvicinare prendevo la pala e mi davo da fare per dodici. Questo Kapò forse non mi avrebbe fatto più nulla, però purtroppo il timore c’era sì. L’indomani mattina quando ci rifù l’appello e fu riscandito: “Arbeit Kommando formen” io andai in un altro comando per scansarmi da questo poco di buono. Mi ricordo che in quest’altro comando si trasportava delle tavole lunghe in due. Sarà stato verso mezzogiorno, mancava poco per andare a mangiare, capita questo Kapò, mi prende, perché io ero in testa e dietro a me c’era un altro, si portava questa tavola. Mi toglie di sotto, va in terra la tavola e mi fa: “Warum kommst du nicht mit mir arbeiten?”, “Perché te non sei ritornato con me a lavorare?”. Intervenne l’altro Kapò, si presero fra di loro e io ripresi la tavola e con questa andai via. Poi mi capitò un altro comando, in quest’altro comando facevano le fosse non biologiche, ma per gli spurghi delle acque.

C’erano questi tubi di cemento grandissimi che bisognava farli rotolare e poi con dei cosi sollevarli e buttarli dentro. Io gli dissi a quest’ingegnere: “Perché non mette delle tavole così sopra a questa fossa? Si rotola ugualmente e poi si tira una tavola da destra, una da sinistra e poi si fanno scivolare”. Questo ingegnere mi guarda, mi fa: “Wiviel Jahre du?”.

“Sechzehn Jahre”, perché già cominciavo a immagazzinare tutto quello, non so, il pane “Brot”, le scarpe “Schuhe”, tutto quello che sentivo che era necessario lo immagazzinavo, ecco come ho imparato a parlare il tedesco.

Non so se tu vedi che ogni volta che vengo là parlo, per carità, non parlo come parlare l’italiano, ma mi so abbastanza difendere. Quest’uomo mi prese in simpatia, mi ritenne un ragazzo intelligente, mi disse: “Te che mestiere fai?”, io gli dissi: “Ich arbeite Glas”, io lavoro il vetro.

Mi portava rispetto. Nel mio stesso blocco c’era un Kapò che non era tedesco, era un polacco, però siccome era di quel tratto che la Germania disse: “E’ Germania” era ritenuto tedesco. Assieme a lui c’era un suo amico che era stato a lavorare in Spagna, mi disse se volevo andare a lavorare con lui, mi avrebbe messo in un posto buono. Erano già passati due mesi. Lì per lì ci pensai, perché con questo stavo bene perché ero rispettato, nemmeno il Kapò mi poteva quasi più toccare.

Solleticato un pochino da queste parole, dissi di sì. Infatti andai a lavorare con lui e questo mi mise in un magazzino. In questo magazzino conobbi questo Alexander, io che si chiamasse Alexander o come… Solamente quest’uomo quando mi vide, mi guardò un po’ perplesso, poi mi fece: “Wiviel Jahre du?”, io: “Sechzehn Jahre habe”, “Bist du Jude?”, cioè “Sei ebreo?” “No, no, io, come vede, triangolo rosso, sono considerato politico”.

Questo tentennò il capo, perché sedici anni, combinazione poi l’ho saputo dopo che anche lui aveva sedici anni quando lo misero lì a lavorare, quindi tentennò il capo a sentir parlare di politico. Quest’uomo tutti i giorni mi dava un pezzetto di pane o per esempio diceva: “Sai, oggi ho fatto i maccheroni, tieni”, insomma mi dava la pastasciutta, che poi era pasta bollita nel latte. Insomma quest’uomo mi aiutava, poi mi dava sempre notizie su quello che era il fronte russo, il fronte americano, mi dava quell’incoraggiamento, anche queste notizie mi davano la possibilità di dire “Presto finisce la guerra”. Rientravo nel campo, dicevo agli altri: “Sapete…”.

Tant’è vero anche quando ci fu che Mussolini trovò l’accordo di liberare tutti i prigionieri militari, io portai la voce dentro il campo e mi dissero: “Non ti illudere, noi da qua non usciamo più. Non siamo come prigionieri militari”. Infatti fu così. Quando fu liberata Firenze mi disse: “E’ stata liberata Firenze”, mi fece vedere il giornale.

Assieme a me c’era questo amico di questo Kapò che era stato a lavorare in Spagna. La SS aveva bisogno di un posto dove mettere delle patate, perché arrivarono tante patate e non avevano il posto. Chiesero se lui le metteva nel suo magazzino, questo disse di sì. Questo che era assieme a me mi disse: “Perché non chiedi due patate? Se gliele chiedi tu, te le dà. Si mangiano, si fa a metà io, te e il tuo babbo”.

Da principio a metà io e lui non ci sarei stato, perché mi sentivo di compromettere quest’uomo, ma sentendo dire anche mio padre… Infatti gliele chiesi. Quest’uomo mi disse: “Sì, e come le mangi?”. “Così”. “Ah no”, dice, nella mia stanzina c’era una stufa, c’era una bacinella con l’acqua.

Dice: “Fai un tappo di legno, così le metti a cuocere, tu le tappi e se anche viene il Kapò o la SS non vanno a vedere cosa c’è, lasciano perdere e tu puoi mangiare”. Così si faceva tutti i giorni, si mangiavano queste patate, ne davo la parte al mio babbo. Un giorno mentre eravamo lì a sedere e si mangiavano le patate, perché tornando un passo indietro questo tedesco mi disse: “Guarda, tanto ci sono le porte a vetri, tu ti metti lì e non fa nulla.

Se poi vedi arrivare qualcheduno, un Kapò o la SS, ti metti a ungere un dado, fai qualche cosa tanto per far vedere che fai. Quindi si vedeva la gente se arrivava o no. C’eravamo messi a sedere mentre si mangiavano queste patate, arriva un Kapò, era uno zingaro sicché quest’uomo si trovò nei guai, corse per non farci picchiare, gli offrì 1.000 marchi, gli offrì sigarette.

L’indomani purtroppo questo tedesco non c’era più. Io sentii il rimorso di dire che quest’uomo era venuto a fare la fine mia, è colpa mia. Anch’io fui mandato via da lì. Quello che entrò al posto di questo tedesco, disse: “Aspettate, aspettate, lo voglio vedere”, infatti mi guardò e disse: “Sì, va bene, vai via”.

Da lì fui mandato, erano già arrivate dentro le gallerie queste botti, cisterne per la lavorazione del petrolio, per la raffinazione, però si dovevano rivestire. Si doveva mettere prima una fascia che era larga più di un metro, lunga ,che c’era la lana di vetro, si doveva tappare così, col filo di ferro poi legarli.

Quando era tutta lavorata e rivestita di questa roba si doveva mettere una rete metallica. A questa rete metallica erano appiccicati già dei cosi di stucco, di gesso. Anche questa rete poi rivestita, poi si doveva murare col cemento e fare una specie di thermos per il freddo. Lì c’era un maresciallo dell’aviazione che era un ingegnere, avevano bisogno di manodopera, con noi c’erano civili, c’erano questi dell’aviazione, ma anche della marina che ormai l’aviazione era bell’e disfatta.

Quindi furono messi lì. Questo maresciallo fumava, a me venne voglia, vidi che era quasi alla cicca e gli feci: “Feldwebel, gibt mir deine …?”, cioè “Maresciallo, mi dai la tua cicca?”. Quest’uomo incomincia a urlare, pareva che mi mangiasse. Prese e andò via, io dissi: “Mi è andata bene”.

Ritornò e mi fece: “Guarda, vai lì di dietro che ti ho messo una sigaretta, ma stai attento, pass mal auf, stai attento”. Presi, andai a fumare questa sigaretta e anche quest’uomo mi chiese quanti anni avevo. Quando gli dissi l’età, anche lui sedici anni, guardò, rimase ancora e disse: “Ma che, sei ebreo?”.

“No, io non sono ebreo”. Sarà stato verso le quattro, mi disse: “Guarda, vammi a lavare questi gambali”. Io presi i suoi gambali, ci andai anche un po’ più contento di dire “Ho trovato una persona umana”, ci andai con più enfasi per rispetto. Ci stetti anche più del solito. Quando tornai mi guardò e mi disse: “Sei tanto scemo, ritorna a lavarli”. Proprio per farmi perdere tempo e lavorare il meno possibile.

Era già passato un mese, bisognava andare a fare i rivestimenti fuori a questi tubi, perché venivano i vagoni, il treno con questi vagoni cisterna a portare il grezzo e a prendere il raffinato. Quindi c’era il succhiò per buttare e c’erano queste tubature fuori che anche queste andavano rivestite che sennò il gelo…

Capisci? Un giorno mi disse, perché ormai aveva questa confidenza con me, si parlava del più e del meno, non di politica, per carità, però si parlava magari dell’Italia, il clima, la pastasciutta, queste cose. Quest’uomo mi disse: “Guarda, io proprio mi sento male, perché qui il lavoro va a rilento, io picchiarvi non vi voglio picchiare, però io sono nei guai, perché qui bisogna che questo lavoro vada avanti”.

Io gli dissi: “Vede, maresciallo, tutt’al più Lei c’è e se ne accorge che con questo freddo lavorare fuori alle intemperie con la neve sulle spalle o gli acquazzoni, il freddo, le mani sono rattrappite, si tocca il ferro…”.

Questo maresciallo ci fece dare una specie di tuta impermeabile che arrivava fino qui. Il comandante del campo delle SS lo richiamò al dovere, quasi lo voleva ficcare dentro al campo anche lui. Disse: “Te sei un po’ buono, vuoi fare sfuggire queste persone aiutandole. Lo sai che a questi non si deve dargli nulla”.

Questo gli disse: “Senta, prima di tutto non mi interessa delle vostre cose, a me interessa che vada avanti il lavoro, perché la ditta vuole il lavoro. Siccome io ho constatato che queste persone non possono lavorare in queste condizioni, sia questi sia che ne vengono altri, sono uguali.

Io il lavoro voglio che vada avanti. Se non vi va bene, voi gli fate un disegno dietro alla tuta che sono del campo di sterminio”. Infatti ci fecero una KZ, però queste ci rimasero.

Succede che mio padre, pover’uomo, non camminava più, perché aveva subito un infortunio sul lavoro già tanto tempo prima, mi pare verso il mese di giugno. Andò a sganciare un vagoncino, andò per sganciare l’altra parte, ma l’altra parte era bell’e sganciata, quindi tutte le pietre gli vennero addosso.

Gli furono colpite più che altro le gambe. Lo salvarono russi e polacchi, erano assieme a lui a fare questo lavoro lì fuori, lo misero in infermeria. Nell’ottobre o novembre gli si rigonfiavano queste gambe, sì, nell’ottobre. Gli si rigonfiavano e quest’uomo non camminava più. Gli facevo: “Babbo” e lo aiutavo a ritornare via, ma se non si camminava a passo ci sparavano e ci ammazzavano tutti e due. Sicché gli dicevo: “Babbo, marca visita”.

Quest’uomo però a marcare visita aveva paura, perché tanti marcavano visita anche se avevano la TBC, bastava dicessero di no che gli davano venticinque bastonate e con venticinque si moriva. Poi, pover’uomo, marcò visita, infatti fu riconosciuto. Da lì fummo presi tremila e duemila da Mauthausen e mandati a Wels. A Wels c’era la ferrovia che era stata distrutta da un bombardamento.

Ci presero e ci portarono a riattivare la ferrovia là a Wels. Passò del tempo, mi ricordo una volta, c’erano dei militari e uno gli fece: “Vedete quelli lì? Sono peggio di noi”. E questi: “Ma che, ce n’è italiani?”. Io gli dissi: “Sì”, e questo gli fece: “Non gli parlare, perché è pericoloso”. Io capii che tra di loro prigionieri militari… Un giorno, perché quando ci facevano prendere le lungarine non è che prendessero una squadra e la mettessero a…

No, diceva: nove persone, una lungarina di undici metri, come va va. Se quello non ci arrivava, ci metteva la mano e la forza non ce la faceva. Una volta, mi ricordo, ero in testa. C’erano le buche, perché i bombardamenti avevano fatto delle buche. Molti ebrei facevano i furbi, io mi intrappolai e mi sbranai una mano. Quello della SS mi prese e mi portò in infermeria, perché succedeva questo, che se ti facevi male sul lavoro, lì sì, ma a Ebensee ti mettevano da una parte e finché non si ritornava al campo…

Se eri morto dissanguato, eri morto dissanguato. Finché non si ritornava al campo in infermeria non ti portavano. Però in infermeria se ti eri fatto male, sì. Ma se ti avevano picchiato te ne davano altrettante, quindi non conveniva andare in infermeria. Ci si medicava col piscio.

Ci si pisciava in mano e ci si medicava. Uno delle SS, ma era giovane, avrà avuto venticinque, ventisei anni, col mitra mi portò dentro la stazione a medicarmi. Fui medicato, si tornò via. Quando siamo all’ultima panchina della stazione, mi fa: “Achtung! Komme zurueck und sitze”, cioè “Fermati, vieni con me a sedere”. Mi metto a sedere, quest’uomo tira fuori il portafoglio e mi fa vedere la fotografia.

C’era sua moglie, il suo bambino o la sua bambina, ora io non mi ricordo. Gli feci: “Questa è tua moglie? Sì? Questa è il tuo bambino? Sì? Sono belli”. Dice: “La guerra è orrenda. Forza, forza, tanto fra poco sta per finire. Io forse la mia famiglia non la vedrò più”. Io zitto, perché temevo che fosse anche un po’ un tranello per farmi…

Quest’uomo butta giù lo zaino, tira fuori il pane, ne fa due fette, prende la marmellata, ci mette la marmellata e me lo offre. Lì per lì indugio, poi la fame, la presi e la mangiai. A volte degli episodi anche umani si sono verificati. Da lì, siccome anche la SS scappava perché aveva paura più che altro del fronte russo, perché erano più vicini i russi. I russi non li contrastava più nemmeno l’avanzata.

Avevano paura, perché sapevano che le avevano fatte. Quindi scappavano. La resistenza era più dalla parte occidentale. Prima di abbandonarci, ci riportarono a Ebensee. A Ebensee ci fecero rimontare su vagoni, non vagoni bestiame, ma questi carri che ci portano il carbone, aperti.

Mi ricordo, erano i primi di aprile, verso il 15 aprile. Quando vidi il mio babbo l’indomani, sì, verso il 20 aprile. Però nevicava, c’era ancora freddo. Mi ricordo che si arrivò a Ebensee, vivi fummo in trecento soli, gli altri erano tutti morti in treno. Se uno scendeva per orinare, poi attaccava la rincorsa e faceva in tempo a riprendere il treno, perché andava piano. La Liberazione fu un po’… Come ti posso dire?

Presero tutti, ci misero in una baracca e non ci mandarono a lavorare. Tanto siamo alla fine, quindi non ci mandano a lavorare. L’indomani mattina ci fu l’appello, ci si accorse tutti che era prima. Si pensò che c’era qualcosa di nuovo. Il comandante del campo, delle SS chiamò tutti gli interpreti, cosa mai fatta, perché se c’era un’esecuzione veniva fatta e noi tutti sull’attenti, si doveva vedere. Quella volta, invece, volle tutti gli interpreti e disse: “Da oggi sarete tutti liberi, non perché noi siamo stanchi di tenervi, ma da un momento all’altro ci saranno i vostri liberatori.

Però, come sapete, in ogni guerra i morti ci sono da ambo le parti. Però voi avete la fortuna che avete le gallerie, entrate nelle gallerie così vi salverete”.

Poi lo dissero in francese, ecc. Tutti si disse di no. Però loro il tempo materiale non l’ebbero per costringerci a portarci, quindi finito il discorso lo stato maggiore scappò tutto. Rimasero solamente le sentinelle. Le sentinelle verso le 9.00 della mattina un fischio e andarono via anche loro.

Andate via anche loro si sentì dopo poco che avevano minato le gallerie, quindi scoppiarono le mine. Da noi: “Gli americani, gli americani” e tutti a correre da una parte, “di là gli americani” e correre dall’altra. Poi da ultimo si sfondò la porta, si sfondò, io no, diciamola franca. Io se avessero tardato qualche altro giorno non ce l’avrei fatta neppure io a ritornare.

Tant’è vero, l’ultima ferita che ebbi la medicarono gli americani con la penicillina e mi dissero: “Guarda, quando ritorni in Italia sei bell’e guarito”. Infatti in Italia era bell’e secca. Sfondata la porta entrammo nelle baracche delle SS e si trovarono le valigie con vestiti civili, mitragliatrici, macina-pistole, pistole. Si rientrò dentro il campo e si incominciò ad ammazzare i Kapò che s’incontrarono, anche se qualcheduno riuscì a svignarsela.

A me a Ebensee anche il Sindaco di Ebensee mi disse che questo Kapò zingaro è stato a Ebensee parecchio tempo, capisce? Ora, non so quanto, ma mi disse che è stato lì a Ebensee lui. Questo è un pochino il tutto.

D: Nedo, ascolta, il tuo babbo?

R: Il mio babbo, ti ripeto, lo vidi quando ritornai da Wels. Quando lo vidi ci si abbracciò dicendoci: “Forza, fra poco è finita la guerra”. Dice: “Fra un po’ è finita davvero, vedrai che io…”. “Cosa che te?”. Dice: “Sai, domani mi mandano a lavorare”. Dissi: “Meglio così perché so che le razioni saranno ridotte, a noi un pane invece di darcelo in tre ce lo daranno in sei, ma a voi dentro l’infermeria ve lo daranno in nove.

Quindi anche il mangiare è sostegno, l’alimentazione… E’ bene che tu riprenda il lavoro”. Ma lui forse se ce lo tenevano era anche perché dava una mano a fare il barbiere, perché lui quando si presentò lì al blocco che chiesero se c’era nessun barbiere, il mio babbo disse: “Io”.

E gli spagnoli: “italiani no, italiani no”. Perché, come tu sai, questi spagnoli erano tutti scappati dalla Spagna per via della rivoluzione spagnola e, come tu sai, Mussolini mandò i fascisti laggiù a combattere. Questi però non si rendevano conto che tanti italiani per non andare a combattere a fianco a loro e tanti altri italiani, come per esempio mio padre, facevano le collette per mandargli i quattrini per potersi comprare le armi per combattere. Però io tutto questo non lo sapevo, sentii “italiano no, italiano no” e quindi non fu messo. Mentre poi Grazzini era veramente barbiere e lo misero come barbiere, perché sennò si sarebbe salvato anche lui.

D: Il babbo è mancato a Ebensee?

R: Sì, lui è morto a Ebensee, però nessuno mi ha saputo dire che è morto, poi io non l’ho visto. Nessuno me l’ha saputo dire. Non me lo avranno saputo dire perché forse non me l’hanno voluto dire per le condizioni in cui ero. Ti ho detto, quando fui liberato non ero in condizioni proprio…

Poi andando in giro si trovò qualcheduno delle SS, si è riportato al campo, si è ammazzato. Poi il comandante americano ci fece l’appello dicendo che o si faceva finita o anche loro mettevano le sentinelle. Noi si disse: “Lei dice bene perché non ha subito quello che abbiamo subito noi”. “Sì, avete ragione, per carità, lo so benissimo, per carità. Però se si fa ognuno giustizia da sé, sarà un odio che andrà avanti. Invece un domani ci sarà un tribunale e poi la giustizia fatta”. Lo sai anche te quello che è stato.

D: Nedo, tu sei stato liberato il 6 maggio, no?

R: Sì.

D: Del ’45?

R: Sì.

D: Quando sei rientrato in Italia?

R: In Italia dopo un mese. So di essere arrivato a casa il 25 giugno. Perché scappai dal campo di Bologna. Arrivato a Bolzano mi volevano ricoverare e io no, perché volevo rivedere il mio babbo, perché tanti mi dicevano: “Ritorna, è capace, con la confusione che c’è stata”. Ho detto: “E’ a casa”. “Quindi sono infelici perché manchi te, è capace, via, andiamo, andiamo”. Mi convinsero a ritornare, da Bolzano io che dovevo essere ricoverato anche per questa ferita, poi fu segnato che il malato di Ebensee esce….

Uno disse: “Segnali anche la ferita”. “Si, ma lasciala fare”. “No, segnala”. Ma non me la volle segnare questa ultima ferita. Da lì portarono a Verona. Ci portarono su un camion da Bolzano a Verona. C’erano gli autisti tedeschi, loro andarono a mangiare e a noi nulla. Quando si arrivò a Bologna, io andai quando ci davano il rancio, chiedevo per me, per Nencioni e per Nedo.

Ero sempre io ma ne prendevo tre, la fame… Poi sentii che c’erano persone che erano lì da quindici giorni, dodici giorni. Io assieme a quel livornese, eravamo quattro o cinque, ci si organizzò. Si poteva uscire, però non con la roba.

Allora dissi: “Guardate, voi andate fuori, io poi vi passo la roba, poi esco anch’io e si va via. Sennò qui…”. Infatti si trovò un camion che andava a Roma, da Firenze ci passa, sentiamo se ci porta. “Sì, sì” dice. Voleva dei quattrini, ma qua quattrini non ci sono, tutt’al più ci sono due stecche di sigarette americane, perché questa roba ci avevano dato. “No, no”.

Se avessi avuto la forza, avrei rovesciato il camion. Si montò sui vagoni merce lì alla stazione, da Bologna si arrivò a Firenze, da Firenze a Empoli. Mi ricordo che strada facendo ero vestito mezzo tedesco, mezzo americano e mi guardavano alla mattina prima delle 5.00. Mi fecero: “Ma che, sei Italiano?”. “Sì, sì”. “Da dove vieni?”. Gli raccontai dalla Germania. “Dove stai? Vado ad avvertire tua mamma”. Mi pare vero, infatti questo andò.

Toselli Dina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Prego, come ti chiami?

R: Dina Toselli. Sono nata a San Giovanni in Persiceto il 5 gennaio del 1926.

Se devo raccontare il perché sono andata a finire nel campo di concentramento, vado indietro al 5 dicembre del 1944.

Eravamo a letto…

D: Dove, Dina, scusi?

R: Ad Amola di San Giovanni in Persiceto, eravamo a letto, abbiamo sentito bussare. Mio padre ha detto: Non andate ad aprire”.

E io ho detto: “Anche se sono i tedeschi, bisogna andare ad aprire papà, altrimenti questi ci fanno fuori tutti subito a letto”.

Mi sono alzata, sono andata ad aprire e c’erano i tedeschi e hanno arrestato mio padre che si chiama Aldo ed era del 1903 e mio fratello che si chiamava Dino che è del 1927 e li hanno portati fuori ammanettati.

Io mi sono alzata.

Intanto i tedeschi avevano cominciato a frugare per la casa, e una cosa che mi è rimasta molto impressa nella mente, è che due tedeschi sotto il sottoscala dove mio padre e mia madre avevano messo il granoturco sgranato, cercavano qualcosa sotto.

Naturalmente non hanno trovato niente perché non c’era niente.

Poi, una mia vicina di casa mi disse: “Vieni che andiamo a San Giovanni in Persiceto e andiamo a vedere se qualcuno ci può aiutare, qualche autorità, qualcuno”.

Allora mi sono messa il cappotto su quello che avevo, sul grembiule e ricordo che avevo le ciabatte che mi aveva fatto mia madre, con la suola di copertone.

E ci siamo avviate. Come ci siamo avviate, ci hanno preso e ci hanno arrestato.

D: Chi, in questo caso, sempre …?

R: Sempre i tedeschi. Dopo avere fatto il rastrellamento ed hanno arrestato altre persone, andarono in altre case, tutti i vicini, tutti i ragazzi. Ci hanno portato nella Chiesa di Amola.

Io non ho una buona impressione della Chiesa e mi dispiace dirlo, non si è fatto vedere nessuno.

Ci hanno portato in Chiesa, e poi ricordo che mio padre lo avevano legato con le mani dietro alla schiena e la corda al collo e lo tiravano con molta poca delicatezza.

Poi io cercavo di uscire da questo imbroglio, dicendo che avevo un passaporto, infatti lavoravo presso un’azienda ad Anzalo dell’Emilia e avevo un passaporto, un lasciapassare e l’ho presentato.

Allora sembrava quasi quasi che mi lasciassero andare via. Invece è arrivato qualcuno, che io non ho neanche idea di chi sia e non ricordo neanche come fosse che disse: “No”. Così sono rimasta con gli altri.

Poi è passato del tempo e ci hanno portato a Sant’Agata in un posto, era una palestra, ci hanno messi tutti con la faccia contro il muro e lì c’erano i tedeschi con le armi spianate, e i cani. E io ho pensato che ci facessero fuori.

Eravamo in molti, siamo passati da Anzalo dell’Emilia che avevano già fatto un’altra retata ad Anzalo dell’Emilia e ci hanno portato a San Giovanni in Monte.

E lì, io con le ciabatte in mano perché si erano sfasciate queste ciabatte, e avevo messo i piedi sotto il cappotto, il 5 dicembre, dentro un camerone di una prigione, è passata una suora e mi ha detto: “Stia composta, tiri giù le gambe” e siamo rimasti lì fino al giorno che ci hanno portato a Bolzano.

D: Quella notte che ti hanno arrestato il padre, tuo fratello e poi te e la tua vicina di casa e poi hanno proseguito il rastrellamento, in quanti, più o meno?

R: Non so, non te lo so dire. So soltanto che c’ero io, mio padre, mio fratello e mio cugino.

D: C’erano soltanto i tedeschi o anche italiani?

R: Anche dei tedeschi perché una volta, quando arrivammo dentro a San Giovanni in Monte ci hanno preso e mi hanno fatto un interrogatorio, non ricordavo più…, e volevano sapere qualcosa dell’ospedale Maggiore. Allora io ho detto: “Sì, ci sono stata nell’ospedale, ma non sono stata all’ospedale Maggiore. Sono stata all’ospedale di San Giovanni in Persiceto perché avevo una pleurite essudativa”.

Allora lui mi ha guardato e ha detto: “No, tu eri all’ospedale Maggiore, tu conosci Brunello” e dissi: “No, io non conosco nessun Brunello e all’ospedale Maggiore non ci sono stata”.

“E Brunello?” “Non lo conosco”.

“E Alfredo?” Dico: “Quello sì, abita a due passi da casa mia”.

“Brunello e Alfredo sono la stessa persona”.

“Se lo dite voi, io non lo posso sapere”.

D: Queste affermazioni chi le ha fatte, un italiano o un tedesco?

R: Due tedeschi che a un dato momento uno di quelli mi ha cominciato ad interrogare e mi ha dato un ceffone e io dopo ho chiesto di andare al bagno perché tra il ceffone e tutto il resto avevo bisogno di andare in bagno e lui aveva detto: “No, non ti lascio andare” e poi è andato via.

E l’altro che è rimasto, si sa come fanno, ci sono i buoni e i cattivi, il buono ha detto: “Perché è così arrogante?” E ho detto: “Io non sono arrogante, ho risposto alle domande che mi avevano fatto e più di dire quello che dovevo dire, non so cosa…” Ho detto: “Mi fa andare in bagno” e mi ha detto: “Adesso la faccio andare in bagno”.

Poi è finito l’interrogatorio, hanno interrogato anche gli altri e la sera ci hanno riportato a San Giovanni…

D: Scusa, nell’interrogatorio non hanno fatto…

R: No, ai Giardini Margherita. Come fa a saperlo che io non lo ricordavo più?

D: Un’altra cosa: quando ti hanno portato a San Giovanni…, tuo padre e tuo fratello…

R: Anche loro, ma gli uomini erano da una parte e le donne erano da un’altra.

Noi, quando siamo partiti, perché noi siamo partiti il 23 o il 22 e siamo arrivati il 24 dicembre, dunque eravamo lì da un bel po’, da quindici giorni circa.

Io sapevo che avevo mio padre, e c’era uno degli SS, un ragazzotto come me, a cui io dicevo: “Fammi parlare con mio padre, che cosa ti costa?” E lui diceva: “No, non posso”.

E io dicevo: “Fammi parlare con lui”.

Sembrava quasi che fosse convinto e poi avrà chiesto a qualcuno se potevo, se non potevo, non me l’ha fatto vedere.

D: Neanche tuo fratello?

R: Io non li ho più visti neanche da Sant’Agata, non ho mai più visto nessuno dei due.

D: E tu hai subito solo un interrogatorio?

R: Solo un interrogatorio.

D: E sei stata accusata di che?

R: Di fare parte dei partigiani.

D: E tu facevi parte dei partigiani?

R: Se devo dire proprio la verità ero su quella strada, ma ero su quella strada, non avevo ancora fatto niente. Mio padre era un vecchio antifascista, mio fratello sì, invece, faceva parte di un gruppo.

Mio padre era un vecchio antifascista, quando veniva su Benito Mussolini, lo prendevano e lo cacciavano in galera. Tant’è che lui non trovò mai da lavorare, in Italia, era sempre fuori a lavorare.

Prima hanno bonificato l’Agro Pontino, poi è andato in Africa, poi è andato in Albania, insomma lui poveretto non era mai a casa.

Lui voleva mantenersi, che poi in effetti…, era sempre via, stava via due anni, tre anni, poi veniva a casa e stava a casa due o tre mesi, poi tornava via, la sua vita era questo…

D: Lì, a San Giovanni …, in carcere sei rimasta quindici giorni?

R: Circa. Siamo stati arrestati il 5, siamo partiti verso il 22. Al 24, la vigilia di Natale eravamo a Bolzano il 23, adesso con esattezza le date non le ricordo molto bene.

Nel lasso di tempo siamo rimasti sempre lì.

Io non ho avuto niente altro che questo interrogatorio.

Non ricordo agli altri cosa sia successo, se hanno interrogato anche gli altri, perché non lo ricordo assolutamente, però lì ci siamo stati un po’.

D: Hai avuto contatti con i tuoi parenti?

R: No. Avevo solo la mia mamma, e la mia mamma aveva un bambino piccolo, perché fra me e il mio fratello più piccolo ci sono sedici anni di differenza e allora il bambino piccolino aveva due anni, non avrebbe neanche saputo fare, perché mia madre era una donna di una certa epoca, e non era mai andata fuori da San Giovanni in Persiceto.

Siamo stati anche a Nettuno perché papà lavorava in quei paraggi, ci siamo stati per sei mesi e poi siamo tornati a casa.

D: Dopo circa quindici giorni di carcere a San Giovanni in Monte, cosa è successo?

R: E’ successo che siamo andati a Bolzano in un camion, dove c’erano gli uomini e le donne, tutti assieme, un camion unico.

Erano più camion perché eravamo in novantanove, novanta uomini e nove donne.

D: Mentre invece durante il rastrellamento le donne erano tante?

R: No, durante il rastrellamento le donne erano sempre molto poche. Io ricordo Maria e poi un’altra, sempre dell’Amola che si chiamava Nina, noi tre e basta. Le altre erano o di Antolla o di Calderano di Reno, come la Torrini.

D: Se tu ti ricordi, sul camion con voi, c’erano delle sentinelle, delle guardie?

R: Probabilmente sì, ma anche se non ci fossero state, dove saremmo andati? Il camion correva sempre, giorno e notte.

D: Chiedo scusa, … al mattino, al pomeriggio, alla sera?

R: Non mi ricordo. Io credo di pomeriggio perché abbiamo viaggiato anche di notte.

Non ricordo con esattezza.

D: Però non ti hanno detto dove vi trovavate?

R: No, non ce l’hanno detto.

Siamo arrivati in campo di concentramento, gli uomini li hanno messi da una parte, le donne le hanno messe da un’altra parte perché erano separati i blocchi.

E poi siamo stati lì, ci hanno numerati, poi ci hanno tolto tutti i vestiti. E gli uomini sono stati tosati per bene, le donne no.

Ci hanno dato un paio di pantaloni, quelli da marinaio grigi, una mantella grigio verde, un paio di zoccoli, un paio di calzini, e la biancheria intima no, l’avevamo noi, non avevamo niente altro, solo quello che indossavamo, non avevamo niente. Poi siamo stati lì…

D: Ti ricordi di che blocco?

R: Dovrebbe essere il blocco “T”, però non ci giurerei sopra.

Il mio numero è 6998.

Io poi ero una prigioniera politica, mentre c’erano delle altre persone che erano gli ebrei l’avevano diverso. Il nostro era rosso, mentre quello degli ebrei era giallo.

C’erano delle persone, donne anche, che invece di avere il triangolino l’avevano rotondo ed erano le pericolose.

D: Questo, sempre nel tuo blocco?

R: C’erano due blocchi di donne, non ce n’erano molti.

Erano più i blocchi degli uomini.

Poi, di quello che io posso ricordare è che tutte le mattine si faceva la conta, gli uomini da una parte, tutte le donne dall’altra e il tedesco dopo avere contato i prigionieri faceva tenere i berretti in testa, e poi diceva: berretti giù.

Allora, se il rumore del berretto sulla gamba era bello, fatto bene, tutto andava bene, altrimenti si ripeteva fintanto che non veniva soddisfatto il tedesco.

Siamo stati lì e poi hanno chiesto se volevamo andare a lavorare per un’azienda, e io ho detto di sì perché non ne potevo più perché stavo impazzendo, non avevo niente da fare, io pur essendo giovanissima ho sempre lavorato, nel senso che già ero stata impiegata in un’azienda e avevo un buon impiego, ma ho sempre lavorato con le mani, e lì tutto il giorno senza fare niente, senza leggere, senza fare niente è la cosa più brutta e per me è la tortura che uno possa infliggere a una persona, perché a non fare niente si muore e io ho detto: “No, non voglio morire”. Così sono andata. Mi hanno preso e sono andata in una galleria dove passava il treno e questa galleria era stata trasformata in una fabbrica, dove c’erano molte macchine utensili.

Mi misero sopra questa macchina e ho cominciato ad usarla. La usavo bene. Era una macchina che faceva cuscinetti a sfera e io facevo l’incavo dove stava il cuscinetto e ne dovevo fare seicento al giorno. E ne facevo di più.

Allora quando vedevo che ero quasi alla fine, davo una spintina di più all’ago, che così si rompeva, aspettavo che me lo venissero ad aggiustare, poi ne facevo seicento uno, seicento due, mai più.

Per paga ci davano un pezzo di pane in più.

Siccome si mangiava tutto insipido, in quello che ci davano non c’era sale, e non era neanche sufficiente a campare, invece lì ci davano un pezzo di pane e poi eravamo in mezzo ai civili, non si vedevano mai i soldati o la SS, perché facevano la guardia ai due portoni, alle due entrate e praticamente eravamo liberi di parlare, di gestire e stavamo lì, lavoravamo e a me piaceva.

Sinceramente non posso dire che lì mi trovavo male, mi trovavo bene perché avevo fatto delle amicizie, avevo fatto delle amicizie con delle altre persone, con delle altre donne che venivano da un’altra città, tant’è che non ci si chiamava più con il nome, ci si chiamava per la città di provenienza, Bologna ci chiamavano. Quell’altro era Belluno, quell’altro era Torino, si stava bene e poi le persone che erano dentro come i civili, che erano quelli che quando noi rompevamo la macchina ce la venivano ad aggiustare, ci portavano sempre non proprio da mangiare, però i dadini per insaporire la minestra e lì ci siamo stati fino alla Liberazione.

Io però ho saltato un episodio che vorrei dire: quando eravamo nel blocco, una notte le donne ebbero lo schiribizzo di fare le cretine, ovverosia di darsi alla pazza gioia.

Una ragazza trovò un manico di scopa, un fazzoletto rosso e ci mettemmo a cantare come delle dannate “Bandiera rossa” e tutto quello che ci saltava fuori dalla mente. Una cagnara… Nessuno disse niente.

La mattina dopo, la capo blocco fu chiamata dai tedeschi, si chiamava Cicci la capo blocco.

Venne di nuovo da noi, ci radunò, ci parlò e ci disse: “Per questa volta lasciamo perdere, quest’altra volta gli uomini andranno fuori e staranno fuori senza cappello per dei giorni e dei giorni”.

Non l’abbiamo più fatto.

Questo era un episodio che mi ero dimenticata di dirvi.

D: Quando tu eri nel campo, nel blocco, insieme alle altre donne, ti ricordi se c’erano anche dei religiosi?

R: Sì, c’erano anche dei religiosi e io quella volta lì sono stata una persona molto cattiva perché quando me lo sono visto davanti, ho detto: “Guarda che bellezza, c’è un prete anche con noi”.

Non sta mica male…

Sono stata cattiva, l’ho detto con lui, non l’ho detto di dietro. Dopo mi sono pentita moltissimo perché poveretto, lui ha fatto il suo dovere, e io sono stata maleducata.

Infatti era nel blocco “E” dove c’erano quelli che dovevano partire.

Mi è dispiaciuto molto.

Non gli ho mai chiesto scusa, perché poi non l’ho più visto.

D: Ti ricordi se c’erano anche dei bambini per caso?

R: Sai che non me lo ricordo, però non credo dei bambini.

Ricordo che c’erano delle persone di una certa età, ma dei bambini no. Non lo ricordo. Non credo però.

D: Nel periodo che sei rimasta lì a Bolzano, hai assistito ad atti di violenza verso altri…

R: Nel blocco, devo dire una cosa, la Cicci mi aveva regalato un gomitolo di lana con due ferri e io lì facevo i ferri.

Poi quando avevo finito la lana, lo guastavo, tornavo a fare il gomitolo, ricominciavo da capo, perché come ho detto prima, senza fare niente si muore.

Un episodio di violenza l’ho visto, ma io non ricordo che l’abbiano picchiata. Hanno picchiato una ragazza che non ricordo cosa avesse fatto. Perché il blocco E con il blocco…, ma non credo che fosse il nostro blocco, era tagliato là sopra, e io lo so che molte donne andavano di là dagli uomini, ma ero tanto piccolina che non ci pensavo neanche.

Non so se è stato per quello o se lei ha fatto qualcos’altro. So soltanto che l’hanno ripresa e l’hanno anche bastonata e io mi sono presa una sberla sola.

Due sberle mi sono presa dai tedeschi, dalla donna che chiamavano la tigre. Ero andata fuori dal blocco, non so cosa dicesse, brontolava in tedesco, non capivo una parola di tedesco, poi una grande sberla e io sono tornata nel blocco con tutte le mani attaccate alla faccia e poi lo sa lei cosa avevo fatto. Probabilmente avrò avuto non attaccati molto bene i numerini di riconoscimento. Non ricordo più, però mi hanno picchiato.

D: Alla sera, il blocco veniva chiuso?

R: Il blocco veniva chiuso, bombardamento, non bombardamento, noi venivamo chiusi dal di fuori.

Quando era chiuso era chiuso, nessuno entrava e nessuno usciva.

D: I servizi….

R: Avevamo, come i soldati, una sfilza di lavandini, acqua fredda.

Poi qualcosa qualcuno ce l’avrà dato. O io avevo qualcosa che mi hanno mandato, io non ricordo molto bene questa cosa, però so che mi lavavo tutte le mattine e mi cambiavo.

La cosa più grave era quando tu avevi il mestruo che non avevi il cambio, quindi tu lavavi la cosa, e la mettevi sotto per asciugarla la notte, insomma ti davano qualcosa per tenerti pulita.

Magari l’avranno data anche lì, me l’avrà data la Cicci.

D: Il trasferimento dal campo a quella galleria che dicevi…

R: Oltre che essere andata a lavorare, ci portavano con il camion le prime volte, poi è avvenuto che c’è stato un incidente con il camion e una donna è andata a finire in ospedale perché si è fatta male, l’altra si era rotta una spalla. Allora, per essere più vicini alla galleria, ci avevano messo dove mettono i soldati, in una caserma, e in campo non ci andavamo più, soltanto noi che lavoravamo. No, non eravamo stretti. E lì avevamo anche contatto con gli uomini.

D: Era vicina la galleria?

R: Era vicina sì.

D: Andavate a piedi?

R: Andavamo a piedi.

D: Non ti ricordi se era una caserma ancora attiva?

R: No, c’eravamo noi, era una caserma, ma c’eravamo solo noi.

Eravamo divisi però alla sera, io ricordo che si andava fuori, si andava a vedere il cielo, non era più il campo. Era leggermente più aperta la cosa.

Era più umano, direi.

Poi, alla mattina, ciascuno andava dove aveva il suo banco, faceva la sua roba, poi a mangiare a mezzogiorno e alla sera si mangiava dentro alla caserma…

D: Volevo chiedere questo: era una caserma dove c’erano ancora dentro dei militari?

Era abbandonata la caserma?

R: No, c’eravamo solo noi.

Almeno che io mi rammenti, c’eravamo solo noi. Non c’erano civili.

D: E chi faceva la guardia?

R: Sempre la SS, ma non solo la SS, la facevano i militari.

Poi, una volta, visto che erano dei russi che probabilmente, poverini, erano giovani giovani, saranno stati arrestati, che poi loro avranno detto: “Va bene…”, per salvare la pelle si fa di tutto, e noi lo prendevamo in giro, noi bolognesi, lo chiamavamo “cipolla”, e lui ci guardava sorridendo, e noi tutte le volte lo chiamavamo “cipolla”… Ma avevamo diciotto, diciannove anni!

D: In questa caserma qui, quanti eravate fra uomini e donne deportati?

R: Non te lo so dire, ma non moltissimi.

D: Non tutti quelli che lavoravano?

R: No, perché poi c’erano quelli che erano andati da un’altra parte.

Noi siamo andati…, poi c’erano delle persone che erano andati anche in case private a fare i servizi.

Sai, non si sapevano le cose…

D: Nel periodo che tu sei rimasta a Bolzano, tu hai ricevuto da casa tua, da mamma qualche pacco, una lettera?

R: Qualche lettera sì, ma il mangiare no.

D: E tu hai potuto scrivere?

R: Io sì, non so poi se lei le ha ricevute, io credo di sì.

Ma come ti ho detto, la mia mamma non era quella che conservava le cose, la mia mamma era una donna che aveva quaranta anni, è nata nel 1903, è diversa una donna di quel periodo.

Lei teneva le fotografie quelle sì, ma gli scritti non credo, però io scrivevo.

Io ho un episodio da raccontare: io non ho mai pianto, io sono una persona che non piange mai, posso avere il terrore ma non piango mai.

Non è una bella cosa, perché se uno non piange, dopo sta male.

Per Pasqua, io ho pensato a mio fratello, non a quello grande, che quello era già andato, a mio fratellino piccolo che mi chiamava Dada, e come mi è venuto in mente mio fratello, lì ho mollato, ho cominciato a piangere come una pazza.

Allora è passato un ragazzo che era in borghese, che faceva la manutenzione degli utensili e mi ha chiesto: “Perché piangi?”

E io gli ho risposto: “Perché mi sono ricordata di mio fratello…”, perché era mio il bambino, non era di mia madre. Mia madre aveva quaranta anni, lei si credeva una donna vecchia a quaranta anni e praticamente me lo tiravo dietro sempre io se andavo io, poi in quel periodo non si andava…, e lui attaccato alla gamba… “Dada, Dada”, insomma pensare a mio fratello…, mi è sembrato che dietro alle mie spalle qualcuno mi abbia chiamato e mi abbia detto: “Dada, vieni a casa.” Mi sembrava di sentirlo.

Da quel giorno lì, quel ragazzo, sopra alla mensolina dove tenevo gli attrezzi, con un gesso “Buon giorno Dada. Stai bene Dada?” fintanto che non siamo venuti a casa.

Siamo stati liberati il 1 maggio, e non ha mancato una giornata senza mai scrivere una cosa del genere.

D: Come ti ricordi la Liberazione?

R: In un modo molto confuso perché siamo tornati nel campo di concentramento, e le due capo blocco, perché la Cicci era rimasta al campo grande e il capo blocco era un’altra ragazza e quelle del campo con quelle di fuori si erano rivoltate contro la Cicci in un modo confuso, in un modo strano.

Comunque ci hanno chiamato uno per uno e ci hanno dato una dichiarazione dove si diceva che ero entrata nel campo di concentramento il giorno tale ed ero uscita il giorno tal altro.

E poi, quando tu avevi in mano questa cosa, ti hanno messo fuori, ci siamo arrangiati noi…

Il primo tratto è stato in treno.

Poi siamo arrivati in un posto, queste sono cose molto confuse perché io mi ricordo così, un tipo aveva una macchina e ci ha detto: “Perché non ci fai venire in macchina?” Però eravamo in tanti.

E io sono andata a finire dove c’è la ruota che se si rompeva…, e siamo arrivati a Verona.

Da Verona, gli americani ci hanno portato con gli americani a Bologna.

C’era un’infinità di prigionieri che venivano dalla Germania.

Era una cosa non più come prima, c’era tutta questa gente che tornava dalla Germania, ci si incontrava per la strada e i camion erano tanti, il posto di smistamento era a Bologna, poi li mandavano…

Allora, arrivare a Verona , io sono stata sopra quell’affare che non so come si chiama, e ci hanno caricato da Verona e io ero in cabina con l’americano.

Io ho provato a chiacchierare perché sono una bella chiacchierona, ma non ha aperto bocca. Un viaggio lunghissimo Verona – Bologna, perché il camion non è che vada molto forte, e poi siamo andati a Bologna io e la Maria.

La Maria abitava a Bologna, ma ci dovevano portare in ospedale per la verifica di come eravamo, come non eravamo. Però noi abbiamo sgattaiolato via, e abbiamo detto con Maria: “Andiamo a casa tua?”

Intanto che andavamo a casa, non ci imbattiamo in una pattuglia?

Così ci hanno detto: adesso vi portiamo in prigione.

“In prigione?” abbiamo risposto. “Ma se siamo appena venute fuori dalla prigione, ci volete portare ancora in prigione?”

Ci hanno detto: “C’è il coprifuoco”.

E io ho replicato: “Ma scusate, veniamo dal campo di concentramento da Bolzano, stiamo andando a casa, e voi ci volete portare in prigione perché c’è il coprifuoco. E’ lì a due passi. Siete tutti matti?”

Quelli lì si sono guadati e hanno detto: “Siete venute dal campo di concentramento?”

E noi abbiamo detto: “Non vedete come siamo messe?”

“Però fate presto…”, hanno ancora detto, “non state sulla strada, noi vi lasciamo andare ma davvero vi tirano addosso le schioppettate”.

Così siamo andate lì, abbiamo dormito lì, ed io, il giorno dopo sono andata a casa in treno, e poi quando sono stata a San Giovanni ho trovato uno che mi aveva filato dietro, allora gli ho detto di portarmi a casa.

In bicicletta, sul cannone…., ho detto: “Poche storie perché io vengo dal campo di concentramento”.

Quello, quando mi ha sentito se l’è fatta addosso e poi mi ha portato a casa in bicicletta e mi lì mi sono vendicata tutta…

D: E la mamma?

R: La mia mamma ha perso tutto, ha perso il marito, il figlio e sei mesi di campo di concentramento della figlia. Non era molto…

D: E tuo fratello?

R: La mia Dada…

D: L’hai trovato?

R: Sì che l’ho trovato. Infatti ancora adesso mi chiama “Dada”.

D: E il babbo?

R: Il babbo l’hanno ucciso ai Colli di Paderno e anche i miei fratelli.

D: Assieme?

R: Assieme. Solo che mio fratello è stato riconosciuto da un pezzo di stoffa, mio padre no.

Siccome c’erano delle salme nude, mio padre è risultato disperso, ma l’hanno ammazzato là.

D: E quando questo?

R: E’ avvenuto il 14 dicembre circa, prima che ci portassero via. Ne hanno ammazzati tanti…

Io sono arrivata a casa a maggio e l’abbiamo scoperto ad agosto perché chi aveva visto uccidere questa gente l’avevano portato in campo di concentramento e quando è venuta a casa ha detto: “Lì ci sono dei morti”.

Li avevano uccisi e buttati giù dai calanchi. Infatti io ho visto mio fratello, c’era solo lo scheletro.

Infatti, da dicembre ad agosto…, non era la sepoltura normale…

D: E’ vicino…

R: Sì. Lì c’è nome, cognome di tutti e due. Anche poi di mio cugino.

D: Anche lui è stato fucilato?

R: Sì.

D: E si è saputo perché il babbo e tuo fratello sono stati arrestati?

R: Perché li hanno accusati di essere dei partigiani.

Io, di mio fratello sono quasi sicura che lui faceva parte…, ma io credo che si stessero organizzando delle gran cose… Non è che voglio denigrare mio fratello, ma non mi sembra che loro si stavano organizzando…, e c’erano fra loro due tedeschi e tutta la storia viene da questi due tedeschi, perché i due tedeschi hanno disertato, poi sono stati presi e loro hanno fatto la spia.

Io non ho niente altro da dire.

D: Ascolta, ti ricordi…, quando eri a San Giovanni in Monte, oltre a quella suora che ti ha detto: “Stai composta”, se c’era anche un sacerdote che parlava con voi?

R: No, io non mi ricordo di sacerdoti.

Ricordo solo che eravamo in mezzo alle prostitute. Però le suore facevano portare via dalle prostitute il buiolo, ma soltanto quella suora lì mi fece quell’osservazione.

D: Un’altra cosa: quando sei partita in camion con gli altri novantotto, da San Giovanni per andare a Bolzano, dicevi che sei partita di pomeriggio, avete fatto un viaggio unico o avete fatto delle soste?

R: Io non lo so, so soltanto che c’è un ponte sul Po che lì bombardarono, che poi non presero…, sarà stato Pippo…, quello me lo ricordo.

Ma non credo che abbiamo fatto delle soste, non lo so, non lo ricordo proprio, mi dispiace. Io credo che sia stato un viaggio unico.

D: Cioè delle soste, e magari durante le soste sono state caricate della altre persone?

R: No, questo no. Non credo.

Non ricordo neanche più se abbiamo mangiato, come abbiamo fatto per andare…, magari se scappava la pipì. Io ricordo che mi scappava la pipì e ho detto: “Mi scappa la pipì”. Allora i ragazzi hanno fatto un bel cerchio e l’ho fatta lì. Si impara ad essere maleducati, senza vergogna, tu pensi solo a te stessa, finita lì.

D: Quando eri in quella caserma, vicino a quella galleria, che andavate lì a dormire e a mangiare, ti ricordi se qualcuno raccontava che in quella caserma avevano fatto violenza, avevano picchiato?

R: E’ una cosa che io sinceramente non ho mai sentito, a parte quella ragazza…, mi sono dimenticata un’altra cosa che mi è venuta in mente.

Una notte, perché c’erano anche i turni di notte nella galleria…, una notte arrivarono i partigiani, hanno legato le due guardie che poverette…, e poi sono entrati nella galleria e hanno chiesto se c’era qualcuno che voleva andare via.

Io facevo il turno di giorno, e so che lì una ragazza aveva tanto di quel coraggio, doveva essere di Imola, non ricordo più neanche come si chiamava, e andò via, andò con i partigiani.

Se ero io non so se avrei avuto il coraggio, perché bisognava avere un grandissimo coraggio.

Dove vai? Con chi vai? Ci hai cercato? Non lo so… Lei andò via.

Anche lì ci chiamarono, ci radunarono non in campo di concentramento, poi dissero: “Stanotte è scappata una persona. Noi non facciamo niente, però ricordatevi una cosa: chi scappa ancora, uno su dieci li ammazziamo”.

Non è mai più scappato nessuno.

D: Dina, quando dicevi che siete stati portati alla Chiesa di Amola, e poi vi hanno portato a Sant’Agata, è un paese Sant’Agata?

R: Amola è una frazione di San Giovanni in Persiceto, è una frazione, invece Sant’Agata è un paese.

D: Perché vi avevano radunato in questa chiesa di Amola?

R: Pure questo non l’ho mai capito. Tant’è che poi, finita la guerra, io non so se è stata una cosa ben fatta, hanno ammazzato il prete, l’hanno fatto fuori.

D: E anche il motivo per cui vi hanno portato a Sant’Agata non è chiaro?

R: Io non lo so. So soltanto che eravamo tutti…, credevo sul serio che ci facessero fuori e basta. Invece no. Non davano spiegazioni.

D: Ascolta, anche dopo la guerra, parlando con altri, hai mai capito perché i tedeschi erano interessati all’Ospedale Maggiore? Cosa c’era di così…?

R: Perché all’Ospedale Maggiore c’era stato un tafferuglio con i partigiani, che non so se avevano…, Otello lo deve sapere più di me.

Allora, loro chiedevano se io facevo parte di quel gruppo e io dissi di no.

Perché poi io rispondevo…, ho detto: “Non ho molta paura delle cose, magari una paura feroce e folle, ed ho la faccia tosta e sono timidissima fra le altre cose. Voi non ci credete, ma è vero. Io mi sto facendo la pipì addosso”.

D: Dada, questa tua storia non l’hai mai raccontata a nessuno?

R: L’ho raccontata, ma non molto.

D: A chi l’hai raccontata? In famiglia?

R: Non molto, infatti mio fratello mi dice: “Non mi racconti mai niente”, e non so come mai sono saltate fuori tante di quelle cose. Il mio medico curante ha detto che io sono una di quelle persone che sono capace di cancellare le brutture. Infatti è vero, se sono in campo di concentramento sono in campo di concentramento, sono a casa, il campo di concentramento non c’è più. Sono in ospedale, faccio un intervento, faccio l’intervento sono in ospedale, vengo a casa, l’ospedale non c’è più. Non so spiegarvi com’è la cosa, come scatti, però è così.

D: Però questa esperienza di questi sei mesi di campo ti ha pesato nella tua vita? L’esperienza del babbo?

R: A me sinceramente quello che ha disturbato…, poi è passato tanto di quel tempo che sembra qualcosa che sia successo a qualcun altro, che io l’abbia sentita raccontare e io ve la racconti.

Quello che mi ha ferito moltissimo è la morte di mio padre e mio fratello.

Io ero legatissima a mio padre.

Con questo non voglio dire che non volevo bene a mia mamma, perché non è vero.

Mia madre è stata una donna eccezionale.

Avevo due genitori, ma non so se io sono stata una genitrice come lo era mia madre.

Mia mamma, quando mio padre era via in Africa o da qualche altra parte, non ha mai speso un soldo di quello che lui mandava a casa, lo prendeva, lo metteva via e diceva: “Quando viene a casa compriamo la casa” e ci ha sempre mantenuti lei.

Mia madre era questa donna.

A sessanta anni è morta.

Lei è morta di crepacuore.

D: Quando tu sei tornata ti ha chiesto del campo?

R: Poco e io poco ho detto.

D: E le tue amiche? La Maria?

R: Un’altra cosa che descrive come sono. Maria diceva sempre: “Ti ricordi la tal cosa?” E io dicevo: “No, non me la ricordavo”. Mi faceva venire una rabbia che l’avrei ammazzata.

C’ero io, Maria e in genere c’era anche mia cugina, mia cugina ha otto anni meno di me… e mi diceva: “Non ti ricordi?” Non mi ricordavo più e poi magari mi veniva in mente, ma io l’avevo dimenticato.

Io ho mangiato quello che ha mangiato lei. Lei quando è venuta a casa, non faceva altro che mettere delle grandi…., io no, io ero rimasta quella di sempre, seppure che ho patito la fame come ha patito lei. Non so come sono fatta, sono fatta in un modo molto strano.

D: Dina, qui a Bologna, ai giardini Margherita cosa c’era?

R: C’erano le SS, è stato lì dove mi hanno schiaffeggiato, è stato uno schiaffeggino piccolino….

D: Ascolta, se ricordi, se ti viene in mente la galleria del Virgolo, ti ricordi…, non so se c’era un portone…, in questa galleria dove andavate a lavorare per questi cuscinetti a sfera…, ti ricordi c’era un portone…

R: Prova ad immaginare questa stanza lunga lunga, poi di qua e di là c’erano due portoni che si chiudevano e basta, finita lì.

Si chiamava Virgolo…?

D: Virgolo….

R: Io non lo sapevo. Magari me l’hanno anche detto…

D: Non ricordi neanche il nome della ditta?

R: Non me lo ricordo.

Ma ero diventata brava, sapete.

D: Ascolta, visto che sei tanto brava, ti ricordi il nome di qualche altra tua campagna di deportazione?

R: No.

D: Neanche quelli del Virgolo?

R: No.

D: Ti ricordi se c’erano dei milanesi?

R: Io ricordo che c’era una ragazza di Belluno. Però, non mi ricordo come si chiamava…

D: Teresa forse?

R: Non ricordo niente.

Perché poi, fra le altre cose, come ho detto, non ci si chiamava per nome, ci si chiamava Bologna, Torino, Milano o Genova.

D: Di un milanese non ti ricordi?

R: No, non ricordo niente.

Io ricordo solo questo ragazzo, che non ricordo neanche più come si chiamasse.

D: Ascolta, ma lui era un civile?

R: Sì, era un civile.

D: Se dovessi ripensare alla galleria, all’interno, a tutte le macchine, ai macchinari, più o meno quanti potevate essere dentro a lavorare?

R: In molti. Eravamo in parecchi.

D: Parecchie decine o centinaia?

R: Centinaia forse non arrivavamo.

Però era una bella…

D: E parecchie donne, o metà donne e uomini?

R: No, le donne erano poche, erano più gli uomini.

Però facevamo lo stesso lavoro.

D: Come te la ricordi, ad un piano solo o…?

R: No, era una galleria dove passava il treno. Era una galleria.

Dunque una galleria alta, ma niente, poi era arredata….

D: Era scavata nella montagna?

R: Sì, sotto la montagna. Se queste sono le porte, lì la galleria e c’erano tutti i banchi e le macchine e qui si passava.

D: E non c’erano due piani?

R: No, non c’erano due piani.

D: Una cosa: quando tu facevi i tuoi seicento cuscinetti al giorno, li mettevi in una cassa probabilmente. Poi chi veniva a raccoglierli? Come riusciva a raccoglierli?

R: I tedeschi non c’entravano niente con il lavoro, erano tutti civili. Veniva il ragazzo, l’uomo a prenderli, quando noi andavamo via. Ne dovevamo fare seicento… Un’altra volta fecero sciopero dentro alla galleria i prigionieri, però io avevo paura perché pensavo che le prendessimo…, allora, come al solito, ho rotto la punta, e quando è arrivato il tedesco incagnato perché nessuno lavorava, ho detto: “Si è rotto, si è rotto…”, allora è passato quell’altro…, prendere delle botte non avevo voglia, ero anche una fifona…