Bigo Pio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Pio Bigo. Sono nato il 28 marzo del 1924 in Piemonte, precisamente alla Cascina Falchetta, nella tenuta della Mandria, allora proprietà dei marchesi dei Medici del Vascello. Mio padre era un contadino. Visto e considerato che poi ci siamo trasferiti a Torino, alle Vallette, in Piemonte, io ho continuato le scuole e sotto la dittatura fascista, c’era il sabato fascista, dovevamo andare vestiti da balilla, poi da avanguardista, eccetera. Giunti all’8 di settembre del 1943, io ero di leva, avrei dovuto presentarmi alle armi al novembre del 1943. Rinunciai a presentarmi alle armi della Repubblica di Salò e cercai di arruolarmi, con dignità e scelta morale, nella lotta della Resistenza partigiana. Precisamente coi miei amici, compagni, ci siamo informati, abbiamo avuto delle informazioni come dovevamo fare. Ci siamo recati in treno con la Ciriè-Lanza da Torino e siamo arrivati a Pessinetto in Valle di Lanzo. Il comando ci ha presi in forza, sembrava a noi di respirare un’altra aria più pulita, più sana. Tutta la zona era controllata dai partigiani: da Lanzo, da Germaniano, tutta la vallata in su, in montagna. E lì abbiamo tribolato [sono cominciate le difficoltà, ndr] … ci han dato un posto su a Lanzeroldo, dove ci siamo riuniti una cinquantina di partigiani nelle baite, al freddo.
E poi, una volta registrati tutti i nostri nomi, al comando, ci hanno mandati su una frazione, a Lanzeroldo, un gruppo di cinquanta ragazzi. C’era anche qualche militare assieme, noi li chiamavamo i nostri padri perché erano più anziani di noi, ed erano già istruiti a usare le armi, mentre noi dovevamo ancora imparare. Però eravamo senza armi, aspettavamo sempre che ci mandassero… buttassero giù le armi gli inglesi, che si parlava, mandavano i messaggi con la radio allora inglese, mandavano dei messaggi “a Paolo piacciono le mele”: noi non capivamo, ma erano dei segnali; infatti, ogni tanto ci facevano accendere dei fuochi di notte, e aspettavamo i lanci e i lanci non arrivavano mai. Insomma, per farla corta, abbiamo tribolato tanto. Al 7 marzo io ero di guardia, di notte, perché li aspettavamo: eravamo avvertiti che dovevano venire su a fare il rastrellamento – la SS tedesca assieme ai repubblichini – dal comando CLN che si era ormai formato. E noi, lì, quando eravamo di guardia, facevamo turni di due ore; il mio turno verso il mattino era dalle cinque alle sette, difatti dovevo smontare alle sette meno un quarto [quando] c’era la colonna a fondo valle che veniva su, coi repubblichini davanti e i tedeschi dietro. Io ho avvisato i compagni che erano a riposo, dico: “Guarda che stanno arrivando”. Ci siamo messi ognuno al nostro posto di combattimento, e quindi abbiamo combattuto fino verso le due del pomeriggio. Poi sono riusciti a chiuderci a ferro di cavallo e ci hanno bombardato con due apparecchi, ogni tanto che venivano sopra a bombardare. Noi con quelle poche armi abbiamo fatto miracoli. E quindi dopo abbiamo indietreggiato su, dove c’era una chiesa che si chiama Bogliano [località in provincia di Torino, la chiesa è di San Bartolomeo, ndr]: lì non c’è stato più niente da fare, si salvi chi può. Chi è scappato prima è riuscito ancora a varcare il monte e passare dall’altra parte in Valle di Viù, e invece io, purtroppo, con altri, siamo rimasti presi nel cerchio e non abbiamo più potuto scappare. Ci siamo trovati alla sera, di notte, in un posto su in montagna, dove c’era anche il comandante. Eravamo senza mangiare, affamati, al freddo, c’era una baita solo: chi dormiva nella stalla chi nel fienile. Abbiamo passato la notte. All’indomani, oltretutto abbiamo dovuto andare a cercare da mangiare; hanno preso una mucca in una stalla dei pastori, l’han portata su, dove erano passati i tedeschi avevano bruciato i paesi, non abbiamo trovato le nostre provviste. Alla sera, dopo aver mangiato quella mucca, squartata in quattro e quattro otto e fatta bollire, il comandante dice: “Ho bisogno che qualcuno vada in Valle di Viù a vedere se ci sono i tedeschi”. Noi là eravamo in un angolo in alto in montagna che non si poteva vivere, e allora io – ero abbastanza pratico – sono andato con altri due miei compagni, siamo partiti per andare nella Valle di Viù: uno, posso fare il nome, un mio caro amico, Luca Castello Sergio, eravamo coscritti, l’altro, un certo Emilio, che era di Torino, adesso non ci sono più. E abbiamo attraversato tutta la costa, abbiamo trovato un cane impaurito sperso, l’abbiamo carezzato e ci è venuto dietro, e lo chiamavamo Dick. Quando siamo arrivati giù dall’altra parte abbiamo trovato una baita e ci siamo messi lì. Abbiamo aperto con tanta attenzione, abbiamo visto che c’era un fuoco, abbiamo acceso il fuoco per farci asciugare i panni e le scarpe. Al mattino, morti di fame come eravamo, abbiamo visto che più in basso c’erano dei pastori. Siamo scesi e siamo andati da questi pastori, abbiamo chiesto prima di tutto se c’erano i tedeschi e loro ci hanno risposto: “Sì, sono lì sotto al paese dei Tornetti, in Valle di Viù”. E allora abbiamo chiesto da mangiare. Ci han portato un po’ di polenta e latte, quelle cose che si fanno in montagna; noi con le mani l’abbiamo mangiata in quattro e quattro otto, e loro ci han detto: “Non andate giù, scappate su per la montagna perché vi prendono”. Noi con quel cane abbiamo attraversato dietro la casa per prendere la mulattiera che andava su in montagna. Loro erano già di dietro, ci hanno sparato e ci siamo messi per terra, abbiamo nascosto quelle poche armi che avevamo sotto delle foglie secche. Sono arrivati lì: “Vi arrendete?”. E noi abbiamo alzato le mani perché non c’era niente da fare: loro erano in sedici, noi eravamo in tre, disarmati, con un novantuno [fucile, ndr] non potevamo fare niente. Un repubblichino… Il cane si è spaventato perché avevano sparato, si è messo a scappare su per la montagna. Un repubblichino gli ha sparato al cane e l’ha ferito. Era lì che piangeva, il cane. Io ho sempre amato molto le bestie e… mi ha toccato quello, ma dico: lui ha fatto mica niente di male, è un animale! Perché? Pazienza noi, ma il cane cosa ne poteva? E così abbaiava, e lui è partito: “Adesso vado su e te lo finisco”. E lo ha ucciso. Primo segno di criminalità.
Poi ci hanno arrestato. Passa nel sentiero lì un repubblichino, mette il piede sopra il calcio del moschetto e il moschetto viene fuori… e lì è uscito poi dopo tutto il resto. Chiedeva di chi era questo moschetto. Ci ha messo davanti il plotone per fucilarci, per farci parlare. Noi parlare non parlavamo, non avevamo niente da dire, non sapevamo neanche chi erano i nostri capi, ecco. E da una parte è stato meglio così, e non potevamo dire niente. Quello che aveva il moschetto dice: “L’ho preso per la difesa della notte”. Io avevo le bombe a mano, ed erano le bombe a mano tedesche. Ha detto: “Cosa ne facevi di queste bombe?” “Cosa ne facevo, per la difesa della notte”. Insomma, li prendevamo ancora in giro così. L’altro aveva una pistola, idem. E quindi ci hanno poi portati giù al paese dei Tornetti, ci hanno picchiati a sangue. Poi hanno rubato le provviste dei pastori che avevano in casa, le donne urlavano, insomma c’è stato delle cose… Poi hanno preso i pastori per farci fare da guida, ci hanno portato a fondo valle. Arrivati in fondo valle c’erano le camionette e ci han caricati sopra, e ci han portati alle scuole di Lanzo torinese. Lì abbiamo passato una notte. Ci hanno picchiati, ci hanno fatto mettere con le mani contro il muro, ogni tanto passava qualcuno, ci dava delle pedate e degli schiaffi sulla testa, quindi torturati. Il giorno dopo ci han caricati sui camion e ci han portati alle carceri di Torino. Nel tragitto ci han fatto passare alla Veneria reale, poi ci hanno fatto fare Corso Regina, Porta palazzo, Via Roma, Porta Nuova: giro di propaganda per la città dicendo che avevano preso i banditi, noi ci chiamavano “banditi”. Poi Corso Vittorio. Siamo arrivati davanti al carcere di Corso Vittorio, Torino, ci hanno rinchiusi dentro nelle celle 10 e 15 nel braccio tedesco politico della Gestapo. Lì siamo stati interrogati, picchiati, malmenati, torturati. Insomma, sono ricordi purtroppo anche dolorosi. Nella notte, verso l’una, è suonato l’allarme, mezzanotte l’una, ricordo la prima notte che eravamo lì, c’è anche stato un bombardamento da parte degli americani oltretutto. Lì siamo stati fino al giorno 13 di marzo. Il giorno 13 al mattino assieme a noi hanno messo quelli che avevano arrestato ai primi di marzo per gli scioperi nelle fabbriche: la Fiat, la Spa, la Lancia, gli operai, uno sciopero più che altro di protesta contro questa dittatura. Oltretutto ce n’era già di politici che erano in carcere nella regione di Cuneo, di Saluzzo, nei dintorni e via dicendo. Ci hanno al mattino portati sotto, ci hanno caricati sui camion. Abbiamo percorso Corso Vittorio fino a Porta Nuova, dove guardavo io fuori da una parte dall’altra: ogni tanto c’erano la gente che ci guardava, madri di famiglia che vedevano noi ragazzi giovani, poi c’erano i loro mariti, che erano stati presi nella notte, arrestati nella notte perché avevano scioperato, e li chiamavano, chiamavano i loro mariti. Insomma, era un viaggio della tragedia proprio. Io queste cose me le ricordo bene. Siamo entrati nella stazione, c’era una tradotta che ci attendeva. Ci hanno caricati sopra quei vagoni dove fuori era scritto “cavalli 8, persone 40”, nell’angolo c’era una tinozza per i bisogni. E poi ci hanno fatto partire, alle quattro e mezza del pomeriggio siamo arrivati a Bergamo. A Bergamo ci han fatti scendere e siamo passati lì due tre giorni perché hanno concentrato lì quelli di Milano, che avevano arrestato nei pressi di Milano, specialmente alla Caproni, che erano allora, quelli che avevano scioperato, e quelli che erano contro… insomma. E poi da Brescia sono arrivati in diversi. Il giorno 17 ci han fatti partire, e siamo… Noi pensavamo che ci portassero in Germania a lavorare, come si sentiva.

D: Pio, scusa, ti ricordi a Bergamo, vi hanno messo dove?

R: A Bergamo ci hanno messo in una caserma che si chiamava Umberto I, della cavalleria. E lì c’erano dei genovesi, di Savona, c’erano milanesi. Io ricordo tanti nomi di Milano che sono stati con me, Carlo Annovazzi, ricordo Guido Bortolotto, ricordo tanti nomi, Ottolini, Malaguti che era di Torino e lavorava alla Michelin. Erano tutta gente molto più anziani di noi, che noi li chiamavamo i padri nostri, ecco.
Il 17 ci han fatti partire, inquadrati per cinque. Siamo arrivati di nuovo alla stazione di Bergamo. Ognuno portava con sé la sua tristezza. I padri di famiglia pensavano ai loro figli, e ci hanno fatto un discorso prima di partire, un ufficiale tedesco ha detto: “Voi adesso, vi porteremo tutti a lavorare per la grande Germania, per il nostro Fuhrer. E state attenti di non scappare perché noi abbiamo il vostro indirizzo e faremo rappresaglie sulle vostre famiglie”. Questo me lo ricordo benissimo, e l’ho anche scritto. Dopo… adesso non ricordo se siamo arrivati alla sera del 19, mi sembra, a Mauthausen. Dopo tutto il tragitto… Siamo passati per Tarvisio nel Friuli; ricordo che a Verona e a Casarza abbiamo buttato giù dalla tradotta dei bigliettini scritti, e difatti io ne avevo messo anche giù due o tre a casa mia. M’avevano detto che l’avevano ricevuto ma non me l’hanno mai fatto vedere i miei fratelli, la mia famiglia, perché quando ero arrivato sono successe delle altre cose che racconterò dopo.
Quel viaggio è stato molto sofferto da tutti perché noi giovani cercavamo di scappare, invece i padri di famiglia ci intimavamo di non farlo perché era pericoloso non solo per noi ma anche per la nostra famiglia. E quindi nel mio vagone almeno posso dire che nessuno è scappato perché non abbiamo avuto la possibilità. E siamo arrivati a Mauthausen. Quando siamo arrivati alla stazione, quello che posso ricordare dopo un viaggio sofferto e patito: di arrivare in una terra dove non capivi neanche a parlare, ti davano degli ordini in quella lingua che noi non conoscevamo e non capendo stavi fermo e loro ti picchiavano a morte. Un bel momento, scesi dal treno ci hanno inquadrati per cinque, in quell’attimo io… C’erano due, uno era un infermiere che lavorava all’ospedale qui di Torino, al Mauriziano, l’avevano arrestato perché portava una camicia di colore rosso. E quando siamo arrivati lì a Mauthausen, più avanti ha visto che c’era suo figlio, Afro, e l’ha chiamato. Si sono abbracciati e poi ha detto: “Ma guarda qui dove ci troviamo… Io nella guerra mondiale del ‘15-‘18 sono stato ferito e nell’ospedale in Italia [dove] mi avevano portato ho sentito dire che i prigionieri militari li portavano a Mauthausen, e adesso qui sono arrivato con mio figlio”.
Io con loro ho vissuto una storia, che l’ho anche spiegata. Insomma, ci hanno portati su a Mauthausen, dove abbiamo subito le pene dell’inferno. Arrivati lì dove adesso ci sono i monumenti, sia a destra che a sinistra c’erano le baracche delle abitazioni dei guardiani delle SS. Ci buttavano addosso dei catini d’acqua che usavano per farsi la barba, degli sputi, ci tiravano addosso qualsiasi cosa, ci chiamavano banditi traditori italiani, fascisti traditori, comunisti, tutti i nomi, e via dicendo.
Poi una volta che siamo entrati dentro ci hanno messo lì di fianco e un ufficiale tra il muro dove adesso ci sono delle lapidi e via dicendo, in attesa del bagno, della doccia.

D: Scusa Pio, partendo da Bergamo nel tuo Transport c’erano anche delle donne?

R: Io ero giovane allora, non ho potuto vedere le donne, non mi ricordo. Però so della gente, ad esempio c’è un avvocato che adesso non c’è più di Cuneo, Bonelli ad esempio, che l’ha anche scritto questo, che c’erano delle donne, mi sembra 17 o 30 non mi ricordo più, però io personalmente non le ho viste le donne. Non lo nego per carità, se l’ha detto è perché c’erano. Quando ci hanno messi lì in colonna per aspettare la doccia, un ufficiale ci ha detto che quel portone lì quando siamo entrati era la porta per entrare e uscire per andare a lavorare. Poi si è girato – sempre con quell’italiano mal parlato, qualche parola in tedesco – ha puntato il dito verso la canna del forno crematorio che allora non sapevamo neanche che cosa era, che fumava, e ha detto: “Quella è la strada per andare a casa vostra”. Queste sono le battute che mi ricordo bene.
E quindi poi di lì ci hanno svestiti. Quello che ricordo io, ad esempio, a me mi hanno spogliato sopra, dove adesso esiste una cappella cattolica. Allora era divisa in due parti: da una parte c’era le SS, blocco scrivani e via dicendo, e la prima parte era vuota, faceva freddo, nevicava. Ci han fatti salire lì e ci han detto: “Lasciate la vostra roba lì a terra, prima della doccia, oro, brillanti, tutto quello che avete lasciatelo nelle tasche, noi tanto abbiamo il vostro indirizzo, manderemo tutto a casa vostra”. Queste sono le cose che ricordo con tanta lucidità. E con memoria visiva.
Poi nudi ci hanno fatto andare sotto, sotto c’era una fila di Friseur, cioè barbieri, che con una macchinetta ci rapavano i capelli, e chi aveva la barba lunga anche la barba. Poi passavano il rasoio, facevano l’Autobahn, la Straße, in mezzo alla testa col rasoio. E poi prima di entrare nella doccia con un pennello ci disinfettavano da tutte le estremità superiori e inferiori, con dei liquidi che bruciavano da morire. Ho visto delle cose che non mi va neanche di raccontarle. Quando ci hanno spogliati c’erano degli uomini che piangevano. Diceva: “Era il regalo che mi aveva fatto la mia Rita”. L’altro diceva altre cose, e noi giovani non avevamo nessuno, io che cosa avevo? Il pensiero della ragazza, qualche cosa così, mi aveva regalato il maglione per andare nei partigiani. Tutte queste cose, le nostre cose care che ci tenevamo ci hanno spogliato. Avevamo… una catenina d’oro di poche lire, che mi aveva regalato il padrino della cresima e via dicendo, insomma tutti questi ricordi, ci hanno spogliati di tutto. Siamo stati nudi come mamma ci ha creato, dal ragazzo di 17-18 anni al vecchietto di 70 anni, eravamo tutti uguali. Noi non eravamo abituati a presentarci nudi e via dicendo, ne soffrivamo un po’ di vergogna.
Poi una volta passata quella famigerata doccia, coi bruciori infernali, nell’uscire ci han dato una camicia e un paio di mutande, di tela, e noi dovevamo indossarle immediatamente e poi prendere un paio di zoccoli che ci davano anche spaiati e metterle nei piedi e salire sopra al freddo. Sopra dovevamo aspettare almeno di essere in 100-150 prima che ci portassero via, e lì prendevamo freddo da morire, i primi malanni sono successi a quelle persone più deboli, subito, due tre giorni dopo.
Abbiamo fatto quattro giorni di quarantena con delle botte, trattamenti ingiusti, trattamenti infernali. In quella quarantena abbiamo sofferto perché arrivando da un paese che più o meno eravamo a casa nostra, di fatto una vita normale, trovandoci là, trattati peggio delle bestie: noi non avevamo più il nostro nome, ci chiamavano con un numero che noi non conoscevamo. Dopo quattro giorni di quarantena, maltrattati a morte – dormivamo per terra come le acciughe – il mattino ci hanno portato il vestito a righe con un berretto e ci hanno portati a Gusen I dove ci hanno messi in un campo a lavorare per costruire Gusen II. È stato un momento più massacrante, in quanto non abituati. Eravamo tutti sofferenti, dal contadino all’avvocato all’insegnante al professore, eravamo trattati tutti ugualmente. Poi la Pasqua. È arrivata la Pasqua.

D: Scusa Pio, l’immatricolazione di Mauthausen, ti ricordi il tuo numero?

R: Cinquantotto mila ottocento diciannove [58719]. E in tedesco venivamo chiamati con un nome diverso, perché… l’avessero almeno chiamato in italiano! A Gusen, quando il mattino era ora, ci portavano a lavorare dopo l’appello, in quei lavori di campagna, a spalare terra, spingere carrelli, lavori pesanti, sotto la pioggia, sotto la neve, nel fango. Ci chiamavano con un nome in tedesco che noi non conoscevamo, e allora loro ci giravano attorno, poi avevano delle gomme con dentro dei cavi di rame eccetera, e di piombo: picchiavano a morte. Se era uno un po’ robusto magari li sopportava, se era una persona già anziana piena di acciacchi il giorno dopo finiva al forno crematorio. Lo vedevamo steso nel Waschraum, cioè nelle latrine, in un angolo, alla sera, morto, con il numero scritto sul petto per traverso. Scrivevano con una matita copiativa, gli scrivevano il numero e lo scaricavano poi al forno crematorio che era morto. Succedeva spesso che tante volte, degli errori… che il capoblocco non l’aveva scaricato, l’appello durava delle ore per trovare lo sbaglio dove era andato a finire. E noi dovevamo restare sotto la pioggia, sotto il freddo, sotto la neve perché c’era stato… Mancava due Stück! Perché noi venivamo chiamati “Stück”. Per esempio a Mauthausen le SS ricevevano degli ordini… Allora erano più di 40 sottocampi nell’Austria, di lavoro, dove ci mandavano noi, e gestiti dalle imprese, ad esempio a Linz ce n’erano tre: Linz I, Linz II, Linz III. Io sono stato a Linz I poi a Linz III. Quando le telefonavano di lì, che avevano bisogno di duecento… non dicevano duecento uomini, dicevano “zweihundert Stück”, in tedesco, duecento pezzi. Noi eravamo diventati dei pezzi, di lavoro, destinati certamente poi a morire e passare per il forno crematorio. Questo era il sistema nazista. Quando l’abbiamo capito era tardi. Tante volte ho pianto sulla piazza d’appello, quando vedevo impiccare poveri ragazzi perché erano stati messi a fare un lavoro che non erano capaci. Sbagliando, venivano considerati come sabotatori, impiccati sulla piazza d’appello davanti a noi tutti. Quante volte un padre ha visto suo figlio impiccato o il figlio impiccare suo padre, anche. Queste cose diverse volte le ho viste, e senza avere esagerato, solo dire quello che ho visto. Poi oltretutto arrivava la domenica nei sottocampi e loro dovevano avere un divertimento, le guardie delle SS. E loro per avere un divertimento, [a loro piaceva] vedere lo sport, il pugilato, e obbligavano questi detenuti a picchiarsi, addestrarli, poi alla domenica… Io mi ricordo uno che era di… Mugnaini, si chiamava di cognome, era di Firenze, era l’unico che aveva fatto il pugile nella sua carriera. Era del ‘15, ed era molto più anziano di me: io ero del ’24 quindi lui aveva nove anni più di me, io allora avevo vent’anni e lui ne aveva ventinove. L’abbiamo pregato, dico: “Fai te al posto degli italiani il pugile, se hai fatto il pugile!” Era magro, così, piccolino. Hanno cominciato a fare l’incontro a eliminazioni, nazione contro nazione, francesi contro italiani, polacchi contro francesi, a eliminazione così, russi, c’era tutta l’Europa lì ecco, c’è poco da dire. Davanti hanno fatto dello spazio, nella baracca davanti, c’erano tutti questi ufficiali e gendarmi delle SS che guardavano, eccetera. Noi un po’ fuori dai vetri guardavamo dentro con rancore a vedere i nostri compagni lì che si picchiavano per la bellezza… e anche questo era un sistema per eliminare…

D: Questo a Gusen I o anche a Mauthausen?

R: Questo che io racconto l’ho visto a Linz I. È un campo che dopo, verso la fine di giugno, è stato eliminato dai bombardamenti dove sono morti diversi prigionieri anche. Io per fortuna lavoravo di giorno ed ero in fabbrica, ci hanno fatto attraversare uno stradino, ci han portato sotto un rifugio. Da quel bombardamento lì mi sono salvato. Poi eravamo soggetti ai bombardamenti, continuamente, in quanto lavoravamo per costruire, dopo due o tre giorni arrivavano e bombardavano di nuovo. Questo era il sistema.
Quel sistema lì diciamo a Linz, dov’ero addetto al comando dello “Stallbau” [Baustelle, cantiere, ndr], dove si lavorava l’Hermann Göring, dove si costruivano i carri armati tigre, e io facevo il saldatore, lo Schweißer. Ero già meccanico, quindi di conseguenza è stata una sciocchezza per me da fare tornitore, conoscevo il disegno e via dicendo, lavoravo già al tornio, alla rettifica e tutto quanto. Per passare al ramo saldatura, era stata una sciocchezza in quanto ero già capace anche a saldare. E saldavo anche bene, mi sono guadagnato il posto da saldatore, lì all’Hermann Göring, facendo dodici ore di lavoro massacrante, di giorno una settimana e una settimana di notte.

D: Parlando di Linz I, il campo dov’era rispetto alla fabbrica?

R: Era proprio davanti al reparto, era vicinissimo, ci sarà stato cento metri. Il magazzino delle lamiere, finiva quasi al confine col campo, diciamo. Erano tre baracche, che l’ho disegnato anche sul libro [Pio Bigo, Il triangolo di Gliwice – Memoria di sette lager, Dell’Orso, Alessandria, 1998] ho fatto tutti i disegni dei campi che sono stato, una di qua e l’altra di là e l’altra per traverso così… la terza era la cucina e il magazzino dei viveri.

D: Eravate in pochi come deportati.

R: Ah, sì saremo stati 700-800 forse, anche mille certe volte, ma non di più perché non aveva la capienza.

D: E a Linz I sei andato dopo Gusen I?

R: Sì, a Linz I sono andato dopo Gusen I. Poi da Linz I, dopo il bombardamento ci han trasferiti a Linz III. Linz III era un campo che era un po’ in basso dalla strada, un paio di metri, la strada andava leggermente in discesa. Appena entrati a sinistra c’erano le cucine, e poi in fondo c’era la piazza appello, a metà si girava una stradina a sinistra dove c’erano venti baracche. Quest’anno abbiamo trovato il sito, tramite una professoressa che vive in Austria, storica. Siamo andati con gli studenti, c’è anche la foto che mi hanno fatto, dove lì adesso ci sono più le fotografie dove esisteva questo campo con le venti baracche, come ho fatto io il disegno che mi ricordavo. E queste venti baracche erano tutte in fila, davanti allo stradino. Bisognava attraversare lo stradino per andare a fare i nostri bisogni alle latrine, o lavarsi. Erano delle baracche quadrate, ogni tre baracche avevamo questo servizio, diciamo. Però c’erano minimo 600 prigionieri [in] ogni baracca.

D: Linz I era vicino a Linz III o era molto distante?

R: Linz I da Linz III era poco distante, ci sarà stato tre chilometri di marcia a piedi, su per giù, che ricordo io. Però andavamo sempre a lavorare nella stessa fabbrica.
Quindi questo lavoro, fin quando sono stato a Linz III, è durato fin nel novembre… dopo il 20 di novembre del 1944, in quanto, penso, per mancanza… cioè i bombardamenti avevano quasi distrutto completamente l’industria bellica. Allora un bel mattino ritornando dal lavoro, dopo l’appello, sono entrati dentro degli ufficiali delle SS, con i gendarmi col mitra e hanno diviso… hanno selezionato i prigionieri, “links rechst, links rechts”, senza sapere cosa succedeva. Quelli che hanno mandato a destra li hanno mandati in baracca a dormire, quelli che han mandato a sinistra sono arrivati dei camion, ci hanno caricati sopra e ci hanno portati di nuovo a Mauthausen. Io in quel periodo lavorando in fabbrica avevo conosciuto dei militari italiani e avevo avuto modo di avere un piccolo quadernetto, qualche foglio di quaderno piegato, me lo tenevo in tasca, con una matita copiativa, dove mi prendevo degli appunti.
Avevo capito che andavamo a Mauthausen sul camion, e allora quegli appunti che vi avevo preso – ad esempio su tutte le memorie, nomi di compagni italiani e stranieri, le impiccagioni, chi avevano impiccato, le date, tutto tutto quello che succedeva – l’ho buttato dal camion perché avevo paura di… l’ho buttato dal camion, però mi è rimasto impresso nella memoria quello che avevo scritto, più o meno. Arrivati a Mauthausen ci hanno spogliato di tutto. Noi eravamo oramai… era otto mesi che avevamo i vestiti strappati addosso, pieno di pidocchi. Siamo di nuovo passati alla disinfezione, ma questa volta invece di usare il pennello ci hanno buttati dentro una vasca di creolina, cos’era, con la testa sotto, gli occhi bruciavano. Poi siamo passati alla doccia, ci hanno dato un altro vestito. Il giorno dopo, assieme a tantissimi altri che erano arrivati a Mauthausen da altri campi, malandati di salute, deperimento, ci hanno portati a Mauthausen, ci hanno caricati su una tradotta e siamo arrivati a Birkenau. Destinazione ignota, nessuno sapeva dove ci portavano.
Siamo arrivati a Birkenau. Sul foglio della Croce di Arolsen [archivi di Arolsen, ndr] dice l’uno o due di dicembre, però a mia memoria siamo arrivati molto prima, qualche giorno prima… che poi le registrazioni venivano fatte anche dopo, questo è possibile che sia stato così.
Poi ci hanno mandati… Siamo arrivati lì, in quel grande lager, e ci ha impressionato per la grandezza, per quello che vedevamo. A sinistra c’erano tutte donne, che tiravano dei carri di patate di verdure, eccetera, la kapò e gli ufficiali che ridevano, e facevano frustare queste donne, come schiave, rapate a zero. E noi purtroppo avevamo già subito queste umiliazioni prima, ma capivamo che lì era ancora peggio. Poi lì passavamo davanti all’ufficiale, dottore, dicevano, delle SS, poteva anche esserci Mengele assieme, chi lo sa? [Josef Mengele, ndr], e ti davano una destinazione, links o rechts, sinistro o destro. Nessuno di noi poteva sapere cosa succedeva ad andare a sinistra o destra, ognuno di noi oramai abituati al trattamento avevamo già fatto il callo. E chi mandavano a sinistra, a me fortunatamente mi hanno mandato a destra. Finita la selezione ci hanno mandati un po’ distanti di qualche chilometro, in un posto dove ricevevano i prigionieri, e lì siamo passati prima di tutto alla spoliazione, poi ci han fatto il tatuaggio sul braccio. E quello che io ricordo… c’era l’ufficiale che teneva la lista in mano del trasporto e con noi c’erano anche degli ebrei, specialmente ungheresi perché si distingueva dal modo di parlare. E gli ebrei li avevano scelti, andavano a farsi immatricolare in un’altra fila, e venivano immatricolati qui sopra [indica la parte esterna dell’avanbraccio, ndr], mentre gli ariani venivano immatricolati di qui [mostra il tatuaggio, all’interno dell’avambraccio sinistro, ndr]. Questo quello che ricordo io… difatti io non ho mai visto – sono stato assieme a tanti ebrei – non ho mai visto un ebreo immatricolato da questa parte [indica l’interno dell’avambraccio, ndr].
Questa è stata una memoria che ho sempre portato avanti, che poi dopo è venuta fuori… Nel momento, quando siamo tornati, non potevamo raccontare queste cose, perché nessuno ci credeva.

D: Pio, due cose: quando sei arrivato ad Auschwitz II, a Birkenau, il treno è entrato dentro nel campo?

R: Sì, sì è entrato dentro, si è fermato dentro, fino in fondo. Ha fatto una grande curva molto grossa, perché arrivava diritto così, poi ha fatto una grande curva così, è entrato dentro al lager fino in fondo, là c’erano due o tre binari… Arrivavano continuamente i convogli. Io mi ricordo che alla sera, era già notte, finita la doccia e l’immatricolazione… perché prima ci hanno immatricolati, poi ci hanno fatto fare la doccia, c’hanno detto che questo [il tatuaggio] doveva asciugare, di non fregare col dito, sennò erano botte.

D: La seconda cosa è proprio l’immatricolazione. Tu ti ricordi? Te l’hanno fatta in piedi… seduti..

R: In piedi in piedi. Così, mi hanno fatto mettere il braccio così, appoggiato a qualcosa lì, e il prigioniero era da quella parte lì che scriveva, difatti [indica il numero tatuato, ndr]. Poi c’era quello che era più abile che lo faceva meglio, si vede che chi l’ha fatto a me era uno specialista, poi ce n’era degli altri che lo facevano più rosso e via dicendo. Perché erano tutti prigionieri che facevano quello, non erano…

D: Tutti deportati.

R: Tutti deportati! Ognuno aveva un compito ben preciso, anche ad esempio – che poi si è saputo dopo – in zona del comando, che erano addetti a fare quel lavoro lì, dei forni crematori, no, tirare fuori i cadaveri dalle camere a gas: erano tutti prigionieri. Figuriamoci cosa provavano in quel momento. Oltretutto potevano avere una vita di due o tre mesi, non di più, perché poi li cambiavano, non ci dovevano essere testimoni che raccontassero queste cose. Era una cosa studiata a tavolino, perfettamente, perché lo sterminio lo facevano fare dagli stessi prigionieri.

D: E tu a Birkenau quanto tempo sei rimasto?

R: Poco, diciamo tre o quattro giorni per la quarantena in una baracca, poi il primo trasporto che c’è stato hanno chiamato il mio numero e a piedi ci han trasferiti a Auschwitz III, cioè a Monowitz.

D: Il tuo numero di Birkenau qual è?

R: Duecentouno mila cinquecentosessantuno [201561]. In tedesco veniva chiamato diversamente: zweihundert[ein]tausend fünfhunderteinundsechzig. Ho dovuto anche memorizzare, oramai la numerazione la conoscevo già abbastanza bene, perché se uno non capiva cosa succedeva quando ti chiamavano il tuo nome… perché noi eravamo solo che dei pezzi, non eravamo più creature umane, quindi botte da orbi. Lì ci avevano preso in giro strada facendo. Ci raccontavano ogni tanto sorridendo le SS: “Arbeit [kochen]?” Cioè, di voi chi è capace a fare il cuoco? Tutti eravamo capaci a fare il cuoco in quel momento. Loro ridevano, ce l’avevano detto apposta, perché ci avevano promesso che ci mettevano tutti a lavorare a far da mangiare in cucina o pelare patate. Strada facendo eravamo abbastanza contenti. Poi quando siamo arrivati là, la tortura del lavoro… Ci han messi in un campo dove dovevamo spalare terra nel gelato, battere tutto il giorno nel ghiaccio… perché lavoravamo a venti gradi sottozero, ventidue, diciotto d’inverno, tanto di quel freddo, ogni tanto moriva qualcuno. Scaricare vagoni di cemento sfuso. Quando era mezzogiorno noi avevamo la gamella attaccata alla natica del sedere, perché dovevamo avere la gamella per prendere quella brodaglia che ci davano a mezzogiorno. Ci facevano uscire dal vagone impolverati e non sembravamo neanche più persone, avevamo il cemento incollato dappertutto… e la gamella figuriamoci: secondo loro noi avremmo dovuto mangiare quella brodaglia nel cemento, e allora cercavamo – fortunatamente c’era la neve – prendevamo la neve da sotto i piedi e ci pulivamo la gamella, così, e poi con il gomito l’asciugavamo un po’, la pulivamo come potevamo. Eravamo sempre sporchi, luridi, perché non avevamo mezzo di cambiarci. Oltretutto dovevamo lavorare sotto la pioggia, sotto la neve. Insomma, è stata una cosa che a raccontarlo non sembra vero, eppure io sono ancora qui a raccontare queste cose. Mah!

D: Questo a Monowitz?

R: Sì, a Monowitz.

D: Alla Buna?

R: Sì, alla Buna. Portavamo delle travi quando non ci facevano spalare il cemento sfuso, portavamo delle travi di cemento armato a una impresa che montava dei piccoli capannoni, bassi capannoni, per la IG Farben. Queste travi erano pesanti, di cemento armato, dovevamo portarle a spalle, e io ero assieme a quattro o cinque italiani che erano friulani. Mi ricordo benissimo, tre erano friulani, uno era il padre, e altri due erano i suoi figli, due fratelli. Quando prendevamo queste travi sulle spalle – il padre era più alto, era uno molto alto, magro, per forza era magro, poverino, soffrivamo tutti la fame – ogni tanto si sentiva più peso addosso e noi non ci arrivavamo tutti a… Si sentiva stroncare, e allora nel dialetto friulano diceva: “Ostrega Bettin, te m’accoppi, te m’accoppi”, e noi facevamo tutto il possibile per arrivarci su, e lui si abbassava e il figlio gli diceva: “Abbassati papà, abbassati papà, dacci dai più peso a noi!”. Lui poverino faceva in modo di… Abbiamo sofferto le pene dell’inferno, cose che nel mondo purtroppo ogni tanto se ne sente ancora, sono cose vergognose.

D: Pio, il campo di Monowitz, le baracche eccetera, rispetto al luogo di lavoro, era distante? Dov’era?

R: Diciamo, abbastanza distante, sì, non erano vicine. Tanto è vero che noi dovevamo fare una strada nel ghiaccio dove a gennaio, nei primi giorni di gennaio, ogni tanto vedevamo già delle colonne di tedeschi che si ritiravano, e sentivamo già i cannoni a suonare il fronte che era vicino, magari sarà stato cento chilometri, chi lo sa. Noi non potevamo sapere niente.
Ma quello che più ricordo lì, poi alla fine quando ho dovuto… posando una trave per terra, con questi miei compagni di lavoro, mi è andata sul piede destro, che mi ha marcato il piede per tutta la vita. Fortunatamente nel ’97 ho poi trovato un dottore francese che è riuscito a mettermelo a posto, con un intervento. Ho sempre portato delle scarpe con tre numeri in più se no non potevo camminare. Sono stato colpito su questa trave di cemento armato, ho sofferto le pene dell’inferno per arrivare la sera a casa, cioè a casa… nel campo di concentramento. Non potevo più camminare, sorretto dai miei compagni, perché io non mi arrendevo, avevo coraggio, mi facevo coraggio, mi facevo forza. Dopo, quando sono arrivato in baracca mi hanno mandato a Revier, cioè al “kabè”, lo chiamavano “kabe” l’ospedale. E lì l’infermiere o il dottore che mi ha preso in cura mi ha medicato i piedi, tutti e due perché anche il sinistro era un po’ colpito ma solo sull’alluce, invece il destro era molto rovinato. Io temevo che fosse rotto, e allora quando me l’ha fasciato poi con della carta e tutto, mi ha detto qualcosa in polacco che io non ho capito, e io dicevo: “Nicht verstehen”, parlavo in tedesco, “non capisco”. In polacco qualche parola la capivo, ma dicevo che non capivo. Lui è andato fuori poi è tornato dentro con uno che parlava bene l’italiano, un prigioniero come me, e quando è stato lì m’ha detto:
“Sei italiano?”
“Sì”
“Di dove sei?”
“Di Torino”
Mi ha guardato.
“Sei ebreo?”
“No, sono cattolico”, ho detto la verità, avevo il triangolo
“Mi ha detto il dottore di dirti che non c’è niente di rotto, però ti tiene qui due tre giorni perché non puoi camminare, col piede che hai, va a finire che…”.
Difatti mi ha dato un posto per dormire tutto per me. Ho dormito due o tre giorni, giorno e notte, quando era ora della zuppa me la portavano, i primi due giorni. Due giorni dopo andavo alla medicazione, nel corridoio ho incontrato questo italiano. La curiosità di entrambi… ci siamo incontrati con lo sguardo, ci siamo salutati e poi gli ho detto a lui:
“Ma tu di dove sei?”
“Anch’io sono di Torino, sono ebreo, sono stato arrestato in montagna, e adesso mi trovo qua. Fatti coraggio – m’ha detto – vedrai che tutto finisce presto.”
È finita così, al 17… al 16 sono uscito nel pomeriggio dal kabè, con il mio piede fasciato, avevo avuto la fortuna di avere un paio di scarponi ancora in buono stato. Al 17 siamo partiti, almeno almeno la metà dei prigionieri che eravamo lì. Ci han fatto partire per l’evacuazione del campo, ed ecco perché… io che avevo questa memoria, non ho mai scritto, avevo tutte queste memorie, e raccontavo ogni tanto e nessuno ti dava retta, un bel momento ho scritto. Nel 1986 incontro nel congresso a Torino Primo Levi, ci mettiamo a parlare. Ho detto che c’ero anche io lì alla Buna, ci siamo abbracciati. Gli ho fatto vedere la matricola, gli ho spiegato quell’affare del kabè, e lui mi ha detto: “Ma io mi ricordo: eri te quel ragazzo?”, dico: “Si ero io”. E allora tutte queste memorie un bel momento… Io ho conosciuto un professore, tanto caro, che mi ha aiutato a realizzare queste memorie, e penso che ne valga la pena. Perché anche poi dopo nel tragitto della marcia della morte, tutti quelli che sono morti uccisi per le strade, prima li caricavano su delle slitte, le troike chiamate, li buttavano lì come dei sacchi di patate. E poi han fatto delle fosse comuni, andando avanti li buttavano dentro, li seppellivano lì. Queste cose sono rimaste, sono ancora là da vedere adesso, le abbiamo trovate.

D: Pio, ma quando voi avete evacuato la Buna, Monowitz, a piedi vi hanno messo?

R: Sì.

D: Diretti dove?

R: Noi non potevamo sapere dove eravamo diretti, era una destinazione ignota. Sapevamo che ci portavano all’interno della Germania – potevamo pensare – però nessuno sapeva di noi. Il giro che ci hanno fatto fare, i chilometri. So che abbiamo camminato tanto, tanti sono morti per sfinimento, li hanno uccisi, che non potevano più camminare. E poi siamo arrivati al 19 notte sera, siamo arrivati a Gliwice, a Gleiwitz. A Gliwice c’era un piccolo campo già evacuato, ci saranno state dieci o dodici baracche, noi eravamo novemila o diecimila, chi lo sa, dalla colonna che eravamo eravamo in tanti. Arrivati a Gliwice eravamo molto, molto di meno. Siamo entrati in quel campo, i primi che sono entrati nelle baracche ci sono rimasti, ma eravamo in tanti e non c’era posto per tutti e molti siamo rimasti fuori. Qui dovrei raccontare delle storie che sono molto pesanti. Al mattino del 21 di gennaio si sentiva una locomotiva fuori nelle vicinanze, che si muoveva, e poi rientrato nel campo il comandante con le SS e i gendarmi ci hanno spinti tutto in fondo al campo, così ammassati. Poi ci hanno obbligato a passare dietro le baracche e il filo spinato, c’era un corridoio di un metro e mezzo così, o neanche, in fila indiana. Quando arrivavamo all’ultima baracca, davanti c’era il comandante delle SS e gli ufficiali che scartavano: “Links rechts”. Loro lì decidevano chi poteva ancora sopportare un altro viaggio in tradotta o chi era oramai alla fine. Chi era alla fine lo mandavano in mezzo alle due baracche che c’erano in fondo. In mezzo alle due baracche c’era già… un po’ di prigionieri lì, io adesso non posso fare il numero perché è difficile. Quando passo io lì, con un piede un po’ zoppicando, si vede che loro han detto “questo qui bisogna eliminarlo”, e mi han mandato a sinistra. Io sono andato a sinistra. Oramai ero stanco, non ne potevo più, sfinito, non me ne importava più di morire. Oramai ero rassegnato. Ero lì, con gli altri: chi piangeva, chi borbottava, ognuno diceva la sua. Un bel momento il mucchio è diventato grande. Quando è diventato grande alcuni cercavano di scappare e le SS coi mitra sparavano nelle gambe. Qualcuno è stato ferito, piangeva, urlava. Era una cosa tremenda, raccontarlo proprio come l’ho vissuto non si può. A un bel momento, quando ero lì, trovo un altro italiano che conoscevo già da Mauthausen. Si chiamava Pasquale, lui era di Latina, aveva subito il trasporto mio, la stessa trance, diciamo. Ci siamo incontrati, ci siamo abbracciati, e lui fa: “E’ finita. Andiamo in baracca prima che… prima di morire, che tanto qui fa freddo”. Faceva un freddo terribile. Ci siamo seduti su un pagliericcio, di quei castelletti a tre piani. Davanti a noi, abbiamo guardato, c’era una divisa da prigioniero francese, col triangolo francese, e l’abbiamo guardato e abbiamo detto: “Ma tanto a noi non ci serve neanche più a fare le pezze da piedi, cosa la prendiamo a fare?” Eravamo lì così. Ci siamo abbracciati, abbiamo pianto, abbiamo fatto di tutto. Poi un bel momento arriva un ufficiale. Prima, in tedesco, ha detto “Kommandant”, perché là dicevano il Kommandant fuhrer, il comandante e poi dicevano sempre fuhrer. Perché qualcuno, quando io dico questo ride. Era così, là. “Il Kommandantführer ha deciso di graziare gli ariani francesi”. E allora Pasquale lì ha detto: “Porca miseria!”. Noi avevamo un ago nel bavero della giacca, e il coltello dalla parte del manico lo tenevamo molato per tagliare il pane o qualcosa. Abbiamo preso questi due triangoli, col coltello è stato un attimo, li abbiamo scuciti e poi li abbiamo cuciti sopra il nostro. Ecco perché c’è questo, vede? [mostra l’immagine del triangolo stampata sulla prima di copertina del volume Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette lager, ndr]. L’abbiamo cucito sopra. E poi, con la “F” lì siamo passati [mostrando] il braccio, la matricola così, davanti al comandante delle SS, e ci chiama: “Französisch?” E io ho risposto: “Jawohl”. Pasquale ha fatto così anche lui. E ci siamo salvati.
Di quel viaggio ci sarebbe da raccontare un mucchio di cose, ma è tutto scritto. Ci sono stati i francesi ebrei, che poi sul vagone si sono anche litigati un po’, per il trattamento che hanno avuto. Loro avevano ragione a dire: “Se uno deve morire deve essere sempre un ebreo”. Tanto è vero che Primo Levi ha detto che il giorno 18 era passato, negli ultimi dieci giorni – “Se questo è un uomo” – era passato un maresciallo delle SS per assicurarsi che nelle baracche ci fosse uno che facesse il capo, e ha messo un ariano perché non si fidava degli ebrei. L’ha scritto, l’ha scritto lui questo. E ha detto: “Il mattino del 18 è passato l’amico Albert a salutarmi perché partiva per l’evacuazione del campo”. Dice: “Ma, se qualcuno potrà un giorno scriverà la loro storia”. Sono passati cinquantasei anni, questo libro ha raccontato quella storia lì di quel trasporto… fine prima parte

D: Vi siete cuciti il triangolo sulla divisa e vi siete salvati così.

R: Sì.

D: E lì cosa è successo?

R: E poi visto e considerato che siamo stati fortunati a salvarsi, ci hanno messo nella colonna di quelli che venivano inviati nella tradotta. Siamo stati per la strada che stavamo facendo per andare alla tradotta dei carri scoperti, quelli di carbone, abbiamo sentito le mitragliatrici che sparavano e delle urla da non finire, perché li hanno uccisi tutti con le mitraglie. E quindi noi siamo rimasti – io e Pasquale – male, avevamo le lacrime agli occhi, strada facendo ci guardavamo solo così, non c’era più segno di… di niente. Arrivati dove c’era la tradotta, ci hanno fatto salire su dei vagoni molto alti da per terra, abbiamo anche tribolato, ci aiutavamo uno con l’altro. Eravamo 120 –130 per ogni carro, impiombati con pancia e schiena uno contro l’altro come le sardine. Verso sera la tradotta, quando è stata completata, è partita, ha fatto un fischio, poi pian pianino pian pianino, dopo un po’ quando è riuscita a prendere la velocità di crociera, nelle curve… questi vagoni nella curva… chi era in mezzo, cosa faceva… si piegava così e poi con la debolezza, dopo due o tre volte, cadeva sotto i piedi dei compagni e non riusciva più alzarsi perché gli altri si allargavano, e molti sono morti anche così. Il giorno dopo, dopo 24 ore, alla sera, ci hanno fatto fermare in un posto di campagna, e abbiamo scaricato i cadaveri, li abbiamo messi in un vagone dietro dove ce n’erano già degli altri. E poi il viaggio è continuato. So che siamo arrivati… per tutto quel tragitto, ogni tanto in certi vagoni – nel mio non mi ricordo che sia stato fatto quello – ma molti aspettavano che arrivasse la notte, poi i cadaveri li buttavano fuori per farsi più spazio loro. Io mi ricordo che quando sono arrivato a Buchenwald, nel nostro vagone avevamo da una parte i cadaveri impilati, a triangolo così, da una parte e dall’altra, li avevamo accantonati lì e quelli che erano lì vicino ai cadaveri si erano seduti sopra, per riposarsi. Siamo arrivati al 26 del mattino a Buchenwald. Una tradotta che era lunga – anche Beppe Berti ha detto che non si ricordava in tutta la storia di Buchenwald una tradotta lunga così – entrata nel campo, ci hanno fatto scendere e abbiamo aspettato anche due giorni per passare alla disinfezione. Tanti morivano di freddo, allora in quattro lo prendevamo lo portavamo dentro: magari era ancora vivo, però lo caricavano sul carretto che andava al forno crematorio. E quelli che erano riusciti a passare e portare dentro il cadavere, invece di mandarli fuori, passavano subito alla doccia e alla disinfezione e via dicendo, e venivano mandati poi a destinazione nel campo nella baracca. Io con Pasquale – il nostro turno è stato verso dopo la mezzanotte – eravamo sfiniti. Siamo sempre stati assieme fino al momento della doccia, poi ci hanno divisi. Io non so più la fine che abbia fatto lui, se è andato al Revier, se fosse stato male. A me mi hanno destinato alla baracca numero 10, dove ho trovato poi un altro compagno di Torino che ci siamo fatti compagnia e che mi ha aiutato molto. Ho trovato Luciano La Rocca, della Sicilia. Era della Commissione segreta per la Liberazione, ma noi non lo sapevamo. Però ognuno aveva il suo gruppo e noi eravamo sotto il suo gruppo di Luciano La Rocca, io Prato ed altri, Fiori, Giovanni. Lì era un campo politico dove c’era una organizzazione clandestina. Si erano organizzati, c’erano delle armi nascoste. E sono rimasto lì fino alla Liberazione. Devo dire che sono anche stato un po’ protetto dal dottore triestino, Pecorari, al quale ogni tanto al mattino quando c’erano dei trasporti, mi mandavano al Revier perché io avevo una ferita qui da Linz [indica un punto dietro la spalla destra, ndr], quando ero stato ferito e poi per i piedi che avevo feriti. Mi hanno curato. In quei momenti lì, diciamo tra la fine di febbraio fino alla fine di aprile… cioè a marzo, c’erano di nuovo le evacuazioni, ogni tanto venivano dentro il campo le SS per far uscire dei prigionieri. Siamo arrivati a un punto che ce n’erano ottantamila. Li portavano nell’interno della Germania, Mauthausen o Dachau, chissà dove. E lì facevano altre marce della morte. E li facevano uscire dalle baracche con forza.
Io mi sono salvato due volte, le altre volte che mi hanno mandato in Revier mi è andato bene. Diciamo che io posso ringraziare anche la solidarietà che ho trovato dei compagni lì, a Buchenwald, altrimenti…
Ad esempio, Pasquale, che con me è arrivato lì a Buchenwald, poi si vede che è stato preso in un altro trasporto e poi portato a Mauthausen, è stato immatricolato un’altra volta, mandato a Gusen II dove morì mi sembra assieme a Caresio Andrea, il 21 aprile del 1945, pochi giorni prima della Liberazione.
Così ho avuto la fortuna di resistere fino alla Liberazione che è arrivata l’11 di aprile, dall’esercito americano, la terza armata comandata dal generale Patton. È l’unico campo che con la sua organizzazione segreta è riuscito a liberarsi da solo, perché temevamo di essere sterminati prima della Liberazione. Al mattino alle 10 e mezza, sono venuti due apparecchi a fare un volo sopra. Noi avevamo paura che fossero i tedeschi, che buttassero giù le bombe. Poi invece il secondo giro che hanno fatto a bassa quota, abbiamo notato che avevano le stelle bianche sui fianchi: abbiamo capito che erano gli americani e allora è stato un urlo: “sono gli americani, siamo liberi”, così. Poi stop.
Fuori qualche sparatoria, perché dal passo del campo avevano tagliato i fili, erano giù usciti qualcuno, dei più anziani. E invece all’una meno un quarto, io mi ricordo come fosse adesso, che il nostro comando con Luciano La Rocca e altri italiani, siamo usciti dalla porta centrale senza “Mützen ab e Mützen auf”, cioè berretto su berretto giù. Abbiamo capito che eravamo liberi.
Quando dopo l’una, l’una un quarto, l’una e venti, eravamo fuori è arrivata su la prima camionetta americana con il comandante Patton e dietro tutta la colonna, che ogni tanto si fermavano perché sotto a Weimar facevano la resistenza i tedeschi. Noi li abbiamo accompagnati un pezzo, loro ci davano dei biscotti, delle gallette, ci davano del cioccolato. Buttavano giù anche delle sigarette, ma noi… avevamo fame. Poi molti sono morti ancora dopo per la dissenteria, ci è voluto un bel po’ per mettere a posto il campo. Si sono dati da fare, diciamo, per la pulizia, per i pidocchi, per tutto.
Alcuni militari che venivano lì che parlavano anche l’italiano – perché erano figli di italiani [immigrati] in America, e ci parlavano in italiano – abbiamo fatto le fotografie assieme. Qui [nel libro citato sopra, ndr] ce n’è una dopo la Liberazione, fatta il primo maggio, eravamo già tutti gli italiani in una baracca assieme. Così era finita la nostra sofferenza. Però non avevamo la minima idea di quando poteva essere il nostro turno per arrivare a casa, in quanto ogni tanto andavamo a vedere, informarci dal comando, dicevano che le ferrovie non circolavano, i ponti erano saltati e bisognava attendere che gli americani dessero… Difatti, dopo tante tragedie e via dicendo, siamo poi riusciti con molta difficoltà avere un rimpatrio da Erfurt, verso l’8, il 9 di giugno. E siamo arrivati con molta fatica, passando da Bolzano, dove ci ha raccolto la Croce Rossa italiana e ci ha aiutati per il resto del tragitto, in quanto ha cercato dei camion dei mezzi di trasporto, dei corrieri che venivano a Milano. Siamo saliti sopra e ci hanno portato alla Croce Rossa di Milano. Poi quelli che dovevano andare giù al sud, si sono interessati di farli trasportare con altri automezzi. Noi che venivamo in Piemonte, a Torino, so che siamo arrivati a Torino su un camion di autotrasportatori, eravamo una quindicina di torinesi.
Però la tragedia non era finita, in quanto poi abbiamo sofferto: anche solo arrivando a Torino, nessuno ti credeva cosa avevi passato. Io mi ricordo un fatto. Arrivato a Porta Nuova, dopo tanta sofferenza, avevo il mio zaino, ero vestito con della roba usata, ma se non altro pulita, vestito militare americano, e avevo lo zaino con un po’ di porcheria dentro che mi ero portato via di là, dei ricordi. Aspettando il tram tutti mi guardavano con curiosità, eccetera: io ero senza capelli, avevo l’eczema, e certamente che ero da guardare, ero diverso dagli altri. Poi è arrivato il tram, il numero 13, sono salito sopra, e ho ancora avuto dei rimproveri da una donna, una signora, che diceva che “gente come me che puzzava non avrebbero dovuto prendere il tram”. Sa cosa le ho risposto io? “Signora – c’è anche scritto qui sopra [sul libro, ndr] – preghi di non avere nessuno in Germania come sono stato io, e se un domani avesse qualcuno che arriva lo abbracci, senza fare queste insinuazioni, perché io arrivo da un posto della morte”. Tutti gli altri che erano lì, m’han tenuto le parti, io ho solo dovuto stare zitto perché han pensato loro a tenermi le parti. Vede quando uno arriva da una tragedia del genere, che cerca di raccontare quello che ha patito e sofferto, e di essere incompreso, la ferita invece di chiudersi si apriva una volta di più. E per me è stato per molti anni, fin quando… Alla sera andavo a dormire e non riuscivo a dormire, avevo sempre quei ricordi, quelle parole crudeli in tedesco, le sognavo, e [sognavo] come mi avessero picchiato. Poi ho trovato una signorina, che poi è diventata mia moglie. Poco per volta mi sono formato una famiglia, ma quel tempo, la ferita si sarà rimarginata, ma mi è rimasto un segno profondo. E quindi non mi stancherò mai, mai… sia per quello che ho passato io personalmente, ma per tutti quei miei amici e compagni di lotta che hanno perso la vita per la libertà e la democrazia, e una pace che sia duratura.

D: Pio, ti ricordi il tuo numero di Buchenwald?

R: Cento ventitré mila trecento settantasette [123377].

D: Ecco, poi su Buchenwald ritorneremo ancora. Adesso vorrei ritornare un attimo alla Buna: il campo era molto distante dalle officine?

R: Diciamo, distante… io che posso ricordare, non era un’esagerazione perché andavamo a piedi, non eravamo portati con i camion o automezzi. Ci sarà stato quel viaggio di tre o quattro chilometri al massimo, o due e mezzo, io adesso a distanza di tanti anni è difficile calcolare proprio con esattezza. Non era molto distante, era lì nei pressi diciamo, che a piedi in quella mezz’ora tre quarti d’ora si andava e veniva, ecco. Perché noi lavoravamo fino alle sei di sera, alle sette c’era l’appello, quindi alle sette eravamo già in campo per l’appello.

D: Ecco, un’altra cosa, lì alla Buna c’erano dei civili a lavorare?

R: C’erano anche delle imprese che avevano del personale civile, e dei prigionieri militari. I civili polacchi cercavano di apprestarsi di darci aiuto, difatti ogni tanto ci lasciavano scorrere un pezzo di pane, lo buttavano a terra, e chi arrivava prima lo prendeva.

D: Pio, scusa, a Monowitz tu lavoravi alla Buna?

R: Sì.

D: Quindi quando dici le officine intendi la Buna?

R: La Buna, sì. Cioè… Io lavoravo in un cantiere dove stavano costruendo dei capannoni, dei capannoni di cemento. Portavamo il cemento, scaricavamo il cemento sfuso, facevamo delle buche, insomma, era un cantiere grande, che stavano ampliandolo per fare dei capannoni non alti ma bassi. E quindi lì c’era un po’ di tutto, diciamo, non lo so, perché… Poi lì, a Auschwitz III, che lavoravano alla Buna, nello stabilimento, c’era poi anche quelli che lavoravano nella chimica, come forse Primo Levi e via dicendo. Lui, la sua fortuna è stata che aveva una laurea e riusciva a farsi capire, a parlare abbastanza bene il tedesco, è stata la fortuna. Io purtroppo avevo… quando sono stato arrestato avevo un mestiere – e l’hanno anche scritto in tedesco, “Dreher”, Dreher vuol dire tornitore – e allora era un mestiere di prestigio il tornitore, ero un meccanico. Tornitore allora voleva dire conoscere il disegno, e fare tutti i pezzi per montare un apparecchio. Però da meccanico che ero mi hanno poi in ultimo destinato a un lavoro pesante, massacrante, di manovalanza.

D: Se tu ricordi, quando eri alla Buna, a Monowitz, potevate scrivere o ricevere lettere, o pacchi?

R: No, per carità, ma neanche per sogno! Io questo… Per tutto il periodo della mia permanenza di sedici mesi nei campi di sterminio, da Mauthausen fino alla fine, non abbiamo mai potuto scrivere a casa. Questa discussione poi l’ho anche intrapresa con Alberto Berti, che quando m’ha detto che lui scriveva e riceveva i pacchi da casa ho detto “Non bestemmiare, perché a me, a me non mi è mai successo, ma nessuno di noi, nessuno, nessuno ha mai scritto”. Per scrivere bisognava avere… non lo so, non ho mai potuto scrivere, ma nessuno di noi ha scritto a casa, noi italiani. C’erano qualche francese che potevano scrivere a casa, ma non tutti. C’erano i cecoslovacchi che scrivevano a casa e ricevevano i pacchi, c’erano i polacchi che scrivevano e ricevevano i pacchi, ma più tanto di lì… Per quello che so io.

D: Pio, Buchenwald, ti ricordi di aver visto delle donne o dei ragazzetti, dei bambini nel Lager di Buchenwald?

R: Sì dei ragazzetti, sì. Ultimamente, quando sono arrivato io, sono arrivati da Auschwitz, ce n’erano parecchi. Adesso non mi ricordo bene la baracca che erano, ma mi sembra la 17, dove c’era anche Sabatino Finzi, che lui per scherzo chiamava quella baracca “Hotel tre stelle”.

D: E anche delle donne hai visto a Buchenwald?

R: Io non ho mai visto le donne, non mi ricordo di aver visto donne, proprio sinceramente. Senz’altro ci saranno state anche delle donne perché ho sentito anche delle testimonianze di donne che sono state a Buchenwald, però se ci sono state erano chiuse in una baracca, dove ad esempio era anche morta la Mafalda e via dicendo. Io so che quello che ho sentito di Buchenwald l’ho sentito da altre persone raccontare, delle donne. Ma io personalmente, ero un ragazzo di diciannove anni quando mi hanno preso, ho compiuto venti e ventuno anni in quei posti, non mi ricordo di aver visto una gonna, una volta. Mai, mai.

D: E religiosi, ti ricordi se c’erano dei religiosi?

R: Religiosi sì, ce n’erano. Ad esempio, io mi ricordo a Linz I, che c’era un greco, un ragazzo greco di Salonicco, molto bravo. Ma non mi ricordo la religione che era, perché lui digiunava al giovedì… mi voleva bene, parlava correttamente l’italiano, lavoravamo come Schweißer, tutti e due nello stesso posto. Lui al giovedì mi dava la sua zuppa, e anche il pane. Io gli dicevo: “Ma avanzalo per domani” “No, a me la mia religione non me lo permette”. Ecco, questo me lo ricordo benissimo, non mi ricordo più il nome perché sono passati tanti anni, ma di questo ragazzo io mi ero scritto le memorie in quel memoriale che poi ho dovuto buttare via, e ricordo solo quello.

D: Vado a memoria, magari mi sbaglio: era successo a te che nel campo di Linz, ti eri avvicinato al reticolato, che c’era una SS sulla garitta che t’ha lanciato un pezzettino di pane?

R: No, ma non è così. Non è così. A Linz III stavamo noi italiani, era di domenica. Eravamo un gruppo molto affiatato che lavoravamo nello stesso comando, alla quale c’era uno di Bergamo, Obert si chiamava, come lo ricordo io, c’era Malaguti, i nostri padri anziani c’erano diversi. Poi c’eravamo noi giovani, e un bel momento abbiamo intonato una canzone, “Mamma”, e quando abbiamo cantato si sono avvicinati a noi i russi e i polacchi a cantare, ma cantavano nella loro lingua, facevamo la stessa tonalità. Finita la canzone, da quella garitta, un SS già anziano che era là – ha sentito cantare – ha detto: “Italiener, komm”. E noi abbiamo guardato, abbiamo sentito, abbiamo pensato a un richiamo ufficiale e ci siamo spaventati un po’. Poi questo bergamasco, Obert, che era di “Bergamo de hure”, diceva, [sopra, in dialetto, ndr], si è avvicinato, ha detto: “Bitte”. [L’uomo delle SS:] “Alles Italiener, komme. Singer!”. Dice: tutti voi italiani, venite qui sotto e cantate. Allora lui ha detto: “Venite che vuole che cantiamo una canzone”. Siamo andati là, eravamo una quindicina quel gruppo, e quando siamo stati là fa: “Cantate Mamma, Singer Mamma”. E allora noi abbiamo cantato la canzone “Mamma”. Abbiamo cantato la canzone “Mamma”, poi ci ha chiesto di cantare “Lili Marlene”, e noi gli abbiamo detto: “Nicht…”, “non la sappiamo”. E invece la sapevamo! In quella occasione, mentre cantavamo, io notavo le sue mosse, ogni tanto si asciugava le lacrime, e poi un bel momento ha preso uno di quei pani che aveva nello zaino e un pezzo di salame, l’ha avvolto dentro un pezzo di carta, e poi ha detto “Alles, teilt egal!”, cioè “un pezzo per uno, tutti uguali”, e ce l’ha buttato giù, e l’ho preso proprio io, così! Questo sì, è vero, è vero. Bisogna dire tutto, il bene e il male…

D: Da Birkenau alla Buna, vi hanno portato in che modo?

R: A piedi, a piedi. Sono sette o otto chilometri mi sembra. Siamo andati a piedi, abbiamo sofferto il viaggio perché faceva freddo, eravamo male equipaggiati, e quindi era stato molto duro.

D: A Buchenwald, tu eri presente quando hanno fatto entrare nel campo la popolazione di Weimar?

R: Eh, eh, eh, porca miseria se ero presente! Però non ci hanno mai inquadrati, ci hanno messi distanti noi, eravamo là… Allora non portavo gli occhiali ma avevo una vista da fenicottero, vedevo bene e li vedevo che ogni tanto… loro cercavano di guardare da un’altra parte. E poi alla domanda che le facevano “Ma voi lo sapevate che tutte queste cose…” e loro rispondevano che non erano al corrente di niente. Ma l’hanno sempre detto, questo, perché… loro ci vedevano tutti i giorni nelle stazioni, a lavorare nelle fabbriche, attraversare il paese a piedi, maltrattati: si chiudevano magari in casa, o li incontravamo per le strade e via dicendo, tante volte i loro bambini ci hanno preso a palle di neve anche, quindi non possono dire che non ci vedevano. Ancora tanti anni dopo, dopo il processo di Norimberga, [durante] un viaggio che abbiamo fatto nel 1983, il primo viaggio che si sono mossi gli storici e via dicendo, abbiamo poi incontrato dei civili lì a Norimberga. Tramite un interprete tedesco che avevamo assieme, gli abbiamo chiesto se loro erano al corrente, loro hanno detto no, che non erano al corrente, che non potevano sapere. In realtà c’era una disciplina che faceva paura. Questo è vero, che c’era una disciplina che faceva paura, però non potevano dire che non sapevano, perché lo sapevano questo, era impossibile che non lo sapessero. Lo condividevano, diciamo.
Poi, ritornando sul periodo della Liberazione, di Buchenwald, io ho un ricordo molto vivo in quanto l’11 di aprile, all’una meno un quarto, tre anni dopo ero già sposato. È nato mio figlio tre anni dopo, e l’ho preso in braccio io, e mi è venuta in mente la memoria di tre anni prima e gliel’ho detto a mia moglie. Non si può dimenticare quelle cose lì, erano cose fresche, di tre anni….

Vitiello Salvatore

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Sono Vitiello Salvatore. Nacqui a Boscoreale, in provincia di Napoli, il 22 agosto 1915. Venni arrestato a Pola il 5 di agosto 1944, dalla SS, sottoposto a interrogatori, anche con qualche tortura, ma riuscii a non tradire i miei compagni.

D: Salvatore, perché ti hanno arrestato a Pola?

R: Io facevo parte di una cellula partigiana di cinque elementi. Venivamo contattati da un… come chiamarlo… era un certo Nino Vangoni che aveva il compito di coordinare il nostro lavoro. Ogni tanto si facevano delle riunioni di queste cinque persone, a me affidarono l’incarico di volantinaggio di manifestini nei locali pubblici e anche di contattare le famiglie dei partigiani per dar loro notizie e trasmetterle ai partigiani combattenti in Jugoslavia.

D: Tu ti sei stato aggregato alle formazioni partigiane a Pola dopo l’8 settembre [1943]?

R: Dopo l’8 settembre… Io ero a Venezia in servizio nella Marina militare, ero di carriera. All’8 settembre non mi presentai ai tedeschi – bisognava presentarsi sotto minaccia di pena di morte – rimasi latitante per un bel poco, forse… non so, un mese o due. Dopo, mia mamma da Pola – perché non siamo polesi ma la mia famiglia era a Pola, mio papà era un ufficiale di marina, era stato preso anche lui prigioniero, internato nei campi militari, era rimasta a casa soltanto mia mamma – mia mamma riuscì ad avvicinare un maresciallo dell’aviazione, nostro compaesano, e questo qui una volta che venne a Venezia, ci mettemmo d’accordo e mi portò a Pola. Qui, dopo un po’ presi contatto con le formazioni partigiane.

D: E lì ti hanno arrestato le SS.

R: Lì mi hanno arrestato le SS, sì.

D: E ti hanno portato dove?

R: Mi hanno portato prima nelle carceri di Pola. Lì, dopo gli interrogatori, forse sono stato una ventina di giorni, all’incirca. Di lì poi fummo trasferiti a Trieste nel carcere al Coroneo, e dopo forse quattro o cinque giorni su dei carri merci ci trasportarono per via Tarvisio, arrivammo in una località che non ricordo bene quale fosse. In questa località fummo selezionati: una piccola parte ci condussero a Dachau, l’altra [parte] non so dove, probabilmente erano liberi lavoratori che, non so, avevano aderito… [deciso] di collaborare con i tedeschi.

D: Nell’arresto hanno preso tutta la tua cellula partigiana?

R: Le accuse erano quelle che ho detto prima, io naturalmente le ho sempre negate. La denuncia fu fatta da una ragazza con la quale avevo avuto dei rapporti in precedenza; allora chiesi che fossi messo a confronto con questa ragazza per sentire da lei. Questa venne al confronto, confermò tutto, io imbastii una storia, cercando di convincere che questa qui agiva per vendetta, ma in effetti questa si era data ai tedeschi, era diventata un’agente dei tedeschi. Si chiamava Vittorina Torollo, era di Rovigo. Quando ritornai – adesso faccio una breve [spiegazione] – fui chiamato dalla Corte d’Appello di Venezia: qualcuno aveva fatto denuncia di questo fatto, aveva denunciato questa Vittorina Torollo. E la Corte d’Appello mi chiese se io intendevo proseguire, dico: “No, ormai sono ritornato, se la vede lei con la sua coscienza, per me la storia finisce qua”. Mi guardarono un po’ perplessi, mi dissero: “Va be’, contento lei”.

D: Salvatore, al Coroneo eri in una cella da solo o con altri compagni?

R: Eravamo in sette o otto in una cella, una camera… non so cosa fosse. Qui riuscii a procurarmi dei panini tramite i secondini, anche tre o quattro pacchi di trinciato di tabacco che mi servì moltissimo perché arrivai a Dachau che ne avevo ancora. Poi racconterò la storia di questo tabacco.

D: Ti ricordi il nome di qualche tuo compagno di cella?

R: Sì, c’era Chert Pietro, che l’ho visto menzionato nel libro. C’era il colonnello Imparato, che era il direttore dell’Arsenale di Padova. C’era un certo De Tommaso, un insegnante molto giovane di Pola. Ce n’erano altri ma non ricordo il nome. De Tommaso e il colonnello Imparato non sono più tornati, sono morti.

D: Quando ti hanno portato al vagone, al Transport, dal Coroneo, vi hanno portato a piedi?

R: Sì, a piedi.

D: Dove vi hanno portato?

R: Beh penso alla stazione ferroviaria. Penso eh…

D: Eravate ammanettati?

R: No, non eravamo ammanettati. Io, anzi, devo dire questo. Nel carcere ero riuscito a scrivere quattro righe su un foglio di carta e messo in una busta; durante il tragitto la buttai per terra, questa busta fu raccolta e i miei genitori la ricevettero a Bassano del Grappa, perché i miei genitori, nel frattempo, erano sfollati a Bassano del Grappa. In questo foglio io dicevo: “State tranquilli, sono certo che ritornerò”.

D: Nel tuo Transport c’erano anche delle donne?

R: No, eravamo tutti uomini. C’erano degli ebrei, uno particolarmente vecchio, forse avrà avuto più di 80 anni. No, non c’erano donne.

D: Ti ricordi più o meno quanto è durato il viaggio fino a Dachau?

R: È stato abbastanza spedito, rapido, penso una giornata e mezza, non di più.

D: L’ingresso del campo di Dachau come te lo ricordi?

R: Un gran portone, c’era una scritta in tedesco, che poi m’hanno detto che voleva dire: “Il lavoro nobilita…”, qualche cosa del genere [“Arbeit macht frei”: il lavoro rende liberi, ndr]. Subito dopo l’ingresso ci portarono in una sala, ci tolsero tutto, mi lasciarono soltanto la pipa e il tabacco, poi tutto il danaro che avevamo ce lo portarono via, tutto il bagaglio, tutti i vestiti. Prima ci raparono a zero. A noi italiani chissà perché, non ho mai capito, ci fecero il solco in mezzo alla testa: dicevano che questo era uno sfregio che loro facevano perché eravamo ritenuti traditori. Non so se sia la versione esatta oppure no, comunque questo è quello che io so. Dopo la doccia ci vestirono con le tute a zebra, e ci portarono…

D: Vi hanno dato l’immatricolazione?

R: L’immatricolazione è stata successiva, quando eravamo già nel blocco, nel blocco numero 8, che era un blocco di transito. Vi rimanemmo forse venti giorni, forse qualcuno in più, e non ci facevano lavorare. Stavamo lì, ogni tanto ci chiamavano, facevano dei lunghi interrogatori, chiedevano notizie sul nostro conto, sulla nostra infanzia, sulle malattie che avevamo avuto, i nostri genitori, se erano ancora vivi oppure se erano morti, a che età erano morti, se fumavamo, quanto fumavamo, da quanto tempo fumavamo, insomma un mucchio di domande di questo genere. Nel frattempo, ci fecero anche l’immatricolazione, ci dettero il triangolo rosso, il numero, con la “I” sotto il vertice del triangolo, e rimanemmo lì per forse venti giorni.

D: Ti ricordi il tuo numero di Dachau?

R: Mi ricordavo le prime [tre] cifre, le ultime tre non le ricordavo, le ho viste adesso… le prime tre cifre corrispondono a quelle che io ricordavo.

D: E che cos’era il numero?

R: Era centododici… ma ancora adesso non ricordo le tre cifre [finali]. Mentre quello degli altri campi, quelli lì li so perché furono presi dopo la liberazione, che poi racconterò.

D: E lì a Dachau sei rimasto una ventina di giorni sempre nel blocco di quarantena?

R: Sempre nel blocco numero 8, sempre a fare visite mediche, questi interrogatori di cui ho parlato, senza mai lavorare. [Di] episodi particolari ce n’è soltanto uno. Posso raccontarlo, sì, l’unico episodio di un certo rilievo. Una mattina entrò un soldato della SS, noi stavamo fuori, tutti ammucchiati l’uno contro l’altro per ripararci dal freddo. Entrando questo qui, tutti quanti si tolsero il cappello. Io non lo levai il cappello. Allora questo mi guardò e diceva probabilmente di togliermi il cappello, e io rispondevo: “Nichts verstehen”, non capisco. I compagni che mi erano vicino mi dicevano: “Togliti il berretto”. Il berretto non lo levai, me lo levò lui con dei ceffoni e con delle botte. Da quel giorno in poi non portai più il berretto, in tutti i posti dove andavo, il berretto lo buttavo via.

D: Salvatore, la vestizione cosa comprendeva, oltre alla zebrata?

R: A Dachau ci dettero una specie di panciotto di carta crespata, aveva una fettuccina che si girava attorno, e basta. C’erano delle scarpe e come calze davano degli stracci da avvolgere attorno al piede. In complesso di Dachau non posso dire gran male, perché noi non lavoravamo. Era un cortile chiuso dove stavamo noi, c’erano due ali, al centro c’era una gran vasca rotonda con tanti rubinetti, ci si poteva lavare con facilità, abbastanza agevolmente. Nelle capanne [baracche, ndr] dove si dormiva c’erano dei castelli grezzi con dei pagliericci imbottiti di paglia, o di altre cose del genere. In definitiva era sopportabile. Al mattino ci davano una bevanda calda, credo che fosse tiglio o qualche cosa del genere, a mezzogiorno ci davano un pezzo di pane con un pezzo di margarina, una minestra completamente liquida senza niente dentro, altrettanto la sera. Comunque, dato che non lavoravamo era sufficiente per mantenerci in vita.

D: In quanti eravate circa in un blocco?

R: In un blocco… valutando così, forse centocinquanta, nelle due ali, di sinistra e di destra, forse duecento; non saprei con esattezza perché stavamo sempre fuori per tutta la giornata: al mattino dopo la sveglia non si poteva più entrare dentro in blocco, stavamo fuori. E non eravamo in tanti: forse cento, centocinquanta, non di più.

D: Ti ricordi il nome di qualche tuo compagno di Dachau?

R: Io ricordo questo De Tommaso, ricordo questo colonnello, che tra l’altro era riuscito a portarsi una Divina Commedia, e lui ce la leggeva e la commentava, e questo ci era di gran conforto. Era di gran conforto anche la pipa col tabacco; e naturalmente ero diventato amico di tutti perché tutti quanti facevano una boccata da questa pipa. Poi ad un certo momento il tabacco si esaurì e rimase soltanto la pipa.

D: Salvatore, ti ricordi se a Dachau hai visto dei religiosi tra i deportati?

R: Sì, c’erano. Ma non facevano parte di quelli che erano partiti con noi da Trieste, erano già là. E poi ne venivano di nuovi ogni giorno. Ogni tanto capitava anche qualche internato militare che per qualche motivo, qualche mancanza che avevano fatto, li mandavano a Dachau per punizione, ma temporanea, un mese o due mesi a seconda della gravità del misfatto che avevano compiuto.

D: E dopo venti giorni del blocco di quarantena di Dachau cosa è successo?

R: Dopo passammo una visita medica, e c’era un medico francese che dopo la visita mi disse, testualmente: “Sei un ragazzo robusto, sano, fai attenzione a non farti ammazzare. Se riesci a non farti ammazzare, con molta probabilità potrai ritornare”. Dopo questa visita medica ci portarono a fare una doccia, ci dettero degli abiti civili, però sempre col triangolo. Ci portarono in una stazione, non so quale fosse, e di lì si iniziò un viaggio. Dopo un paio di giorni ci fermammo a Buchenwald, ma di questo campo non posso dir niente perché ci tennero per due tre giorni in un blocco. Dopo ripartimmo subito diretti a Neuengamme. E qui incomincia la vera storia, la vera deportazione, i sacrifici e tutte le brutte cose che abbiamo subito.

D: Quando sei arrivato a Neuengamme ti hanno dato un altro numero?

R: Sì. Non l’ho in mente però ce l’ho scritto, se vi interessa posso cercarlo.

D: E lì cosa ti hanno fatto fare?

R: In prevalenza ci portavano ad Amburgo a scavare macerie, oppure in qualche fabbrica. Una volta capitammo in una fabbrica, penso che fosse di prodotti chimici: c’erano delle vasche all’aperto: in superficie c’era una specie di pellicola, noi dovevamo levarla e accantonarla, non so poi a cosa servisse. Ecco, una cosa devo ricordare, a vantaggio dei tedeschi. Una volta capitammo in una fabbrica di birra. Mentre stavo lì, che facevo il lavoro che dovevo fare, arrivò un giovane della SS, un ragazzo alto, però senza un braccio, evidentemente era stato ferito in guerra. Questo, con fare un po’ riservato, dice: “Italiener, komm komm”. Dico, cosa vorrà questo… Mi portò in uno sgabuzzino, mi mostrò un sacco di orzo, e mi disse: “Essen essen”. Allora io capii, presi questo orzo, mi imbottii tutto, cioè raccolsi quanto potevo raccogliere, e quest’orzo mi aiutò moltissimo a integrare i pasti che ci davano nel campo.

Questo lavoro era particolarmente pesante, non per il lavoro in sé stesso. Noi partivamo al mattino verso le 4 [o] le 5, non era molto lontano Neuengamme da Amburgo, a volte in camion a volte in treno, e poi a piedi in Amburgo per raggiungere il posto di lavoro. Però al rientro non c’era mai un mezzo: era compito dell’accompagnatore, di quello della SS, di trovare un mezzo; a volte questo mezzo si riusciva a trovare alle 10 di sera, una volta addirittura alle 3 del mattino, e noi arrivavamo in campo. Una nota particolare è questa: quando si arrivava in campo – è una cosa veramente che ricordo… – ad accoglierci c’era sempre una banda musicale che suonava Beethoven oppure Mozart oppure altre cose. E poi entrati in campo, ci distribuivano l’unica minestra della giornata, e si andava subito a letto. Capitava spesso però che il conteggio non tornava, allora ci facevano alzare di nuovo [ed andare] in piazza, finché la conta riusciva a quadrare. Una volta, evidentemente per capriccio di qualcuno, ci fecero spogliare nudi, al freddo, di notte, cosa diciamo… così, senza nessun senso insomma. Però la cintura ce la fecero mettere attorno alla vita, nudi.

D: Neuengamme come te lo ricordi? Più grande di Dachau o più piccolo di Dachau?

R: [Del]l’estensione di Dachau non ne ho idea perché rimanemmo sempre chiusi in quel cortile; soltanto una volta ci portarono in una piazza dove c’erano delle forche e ci fecero assistere all’esecuzione di impiccagione di alcuni russi che avevano tentato di rubare delle patate dalla cucina. Ma dell’estensione di Dachau non ho nessuna idea.

D: A Neuengamme quante baracche erano, ti ricordi?

R: No, comunque era abbastanza grande, ma non saprei rispondere a questa D.

D: Il campo era recintato?

R: Sì, certo, era recintato, sì.

D: Ti ricordi delle torrette?

R: Le garitte, beh, quelle c’erano in tutti i campi, non ricordo particolarmente che ce ne fossero a Neuengamme ma penso che ce ne siano state anche lì.

D: Nella baracca di Neuengamme eravate in molti deportati?

R: No, direi di no, 40-50 persone non di più. Però c’è un fatto, non se n’è mai parlato. Io non sono stato sempre a Neuengamme. A un certo momento, vicino a Neuengamme, quasi ai confini con l’Olanda, c’era un sottocampo, Meppen. Di questo campo non si è mai parlato. Ma io penso che le cose peggiori succedevano in questi campi [sottocampi, ndr], perché mentre nei campi principali c’erano dei servizi – ci si poteva lavare, poi ogni tanto i barbieri ci facevano la barba, quando i capelli erano un po’ cresciuti continuavano a tagliarli – a Meppen non c’erano. […] Premetto che qui l’avvicendamento avveniva circa ogni due mesi, ma di quelli che arrivavano a Meppen, mettiamo che una percentuale dell’80% non tornava più. Ora, provo a descrivere… è difficile… provo a descrivere quello che era Meppen. Dunque, i blocchi erano senza castelli, per terra c’era soltanto la paglia. Si dormiva tutti sulla paglia. Non c’erano coperte, non c’era niente. Ci avevano levate le scarpe e ci avevano dato degli zoccoli olandesi, senza calze. Sotto, biancheria non avevamo assolutamente niente. In breve tempo iniziò un’epidemia di dissenteria, la paglia dove dormivamo diventò un letamaio. Non c’erano servizi igienici; c’era una latrina all’aperto che per andarci si affondava nello sterco, perché la gente non faceva in tempo ad arrivare che si scaricava, e si scaricava anche durante la notte mentre dormiva; perciò questa paglia era diventata un letamaio. Ad un certo momento i vestiti che avevamo addosso erano diventati quasi duri, pieni di melma e di porcherie.

Ora, quando ci portavano al lavoro, qui non c’era nessuna regola. Si formavano i gruppi spontaneamente, bastava formare un gruppo di cinquanta, e si partiva. C’erano i Vorarbeiter che in prevalenza erano slavi, polacchi, mai un italiano, non ho mai incontrato un Vorarbeiter italiano, e questo è un nostro onore. Ci portavano nelle foreste… boschi, foreste… ci facevano costruire con delle zolle delle specie di trincee, non so a cosa servissero. Io, per non fare un lavoro utile, prendevo queste zolle, le portavo, poi le riportavo indietro, e facevo su e giù. Un francese che era vicino, che mi aveva visto, mi denunciò. Forse per avere un mozzicone di sigaretta o qualche cosa. E allora quello della SS, oltre a picchiarmi, poi ad un certo momento mi tirò un colpo di pistola e mi colpì qui nella [gamba]. C’era uno zingaro che era con noi, riuscì a levarmi questa pallottola, poi prese delle erbe, degli intrugli, me le applicò lì sopra e riuscii a guarire. Dopo una ventina di giorni fui colpito anch’io dalla dissenteria. Naturalmente, sangue nelle feci… Mi decisi allora di andare in una specie di infermeria. Non c’era luce guardi, in questo campo, c’erano dei lumi e basta. Arrivai in questa infermeria, c’era un medico francese, prigioniero anch’egli; mi fece fare una scarica, e, resosi conto che era dissenteria, mi scrisse una “D” sulla fronte, e mi mandò in un blocco dove erano ricoverati tutti questi colpiti dalla dissenteria. Lì trovai dei francesi all’ingresso, nell’anticamera, era già sera, e chiesi: “Dov’è che si dorme?”. Mi fecero cenno: “Lì”. Io andai lì, era tutto buio, e mi buttai, così, senza sapere cosa facevo. Al mattino quando venne la luce mi accorsi che avevo dormito addosso a un cadavere. Mi alzai, camminai un poco e vidi che almeno una ventina di quelli che erano lì erano già morti. A mezzogiorno vennero a portarci un cucchiaio di purè di patate, anzi la punta di un cucchiaio, allora pensai: “Di qui io non esco e qui non ci voglio stare”. Allora andai da questi francesi e dico: “Guardi, io qui non voglio rimanere”. Il medico allora dice: “Va bene, non vuoi rimanere? Allora però al mattino devi andare lo stesso a lavorare, però ti scrivo un’esenzione dal lavoro per cinque giorni, cioè: tu devi andare sul posto però non possono farti lavorare”. E così fu. La sera, rientrando, nel blocco c’era lo sgabuzzino del capoblocco – che generalmente era un criminale o qualche cosa del genere, comunque non era mai un politico – e lì fuori dallo sgabuzzino c’era una stufa. Di notte – penso verso le 2, le 3, quando tutti dormivano, compreso il capoblocco – io mi alzavo, andavo vicino a questa stufa, mi scoprivo e mi mettevo col ventre quasi attaccato alla stufa. Poi prendevo dei pezzi di carbone e di legno, e li ho mangiati. Guarii dalla dissenteria. Ecco, un’altra cosa importante è questa: quando tornavamo dal lavoro, di cinquanta persone, sette o otto morivano. Bisognava riportarli indietro, trascinarli, perché lì non c’era la possibilità di… non era come negli altri campi, che c’era un servizio: li portavamo indietro. E così, penso che in due mesi… non so… una mortalità almeno dell’80%, forse è approssimativamente in difetto.

D: Salvatore, come sei stato scelto tu da Neuengamme per essere mandato nel sottocampo di Meppen?

R: Ci guardavano, ci tastavano, sentivano i muscoli, così. A un certo momento, trascorsi due mesi ritornai a Neuengamme e trovai le cose molto cambiate. Non so, può darsi che fosse il mese di gennaio o febbraio [1945], si avvicinava la fine della guerra. Trovai le cose molto cambiate. Non mi fecero più lavorare, mi misero in un blocco insieme a tutti gli altri ammalati. Non ci curavano, perché forse non avevano neanche la possibilità di farlo, però ci davano del vitto, non dico buono ma sopportabile. Finché un giorno, ci riunirono – era anche una bella giornata – ci riunirono e ci imbarcarono su un treno merci. Prima di imbarcarci però notai questo: delle crocerossine, per la prima volta. Ci distribuirono panini, in gran quantità. Evidentemente ci si allontanava, non so il perché di questo trasferimento. Questo trasferimento forse fu la cosa più brutta di tutto il periodo. Era un treno merci, formato forse da venti vagoni. In ogni vagone si stiparono un’ottantina di persone. Noi salimmo, i primi riuscirono a sedersi, io e un fiumano, un italiano di Fiume, salimmo per ultimi e non trovammo posto a sedere, dovemmo rimanere in piedi. Iniziò il viaggio. I primi due giorni non successe niente, sentivamo soltanto la mancanza dell’acqua, perché non ci davano da bere, da mangiare ne avevamo avuto abbastanza dalle crocerossine. Dopo, la gente iniziò a morire. La mancanza dell’acqua… riuscii a trovare un sistema per dissetarsi: al mattino presto, svegliandomi, vedevo sui tubi del carro merci delle goccioline d’acqua, allora io le assorbivo, così [apriva la bocca sotto il gocciolio, ndr] e forse quello mi salvò. A un certo momento questo ragazzo fiumano non ce la faceva più, allora io chiesi – erano quasi tutti francesi insieme con noi, di italiani eravamo soltanto io e questo fiumano – chiesi a questi francesi, io parlo un po’ il francese, se per piacere facevano un po’ di posto per far sedere questo compagno che non si reggeva più in piedi. Questi mi risposero: “Merde!”. Io con quella forza che avevo gli detti un manrovescio, questi si guardarono stupiti: “Evident, l’italien est très fort”. Allora si strinsero subito e mi dissero di sedermi; dico: “No, non sono io che devo sedermi, è lui che deve sedersi”. Dopo qualche giorno… – non so quanto tempo durò, dieci, forse quindici giorni, questo trasporto – dopo tre o quattro giorni la gente cominciò a morire, allora venivano scaricati i morti e si fece spazio, così potei sedermi anch’io.

Arrivammo a Sandbostel. Qui, scendendo dal vagone, ci distribuirono un pane intero con abbondante margarina. Naturalmente rimanemmo tutti quanti stupiti. Non c’era più la scorta, ci indicarono la strada che dovevamo fare. Arrivammo così a un campo militare evacuato di Sandbostel. All’ingresso c’erano dei russi che appena arrivammo ci aggredirono per portarci via quel pane: a me lo portarono via. Questa è una cosa che non ricordo con piacere, ma comunque devo dirla. Durante la permanenza a Neuengamme io avevo fatto una lama alla coda del cucchiaio, e allora, preso dalla rabbia, non tanto per il pane che mi portavano via, ma per la violenza che mi veniva fatta, presi questo cucchiaio e colpii il primo che mi capitò sotto di questi russi; per fortuna il cucchiaio era di alluminio, e i russi erano imbottiti di paglia, come lo eravamo anche noi, perché noi, per proteggerci dal freddo, ci imbottivamo di paglia. La coda [del cucchiaino] si piegò e non fece niente.

A Sandbostel intanto si sentivano già da lontano le cannonate degli americani che avanzavano, o inglesi che fossero. Qui fui preso dal tifo petecchiale. Poi non ricordo più niente. Mi svegliai dopo la Liberazione nell’infermeria del campo. C’era una crocerossina olandese che quando mi vide aprire gli occhi tutta contenta si mise a gridare: “L’italien! L’italien è vivo!” Di quel periodo non ricordo niente, però mi è rimasto impresso… io vedevo sempre un bel prato pieno di fiori, di margherite, di uccelli, con dei torrenti, ecco, questo lo ricordo. Poi non ricordo più niente. Rimasi in quell’infermeria una decina di giorni, poi mi trasferirono in un ospedale americano. Qui mi curarono un poco. Poi mi trasferirono ancora in un altro ospedale, un altro ancora, e per ultimo un’infermeria italiana. [Lì] c’era un sottotenente medico che mi visitò e mi trovò delle infiltrazioni polmonari. Mi mandò in un altro ospedale, sempre italiano. Qui mi curarono un poco con calcio e mi fecero un’operazione: siccome io perdevo molto sangue per le emorroidi mi operarono di emorroidi, però senza anestesia. Comunque, riuscii a superare anche quello.

Verso la fine di agosto [1945] poi ci misero su un treno ospedale e arrivammo a Merano. Qui venne una ragazza, ci chiese se sapevamo dove stessero i nostri genitori. Dopo qualche giorno vidi arrivare mia sorella da Bassano con un mezzo di fortuna, un camioncino tutto sgangherato, venne a prendermi e mi riportò a casa.

D: Quando sei arrivato a Bassano?

R: Penso che sia stato verso metà settembre.

D: Salvatore, quando da Neuengamme ti hanno mandato nel sottocampo, a Meppen, eravate solo uomini?

R: Sì, sempre uomini, io non ho mai visto una donna.

D: E a Meppen ti hanno dato un altro numero di immatricolazione?

R: No, era lo stesso di quello di Neuengamme, era un sottocampo di Neuengamme.

D: Era molto grande questo sottocampo?

R: No no, erano soltanto sette o otto baracche, però oltre il recinto vedevo altre baracche, e vedevo degli uomini però vestiti, che stavano bene, saranno stati dei lavoratori.

D: Durante il tuo periodo di deportazione, quando per esempio andavate ad Amburgo a spostare macerie, tu hai avuto possibilità di avere contatti con dei civili?

R: Quando passavamo c’era pochissima gente che si incontrava per istrada, ma quando ci incontravano giravano il viso dall’altra parte.

D: A Neuengamme avevate i castelli nei blocchi? In quanti dormivate per castello?

R: Due per ogni posto.

D: Mentre invece a Meppen?

R: Dormivamo per terra, senza coperte, senza niente, in mezzo agli escrementi.

D: Volevo chiederti una cosa: la pipa sei riuscito a salvarla?

R: La pipa sono riuscito a salvarla fino a Meppen, lì poi mi è stata portata via.

A Meppen è successo un brutto fatto, sempre con i francesi. Alla sera, quando rientravamo, distribuivano una minestra liquida, un pezzo di pane, 50-100 grammi, non so quanto fossero. Io questo pane, metà lo mangiavo e metà lo serbavo per l’indomani mattina, me lo mettevo sotto la testa. Vicino a me c’era un francese, io avevo visto che lui il pane se l’era mangiato. Al mattino quando ci svegliano per alzarci, la prima cosa che cerco è il pezzo di pane. Non lo trovo più e vedo questo francese che mangia del pane. Capisco che è stato lui a rubarlo, e faccio per tirarglielo via. Questo si mette a urlare: “L’italiano mi ruba il pane!”. Mi presi venti [scudi]sciate. Ho portato i segni per tre o quattro anni dietro alla schiena. Sempre con i francesi, a Neuengamme. Ci avevano distribuito il pane, io avevo conservato come al solito la metà per l’indomani mattina. Al mattino io incomincio a sbocconcellare questo pane e vedo questo francese che mi guarda, voglioso, allora io stacco una briciola di questo pane e gliela do. Questo si rivolge ai suoi compagni e dice: “L’italien est fou!”, l’italiano è pazzo! Io ho capito, dico: “Non, je ne suis pas fou”.

D: In questi 55 anni dalla Liberazione ad oggi, Salvatore, tu non sei mai stato intervistato?

R: No. Sono stato contattato da un’associazione piemontese, mi pare che fosse di Torino, che mi pregò di fare una relazione [per] stabilire chi erano i superstiti del campo di Neuengamme. Ecco, allora io scrissi, feci una breve relazione, e dopo qualche tempo, circa 7-8 mesi, così per caso sul canale 3, vidi un servizio e alla fine diceva: “Si ringrazia tizio caio… in ultimo si ringrazia Vitiello Salvatore per la collaborazione prestata”. […] Penso siano stati quelli di Torino che avevano fatto questo servizio.

D: A Dachau non sei più ritornato?

R: No, no. È andato mio figlio.

D: Tu non li hai accompagnati?

R: No.

D: Quindi neanche a Neuengamme sei mai andato?

R: No, no. Quando sento parlare tedesco scappo. Se vado in un albergo e sento parlare la lingua tedesca…

D: …non ci stai

R: No.

D: Non ci stai, è troppo forte.

R: Non li odio, ma non li sopporto neppure però. Io ho una piccola industria, sono stato contattato parecchie volte da tedeschi ma ho sempre rifiutato di avere rapporti con loro.

D: Quanti mesi hai fatto nei Lager?

R: Complessivamente sono nove mesi, dall’agosto dell’arresto fino all’aprile della Liberazione. Ripeto, della Liberazione non ho nessun ricordo.

D: Salvatore, cos’è stato un Lager per te?

R: Una brutta esperienza. Ho perduto la fiducia nell’umanità.

D: Un giorno, il quotidiano di vita di un giorno che vuoi, di Dachau, di Neungamme, o di Meppen, nel Lager, ce lo puoi descrivere?

R: Bah, non so… Ho visto anche delle cose molto brutte. Per esempio, da parte dei russi specialmente, da parte dei russi ho assistito a del cannibalismo addirittura, mangiare carne di compagni morti. Ho visto dei russi che, quando vedevano qualche morto, che moriva lì, prima che arrivasse qualcuno a sgombrarlo, gli aprivano le labbra per vedere se aveva delle protesi. E se aveva delle protesi, con una scalcagnata… E poi evidentemente erano organizzati per commerciarle, per ricambiarle… infatti i russi erano sempre ben nutriti. Erano sempre ben nutriti. Oddio, non volevo dirlo questo…

Bressan Milovan

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Bressan Milovan, sono nato a Gorizia il 29 febbraio 1920. Abito a Gorizia. Nel settembre 1943 svolgevo servizio militare nella Regia Marina e mi trovavo a Trieste. L’8 settembre 1943 sarà ricordato come “la grande fuga”. Molti i soldati allora si riversarono verso stazione ferroviaria, e lì vennero fermati dalle truppe tedesche, rinchiusi in certi locali e successivamente trasportati in Germania. Io che ho assistito a queste scene mi sono procurato un vestito borghese e il 12 settembre ho preso il treno e sono arrivato a Gorizia. A Gorizia il 12 settembre si svolse una battaglia per la conquista della città da parte delle truppe tedesche. I morti furono parecchi, e appartenevano ai partigiani italiani e sloveni che hanno fatto battaglia presso la stazione ferroviaria, ma sono stati battuti dai tedeschi perché i tedeschi erano fortemente equipaggiati. I tedeschi giunti a Gorizia dopo pochissimo tempo hanno organizzato, coi loro sistemi, dei lavori coatti, e molti giovani vennero reclutati per eseguire questi lavori di pala e picco nel circondario del Goriziano. Tutto questo era organizzato da una organizzazione chiamata Todt. Ed anch’io fui reclutato, questo per i mesi di marzo, aprile, maggio e giugno 1944.

D: A Gorizia c’erano dei comandi della SS e della Gestapo?

R: Anche, anche.

D: Ubicati dove?

R: Qui a Gorizia erano anche stati istituiti dei comandi delle SS. Le SS qui a Gorizia hanno preso una villa che oggi si trova in via Armando Diaz, e questa villa era di proprietà di un medico ebreo, che l’hanno portato naturalmente in Germania. In questa villa, che oggi è prospiciente la scuola che si trova in Largo Culiat, era il comando delle SS. Durante il lavoro che io svolsi come operaio, come manuale, nell’ambito dell’organizzazione Todt, durante le pause di lavoro – che ce lo portavamo da casa qualche pezzo di formaggio con pane, eccetera – io mi dilettavo anche a disegnare i luoghi e qualche operaio mentre era intento a fare lavori di sterro. Per questa mia capacità di tradurre in disegno le cose che vedevo sono stato avvicinato da partigiani; perché le opere che venivano eseguite dall’organizzazione Todt avevano lo scopo, soprattutto, di formare grandi buche che erano destinate a fermare eventualmente un’occupazione con carri armati. Però lo facevo con molta attenzione, senza dare nell’occhio, ma ciononostante qualcuno ha capito, ha intuito quelle che erano le mie intenzioni e deve aver parlato a qualcuno in proposito.

D: Queste buche che voi facevate erano orientate verso dove?

R:Verso la zona dove eravate voi oggi.Queste buche venivano eseguite allora nella zona che oggi è fortemente popolata, ma allora erano puri e semplici campi per la coltivazione di fagioli, di verdure, di rape, che si estendevano dalla zona di San Rocco di Gorizia fino al cimitero centrale. Quando io ho capito che qualcuno deve avermi denunciato – e che non sono mai stato mai in grado di individuare chi personalmente – non ho voluto un giorno andare a casa, perché temevo il peggio e mi sono rifugiato per qualche ora in un cinematografo, che allora veniva chiamato il cinema Moderno di Gorizia, oggi in Corso Verdi. A un certo momento hanno smesso di proiettare il film, sono entrati delle SS: uomini da una parte e donne dall’altra, e ad uno ad uno ci hanno spogliati della giacca, del vestito, e andavano in cerca di documenti o qualche cosa del genere. Di questi uomini una decina sono stati messi da parte, tra i quali c’ero anch’io. Da lì ci hanno portato in una caserma militare di piazza Cesare Battisti, sottoposti a duro interrogatorio. Mi hanno fatto tantissime domande, nome, cognome, indirizzo… certe cose già le sapevano: io avevo un cognato che allora era contrario al regime, iscritto nel Partito socialista e condannato a vivere lontano dalla famiglia, nelle zone sud dell’Italia. Dopo pochi giorni mi hanno condotto in un campo allestito fuori di Udine, in una zona verso Cividale. E lì ho vissuto per alcuni mesi finche ho organizzato una fuga, perché non era un campo molto difeso: quando le sentinelle camminavano su e giù c’era la possibilità di valicare il muretto e di scappare.

D: Lo chiami “campo”, in realtà era un’organizzazione vostra?

R: No, non era una organizzazione, perché mi avevano avvicinato dei partigiani, sapevo che erano partigiani che combattevano nelle organizzazioni slovene e italiane, la “Garibaldi”. Non posso dire, non so se era una organizzazione che aveva dei compiti precisi anche nell’ambito della città; evidentemente sì, perché c’era molta gente che transitava in questi luoghi e che vedeva, che osservava. Naturalmente mi avevano notato come un disegnatore che poteva rendere loro qualche servigio. Nel frattempo, a Gorizia avevano arrestato mia mamma e mia sorella: a Gorizia non ci potevo andare. Mi sono rifugiato a Udine. Non conoscevo nessuno, vivevo praticamente così, nei portoni di qualche casa, o mi rifugiavo in qualche giardino pubblico. Questo eravamo nel mese di settembre o ottobre 1944, il freddo non era ancora intenso, e comunque cercavo in qualche modo contatto con i partigiani. Ma Udine era allora piena di truppe tedesche e anche cosacche, che combattevano per i tedeschi, era circondata e non ci si poteva allontanare né rimanere a lungo. Ad un certo momento, del gruppo di cui facevo parte – perché eravamo altri cinque sei che sono riusciti a scappare da questo campo di Udine – avevano individuato uno o due persone che erano andate in città per comperare qualche cosa, da mangiare credo, e questi, sottoposti ad immediato interrogatorio, li hanno portati dove noi ci nascondevamo. E allora da qui ci hanno arrestati nuovamente e portati non più nel campo bensì nelle prigioni di Tolmezzo, prigioni civili, dove rimanemmo fino al mese di novembre.

D: Allora il campo [di Udine] era tedesco?

R: Sì, era un campo di SS, comandavano le SS nel campo.

D: Era ubicato dove esattamente? Te lo ricordi?

R: Sulla strada che da Udine porta a Cividale.

D: Aveva un nome o un numero questo campo?

R: Non lo so. Questo non lo ricordo.

D: C’erano delle baracche?

R: C’erano delle baracche. Era un campo militare italiano prima dell’8 settembre, poi occupato dalle SS tedesche, e loro portavano lì la gente che ritenevano di dover far lavorare, eccetera. Nel novembre del 1944 ci hanno caricati nei vagoni ferroviari e portati in Germania.

D: Dopo [il campo di Udine] ti hanno portato a Tolmezzo.

R: Nella prigione. Ora è una prigione civile.

D: Interrogatori lì te ne hanno fatti?

R: Anche lì hanno fatto gli interrogatori. Volevano conoscere qualche cosa di più dell’attività; loro non erano certissimi, perché io ho cercato di sviarli attraverso le domande, con reticenze ed altro, ma comunque hanno capito che si trattava… Noi italiani, eravamo quelle cinque sei persone, fummo sottoposte a un interrogatorio, ma non durissimo, perché avevano dei dubbi. Ciò nonostante, da Tolmezzo ci hanno caricato sui vagoni ferroviari e portati a Dachau.

D: Vi hanno caricato da quale stazione?

R: A Tolmezzo, stazione di Tolmezzo.

D: E i tuoi familiari che avevano arrestato?

R: I miei familiari che avevano arrestato, per mia fortuna e per loro fortuna, li hanno portati alla Questura – erano ancora italiani – e siccome i miei familiari non sapevano nulla dell’attività che io svolgevo, sono stati creduti e li hanno rilasciati. Hanno avuto fortuna. Noi durante il viaggio eravamo quasi contenti, perché non si sapeva niente dei campi di concentramento in Germania, nulla si sapeva dei campi di sterminio, addirittura. Si credeva che in qualche modo ci avrebbero fatto lavorare, ma comunque che saremmo stati dei liberi cittadini civili. Invece ci hanno portati a Dachau. A Dachau rimanemmo, mi pare, due settimane. A Dachau ci vestirono con le divise trovate nei magazzini militari italiani; e ci vestirono con delle divise di tela che normalmente il soldato italiano portava nell’ambito della caserma, erano delle divise di tela vere e proprie e naturalmente, trattandosi ormai del mese di novembre a Tolmezzo, faceva già freddo. Con quelle divise ci hanno portato a Dachau. A Dachau ci hanno lasciato quelle divise, ci hanno fatto lavorare, ci portavano fuori, eccetera. Dopo quindici o venti giorni ci hanno nuovamente caricati su vagoni bestiame e portati a Buchenwald.

D: A Dachau non ti hanno immatricolato?

R: No, adesso arriva l’immatricolazione.

D: A Dachau vi hanno portato nel campo?

R: Nel campo di Dachau, senza darci la matricola.

D: Avevate una baracca vostra?

R: Avevamo una baracca nostra con tantissimi altri prigionieri, di qualsiasi genere insomma. Comunque, da Dachau ci hanno portato a Buchenwald. A Buchenwald ci hanno fatto spogliare, ci hanno rapato, tosato e ci hanno dato le divise rigate, con il triangolo rosso e il numero di matricola. Poi ci hanno messo in una baracca, enorme, dove eravamo insieme con dei polacchi, iugoslavi, sloveni, croati, serbi, cecoslovacchi, ungheresi e italiani. Ma [quello degli] italiani era un gruppo piccolissimo. A Buchenwald tutti i giorni ci portavano a lavorare. Un lavoro duro, terribile. Hanno chiesto prima ad alcuni che mestiere facevano: alcuni di noi, due o tre, erano operai. Hanno dichiarato il loro mestiere ma, ciò nonostante, non li hanno portati a svolgere una qualche attività nell’ambito di qualche fabbrica dove potessero essere utilizzati come meccanici o come tornitori, come avevano dichiarato. Ci portavano invece tutti all’aperto, sotto le intemperie, il vento, il freddo, la neve, e dovevamo lavorare in zone squallide, brutte, a portare sulle nostre spalle le rotaie per i treni. Pesantissime. Un lavoro terribile. E il peggio si è che io, col mio metro e ottanta, mi mettevano alla fine, e un altro, di un altro metro e ottanta all’inizio di questa rotaia, nel mezzo erano quelli con una statura di 10 centimetri più bassi di noi, toccavano appena con le spalle… Comunque, era un peso terribile e un freddo tremendo e una fame patibolare. Per tutto il tempo che fummo a Buchenwald, lavorammo in questa zona, deperendo ogni giorno a vista d’occhio.

D: Il tuo numero di Buchenwald te lo ricordi?

R: Sì, me lo ricordo vagamente, […] Sono sempre incerto sul… Ho cercato con la spugna di cancellare dalla memoria.

D: E la baracca te la ricordi? Il blocco?

R: Blocco numero 28.

D: Il periodo in cui sei rimasto a Buchenwald, hai visto per caso se nel campo c’erano dei ragazzini e delle donne?

R: Vedevo dalla baracca 28 dov’eravamo a Buchenwald anche le baracche delle donne, che però erano divise da un reticolato. In quel tempo mi pare che Mafalda di Savoia si trovasse anche prigioniera da quelle parti.

D: Ragazzini non ne hai visti invece…

R: No, ragazzini non ne ho visti.

D: Tu sei arrivato a Buchenwald quando, più o meno?

R: Dunque, nel gennaio… non so la data precisa, eravamo nel mese di gennaio e siamo arrivati a Buchenwald, e ci siamo rimasti fino al mese di marzo, con questo lavoro durissimo. Un giorno ci hanno portato ad una specie di visita molto frettolosa per vedere chi era ancora abile e chi non lo era: molti avevano delle piaghe e delle contusioni, soprattutto piaghe dovute agli zoccoli, alle scarpe senza calze, che camminando sfregavano la pelle in modo tale da produrre delle erosioni e delle infezioni. Ma eravamo anche oramai molto dimagriti, senza forze. In ogni caso eravamo nel mese di febbraio o i primi di marzo, che questa visita si è fatta in una baracca, con un medico, o per lo meno così lo chiamavano, ed era uno della SS: giudicava se l’individuo poteva continuare oppure no. Io fui tra coloro, fortunati, che vennero dichiarati “tauglich” cioè abile. Però prima di passare questa visita siamo stati all’aperto per circa un’ora, una fila lunghissima, nudi completamente. Quel giorno avevo visto su un termometro appeso ai vetri della baracca, dove era il medico che destinava l’individuo da una parte o dall’altra, questo termometro segnava 17 gradi sottozero. Ed io facevo moltissima ginnastica, mi muovevo, correvo su e giù, ogni movimento era destinato a riscaldare in qualche modo i muscoli perché la gente attorno [a] me cadevano come birilli. Comunque, passata questa visita, quelli che non erano abili venivano caricati su dei camion e non li abbiamo rivisti mai più. Il giorno dopo ci hanno portato in una baracca, hanno distribuito delle patate, abbiamo mangiato queste patate, e ci hanno dato anche una razione abbastanza buona. Patate. Solo patate. Ci hanno caricato sui treni, vagoni aperti, chiusi da un reticolato sopra: si poteva appena appena mettere la testa fuori per orizzontarci un pochino, per vedere dove ci portavano. Ogni tanto saettavano nel cielo apparecchi, formazioni che erano anglo-americane, che andavano a bombardare la Germania. Noi siamo stati su questo treno, mi pare, tre giorni e tre notti, senza mangiare. E finalmente siamo arrivati in una località, un paesetto, e ho visto scritto una… era una scritta prima di entrare: “Schömberg”. Schömberg era la località con un sottocampo di Natzweiler. In questo campo, anche lì, giornalmente, ci portavano a lavorare, ma qui il lavoro si svolgeva in una cava di pietra. Mi hanno detto che questa cava aveva lo scopo di triturare queste pietre perché estraevano dell’olio, olio minerale. Erano infatti delle pietre – non so come dire – non erano calcaree, non erano bianche, erano piuttosto un color marrone, molto lucide, contenevano olio. Il percorso era durissimo, perché dal campo di Schömberg a questa cava passavano circa 5-6 chilometri, e 6 chilometri bisognava farli a piedi nella via del ritorno. Sempre accompagnati dalle SS, con una fame tremenda… il lavoro era bestiale perché bisognava usare continuamente delle mazze e dei picconi per spaccare questa pietra. Rimanemmo lì fino al mese di aprile. Credo che fosse il 7 aprile. Oramai si sentivano in lontananza gli spari dei cannoni, le truppe anglo-americane avanzavano. Noi non ne sapevamo ancora niente.

In questo campo un giorno, quando facevamo ritorno lì in baracca, dopo il lavoro, in mezzo all’erba ho scoperto una carta geografica buttata da qualcuno, ed era una carta geografica che segnava le nostre Alpi e il confine italo-svizzero. Io ed altri miei compagni – tra i quali Risnefer, Zorzenon e Collini – guardavamo con una certa attenzione questa carta geografica perché volevamo capire in quale zona ci trovavamo esattamente. Non giravano nei campi di concentramento né calendari per leggere la data precisa né qualsiasi scritto o libro, cioè eravamo completamente isolati: trovare un pezzo di carta con su qualche cosa interessava comunque. Ma qualcuno deve aver notato questa nostra attenzione. Comunque, ritornammo nelle baracche. Il tempo scorreva lentamente, ma questo pezzo di carta che io avevo in tasca mi dava fastidio, mi faceva pensare. Insomma, a un certo momento ho deciso di andare ai gabinetti, ho sminuzzato questa carta e l’ho buttata. Ed ho avuto fortuna, perché quella notte stessa, in piena notte, verso le 2-3 della mattina – che faceva ancora un grande buio – è entrato nella baracca uno della SS accompagnato dal capobaracca e s’è messo a gridare il mio numero di matricola, e quello di un altro amico mio, Alfio Cantelli, che oggi non vive più a Gorizia, ma vive a Milano. Lui aveva segnato, durante l’esame di questa carta geografica, i nostri numeri di matricola, quello che era riuscito a fare, e sulla base di questo noi fummo svegliati in piena notte e portati ammanettati davanti al capo del campo, che era un maresciallo delle SS.

D:Il numero di matricola era ancora quello di Buchenwald?

R: Sì, era quello di Buchenwald, 97 mila eccetera […]. Insomma, questi ci presero a calci, a pugni, e cercarono di capire perché e come avevamo trovato quella carta geografica e dove l’avevamo messa. Io avevo ancora – nascosto fra le mie cose che a Buchenwald sono riuscito a nascondere – avevo ancora con me la carta di identità mia personale e la fotografia di mio padre, che avevo prima nel portafoglio. Ma poi il portafoglio, naturalmente, me l’avevano requisito già a Buchenwald. [In] questa fotografia era rappresentato mio padre quando faceva servizio nell’esercito austriaco durante la guerra ’14-’18, e aveva il cappello da Alpenjäger, cioè alpino. Questa fotografia trovata nella mia tasca probabilmente ha indotto il maresciallo che ci interrogava ad avere una certa pietà di noi, perché dice: “Questo chi è?”. E io gli ho detto: “Mein Vater”. “Cos’era, dell’esercito austriaco?”. “Sì, perché sono di Gorizia e Gorizia in quel tempo aveva combattuto contro l’Italia, aveva combattuto nell’esercito austriaco”. Insomma, dopo gli schiaffi e le pedate ricevute, quest’uomo, per confermare quanto lui pensava, ha chiamato quello che ci aveva denunciati, ed era un polacco. Era un polacco, che in nostra presenza ha ricevuto una fettina di pane… l’avevano premiato con questa fettina di pane, lui credeva chissà cosa. Ma comunque, al tempo in cui si viveva nei campi di concentramento mica tutti erano dei galantuomini, e non c’era quella solidarietà che normalmente esiste nella vita civile e nella vita di ognuno di noi: se uno poteva in qualche modo appropriarsi di un pezzo di pane o di una qualsiasi cosa a danno dell’amico o dell’Häftling , che era il prigioniero dei tedeschi, lo faceva. Quello credeva di ricevere chissà che cosa, e per questa fettina di pane ci aveva denunciati, facendoci correre il rischio di essere fucilati. Questo maresciallo tedesco s’era in quel frangente liberato di questo… puntiglio che aveva, non facendoci fucilare. Perché durante l’interrogatorio diverse volte ci aveva detto: “Ma cosa avete fatto? Sono gli ultimi 5 minuti. Die letzten fünf Minuten!”. E allora se l’è cavata facendoci segnare sul petto e sulla schiena, con del colore, una croce visibile anche da lontano, in modo che in qualsiasi circostanza, bastava per noi avvicinarsi ai reticolati perché la sentinella aveva l’obbligo e il diritto pieno di sparare senza aspettare altro. Il 7 di aprile ci hanno nuovamente caricati sul treno, un treno lunghissimo, ma questa volta vicino a noi c’erano soldati della Wehrmacht. Ed erano gente anziana, forse qualcuno aveva 60 anni: si vede che l’esercito aveva bisogno assoluto di reperire ancora chi potesse servire in qualche modo ai bisogni del grande Reich. Noi eravamo in questo vagone con due o tre di questi soldati armati. Anche in questo caso i vagoni erano aperti, non c’era il tetto sopra, ma era chiuso con il reticolato. Questi uomini invece stavano in una specie di garitta. Oramai eravamo sfiniti, al limite delle nostre forze, e io, in un impulso di rabbia estrema, ho inveito contro questa gente, contro la Germania, contro i soldati, contro le SS. Sennonché uno di questi, che doveva essere dell’Alto Adige, conosceva l’italiano, era un tedesco ma conosceva l’italiano. Allora non questo si era alzato, ma ha detto qualche cosa al suo compagno vicino, il quale è venuto vicino a me e col fucile ha cercato più volte di colpirmi con il calcio del fucile alla testa. Io andavo dondolando con la testa, cercando di salvare i colpi, e in questo forse mi sarà servito anche… perché da ragazzo ho fatto alcuni anni di pugilato. Invece aveva colpito uno dei miei vicini che era un croato, e sanguinava fortemente. A questo punto entrammo in una galleria, e nel buio io avevo fatto il salto dall’altra parte… cioè, eravamo tutti così eguali che lui non era più in grado, una volta alla luce del sole, di individuarmi nuovamente. E così giungemmo, dopo molte ore di treno, ad Allach, che è un sottocampo di Dachau. Lì non ci hanno mai portato a lavorare. Una notte, era il 29 aprile, la notte dal 28 al 29 aprile – mentre in questa baracca non esistevano i castelli dove normalmente si dormiva, eravamo tutti sdraiati a terra – con noi c’erano anche due prigionieri indiani, ma non i Pellerossa, indiani dell’India. Erano venuti lì, presi non so dove, col turbante eccetera, e uno nella loro lingua gridava, urlava un qualche cosa che noi non capivamo: segnavano con la mano “fuori, fuori, fuori”. Allora siamo usciti a vedere cosa succedeva: le garitte erano vuote, non c’erano più i tedeschi. Perché durante la notte le SS erano scappate. Capimmo subito di essere liberi, e infatti, verso le 7-8 della mattina – oramai faceva abbastanza chiaro – vedemmo lontano avanzarsi gli americani che ci liberarono.

D: Milovan, poi cosa è successo?

R: Eh. Subito dopo la Liberazione vedemmo questi americani che strisciavano nell’erba alta – almeno lì attorno a questo campo era un’erba ancora alta – e avevano dei ramoscelli sui loro elmetti. Vedemmo subito delle truppe meravigliosamente attrezzate, armate, e noi eravamo dietro ai reticolati a gridare, a urlare, e loro ci buttavano, devo dire subito, qualche pacchetto di sigarette, che era una cosa ricercatissima. Molti si abbracciavano, piangevano. Riuscimmo a forare qualche rete metallica, andammo di là, nel territorio delle ex SS, e lì c’erano delle patate in una fossa, coltivate, o messe come magazzino, e ricoperte di terra. Nella fame che c’era e bramosia di trovare qualche cosa ci riempimmo come potemmo di queste patate, che io raccoglievo e le mettevo nella giubba, che era zebrata, però ne avevo raccolto forse tre chili e quando ho voluto alzarmi… le forze mi mancarono, non avevo la forza di sollevarmi con tre chili di peso! E allora ne presi solo due o tre, le misi in una tasca, e andammo subito a fare un po’ di fuoco e arrostire questa roba qua. Comunque, dall’arrivo degli americani in poi, la fame, in pochi giorni, era del tutto sparita. Ci portavano del cibo anche abbondante, al punto che molti morirono proprio a causa di queste indigestioni. Per il resto, credo di aver finito perché non c’è altro da dire.

D: Il ritorno a casa.

R: Il ritorno a casa. Dopo qualche settimana, con la presenza degli americani, fummo portati in una specie di tenda da circo, una tenda molto grande che avevano allestito per disinfettare tutti questi uomini. Ci spogliammo completamente, e con le apposite macchine ci spruzzarono il DDT. E poi ci diedero delle divise, e anche belle, erano divise delle SS. Sì. Con i pantaloni delle SS, che erano di un panno grossolano, nero, e con dei giubbotti, ci hanno dato delle camicie, eccetera. Eravamo puliti. Avevamo dei vestiti, che non erano vestiti civili, ma erano dei vestiti che si potevano portare, perché prima eravamo tutti sbilenchi e oramai ridotti a brandelli. Ci arrivava qualche notizia. Eravamo oramai tutti liberi da una certa imposizione; si incominciavano a sentire le prime frasi gentili, prego, grazie, cose mai sentite nei campi di sterminio. Un giorno presero le nostre generalità, vennero lì con dei camion, camion militari, e a noi italiani ci caricarono su questi camion, velocemente. Ma non eravamo neanche tanto lontani, perché in una mezza giornata, pur partendo la mattina, arrivammo a Bolzano. E a Bolzano erano già attrezzati bene per accoglierci, per darci dei vestiti che non erano più quelli militari, ma qualche giacca, qualche pantalone, eccetera. Oramai eravamo in Italia. La Croce Rossa italiana ci accolse dandoci dei documenti, eccetera. E da lì finalmente potemmo dichiararci liberi… ma non del tutto! Perché Gorizia era occupata. Io mi fermai a Udine, poi andai in una zona vicina a Gorizia, Mossa, a casa dell’amico Zorzenon, prigioniero anche lui, con me, aveva fatto tutti i campi che io ho esposto. Dopo due o tre giorni ho cercato di venire a Gorizia, però sul ‘Ponte IX Agosto’, che era guardato da sentinelle iugoslave, non sono stato fatto passare, perché nessuno poteva entrare in città. E allora sono ritornato da Zorzenon, ringraziandolo, salutandolo, e sono andato nuovamente a Udine. A Udine, visto le condizioni fisiche in cui mi trovavo, sono andato alla Croce Rossa: mi hanno fatto ricoverare in ospedale, e sono andato all’ospedale per una quindicina di giorni.

D: Ma a casa quando sei arrivato?

R: A casa… A casa sono arrivato quando le truppe iugoslave hanno dovuto abbandonare la zona cosiddetta ‘B’, perché gli americani non erano arrivati in tempo ad occupare loro [per] primi Gorizia. Quando mi è stato detto che oramai si poteva ritornare a Gorizia – e Udine era piena di goriziani – tutti, in un modo o nell’altro, sono ritornati. E sono ritornati come? Io a Udine ho cercato qualcuno che andasse a Gorizia: di automobili ce n’erano pochissime, ma erano molti i camion guidati dai militari americani. E allora un camion militare americano andava fino a Cormons, poi un altro da Cormons mi ha portato fino a Mossa, e un altro ancora da Mossa mi ha portato fino a Gorizia. E sono ritornato finalmente a casa.

D: Ed era il…

R: Ed era il mese di maggio, 27 maggio, del 1945.

D: Un bel giro hai fatto. Da Bolzano con cosa sei arrivato a Udine?

R: Sempre con gli americani. Chiedevo chi era che andava verso Trieste, e allora ho trovato alcuni… ben disposti questi americani, tutto sommato, perché eravamo in fin dei conti i loro ex nemici. Io ed altri abbiamo trovato ospitalità su questo camion militare che andava diretto a Udine.

D: Quindi ti hanno portato giù loro?

R: Mi hanno portato su loro e poi da lì ho fatto il viaggio fino a Gorizia come avevo spiegato.

D: Dei tuoi amici che erano partiti con te…

R: Uno è morto su, e nessuno sa come.

D: Dove è morto?

R: È morto a Schömberg.

D: In che senso nessuno sa come?

R: Perché… Ci organizzavano per il lavoro in squadre, e la squadra non era sempre fatta da italiani, o magari da tutto quel gruppo del quale facevo parte. E allora, a un certo momento, potevamo trovarci 2-3 fra i nostri amici in quel gruppo formato da 30 persone magari, [con cui] andavamo a lavorare. E un giorno questo non è ritornato più. Non sappiamo come e perché. Però qualcuno ci disse che durante una ritirata di SS molti venivano fucilati. Trovati sul lavoro, trovati in un qualsiasi posto. E allora molti, in una strada, in campagna, c’era a un certo momento un tombino…

Goruppi Riccardo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Io sono Goruppi Riccardo, nato il 14.1 del 1927 a Prosecco, provincia di Trieste. Arrestato il giorno 25 novembre del 1944, trasferito alle carceri del Coroneo di Trieste, subìto tre interrogatori, certo non bene. L’ultimo interrogatorio l’ho subito cinque minuti prima della partenza per la Germania. Perché l’ultimo? Perché alla sera, quando hanno chiamato i numeri e i nomi delle persone che dovevano partire, il mio non è stato chiamato come [neppure] quello di mio padre. Al momento, non essendo stati chiamati era la cosa più brutta, perché si rimaneva nell’interno delle carceri come ostaggio, e come ostaggi la giornata era pericolosa sempre, in qualsiasi momento.

D: Riccardo, chi ti ha arrestato e dove ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato a Prosecco, per una spiata. Le SS e mi hanno trasportato al Coroneo.

D: Sei stato arrestato con altri?

R: Si, hanno rastrellato il paese completo, cioè, c’erano diverse persone, non saprei dire se 40 o 30.

D: Dici che ti hanno arrestato per una spiata: tu facevi parte di un’organizzazione partigiana?

R: Io ero partigiano. Ero partigiano. Ma in quel momento mi trovavo in paese perché ho dovuto subire un’operazione e sono ritornato a casa; dopo l’operazione sono ritornato a fare il partigiano. Comunque, m’hanno preso senza armi: ecco perché poi sono finito in Germania invece di finire alla Risiera di San Sabba, [nel]la quale mi promettevano o un interrogatorio o logicamente… Non ho mai detto che non ero partigiano, non l’ho mai detto, perché quando mi chiedevano [rispondevo: “sì, sono partigiano”]. Dopo la chiamata che hanno fatto la mattina, si sono presentati i due giannizzeri, cioè le SS, con l’interprete, gridando: “Dove sono quei due che non vogliono andare in Germania?!”, e ci hanno chiamato per cognome e nome. Mio padre è stato portato immediatamente nella fila [dove] c’erano cinque già pronti per la partenza. E a me mi hanno portato a un ultimo interrogatorio, m’ hanno pestato molto bene, nel quale momento m’hanno anche rotto i denti davanti. E poi, guarda il caso, mi hanno dato per il trasporto due pezzi di pane e un pezzo di formaggio, perché quello era dato a tutti per il trasporto che si faceva. Il trasporto è durato da Trieste partendo il giorno 8, siamo arrivati a Dachau il giorno 11 [dicembre 1944].

D: Siete partiti dalla stazione di Trieste?

R: Siamo partiti da Trieste dalla stazione dalla parte del silos, dove c’erano le famose partenze dei treni. E lì ero separato dal gruppo dei paesani, compreso da mio padre, perché m’hanno portato come ultimo. Devo dire che fra la scorta c’era proprio il mio operaio del cantiere San Marco, che era un sergente delle MM [Marina Militare]. Questo m’ha scortato nel vagone; non avevo la possibilità di chiedergli di entrare nel vagone di mio padre, fino a che nella vallata, credo in Austria, hanno fermato questo treno, hanno circondato il luogo e hanno fatto scendere le persone per vuotare le Kübel, cioè i bidoni famosi che si usavano nei vagoni. Nel vagone eravamo dalle 60 alle 70 persone. Lì ho chiesto a questa persona se [potessi] entrare nel vagone dove era mio padre, m’ha detto: “Beh, tanto andate tutti in un posto, puoi entrare.” Sono entrato nel vagone, fortuna perché non ho mangiato il pane – non lo potevo mangiare perché avevo rotti i denti – la fortuna di arrivare nel posto dove tutti avevano già fame: ecco che ho diviso quel poco di pane che c’era.

Arrivati a Dachau… Andando in Germania si pensava di andare a un lavoro, cioè certo in una prigione molto più grande, sempre però a un lavoro. Entrando, sulla porta, ho chiesto al mio operaio del cantiere San Marco se “può avvisare a casa che siamo in Germania, io e mio padre”. “Beh – ha detto – tanto non ha nessunissima importanza, da qui non tornate più”. Dunque lo sapevano molto bene dove ci hanno portato.  Ma non ho pensato questo, perché entrando in questo luogo ho visto l’ampiezza del campo; ho detto: “Questa è una prigione molto più attrezzata del Coroneo ma siamo nelle vicinanze di un posto di lavoro o qualcosa del genere.” Sennonché, arrivati, ci hanno fatto gettare tutto quello che avevamo: oltre al vestiario che si aveva addosso, i vestiti che ci hanno portato da casa nelle prigioni, avevamo qualcosa… e tutto bisognava gettare sul mucchio. E entravamo dentro nella sala delle docce. Nella sala delle docce c’erano i prigionieri, i famosi barbieri, che ti rasavano completamente. Fatta la rasatura completa sulla persona totale, c’hanno fatto a noi italiani una striscia lungo la testa che significava traditori. Noi italiani e i russi avevamo questo segno perché eravamo calcolati traditori. Fatto questo, ci hanno messo sotto le docce, hanno aperto l’acqua fredda – dico nel mese di dicembre, era l’11 dicembre – hanno aperto l’acqua fredda, l’acqua calda, l’acqua fredda: e allora si faceva dei salti che non finivano più, e loro ridevano, si divertivano. E poi ci hanno dato una manciata di un… hanno detto sapone, ma c’era una soda caustica o qualche cosa del genere, e poi bisognava molto bene sparpagliare dove ci avevano rasato: allora si vedeva i salti che si facevano perché la rasatura certamente non era tanto delicata, di tagli ce n’erano. Finito questo [loro] divertimento ci hanno consegnato le famose divise a zebra, era a strisce bianche e blu il vestito, e davano un paio di calzoni, una giacca. [Per] chi aveva la fortuna di riceverla, anche una specie di “sopra giacca” – noi la chiamavamo cappottino – era la stessa stoffa, ma era più lungo. Non tutti avevano questa fortuna, perché fino a quando c’era davano, poi non c’era più e non davano più, davano quello che era. Gli zoccoli aperti, con una tela; calze non se ne vedevano. Chi aveva ricevuto un po’ più lunghi i calzoni, [questi] servivano anche da calze, fortunatamente. La cosa più brutta… ecco quando si è capito di essere entrati in un campo di sterminio. Quando siamo usciti all’appello ci hanno consegnato prima dei numeri e i triangoli, e bisognava cucire sulla giacca e sui calzoni. Sul [triangolo] c’era la scritta dello Stato a cui si apparteneva: noi avemmo la “I” come Italia. Arrivati a questo punto fu chiamato un interprete dalle nostre file – anche se avevano un interprete proprio, non lo so perché, per una verifica, probabile – hanno chiamato e questo doveva dire le parole che le SS, cioè il comandante del campo, dichiarava in quel momento. La dichiarazione era questa: “Da questo momento voi non siete più uomini, siete un numero e con questo numero verrete chiamati. Non potete comunicare con l’esterno.” Ecco questa era la cosa più… la dignità della persona, nel momento che ti portavano via il tuo nome e cognome… e l’hanno pronunciato per l’ultimo nella chiamata, poi hanno chiamato col numero. Certo era molto difficile, difficilissimo per chi non capiva il tedesco; per chi capiva il tedesco il numero era facile, ma chi non lo capiva, il 135.423, nel tedesco era hundertfünfunddreissigtausend vierhundertdreiundzwanzig, che era una cosa enorme! Enorme al momento. E allora te lo sei imparato immediatamente perché arrivava e bastonava. Tornava a richiamare i numeri e bisognava rispondere con “hier” [qui, ndr], man mano che rispondeva quello che era davanti si rispondeva automaticamente, ma in poco tempo si è imparato il numero: la prima cosa che uno si è imparato è il numero, e non se lo è dimenticato di certo. Da lì trasferiti alla baracca della quarantena. C’erano le baracche dispari, c’erano i Revier, la baracca degli esperimenti e poi c’erano le baracche della quarantena. Ecco, si è saputo immediatamente da gente che era all’interno di non farsi vedere troppo forti, troppo veloci, troppo espansivi, perché potevi essere scelto per degli esperimenti. Non dovevi far vedere di essere ammalato perché potevi essere eliminato, perché hanno eliminato immediatamente gli ammalati. Ho fatto la quarantena, diciamo quarantena… ho fatto 20 giorni all’interno. La baracca era lunga 100 metri, divisa in quattro Stuben, e man mano che invocavano i numeri entravamo nelle Stuben. Nella Stube c’era lo spazio di una camerata – dunque doveva essere 25 metri circa – ma era ricavato anche uno spazio per il capobaracca; poi c’erano i letti a quattro piani. La cosa più tremenda era dormire in quel posto. Perché? Perché i letti non erano separati, erano incolonnati, attaccate le cuccette, attaccate tutte, era come un quadrato, e dove dovevano dormire 20 persone, ad esempio ne dormivano 40, anche 50. Guai perdere il posto la notte, perché alla metà della baracca c’erano le latrine e se uno perdeva il posto non riusciva più a ritornare; poi con le bastonate del kapò certo si rientrava, in una maniera o nell’altra. Si dormiva piedi e testa, l’uno con l’altro, c’era molta difficoltà.

Arrivati a un momento, a una data che non so esattamente, ci hanno radunato nel salone delle docce al quale sono arrivati i famosi capi dei campi che dovevano prelevarci e portarci via da Dachau. A Dachau c’erano dei trasferimenti, non è che uno rimaneva a Dachau perché era a Dachau, c’erano trasferimenti fino a Auschwitz, ad esempio. E io sono stato trasferito. Alla scelta del gruppo sono stato scelto per il lavoro e sono partito, mi hanno trasferito al campo di Natzweiler, nella località di Leonberg. Il campo era nel territorio tedesco e lavoravamo nel tunnel autostradale. Hanno chiuso i due tunnel della strada che porta non so dove… verso una località, e hanno fatto le fabbriche lì.

D: A Dachau, prima del trasferimento, hai visto se c’erano anche dei religiosi deportati?

R: Sì, nel trasferimento alla baracca 19… Quando sono stato scelto non sono rientrato più alla baracca 19 ma sono partito alla baracca 29. Nella baracca 29 ho trovato dei religiosi, dei preti, e devo dire anche una cosa molto bella, perché queste persone… io dico sempre: uno per sopportare, per riuscire a uscire da questo, doveva avere un senso di solidarietà, un Credo, un qualcosa, o in Dio o nel politico, un senso doveva averlo per poter sopportare queste cose che son successe.  Ho visto dei religiosi veramente… veramente… Io non sono uno di quelli che si inginocchiano per ogni cosa, mi inginocchio quando c’è la necessità di aiuto e lo faccio volentieri. C’erano questi religiosi che con la mollica del pane consolavano le persone che erano veramente dei devoti, che credevano in questo, e con piccole cose hanno dato coraggio alle persone; questo l’ho visto da questi religiosi in quel momento. Poi credo che questi sono stati scelti per andare in un altro campo, perché i religiosi erano nel campo libero, nelle ultime due baracche che c’erano [con] numero pari.

Trasferito in questo campo, la prima volta che ho visto il mucchio di morti davanti a crematori. A Dachau c’erano anche caserme delle SS, non delle SS che facevano la guardia a noi ma un reparto di SS che facevano addestramento. Coi camion ci hanno portati fino ad Asburgo perché le vie ferroviarie erano bombardate. Attraversando questo posto son passato davanti al cancello dei crematori e ho visto il mucchio dei morti. Lì mi sono reso veramente conto di cosa è il campo di sterminio. Ma nella speranza di uscire c’era una speranza sempre di andare verso qualche cosa di nuovo, difatti ci hanno portato in questo luogo di Leonberg, dove hanno chiuso questi due tunnel. C’era già un campo di baraccamento con il legname, hanno costruito due blocchi in cemento e m’hanno sistemato in uno di questi due. Devo dire che nell’interno della camerata c’era anche una stufa. Si lavorava giorno e notte. Non è che uno dice “la domenica non ho lavorato e ho fatto festa”, questo è anche successo nei campi, ma qui si lavorava giorno e notte.

Il viaggio da Augsburg a Leonberg è durato un giorno, perché l’ultimo dell’anno eravamo a Leonberg. Eravamo il gruppo di Ronchi al completo, poi c’era mio padre e un gruppo di ragazzi di Prosecco, proprio amici miei, partigiani, che abbiamo lavorato insieme. Arrivati a Leonberg c’hanno preso in consegna i kapò. I kapò erano sempre i triangoli verdi, non so se in qualche campo può essere stato anche con un altro triangolo, ma la maggioranza erano triangoli verdi prelevati dalle carceri e trasportati in questo. Nel campo di Leonberg abbiamo avuto un kapò italiano, un certo Carlo, di Bolzano. E io ho detto: “Meno male, abbiamo un kapò il quale capisce la nostra lingua e possiamo anche chiedere qualche cosa.” Ma era uguale a tutti gli altri, non ha cambiato niente, perché queste persone dovevano dimostrare alle SS di essere capaci di mantenere questo gruppo che avevano in dotazione, ecco perché anche questa gente doveva farlo nella maniera… certe volte erano più brutali delle SS. Io di lui, ho una cosa sola che poi dirò… L’Appelplatz iniziava alle 5 del mattino, per chi lavorava di giorno, e alle 6 si entrava in questo tunnel. Per 12 ore non si usciva, ma la cosa [importante] era questa: era un lavoro di catena, facevamo ali di aerei, e ogni gruppo che c’era di cinque-sei persone aveva un Vormann tedesco, un operaio tedesco del luogo, credo sia stato del luogo, o non so arrivato da dove. Ma comunque questi non erano tanto cattivi perché non bastonavano, avevano solo il dovere di controllare che non [esistessero] sabotaggi sui pezzi che si mandava avanti. Ogni quindici persone c’era un SS che camminava su e giù, lungo il tunnel. Ecco la cosa… quando passava bisognava levare il berretto e quando se ne andava mettere il berretto, quando ripassava levare il berretto: questo per 12 ore. Ecco anche questo, è una cosa per denigrare la persona. Davanti le latrine c’era la sentinella, dunque non dico altro. Il lavoro dunque era 12 ore, il sabato [con] il cambio turno tornavano a lavorare giorno e notte, c’erano 16 ore lavorative. Si cambiava il turno, tanto è vero che io avevo un numero di matricola minore di mio padre e non ci siamo mai incontrati, solo vedendoci nel passaggio, perché lui lavorava la notte ed io il giorno, quando lui lavorava di giorno io lavoravo di notte. Questo ha avuto una durata di poco tempo perché mio padre è morto in febbraio, il 20 di febbraio [1945] … Difficile era chiedere qualcosa. Io ho ricevuto molte bastonate da questo Karl, molte. Però devo ringraziarlo anche – credo sia morto – perché quando mio padre si è ammalato ti tenevano nel blocco per un giorno, il giorno dopo o uscivi o dovevi essere trasportato al Revier  Sennonché, maledettamente, in quella serata hanno fatto lo spidocchiamento, cioè la disinfezione del vestiario, che non hanno fatto mai. Quella sera tutti quelli che non avevano il turno, che non lavoravano, dovevano andare in fondo: c’era una baracca, spogliarsi a nudo – parlo sempre in febbraio – spogliarsi a nudo, depositare le cose sul posto, loro venivano, prendevano questi stracci, li portavano a disinfettare e poi li riportavano. Io non ho mai capito come dopo abbiamo ricevuto la stessa divisa, questo non lo so, ma comunque l’abbiamo ricevuta. Ecco, mio padre stava male prima, e quella sera era il colpo di grazia perché poi ha preso una polmonite fulminante e la mattina è morto. A questo Karl io ho chiesto – bisognava chiedere per poter andare da una baracca all’altra baracca – ho chiesto se [potessi] accompagnare [mio padre] e m’ha detto di sì, e di questo gli dico grazie. E poi quando sono ritornato dal lavoro la mattina ho chiesto se posso andare al Revier a vedere e m’ha dato [di nuovo] il permesso, non scritto, il permesso era così [a voce, ndr], e purtroppo ho trovato mio padre che era già morto. Sono arrivato, ho chiesto a due persone che c’erano lì, e parlavano italiano, ma non so di dove erano, e m’hanno detto: “Adesso lo hanno portato via”. E dico: “Verso dove?”, “Verso su”. E son corso. Potevo anche morire immediatamente, ma non aveva nessuna importanza. Son corso verso l’alto e c’era la fossa comune. Chi non ha visto una fossa comune sarebbe giusto che la vedesse, perché nell’interno di quelle fosse ci sono…  ci sono tutte le religioni, tutte le nazionalità. Io dico sempre e lo dirò sempre: lì dentro sono i pilastri dell’Europa unita, se la dovessero fare, perché lì dentro ci sono tutte le religioni; non si distingue dall’ebreo al cristiano o allo zingaro, perché c’erano lì dentro. E io l’ho visto. Io l’ho visto.

Non so se una decina di giorni poi, mi sono ammalato di tifo… e ho dovuto andare al Revier. Ma ero tanto sicuro di andare a finire la mia vita che mi son spogliato del cappottino famoso che avevo – perché non tutti l’avevano – mi son spogliato e gliel’ho dato a un ragazzo, un partigiano, e gli ho detto: “Guarda, a me non mi serve più. Te lo do a te, tanto…”. Ecco, io sono qui e lui è morto. Anche questa è una cosa… che il destino porta a questo. Vede come sono le cose che succedono. Comunque ho fatto il tifo, non so la durata di un’incubazione di tifo, credo sarà 20 giorni come minimo. E dico sempre, qualcuno m’ha dato da mangiare, perché sennò morivo di fame. Ecco, ringrazio sempre queste persone che non ho mai conosciuto e che mai conoscerò. Però qualcuno mi ha dato da mangiare. Da lì hanno evacuato il campo.

D: Prima dell’evacuazione del campo: voi facevate parti di aeroplani?

R: Ali, le ali di aerei.

D: Sai per che fabbrica, per che ditta?

R: Lavoravamo per la Messerschmitt.

Alla sera si sentiva il cannoneggiamento, poi dicevamo “Il fronte è vicino, il fronte è vicino”, ma purtroppo la durata era abbastanza lunga. Nel momento dell’evacuazione del campo, i gruppi che potevano camminare li hanno fatti camminare con la marcia forzata, e difatti hanno fatto 220 chilometri quelle persone nelle giornate seguenti, fino a Dachau nel ritorno; perché tutti questi sottocampi dovevano rientrare nel campo principale, perché c’era un programma di eliminazione. Tanto è vero che noi non siamo rientrati a Natzweiler, che era il nostro [campo], perché Natzweiler era evacuato, essendo in territorio francese verso Dachau. A me m’hanno portato col treno con i vagoni aperti, quelli che trasportano carbone, perché ormai non eravamo in forze, e ci hanno portato a Dachau. Siamo arrivati a Dachau, non dico i morti che c’erano in quei vagoni, dico che forse per ogni vagone c’erano cinque vivi. E dovevamo scaricare questi morti, con la tristezza di non aver potuto adoperare le mani, perché eravamo delle larve, coi piedi li rotolavamo e [li] scaricavamo. Fatto questo il treno imbarca e va a Mühldorf, perché Dachau era troppo pieno. Ci portano a Mühldorf, era un sottocampo di Dachau. La matricola è rimasta quella di Natzweiler; comunque non si cambiavano più le matricole perché erano giorni di smistamento, in questi sottocampi si stava dai dieci ai quindici giorni.

D: L’altra matricola che tu avevi quale era?

R: 40.184.

D: Ed era quella che ti hanno dato al campo…?

R: Di Leonberg, al [sotto]campo di Natzweiler. Di Mühldorf ricordo poco, sono ricordi di una ventina di giorni della mia vita […] A Mühldorf c’erano dei baraccamenti a punta, baracche piccole, son stato non so se cinque o dieci giorni, non saprei, e ci hanno trasferito in un altro sottocampo di Dachau, a Kaufering. Kaufering, lo dicono nei libri, era uno dei sottocampi più terribili. In tutto questo periodo di trasferimenti non c’era da mangiare, non si mangiava. Arrivati a Kaufering, c’erano dei baraccamenti sottoterra: io credo che una volta [ci fossero] dei depositi di munizioni o qualche cosa del genere. E c’erano dei baraccamenti dove ci stavano sedici persone. Non c’erano letti, per terra c’era della paglia sparpagliata, poi non c’era niente più. E arrivati c’era un’erba attraverso tutti i coperchi delle baracche [che emergevano per] un metro circa da terra, il resto era sotto. C’era l’erba verde, il giorno dopo non c’era più niente…  nemmeno… Io non so, abbiamo rosicchiato le radici [tanto che] per 20 anni l’erba non [sarà cresciuta] più, abbiamo mangiato tutto. La cosa più triste era che non entravano più le SS nell’interno, erano solo all’esterno, e ripartivano il mangiare.  Prima c’erano delle scodelle con cui ci davano le rape calde, lì invece ci davano del caffè, io credo [fosse] erba bollita. Ecco la differenza: a Dachau avevamo il pane diviso in quattro, a Leonberg avevamo il pane diviso uno a sedici. Devo dire, la sacra onestà del deportato che ripartiva questo pane: in ogni baracca c’era uno che doveva ripartire [il pane], che era già tagliato, in maniera che il fondo della pagnotta arrivava oggi a uno e domani ad un altro, non perché era più voluminosa ma perché era il pezzo più duro e durava di più.

A Kaufering sono rimasto una quindicina di giorni. Hanno evacuato il campo, hanno chiamato tutti gli ebrei fuori, perché c’erano degli ebrei fra noi. Noi eravamo tutti amici, io in quel senso nel campo non ho avuto delle brutture fra i deportati, ho avuto sempre cose belle fra i deportati. E ho avuto anche questa, di avere un ragazzo con noi nella stessa baracca; perché, quando moriva una persona bisognava spogliarla, bisognava trascinarla vicino alla porta, piegare il vestiario – queste giubbe, come se [fosse] oro – col numero verso l’alto, e appoggiarlo sul petto della persona. Venivano a prendere prima il vestiario, non il morto, e segnavano con una matita blu il numero [di matricola] sul petto. Ecco, voglio dire, quando uno va alla ricerca del proprio morto nelle fosse comuni, come può saperlo? Fatto questo, abbiamo detto a questo ebreo… perché le cose peggiori succedevano agli italiani perché traditori, ai russi perché russi, agli ebrei perché erano ebrei; tutto il resto non è che finiva bene, tutto il resto si risparmiava qualche bastonata, ne riceveva meno. E abbiamo detto: “Guarda, mettiamo la tua giacca al posto di questo e ti vestiamo con questa nostra giacca.” Difatti lo abbiamo fatto. E quando eravamo in piedi per la selezione che hanno chiamato tutti gli ebrei, lui è uscito automaticamente. È uscito perché si è sentito ebreo, perché ormai per tutto il periodo era ebreo, e l’ha fatto. Li hanno ammazzati tutti. Hanno scoperchiato una delle baracche più grandi che c’era al centro del secondo campo – c’erano due campi separati, il secondo era un baraccamento più grande, era una fossa comune – e poi hanno dato fuoco, [lasciando] una scritta: “Attenzione tifo”. A noi ci hanno imbarcato su un treno, sempre a vagoni aperti, e ci hanno trasportato lungo la ferrovia. C’era un treno blindato che sparava sul fronte e ci hanno messo come scudo. Gli americani erano arrivati a mitragliare questo treno, ma certo hanno mitragliato il nostro che non si finiva più.

Quando uno dice che non ha paura non credergli mai. Mai. Perché la paura fa il coraggio. In quel momento ci siamo tutti raggruppati verso gli angoli di questi vagoni, perché non avevamo la forza di scavalcarli. Certo, il gruppo che era sotto, erano morti, e ci siamo automaticamente rialzati per poter scavalcare la balaustra del vagone. I primi che sono caduti sulla ghiaia si sono spaccati. Io sono caduto su un mucchio di morti… ho avuto la fortuna. Ho avuto la fortuna anche di non approfittare del momento di andare verso il bosco, che c’era un boschetto vicino. Mi sono rintanato sotto le ruote dei vagoni, perché sempre mitragliavano, e i tedeschi, invece di mitragliare sugli aerei, hanno iniziato a mitragliare su quella gente che si sparpagliava, così ci sono [stati] dei morti. Io mi sono salvato perché eravamo quattro persone e abbiamo fatto un ragionamento di ricercare qualcosa da mangiare sul treno blindato, perché il treno blindato aveva due o tre vagoni di roba rubata. C’erano ad esempio, nel vagone dove siamo riusciti a salire – ma con molta difficoltà perché non era così facile risalire – c’era metà vagone di materassi. Materassi nuovi… e dei cassoni, che non so cosa c’era dentro. Man mano che si vede che il treno viaggiava questi materassi son venuti in avanti, e da un lato c’era uno spazio: allora ci siamo infilati nell’interno. Siamo stati in piedi perché c’era uno spazio così [stretto], dietro, e siamo stati lì. La cosa più triste, la cosa più brutta, è successa dopo. Quando hanno spostato il treno, hanno dato fuoco con benzina al treno nostro: e c’erano degli urli, tremendi, tanto erano grandi che se si è passato il fronte noi non ci siamo accorti. Alla mattina – io credo la mattina, poi può essere stato due giorni, non lo so – c’era un silenzio, ma un silenzio da tomba, un silenzio che ha fatto più paura delle urla che c’erano la notte. E allora decidiamo di uscire. Sempre strisciando a quattro [a carponi, ndr] non a due piedi, arriviamo fuori e ci mettono il fucile sulla testa. Abbiamo detto: “Adesso è la fine”. Poi comincia a levarci fuori da questi buchi [tra i] materassi, e inizia a piangere. Era un negro, era un nero… non finirò mai di ringraziarlo. Lui piangeva, noi piangevamo. Non abbiamo capito perché. Non sapevamo ancora che era uno che aveva iniziato a salvarci. Tirati fuori, finito a piangere, ci ha preso tutti e quattro nella cabina del camion e ci ha portato immediatamente – c’era un centro di raccolta in fondo, si raggruppavano da altri campi – e ci ha portato direttamente a un ospedale. C’era un monastero, nelle vicinanze – tutta questa cosa si sta svolgendo in una trentina di chilometri da Monaco – e questo monastero è stato preparato a un lato [come] ospedale per i deportati, e difatti ci hanno immediatamente ricoverato. Nell’interno ci hanno disinfettato, ci hanno levato gli stracci che avevamo, che non abbiamo più recuperato, e ci hanno messo in piedi sul letto perché… Io ho incontrato il prete di quel momento, dopo venti anni che sono andato su, e lui m’ha chiesto: “Da dove sei arrivato qui?”. Ho detto: “Sono arrivato dal treno…”. Ha detto: “Io so che vi hanno portato [in] pochissimi. Vi abbiamo dovuto tenere a sedere perché vi avevamo adagiati e vi cadevano gli occhi nell’interno”. Dunque, eravamo all’ultimo stadio, veramente. Ho avuto fortuna di mangiare poco, comunque regolare, quello che m’hanno dato, ma c’era gente che non si nutriva che solo con [la] flebo – io era la prima volta che vedevo [una] flebo, che prima non si sapeva nemmeno… – li nutrivano con questo perché l’intestino non lavorava più.

Ho fatto tre mesi d’ospedale. Quando mi chiedevano il nome e cognome ripetevo il numero. Non sapevo chi sono, non sapevo da dove arrivo né dove sono, ma mi sono rimasti nella testa – e che questo me lo sto chiedendo… – i nomi dei posti! Ma non dico di Kaufering, non dico di Dachau, non dico di Schaffhausen, il punto dove c’era il treno. Che poi io l’ho visitato dopo 25 anni, e ci sono le fosse comuni [dove] c’era il treno, ci sono le lapidi sulle fosse comuni solo in ebraico, perché le hanno fatte gli ebrei. Sulle lapidi c’è una bellissima scritta, che me la son fatta tradurre dal rabbino, perché c’è una scritta molto importante. C’è una scritta che dice: “Il viaggiatore passando si chiede cosa è questo: qui sono sepolte le ossa sacre dell’ultimo minuto di guerra”. Questo è scritto sulle lapidi.

Mi dispiace tanto di non aver avuto la forza… Quando mi sono ricordato il nome e cognome – che poi l’hanno scritto immediatamente perché si perdeva la [memoria] nuovamente, non rimaneva – è quando ho incominciato a ragionare e a camminare che questo nero veniva giornalmente all’ospedale a visitarci, e non gli ho chiesto il nome e il cognome. Io, la notte quando dormo, perché dormo poco, me lo vedo. Me lo vedo come quel giorno che l’ho visto. E non l’ho chiesto, non l’ho chiesto.

La cosa più triste ancora è stata anche all’ospedale. È stata la questione di una donna. Una donna di Rodi, parlava l’italiano. Eravamo 4 cristiani e 500 ebrei in questo ospedale, e fra questi c’erano due ragazzi di Rodi che, quando si è iniziato a camminare – io aiutavo a fare la barba alla gente, facevo qualcosa, tanto per fare qualcosa se no diventavo pazzo – m’hanno chiesto, questi due ragazzi, essendo questa persona da Rodi, se [potessi] andare a fare compagnia a questa ragazza che era sola, perché purtroppo questa era isolata. Era peggio che in campo perché nel campo era con altre persone ma lì era l’unica donna, isolata in una stanza. E difatti andavo. Andavo molto volentieri per stare insieme, per parlare, e anche per poter capire tante cose sulle questioni delle donne, che poi fra noi ci si parla molto apertamente, specialmente in quei luoghi. La cosa triste era questa, che quando ha iniziato a stare meglio questa ragazza, ha detto: “Riccardo, guarda… – ma si parlava di tutto, ecco, ma dico queste parole – pensi che io sarò donna qualche volta?”, che si è scoperta, c’erano quattro ossa… giuro, quattro ossa. E ho detto: “Sì, senz’altro, vedrai…”. Difatti, quando sono andato via, quando sono partito da quel posto, già camminava in piedi. Spero che viva ancora oggi, ecco.

D: Riccardo, quando sei rientrato in Italia?

R: Io Sono rientrato in agosto [1945]. Però, se mi permettete voglio dire una cosa che mi ha fatto diventare una persona nuovamente. Perché credo di aver assorbito tanto di quell’odio in quei posti, verso questi torturatori. Perché non parlo di tedeschi, perché non si può dire tedeschi, dobbiamo sempre dire SS. L’odio accumulato, avevo paura di non poterlo smaltire mai più. E la cosa che m’ha fatto pensare di diventare una persona nuovamente è stata al momento quando nell’ospedale… c’era un reparto dove c’erano i tronconi di persone, tronconi militari, che erano senza mani senza piedi, senza cose… E quando ho iniziato a camminare io ho voluto vedere questo, è una cosa che m’ha tentato a entrare, non so perché… è così il destino. Quando sono entrato, vedendo, queste persone m’hanno fatto pietà. E in quel momento ho detto: “Ecco, sono ancora una persona”. Queste cose… tutti dovrebbero vedere, per capire cosa può portare l’odio e cosa può portare una guerra. Perché l’odio verso di noi era tremendo, ecco. E spero, speravo sempre che mai più [succedessero] queste cose, questo di odiarsi, perché è la cosa più brutta, perché è la cosa che sta portando a quello che ha portato a noi. Ci odiavano e ci hanno fatto odiare dalla gente che non aveva né pena né colpa, perché i tedeschi, loro ci presentavano come dei criminali, a noi. Non ci presentavano come dei prigionieri o persone che erano imprigionate per un qualcosa, ma ci presentavano come criminali, e difatti i tedeschi civili avevano paura di noi, perché gli hanno inculcato nella testa queste cose. E difatti ci portavano dei ragazzini a tirarci, a sputarci, a [fare] tante cose… ma cose che, purtroppo, quando si è in una fase di un nazismo, come è preparato… succedono queste cose.

D: Riccardo, tu in questi anni sei mai stato intervistato?

R: Sì, sono stato intervistato, sì. Sì, ho fatto delle interviste. Ma io per molto tempo non si poteva… perché era difficile ricordare tante cose, perché un’intervista ti sta portando nel campo, rivivi il campo e poi non stai bene … non stai bene. Ma poi ho detto: se non testimoniamo noi che siamo i sopravvissuti? Dobbiamo farlo perché i giovani devono saperlo, perché non possiamo dire: i giovani sono così, non capiscono e non sanno. Non sanno perché non possono saperlo se non lo si spiega. Io vado anche nelle scuole, mi chiedono e vado. Ho fatto un’intervista a Roma con 2000 studenti, addirittura con sardi, e ho avuto delle grandissime soddisfazioni. Delle soddisfazioni che i ragazzi hanno capito. Ecco, quando capiscono i giovani è una grande soddisfazione. Certo, ero distrutto alla fine degli otto giorni che ero fuori, però non mi son lamentato per questo, senz’altro no.

D: Del ritorno cosa ti ricordi ancora?

R: Del ritorno mi ricordo tante cose perché poi il nostro ritorno non era facile. Credo, e qualche volta penso, che se [avessero] potuto ci avrebbero portato di notte che nessuno ci avrebbe veduto… un tiro di pistola, un tiro di fucile o di mitra… Ecco, questa è la cosa più triste. Quella, e vedere morire di fame. Questa è anche triste, perché morire di fame è una cosa …la persona [denutrita diventa] molto più di una bestia e diventa… poi ve lo racconterò senza essere registrato… non ha più un pensiero, non ha più una voglia di vivere perché non sa che è ancora in vita. [sono stato] una ventina di giorni in questo ospedale, non un giorno, e non sapevo chi sono, non sapevo…

D: E come è tornata poi la coscienza?

R: Si è ripresa con calma, ma con molta calma. E arrivavo a dire: io sono Goruppi Riccardo. Poi mi perdevo, non sapevo più chi sono, non avevo ancora da stringere le mie meningi, ecco. E quando sono riuscito a capire chi sono e iniziare a camminare a due… perché vi dico, una cosa molto triste in ospedale…

Tardivo Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Io mi chiamo Mario Tardivo e sono nato il 4 novembre 1927 a Eraclea, provincia di Venezia. Poi per ragioni di lavoro mio padre si è trasferito in questa zona qui [Ronchi dei Legionari, ndr] nell’anno ’32-‘33. Nella mia famiglia eravamo tre fratelli, e tutti e tre, salvo io, in misura minore, collaboravano, erano effettivamente dei partigiani. Io, così, qualche volta li aiutavo. Il 24 maggio del ‘44 io stavo in camera a studiare perché erano gli ultimi giorni di scuola e dovevo sostenere qualche esame, per cui alle 5 del mattino ero già sveglio. Ho inteso dei rumori di macchine, motori, mi sono affacciato alla finestra della camera e ho intravisto benissimo automezzi militari, soldati delle SS, civili… poi abbiamo saputo che erano collaborazionisti di fascisti, collaboravano con i tedeschi a Trieste. Dopodiché loro sono scesi da queste macchine e sono entrati a casa mia. Io avevo chiesto ai miei fratelli se in camera dove dormivamo c’era qualche arma “perché ci sono dei tedeschi”. E loro mi hanno detto: “No, armi non ci sono, stai tranquillo”. Loro sono saliti in camera col mitra spianato e ci hanno ordinato di scendere. Tanto è vero che poi, quando eravamo scesi al piano terra – il numero era maggiore di questi tedeschi e soldati vari – avevano detto anche a mio padre: “Anche lei si vesta e venga via.” Sennonché per fortuna uno dei presenti, di questi civili collaborazionisti, ha detto: “No, no. Il padre non c’entra!”, di modo che noi tre ci hanno fatto salire su una camionetta e ci hanno portato lungo una strada, il viale dove noi abitavamo. Man mano che questa camionetta avanzava, scortata di automezzi blindati eccetera, fermavano e entravano dentro in determinate case. Al che mio fratello, quello maggiore, aveva detto questo: “Guarda che qui ci deve essere stata una spiata”, e io gli ho chiesto: “Ma come fai a sapere?”. “Perché loro si fermano nelle abitazioni mirate, cioè dei compagni che io conosco”. Da lì abbiamo capito che era sì un rastrellamento, però ben organizzato, con nominativi ed altro. Ma quest’azione nel paese era stata fatta praticamente in tre zone: nella zona dove abitavo io – una frazione, si chiama Vermegliano – e poi un’altra parte, verso un altro borgo vicino a Redipuglia e poi nel centro. Praticamente loro hanno fatto questo rastrellamento, questi arresti, sono tre zone ben distinte dov’era questa concentrazione di collaboratori e partigiani. Da lì ci hanno portato al Coroneo di Trieste, le prigioni, e siamo rimasti per alcuni giorni senza sapere niente, la causa, perché… Il terzo o quarto giorno ci hanno fatto scendere dai bracci dov’eravamo rinchiusi, ci hanno fatto scendere al piano terra. Lì ogni tanto chiamavano uno di noi dentro una stanza. Entrando nella stanza abbiamo capito e visto chi erano questi due che poi hanno fatto la spia. E questi che hanno fatto la spia erano dei partigiani locali – allora non avevamo mai capito perché, e ancora io non ho mai saputo perché chi c’ha una versione chi un’altra – che erano passati dall’altra parte. Noi, rimanendo dentro in Coroneo, si vedeva che spesso veniva chiamato qualcuno, non del nostro gruppo ma di altri arresti; li portavano agli interrogatori e venivano su malconci. Per noi o la libertà o finire in Germania. Ma noi credevamo che andare in Germania si avrebbe lavorato come liberi lavoratori, ma non sapevamo dell’esistenza dei Lager, naturalmente. Così un pomeriggio hanno chiamato dei nomi: “Questi qua domani mattina partiranno per il trasporto in Germania.” Eravamo, come dire, felici, nel senso di andare fuori dalle carceri, perché era pericoloso rimanere dentro, anche perché qualche volta prelevavano come ostaggi.

Sennonché alla mattina, prima di uscire dalle carceri, eravamo circa un gruppo di 150 persone credo… perché dopo hanno raccolto altra gente alla stazione di Gorizia, dalle case di Gorizia, poi siamo arrivati con un convoglio a Dachau, più o meno sulle 300-350 persone. Comunque, ritornando alla mattina, prima di uscire dalle carceri si sono presentati due funzionari, noi eravamo tutti raccolti in un grande vano, un corridoio, hanno fatto dei nomi, e hanno chiamato fuori, se ricordo bene 7-8 nomi, tra i quali anche mio fratello maggiore. “Questi qua – han detto – non partono più”, e son rimasti lì in Coroneo. Poi al ritorno dalla Germania abbiamo saputo che tre dei nostri compagni, mio fratello e altri due di questi otto che avevano chiamato fuori, il 22 giugno del ‘44 li portarono alla Risiera [di San Sabba] e lì finì la loro storia. Io naturalmente di tutto questo non sapevo niente perché ero in campo di concentramento, però ogni tanto arrivava qualche trasporto da Trieste e chiedevo ai compagni: “Voi venite da Trieste? Bene, sapete qualcosa di Tardivo Arcù?” – si chiamava Arcù mio fratello – “No, non sappiamo niente”. Nessuno sapeva niente. E così fino al ritorno non sapevo quale fine avesse fatto mio fratello, e dopo abbiamo saputo, ecco, che era finito nella Risiera. Naturalmente il nostro trasporto è avvenuto col solito sistema: una mattina, usciti dal carcere del Coroneo, ci hanno portati alla stazione di Trieste e lì ci hanno caricati su questi vagoni merci e siamo partiti. Siamo arrivati poi a Dachau il 2 giugno [1944], di notte. Se ricordo bene siamo partiti due giorni prima, abbiamo trascorso tre giorni e due notti in treno: quelli erano i tempi geologici per i trasporti, perché per noi il trasporto doveva dare la precedenza a tutti gli altri treni, per cui noi sostavamo anche delle ore in qualche binario morto nelle stazioni.

A Dachau siamo arrivati di notte. Credo che quello sia stato proprio il sistema stabilito dalle SS per far sì che i civili non vedessero questi prigionieri. Per cui arrivati dentro – poteva essere mezzanotte, le undici, il campo era tutto illuminato – lì ancora non avevamo capito. Sennonché quello che ci ha fatto capire il tutto è stato l’indomani mattina, perché l’indomani mattina è cominciata la spoliazione, la depilazione, la disinfezione. Ci facevano entrare dentro queste docce, poi quando si usciva depilati, rasati, eccetera, ci davano l’abito del prigioniero, che noi vedevamo lì girare… qualcosa non quadrava. All’uscita di questo vestimento eccetera ci chiedevano i dati, e loro poi ci assegnavano il nostro nuovo nome, ci battezzavano con un numero. Il mio numero allora – il 2 giugno questo, quando sono entrato, m’hanno registrato il 3 penso, il 3 quella mattina – il mio numero era, ed è tuttora per me ancora vigente, come un nome, una distinzione che segna anche in certo qual modo la data dell’entrata, perché man mano aumentava il numero, e man mano capivamo chi era entrato in quel mese e in quell’altro mese. Il mio numero era 69.725, però io l’ho impresso in tedesco, perché… perché conoscere il proprio numero in tedesco voleva dire, qualche volta, riuscire ad evitare certe violenze. Perché loro chiamavo il numero, uno non sapeva che il suo numero era quello lì perché non lo ricordavano, per cui nel momento in cui loro si accorgevano chi era il titolare di quel numero lo bastonavano perché lo consideravano un sabotaggio o che so io. Il mio numero in tedesco era questo: neunundsechzig siebenhundert fünfundzwanzig. E questo è un numero… anche se a noi non è stato marcato sul braccio come quelli, gli ebrei e non che entravano ad Auschwitz, è marcato comunque, è sempre fisso. Ecco, dopo di lì, qualche giorno dopo, tutto questo gruppo è stato di nuovo… come dire, messo a disposizione, come un ufficio di collocamento dentro nel campo di Dachau, il quale destinava, a seconda della richiesta – questo sempre a posteriori ho capito – richiesta dell’industria: a loro servivano cento operai alla BMW, mandavano cento operai alla BMW.

D: Mario, ti ricordi in quale blocco ti hanno messo lì a Dachau?

R: Tante volte io l’ho chiesto a Mario Candotti, perché si ricordava lui tutto, adesso… Il blocco ancora adesso non ricordo se era il 13 o… Quando siamo andati a rivedere di nuovo il campo lui mi diceva: “Mario, eravamo qui”, ma è un numero che non mi è affatto rimasto. Non lo so ancora, se qualcuno mi chiede non lo ricordo. Comunque era il blocco della quarantena, erano due blocchi. Si entrava dentro a questi blocchi, queste due baracche erano chiuse da un portone. E dopo, sistemati lì… naturalmente non si lavorava, si stava lì… Un giorno è venuto uno di Monfalcone, un prigioniero anche lui – adesso non ricordo il nome, poi lo ricorderò, sono andato a trovarlo qualche tempo fa – era impiegato tecnico ai cantieri di Monfalcone. È venuto da noi nel blocco della quarantena, si è presentato, naturalmente con l’autorizzazione della SS. Questo monfalconese – Gorlato si chiama, è ancora vivente, 92 anni, sono andato l’altro giorno a trovarlo – lui in cantiere a Monfalcone faceva l’impiegato tecnico, in più faceva anche l’interprete, era un poliglotta, sapeva diverse lingue, francese, russo, tedesco. E lui ci ha raccomandato, ci ha dato delle informazioni, come dobbiamo comportarci, “perché se non volete andare incontro a dei guai non fate questo…”. Anzi, ci aveva detto: “Guardate che voi – ha ricordato Dante – voi che entrate perdete ogni speranza, e qui dovete ricordarvi che avete tutti i doveri e nessun diritto”. E così praticamente ci aveva dato delle coordinate, che poi sono servite ben poco perché bastavano delle sciocchezze per essere puniti.

Dopodiché questo gruppo… loro ci hanno destinato un compito, quale lavoro dovevamo svolgere. Allora, al momento della dichiarazione, loro chiedevano: “Che tipo di lavoro facevi quando eri a casa?” Io facevo lo studente, ma siccome mio fratello aveva dichiarato che era operaio – e difatti lavorava in cantiere a Monfalcone – avevo detto anch’io “operaio”, così c’era la possibilità di stare ancora assieme. E difatti siamo rimasti assieme per un mese circa, tutti e due, con altri compagni, destinati alla lavorazione meccanica alla BMW, lì ad Allach. Da Dachau ad Allach, questo dopo quindici giorni, da Dachau ad Allach. Ad Allach ogni mattina dovevamo andare a lavorare in fabbrica, dovevamo fare un percorso di 2-3 chilometri dentro una strada recintata, accompagnati ai lati dalla SS sino al posto di lavoro. 12 ore si facevano di notte – quando c’era il turno di notte, la settimana della notte – e 12 ore di giorno, 6 di mattina 6 di sera, 6 di sera 6 di mattina. E lì ad Allach avevano costruito questa fabbrica all’interno di una foresta, perché c’erano tanti pini altissimi, nascosta…

Però io lì non sono rimasto per tanto tempo. Dopo un mese, io e il mio compagno Mario Candotti, che abbiamo trascorso tutto il periodo insieme, ed altri compagni di Ronchi, siamo stati trasferiti a Markirch. Markirch è una località dell’Alsazia, e prima dell’occupazione tedesca, l’annessione dell’Alsazia, si chiamava Santa Maria delle Mine. Tuttora si chiama Santa Maria [delle Mine], adesso ha riacquistato il nome primitivo. Il nostro reparto è stato trasferito in quella località, e in quella località esisteva già una galleria lunga 5-6 chilometri. Questa galleria era adibita come strada, un tracciato di autostrada, poi i tedeschi l’hanno chiusa e hanno inserito dentro le macchine utensili, di modo che questo reparto lavorava indisturbato 24 ore su 24.

D: Che ditta era?

R: La BMW.

D: Che parti facevate voi?

R: Io per esempio… Il mio lavoro consisteva di lavorare su una rettifica, cioè inserivo il pezzo nella macchina, le macchine erano già predisposte per quel tipo di lavorazione. Io qualcosa di tecnologia e di lavorazione delle macchine avevo già acquisito a scuola, all’Istituto Tecnico, e ho capito che tutte le macchine… era come una lavorazione a catena, e il pezzo che io dovevo operare in quella fase poi passava a un’altra macchina successiva, sino alla fine. Quando il pezzo meccanico era finito – un pezzo che rettificava le canne, quelle che comandano le punterie dei motori – andava a finire al controllo.

Però abbiamo fatto anche un po’ di sabotaggio. L’ho fatto io, l’avranno fatto anche gli altri. In questa galleria era molta umidità, perché la volta era in pietra, per cui, per quanto loro [avessero] tentato attraverso tubazioni di acqua calda di abbassare quest’umidità – soffittare parte della galleria, eccetera – l’umidità c’era sempre, e parecchia. E allora, quando sistemavo questi pezzi meccanici finiti dopo dentro nelle cassette appropriate per sistemarli, dovevo ungerli completamente, ma io col pennello… soltanto la parte superiore. Poi partivano, non so dove andavano, forse a 300-400 km presso un’altra fabbrica dove avveniva il montaggio. Noi facevamo i particolari, e l’assemblaggio avveniva da un’altra parte. E lì è successo che una notte mi sono addormentato, perché stavamo sistemando le macchine lungo questo percorso – queste macchine utensili, pesantissime, con squadre eccetera – ero stanco, mi sono appoggiato per un momento a riposo, un momento di pausa… ci davano da mangiare di notte, e sui quei tubi dove passava quest’acqua calda… e io quei trucioli che eran lì, li ho disposti sopra il tubo e mi sono addormentato. Al risveglio c’era un silenzio assoluto. Per me era un silenzio assordante perché era terribile in quel momento, dico: “Qui io sono solo, gli altri sono usciti da quanto tempo?” E allora mi son messo a correre, con gli zoccoli, puoi immaginare come si corre con gli zoccoli ai piedi, senza calze, senza niente, infilati dentro, gli zoccoli andavano per conto loro. Sono arrivato, stavo raggiungendo l’uscita, o l’entrata, a seconda… io uscivo, gli altri entravano, e già mi dicevano nelle varie lingue: “Adesso sono fuori che ti aspettano per la punizione”, perché ritardavo tutto il ritmo. Difatti fuori, lungo la strada, i miei compagni erano già incolonnati e aspettavano me; allora quello lì, uno in divisa delle SS o Wehrmacht, non ricordo bene, si è scagliato contro di me e ha cominciato a pestarmi. Allora io mi sono buttato per terra, mi sono difeso a riccio, mi sono chiuso, “tu pesta, dopo vedremo”. Ma non ha insistito molto perché in quel momento – ho immaginato io – entravano dentro degli operai civili, per cui quello spettacolo lì in mezzo alla strada… forse sarà stata la causa che lo ha fatto smettere. Comunque, ha rilevato il mio numero, per cui mi aspettavo la famosa punizione “fünfundzwanzig, che voleva dire venticinque colpi sul sedere; il corpo contundente poteva essere un cavo di corrente elettrica, poteva essere un bastone, poteva essere qualsiasi oggetto, bastava picchiare. Sennonché l’ho passata liscia, il mio numero non è stato chiamato, per cui è rimasto lì, ecco.

D: Il campo, rispetto alla galleria, era distante molto?

R: Ecco, è interessante questo. Come dicevo, in Alsazia noi sappiamo che sono dei francesi, lì parlavano le due lingue benissimo, difatti avevamo anche un kapò alsaziano, ma ancora era venuto da Dachau sempre insieme a me e faceva l’interprete di francese. La distanza che intercorreva tra il campo e la galleria… boh, 2-3 chilometri. Ma noi eravamo alloggiati in un campo fatto su d’emergenza, appunto per quel motivo lì. Lì era lì una vecchia fabbrica di carta, c’erano delle vasche in legno, c’erano degli assi con delle pulegge, una roba obsoleta, chi sa da quanti anni abbandonata: al momento hanno approfittato per mettere un recinto e mettere dentro noi. Noi dovevamo attraversare tutto il paese, e il paese era conformato in maggior parte di un lungo tragitto lungo, una lunga strada, come un viale, percorso di 2-3 chilometri come dicevo, ma ai lati erano poste delle case e noi vedevamo le persone che attraverso le persiane osservavano questi prigionieri. E qualche volta sul ciglio del marciapiede era messa qualche sigaretta, però io non fumavo per cui non mi sono avvicinato: era sempre pericoloso che quello delle SS… per cui credo che nessuno… io non ho mai visto nessuno raccogliere quello che loro mettevano.

D: C’erano altri italiani con te? Eravate in molti italiani?

R: Eravamo molti italiani. Tanto è vero che lì hanno impiccato un italiano. Era uno di quelli militari che i tedeschi avevano deportato da Gaeta, da quelle carceri militari. Difatti i militari… io quando sono entrato a Dachau, come ho detto prima, avevo il numero 69 mila settecento e rotti…

D: Mario, oltre al numero cosa ti hanno dato?

RISPOSTA: Oltre al numero mi hanno dato anche il triangolo. Noi avevamo il triangolo di colore rosso, perché loro avevano un’organizzazione del Lager… era organizzato in maniera tale che ogni prigioniero si poteva distinguerlo [secondo] la causa per cui era stato deportato: allora c’erano i politici; i verdi erano i criminali, che erano in prevalenza delinquenti comuni, in prevalenza erano tedeschi; poi c’erano gli asociali, con il nero; poi c’erano i gay che avevano il colore rosa, e così via. Poi c’erano naturalmente gli ebrei che avevano la stella di Davide a sei punte. Alcuni avevano oltre alla stella di Davide – gialla naturalmente – sopra la stella di Davide anche il triangolo rosso. Alcuni, ma molto rari. Ciò voleva dire politico ed ebreo. Lì dentro queste erano delle regole che poi valevano sin che valevano, perché dentro, anche tra i politici – bisogna dire la verità – non è detto che erano tutti politici. C’erano politici dell’Istria, gente che aveva combattuto il fascismo, magari fatto carcere o confino. Mio fratello è stato ucciso alla Risiera, ma se veniva deportato era un ex perseguitato politico sotto il fascismo, che l’avevano processato al Tribunale speciale di Roma. Il triangolo rosso voleva dire per loro “politico”, perché se andavano dentro e prendevano tutti quanti, buttavano tutti politici dentro in un carcere… poi si sa che in carcere stavano dentro anche per tutt’altri motivi, ladri, od altro, che so io… assassini, cioè per altri crimini. Il rapporto tra politici non è detto che era un rapporto grande, come di compagni, erano politici e non compagni.

D: Stavi parlando di questi militari…

R: Sì, questo militare, che io conoscevo di vista, dopo che lo hanno impiccato ho saputo chi era naturalmente. E allora portavano i militari… quando sono entrato a Dachau i primi due numeri sull’ordine dei 45 mila, i primi due numeri andavano nel numero delle migliaia. Questo voleva dire in settembre – io sono entrato i primi di giugno [1944] – era già nel 69 mila, cioè 24 mila erano già passati, per lo meno registrati nel campo in quel periodo [settembre 1943-giugno 1944, ndr]. A questo qui cos’è successo…È successo che un giorno un compagno nostro che aveva funzione di interprete, un trentino, ex combattente in Spagna – questo sapeva lo spagnolo, il francese naturalmente, e il tedesco, essendo trentino – l’hanno preso, han fatto il nome, il cognome, di questo italiano che ha tentato di fuggire. A uscire dalla galleria e dal campo eravamo in mezzo al bel posto, bellissimo come villeggiatura, [c’erano] boschi, eccetera: ciò voleva dire che aveva la possibilità di nascondersi. Ma come poteva uno nascondersi quando aveva la Straße, quella famosa passeggiata con la macchinetta che facevano, ti tagliavano i capelli a zero, la strada si dice… Comunque, questo qui, poveretto, ha tentato di fuggire e lo hanno preso. E allora ci han detto: “Guardate, è stato preso…. verrà impiccato”. Erano passati diversi giorni, otto, non so, diverso tempo… “quelli hanno detto così tanto per farci prendere paura, non è vero”. Ma difatti non lo vedevamo quel disgraziato. E una mattina, in Platz appel [Appelplatz] abbiamo visto le luci e la forca; la forca era sempre appoggiata a un lato di una baracca, c’era sempre disposto il piedistallo che all’occorrenza lo infilavano dentro. E così questo qui lo hanno impiccato, e lui prima di morire ha detto più o meno queste parole: “Sono italiano, mi chiamo così e mi uccidono perché ho tentato… salutate i miei…”. Un mio compagno – un certo Piero Maieron che ha scritto un libro – lui riporta esattamente il nome di questo che è stato impiccato.

Nel frattempo gli americani avanzavano. Gli americani sono sbarcati nel giugno del ’44, noi lì eravamo a luglio-agosto, nel periodo in cui avevano fatto anche l’attentato a Hitler. Passo a questo [episodio] e dopo ritorno. Come abbiamo saputo dell’attentato? Io avevo fatto il turno di notte, alle 3 del pomeriggio eravamo già svegli per andare a lavorare alle 6 di sera e dei russi vicino a me dicevano: “Hitler Kaputt! Hitler Kaputt!”. Bene, Hitler Kaputt, ma queste notizie come arrivano? Quando ci hanno accompagnati al lavoro abbiamo capito che era vero, o morto o no, che qualcosa era successo perché i militari, gli addetti a accompagnare i prigionieri al posto di lavoro, avevano sempre il fucile posto [sulla] spalla, ma quel giorno ci hanno fatto vedere di aver caricato la pallottola in canna e il fucile lo tenevano in mano, perciò temevano qualche sommossa, che so io… e questo è durato quel giorno lì. L’indomani era ritornato di nuovo come prima, perciò abbiamo capito che o era una frottola o qualcosa del genere. E così è andata male, perché finiva la guerra altrimenti, meno morti eccetera.

Dopo, fine agosto, primi di settembre, gli americani procedevano l’avanzata in territorio francese, allora hanno ritenuto opportuno trasferire di nuovo queste macchine e tutto il reparto di nuovo ad Allach. Ad Allach siamo rimasti lì insieme a questi miei compagni, numerosi compagni arrestati a Ronchi, siamo restati lì un po’ di giorni senza lavorare. Dopodiché loro avevano ritenuto opportuno, frattanto che sistemavano le macchine, di utilizzare questi prigionieri, per cui ci portavano a fare dei lavori più svariati: ho lavorato alla Dickarhof, che voleva dire una grande ditta che faceva lavori, appunto, dove c’era questa fabbrica della BMW, che come dicevo prima…  Mio fratello è rimasto sempre lì! Lui non si è mai mosso da lì, ha sempre lavorato lì dentro in questi grandi bunker, di uno spessore di cemento armato rilevante. Poi io ho dovuto spingere dei carrelli con del beton per costruire queste cose qui… Tanto è vero che un giorno, era freddo e, spingendo i carrelli, mi bagnavo le mani e sentivo molto freddo, allora avevo avvolto le mani con della carta di sacchi di cemento legata col fil di ferro, e spingevo, mi proteggevo le mani dal liquido; se non che la presa non era tanto buona, e dove c’era un punto di svincolo di questi carrelli Wilson a scappamento ridotto, piccolini, sopra questa piastra circolare che dovevo ruotare di 90 gradi, mi è scappato il carrello e si è ribaltato il tutto. Ho bloccato il traffico, diciamo, e lì uno delle SS che era vicino ha fatto un cenno al cane lupo che avevano; ma erano talmente ben addestrati che questo cane prima si è buttato sopra di me e mi ha buttato per terra e dopo mi ha bloccato qui [alle caviglie] tenendomi fermo, sino a quando non ha avuto l’ordine di lasciarmi. Anche in quel caso ho avuto paura delle conseguenze. Lì era terribile, molto terribile lì a Dickarhof. Un mio compagno di Ronca [dei Legionari], che poi non è ritornato, all’appello durante l’ora di rancio non lo trovavano, e dov’era? Si era rifugiato in un posto dove usciva dell’aria calda, si era addormentato e dopo alcuni cani hanno cercato per tutto il cantiere sino a quando non lo hanno trovato. Poi gli hanno dato “le 25” in presenza di tutti. E lì abbiamo atteso un bel po’ prima che potessero rintracciarlo. Questo era.

Come dicevo, avanzano gli americani, ci mandano di nuovo a Allach e poi – loro, nel frattempo, avevano sistemato le macchine, noi non sapevamo niente – un bel giorno trasferimento a Trostberg. Trostberg era una località… un venti chilometri da Monaco, più o meno, e ci hanno trasferito in questo piccolo campo, sempre con la BMW, sempre a lavorare in altri capannoni. E lì mi è successa un’altra avventura. Dovevo lavorare su una dentatrice, una macchina che produceva degli ingranaggi. Al momento di far affilare l’utensile, perché non tagliava più, l’ho portato in restituzione e poi rimetto su questo utensile sulla macchina. E lì devo aver commesso un errore, perché altre volte lo avevo fatto… comunque, l’ingranaggio anziché uscirmi con quaranta denti era uscito con il doppio perché aveva fatto due volte la stessa fase. Inavvertitamente avrò sbagliato, turno di notte, tra l’altro. E allora da lì, con grande piacere mi hanno tolto dalla macchina e mi hanno fatto fare lo spazzino. È meglio lo spazzino, non ci sono responsabilità. Ma poi è venuto anche lì il guaio facendo lo spazzino perché ero stanco, ero appoggiato al muro e mi sono addormentato, in piedi così, con questa scopa. Un buon ceffone mi ha svegliato e… è finita, senza conseguenze.

Questo sino a marzo, aprile… marzo. Dopodiché la guerra stava per finire, di nuovo ad Allach e lì sino alla fine della guerra, per un mese circa, ho lavorato. La mattina ci portavano via, da Allach alla stazione di Monaco, con naturalmente quei treni merci e là dovevamo – messi in non so quanti, 20-30 di noi – con  la forca a tamponare le buche dei precedenti bombardamenti, trasferimento di rotaie tutte storte, e allora eravamo in 30-40 a trascinare queste rotaie. E lì è capitato un episodio. Nella stazione di Monaco, mentre noi lavoravamo, c’era un treno fermo su un binario morto; dentro erano dei ragazzi, giovani in divisa, e qualcuno attraverso il finestrino ci sputavano addosso, perché noi dovevamo lavorare lì vicino. Questo è andato avanti fino al 20 aprile – noi siamo [stati] liberati il 29 – fino al 25, 23 aprile… Alla fine ormai non ci portavano più fuori dal campo a lavorare: lì abbiamo capito che stava per finire. Anzi, arrivavano altri compagni da altri campi, stremati, chilometri di marce. Arrivavano e cadevano, si buttavano per terra. Qualcuno si è risollevato, qualcuno dopo mi ha raccontato che era terribile la marcia della morte: la chiamavano [così] perché a chi non riusciva più a reggere lo sforzo gli sparavano lungo la strada. Lì sono arrivati più o meno già mezzi morti. Siamo rimasti in attesa degli eventi.

Una mattina ci svegliamo sempre ad Allach, questo campo dipendente da Dachau, ci svegliamo e sulle torrette non c’è nessuno, non ci sono più SS! Però c’erano prigionieri, come noi. Poi ci hanno raccontato che prima di abbandonare il campo, quelli delle SS avevano informato alcuni prigionieri tedeschi, o che sapevano che erano dei politici, che potevano prendere il possesso del campo. Gli hanno consegnato praticamente il campo, e loro sono scappati. Questo è stato un bene perché quei 3-4 giorni prima dell’arrivo degli americani, noi ci siamo autodisciplinati, razionando ancora di più, perché gli ultimi giorni la pagnotta veniva divisa in 12-14 parti. Una volta era in quattro parti, la sera.

Così un bel pomeriggio – la notte prima sentivamo dei tiri di cannone – fuori del campo, che era in mezzo alla campagna, c’erano le jeep degli americani. Noi gli siamo andati incontro. Mi ricordo che la jeep aveva un carretto dietro, un carrello, e loro si portavano dietro le razioni. Avanzavano così, con i fucili in mano, col mitra. Ci hanno lasciato prendere quello che avevano, c’erano delle confezioni – che dopo ho saputo, che anche in Italia i soldati adesso usano – confezioni con sigarette, cioccolato… non so come si chiami il termine, che allora i nostri soldati non avevano di certo, non sapevamo come andavano a finire in Russia, in Africa eccetera. E loro [americani] avevano tutto l’equipaggiamento, ben attrezzati, tanto è vero che dopo 2-3 giorni loro avevano installato delle grandi tende, con delle docce, ci hanno fatto fare il bagno, disinfettati, tolto i vestiti di prigioniero. Loro si vede che avevano sottratto ai magazzini dei militari tedeschi delle divise: tutti quanti avevamo il vestito, chi della Wehrmacht, chi dei carristi neri. Mio fratello aveva ricevuto la divisa nera, io la grigioverde. Poi ci hanno dato le scarpe nuove, tutto nuovo! Tutto nuovo di zecca! Scarponcini… Dopo, tutte queste aquile, tutti questi distintivi applicati alle varie divise noi li tiravamo via e nel campo era pieno di aquile, tutte staccate dalle divise.

Arrivati gli americani ci siamo sistemati italiani con gli italiani, francesi con francesi; perché prima, nel periodo dell’occupazione, che c’erano ancora le SS, nelle baracche eravamo misti, perché eravamo posti dentro in funzione del lavoro, del reparto, che devono uscire, rientrare… Perciò lì dentro saranno 21-22 lingue che si parlavano. Succedeva una cosa, che per noi, l’esperienza fatta… quando eravamo a Dachau eravamo tutti quanti italiani nella stessa baracca, allora si divideva il pane. Ci davano il pane: quattro parti, una a te una a me. Quando siamo andati ad Allach, dentro nella baracca eravamo suddivisi in tavolate di 12. Tra i castelli dove si dormiva c’era questa tavola. Allora il capotavola andava dal capoblocco a ritirare le razioni. Noi eravamo in dodici: dodici pezzi, tre pagnotte. Arrivato lì uno di noi prende questo coltellino – preso da una lama, da un seghetto in fabbrica – ha tagliato in quattro parti… “No – ha detto un russo – alt! Non si fa così.” Dovevano essere parti ben precise, ma non era sufficiente questo. Venivano messi i pezzi in colonna, da uno a dodici, si cercava di farli uguali, per quello che si poteva raggiungere. Dopodiché ognuno aveva il proprio numero, se uno [otteneva] un pezzettino più grande di due grammi dell’altro era la sorte che decideva. Allora dentro il berretto [i numeri] da uno a dodici: io prendevo – come giocare alla tombola – io prendevo il numero tre, mi toccava il numero tre. Quindi se era un po’ più grande o un po’ più piccolo… si cercava sempre di fare [pezzi] più simili tra di loro. Ecco, loro [i russi] con l’esperienza di qualche mese o di qualche anno dentro, noi eravamo ancora freschi dall’Italia, non conoscevamo ancora la fame bene, cosa voleva dire un pezzettino di pane in più o un pezzettino di pane in meno.

D: Mario, in tutti questi cambi di campo che hai fatto, il tuo numero è rimasto sempre lo stesso?

R: Quando io sono stato trasferito a Markirch – Markirch era un sottocampo di Natzweiler, un campo madre, come Dachau – essendo un sottocampo era sotto la giurisdizione di Natzweiler, e allora mi hanno cambiato il numero. Quando poi col trasferimento sono ritornato ad Allach, mi hanno di nuovo rimesso il numero che avevo in origine, alle dipendenze di Dachau.

D:Il secondo numero te lo ricordi?

R:Ce l’ho scritto perché è durato poco, ce l’ho scritto nella scheda […]. Dopo la fine della guerra, noi ex deportati abbiamo beneficiato di un indennizzo. Ora, per ottenere questo indennizzo era necessario produrre una documentazione. Il documento che confermava la deportazione era quello rilasciato dalla Croce Rossa Internazionale di Arolsen. Cosa è successo? Che queste autorità dei vari paesi alleati, man mano che occupavano le varie zone, avevano raccolto le documentazioni dai campi, però non tutte erano complete. Ma nel caso di Dachau e altri campi le hanno trovate efficienti, efficienti per poter poi risalire [alle notizie sui deportati]. Difatti io ho questo certificato, chiamiamolo così, di Arolsen che dice da chi sono stato arrestato dalla Gestapo, quando sono entrato a Dachau, tutti dati anagrafici e tutti i trasferimenti: data, quel giorno… rientrato quell’altro. Praticamente lì è la mia storia, diciamo storia che valeva per loro, a loro interessavano questi dati e basta.

D: Ti ricordi se a Dachau o ad Allach hai visto anche dei religiosi?

R: Sì sì. Quando siamo partiti da Trieste, ma già quando sono stato arrestato io, in questo braccio delle prigioni del Coroneo di Trieste – lo chiamo braccio, era un corridoio di cui erano celle da una parte e celle dall’altra – eravamo in tanti e le celle non venivano chiuse, erano aperte, si dormiva tre, quattro, cinque in ogni cella, altri nel corridoio. Questo corridoio era chiuso da un lato con un cancello e dall’altra parte erano celle. Lì ho trovato due preti. Erano preti provenienti dai paesi slavi, uno da un paese di lingua slovena in territorio italiano, che parlava bene sia italiano che sloveno, l’altro invece… non so se quello là era stato arrestato proprio nel territorio, in genere erano tutti quanti istriani: Istria, Trieste, questo bacino degli arrestati del Coroneo andava fino a Fiume, giù lì in Istria, Pola, eccetera, poi Udine aveva le sue prigioni, lì rientrava il Friuli, il goriziano aveva le sue. Sarà stato croato quello lì, perché a Fiume e in quei paesi piccoli parlavano croato. Quelli lì sono stati trasportati assieme a noi a Dachau. Quando siamo arrivati a Dachau, io ho ancora l’immagine visiva di quello più anziano che non sapeva parlare l’italiano: ricordo che quando è uscito dalla doccia, fuori dalla baracca, nudo, si proteggeva con le mani le parti intime, l’unico che aveva fatto questo gesto, gli altri no. Per questo mi era rimasto impresso. Dopodiché non li abbiamo più visti, però a Dachau esisteva la baracca degli italiani. Questo Gorlato mi raccontava quando sono andato a trovarlo, qualche mese fa: “Sai, quando io ero a Dachau, oltre che fare l’interprete, quando sono venuto da voi, lavoravo un po’ in biblioteca, mi chiamavano qualche volta saltuariamente, c’era una piccola biblioteca. È successo che uno dei preti, un polacco, della baracca dei sacerdoti, sapeva che io parlavo diverse lingue, allora questo sacerdote polacco mi aveva chiesto se gli insegnavo l’inglese, attraverso il francese”. Ma quello poi ho capito che era puramente… perché dopo due-tre volte… Era un mio compagno, uno di Ronchi, mi diceva, che lo conosceva – [ora] è morto – il quale gli ha detto: “Guarda, adesso io andrò da questo prete, lui mi darà da mangiare io gli do lezione. Poi, finito il lavoro lui mi darà da mangiare, così avremo…” L’altro lo aspettava sempre fuori e dividevano quello che lui otteneva attraverso questo prete. Il quarto, quinto giorno il prete ha cominciato a mettere le mani addosso a questo Gorlato. Mi ha detto: “Quando sono andato fuori – quell’altro che lo aspettava, si chiamava Mario, Mario Chico – ho detto: “Mario, abbiamo finito, non si mangia più extra”. “Cos’è successo?” “È successo così, stavo per bastonarlo ma non sono stato capace, gli ho detto di tutto.” Cioè… bastonarlo… voleva schiaffeggiarlo, ecco. È finita lì.

D: Mario, il tuo ritorno.

R: Eh, il mio ritorno… Noi eravamo lì ad Allach – che valeva lo stesso discorso per quelli di Dachau – quasi un mese con gli americani. Che poi, tra l’altro, gli americani non sapevano; i primi giorni entravano con dei camion con dei maiali presi dentro nei frigoriferi, appesi come tante giacche sugli attaccapanni, portavano dentro camion di bestie che trovavano nelle grandi celle frigorifere. Ero andato lì in cucina, e allora cos’è successo? È successo che un sacco di prigionieri [hanno avuto la] dissenteria, e sono anche morti. C’era un liquame fuori che era spaventoso: io non avevo mai visto un’autobotte vuotare i pozzi neri dentro in un campo. Dopo questa storia qui era un disastro, un disastro. Dopo hanno cambiato! Dopo si sono accorti, finalmente. Prendevamo il pane con un po’ di burro su quel gamellino che avevamo, si scaldava sul fuoco e si arrostiva il pane. Mangiavamo così, per 3-4 giorni, 5 giorni. C’è stata una commissione di medici in divisa – diversi tipi di divisa – e dopo lì hanno bloccato questo tipo di alimentazione.

Lì siamo stati ad aspettare di essere rimpatriati. Veniva ogni tanto nella nostra baracca un ufficiale americano, di origine italiana, il quale parlava napoletano, ci ha detto: “Io non so l’italiano, io so solo il napoletano perché i miei genitori sono napoletani”. Lui era medico… no, farmacista era, farmacista mi ha detto, sì. La sorella era medico, ci ha raccontato la storia di tutti i laureati, fratelli eccetera. Era Maggiore, diceva: “Dovete portare pazienza che prima o dopo vi porteremo a casa”. E così è successo. Io ero stato ricoverato in infermeria, lì, del campo, non ricordo neanche bene cosa accusavo, stavo poco bene, allora mi hanno: “Beh, resta qua, vediamo”. Sono rimasto in infermeria del campo, e vicino a me c’era un polacco, povero, pesava sì e no 30 chili. Tutto il giorno pregava, la notte pregava, poverino. Lui non ha dormito, non ha detto una parola, solo pregava, pregava e dopo è rimasto lì.

Dopo questi tre giorni, dell’episodio di questo polacco che ho raccontato, arriva mio fratello. Mi batte alla finestra: “Guarda che si parte, oggi alle 11 è arrivato l’ordine, si parte”. “Allora vengo a casa anch’io” dico. Vado in infermeria e glielo dico al medico: “Sì, sì, guardo un po’, si faccia visitare…”. C’era un medico, un russo. Io e un altro mio compaesano – un certo Ferruccio Doloi, era con me – siamo usciti dall’infermeria, caricati in questa colonna di camioncini e siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano c’erano questi americani che guidavano, tutti neri, anche bianchi, coi piedi fuori del finestrino che bevevano whisky, bottiglie di whisky fuori dal finestrino; a un certo momento ha dato una frenata – perché quelli in colonna, sai, uno in curva frena e non… – Aldo Vigorin, che era un mio compagno, era seduto qua nella camionetta, io ero laggiù, con la frenata da là è arrivato sopra di me. Insomma, siamo arrivati a Bolzano sani e salvi. A Bolzano c’era un centro, io non so cosa poteva essere, un grande cortile ricordo, delle grandi stanze con letti, non so se una caserma poi adibita per emergenza, non lo so. Lì ho trovato anche altri miei compagni che erano arrivati qualche giorno prima, si vede che era un centro di raccolta. Attraverso il Brennero si arrivava e dopo ognuno si arrangiava. Arrivo lì a Bolzano, saluto i compagni che era da tanto tempo che non vedevo, mi fanno andare a riposare in questi letti là dentro. Dopo veniva [il medico]: “E’ meglio che tu resti qui”, perché gli ho detto “Forse ho il tifo, non lo so”, ero ricoverato e mi chiedevano cosa potevo avere. Loro venivano lì ogni giorno: un medico, sarà stato il primario, con tanti altri medici attorno, in otto o dieci in camice bianco, sollevavano le coperte, ti visitavano. Dopo, [per] quelli più magri c’era sempre un operatore che riprendeva. Dopo di che mio fratello dice: “Guarda, approfitto di una corriera che va a Trieste… o Udine” “Io rimango qui perché i medici mi hanno detto che è meglio”. Da lì mi hanno trasferito all’ospedale civile. Oh, bellissimo! A Bolzano. Avevo una camera, io e un ragazzo di Udine, con una bella terrazza, un giardino, favoloso. Premevo il bottone, mi portavano tutto quello che volevo, medici la mattina, suore la sera, insomma, assistiti in maniera esemplare. Lì sono rimasto un po’ di giorni e i medici dicono: “Meglio che lei rimanga qui perché noi la curiamo e se va a casa difficilmente potrà avere questa assistenza”. Allora rimaniamo lì, io e questo ragazzo di Udine. Un giorno arriva il fratello di questo qua: si vede che qualcuno aveva anticipato la partenza, aveva avvisato i familiari. “Di dove siete voi? – Di Udine – Ah, di Udine. C’è un pullman, la corriera, e andiamo a casa – Senta, potrebbe darmi un passaggio? – Dove abita lei? – A Ronchi del Legionari – Uh, difficile, bisogna che parli col parroco perché a Ronchi c’è una zona che era occupata come Trieste dalle truppe jugoslave (c’erano stati i fatti di Gorizia eccetera, uccisioni o altro) è un territorio che lei… è meglio che non vada – Guardi, dico, io vengo con voi fino a Udine, dopo vado a San Giorgio di Nogaro e mi farò ospitare dai miei parenti”. Questo naturalmente è quello che dicevo loro.

Io sono arrivato a Udine con loro, tutta la notte con questa corriera scassatissima. A Udine vado alla stazione e trovo dei miei paesani che lavoravano in trasferta, a Tolmezzo, quelli dell’aeronautica che si erano trasferiti… a Tarcento, a Tarcento: “Guarda Mario, sta qui con noi che noi adesso prendiamo il treno, poi scendiamo a Cervignana, il ponte di Pieris era stato fatto saltare per cui il treno non può transitare sul ponte, però abbiamo il camioncino del cantiere che ci porterà a casa”. E così io sono riuscito ad arrivare sino a Ronchi senza fare un passo. Scendo vicino all’aeroporto, passa Armando Filiput. Questo Armando Filiput, un mio vicino di casa era, campione olimpionico, uno dei primati mondiali ha detenuto, per il salto a ostacoli, ha fatto le Olimpiadi. Uno noto, Filiput, un olimpionico italiano. Mi ha visto, mi ha caricato in bicicletta e mi ha portato fino a casa. Così il mio tragitto del ritorno dalla Germania: camion americani, treno, camioncino e bicicletta. Ci sono alcuni invece che hanno dovuto camminare, cambiare treni. Ci sono alcuni che addirittura li hanno portati attraverso la Jugoslavia.

Benassi Roberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Roberto Benassi. Sono nato il 28 novembre del 1915 a Genova, ed abito a Genova. Sono stato arrestato da… era l’OVRA allora, nel ’39 mi pare, nel ’39. E portato a Regina Coeli e condannato per reato contro lo stato fascista. Poi, di là, m’han poi portato a Porto Longone, e sono stato tre anni e mezzo o più a Porto Longone. Poi ci hanno fatto sgombrare…

D: Roberto, che cosa vuol dire a Porto Longone? Cosa c’è a Porto Longone?

R: È il penitenziario. Ce n’erano due di quelli lì in Italia. Uno Porto Longone e l’altro era giù a… che c’era i campi della mafia una volta… e sono stato anche a visitarlo dopo quello là. Nel ’44, quando ormai si avvicinava… c’era già lo sbarco in bassa Italia, c’hanno fatto sgombrare e in mano alle brigate… era la Guardia repubblicana e Brigate nere, e c’hanno portato a Parma. Tutti i politici che eravamo là ci hanno portato a Parma. Qualcuno è stato liberato col telegramma, qualche politico sì…

D: Cosa significa col telegramma?

R: Dopo la caduta del Fascismo, c’è stato qualche mese… e qualcuno col telegramma è riuscito a esser liberato, altri no perché erano molto lenti con i telegrammi. E allora poi furono… era tutto il braccio di politici [che] fu portato a Parma – a San Francesco – e lì eravamo in mano alle SS tedesche. Le SS. Poi abbiamo avuto il bombardamento a Parma, il primo bombardamento che ha avuto la città l’abbiamo avuto anche noi lì. Ha preso il carcere e ci siamo salvati quasi per miracolo perché nel cortile avevamo scavato dei camminamenti alti quasi due metri, coperti dalle griglie, e con un pezzo di legno per tenere la bocca aperta perché… E le bombe sono esplose talmente vicine che non abbiamo sentito nemmeno le botte. Ballava la terra ma le esplosioni no. Finito il bombardamento, era l’una [di] pomeriggio, col sole tutto non si vedeva niente, tutto calcinacci. Di lì, poi c’hanno sgombrato. Ci han portato alla Certosa di Parma, sempre in mano alle Brigate nere e SS.

D: Roberto, tu sei stato interrogato a Parma?

R: Ah no, a Roma fummo interrogati. A Roma, prima, quando eravamo al Tribunale speciale.

D: Ma per te il 25 luglio non ha comportato niente? Sei sempre rimasto a Porto Longone?

R: Quasi tutti. Tre o quattro sono riusciti a ricevere il telegramma.

D: Ma che cosa avevi fatto per essere…?

R: Reato… ma erano tutti reati politici. Era un blocco… eravamo un braccio… tutti politici. C’erano spionaggio, c’era organizzazione del Partito, c’era propaganda, e via di seguito.

D: Ma la tua attività, il tuo motivo personale?

R: [Il mio] era spionaggio politico-militare. Non volevamo la guerra, volevamo che non la facesse la guerra. E invece camminava verso l’imperialismo, verso la guerra e via. Tanto è vero che lì venne poi dopo un mese [dal mio trasferimento a Parma, mentre Porto Longone e l’Elba erano occupati dagli alleati] un Ufficiale dei Servizi a cercare di me, ma non c’ero più. Voleva liberarmi e portarmi a bordo, e farmi combattere, perché è durata poi un anno ancora [la guerra].

D: Ascolta, poi allora la Certosa di Parma…

R: Certosa di Parma… dopo Parma a Fossoli. A Fossoli ci han portato. A Fossoli eravamo in mano alle SS. E so che ci siamo trovati assieme con quelli di Milano, di Torino, della Breda. Anche loro [hanno] caricato lì. E fino al… mi pare attorno al 18 giugno del ’44.

D: Roberto, sei stato immatricolato a Fossoli?

R: No, no.

D: Ti ricordi in che baracca eri?

R: Mi ricordo il capo blocco perché è mancato. E lo conoscevo anche, era un maestro proprio di Genova, di Borgoratti. Vezzelli, Armando Vezzelli, buon’anima. Era capo blocco lui. E abbiam dedicato un’aula alla scuola di Borgoratti a lui.

D: E un giorno? Cosa è successo un giorno?

R: Beh, ci hanno imbarcati tutti e ci hanno portato a Carpi. Coi camion a Carpi, e a Carpi sui treni, sui vagoni, quei famosi vagoni… dei carri bestiame. Eran ventidue vagoni. Ventidue vagoni. E di lì c’han distribuito un pane a testa, una pagnotta, e poi la popolazione ha portato due o tre cestini di ciliegie e amarene. E quello era il nostro mangiare per tutto il viaggio, eh. E su su… insomma, tre giorni e due notti. Poi siamo arrivati a Mauthausen, di notte. Di notte, a Mauthausen, dalla stazione, giù [vedevamo] che è un paesetto vicino al Danubio. Di lì, tutti in fila – c’erano i cani – in fila, su in salita, su un altipiano, poi il campo, campo di sterminio. Pensi che mio padre, buon’anima, è stato a Mauthausen, ma [in] paese, nell’altra guerra. [Nel] ’15-’18 è stato, era vicino alla stazione, mi diceva… va beh, io invece da su. E i colpi nella schiena, “schnell, schnell”. Dopo tre giorni di vagone, o più, e col poco mangiare che avevamo e tutto…
Su siamo arrivati – tutta a piedi eh, è lunga, sono 3-4 chilometri buoni – siamo entrati nel locale… è uno… ci sono le porte grosse, non è la principale quella… E di là ci hanno spogliato, tutti nudi, tutta la notte nudi all’addiaccio. Per fortuna era giugno, era intorno al… il 24 mi pare che fosse, di giugno, 23 o 24 di giugno. E alla mattina poi giù a rasare capelli. Dove c’erano peli, rasare tutto, la disinfettata, poi la doccia. E poi ci davano un paio di mutande e la camicia. Scalzi, in quarantena. In quarantena, che erano le baracche 16, 17, 18, 19 e 20. Cinque baracche che erano in fondo all’Appellplatz. E c’era una porticina dietro a quel muro ed eravamo noi. E noi siamo andati alla baracca 17, la seconda era. E lì, alla sera… tutti i materassini alla mattina si toglievano, alla sera si dovevano mettere tutti in terra. E poi dovevamo metterci a dormire testa e piedi, di costa, se no non ci [si] stava: se uno si metteva con la schiena giù uno rimaneva in piedi. E allora col bastone, o con la ‘gumma’, die Gummi :“Se non vi mettete a posto passo e picchio”. Picchiava tutti, eh. E allora si trovava il posto, perché cominciavano a dare colpi di…
E sono stato 3-4 giorni lì. Poi m’hanno mandato al Baukommando. Baukommando sarebbe comando costruzioni [squadra di lavoro edilizia, ndr], nel campo stesso. Dovevamo costruire le fogne. Ecco, siccome io ero un pugile – ero stato pugile una volta, dicevano che ero bravo, ero prima serie d’Italia – e c’era l’organizzazione pugilistica nel campo. Francesi, c’erano cinque o sei pugili, spagnoli ce n’erano diversi, tedeschi… Italiano non ce n’era… Parlavo il francese abbastanza bene, e con i polacchi ho parlato, e francesi, allora m’han provato. M’han fatto fare i guanti con uno spagnolo. In mutande, camicia, scalzo. Ho messo i guanti. Sotto dal [forno] crematorio, c’era una saletta lì. Boxavo bene, e m’han fatto… Così dal Baukommando mi hanno portato in officina elettrica, sempre a Mauthausen. In officina elettrica stavo meglio perché non avevo quasi niente da lavorare.

D: Roberto, nel frattempo avevi ricevuto un numero di matricola?

R: Sì, a Mauthausen sì. A Mauthausen era – in italiano – settantaseimiladuecento e trentasette [76237].

D: Ma lo dicevi in italiano?

R: No! Oh, ci prendevano degli sganassoni se non si sapeva. In tedesco bisognava saperlo. E ho fatto presto a impararlo. Lo vuoi sentire in tedesco lo stesso numero? È sechsundsiebzigtausendzweihundertsiebenunddreizig. Perché invertono i numeri loro.

D: L’officina elettrica?

R: Ecco. C’era un capo, un capo che era un austriaco, era un socialista si vede. Ma ci vedeva volentieri noi, e mi trattava bene anche lui lì. E mi diceva “Quì – diceva così – aquì, quieren que tu trabaja como un caballo e te dona de comer como una gallina”: chiede che lavori come un cavallo, e ti danno da mangiare come una gallina. Lui trattava bene, infatti ho fatto quattro o cinque incontri di [pugilato]. E il primo incontro, m’è toccato un tedesco che era Heltzer. È quello che portava i detenuti giù a prendere le pietre squadrate giù alla cava, quelle pietre squadrate poi da portarle su. E ‘sto qui, lui era 74 chili, un armadio sembrava. E io sembravo un bambino. M’ha dato tante botte, tante botte che non le ho prese in tutti gli incontri che ho fatto, eh. Però non ho piegato le gambe, quando sono andato all’angolo – la terza ripresa – parlavo da solo, ho detto “Bacicin ten canun”. Il mio soprannome era Bacicin. Parlavo da solo, “sei un cannone”, perché non avevo piegato le gambe. Ero nero eh, dalle botte. E così, dopo il secondo incontro, dopo quindici giorni, c’era un polacco che io insegnavo a parlare italiano a lui, che lui parlava francese, col francese lui insegnava… Senza dire niente a me, ‘sto Stashek Gregor, ha combinato l’altro incontro con me, convinto di darmele, perché m’ha visto buscare [subire colpi, ndr]. I francesi m’hanno avvertito, erano amici. M’han detto “Fais attention que [c’est] lui qui a voulu tout ça”. “Ah, bon!”. E allora prima di andare sul ring gli ho detto “Moi, sur ring je ne connais pas des amis. Je fais du sport”. “Et moi aussi”. “C’est bien alors”. Ecco. Così siamo andati sul ring, ma l’ho preso in velocità. Invece in quindici giorni – il primo incontro ero duro, ero legato – mi son sorto [ripreso, ndr]. L’ho preso in velocità e arrivavo da tutte le posizioni e lui non poteva far niente. Alla seconda ripresa lo invito, destro d’incontro, fulminato. Poi, ko. L’arbitro contava lentamente, non un secondo, uno e mezzo, anche due. Ma dopo i dieci [conti] eran già quindici [secondi] e ha dovuto prenderlo di peso, all’angolo, coi sali… E siamo andati avanti, ho fatto ancora un altro incontro con… Ah! Non l’ho detto un fatto. Appena quella notte che siamo arrivati, alla mattina, quello che c’ha rasato era un pugile, non lo sapevo io, e m’ha rubato quello che avevo in mano: saponetta, dentifricio… Non ho potuto reagire che mi son preso una sganassata qui, e poi m’hanno impedito tutti di fare dell’altro. Poi ho saputo. Era il pugile che mi toccò lui. Venne a cercarmi, mi offrì da mangiare, mi disse: “Io sono tedesco, ricevo i pacchi da casa”. Gli ho detto: “Tu deutsche, io sono italiener. Du shlage, ich auch shlagen können [kann, ndr]”. Tu picchi ma anch’io so picchiare. Non ho accettato niente. Allora, era forte questo qui, eh. Era un bel pugile. Aveva però avuto paura… aveva visto quel destro, no. E mi son detto, se non sto attento me le dà, perché veloce e un bel pugno. Ho visto però che aveva paura del destro. “Oh”, allora ho detto, “sei fregato”, perché il sinistro è quasi uguale: io ero ambidestro. Difatti di sinistro, tum, pluf. Ko. Gli spagnoli m’han portato in trionfo: “Tan bien a manciana tiene oste”. Anche la sinistra c’hai, no.

D: Roberto, ascolta, dove venivano allestiti questi incontri di boxe?

R: Lì erano i polacchi e i francesi che gestivano tutto, lì.

D: Ma i deportati?

R: Sì.

D: E dove?

R: Nel campo.

D: Ma dove?

R: Lì, al blocco 16, che era quarantena. Oppure nella piazza, l’Appellplatz. L’Appellplatz che è grande.

D: E le SS non dicevano niente?

R: E c’era lì, si montavano lì. Era uno spettacolo che si godeva anche l’SS eh. Oltre quelli dei blocchi liberi – perché fino al 12 avevamo blocchi liberi che potevamo circolare – gli altri blocchi erano quarantena o i transiti o via.

D: Ma giocavate di notte o…?

R: No, no, alla domenica. La domenica.

D: E durante la settimana lavoravi a…

R: Eh, giù al lavoro

D: E in che cosa consisteva il tuo lavoro?

R: Appunto, allora era un’officina elettrica, per quello m’hanno trattato bene come… eh, c’è un fatto, che chi mi aiutava da mangiare… perché era quello… E c’era un compagno che è mancato, era uno che l’han preso alla Benedicta [azienda di Genova, ndr]. Devo dire il nome? Salerno si chiamava. È mancato quattro anni fa. E lui era due, quasi tre mesi prima di me a Mauthausen. Era piazzato bene. Era Stubendienst, garzone di baracca. Era una baracca che erano tutti spagnoli e tedeschi. E la zuppa non la mangiava nessuno. La zuppa la dava… metteva in fila chi la voleva e la dava a tutti. Poi però loro rubavano anche il pane, e a me mi dava un pezzo di pane, un po’ di margarina. Due giorni soli me l’ha data perché in baracca con me eravamo cinque italiani… dividevo. Il terzo giorno qualcuno gliel’ha detto, m’ha fatto sedere là da lui. “Ecco, questo pane lo mangi te, perché te devi andare sul ring. E gli altri della zuppa ce n’è per tutti”. Eh, dovevo mangiarla lì.

D: Ascolta, ma il tuo lavoro all’officina elettrica in cosa consisteva?

R: Ero un muratore. Maurer, Maurer. Qualche volta ho lavorato… per lo più facevo… o limavo o facevo qualcos’altro. Perché era un po’ una copertura per aiutare il pugile, capisce? Per mascherare.

D: Ma giravi anche nel campo con il tuo lavoro?

R: Ero nell’officina elettrica. Siete stati a Mauthausen? La parte [del] museo, era tutto quello lì, e sotto c’era l’officina elettrica. Perché quello lì doveva essere il nuovo ospedale. Quando ci lavoravamo noi eravamo sotto. Era in costruzione sopra, no.

D: Eravate in tanti all’officina elettrica?

R: Eh, c’eran dei tecnici cecoslovacchi bravissimi. Avevamo sempre una radio… loro tenevano una radio, con la scusa di ripararla, per sentire le notizie, no. Eravamo una decina di uomini a lavorare lì. Questo m’è durato fino a quando ho fatto l’ultimo incontro con Hertzer, quel tedesco là, che gli ho fatto piegar le gambe. […] E l’ho rimesso in piedi l’ho rimesso. E poi è andato pari ma noi avevamo buscato. Già due giorni dopo io non ero più lì. Transport. E quella volta [quando] m’han fermato: “Italiano, back stay in block”. Ho sentito un freddo nella schiena, perché poteva essere il crematorio. Solo che dopo, quando m’han chiamato: “Hei, tu, transport”. “Ah beh, allora non è ancora…”. Infatti, poi a piedi di lì, a Gusen. Da Gusen a Lungitz. Abbiamo dormito una notte a Gusen. Da Gusen a Lungitz, altri dodici chilometri. E a Lungitz eravamo trecento, più o meno, trecento. Dovevamo costruire un Beckerei, un forno, per il pane.

D: Questo quando è successo? Questo trasporto, più o meno quando?

R: Dunque, compivo gli anni per strada, quindi fine novembre e i primi di dicembre [1944]. Il 28 compivo gli anni di novembre, perciò, era lì. Tra l’altro c’è stata… poco dopo c’è stata la prima neve lì, e l’unica fuga che han fatto da Mauthausen, dai blocchi là della quarantena, l’han fatta i russi, 19-20: i due blocchi ultimi, l’alta tensione intorno avevano. Me la raccontò uno: son cinque o sette che si son salvati, su settecento. Perché con la prima neve quei tetti lì eran piuttosto [appesantiti], minacciavano di sfondarsi. Allora [i tedeschi] han detto: “Un volontario per baracca, per andare a spalare la neve”. E loro erano organizzati come a casa, avevano un responsabile [per baracca]. È uscito il responsabile nell’una e nell’altra. Han spalato la neve e han guardato bene. Erano nell’angolo. Girato l’angolo, sui pali, c’era una garrita grande, con la Maschinengewehr, con la sega di Hitler, e c’erano cinque SS, tutti armati. Lui ha visto bene tutto, poi ha spalato tutta la neve giù… tutt’e due; la neve l’han buttata vicino ai muri, poi son rientrati. […] La notte li facevano uscire, perché non potessero orientarsi. E alla notte, come li han fatti uscire, con una coperta addosso, una spranga di ferro l’han buttata sui reticolati: corto circuito, tutto il campo al buio. Un attimo dopo avevan già disarmato quelli là su. Disarmati e buttati giù, via… I tedeschi non sapevano niente, han fatto per venire su, e questi han cominciato a sparare. Allora poi son tornati coi carri armati, auto blindo [e] carri armati. Hanno fatto una strage. Qualcuno se n’è andato ma c’era la neve, e tanti li han rintracciati presto [per le] orme. E quello che me l’ha raccontato – era un eroe dell’Unione sovietica già – è capitato in una fattoria dove c’erano tante donne russe a lavorare. Quando l’han visto gli han parlato, gli han detto: “Chi è?”. L’han spogliato sulla neve, han bruciato i suoi vestiti, e gli han dato altra roba sporca di sterco, e poi l’han nascosto nel fieno. L’han salvato così. Quando potevano gli portavano da mangiare. E ce la raccontò alla Liberazione, mangiò con noi e ci raccontò come andarono ‘sti fatti. E lì siamo già alla Liberazione.

D: Roberto, scusa, ma quando da Gusen ti hanno portato in quell’altro sottocampo…

R: A Lungitz.

D: Dovevi lavorare lì?

R: Lì ero… al giorno facevamo i ferri per il cemento armato: piega ferri, ferraiolo sarebbe. E alla sera, per avere un pezzetto di pane in più, facevamo dalle sei alle undici il Nachtarbeit. Dalle sei alle undici per un pezzetto di pane. C’era il greco, mi diceva: “Italiano, tu consumare di più!”. E aveva ragione lui. Perché lui non veniva, ma quando c’han fatto sgombrare venti giorni prima della fine – c’han fatto sgombrare da Gusen – io son caduto per terra. Da solo non mi rialzavo più. E il greco e il triestino, io c’ho detto: “Lasciatemi stare che… son finito qua”. M’ha dato una sberla il triestino, poi dice: “Tasi, mona”. Un braccio per uno m’han rimesso in piedi, sennò io ero lì, un colpo in testa e… Il bello è [che] quella notte lì han fatto il congresso di Yalta, i grandi. I russi han dovuto tornare indietro perché avevano camminato troppo, così noi siam ritornati a capo. Altri venti giorni e quanti… Dopo venti giorni sono arrivati gli americani. E i primi della zona sono arrivati da Lungitz. Alla mattina alle otto sono arrivati con una jeep, erano sei uomini, hanno disarmato… le SS erano scappate tutte. C’erano gli anziani… però gli anziani… a noi non volevano dare le armi. Però a loro gliele han date subito, con le mani così [dietro la nuca, ndr], gli han portati via. Han sparato nel cancello, nel lucchetto, e han detto: “Go away”. […]. E noi [siamo andati] nei magazzini: era una settimana che pane non ne vedevamo.

D: Ma Roberto, quest’altro sottocampo di Mauthausen, quello dopo Gusen…

R: Sì, era un sottocampo di Mauthausen. Avevo sempre la stessa matricola io.

D: Ma era distante molto da Gusen?

R: Più o meno quello che era da Mauthausen a lì: 12 chilometri, 12-13 chilometri, più o meno sì.

D: E come era organizzato? C’erano molte baracche?

R: Erano 300 [persone], erano due baracche mi pare. Due baracche, poi la cucina, e di là c’era l’abitazione delle SS. Eravamo chiusi dentro e lì dovevamo lavorare anche. Il Beckerei, il forno, lo dovevamo fare lì dentro.

D: E c’erano altri italiani?

R: Lì eravamo cinque o sei… cinque. C’erano dei ragazzi di… partigiani di Udine, di quella zona lì. Poi chi c’era? Il triestino, buon’anima, è mancato, sarà 10-12 anni fa. Un romano che non son riuscito mai a ricordarmi il nome, eppure eravamo insieme anche a Mauthausen, quando ero al Baukommando eravamo assieme, e poi lui era anche lì con noi…

D: C’era anche qualcuno di Empoli, se ti ricordi?

R: Di Empoli… sì, ma non so dove sono andati… A Mauthausen è stato portato qualcuno di Empoli.

D: Ma lì a Gusen III, lì quando facevate il forno, quando dovevate costruire il forno, c’era anche qualcuno di Empoli?

R: No, lì no. C’era uno… due di Milano, di…

D: Ascolta, e alla Liberazione però vi hanno portato a Gusen I?

R: No no. Alla Liberazione avevamo messo insieme i fili di un’ambulanza, un’autoambulanza che era una Citroën, aveva già il cambio sotto al volante. Avevamo un fusto di benzina, da 200 litri o quanti sono. Tanche di benzina avevamo preso, e una tanca d’olio. Credevamo fosse olio, olio da motore, invece era olio di semi, c’è servito poi per cucinare.

D: Ma dove sei stato liberato tu?

R: Da Lungitz. Quel giorno lì il primo campo è stato Lungitz. È scritto con la ‘gi’ ma loro pronunciano ‘g’, Lungitz. Poi hanno liberato Gusen, la stessa camionetta. E oggi… qualche anno fa, è un ufficiale superiore, allora era un sergente mi pare. Poi da Gusen andò a Mauthausen, contro il parere dei superiori. Dice: “Qui bisogna far presto”. Ha visto quanti cadaveri, quanta gente che moriva. Li vedeva camminare come automi: bum, a terra, basta.

D: Roberto, quindi tu sei stato liberato lì a Gusen III?

R: A Lungitz, a Lungitz.

D: Sì, a Lungitz. Tu sei stato liberato lì.

R: Ma poi di lì c’han portato a Wels. Noi volevamo [andare] con l’ambulanza, avevamo la benzina per arrivare a casa, invece ci han bloccato e ci han buttato lì, nella caserma di Wels.

D: E lì cosa ti hanno fatto?

R: Lì erano gli americani, ci davano da mangiare. Andavamo a prendere da mangiare, anche troppo. E tanti son morti perché hanno mangiato troppo. È che ci davano… avremmo dovuto mangiare un po’ di brodo, man mano più spesso, per riabituare l’organismo. Invece così… pastasciutta, condita con marmellata, e burro. Era da morire. Io ho avuto la fortuna… la prima sera che c’era un fornaio con noi – e avevamo preso farina anche nel magazzino – ha fatto le lasagne, e ha fatto il pane, ma io non ne ho mangiate. Avevo dei dolori, dei dolori di pancia. E in quella fattoria c’era una donna – c’era un anziano, un vecchio, poi tutte donne, e bambini – e c’ho detto: “Ich bin krank, habe Ich Schmerzen”. Ho i dolori qui. È tornata con una bella tazza di latte caldo, con la grappa dentro. M’ha detto: “Trinken! Ganzen, ganzen! Trinken!”. E io l’ho bevuta. Poi su una panca, mi sono allungato lì, ho dormito tutta la notte. Alla mattina stavo bene. Poi ho cominciato a mangiare, e stavo bene. Invece quel romano che non sono mai riuscito a trovare il nome, a ricordare, lui invece mangiava, mangiava… E io dicevo: “Guarda che stai crepando”. Per fortuna ho trovato un pezzo di specchio, gli sono andato avanti, [gliel’] ho messo così. Gli ha preso paura quando s’è visto. M’ha detto: “Bacicin, se non ti ubbidisco picchiami!”. E allora gli riducevo il mangiare, poco poco, ed il brodo dopo, spesso. In 3-4 giorni mangiava come mangiavo io. E non riesco a ricordare il nome di quel ragazzo lì.

D: Roberto, e dopo Wels cos’hai fatto?

R: E dopo di lì, poi siamo stati… poi ci hanno imbarcato nei treni. Ora ricordare le date precise… ma io non stavo in piedi però. So che i treni poi ci hanno portato fino a Bolzano. A Bolzano volevo andare a casa. A casa era un anno che non sapevano niente. Io non stavo in piedi… “Ma tu non puoi andare a casa. Te, all’ospedale!”. “No…”. Di peso m’han portato all’ospedale. Dovevano operarmi, diceva appendicite. Boh. E io non so. Non potevo reggermi su ‘sta gamba [sinistra, ndr], hanno piantato un ago qui dietro per vedere il rene. Era un “tutto bene, tutto bene”. Dopo qualche giorno camminavo bene. E poi per fortuna erano venuti dei preti lì… c’era un prete, di Genova, e gli ho detto di avvisare la mia famiglia. Meno male son venuti – lui non è mai andato – son venuti due di Sestri e m’han chiesto, ci ho detto… Credevano che uno venendo di lì [dal campo] conoscesse tutti. Ma conoscevi quelli che avevi lì e basta, perché gli altri non potevi… Quei due fratelli di Sestri sono andati avvisare a casa mia. Hanno avvisato mio fratello, buon’anima, che lui era partigiano in Toscana, era commissario politico nella Brigata… a Siena, da quelle parti. E lui è venuto a placcarla su e m’ha preso. Siamo andati dal dottore: “Lui può andare a casa”. L’operazione non l’ho mai fatta. E son tornato a casa così.

D: In Treno?

R: Fino a Milano… No, fino a Milano [con] uno di quei camion grossi. Era autista un nero. La Gardesana, più di 100 all’ora andava. Però siamo arrivati salvi a Milano. Poi a Milano abbiamo mangiato a casa di un ex pilota, compagno di mio fratello, e l’indomani a Genova col treno. Il biglietto con la Croce Rossa in treno.

D: Roberto, nei diversi Lager che tu sei stato – Mauthausen, Gusen, eccetera, ma anche quelli italiani – hai visto se c’erano dei religiosi?

R: Oh sì, religiosi ce n’eran parecchi. E qualcuno che conoscevo anche. C’era uno… Don Campi mi pare che si chiamasse, di San Martino, era a Mauthausen quello lì. Don Gagero, buon’anima, anche lui è mancato. Anche lui, era a Mauthausen anche lui. Poi l’han liberato da Mauthausen. E io invece… Alla Liberazione non siamo andati in campo, potevamo venire a casa, invece ci han portato a Wels. A Wels, chiusi nella caserma…

D: Roberto, hai visto se c’erano anche dei bambini, dei ragazzini?

R: Subito [appena deportati] nel trasporto con noi c’era uno di Firenze, non ricordo il nome. Lui e suo zio. Il padre era partigiano, in Toscana, a Firenze. Volevano che si consegnasse, non s’è consegnato, hanno preso lo zio… il fratello del padre, e il bimbo, il figlio. Aveva dodici anni mi pare. Però ho visto anche nei trasporti i bambini sui dieci anni, più o meno. E avevan fame. Noi, eran i primi giorni, non avevamo ancora fame così, no. E se cercavano un pezzetto di pane… non volevano… “Son ladri – dicevano – son ladri”. E rubavano sì, se non avevano da mangiare rubavano.

D: A Mauthausen…

R: A Mauthausen. Quand’ero in quarantena ne ho visti di trasporti di bambini così.

D: A Mauthausen hai visto anche se c’erano delle donne deportate?

R: Ho visto quelle della casa… del bordello, perché c’era anche il bordello. Però ci sono state anche delle donne [deportate]. So perché una delle nostre, che adesso è mancata, aveva firmato nel carcere a Mauthausen. Quando siam tornati, nel ’75: “Vieni un po’ a vedere”. In un braghettone nella finestra del carcere c’era il suo nome. Era una di… era di Milano, da quelle parti lì era.

D: Ascolta una cosa Roberto, quando ti facevano tirare di boxe a Mauthausen, il ring, dov’è che era messo rispetto al campo?

R: Dentro il campo. L’Appellplatz è grande. Ecco, a un lato dell’Appellplatz… o anche delle volte, quand’era un po’ freschino, dentro alle baracche di quarantena, che al giorno son vuote. Alla sera metton lì i trapuntini a terra, ma il giorno son vuote lì. Ho boxato lì e fuori.

D: E in che giorni, se ti ricordi, della settimana facevano questi combattimenti?

R: Mi pare fosse di domenica.

D: Chi partecipava? Chi assisteva agli incontri?

R: Anche quelli che erano nei blocchi liberi, e le SS, tutte loro, anche quelle di guardia sopra vedevano bene, no.

D: Roberto, quando tu sei stato deportato, hai visto azioni di violenza?

R: Azioni…

D: di violenza, contro i deportati?

R: Dunque, io ho visto… parecchie, parecchie. Quasi tutti i giorni. La strada che dal campo va giù alla scala della morte, giù lì, a qualcuno toglievano il berretto e lo buttavano verso il reticolato e lo mandavano a prendere. Il Post [Posten, ndr] – era sulle garrite, a 30-40 metri l’una dall’altra – come vedeva [il deportato], tum [sparava]. Ne ho visto uno, cinque salti ha fatto, cinque volte gli ha sparato. Poi l’ultimo è rimasto là. Che scene ho visto. E ho visto anche… e questo nessuno l’ha scritto… Erano partigiani belga-olandesi, ragazzi giovani, in gamba, li han tenuti 48 ore faccia contro il muro, dentro a Mauthausen, e ogni tanto ne prelevavano due e li portavano fuori. C’era il Politische Abteilung, l’ufficio politico, e li interrogavano, li torturavano: nessuno parlava. Gli spagnoli, i giovani, facevano i servizi, erano entusiasti, dicevano: “No hay uno que abla. Que corazon que tiene”. Però il primo giorno, al pomeriggio, io ero fuori [in] una baracca lì e vedevamo… ho visto… prima li han fatto fare due viaggi, con la cosa per le pietre. Il terzo viaggio c’era il reticolato – adesso non ci sono più quei reticolati ma… io li vedo [ancora] – che faceva angolo, [poi] un passo d’uomo [passaggio coperto, ndr], e 20-30 metri più indietro sulla garrita c’era [il Posten], aveva un Parabellum russo, sparava con quello. Metà li ha fatti uscire da questo passo d’uomo, l’altra metà continuare, e quello là che sparava su questi. Eh. So che ero rimasto incantato alla finestra, il triestino m’ha strappato via: se si accorgevano che avevamo visto ci ammazzavano anche a noi. Ero rimasto bloccato, non ero capace di muovermi, era una cosa tremenda. Poi un fotografo… fotografa… figurano fuori dal reticolato: un tentativo di fuga. […] Il Post passava, col piede lo toccava, se muovevi ti dava il colpo di grazia col fucile. Poi ho visto quando li han portati su, han caricato dei carrelli… una scia di sangue… L’altra metà l’indomani han [subito] lo stesso, però non eravamo lì a lavorare, quelli non li ho visti. Questi qui non credo che ci sia più nessuno che li ha visti.

D: Roberto, ti ricordi se fuori dalla recinzione del campo di Mauthausen c’erano delle officine?

R: Erano nei boschi però, andavan giù. Ci andavano giù, eh. C’erano dei compagni nostri che andavano giù. C’era Antolini, buon’anima, di Genova; c’era il Masetti, anche, il Masetti di Bologna, che è mancato anche lui qualche anno fa. Andavano giù nella scala… tutta la mattina c’era la scalera della muerte, giù, e andavano nei boschi. Facevano dei pezzi di aeroplano. Eh, sì. Invece di qua – quelli però li ho visti dopo, sapevo che c’era – a Ebensee c’erano quelle che avrà raccontato Algeri, dove facevano le Fau 1 e Fau 2 [V1 e V2, ndr]. E le gallerie ci sono ancora lì.

D: Io ti chiedevo lì attorno a Mauthausen se ti ricordi di officine.

R: Ma io non sono mai andato in quei posti lì. Io, escluso il campo… Per andare all’officina elettrica che era lì, che dalla [baracca] 12 erano 30 metri, dovevamo uscire dalla porta principale, togliersi il berretto e salutare la sentinella, facevamo un giro largo, poi andavamo di là, e per ritornare uguale. Mentre lì dentro erano 30 metri. C’erano cinque campi in un campo, capito. Grande il [perimetro] esterno, poi man mano [i più piccoli interni]: lì c’era il campo russo, l’ospedale – lo chiamavano Revier.

D: Tu sei mai stato al Revier?

R: Quando stavo male gli ultimi… volevo farmi mandare, ma si vede che il Kommandoführer – era un maresciallo, era lui che comandava, avevano facoltà di vita e di morte di noi loro – so che gli ho chiesto: “Bitte, bitte, Ich bin krank. Revier”. “Italiano, nicht gut Revier. Kaputtmachen. Bleibst im Bett”. Stattene a letto. Son rimasto lì, non me l’aspettavo. Poi ho capito: si vede che lui mi aveva visto quando facevo il pugile, perché ha dimostrato una certa forma di benevolenza, di simpatia ecco. Infatti anche alla baracca 17, in quarantena, il capo blocco era un omone, era peso massimo, aveva fatto pugilato ai suoi tempi, e quando m’ha detto… quando ha preso il primo incontro [che] ho buscato, m’ha detto: “Tu italiano, prima box haben keine Kraft”, cioè boxi bene ma non hai forza. “Mein lieber muss setzen”. Allora mi faceva andare… passare dalla quarantena. Se non c’era lui lo Stubendienst doveva darmi un bel pezzo di pane. E tutto faceva mucchio…

D: Roberto?

R: Sì?

D: Tu sei mai stato intervistato?

R: Ma una volta, uno dell’Ufficio storico. Però non so se ho raccontato tutto così perché non volevo mai dire le cose mie perché sembra che… perché nessuno ha fatto quello che ho fatto io.

Visintin Antonio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Prima parte

Io mi chiamo Visintin Antonio. Sono nato a Fiumicello, il 17 gennaio 1924.

D: Scusa Antonio, Fiumicello in provincia di…?

R: Di Udine. Nato, eh. Poi sono stato residente – sono andato prima a lavorare in cantiere – a Staranzano, che prima era provincia di Trieste, dopo il territorio litorale adriatico è passato sotto la provincia di Gorizia perché han diviso il [territorio], una parte è andata sotto la Jugoslavia.

D: Tu hai fatto il partigiano Antonio?

R: Sì.

D: Quando?

R: […] Io ero esonerato, dovevo andare di marina militare. Marina, naturalmente, se andavo un anno prima, perché erano trentasei mesi da fare, non c’era ancora la guerra perché eravamo nel ’39. Ho fatto il militare, e tutto quanto, e a un certo momento è arrivata la cartolina. L’ho portata in cantiere. Io lavoravo sulla Marina da guerra, lavoravo in sommergibili, e insomma, porto la cartolina, devo andare da militare. Loro m’han detto: “Va bene, passa domani”. Sono andato a lavorare, tranquillo. [L’in]domani mi vengono a dire: “Non c’è bisogno, non vai più a militare, sei esonerato. Però sei militarizzato”, cioè ho dei doveri militari. Va bene, però loro mi tenevano sempre d’occhio perché prima, quando facevamo il premilitare, che il sabato toccava andare a marciare, io non ho pagato la tessera. Allora quelli che non avevano pagato la tessera andavano in sala a studiare la marineria, quello che studiavamo anche in cantiere alla sera; invece quelli che avevano pagato la tessera ci davano un fucile, un moschetto, senza otturatore, che potevano darci senza cartucce, per non farli vedere… tanto stupidi, proprio. Ma siccome che è una nazione governata da stupidi, va bene così. Allora ci mettevano [lo] zaino con delle pietre dentro e li facevano camminare per caso per rocca. E noi, logico, che non avevamo diritto del fucile eravamo in scuola a studiare quello che realmente una persona deve andare in Marina deve sapere, del vocabolario, dalla A alla Z, fino all’ultimo bullone del motore, tutto. Io ero appassionato di questo, mi sono fatto una cultura non indifferente, oltre quella delle scuole di cantiere che facevo. Sono stato esonerato perché ero anche uno specialista, lavoravo sui sommergibili, dove nessuno poteva mettere le mani, che era stretto: io, a biondo dio [abbondantemente, ndr], c’arrivavo. In effetti, non avevo nemmeno cottimo più, io non ero nei cottimi, perché avevo sempre dei lavori che non si poteva “cottimare”. E allora mi davano una percentuale fissa. Posso dire, non stavo male, perché il lavoro mi piaceva e mi piaceva lavorare.
A un certo momento, hanno bombardato il cantiere. L’avevano bombardato prima, ma con poco danno. Hanno bombardato il cantiere e seriamente non si poteva lavorare. Allora, io già lavoravo per i partigiani prima, in terra. È successo così. Lavoravo perché avevo il lasciapassare, perché noi lavoravamo sui sommergibili, a turni, e avevo un lasciapassare timbrato dai tedeschi [così] che potevo camminare. E vicino [a] casa mia c’era l’artiglieria antiaerea, e lì i fascisti passavano con i camion, controllavano. E mi hanno fermato anche parecchie volte, ma con questo lasciapassare potevo passare. Era l’occasione buona per lavorare coi partigiani, le ore [in cui] io avevo i turni di poter lavorare [con loro]: fare quello che serviva alla nostra organizzazione. Tornando indietro, bombardano il cantiere. Tutto un disastro. Mi avvertono: “Guarda che domani han già messo i vagoni… un treno pieno in cantiere che, visto che non si può lavorare, hanno intenzione di caricarvi e portarvi in Germania”. E così è stato, ma io non sono andato a lavorare, né io né una decina di noi. Alla notte stessa siamo andati sul monte, sulla rocca. Siamo andati in montagna e siamo andati coi partigiani. Ecco, questa è la prima fase.

D: Che formazione partigiana era?

R: Siamo andati con la Brigata Triestina, e siamo stati un po’ di tempo con la Brigata Triestina. Ma eravamo in tanti, veniva su sempre [più] gente, perché ormai i tedeschi facevano rastrellamenti e portavano via tutti. Allora la gente aveva paura e veniva coi partigiani, che credeva fosse rose e fiori. Invece lì c’era da fare. Così eravamo un numero tanto grande che con la Brigata Triestina avrebbero dovuto essere 450 persone, [ma] eravamo più di tremila. Allora gli jugoslavi, furbi, han fatto una proposta: “Mandacene un po’ a noi”. E ci han mandato in 250 col IX Korpus [IX Korpus Sloveno, ndr], che era la Vojkova, la Circhina [Circhina, o Cerkno, città slovena; ndr] e la Presiniva [forse Prešernova Brigada, ndr]. E io ero con la Vojkova, con gli jugoslavi. Eravamo in dodici di noi italiani con la Vojkova, gli altri sono andati con le altre due [brigate]. Combattevamo sempre in territorio jugoslavo, ma era una [furbizia] che abbiamo capito dopo. Visto che loro han capito subito chi era furbo e chi era meno furbo, o chi sapeva più fare o meno fare, han detto: “Mi sembra che te sai fare: ti mettiamo con le armi pesanti”. [Come] armi pesanti si trattava di bazooka, due mortai – il piccolo e il [Brixia] – e la Breda; la Breda era la mitraglia più grande che avevamo, la Breda grossa proprio… perché c’era anche il fucile mitragliatore Breda, c’era il Fiat e il Breda, ma la mitraglia Breda era un’arma che ci volevano tre persone dietro. Era un’arma molto pesante. Allora mi han messo con la Breda all’inizio, e fatica, pesante abbastanza. Poi a un certo momento viene un altro, uno sloveno che vuole anche lui la Breda. Allora mi dice il comandante di battaglione, che era un goriziano: “Daccela a lui va’. Guarda che belle spalle che c’ha lui” – ha detto – “daccela a lui che 45 chili, la canna con tutto l’affare [che] non c’era tempo di smontare”. E poi c’era il cavalletto – va beh, lo portava un altro – e poi c’era la munizione, [quindi] tre persone, e trenta chili di zaino, non so io dove si va a finire. I muli li avevamo mangiati. È logico no, qualcosa bisognava mangiare. È finita così.

D: Antonio, ma questo quando è avvenuto?

R: Questo è avvenuto […] in maggio, in maggio siamo andati su coi partigiani.

D: Di che anno?

R: Del ’43 [1944, ndr]. Quello che mi rammaricava – non le azioni che facevamo, non come andava – ma quello che mi disturbava [era] che ci hanno sempre trattato da fascisti. Erano più fascisti loro che noi; sicuro, senz’altro, perché il [loro] comportamento non mi è mai piaciuto. Perché in combattimento abbiamo sempre combattuto, ma quando uno si arrendeva, quando si era finito di combattere, abbiamo sempre diviso quel pezzettino di pane con quello che avevamo preso. Loro non erano così. E allora questo mi disturbava. Per quello loro ci prendevano… “Italiano! Porco italiano fascista!”. Ma se sono qui, a casa tua, combatto insieme con te, ma come faccio a essere un fascista? Che poi, non c’ho nemmeno l’età di essere stato. Poi io credo di essere un partigiano. […] Con le armi pesanti mi caricavano sul camion degli altri e mi mandavano in prestito ad altre divisioni che erano in bisogno, che erano in pericolo. Così, ve lo giuro, che tutto quel periodo che sono stato lì ho combattuto quasi ogni giorno, escluso le preparazioni, era sempre da combattere. Quando tornavamo indietro, che tutti [speravano fossimo] morti, gli zaini erano vuotati, [avevano] portato via tutto. E un giorno sono andato dal comandante e c’ho detto: “Stia a sentire, qui è così e così […] Informati dai tuoi scagnozzi, dalle tue spie, ti informi e vedrai che loro ti diranno com’è la cosa”. Allora si è informato, è stato onesto, e ha scoperto le cose. Ha chiamato tutta la brigata, per sloveno e poi per italiano, ha fatto un bel discorso. Allora nessuno ha toccato più gli zaini […].

D: Quando ti hanno arrestato?

R: È venuta lunga la faccenda. Ad un certo momento mi hanno cambiato di brigata e mi hanno cambiato armi. Non mi trovavo tanto bene. Dei nostri amici italiani erano già rimasti pochi, perché in prima linea eravamo sempre noi e sempre in Jugoslavia. A un certo momento, [al] comandante del mio battaglione – era goriziano, cioè, era uno sloveno di quelli che abitava in Italia – c’ho detto: “Ma perché dobbiamo combattere in Jugoslavia? Abbiamo la nostra Italia [dove ci] sono i tedeschi. Abbiamo i fascisti”. […] Un’altra cosa: sono un testimone che può dirlo, che nessuno lo ha mai detto, che i belagardisti che erano con re Pietro [Bela Garda: Guardia Bianca, ovvero Milizia Volontaria Anti Comunista; ndr] erano coi tedeschi, e gli inglesi buttavano armi a loro e buttavano armi anche a noi. Sappiate questo: che loro lo facevano perché si combattesse fra di noi […] Questo nessun giornale lo ha mai detto dopo la guerra, nessuno ha mai detto niente. Questo dimostra la vigliaccheria degli inglesi, non degli americani. Gli americani erano bonaccioni, ma gli inglesi, non ne parliamo… Abbiamo avuto anche comandanti inglesi con noi.
Allora viene il momento, dopo tanti mesi, dopo nove mesi che sono con loro, [dalla brigata Voikova] mi mandano con la Brigata Triestina.
La Brigata Triestina ha tenuto il colpo più duro: – comunque ero con gli Jugoslavi quando abbiamo occupato il Montenegro – i tedeschi han messo tre divisioni ad aprire un varco per andare in Austria, da Monfalcone […] vicino Postumia per andare in Austria. Volevano aprire un varco per i rifornimenti, per la ritirata. Ed è stato tutto sulle spalle della Brigata Triestina, [che] era già in brutte condizioni. Però comunque c’ha preso, abbiamo fatto l’affare. Visto che non sono riusciti a aprire ‘sto varco si sono rimboscati di nuovo ‘sti tedeschi, e son venuti su. Allora il comandante della Brigata Triestina ha detto […] a me e ad altri ventinove di noi – ricordo come adesso, che fosse giorno, tutti giovani, tutti i migliori: “Noi dobbiamo ritirarci nei boschi, dove i carri armati non possono venire, devono venire a piedi e lì ci combattiamo, e voi fate un’azione di disturbo: cominciate a sparare, poi mollate le armi e tutto, e scappate via. Dovete fare solo un’azione di disturbo”. E noi invece non abbiamo fatto un’azione di disturbo. Avevamo ben impostato [l’azione]. Avevamo quattro Breda e due mortai e tutta gente coraggiosa che andava a buttare la bomba a mano dentro al carro armato, che si coricava in mezzo ai cingoli. Buttava al fianco di benzina, poi la bomba a mano e il carro armato era bello che fregato. L’abbiamo fatto tante volte quel lavoro. Poi loro si sono accorti, allora passavano sopra un cespuglio e han fregato qualcuno di noi. Ma noi avevamo fregato tanti carri armati in quella maniera lì. Loro tranquilli col parapetto sopra andavano via. Fiasco di benzina e bomba a mano. Scoppiava per due ore dopo.
Allora, facciamo ‘sta azione. Davanti era la fanteria, i carri armati erano lenti, erano dietro e c’era una curva in questo vallone, in questa montagna. Noi eravamo sulla collina, impostati, io per fortuna ero il più lontano di tutti, un po’ in dentro, riparato un po’ dal bosco, e davanti la collina era tutta pulita, e lì sotto era la strada. È venuta avanti la fanteria e tre camion – mi ricordo come adesso – i camion erano caricati di gente, di armi, di rifornimenti. Di dietro si sentiva il rumore dei carri armati, ma erano molto lontani. Allora vengono avanti, quando sono ben a tiro apriamo il fuoco: potete capire quello che è venuto fuori perché loro non se lo aspettavano, sia quelli sui camion che quelli in terra, quanti c’erano non so. Ma insomma, così è andata.
Allora noi abbiamo continuato. Dopo un’ora circa vengono avanti i carri armati. Al massimo tre tiri ogni postazione saltava per aria, coi cannoni. […] Ho preso una pallottola nella caviglia, un altro mio amico ha preso una scheggia di granata e all’altro han piantato tutti i sassi nella faccia. Gli unici tre rimasti vivi. […] Allora scappiamo via, giriamo e vediamo che la collina – sono già arrivati – è tutta circondata: “Addio, siamo fregati”. Vado un po’ avanti, trovo un buco [sotto] quelle piante di montagna, quella felce. Ci siamo buttati tutti e tre. Loro han passato tutta la montagna – han trovato i morti che c’eran lì – hanno camminato sempre mitragliando: le pallottole cadevano sempre sulla faccia, noi fermi lì. Dirò di più: davanti avevano tutta la gente del paese, avevano quasi un seicento persone, davanti alla fanteria. Perché noi avevamo sparato di dietro, non volevamo colpire la gente. Però la gente, poveracci […] li hanno ammazzati dopo i carri armati quando sono venuti lì, perché i fanti non hanno potuto fare più niente, loro erano già che si riposavano tranquilli. […] Siamo stati nel buco, lì, tutta la notte. […] Dopo due giorni – loro sono andati via, dove sono andati non lo so, se sono andati avanti verso la nostra Brigata, infatti sentivo sparare […] – noi siam venuti fuori, siamo andati in paese. In paese sapevano già, ci han detto: “Guardate, tutti quelli che han preso in ostaggio han tutti fatti fuori, giovani e vecchi, tutti quelli che c’erano”. Allora questo paese c’ha dato un carro e due cavalli, perché non potevamo camminare: io [con] la pallottola nel piede già da due giorni, senza levar la scarpa, piena di sangue; quell’altro con una [ferita] dietro, che si chiama Visintin anche lui, che era con me, Paolo Visintin; e uno che era di Cervignano, ma non mi ricordo più il nome adesso, che difatti poi non ho visto in campo di concentramento. Paolo Visintin l’ho visto dopo, ma quello là non l’ho visto.

D: Scusa Antonio, ma questa battaglia qui, in che località è avvenuta?

R: A Locavizza.

D: Dopo che vi hanno dato il carro cos’è successo?

R: Siamo andati per le strade, in ogni paese cambiava uomo che ci guidava. Dovevano portarci in ospedale a Monfalcone, [e intanto] ci portavano fino a Jamiano, che era un paese già in pianura, poi conoscevo i sentieri, di notte andavamo là. Avevamo un po’ di bombe a mano, un mitra, due pistole, e un fucile. E la divisa di partigiano. Allora ci siamo cambiati, ci hanno dato da cambiare quando siamo arrivati in pianura. Ma noi non sapevamo, loro già sapevano che noi venivamo giù: qualcuno… le spie… va a sapere cosa. Quando siamo giù, che siamo già cambiati e abbiamo lasciato le armi, ormai siamo sul sentiero. […] Da Jamiano andammo a Doberdò, da Doberdò siamo a Monfalcone e andiamo in ospedale. Io so già dove andare, conosco già la gente che ci fa passare. Andiamo in una famiglia a chiederci un fiammifero per accendere la sigaretta e di strada ci [chiediamo] se lì sono i tedeschi. I tedeschi erano arrivati alle 5: erano le 8 ed avevano invaso tutto il paese. Questo ci doveva dire, e noi eravamo salvi. Perché bastava fare un passo indietro. E [invece] noi camminavamo sulla strada, loro erano fermi col mitra, che ci aspettavano. Tutto lì.
Ci hanno aspettato, ci hanno preso. Siamo in borghese, cosa c’entra? Armi non ce ne abbiamo. Non sanno niente. Non si sono accorti… però hanno visto l’altro mio amico che [era tumefatto in volto], quella lì era in vista, e difatti per quello penso che l’abbiano fatto sparire. Ci hanno messo in una casa, lì, e han messo fuori le guardie. L’indomani mattina ci han caricato su un pullman, ci han portato a Trieste, ma non al Coroneo, al comando delle SS. Lì ci hanno bastonato ben bene, senza dirci niente. Se sapevano quello che avevamo fatto ci tagliavano a fettine. Poi ci interroga uno. Io, non so come, mi sono appoggiato sul tavolo… si è alzato quello là solo perché ho messo le mani sul tavolo: m’ha dato una sberla che non finiva più. Sapevo già che dovevo star zitto e non dovevo far niente. E così ho fatto, avevo già preso la mia dose prima! Allora, io sapevo già il tedesco perché a Monfalcone, alle scuole industriali, invece di fare Francese facevamo Tedesco. Si capisce, non ero un professore, è quello che si impara a scuola… in tre anni di scuola che si fa… […], comunque uno si vendeva, si arrangiava. Prima parlò in tedesco e io feci finta di non capire; allora poi chiama uno e dice: “Italiano, tu eri partigiano. Come ti sei trovato là?”. “Mi sono trovato là per caso, sono andato in un posto, [ho] ritardato perché era coprifuoco”. Ci mandano al Coroneo. Altra lezione: ci mettono sul carretto, tira le mani, tira le braccia, di qua di là, e niente da fare. Non ho visto più quell’altro mio amico con le schegge piantate [sul volto]; avevano capito che era ferito, che qualcosa c’era [da dire], ma non ha parlato. Di noi io avevo ancora [il piede] da medicare, non avevan fatto ancora niente: dopo quattro giorni mi han mandato al Coroneo di nascosto. Nella cella che avevo in prigione nel Coroneo han messo un fascista – ha detto lui che era un fascista – che ha detto che l’han messo lì perché ha rubato. Furbo, no? Quello voleva cercar di levar qualcosa. C’ho detto agli altri: “Non parlate che qui siamo nei guai”. Quando siamo andati a fare l’ora di aria si sono avvicinati tanti: “Voi siete partigiani?”. “Non parlate con nessuno, non conosciamo nessuno, non sappiamo com’è la faccenda qui”. Allora medicati, tutti quanti. L’altro [fascista] non è entrato più in cella. Non si sa, non abbiamo mai saputo che fine ha fatto.

D: Scusa Antonio, tu prima dicevi che ti hanno portato a Trieste nella sede della SS. E dov’era la sede della SS?

R: Eh, a sapere… Io so che era un locale grande, di lusso, difatti non c’erano prigioni, non c’era niente. Erano uffici, e ho visto tutti della SS, non c’era nessun italiano dentro. Tutti quanti della SS.

D: Non sai in quale palazzo era?

R: No.

D: Poi dicevi che quando ti hanno portato al Coroneo ti hanno fatto ‘il carretto’…

R: Ti legavano mani e piedi e ti tiravano, col mulinello ti tiravano, finché parlavi. Ma cosa parlavi? Se sai che se parli ti ammazzano… Han visto che non ricavano niente e c’hanno mandato giù. Siamo [stati] giù una settimana, nelle celle della prigione, ogni ora l’aria. A un certo momento è venuto l’ordine di sfollare tutta la prigione del Coroneo e mandare in Germania. Ci hanno preso, caricato in camion, ci hanno portato in stazione sul carro bestiame, chiuse le porte e via, in Germania.

D: Dalla stazione o dal silos di Trieste?

R: No, dalla stazione. Dal Coroneo andati diretti in stazione, che c’è un tragitto molto corto, che si può fare anche a piedi. In stazione c’erano già i vagoni lì, il carro bestiame già pronto, coi reticolati sulle finestre.

D: Quando questo?

R: Questo è avvenuto sempre in maggio, quando sono stato preso. Sempre in maggio. In maggio sono andato via, in maggio l’altr’anno mi sono trovato lì, e in maggio sono stato liberato. Guarda un po’ sempre ‘sto mese di maggio…

D: Allora, vi hanno portato alla stazione…

R: […] C’hanno aperto l’indomani a mezzogiorno – non so nemmeno dov’eravamo, ma eravamo già in Austria perché vedevamo le case… vedevo che non eravamo in Italia – e lì ci hanno fatto fare i nostri bisogni. Col fucile, si capisce, in aperta campagna. Tutti quanti tornano su di nuovo, chiusi i vagoni e via. Ci hanno dato una pagnotta, di quei mattoni… ogni vagone. Nel vagone dove c’ero io eravamo in 46, e gli altri erano anche 60, ma mica han dato due pagnotte! Una ciascuno, l’abbiamo tagliata a pezzi, fatto un pezzettino ciascuno. Non bere, per l’amor di dio! Niente! Non abbiamo nemmeno tirato l’acqua quando siamo andati in gabinetto. Non abbiamo bevuto per quattro giorni. Allora ci hanno dato due pagnotte in quattro giorni, finché siamo arrivati a Buchenwald.

D: Il treno non si è fermato a Buchenwald però…

R: Dentro! Come no! La ferrovia entrava dentro. C’era la ferrovia perché a Buchenwald loro avevano fatto un grande deposito di roba per l’esercito, perché speravano che inglesi e americani non lo bombardassero, capisci? Là c’era la ferrovia che arrivava fino a dentro il campo, dentro i reticolati. Dentro chiudevano, avevano dei portoni che non finivano più. Chiudevano tutto e il treno rimaneva dentro: aveva la possibilità di manovrare, come in una stazione ferroviaria.
Poi ci hanno portato in queste baracche. […] L’indomani mattina c’era un grande catino, proprio la forma del catino, aveva 3 metri di diametro, alto un 80 centimetri. Cosa c’era dentro non lo so; so che sapeva di petrolio, di nafta, di qualcosa. Allora uno alla volta, spogliati tutti, e dentro, ci buttavano dentro, con la testa ci schiacciavano giù. Poi si andava avanti di là. C’era un altro corridoio: tagliavano tutti i peli, dappertutto, capelli… tutto. I capelli [li tagliavano alti un dito, oppure facevano la striscia in mezzo a zero, oppure ancora la lasciavano crescere in modo da essere sempre riconoscibili]. Poi ci han visitato tutti: ci han guardato in bocca, se avevamo oro lo levavano subito, tutto toglievano. Va bene che non c’erano [da] anni di orologi, però qualcuno aveva qualche anello, o l’orologio del taschino: tutto, lì non rimaneva più niente. Passavi di là, e ci han dato la nostra bella divisa [a righe], col numero, col triangolo, un paio di zoccoli col legno sotto. È cominciata l’odissea.

D: Antonio, il tuo numero?

R: […] Settantotto quattrocentodiciotto [78418].

D: E in tedesco te lo ricordi?

R: No, non mi ricordo più. Potrei dirti […]

D: E dopo che ti hanno immatricolato cos’è successo?

R: Siamo stati un po’ di tempo lì, non sapevamo niente. Di italiani eravamo in due rimasti, di tutto il vagone che c’era, lì, nella baracca 18, eravamo rimasti in due. [Da] mangiare ci davano una volta al giorno. [Per] lavarsi c’era fuori all’aperto una fila di lavandini, acqua fredda… questo si sa. Ogni tre baracche c’erano reticolati in giro, non con la corrente, [mentre] tutto in giro al campo c’era la corrente. […] Da una baracca all’altra non potevi andare perché se ti prendevano… Perché loro mettevano i numeri progressivi [alle baracche], allora quei numeri sapevano già che era da quello a quello, che sulla porta c’era già scritto, da quello a quello. Se ti trovavano fuori erano…

D: Antonio, quando tu eri a Buchenwald, hai visto se c’erano anche delle donne?

R: Ho visto donne, in una baracca-tenda. Erano donne, uomini e bambini, ma erano ebrei. Dopo le nostre baracche, uscendo dalla porta sul lato destro, c’era un grande tendone. C’era una grande baracca di tela che adoperano anche per gli sportivi… E lì, io non lo sapevo, m’han detto: “Là son tutti gli ebrei”. Di fronte a noi, di là dei reticolati, c’era una baracca di svedesi, prigionieri politici come noi, tutti svedesi. A loro, mi dicevano quelli lì che li vedevano, ogni mese da casa ci mandavano i pacchi. Strano, a noi non arriva niente. La Croce Rossa dice che li faceva i pacchi, ma a noi non ci è mai arrivato mai niente.
Tante volte ci portavano le rape, e le rape ce le portavano di campagna, sporche di terra, col sacco. Venivano lì, buttavano il sacco in mezzo alla baracca, con la macchina fotografica facevano le fotografie e noi, come scemi, chi ne prende due, chi ne prende nessuna, a mangiarle ancora con la terra su. Io lì ho conosciuto un certo Nikolai, un russo, che aveva un po’ di autorità, anche lui che era già da un po’ che era prigioniero coi tedeschi. E ha fatto un discorso perché ce l’ho detto io: “Perché dobbiamo essere noi così cretini da farli ridere loro? Almeno, stiamo male, ma non siamo dei cretini. Siamo uomini, e dimostriamo di esserlo. Allora, cosa dobbiamo fare? Quando arrivano vuotano il sacco” – siccome che tutti in terra non si stava, bisognava stare nel vespaio, tutti in piedi non si poteva stare – “quattro o cinque persone si incaricheranno di andare ai lavandini, lavare le rape, le divide: siamo in 38, li divide in 38 pezzi, uno si gira con la schiena, ci dice [a] chi tocca questo [a] chi tocca quello”. Allora vengono, rovesciano, il maresciallo pronto con la macchina fotografica: nessuno si muove. Tutto [arrabbiato] col nerbo, botte di qua e di là. […] Nessuno ha parlato, nessuno niente. Ha preso su, è andato via. È rimasto male, ha capito che i disonesti erano loro, non noi, che le bestie erano loro, non noi. […] Abbiamo fatto così finché siamo rimasti lì. Ci han tenuto due mesi lì. Poi non facevamo niente… anzi, due giorni ci han mandato – quando sono venuti a bombardare gli americani – ci han mandato nei magazzini a sistemare della roba, delle divise dell’esercito. […] Vengono lì, ci chiamano… i numeri, quelli che sono. Fanno una fila, ci portano in piazza, c’è il treno, ci caricano, e ci portano via.
Da Buchenwald – mi sembra sotto il distretto di Weimar – ci han portato fino a Dessau. Siamo arrivati a Dessau, abbiamo trovato il campo bello nuovo, perché si vedevano i legni, appena levata la ‘buccia’, piantati i reticolati nuovi, col filo spinato in giro, con la corrente elettrica. Tre grandi baraccone che tenevano 500 persone l’una, ognuna divisa con reticolati ma senza corrente. E fuori all’esterno c’erano quelle garitte che facevano loro, di legno, con la scala, con una mitraglia – tutte avevano un mitraglia – avevano il coperchio e ogni 50 metri ce n’era una di queste. Io ho fatto un calcolo ben preciso: noi eravamo in 1.500 ed erano 500 della SS, tutti riformati, feriti, tutte bestie che non si può dire altro; io penso che si drogavano o si ubriacavano, perché è impossibile che una persona possa agire così contro un’altra persona che non ha fatto niente. […]
Ci mandano a lavorare in fabbrica. Alle 4 e mezza sveglia, un pasto, una brodaglia, margarina l’abbiam mai vista; a Buchenwald qualche pezzo di margarina ce lo avevano fatto vedere, qualche fetta di pane. Lì, nemmeno quello noi abbiamo visto. Una fetta di pane [tipo] mattone, [grande] come la mano, e la brodaglia di zuppa, sempre quella di margarina. Non hanno capito che se ci danno da mangiare non possiamo lavorare: vuol dire che erano molto più arretrati di noi, perché io se ho un cavallo lo mantengo bene perché mi serve per lavorare, che mi rende il lavoro, ma se gli do delle botte e non ci do da mangiare quello mi dà calci, ma non lavora. […]
Mi mettono in questa fabbrica di vagoni e tutto funzionava bene. Siccome era scritto già sulle carte e sapevano che ero uno che aveva studiato, che sapevo il mio lavoro, mi danno da fare un ponte, di quei ponti movibili per buttare sopra i camminamenti per passare coi carri armati. Il mio lavoro era molto impegnativo. C’erano le gru che funzionavano, dopo per fortuna è rimasta solo la mia che funzionava. Poi mi hanno messo a fare altri lavori, ma sempre dov’ero io solo, chiuso [tra] le lamiere, perché i lampi della saldatura davano fastidio ai borghesi. Il borghese che era capo della fabbrica, un tedesco del posto, era una brava persona, mi aveva preso in simpatia, ma non poteva parlare con me, mi doveva dare solo ordini e basta. Io avevo un tornio, avevo tutto dentro, facevo dei barattoli di alluminio col manico, che si porta a pranzo col tegame sopra. Li facevo belli nuovi, e li lasciavo sopra. Lui capiva, li portava fuori e portava dentro patate, sigarette, roba. E io portavo là [in baracca]. Però era difficile entrare con della roba: noi avevamo una stufa ma non ci permettevano di far fuoco, e noi dovevamo cuocere le patate. Allora ci voleva la legna, e il carbone che in fabbrica c’era. Eravamo in 1.500, 400 prendevano un pezzo di legno, piccolo, ciascuno. Metà li prendevano [nella perquisizione], toccava buttarli nel mucchio, là; e l’altra metà passavano […]. Mi dava le patate e le portavo dentro, e allora io dovevo essere protetto: eravamo in 40 nella baracca, se a me mi visitano, mi trovano la roba… oltre quello la baracca non mangia. Accendevamo [il fuoco], tagliavamo le patate e le attaccavamo tutte al camino, quando la patata cadeva era cotta. E avanti, diviso sempre per tutti. Al mercoledì non si lavorava in fabbrica, ci mandavano a Dessau a sgombrare le strade. Viene un certo momento che uno si accorge che sotto una cantina ci sono delle patate mezze cotte, con gli spezzoni di legno. Allora andiamo là a prendere le patate. Uno della SS si accorge, ci aspetta sulla porta: ognuno, con un tondino grosso così, lungo così, un colpo nella testa. Io mi sono alzato e l’ho preso qui [sul petto]. Mi ha fatto male ma me la sono cavata. Quattro ne ha ammazzati, ci ha aperto il cervello. Poi botte a noi per portarli là nel campo, perché eravamo andati a prendere le patate. […]
Un’altra volta andiamo sempre fuori a sgombrare. Era un mercoledì, e c’erano gli aerei americani che passavano. ‘Sto salame della SS faceva bum bum bum, ma non sparava, faceva solo finta di sparare. E c’era un muro rimasto su così e noi scavavamo sotto. Non so come questo qua si è appoggiato sul muro. Era un muro alto 20 metri, rimasto solo… e ‘sto muro ballava, e lui col fucile giocava “balla, balla”: ‘sto muro cade giù, e cade dalla parte dove sono i miei che lavorano sotto. Botte col fucile alla schiena per tutti, da scavare alla svelta per tirarli fuori. […]
Un altro mercoledì una donna, sopra, ci vede passare e ci butta una pagnotta di pane: puoi capire, una colonna di 1.500 persone, butti una fetta di pane, viene fuori il pandemonio. Hanno avuto coraggio di andar su, e ci hanno sparato eh. Quella era tedesca… ma non sarà stata tedesca, perché se era tedesca non buttava il pane. Perché solo i cecoslovacchi si facevano sparare dai tedeschi per buttarci il pane oltre i reticolati. Solo i cecoslovacchi, solo quella gente! Non mi potrò mai dimenticare di quella gente. Poi vi racconterò come ci hanno aiutati.
Così è stato il campo di concentramento. Se volete dire, le gru erano rotte, e noi lavoravamo sui vagoni, tutta roba pesante che bisognava portarla da un posto all’altro, tutto a mano. La mia gru, fortuna, era rimasta buona. È venuto il tempo di dover fare un altro ponte, gli americani erano vicini, si sentivano già le cannonate. Torno indietro: […] noi avevamo uno della nostra baracca che andava a mischiare le patate nella dispensa che era dentro nel campo – era dentro i reticolati di corrente – che le mischiava ogni giorno perché non andassero a male, levava quelle marce; bisognava far quel lavoro, e si trattava di tonnellate di patate, perché loro mangiavano, non noi, ma loro mangiavano. […] Quando bombardavano, che spegnevano le luci, e i fari non funzionavano, noi andavamo dentro per un finestrino, andavamo a prendere le patate e poi le portavamo fuori. Difatti quando ci hanno portato via di lì abbiamo lasciato sul soffitto, sopra, un quintale di patate. È morto uno solo della mia baracca, un polacco, perché era vecchio proprio. Si vede che ha preso un male, senza cura, senza niente… bronchite, tossiva sempre, ma fu l’unico morto della baracca.

D: Antonio, tu dicevi che oltre a costruire i ponti tu con altri costruivate dei vagoni speciali?

R: Sì, erano vagoni cisterna mascherati con dei compensati robusti [e] con una croce rossa, e in centro avevano le mitragliere. Fuori era compensato ma dentro c’era uno strato di cemento di 50 centimetri, tutto in cerchio, dove giravano ‘ste mitragliere antiaeree a quattro canne, e sopra c’era un coperchio scorrevole e apribile. […] A me mi serviva l’acciaio, l’acciaio buono per far coltelli, perché erano molto in voga i coltelli di acciai buoni, e poi le pentole per friggere le patate, di ferro; io avevo l’attrezzatura e le facevo, il borghese mi portava roba. Per me andava bene perché la baracca mia fumava e mangiava, e così ci siamo salvati. Ci siamo salvati così.

D: Quanto tempo sei rimasto tu in quel campo lì?

R: Siamo rimasti lì… marzo-aprile… fino ai primi di aprile del ‘45. Poi hanno proprio raso la fabbrica al suolo e ci hanno portati via. Ma torniamo indietro. […] È venuto di fare un altro ponte di questi: chi era in grado di farlo? E allora dice a me: “Guarda che devi fare quello lì, devi cercare di fare delle ore [di lavoro]”. “Ma io, benedetto, se non mi porti da mangiare, io non lavoro, perché ci vuol forza”. C’erano le saldature da fare, le saldature larghe così, con elettrodi da un centimetro, non era uno scherzo. Prima mettere assieme tutta la roba e poi saldar tutto, girare con la gru di qua e di là. Lui ha detto: “Per te ci penso io”. E io sempre dividevo, sempre con tutti. […] C’era sempre un fattore: uscire dalla fabbrica, dividere la roba per persone, quelle persone dovevano essere precise di quello che bisognava fare sennò perdevamo tutto. Perché usciti dal portone della fabbrica noi eravamo più niente. Eravamo in mano alle SS […]. Allora accetto di fare questo ponte. Siamo a metà lavoro, contenti vengono i borghesi, i proprietari e grossi ufficiali, lo guardano, non dicono niente. Mi dice il capo borghese: “Guarda, c’è da girare”. “Va beh guarda, giralo te perché io devo andare al gabinetto… almeno a quello posso andare?”.
Vado in gabinetto e trovo una ventina – un gabinetto grande, lungo – una ventina di questi prigionieri che erano lì che parlavano… perché si sentiva già le cannonate, e loro si vede che parlavano di questo. Viene un capo [kapò, ndr] di quelli tedeschi, di quelli del 33 che l’abbiamo portato da Buchenwald, c’hanno dato quelle mansioni lì, li ha fatti stare un po’ più bene, avevano una baracca a parte, mangiavano meglio, avevano dei permessi. Viene lì quello, prende il numero di tutti. Arriva lì da me, ero appena entrato, e mi dice: “Dammi il numero”. “Non ti do il numero per niente, perché devo darti il numero?”. “Perché sei qui?”. “Sono qui perché devo andare in gabinetto, devo fare i miei bisogni”. “No” – ha detto – “Mi dai il numero”. “Te mi prendi il numero, domani… Ich morgen kein essen, tu […] kaputt”. Tutti sono rimasti meravigliati. Allora lui m’ha dato uno schiaffo forte, perché aveva forza, lui mangiava. Io avevo degli zoccoli, erano pesanti così […], c’ho scaraventato due pedate nello stinco […]. Lui m’ha buttato per terra, sono venuti gli altri capi [kapò], m’han dato pedate e legnate anche loro. E poi mi hanno portato in infermeria. In infermeria ho trovato anche lui […]: “Guarda che qui ci vuole il medico. Qui è scheggiato l’osso da tutte e due le parti”. Sicché lo portano in ospedale. Per me è ora di andare in baracca […]. Quello là in ospedale è peggiorato. […] È venuto [dal] Gauleiter l’ordine di vedere com’è questa roba, che non si può permettere che uno vada contro un capo. Nel frattempo io sono andato in fabbrica, prima di tornare dentro [in baracca], mi sono seduto sul banco. È venuto il borghese, mi ha detto: “Come mai?”. “Io non lavoro più: sono andato in gabinetto – ho lavorato fino all’ultimo momento, non mi sono nemmeno lavato le ami e la faccia – a fare i miei bisogni, [e il kapò] mi ha preso, mi ha detto che mi prende il numero che domani non mangio. Io ero appena andato…”. “Ma io lo so, testimonio io” […]. Lo sapete che non potevo piangere? Avevo il singhiozzo, mi venivano giù le lacrime, sapere il disprezzo, non mangiare, dover lavorare. Che un ignorante mi possa fare una cosa del genere, senza chiedere quanto tempo, come sei, dove lavori, che lavoro stai facendo. Queste erano cose che mi davano un’offesa che non potevo piangere. E andiamo in baracca. Siamo in baracca tutti quanti, compreso Nikolai, questo russo. Tutti quanti sanno tutto, tutti han visto tutto. Quasi alle 10 di sera arriva il Gauleiter, il capo del [campo], sarebbe quello che comanda le SS, il campo, tutto […]. Viene lì con tre della SS, due col nerbo in mano, nerbi di quelli che ti fanno rimaner secchi. Viene, chiede il mio numero, dove sono io. Sono su [in] baracca, dentro. Nikolai mi dice: “Non scendere, perché qui ci deve portar via tutti”. Lui viene dentro, arriva a trascinarmi fuori: i miei mi tirano di qua, loro tirano di là. [Dei] due delle SS uno tira fuori la pistola. Ho detto, qui si mette male. Arriva una motocicletta dentro, con un ordine. Il capo borghese, che non poteva parlare con la SS, non si poteva, ha parlato col direttore di fabbrica, con quello interessato al ponte; ci ha spiegato tutto: “Questo già non mangia per fare ‘sto lavoro, ancora ci diamo delle botte dopo che ha fatto il lavoro? È l’unico in grado di poterlo fare”. […] Han mandato una motocicletta al comandante, il comandante non era nella caserma, è venuto con la moto dentro, ci ha dato questa carta. Noi abbiamo visto la carta, non sappiamo cosa era scritto. Si ritira, il Gauleiter si ritira, mi molla. SS dà ordine di uscire, di andar via. Dopo un quarto d’ora arriva il cuoco delle SS con una gamella di zuppa, con due pacchetti di sigarette e un pezzo di pane. Io c’ho detto a Nikolai – non avevo mangiato – “Mangiate voi, fate quello che volete, io non sono in condizioni di poter far niente, poi domani vedrò.” […] Io ho voluto farci vedere… “Mi ammazzerete, non mi interessa, però voglio dimostrarvi di essere più civile di voi, ma molto di più”.
Torno indietro. Un’altra cosa che è molto importante, che i tedeschi devono sapere: quando noi scavavamo fuori le bombe, che ci portavano a scavar le bombe [inesplose], mandavano le donne, mandavano i bambini piccoli, con la bacchetta, andavano in colonna a darci bacchettate per le gambe. E loro a ridere, bere il thè sulla finestra insieme alle donne. Questo è il fatto, questa è l’umiliazione. Queste sono cose che pesano. Ma come si fa a fare un’azione del genere? […]

Seconda parte

Siccome che [in] quei mesi lì erano i mesi che han bombardato dappertutto, han bombardato anche la fabbrica, han bombardato tutte le città. Addirittura Dessau l’hanno spezzonata, solo con spezzoni, ogni metro quadro uno, spezzoni che bruciano fino a… nell’asfalto andavano a tre-quattro metri sottoterra, roba potentissima, che non si è salvato niente. Loro han detto – si vede che han parlato – “li portiamo via”. Allora ci hanno messo come le bestie [a tirare] i carri, e c’han fatto camminare. Abbiamo camminato una giornata intera. Siamo arrivati in una città che non so come si chiami.
Ci han portato lì dei carri, [che trasportavano] della roba, del pane, […] in questa città [dove] non si poteva andare [per] le strade perché era tutto sottosopra. E siamo andati a portare ‘sto pane alla gente, due pagnotte ognuno, “con la speranza che ci diano da mangiare” – han detto – “se facciamo questo lavoro il comune ci dà da mangiare”. Invece non è stato così. Fortuna che eravamo all’aperto, in campagna, ogni tanto prendevamo delle brancate di cicoria e mangiavamo quelle ed è andata bene così. […] Di nuovo, prendi i carri e via in un’altra città. Abbiamo camminato due giorni e una notte. Siamo arrivati al mattino là e c’erano dei camminamenti da [tracciare]: c’erano i picchi… quella roccia friabile; due giorni senza mangiare; camminare… chi restava indietro era morto; ancora a tirare i carri avanti per portare la roba [dei tedeschi] perché cavalli non ce n’erano. Là si sono accorti che, picco o non picco, è inutile: a fine giornata non c’era nemmeno dieci centimetri di buco fatto, è inutile darci botte, legnate, se non c’è fossa non si può fare niente. Allora via di lì. Ci portano in un altro posto a fare un altro lavoro. Niente da fare, troppo esauriti. Allora vanno in una dispensa con un carro e prendono dei sacchi di orzo. ‘Sto orzo bisogna dividerlo. Eravamo 1500, e qualcuno era già morto, metti che era mancato un 50 di loro, non di più. Comunque, eravamo sempre una bella cifra: dividi qua dividi là, tre cucchiai di orzo crudo ciascuno, così era da fare, in fila, uno due tre, uno due tre. [I tedeschi] però avevano il suo pane, la sua marmellata, loro avevano la sua roba, questo si sa. Quella giornata è andata così. Poi ci portano sul [fiume] Elba, non so che città era, e ci mettono su tre barconi. Ormai non erano in grado di consegnarci a nessuno, ci dovevano far fuori tutti perché sennò erano responsabili di quello che era, di quella che han fatto, è logico. Abbiamo navigato un mese su questi barconi, sempre con queste razioni di mangiare spaventose. La gente come moriva nelle stive… Non c’era gabinetto, non c’era niente: abbiamo noi levato qualche tavola [per i nostri bisogni], fortuna che non si mangiava e così c’era poco da fare. Non c’erano letti, non c’erano coperte, non c’era niente. Bestie, come si mette le vacche, bestie e basta.
[Abbiamo] fatto questo mese di viaggio e siamo arrivati vicino Praga, a 17 chilometri da Praga. Era l’8 maggio. [Davanti a noi] c’era un bivio: da un lato era la centrale, dall’altro lato, sull’Elba, c’era un ponte bombardato e caduto. Di là del fiume c’erano le camionette dei russi che ci facevano già segnale, anche i cecoslovacchi dicevano “buttateli tutti e [lasciateli a noi], ormai la guerra è quasi finita” perché [eravamo] in una sacca, i russi erano andati più avanti, la notte son passati di lì. Non possono più andare avanti coi barconi. Fermano i barconi lì. L’Armata Rossa viene avanti, ho visto gli apparecchi. C’era una colonna di militari tedeschi sulla strada vicina, li han fatti fuori tutti, allora quelli lì hanno preso paura. Durante la notte… Ma noi non si sapeva niente, né che giorno c’è, né quando finirà la guerra, né dove eravamo: avevamo perso tutto ormai, qualunque orientamento e qualunque speranza.
Durante la notte [i tedeschi] si sono levati i vestiti [militari], han messo vestiti normali. E lungo il fiume loro erano sul rimorchiatore, non erano sulle chiatte; loro erano nella barca motore dietro, che faceva la guardia, e ogni tanto di giorno venivano a vedere chi era vivo e chi era morto: morto, puf, nel fiume, e via. A un certo momento ci alziamo al mattino e non li troviamo più. Viene qualcuno con la moto, ci dice: “Guardate, siete liberi, loro sono scappati”. Andiamo in terra, abbiamo paura anche ad andare in terra. Mi ricordo come adesso: c’erano i corvi che avevano fatto i nidi in questo bosco, questo triangolo [di bosco], ma ce n’era tanti, ce n’era cinque-sei nidi per pianta. Allora io che da bambino sono sempre andato sugli alberi mi sono arrampicato e ho cominciato a buttar giù ‘sti piccoli. Allora accendi il fuoco col cotone, perché non avevamo fiammiferi. Un pezzo di cotone, due tavole, una sfregata: cinque minuti e c’era la brace già bella pronta. Difatti col cotone si fa anche l’esplosivo, noi questo lo sapevamo. Abbiamo mangiato, il primo giorno tutti. Però abbiamo visto che siamo in pochi, difatti poi ci hanno contato: 900 eh, partiti in 1500. […]
Ma il bello deve ancora venire. La notte è passata l’Armata Rossa – bim bum, spara di qua spara di là – e noi siamo andati in una fabbrica di tabacco, e [lo abbiamo cosparso] per terra, “guarda che bello, finalmente una dormita”. Poi viene un vecchietto lì del posto, un cecoslovacco: “Ragazzi uscite tutti, perché se no con quel gas lì domani mattina voi siete tutti morti, perché quello lì è veleno, è un gas che deve fermentare”. Allora siamo usciti e siamo andati in una stalla. Il contadino ci ha dato un secchio di latte; ormai eravamo già allargati, chi è andato di qua chi è andato di là, eravamo rimasti in pochi. Ci ha dato delle patate sode e questo latte. Abbiamo mangiato così, con le mani, come le bestie, perché non avevamo niente, né cucchiai né niente.
L’indomani ci portano a Praga, eravamo vicini. Siamo a Praga, cosa facciamo? Han detto: “Andate per negozi che ci vi danno qualcosa, dovete vestirvi, tirar fuori [i vostri], lavarvi”. Ci mettono in tre-quattro per famiglia a Praga, ci danno da mangiare, da vestire, ci mettono a posto, ci danno il bagno, tutto. Poi ci passano la visita e dice: “Fra tre giorni vi trovate tutti in stazione che vi portiamo in un campo di smistamento”. Allora andiamo in giro, per Praga, di qua di là.
Anzi, devo dire prima [una cosa]. Quando ci hanno portato a Praga che abbiamo fatto tutti quei chilometri a piedi, ogni paese tutta ‘sta gente veniva con le pinte di caffelatte, coi dolci, col pane, fin troppo, fino a vergognarsi da dover dire “no basta, abbiamo già mangiato già in quel paese là”. Ogni paese ci facevano riposare, arrivava ‘sta gente, sembrava che sapessero… Insomma, una cosa… una cosa che ancora adesso mi commuove, a pensare quella cosa lì. Mentre gli altri ci han trattato in quella maniera, come ci han trattato…
Allora, ci portano là, ci danno ‘sti vestiti, ci mettono a posto, e noi andiamo in stazione. In stazione ci sono dei russi che scaricano delle cassette di uova sode colorate. Ogni tanto [qualche uovo] cadeva e lo mettevano da parte. Noi ci abbiamo detto: “Possiamo prenderle?”. “Prendete finché ne volete”. Io avevo il berretto, ne ho preso un berretto pieno, gli altri lo stesso. Siamo andati lì un po’ avanti nel fosso per non sporcare, le abbiamo pelate e le abbiamo mangiate. Ne abbiam mangiate [tante] che… io meno, gli altri non so, non li ho visti. Sono andato in coma, quattro giorni in coma: Mi sono trovato a [incomprensibile], mi han preso gli amici, mi han messo sul treno, con la testa fuori del vagone; e mi hanno detto [poi] che fino in Ungheria ho sempre buttato fuori.
Ci hanno portato in Ungheria, in un campo che erano tutti italiani, e c’era il comando italiano con gli ufficiali italiani. Ecco perché abbiamo perso la guerra: siamo stati quattro mesi lì a aspettare che arrivino ‘sti vagoni. Noi abbiamo perso la guerra perché avevamo delle signorine come ufficiali! Prima di tutto non dovevano accettare la guerra, perché dovevano capire gli intelligenti ufficiali che noi siamo un fuscello rispetto al mondo. Ed era solo che da perdere e far stragi. Invece di dire “otto milioni di baionette” dovevano dire “otto milioni di gente scalza”. Perché in Grecia la gente [arriva] tutti congelati. Come si fa? Ma dalla Russia, con le pezze ai piedi: come si fa vincere una guerra così? Questi dovevano essere processati, dal tenente a tutti gli ufficiali. “Adesso voi fate tutto quello che avete fatto fare alla gente” […]

D: Antonio, quando sei rientrato in Italia?

R: A [incomprensibile] si aspettava che arrivassero ‘sti vagoni, e i russi ci facevano lavorare, lì, che avevano una santabarbara da far saltare sulle granate. Ma non andava tanto bene, era un lavoro che non mi piaceva. “Ho giocato tanto con le bombe, adesso la guerra è finita e non voglio fare [più]” E allora ho trovato il sistema di sgattaiolare. Però, posso dire, ci davano da mangiare a volontà. Noi eravamo in ventisei italiani [mentre] gli ungheresi erano tutti spariti, erano tutti con i tedeschi. Finché non sono andati via i russi di lì non si è fatto vedere nessuno. Ci [sono voluti] dei mesi perché ogni tanto arrivasse qualcuno. Allora ci hanno dato una casa. “Chi vuole” – han detto – “si faccia da mangiare da solo, viene qui il capo baracca, fa la nota del personale che c’ha, e noi ci diamo i viveri e fanno da mangiare”. Io ero insieme con degli alpini, con altra gente dell’esercito. Internati politici erano pochi perché ormai eravamo sparpagliati. Dov’ero io ero il solo [deportato politico] italiano rimasto, erano tutti stranieri. Ci avevano diviso: [ad] ogni nazione han dato il suo campo. Noi prendevamo il tabacco; c’erano i sacchi [che contenevano] tabacco tagliato: a noi ogni settimana ci veniva uno di quelli. Fai il conto: 25 grammi di tabacco ciascuno al giorno – che io ne ho portato a casa uno zaino perché fumavo poco – 25 grammi di lardo o pancetta [da] mangiare col pane, 700 grammi di pane e 25 grammi di zucchero. E poi caffè, che non era caffè ma era orzo, quello a volontà: caffè non c’era, va ben. Se volevamo [c’era] anche il latte, latte in polvere, quello che adoperava l’esercito, ma noi quello non l’abbiamo mai preso. Sicché il mangiare, vi dico la verità, era troppo. All’inizio mangiavo dove avevano fatto la mensa, erano sette italiani che facevano da mangiare, tutto al modo nostro. Noi abbiamo fatto le tettoie, noi abbiamo fatto i tavoli, noi abbiamo fatto le panche. Noi italiani facciamo tutto. Noi abbiamo fatto i bidoni per buttare lo scarto, [anche se] qualcuno buttava fuori. Qualcuno faceva il minestrone – era più carne che fagioli – buttava i fagioli e mangiavano la carne, poi buttavano per terra […].
Ad un certo momento dice l’ufficiale russo: “State a sentire, qui vogliamo fare qualcosa visto che bisogna stare ancora insieme. Chi vuole venire con me, prendiamo due camion, andiamo in Austria, prendiamo un po’ di strumenti” – perché sapeva già, chi suona quello chi suona quell’altro, io anche suonavo la chitarra – “e mettiamo su un teatro”. “Teatro?”. “Non aver paura, vedrai che facciamo”. Siamo andati in Austria, ci han comprato – comprato, cosa ne so io? – ci hanno dato questi strumenti, li abbiamo messi sul camion, abbiamo provato [e] funzionano. E siamo venuti a [incomprensibile]. Lì c’erano due camion di tavole: abbiamo fatto il palco, abbiamo fatto tutte le panche, abbiamo fatto tutto, nel tempo di una settimana dopo arrivati lì. C’erano già altri prima [che arrivassimo noi], c’erano già gli ufficiali lì, ma erano troppo ignoranti per capire. Abbiamo fatto la squadra di calcio quando eravamo contro i russi, e c’era il comandante che era più rabbioso quando prendevamo il goal noi che non quando lo facevamo, che voleva sempre che facevamo vedere a loro come si fa. Perché quattro mesi erano lunghi, quattro mesi li abbiamo passati così. Almeno abbiamo passato il tempo. Poi [avevano] da dire che gli italiani in cucina erano quelli che rubavano. Un giorno arriva la pattuglia – la sera eravamo liberi – e prendono [uno] con un sacco di zucchero che lo andava a vendere. Tasta, guarda, fa il buco: “Zucchero! Torna indietro, portalo indietro, non fare lo scemo”, Che già si capiva bene il russo: io ero quasi tutto [il tempo] coi russi, tedesco m’arrangiavo, dopo il russo l’ho imparato. L’han fatto portare indietro e non c’han fatto niente… Perché rubare? C’abbiamo tanto che vogliamo! Per darcelo a quelli là? Che gli ungheresi son peggio dei tedeschi: la razza seconda peggiore che ho trovato sono gli ungheresi eh, questo è un fatto.
Viene il momento in cui arrivano ‘sti carri bestiame, aperti, non chiusi. Han detto: “Arrivano dall’Italia”. Infatti era scritto ‘Italia’. Io sono partito [con] la seconda andata, perché quelli che erano prima di me lì sono partiti prima.
Eravamo in quattromila lì: duemila son partiti e siamo rimasti in duemila. Dopo un quindici giorni è arrivato il treno, tutto aperto: “Se piove qui come facciamo? Sarà un po’ di tempo da navigare per arrivare”. “Dobbiamo arrivare in Austria, però bisogna fare il giro per Monaco di Baviera”. Eravamo in Ungheria e bastava andare a piedi, eravamo già in Austria. No, abbiam dovuto andar su, in Germania, perché la ferrovia era per l’esercito, era per loro, americani e russi, serviva a loro. Questo devo ammirare, che l’ufficiale russo che comandava, non i militari russi; quello era un uomo. Ha mandato i carri scoperti, conosceva già tutto il tragitto. Ci fermammo in un posto dove lui aveva già preso le tavole per fare il teatro. “Qui dobbiamo star fermi due giorni”. Abbiamo fatto [di] ogni vagone una baracca – questo ve lo giuro – e lui rideva che non finiva più. In centro abbiamo messo la carrozza passeggeri per i soldati russi, e subito dietro la cucina da campo, [che] ha sempre funzionato. Quando era ora di pasto: “Ferma, adesso si mangia”. Non abbiamo mai mangiato in corsa, abbiamo sempre mangiato fermi. Per dormire lui ha telefonato e ha detto di andare là. Allora è andato – comandava lui il treno – in un posto e c’erano delle brande, ma non c’erano materassi: “Ragazzi, materassi non ci sono, solo brande!”. Allora fil di ferri, ligar sopra, ligar sotto, una branda, l’altra branda: castelli a due [piani]. Ragazzi, questo ve lo posso giurare. Questo ha fatto quest’uomo. Un mese ci abbiamo impiegato. Siamo arrivati in Austria, in mano agli americani. Gli americani ci danno un pacchetto di sigarette, una cioccolata. Cioccolata non avevamo mai vista. Ci han dato di tutto, ma cioccolata…
Poi vengono con quel DDT in polvere, ci [disinfettano] qua e là, dappertutto, e ci mettono lì, dove c’erano i letti. Quella cioccolata è durata quattro giorni! Ci hanno messo sui treni dopo, treno passeggeri, per venire in Italia, e quando siamo arrivati dopo quattro giorni sul confine italiano la prima cosa che han fatto, han suonato ‘Il Piave mormorò’. Avevano le ceste di panini: due ceste, duemila persone! Due ceste, cinque minuti erano sparite. E poi non si mangiava. E ‘Il Piave mormorò’: carabinieri sulla passerella, camminavano. Allora metti in moto il treno e avanti, altra stazione. Di nuovo la musica, ‘Il Piave mormorò’. […] Nessuno prende panini, i cesti sul treno. Andiamo nel paese dopo e loro suonano quello che vogliono. Noi scendiamo dal treno, tutti duemila. Duemila in città, in tutti i negozi; i carabinieri [sono] restati lì di stucco perché eravamo duemila, mica uno. Andati in tutti i negozi, ci siamo riforniti con ceste, con robe, perché sapevamo che dovevamo arrivare fino a Verona, con pane, con panini, prosciutti, tutto quello che c’era. [Chiedevamo che pagassero alla gente quello che avevamo preso], non ‘Il Piave mormorò’. Tenetevelo pure, noi teniamo il pane!
Sono arrivato a Verona. Ci hanno messo nel campo, con le tende già preparate dai militari, ci hanno visitato, siamo stati un paio di giorni, ci hanno dato da mangiare, ci hanno dato dei soldi, il biglietto. Ci hanno divisi – sud, nord, est, ovest e via avanti – ci hanno dato il biglietto e siamo venuti a casa. Non è finita. Quando sono arrivato a casa, arriva la cartolina di andar militare, cartolina rosa. Come, non avevo fatto già abbastanza io? Ogni tre mesi arrivava la cartolina. A un certo momento io mi rifiutavo, questo è logico, e loro a tutti i costi volevano… cosa volevano poi non lo so nemmeno io. Un giorno arriva un brigadiere a casa mia, c’è mia moglie: “Non avete il postino per mandare la posta? E viene lei in casa mia?”. Ha detto: “Ho avuto ordine di portarci io la cartolina”. “Perché la cartolina, per cosa? Tanta paura avete? Avete paura che facciamola rivoluzione? No, la facciamo ancora perché quando siete voi d’accordo con noi di fare la rivoluzione, che voi avete le armi, con le vostre armi dobbiamo fare la rivoluzione. Quando voi siete d’accordo con noi faremo la rivoluzione, perché noi armi… Comunque, quella carta lì, che lei ha in mano, se la tenga pure perché io ho fatto già la prigionia, io ho fatto già il partigiano, io ero esonerato, e cercate di mandarmi il congedo, perché io ero esonerato, ho lavorato per il governo”. Allora quello lì è stato bravo: “Ha ragione. Io queste cose non le sapevo”. Ed era quello che era appena venuto brigadiere nel paese, comandava. Ve lo giuro che dopo due mesi m’hanno mandato il congedo con trentasei mesi di ferma e m’hanno dato tutti i soldi della paga di militare di quella volta – mia moglie testimonia – ottomila lire. Pochi erano, non importa, m’hanno servito. E non mi hanno più seccato, ma ve lo dico che mi hanno rovinato bene.

D: Antonio, tu non sei mai stato intervistato in questi 55 anni?

R: No, mai. Nessuno m’ha mai chiesto com’ero, dov’ero, niente. Ho fatto [richiesta], m’han mandato la Croce Rossa la carta dov’ero, ho consegnato, ma m’hanno riconosciuto in ritardo: io il premio di inizio l’ho perso perché non ero al corrente delle cose. Infatti, quello l’ho perso io, e difatti sul ‘libro mastro’, il libro grande degli internati politici io non risulto.

Algeri Giuseppe

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Io sono Algeri Giuseppe, nato a Caltagirone il 17.11.1921, [in] provincia di Catania. Sono stato preso… arrestato il 9.9 del 1943 a Tirana, Albania, catturato dai tedeschi. Dopo quindici giorni di prigionia in un campo di concentramento i tedeschi, dopo averci disarmato, ci hanno riarmato di nuovo e ci hanno portati al confine della Bulgaria. Il riarmo è stato il motivo perché… dovevano passare dai ribelli albanesi, e allora avevano paura e ci hanno riarmato. Arrivati al confine della Jugoslavia ci hanno di nuovo disarmato. Da lì, ci hanno messo su dei carri bestiame e ci hanno portato in Germania.

D: Pippo, ma tu eri in Albania come militare?

R: Sì, ero in Albania come militare. Aviere di governo.

D: In che campo ti hanno messo quando eri in Albania?

R: Era un campo tra Durazzo e Tirana, era un campo di concentramento dei greci. Allora c’erano i greci, perché in queste baracche c’era scritto “noi spezzeremo i reni ai greci”. Ci hanno portato lì, ma io ci sono stato dieci giorni, quindici giorni, e poi dopo ci hanno messi su questi camion, e per attraversare l’Albania ci hanno dovuto riarmare, come ho detto prima. Arrivati in Bulgaria ci hanno messo sui vagoni bestiame e siamo andati in Germania.
La prima tappa l’abbiamo fatta a Vienna. A Vienna ci hanno fatto delle perquisizioni, ci hanno cercato di levare quello che avevamo, e da lì ci hanno portato a Königsberg. Königsberg era un lager di concentramento. Sono arrivato il pomeriggio… di sera, sarà stato verso la fine di settembre ecco, non ricordo con precisione le date. Da lì, l’indomani mattina mi hanno fatto delle foto segnaletiche, impronte digitali, e basta. Al pomeriggio ci hanno detto che cercavano degli operai specializzati. Io ero falegname e allora mi hanno preso. E mettevano da un lato chi era buono e [da un altro] chi era malato. Io un po’ [sentivo] la paura del malato… m’ha fatto un po’ paura. Ma comunque io stavo benissimo, non avevo nessun problema. Da lì mi hanno messo da parte. L’indomani mattina subito un ufficiale – eravamo una trentina – ci ha messo sul treno, e ci ha portato a Nordhausen. Le città che abbiamo passato erano: prima Berlino, abbiamo fatto una prima tappa, tutta la notte ci siamo fermati lì, la prima volta che ho visto la scala mobile, che io non sapevo cosa era la scala mobile; da Berlino l’altra città era Essen e poi siamo arrivati a Nordhausen. Nordhausen è a quattro chilometri c’è il Lager Dora, Dora-Mittelbau. Da lì, appena arrivati, subito ci hanno preso i nomi e poi ci hanno portato in una specie di bagno. Ci hanno rapato a zero, ci hanno spogliato di tutto e, finito di fare il bagno, ci hanno fatto vestire con le divise a righe. Noi, che eravamo militari, per quale motivo vestiti a righe? E lì c’è stato uno sconforto generale.
Eravamo una trentina, così: un po’ venivamo dai Balcani, qualcheduno – cinque, dieci – venivano dalla Russia e avevano fatto undici mesi di ritirata. C’erano dei carabinieri. C’era un alpino, perfino, che era diventato sergente al valore militare: questo qui si è messo a piangere come un bambino, [con] gli altri ci siamo guardati in faccia… Ci hanno portato di nuovo fuori, è arrivato un contrordine. Ci hanno spogliato di nuovo lì, all’aperto, e ci hanno ridato di nuovo la divisa. La divisa aveva il numero 0162. La matricola che mi avevano preso prima a Königsberg non serviva più e allora il mio numero di matricola ora era 0162.

D: Ma questo numero di matricola dove te lo hanno dato?

R: Al Dora. Una nuova matricolazione, ecco. Dopo siamo rientrati in galleria. In galleria ci hanno dato una zuppa. Questa zuppa era una zuppetta dolce. Io… mai mangiata, difatti alla notte poi mi è venuto un forte mal di stomaco e sono stato male.
A mezzanotte mi hanno mandato già subito a lavorare. Dentro la galleria stessa m’hanno mandato a lavorare e m’hanno dato un martello perforante, che io non sapevo nemmeno cos’era, e abbiamo cominciato a fare buchi alle pareti, a questa roccia, in queste gallerie: un tunnel era. Facevamo dei buchi profondi 4 metri e 20: cominciavamo con un metro fino a che si arrivava ai 4 metri.
Ora, la notte, come turno facevo da mezzanotte a mezzogiorno. Questo sin dal primo giorno [che ero] arrivato, sarà stato i primi di ottobre [1943], non ricordo con precisione le date. A mezzogiorno si doveva andare a dormire per regola, finite dodici ore di quel lavoro snervante. Da lì, dove si dormiva? Si dormiva nei castelli alti a cinque piani, e io, siccome già avevo qualche pidocchio addosso, io me ne andavo all’ultimo piano perché c’avevo la lampadina più vicina, in modo che mi potessi schiacciare questi pidocchi e ucciderli. Alle cinque di sera arrivavano gli altri deportati che lavoravano fuori. Allora, figuratevi, un casino che c’era: la gente che rientra dal lavorare, noi che dovevamo dormire, e non si dormiva. Alle 11, di nuovo sveglia, ma già eravamo svegli: “Italiani, 11, a lavorare!”. E si va di nuovo a lavorare nelle gallerie, sempre a fare lo stesso lavoro: perforare questa roccia. Dopo, finito questo lavoro – eravamo circa dodici-quattordici persone che bucavamo questa roccia – l’indomani mattina, finito di fare questi buchi, venivano i minatori, riempivano e facevano saltare la roccia. Questo lavoro l’ho fatto per sei mesi consecutivi, dodici ore al giorno, da mezzanotte a mezzogiorno e da mezzogiorno a mezzanotte, una settimana così, una settimana…
Dopo sei mesi – che io come morale ero alto, non ero uno che mi… e poi avevo 22 anni… – e allora, insomma, mi cominciava a pesare: non era tanto per il lavoro, quanto perché non dormivo, né notte né giorno. Allora, si è dato il caso [che] è venuto un cecoslovacco, ma che io mai avevo conosciuto e mai visto, si vede che veniva dall’Arbeitsstatistik, non lo so, veniva da fuori. Gli dissi: “Mi faccia la cortesia, vedi se mi puoi fare uscire da qui dentro, perché io qui sto morendo, non ce la faccio più”. Ma non so se m’ha visto simpatico o cosa è stato. Dopo due giorni m’ha detto: “Vieni fuori a lavorare”.
Allora m’ha portato fuori all’Arbeitsstatistik e lì mi hanno mandato alla baracca numero 18 dove c’erano tutti gli italiani, che io gli italiani quasi ne avevo visto pochi. O meglio, se c’era qualche italiano non ci incontravamo mai quando si smetteva di lavorare perché uno faceva da mezzanotte a mezzogiorno e l’altro faceva da [mezzogiorno a mezzanotte]. Nel frattempo che noi facevamo [un turno] avevamo due turni di civili, che loro invece facevano dalle sei alle sette. Noi in un turno avevamo due turni di civili… freschi sempre. Finito questo, ci davano un po’ di zuppa. La zuppa consisteva in un litro di brodaglia, un pezzo – circa 200-250 grammi – di pane. Alla mattina ci davano un po’ di caffè amaro, surrogato sarà stato, e con quella roba lì si tirava avanti. Il caffè era importante perché l’acqua dentro la galleria non ce n’era. Arrivava un’acqua colore bianco: chi la beveva… a qualcheduno che l’ha bevuta ci veniva la diarrea [con il] sangue, e moriva.
Per sei mesi: mangiare, dormire, lavorare, fare i nostri bisogni, tutto in galleria. Erano due tunnel lì, scavati già dai tedeschi prima. Questi due tunnel erano paralleli e noi foravamo delle gallerie in modo da poter congiungere i due tunnel. I nostri bisogni, si facevano di fronte a tutti. Nel tunnel c’erano circa 30-40 bidoni. Insomma, erano dei fusti di benzina tagliati in due. Lì ci si metteva un pezzettino di tavola e in quella tavola dovevamo fare i nostri bisogni. Buona parte [di noi] aveva la dissenteria, come già detto. Però dovevi essere fortunato a fare i tuoi bisogni che non si trovasse a passare la SS, perché quando passava la SS erano botte perché loro credevano che lì andavamo a riposare. Effettivamente qualche volta si andava anche a riposare, allora dovevi scappare con i pantaloni addosso, correre e andare via di lì.
Dopo questi sei mesi, ripeto a dire che io ero proprio finito. Allora son passati e mi hanno portato fuori a lavorare. Arrivato fuori a lavorare m’hanno mandato a costruire delle strade. Pensa: un falegname, un ebanista com’ero io… e quest’era il lavoro. Quando si andava fuori a lavorare, andavamo a lavorare trenta uomini, trenta prigionieri, e chi ci scortava? Dunque, avevamo un caposquadra che lo chiamavamo Vorarbeit[er], in tedesco, che portava il triangolo verde. Erano gli uomini più pericolosi, più delinquenti che c’erano. Da lì, oltre a quello, avevamo quattro guardie della SS che ci scortavano coi fucili spianati e quattro cani ammaestrati, cani lupo. E questa era l’andata e il ritorno del lavoro, e sul lavoro c’erano sempre questi tedeschi. Oltre [a loro] c’era un capo civile. Capo civile [che] dalla mattina alla sera non diceva altro: “[Los], arbeit! Los, arbeit! Schnell! Los, arbeit”. Quando passavano gli altri ci diceva: “Badoglio, Badoglio […]”. Alla sera dovevamo rientrare. Rientrando cosa facevano? I tedeschi si divertivano a lanciare i cani addosso man mano che camminavamo, e allora i cani si imbestialivano. Una sera di queste, questa guardia delle SS non ha fatto in tempo a tirare il cane indietro e difatti m’ha dato un morso nella gamba sinistra, [di] cui porto ancora l’impronta. Insomma, la cicatrice è rimasta. Arrivato dentro, ho dovuto andare… chiamiamola infermeria… arrivato lì mi hanno detto: “Cosa è stato?”. Io ci ho detto: “Un cane”. Allora quasi mi picchiavano perché dicevano: “Allora volevi scappare se il cane ti è corso addosso!”. Dissi: “Guarda, dato che non ti capisco…”. Né loro capivano l’italiano né io capivo il tedesco. Ma sempre tutti deportati eravamo eh! Tanto in infermeria, tanto… Insomma, là non si vedeva altro. Gli unici che eravamo, 800-1000, erano questi militari, ecco. Dopo, cosa m’hanno dato per medicare? Una fascia di carta igienica! Me l’hanno fasciata, e basta. Poi sono andato a lavorare, l’indomani. Ora, cosa succede? Dopo sei mesi che non vedi aria, che non vedi niente, mi sono gonfiate le gambe, grosse e sproporzionate. Tanto che io dovetti passare la visita, perché non ce la facevo a camminare, non mi potevo muovere e poi lavorare nelle strade, e mi dissero: “Riposo, riposo a letto con le gambe per aria”. Allora, cosa facevo? Un giorno sì e un giorno no dovevo andare a passare la visita in questa specie di infermeria con l’inverno freddo che c’era. Perché io sono uscito a marzo dalle gallerie eh! Intendiamo… allora faceva ancora freddo. Le gambe le avevo sempre gonfie, però, se io mi mettevo con le gambe per aria come mi dicevano loro, le gambe si sgonfiavano. Passato questo, son stato io… Ecco, questo è perché Algeri Giuseppe è ancora qui. Ecco. perché fu la mia fortuna. Io mi riposai quasi due mesi, stando in baracca, non andando a lavorare. Perché non andare a lavorare era la vita, ecco, per noi deportati del Dora. Perché quello era l’inferno, si chiamava, del Dora. Allora, stando due mesi a riposo, io mi sono ripreso di tutto il male che avevo preso e che avevo subito nelle gallerie. Così ripreso, appena che è arrivato il mese di maggio, che ha fatto un pochettino… [la] temperatura è cambiata, io, senza mettermi con le gambe per aria, le gambe si son sgonfiate. Dico: “Giuseppe deve andare a lavorare, non c’è niente da fare”. E invece cosa avviene? Lo stesso pomeriggio arriva quello che faceva da caposquadra e che non mi voleva fare uscire dalle gallerie, che era un siciliano, un paesano mio, che non mi voleva fare uscire perché diceva che io ero l’unico che sapeva fare il lavoro e se mi levano a lui quel lavoro non va avanti. Questo qui gli dissi: “Guarda, o mi fai uscire o ti ammazzo. Loro ammazzano a me e io ammazzo a te”. Questo lo portano alla baracca 18, dove eravamo tutti italiani, dove si dormiva. Alla baracca 18 aveva il tifo petecchiale. Avendo il tifo petecchiale ai tedeschi c’è venuta una paura tremenda. La SS, tutto il Lager Dora… perché il Lager Dora, sai, non era un campetto, era un Lager che c’erano 25.000-30.000 persone.

D: Pippo, scusa, ci puoi spiegare com’era organizzato il Lager Dora? C’erano delle baracche all’esterno e delle baracche all’interno?

R: Dunque, noi eravamo combinati [così]. All’interno, non c’era niente nel tunnel. Nel tunnel non c’era niente, si dormiva dentro le gallerie stesse. C’erano questi enormi castelli a cinque piani, ogni piano era alto 60-70 centimetri. Tu dovevi restare disteso: se ti mettevi in piedi non potevi restare, perché era troppo basso. I piedi non dovevano uscire di fuori, perché se per caso uscivano di fuori passava la SS e te li tagliava – insomma ti dava delle botte tremende – quindi dovevi stare rannicchiato, sempre messo lì. All’esterno, dopo sei mesi, sette mesi, avevano costruito delle baracche, in modo che, che facevano… quando si cambiava il turno, un po’ andavano nelle baracche e un po’ andavano … insomma, questo col tempo.

D: Quindi tu hai fatto sei mesi all’interno delle gallerie?

R: Sei mesi all’interno delle gallerie senza uscire mai. Nemmeno per… niente, niente! Io per sei mesi non ho visto la luce del sole, ecco. Sì, si sentiva l’aria, perché questi due tunnel paralleli erano lunghi circa due chilometri, magari non c’erano porte e allora l’aria correva. Faceva freddo alle volte lì dentro, ma uscire per andarmi a lavare: niente. Anzi, quando qualche volta cercavo di pigliare un cannellino di acqua – che era la nostra… il recipiente per la zuppa degli avieri – alle volte, molte volte ho preso tante botte, gli occhiali m’andavano a finire… come non si son rotti non lo so. Perché credevano che io bevessi l’acqua e allora… si moriva ecco. L’acqua non c’era, non si poteva bere. Difatti ci davano il caffè amaro, ogni giorno.
Invece fuori c’erano le baracche, ecco. [Nelle] baracche c’era il lavandino, c’erano una specie di… I gabinetti non ce n’era però eh! Anche nelle baracche, all’esterno del tunnel, c’erano sempre questi benedetti bidoni che si andava a fare… Ora, capite che di notte dell’inverno, con 24 sottozero, uno che si doveva mettere a andare a fare i suoi bisogni fuori, all’aperto, anche se uno non era malato, si ammalava. Quel gelo… avere gli intestini aperti. Alla mattina, quando ci svegliavamo alle 5 e mezza, alle 6, dovevamo andare a lavare con quel gelo, a torso nudo. Se uno si portava la camicia ce la strappavano addosso. Questo era il Lager Dora. Il Lager Dora era l’inferno vero e proprio. Nessuno… Io se sono oggi qui, sono perché voglio parlare di questo Lager Dora.
Noi di italiani eravamo pochi. Eravamo 800-1000, non ricordo. Nel giro di pochi mesi, 3-4 mesi, sono morti 304 italiani. Sette sono stati fucilati. Sono stati fucilati questi sette sapete per che cosa? Perché dentro le gallerie, quelle che lavoravamo col martello perforante, si diceva… ecco, chiacchiere… si diceva che ci toccava un litro di zuppa in più. Invece, noi altri, questo litro di zuppa i Kapò se la vendevano o non so cosa facevano. Allora questi sette alpini – insomma, io ho smontato, per dire la precisione, e loro montavano al turno mio, perché facevano lo stesso mio lavoro – questi si sono rifiutati di lavorare. Ci dissero: «Fateci cambiare un altro lavoro, levateci di qua, dato che non ci date il litro di zuppa [in più]». Nel frattempo c’era la SS vicino a questo Kapò, ha detto: “Se non li denunci tu, li denuncio io”. Ce l’hanno detto in tedesco. Comunque, questi sette italiani sono stati fucilati per un litro di zuppa. Non è che non volevano lavorare, han detto: “O ce la date o ci fate cambiare lavoro, dato che noi altri [utilizziamo] questi martelli perforanti, dateci… se ci spetta perché non ce lo date?”. In sostanza, il torto lo avevamo sempre noi, e i Kapò e la SS avevano ragione.
Il giorno che ero a riposo io mi son trovato per caso che ero fuori dal turno, e ci hanno chiamato tutti quelli che eravamo fuori e ci hanno portato dentro una cava di pietra. Noi eravamo un centinaio, ci siamo guardati in faccia, dico ma: “Qua cosa fanno? Ci vogliono ammazzare tutti?”. Nel frattempo arrivò un plotone di esecuzione, e poi arrivarono questi sette italiani, per dirsi precisi sei italiani in piedi e uno che era malato in barella. Quando sono arrivati questi qui, siccome noi eravamo prigionieri, eravamo militari, allora c’hanno fatto un regalo, che invece di impiccarli, li hanno fucilati. Le parole che ha detto questo ufficiale io non lo dimentico mai, mai! Posso vivere ancora cento anni. L’ufficiale disse: “Gli italiani, siete i figli di una nazione che per ben due volte ci ha tradito. Voi lo dovete pagare col lavoro e con la disciplina. Chi sbaglia [paga] anche col sangue. Su 100 italiani, 99 devono morire e uno deve rientrare in Italia malato”. Noi italiani, o meglio io, avevo paura dei russi, che erano uomini come me! Tanto era diventata la paura tremenda in questo Lager. E il bello è che si dice che il Lager Dora sarebbe stato il nome o della moglie o di una figlia di questo ufficiale.
Ritorniamo di nuovo al discorso che venne il tifo [petecchiale]. I tedeschi si misero paura perché sai, infestare migliaia di persone non ci voleva niente. Tutti avevamo i pidocchi addosso. Basta che c’era un pidocchio eri infestato, e l’avevamo tutti. Allora cosa hanno fatto? Hanno recintato tutta la nostra baracca 18. Non potevamo uscire, ci avevano messo come in quarantena.
Dopo sei mesi sono andato a fare la prima doccia. M’hanno di nuovo rapato a zero, perché ogni volta che si faceva [la doccia] rapata a zero, in tutti i posti del corpo, dove c’era pelo ci passavano. Come finiva di lì, c’era una vasca che era piena di disinfettante. Ti dovevi infilare lì dentro. Se tu non ti bagnavi la testa loro ti mettevano la testa dentro questo disinfettante, perciò delle volte gli occhi bruciavano. Ma se uno era un po’ furbo, uno si lavava un po’ la testa, e così non veniva… Poi quando [il locale] era pieno – saremo stati 100-150 – allora aprivano le docce che ti bruciavano, poi ti davano le docce di acqua fredda. Finito di lavarci, in sostanza, uscivamo fuori. Tutti la nostra roba, gli indumenti, li davamo prima, in modo che li portavano in una sala di disinfezione, li mettevano a disinfettare. Dopo, finito di fare la doccia, nell’inverno, mese di marzo, aprile, stare fuori ancora un’altra mezz’ora, tre quarti d’ora, nudo, per darti gli indumenti. Dopo andavamo in baracca. Alla sera venivano specie di infermieri con dei fari, accesi, e ci guardavano in mezzo alle gambe e sotto all’ascella, per vedere se avevamo qualche pidocchio. Dopo quindici giorni si resero conto che gli italiani… avevamo fame, non pidocchi! Ecco, dopo sette mesi e qualche cosa, mi ho potuto lavare. Dopo io sono andato sempre a lavorare queste strade. Chi andava a lavorare, a fare la strada, sempre chi comandava erano…che noi come caposquadra avevamo dei delinquenti. Delinquenti tedeschi però, non italiani o cosa, gente che aveva fatto dei sabotaggi, gente che era condannata o all’ergastolo o a vita… Allora questi qui, siccome parlavano tedesco, li hanno levati dal carcere e li hanno portati nei Lager. Molte volte la SS non comandava nemmeno, ma comandava più questo Vorarbeit[er]. Lui ci poteva ammazzare, e la SS quasi non parlava, va bene? Finito questo lavoro, nel mese di maggio… giugno, insomma, giugno, luglio, ci hanno fatto i raggi a tutti gli italiani – io parlo degli italiani – per vedere dal torace cos’è che avevamo. Quelli che erano malati o di tubercolosi o di prurito li hanno messi da una parte, e noi ci hanno mandati a lavorare.
Il Lager Dora era tutto su una pianura, e poi c’era una collina. Lì, poi dopo è avvenuta la costruzione della bomba volante, perché questo lavoro nelle gallerie era tutta la preparazione da poter fare degli stabilimenti in modo che si poteva lavorare per fare la bomba volante: le V1 e le V2. Quando poi un giorno di questi mi sono trovato ad andare a pigliare del materiale nel tunnel, quel giorno ho visto Von Braun, questo uomo pericoloso, uno scienziato che merita tutte le lodi possibili. Nel Lager Dora però era un assassino, perché lui andava a prendere, mano a mano che morivano… I morti che c’erano lì dentro, erano una cosa spaventosa, non potete immaginare. Erano accatastati come la legna, poi venivano dei camion e li portavano a Buchenwald a bruciare, perché noi ancora non avevamo i forni. Ma dato che i morti aumentavano sempre, in continuazione, allora furono costretti a far mettere due forni crematori, così li bruciavamo al Dora. Quando uno faceva un piccolo sbaglio, o si allontanava dal lavoro, o una disattenzione, tutto era [considerato] sabotaggio. La minima cosa erano venticinque colpi sul [fondoschiena]. Loro lo chiamavano ‘Gum’ [Gummi, ndr], era un filo elettrico con dentro il rame. Dopo dieci colpi nessuno brontolava più. Io fortunatamente non ci sono arrivato, perché fin dal primo giorno ho capito che io dovevo lavorare poco e non farmi trovare mai fuori posto, perché se eri fuori posto erano botte, da morire. Allora, dopo di questo, ho fatto quasi un anno al Dora. Dal Dora, nel mese di agosto [1944] mi hanno trasferito e mi hanno portato a Ellrich. Sarebbe un sottocampo, ma era il più grosso che c’era. Paragonare il Dora e l’Ellrich… erano padre e figlio, né più né meno. Mi hanno portato lì e ci hanno messo a dormire per terra.

D: Quando ti hanno trasferito in questo sotto-campo, con cosa ti hanno portato?

R: Con un camion, sempre per via di camion ci hanno portato.

D: Con altri italiani?

R: Sì, eravamo cento italiani. Ci hanno preso dal Dora e ci hanno portato a Ellrich.

D: Ti hanno dato un’altra immatricolazione?

R: No no, sempre 0162 la mia matricola. La mia matricola non è cambiata più. Io ero 162, dato che dipendevo [da Dora], perché Ellrich si chiamava Ellrich Dora Buchenwald.
Allora, prima di continuare su Ellrich volevo precisare… Ho conosciuto Von Braun dentro la galleria. Questo uomo – che è stato uno scienziato, ci ha portato sulla luna, ci ha fatto tutto quello che ha fatto, però dentro il tunnel era un assassino, un assassino che come lui non ce n’erano – andava giornalmente, continuamente a Buchenwald a pigliare nuovi prigionieri che arrivavano – deportati, non prigionieri, deportati, perché forse gli unici prigionieri eravamo noi italiani – e li portava in Germania.
Prima che io andassi a Ellrich ci fu un sabotaggio delle bombe volanti. Si diceva – 10 mila bombe, che io non posso precisare – che la bomba partiva dalla pista di lancio, andava in Inghilterra, però non scoppiava più. Il mio pensiero corre [a] qualcuno di questi che lavoravano dentro il tunnel, alle gallerie, che ci dava alle volte qualche cosina e diceva: “Buttalo nel cesso”. Diciamo cesso, ecco, e magari poi ci regalava pure un pezzettino di pane “e noi eravamo felici e contenti”. Saranno stati loro… Comunque, le bombe andavano in Inghilterra e non scoppiavano più. Allora cos’è successo? Quel giorno, quando poi la cosa si è saputa, hanno impiccato trentadue persone. A noi – tutti quelli deportati che erano fuori, al riposo – ci hanno fatto stare dalla mattina alle sei fino alle sei e mezza, sette [di sera] fuori senza mangiare, senza bere, in piedi, per aspettare quest’impiccagione. In sostanza quasi tutti erano civili, perché erano vestiti civili, perché non erano vestiti a righe. Comunque, di questi ne hanno impiccati trentadue. Quando è finita l’impiccagione, siamo tornati.
Il lavoro che c’era sulle strade erano due squadre: una squadra si chiamava ‘Becker eins’, che è dov’ero io, ed era discreta. Poi c’era una ‘Becker due’. Erano deportati italiani, e lì tutte le sere se ne portavano un morto, perché c’era un Kapò che si era messo in testa che noi avevamo ucciso suo padre, perché il padre era morto nella guerra del ‘15-’18. Non faceva altro dalla mattina alla sera che dare botte, senza motivo, senza motivo perché si era lì a caricare i vagoni. Io ci sono capitato un giorno, con questo figlio di…, diciamo così.
Poi dopo sono stato trasferito a Ellrich. Dunque, trasferito all’Ellrich, lì a dormire per terra, di nuovo mi sono riempito di pidocchi.

D: Scusami Pippo eh, ma è importante: a Dora tu donne non ne hai mai viste?

R: Mai, mai… [anzi] l’ho visto! Ho visto qualche donna. Sapete cosa hanno fatto i tedeschi? I tedeschi, sulla collina dove fucilarono questi sette alpini, avevano costruito delle baracche. Avevano messo una baracca di prostitute, una baracca per quelle malate di polmonite e di bronchite e quelle cose lì, e loro volevano che noi andassimo da queste prostitute. Ma se non stavamo in piedi, come facevamo ad andare? Più di una volta ci hanno accompagnato da queste prostitute, ma io non lo trovavo. Io per due anni non sapevo se ero un uomo, cos’ero… mi serviva solo per fare la pipì e basta. Ma non lo trovavo nemmeno, non sapevo niente. Io per due anni non so se ero uomo, se ero donna, niente ero, ecco. Per due anni. Dopo liberato, subito mi sono svegliato, i miei sensi si sono svegliati ecco.
Allora lì a [Ellrich], una volta che ero bello pulito, venuto dal Dora, e andare lì a dormire a terra, questi pidocchi… mi sono cominciati a venire dei pruriti, delle cose spaventose. I pidocchi camminavano sulle coperte, in fila indiana, e io dovevo dormire, mi dovevo mettere sul pagliericcio. Allora cosa ho fatto? Andavo in questa mezza specie di infermeria, mi hanno dato un liquido, era come un olio, me lo passavo tutto e il prurito se ne andava. Non so che olio era. Comunque, poi sono andato a lavorare. Da Ellrich si pigliava un trenino, si faceva mezz’oretta di treno, ed andavamo a lavorare dall’altra sponda delle gallerie. Da lì andavo a scavare i pozzi d’acqua. Un altro lavoro ancora. Non avevamo delle trivelle, che forse ancora non esistevano. Siccome eravamo vicino ad un fiume allora noi bucavamo questi pozzi, facevamo un metro di diametro e ci andavamo con una pompa, che facendola scendere dalla gru fino a lì dentro. Allora poi, dato che era mischiata acqua e ghiaia, questa pompa aspirava e tirava su e poi la svuotavamo. Quando eravamo ad una certa profondità si metteva il tubo dei pozzi artesiani e a giro ci mettevamo una ghiaia speciale che portavano da fuori, in modo che potesse filtrare l’acqua. Quest’acqua di questi pozzi doveva servire per portare l’acqua potabile al Dora… che forse non ci sono mai riusciti a portarla. Questo lavoro l’ho fatto… dunque, Pasqua quell’anno lì è stata il primo di aprile del ‘45… perciò dal settembre del ‘44 fino al primo aprile del ‘45 sono stato a Ellrich. Lì diciamo che ero un po’ più libero. Lì lavoravo… però era arrivato un contrordine che io dovevo… che gli italiani, potevamo andare a lavorare senza più la SS, senza più i cani, senza questi Kapò. Insomma, c’era un italiano che faceva da caposquadra. Allora si aveva un pochettino più di libertà. La sera, dopo aver lavorato di giorno – erano tutti terreni che c’erano state patate – e ci mettevamo a zappare con il piccone per vedere se trovavamo una patata marcia . Lì si andava a lavorare tutti i giorni a 24 gradi sottozero. Io avevo una divisa di tela, perché la divisa di aviere – difatti lì nessuno mi conosceva come Algeri, io ero ‘l’aviere’, e basta, aviere 0162 – la divisa si era consumata, le scarpe si erano consumate. Poi le scarpe dell’aviazione sono delle scarpe normali, come le nostre erano, non erano scarpe da militare con i chiodi. Mi dettero degli zoccoli: di sopra c’era la pelle ma di sotto c’era lo zoccolo, e forse era un bene perché non si sentiva tanto il freddo. Poi ci avevano dato i para-orecchi e un paio di guanti, di cose che duravano un giorno e si dovevano buttare. Ma 24 sottozero, tutte le mattine, fino al mese di febbraio, che l’anno del 1944-45 il tempo fu più clemente. Le piogge cominciarono a febbraio, che invece generalmente cominciavano a aprile e maggio e invece quell’anno lì… e insomma la temperatura cambiò, ma fino a che siamo arrivati alla fine di febbraio, caro mio… 24 gradi sottozero. Tanto che ‘sto borghese che ci comandava ci aveva dato il permesso di poterci scaldare con una stufetta e facevamo un cambio, due sotto e due sopra.
In due anni che sono stato nel Lager Dora e a Ellrich io non ho visto né un mitragliamento, né un bombardamento, niente. Mai suonare un allarme. Sì, di giorno magari passavano degli apparecchi, ci facevano smettere perché quando passavano degli apparecchi si nascondeva il sole. Ne passavano tanti, ma non so dove andavano. Generalmente si diceva che andavano a… non mi ricordo, come mi viene in mente ve lo dico. Allora cosa facevamo noi? Ed era la mia impressione, dico “ma come mai viene nessuno qui?”. Mai un mitragliamento, mai un bombardamento. Eppure, il Lager Dora ed Ellrich erano illuminati a giorno, di notte, non è che c’era da nascondere. Si sapeva che lì si costruiva la bomba volante, la V1 nelle gallerie, ma un mitragliamento, una cosa, mai, mai successo una volta. L’unico mitragliamento che fu fatto a Nordhausen fu dopo la Pasqua del ‘45. Ma se è stata una settimana dopo Pasqua o dieci giorni non ricordo con precisione. Appena c’è stato questo mitragliamento ci fu un temporale, quindi scappiamo tutti per rientrare nei nostri lager. L’indomani mattina non si andò più a lavorare. Invece di andare a lavorare ci hanno messo su un treno dei carri bestiame. Gli italiani per stare insieme, eravamo novanta italiani tutti in un vagone, messi seduti uno con le gambe dentro l’altra, pur di stare tutti vicini. Gli altri erano tutti deportati.
E io che cosa avevo di divisa? Dato che la divisa si era rovinata, quella di aviere, m’avevano dato una divisa di tela. Era tutta marcata, dietro le spalle, secondo il mio punto di vista c’era scritto ‘Kriegfand’ [Kriegsgefangener, ndr], davanti nel petto e nelle ginocchia c’era scritto ‘Concentramento Lager Buchenwald’ [Konzentrationslager Buchenwald, ndr]: io li decifravo così, perché c’era K, B… KLB.
Ma a 24 gradi sottozero, come si faceva ad andare a lavorare in quel sistema? Allora cosa succede? Perché a delle volte… Rubai a Ellrich un pezzo di coperta a un altro disgraziato come me, gli feci un buco, me la infilai dalla testa e così poi mi chiudevo con questa divisa di tela. Alla sera quando rientravo, questa coperta mica la potevo portare nel castello dove dormivo, allora andavo nei cessi, mi levavo questa coperta, la mettevo sotto un bidone di acqua, all’ingresso, e poi l’indomani mattina me la andavo a pigliare e la mettevo di nuovo. Era più fredda allora che alla sera, bagnata, umida era, perché sotto un fusto di acqua cosa poteva nascere?
Poi questa non ve l’ho detta. Il Lager del Dora ed anche quello dell’Ellrich erano tutti elettrificati e reticolati. C’erano cavi elettrici così [spessi]. A un metro di distanza ti attirava. Se uno si avvicinava ti attirava e rimanevi appiccicato sul muro eh! Sui fili… non c’era pietà. Inoltre c’erano trecento cani messi sulla collina, che appena uno faceva qualche fesseria loro erano addosso. Invece a Ellrich i cani non c’erano, avevamo come ho detto un po’ più di libertà perché non avevamo più i tedeschi che ci comandavano, che ci accompagnavano. E rientravamo qualche mezz’oretta, qualche ora più tardi. Si rientrava e non succedeva niente. Magari l’ufficiale se la pigliava a ridere. “Eh” – dice – “siete stati con le donne”. Ma l’interessante è che gli dicevo: “Machine kaputt”, non funziona più. Lui si faceva una risata e tutto passava così. Rientravo dentro e andavo a mangiarmi quel po’ di zuppa. A gennaio finisce la zuppa… [anzi] finisce il pane! Non ce n’era più né per noi altri e nemmeno per i militari che erano lì d’intorno. Allora ci davano un litro di zuppa in più. A cosa serviva un litro di zuppa in più? Brodaglia! Quando davano le rape, era amara, puzzava, una cosa che io quel giorno io rimanevo senza mangiare. Già non mi davano niente, e io stavo senza mangiare.
Alla mattina come ho detto pigliavo il treno. Andavamo, mezz’oretta di treno, poi scendevamo per raggiungere la sponda dietro i tunnel. E da lì passavamo. C’erano delle baracche, chissà, ci stavano dei borghesi… e alla sera buttavano bucce di patate, e allora io raccoglievo alla mattina tutte queste bucce di patate perché durante la notte col nevischio erano belle bianche, ma erano sempre bucce. Raccoglievo le bucce, prendevo queste carote e me le portavo sul lavoro. Lì avevo la possibilità di bollirle e mi mangiavo quello. Un giorno di questi ho trovato un po’ di crusca e allora cos’ho fatto? Ho preso questa crusca, la impastavo assieme alle patate marce che trovavo, e così poi le mettevo in questa stufa e mangiavo. Il pericolo, la mia disgrazia, tuttora e fino adesso, non era altro che la fame.
Io fino a oggi – c’ho 78 anni – a casa mia non c’è mai una volta che non ci sia il pane. È un’ossessione, sarà un fattore psicologico ma il pane ci deve essere. Guai se non c’è il pane, a costo che c’avanza, ma ci deve essere. E questo è quello che mi sono portato dalla Germania: la fame.
Ritorniamo di nuovo a Ellrich. Quando ci hanno messo sui vagoni bestiame – allora, perché il lavoro era cessato in Germania, già si vedeva che i russi, i francesi, gli inglesi e gli americani ormai avevano circondato – ci hanno messo su questi treni. Andammo avanti e indietro, ma non si sapeva dove andare, perché di là non si poteva passare perché c’erano i russi, di là non potevamo andare perché c’erano gli americani, di là non potevamo andare perché c’erano gli inglesi… E allora un giorno di questi ci hanno fermato in una stazione – non so che stazione – a binario morto. Siamo stati un giorno. Nel frattempo, ecco, il primo mitragliamento. È passato un mitragliamento di caccia inglesi e hanno mitragliato questo treno che era fermo. Eppure, il nostro [vagone] degli italiani era chiuso, ma la maggioranza di tutti gli altri deportati erano scoperti. Li vedevano che c’era gente dentro questi carri ma si sono messi a mitragliare! Con un mitragliamento che hanno fatto, ne hanno uccisi più di trecento. Un italiano che l’avevo in mezzo alle gambe, forse lui mi ha salvato la vita: lui ha preso le pallottole, ci ha fatto saltare il braccio destro e la mano sinistra come se fosse stata schiacciata da un carrarmato, qualcosa del genere. Lui, come l’abbiamo messo a terra, ha detto: “Tagliatemi il braccio, pigliate un coltello”. C’abbiamo tagliato il braccio, però… è morto, non ce la faceva. L’indomani mattina i tedeschi volevano che andavamo a scavare la buca per seppellire… Io ho fatto tutto in mezza maniera… a scavare non ci sono andato. Comunque, tanti hanno dovuto andare per seppellire questi trecento. Da lì ci hanno portato in una fabbrica. Dicono – io non lo so – che eravamo a 40-50 chilometri distanti da Berlino, perché noi sentivamo dei bombardamenti, suonavano degli allarmi, la terra tremava dov’eravamo, sotto nei rifugi. Io che non capivo cosa significava alzarsi la notte per l’allarme, cominciai ad alzarmi 3-4 volte durante la notte, andare in un bosco per ripararci. Così dopo 2 o 3 giorni mi raparono di nuovo a zero e mi hanno di nuovo immatricolato. Mi immatricolarono e mi dettero questo numero. Da militare mi fecero diventare un politico: 138.636. Ora, io non lo so per quale motivo mi dettero questo numero. Ho pensato che loro non potevano più portare in giro… noi eravamo militari a tutti gli effetti. […]
Il giorno che m’hanno messo a fare… il giorno che abbiamo cominciato la marcia della morte, era il 20 aprile del ‘45, pensate un po’. 20, 18, 19 aprile, non più di questo. Perché si chiama marcia della morte? Perché man mano che camminavamo, chi cadeva per terra veniva ucciso. Io sono partito con 40 di febbre. Due italiani, un ex carabiniere che aveva fatto la ritirata dalla Russia e un mio paesano che non so come si chiama perché… lì non li sapevo i nomi, m’hanno trascinato per tre giorni. Il primo giorno, quando la sera piovigginava, ci siamo fermati in un fienile. Allora loro m’hanno buttato addosso due balle di fieno. Si vede che il caldo del fieno mi ha dato un po’ di respiro. L’indomani mattina sembrava che mi sentissi un po’ meglio. E invece cosa avevo? C’avevo le ghiandole dell’inguine che erano grosse come i testicoli, quindi mi impedivano di camminare per il dolore che c’avevo, tremendo. Comunque, questo lavoro l’ho fatto per tre giorni. Finendo il quarto giorno, quasi quasi avevo un po’ di fame. Ma sai che io strisciavo le punte dei piedi e questi due ragazzi mi tiravano e dietro c’avevo un ufficiale… un soldato della SS che mi puntava il fucile alla schiena, perché appena cadevo per terra lui mi ammazzava. Perché chi l’ha fatto per disgrazia, chi l’ha fatto per fare il furbo, son morti tutti. Allora cosa è successo? È successo che il quarto giorno, vedendo che non potevamo andare più in nessun modo, né a piedi né… ci hanno messo dentro un bosco. E lì, due volte al giorno ci facevano uscire per andare a pigliare un po’ di acqua, acqua verde… non acqua… insomma, per potere bere. C’erano dei miei amici – forse avevano più coraggio di me, avevano un altro stomaco – pigliavano l’erba a terra e se la mangiavano cruda. Io non ci riuscivo. Prima di partire m’avevano dato un pezzo di filone di pane e una scatoletta. Dato che non potevo camminare, per alleggerirmi, questo zainetto lo avevo dato a un altro compagno. Questo compagno aveva più fame di me, se l’è mangiato, e io il giorno che avevo fame… poi mi venne una crisi, sai, [di] nervi, comunque passò tutto. Alla sera un ragazzo, contadino – magari conosceva, io non sapevo cosa era – è andato a pigliare dell’ortica. Sono andati a pigliare dell’ortica e l’hanno bollita. Sai, io senza mangiare da tre-quattro giorni, cos’è successo? È successo che poi, durante la notte, mangiata questa ortica di sera, mi è venuto un forte mal di stomaco. Come l’ho mangiata intera, così l’ho buttata giù. Perciò in questo bosco ho mangiato questa ortica, che io non conoscevo, non sapevo nemmeno se si poteva mangiare, quindi l’indomani mattina l’ho buttata per intero.
Alla sera ci hanno portato dei pacchi: era la Croce Rossa canadese, dicevano. Io non lo so chi erano. Un pacco da cinque chili di viveri che dovevamo dividere in cinque, ogni pacco cinque persone. Molti si sono messi a mangiare e qualcuno è anche morto, perché il nostro intestino era diventato piccolo e mangiare così, a saziarsi… L’indomani mattina ci hanno messo di nuovo in cammino.

D: Questo dov’era?

R: Non lo so, caro mio, non lo so. Camminare a piedi, avanti e indietro… Qualche volta guardo la cartina geografica ma non mi rendo conto. La Croce Rossa canadese aveva dato ordine che chi non poteva camminare ci dovevano lasciare sul margine della strada. Io non potevo camminare. Poi, siccome durante la notte un insetto m’ha morso il naso – io ce l’ho bello grosso, ma era [diventato] una tromba, una cosa sproporzionata, non so che insetto sia stato – sono rimasto io e altri compagni che aspettavamo la Croce Rossa canadese. Da lì ci siamo mossi e abbiamo trovato sulla strada un fienile e ci siamo infilati dentro. Dopo due-tre giorni è venuto di nuovo un camion – che noi non avevamo capito se era venuto a prenderci, non lo so cosa era venuto [a fare] – ci hanno lasciato un altro pacchettino piccolo da due chili e se ne sono andati. Siamo stati ancora per due giorni… non so se era il primo di maggio o il 3 o il 4, ma comunque erano questi i giorni, non più di questi, è arrivata la SS di pomeriggio, e a colpi di calcio di fucile nella schiena, che sembrava che ci rompesse la schiena, ci ha fatto uscire fuori da questi fienili. Ero più nudo che vestito, avevo una coperta e me la sono messa sulla testa: sembravo un barbone. Siamo andati verso il centro del paese, che non so cos’era ‘sto paese… Arrivati lì, ci ha visto un vigile. Questo vigile ci ha portato dentro al Municipio, ci ha dato una zuppa di piselli e dopo ci ha accompagnato fuori da questo paese. Mentre eravamo nel Municipio sentivo dire ‘kilometer’… ho capito che a 8-6 chilometri c’erano i russi che arrivavano. Ci hanno portato fuori di lì. Questi uomini si sono meravigliati perché lì ci dovevano essere tanti prigionieri o deportati, invece non abbiamo trovato nessuno. Allora subito questi qui ci hanno lasciati lì e sono scappati. Dopo mezz’ora ci è saltata una polveriera, cos’era… certo che era una cosa straordinaria…
L’indomani mattina sono venuti due olandesi – noi abbiamo dormito per terra – e cominciavano a fare: “Italiens, la guerre est finie! La guerre est finie!”. “Ma insomma questo è scemo…”. Non potevo pensare… Poi dice: “Fertig, La Guerre est fertig!”. Così abbiamo cominciato un po’ a crederci. Di fronte – questo era un deposito di patate prima – c’era un treno abbandonato. Siamo andati a vedere: i tedeschi si erano spogliati, le SS si erano spogliate. Lì facevano da mangiare, non so cosa facevano, perché abbiamo trovato dei pezzi di bue, carne buttata lì, medicine… insomma, si vede che si erano spogliati e sono andati via. Io che ero più nudo che vestito ho preso un giubbotto della SS, c’ho levato tutte le mostrine e me lo son messo. Quel territorio lì era stato liberato dai russi. E allora come la mettiamo? I russi avevano l’intenzione di raccogliere tutti i prigionieri e portarli di nuovo a lavorare in Russia, o in campi di concentramento russi. Giuseppe – perché io mi chiamo Giuseppe, Pippo è affettuoso – non sapendo parlare né il russo né il tedesco ho pensato bene: questi qui ci portano a lavorare. Allora siamo andati alla stazione per andare verso gli inglesi. I figli di… non ci mandavano verso gli inglesi ma ci mandavano verso i russi!
Siamo arrivati in una stazione, abbiamo trovato un siciliano, m’ha detto: “Ma dove andate di qua? Qua i russi vi portano a lavorare nei Lager”. Toh, torna indietro col treno. Sono ritornato di nuovo indietro col treno. Durante il viaggio ho incontrato dei prigionieri, dei deportati che erano nel Lager Dora, non so se erano svedesi, olandesi, non lo so… dalla Danimarca. I più pochi di tutti erano solo gli italiani, ma poi non dico quanti francesi c’erano, non dico quanti russi, polacchi, cecoslovacchi, c’eravamo tutti, nel Lager Dora e Ellrich. Allora, questi due ragazzi ci dissero – che loro parlavano un po’ il francese, insomma, non so – dicevano: “Venite con noi altri”. Siamo andati con loro in un posto di smistamento, al confine tra i russi e gli inglesi. Lì m’hanno fatto presentare, c’ho dato il mio nome e cognome e io c’ho detto: “Sono tre giorni che non mangio, mi dia un pezzo di pane”. E i russi m’hanno dato… quest’ufficio di smistamento m’ha dato un pezzo di pane e siamo andati sopra i camion degli inglesi. Sopra il camion c’erano sigarette, c’era scatolame, c’era il ben di Dio. A noi che ci mancava tutto, là invece c’era tutto. Da lì c’hanno portato ad Amburgo. Ad Amburgo abbiamo passato un fiume, il ponte era fatto tutto di barche… Siamo arrivati ad Amburgo la sera stessa, ci hanno spogliato e ci hanno disinfettato, polvere addosso… L’indomani mattina quando ci siamo alzati suonava la tromba per andare a mangiare. C’era tanto pane bianco buttato per terra che voi altri non avete idea. Noi, che eravamo morti di fame, ci siamo messi a raccogliere tutto il pane per terra, e allora gli altri ragazzi ci hanno detto: “Ma cosa raccogliete? Qui si va a mangiare cinque volte al giorno. Gli inglesi ci chiamano ogni cinque minuti per andare a mangiare”. Comunque io me lo sono preso un po’ di pane, poi …
Da lì, dopo due-tre giorni m’hanno mandato a Sulingen. Ci hanno di nuovo smistato, ci hanno passato la visita per vedere se sotto l’ascella avevamo il gruppo del sangue della SS. Da lì mi hanno mandato in un altro paesino vicino. La sera c’erano dei paesani napoletani e siamo usciti. L’addetto alla cucina dice: “Non ti preoccupare, usciamo”. Era mezzanotte: abbiamo trovato inglesi all’incrocio, ci hanno arrestato e ci hanno portato in carcere per otto giorni. Siamo andati in un vero carcere! Dopo otto giorni ci hanno portato al tribunale […] io non capivo niente. Ci hanno mandato… noi abbiamo fermato un camion e sono ritornato di nuovo nel campo di concentramento dove ero. Con gli inglesi mi hanno messo a lavorare. Io, per la fame che avevo, con gli inglesi… Ci hanno dato la divisa da inglesi, perché non avevamo niente, eravamo più nudi che vestiti. Allora io sono andato nella cucina a lavare le gamelle, sempre per il pensiero per la fame. Così mangiavo carne grassa, mangiavo cose… e se mi si vede nella fotografia, guarda, dopo liberato sono bello gonfio che sembro un pallone.
Arrivato a Caltagirone, dopo quindici giorni, mi sono sgonfiato completamente, tanto che nessuno mi credeva. Dice: “Eh, poi dicevano di aver sofferto! E come mai stanno così?”. Invece dopo quindici giorni tutto è finito.
Per trentun anni non ho parlato più di prigionia, perché nessuno ci credeva. Anzi! Anche ora, tutt’oggi, si fanno delle risatine, specie in Sicilia, nel meridione, perché loro la guerra non l’hanno vista come è stata fatta nel nord. Dopodiché poi sono rientrato in Italia, il 28 settembre sono arrivato al mio paese, 28 settembre del ‘45.
Quando siamo partiti dalla Germania per arrivare a Caltagirone, c’ho impiegato diciotto giorni di carri bestiame. La prima tappa l’abbiamo fatta a Wietzendorf, dove c’erano prigionieri tutti gli ufficiali. Da lì siamo andati poi nel Brennero, seconda tappa. Terza tappa l’abbiamo fatta a Pescantina, poi da Pescantina fino in Sicilia.
Questa è la mia storia, e la mia disgrazia. Però ringrazio Iddio che sono ancora vivo. Non so se è stato un miracolo, o che io ero sano – veramente il mio sangue era buono – e un po’ di fortuna. Tutti i deportati che sono rientrati hanno avuto tutti un tantino di fortuna, tutti l’abbiamo avuta. Nessuno può dire che non ha avuto un po’ di fortuna.

D: Pippo, tu non sei mai stato intervistato?

R: Dunque, qui a Genova?

D: No, in genere.

R: Sono stato intervistato soltanto da Piccini, quando è stato… tre anni fa, due anni fa, l’Istituto storico della Resistenza.

D: E basta?

R: E basta. Poi ho scritto un diario, ma me lo son scritto per conto mio.

D: Hai scritto un diario?

R: Sì, un diario, l’ho scritto per conto mio, così. Ma l’ho scritto dopo cinquantun anni! […]

Fumolo Dario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Sono Fumolo Dario. Anzi, anagraficamente Dorio. Comunque, vengo chiamato Dario. Sono nato a Udine il 4 maggio 1920.
La mia storia ha bisogno di una premessa. La premessa della mia condizione di militare nell’aeronautica, nella 36ª squadriglia di osservazione aerea, dove, fin dall’inizio della guerra ho fatto servizio. Devo dire appunto che presso questa squadriglia ho conosciuto una persona che già avevo incontrato da ragazzo, Vignando Mario. Dico il nome perché è un personaggio importante che occupa parecchio spazio nella mia storia.
Quando è accaduto che c’è stato l’armistizio l’8 settembre 1943, io l’ho perso di vista il Vignando. Abbandonato il campo… l’aeroporto di Lucca, dove mi trovavo in quel periodo, con la mia fida bicicletta, con la quale veramente posso dire di aver fatto la guerra, sono partito e mi sono diretto verso casa, verso Udine, con le difficoltà che si possono comprendere. In due giorni, attraverso il passo della Porretta, sono arrivato a casa e naturalmente ho fatto in modo che la mia presenza fosse stata notata il meno possibile, data la situazione e dato il momento particolare nel quale mi trovavo. È successo poi che la costituzione della Repubblica Sociale Italiana ha fatto sì che anche a me, come ad altri ex aviatori, fosse giunt[a] una lettera dove mi si imponeva di presentarmi al comando della ZAT di Padova – Zona Aerea Territoriale di Padova – per riprendere servizio con l’aeronautica repubblichina. Questo fatto mi mise in crisi, perché in me era maturata la convinzione che la guerra che avevamo fatto non era una guerra giusta, era una guerra di aggressione, e successivamente, piano piano mi sono convinto che anche la politica che aveva portato avanti l’Italia e soprattutto il Fascismo, non era giust[a], non poteva essere una politica da approvare, specie dopo le prove che avevo sopportato e subìto in una guerra difficile e logorante.
Quindi ho deciso di non presentarmi e di darmi un pochino anche alla latitanza. Per questo molto spesso, anziché dormire a casa, trovavo ospitalità presso un contadino che abitava nei paraggi miei. E così cercavo di dare nell’occhio il meno possibile. Però ho mantenuto – visto che il Vignando era tornato pure lui a casa – ho mantenuto dei rapporti con questa persona, con questo amico. E questo fatto è stato per me di un’importanza estremamente grave. Perché lui aveva conosciuto un ex militare sbandato [che] è rimasto intrappolato in Friuli, a Udine, [che] non riusciva più a tornare al suo paese di nascita e di residenza, e quindi non so come vivesse. Certamente era qui, era a Udine, nella nostra città. È successo anche che per restituirmi un libro che il Vignando mi aveva prestato, un giorno sono capitati a casa mia ambedue, e quindi questo signore ha potuto vedere anche dove abitavo, oltre che ad aver conosciuto il mio nome in precedenza. Succede che questa persona in un bar viene arrestat[a], perché ad un confidente della SS – o comunque della polizia tedesca – che lui non credeva tale, aveva fatto vedere che lui girava armato di una pistola e che lui conosceva parecchi personaggi vicini al movimento di Resistenza. È successo con questo [fatto] che lui è stato arrestato. E con gli interrogatori che aveva subito, probabilmente anche abbastanza violenti, aveva fatto il nome di tutte le persone che aveva conosciuto, compreso il mio, facendo delle accuse anche particolarmente pesanti. Per esempio, io ero accusato di avere fatto dello spionaggio a favore dei partigiani sulla consistenza delle forze armate tedesche a Udine, in particolare di una caserma delle SS, con i loro movimenti e la loro presenza. Quindi una cosa molto, molto grave per la mia situazione. A un certo punto la SD – la polizia di sicurezza tedesca – prepara una retata e una mattina, molto presto, tutte le persone che erano state implicate da questo personaggio, implicate nella nostra vicenda, sono state arrestate.
Quella mattina io dormivo a casa mia per sfortuna, e ho sentito una macchina fermare davanti sulla strada. Affacciatomi alla finestra – eravamo in agosto, era il 3 agosto del 1944 – ho visto che in assetto di guerra, in assetto di combattimento, scendevano da due-tre macchine dei tedeschi [che] circondavano la mia casa. Al che io, che avevo preparato una specie di rifugio, sono uscito di casa velocemente, avvertendo mio padre che stavano arrivando i tedeschi, e mi sono messo in questo rifugio, che avevo creato al di là di un cortiletto, nel retro della casa. Queste persone [delle SS] erano accompagnate da due repubblichini, armati di mitra, in borghese e molto violenti. Diciamo che mentre i tedeschi entrati in casa erano passivi, questi [repubblichini] si davano da fare per chiedere dov’ero io, e chiederlo con violenza, con insistenza, insistendo con mio padre che dicesse dov’ero. Mio padre, da me istruito, aveva detto che io ero stato arruolato, che mi ero portato nella zona di Verona, che facevo servizio in un aeroporto, che peraltro lui non conosceva per ragioni di segreto di guerra.
Non potendo provare quanto diceva, questi repubblichini si fecero ancor più violenti e minacciarono di bruciare la casa se io non mi fossi fatto vivo. Al che [ad] una mia sorella – ne avevo due oltre che il padre presenti in casa – sono saltati i nervi, come si suol dire, e si è affacciata a una finestra chiamandomi e dicendo: “Qui bruciano la casa, devi uscir fuori!”. E quindi io ho dovuto abbandonare il mio rifugio, il mio nascondiglio, e naturalmente facendo del rumore, perché al di dietro della casa sapevo che… avevo anche visto passando velocemente un militare tedesco che impugnava il mitra. E naturalmente se avessi fatto le cose meno rumorosamente probabilmente avrebbe anche sparato. Ora questo, sentendo i rumori, si fa avanti e rompendo con la violenza un lucchetto a un piccolo cancello mi viene a prendere; io in pantaloni, scalzo, mani alzate, mi presento e dimostro di essere sicuramente non in condizioni di reagire. Quindi entriamo in casa. Questi due repubblichini hanno fatto man bassa di documenti, di cose, eccetera. Poi hanno portato fuori biciclette, hanno portato fuori le cose che più avevano secondo loro un valore immediato, e mi hanno fatto accomodare su una macchina della polizia tedesca assieme a mio padre e a una sorella. Quindi in tre persone abbiamo preso la via Spalato, dove tuttora ci sono le carceri a Udine.
Venni messo in una cella di isolamento, e quindi persi ogni contatto con la realtà, con la presenza dei miei, e anche senza conoscere il motivo per cui ero stato arrestato. E questo lo venni a sapere soltanto quando durante un interrogatorio da parte di un ufficiale tedesco e di un interprete italiano mi venne presentato questo personaggio che avevo conosciuto a Udine a fianco dell’amico Vignando, e capii. Venne chiesto a lui se io ero la persona di cui lui aveva parlato, e dopo il suo assenso venne subito portato via. Sicché con questo io capii che la questione del mio arresto era tutta dovuta a questo personaggio del quale conoscevo proprio niente. E così, dopo alcuni giorni, anche attraverso la regalia di una camicia fatta a un secondino, potei essere messo fuori dalla cella di sicurezza… di isolamento. Mio padre e mia sorella furono rimandati a casa e io mi trovai in una cella comune con altre quattro o cinque persone che erano lì in attesa del futuro nebuloso che a noi si sarebbe sicuramente presentato. Ed effettivamente una mattina siamo stati inquadrati e portati in stazione, dove sui soliti carri bestiame siamo stati rinchiusi e portati in Germania.

D: Ti ricordi che periodo era questo? Quando ti hanno portato alla stazione? In che mese?

R: Questo nostro trasferimento è stato eseguito il 24 agosto sempre del 1944. Dico questo perché a Buchenwald, dove eravamo diretti, sono arrivato il 28 agosto, dello stesso anno naturalmente. È stato un viaggio anche abbastanza tranquillo. Addirittura dopo la partenza hanno aperto gli sportelloni, perché i tedeschi avevano una loro tecnica per far sì che le persone che venivano deportate non perdessero mai la speranza che le cose andassero per il meglio; infatti eravamo tutti convinti di finire in qualche fabbrica, in qualche campo di lavoro, e attendere così in una situazione discretamente buona la fine della guerra che prevedevamo fosse discretamente vicina.
Invece ebbimo [avemmo, ndr] la delusione di ritrovarci in una bolgia infernale che non avremmo mai pensato potesse esistere, ed era il campo di Buchenwald. La visione di queste persone che attraversavano, passavano, intente ai loro lavori, fu orribile. Fu un’impressione orribile perché questa gente si presentava rasata di capelli, magra all’infinito, con questa casacca, con questi pantaloni zebrati, ed era una umanità che non pensavamo ci potesse essere. Lì cominciò la distruzione della nostra personalità, perché ben presto ci accorgemmo che anche noi avremmo dovuto fare la stessa fine e indossare gli stessi panni. Tant’è vero che, portati alle docce, fummo rasati la testa, i capelli rasati [e] depilati completamente, disinfettati con un ridicolo scopino immerso nella creolina, ed infine ci venne fatta la doccia e mandati nudi così come eravamo rimasti – ci avevano tolto naturalmente tutto – e quindi ci ritrovammo senza possedere alcunché alla vestizione con questo che avevamo visto: questi giacconi rigati e questi pantaloni. Ed è così che poi fummo mandati in una baracca dove ci fecero fare una breve quarantena, iniettandoci anche dei medicinali o dei sieri che potevano contrastare le malattie che nel campo erano le più diffuse: tifo petecchiale, colera ed altre malattie. Dopo questi brevi giorni… anzi, devo dire che durante questa permanenza, a un certo punto fummo chiamati: ormai avevamo soltanto un numero, il nostro nome non veniva più pronunciato.


D: Ti ricordi il tuo numero, Dario?


R: Il mio numero era il ventidue cinque quarantadue, 22542. Dovetti impararlo anche velocemente in lingua tedesca, perché vedevo che se non c’era la comprensione alla chiamata cominciavano a piovere le botte. Quindi fu giocoforza imparare questo numero velocemente. Devo dire che chiamarono il nostro numero, il mio e quello di Vignando, e poi chiedendo quale dei due conoscesse meglio il francese. Siccome lui lo conosceva meglio gli dissero di prepararsi e di andare assieme alla persona che lo aveva preso in consegna. Questo mi ha fatto sospettare, visto poi anche l’esperienza che ho avuto: dove mai una persona singola era stata chiamata? Mi fece sospettare che la lunga mano della polizia di Udine fosse intervenuta per eliminare immediatamente appena arrivato nel campo il mio amico Vignando, tanto è vero che non l’ho più visto e non è più rimpatriato, anche alla fine della guerra.
Quindi rimasi solo con alcuni, pochissimi degli amici che avevo conosciuto nella cella… dopo [essere] uscito dalla cella d’isolamento. Iniziammo i faticosi lavori, iniziammo a capire com’era che funzionava questo campo, quali lavori venivano assegnati. A me toccò purtroppo di fare dei lavori pesanti. Era recentemente stato bombardato il complesso industriale che stava accanto al campo e quindi c’erano lavori di ricostruzione in corso, e allora mi toccava fare il manovale, portare i sacchi di cemento, trasportare pesi, trasportare mattoni, trasportare cemento, eccetera. Quindi una cosa che io fra l’altro non avevo mai fatto perché il mio mestiere era un mestiere da ufficio, prima da militare, naturalmente nel ruolo di marconista, come ho detto in aviazione. Purtroppo questo sarebbe stato anche sopportabile se il cibo fosse stato sufficiente, ma la situazione era veramente tremenda perché il cibo veniva dato una volta al giorno in una quantità minima e con delle calorie alquanto basse, sicché non era possibile immediatamente eseguire i lavori alimentandoci in maniera così sconveniente. Ebbi la possibilità di sentire che un altro dei miei pochi amici aveva trovato modo di entrare in un Transport che secondo lui doveva portarlo in una piccola officina dove la vita doveva essere molto più facile. Io una mattina, rischiando anche la vita, abbandonai il gruppo, il Kommando nel quale ero inserito e andai a chiedere al suo kapo se potevo essere anch’io trasferito in quest’officina e far parte di quel trasporto. Il kapo acconsentì e mi portò all’Arbeitsstatistik, l’ufficio che teneva in conto di tutti i prigionieri lavoratori e mi fece passare al suo comando.
Questo mi fa ricordare anche quanto ho detto in precedenza, cioè che i tedeschi avevano una tecnica particolare, e anche qui la misero in pratica. Perché anziché [in una piccola officina] dopo quattro giorni di viaggio, con lunghe soste naturalmente – più lunghe le soste che i movimenti – ci ritrovammo a Dora-Mittelbau, che non era una piccola officina, ma un grandissimo campo con migliaia di prigionieri che alimentavano le vicine fabbriche delle armi segrete tedesche. [Le fabbriche] si trovavano in gallerie scavate a suo tempo dai prigionieri, con una mortalità spaventosa, e dove c’erano [in] costruzione due ordigni, le V1 e le V2, le armi segrete sulle quali puntavano i tedeschi per raggiungere una vittoria che ormai stava loro sfuggendo di mano. Devo dire che la vita nel campo era dura, era pericolosa quanto lo era a Buchenwald, con un’aggiunta in più: i tedeschi [a Dora] erano assillati dal problema del sabotaggio. Questo si aggiungeva a tutte le sofferenze che dovevamo patire sia per l’impossibilità di un letto, di un riposo accettabile, sia per il poco cibo che ci veniva somministrato. Diciamo che parecchie persone, che anche magari senza una colpa – come toccò a me, in seguito che vi potrò dire – [ma] solo per una sbadataggine o per una dimenticanza venivano sospettati di sabotaggio e quindi spesso e volentieri lungo la galleria, andando al lavoro la mattina, trovavamo… dovevamo anzi passare in mezzo alle loro gambe, di gente che era stata impiccata nelle ore precedenti. Questa è una cosa…

D: Scusa Dario, due cose. Ti ricordi quando ti hanno trasferito da Buchenwald e se, quando sei arrivato a Dora, ti hanno di nuovo immatricolato o no?

R: Facciamo una premessa. Per chiarire meglio la mia posizione devo dire che trasferitomi a Dora, ed era l’11 novembre del ‘44, non mi fu cambiato il numero di matricola, ma io rimasi sempre col ventidue cinque quarantadue [22542], che è il numero che ho sempre avuto fino alla Liberazione.
Devo dire che la vita del campo, come ho accennato prima, era durissima anche a Dora, aveva delle regole particolari. Chi si recava nelle gallerie al lavoro aveva dodici ore di lavoro continuato, salvo mezz’ora di riposo a metà giornata o a metà notte, perché il turno era una settimana di giorno [e] una settimana di notte. E quindi dovevamo portarci in queste gallerie per lavorare. Ora. i primi giorni mi toccò di dover fare un lavoro pesante quanto quello che facevo a Buchenwald, e questo mi mise nella condizione di pensare che se così fosse andata io non avrei avuto una vita molto lunga, sicuramente. Perché lì c’era un lavoro di ampliamento delle volte delle gallerie con dei compressori che pesavano moltissimo, per forare queste rocce, eccetera. Io venni in un primo tempo messo al lavoro di portare questi pezzi di roccia che cadevano, di portarli all’esterno con una specie di barella, in due persone. E naturalmente era un lavoro faticoso, ripetuto per dodici ore in un giorno. Che fra l’altro, finite le ore di lavoro non si andava direttamente al campo ma si passava da una cava di pietre dove si prendeva su… ognuno di noi doveva prendere una pietra e poi entrare al campo con la pietra per gettarla dove il fango dominava per far sì che ci fosse la possibilità di passare su un terreno meno disagevole, meno fangoso. Quindi anche questo [supplizio] si univa a quello di dodici ore di duro lavoro.
Al che, sentito sempre da questo mio amico Noro che era stato messo in un reparto di aggiustaggio – perché lui di mestiere era aggiustatore ai cantieri di Monfalcone – chiesi se era possibile fare la stessa cosa, e mi accinsi a fare un capolavoro che il capo civile che comandava il reparto volle darmi da fare per capire se ero in grado veramente di fare l’aggiustatore o meno. Siccome di famiglia sono stato sempre in mezzo ai meccanici, con banco di lavoro, le lime eccetera, a portata di mano, pur non essendo il mio mestiere avevo una certa dimestichezza, sicché superai brillantemente il capolavoro che dovevo fare e venni assunto… venni dato in consegna come schiavo a un tedesco che doveva essere il mio padrone, in sostanza. E quindi mi misi a fare questo nuovo lavoro che per la verità era meno faticoso di quelli che avevo in precedenza fatto.
Per altro, la situazione dell’alimentazione così scarsa, il fatto di lavorare una settimana di giorno e una di notte, il fatto di portare le pietre dopo dodici ore di lavoro, fecero s che a un certo punto io mi sentii veramente male. Entrai in crisi, e un giorno mi venne in bocca un flutto, una piccola quantità di sangue, e capii che lì le cose andavano male perché poteva essere soltanto sangue proveniente dai polmoni, quindi un segnale gravissimo per le mie condizioni di salute. Inoltre si accompagnava a questa situazione anche la febbre. Quindi lasciato il reparto che andava al riposo nelle baracche, presi la strada del Revier, e andai per una visita, per un controllo. E lì veramente c’erano dei medici francesi deportati come noi: trovarono che avevo bisogno di essere ricoverato perché dai raggi si notava una caverna, che era un segnale gravissimo, di una situazione che sicuramente non poteva andar bene. Sicché in questi Revier… sarebbe lungo raccontare… per altro è bene dire che, fatta la visita, denudati completamente naturalmente anche per la visita, e poi successivamente, consegnando questi vestiti in una specie di magazzino, in pieno inverno dovetti andare lungo un sentiero ghiacciato, con solo una piccolissima coperta che mi copriva la testa, andare al reparto, al Revier, all’ospedale ‘Krankenhause’ dove mi avevano assegnato. E naturalmente lì ebbi un periodo diciamo di riposo sotto il profilo lavorativo. Per altro un periodo alquanto triste e duro, sia per una situazione mia personale che si era creata, sia anche per lo spettacolo che avevo davanti ai miei occhi di altri deportati che come me finivano la loro vita lì in mezzo a questi letti, in condizioni di disagio non solo alimentare ma anche fisico, anche di situazioni… di lenzuola che non esistevano, quando c’erano erano una macchia continua… di una macchia completa di tracce lasciate da precedenti ammalati. Sicché, dopo un periodo lungo di una decina di giorni la febbre se n’era andata. So che mi davano soltanto una cosa, del calcio liquido, pensando che quella era la cosa che poteva risollevare la mia situazione. Dopo dieci giorni, visto che non avevo più febbre, mi diedero cinque giorni di lavoro leggero e mi rimandarono alla mia baracca. Devo dire che i cinque giorni di lavoro leggero si trasformarono in una brutta avventura, perché mentre il lavoro che ci veniva dato era veramente leggero – si trattava di fare dei gomitoli mettendo vicino lunghi pezzi di spago, che forse erano quelli che tenevano legate valigie eccetera di quando i prigionieri arrivavano – […ma] a un certo punto mi vennero a chiamare assieme ad altri quattro o cinque per andare in cucina a prendere dei sacchi di patate e portarle su una collina dove c’era un allevamento di maiali per le SS. E questo lavoro fu veramente una cosa terribile perché nelle nostre condizioni non riuscivamo proprio a andare avanti lungo queste scalinate che ci portavano in cima alle colline.
E quindi decisi che dovevo rinunciare a questa specie di lavoro leggero e tornare in galleria. E così feci, e fui rimandato in galleria. E per altro dopo dieci giorni di nuovo mi si alzò la febbre, ebbi delle situazioni alquanto dolorose, per febbre, per malesseri generali, e dovetti tornare al Revier per una seconda visita. Fatto un secondo ricovero, una mattina un medico francese, armato di una bombola, di un tubo di gomma e di un ago, mi fece uno pneumotorace. Il pneumotorace consisteva nell’infilare l’ago fra la pleure e la parte esterna del corpo, diciamo in zona polmonare, e immettere dell’aria a pressione per immobilizzare il polmone che era ammalato. Quindi mi ritrovai con un fiato cortissimo, una situazione enorme di disagio, non potendo naturalmente che respirare con un solo polmone, una situazione mai provata, nuova. Sono state giornate veramente tristi e dolorose. Se non che altri cinque giorni di riposo con lavoro leggero e mandato fuori di nuovo nella mia baracca. Che poi fra l’altro non era più la baracca dove ero consueto esserci, ma era una un’altra baracca, e quindi mi ritrovai senza alcun italiano vicino a me, in una marea di gente che parlava altre lingue: tedeschi, russi, jugoslavi, eccetera.

D: Scusa Dario, il campo di Dora, rispetto alle gallerie era vicino o era distante? Quando voi uscivate dalle gallerie per andare al campo, il percorso era molto distante?

R: Questa nuova situazione mi impediva anche i movimenti più brevi, le camminate più brevi, gli sforzi meno intensi, perché la situazione respiratoria era quella che era, condannata all’immobilità. E questo fece sì che anche quei giorni a riposo furono per me molto tremendi. Fra l’altro, avendo una certa libertà, ebbi modo di vedere – e correva voce di questo – che per gli ammalati che avevano necessità più gravi venivano trasportati in sanatori, dicevano loro, in luoghi dove potevano risanarsi e guarire per poi tornare nel campo. E ebbi modo di vedere alcune volte dei camion sui quali venivano caricate delle persone in condizioni veramente disastrose, facevano fatica anche a salire, eccetera. E ebbi modo successivamente di vedere dei camion dello stesso tipo, peraltro tutti coperti coi teloni, dai quali venivano scaricati dei prigionieri, dei deportati tutti morti. Un carico di morti. Avevano soltanto il numero segnato sulla coscia della gamba sinistra, con una matita copiativa. E c’erano delle squadre di prigionieri che con delle barelle avevano aperto un cancello che recintava il campo dal bosco all’esterno del campo, su, lungo le colline, e prendevano questi cadaveri sulle barelle e li trasportavano all’esterno. Capii immediatamente che potevano essere soltanto o bruciati su cataste di legna – perché c’era il crematorio [ma era] all’interno, e non aveva grandi capacità per poter nello stesso tempo bruciare parecchie persone – quindi, o erano state scavate delle fosse comuni, oppure si trattava di cataste di legna sulle quali venivano bruciati questi cadaveri. Questo mi fece pensare al pericolo che stavo correndo anch’io essendo in una situazione di questo genere. E per questo, per una seconda volta andai all’Arbeitsstatistik per pregarli di riportarmi al mio lavoro consueto, dove perlomeno conoscevo ormai l’ambiente e facevo un lavoro che non era dei più pesanti.
In questa situazione siamo arrivati ai primi di aprile del 1945, quando, dopo un violento bombardamento della città di Nordhausen, che era a pochi chilometri da noi, venne deciso il trasferimento di tutti i prigionieri del campo. Devo dire – non l’ho detto prima, ma per un chiarimento – che dal campo alle gallerie dove lavoravamo non c’era un lungo percorso, si poteva trattare di quattro-cinquecento metri, mezzo chilometro diciamo. E allora dovevamo uscire inquadrati per cinque, e guai sbagliare il passo – quando eravamo in particolare vicino all’ingresso dove la SS era sempre presente – e quindi portarci fuori, entrare in queste gallerie e percorrerle per centinaia di metri, perché le gallerie erano moltissime, molto distanti, con percorrenze molto lunghe. Questo per dire che andare al lavoro non era una grossa fatica, la fatica era il ritorno, come ho detto, quella di dover andare anche alla cava di pietra e prendere un grosso masso da portare sulle spalle.
Quando ci venne dato l’ordine di sgombero loro dissero: “Chi può andare, chi se la sente può sgomberare e chi non se la sente rimanga al campo”. Naturalmente il buon senso mi disse che io era meglio che me ne andassi perché non sapevo che fine avrebbero fatto quelli che rimanevano. E su dei carri… dei vagoni – non questa volta di bestiame e quindi chiusi, ma su dei vagoni scoperti – venimmo caricati e portati per una destinazione per il momento ignota. Il vagone scoperto era più comodo, nel senso che c’era l’aria che si poteva respirare liberamente. Peraltro pioveva, e quindi eravamo in una condizione veramente penosa. Tra l’altro lo spazio era talmente stretto… perché una larga parte se l’erano presa i kapo e noi dovevamo accontentarci di stare come sardine, in piedi. Quando poi veniva notte e dovevamo piegarci, perlomeno cercavamo di sederci, dovevamo allargare le gambe e far sedere uno in mezzo alle gambe, alla turca diciamo, per poter stare tutti. Naturalmente se c’era una necessità, che uno non sentisse più una gamba, non si sentisse male, eccetera, alzarsi [significava] perdere il posto e entravano in azione i kapo che con delle buone, vigorose bastonate, facevano crollare a terra la persona. E dove crollava doveva rimanere, i prigionieri dovevano fargli spazio per farlo rimanere in ogni caso.
Così andò avanti per quattro giorni, naturalmente facendo pochissima strada, pochissimo percorso, perché anche le ferrovie erano bombardate, [e] la situazione era tremenda in ogni senso. Una mattina ricordo che ci hanno fatto scendere da questo treno e ci hanno diviso in due gruppi, dando ordine che chi voleva e poteva camminare si fosse messo da un lato, dall’altro si fossero messi tutti coloro che per condizioni di salute non erano in grado più di camminare. Io scelsi questa soluzione, perché con la posizione in cui ero stato per ore e ore in tutte quelle notti avevo i ginocchi che si erano gonfiati e sembravano fiaschi, più che dei ginocchi. Quindi realisticamente pensai che era meglio che mi mettessi subito dalla parte di chi non poteva camminare, anche se ciò poteva comportare una fine non certo facile, e non certo positiva.
Comunque, ebbi una grande sorpresa. Prima, di vedere nell’altro gruppo che si era formato di intravedere il mio amico Noro che avevo perso di vista. E la situazione era tale che ci guardammo e non ci dicemmo nemmeno una parola, nemmeno una parola, tanto era la situazione sia psicologica che fisica per tutti noi. Quindi mentre loro, circondati dalle SS e con i cani lupo, presero una certa direzione, noi stranamente ebbimo l’ordine di rimontare su dei carri che non erano più i carri aperti di prima ma erano carri bestiame, addirittura c’era un po’ di paglia all’interno, per terra. E quindi io non feci altro che stendermi sulla paglia e addormentarmi, per il lungo periodo che non dormivo, pesantemente. Svegliandomi mi ritrovai in una stazione, fermi, probabilmente c’erano problemi di transito. E poi per altri due giorni errammo così, senza una meta, almeno senza una meta apparente, lungo queste ferrovie, sentendo a un certo punto anche il tuonare dei cannoni, quindi comprendendo che stavamo inoltrandoci in una zona dove la guerra era veramente guerra. Ebbimo anche la sorpresa di essere abbandonati dalle SS e di vedere al loro posto dei vecchi militari con dei vecchi fucili, che non erano più in grado di mantenere quell’ordine e quella disciplina che ci erano stati imposti fino a quel momento.
Tanto che, dopo una notte insonne, al mattino a qualcuno riuscì [di] aprire un vagone, un carro, e da un vagone aperto ebbero la possibilità di aprirli tutti e ci trovammo in una situazione di libertà. Addirittura, siccome sul nostro convoglio c’era un tedesco, naturalmente un tedesco politico, un triangolo rosso anche lui, che stranamente era del paese dove ci eravamo fermati, ebbimo delle notizie che nei paraggi c’era un baraccamento di militari che l’avevano abbandonato e che poteva essere un buon rifugio per noi. E così come potemmo, aiutandoci l’uno con l’altro, arrivammo a questo baraccamento dove c’erano dei lettini a castello, però con dei materassi veri, dove non ci parve proprio vero di poter adagiarci e rimanere, anche se avevamo moltissime situazioni di disagio, come ho detto, sia perché il cibo non ci era mai stato dato, sia per, in particolare, la mia condizione fisica.

D: Ecco, questo Dario, dove è avvenuto e quando è avvenuto?

R: Diciamo che questa improvvisa semilibertà – perché non potevamo ancora pensare di essere liberi – è accaduto circa… verso l’8 di aprile, l’8 di aprile naturalmente del ‘45. E questo baraccamento era non lontano da un piccolo paese rurale. Quindi noi ci trovammo lì e cominciammo – alcuni [di noi], quelli che potevano muoversi – a rovistare, a trovare che c’erano delle minestre vegetali abbandonate dai tedeschi eccetera, e potemmo almeno così avere qualche cosa, perché poi c’era una cucina funzionante sul posto. Potemmo cominciare a bere qualcosa di liquido che avesse l’apparenza di una zuppa, e questo per noi fu già un motivo di grande soddisfazione. Diciamo che nei giorni successivi la battaglia continuava nei paraggi, al punto che alcune granate – ci fu un duello di artiglieria – caddero anche sulle baracche, per fortuna vuote, di questo piccolo baraccamento. Dopodiché, dopo una pausa di alcune ore, vedemmo comparire con grande gioia un militare americano, armato di tutto punto, carico di tutte le cose di cui avevano bisogno oltre che delle armi. E allora si scatenò una tale gioia, un tale entusiasmo, che a gruppi di cinque-sei tentarono di sollevarlo, di portarlo in trionfo, e per la verità, dato lo stato di debolezza in cui si trovavano, finivano col cadere a terra loro con il soldato americano che doveva essere portato in trionfo. Io naturalmente non potevo fare nemmeno questo perché con le ginocchia che tenevo non ero in grado di sopportare sforzi, appena appena di muovermi.

D: Dario, geograficamente dove eravate? Ti ricordi il posto, la zona o la città più vicina?

R: Diciamo che questo grande piacere di trovarci qui… eravamo veramente liberi, perché gli americani ci dimostravano che eravamo liberati finalmente da questa situazione di schiavitù. Ci trovavamo in una zona, diciamo, non lontana da Dora, perché in sostanza con tutto il nostro girovagare avremmo fatto 60 o 70 km di percorso vero; ed eravamo vicini a una cittadina che si chiamava Seesen – che si chiamerà tuttora Seesen. Dobbiamo dire che per i primi giorni ci siamo arrangiati con questo piccolo magazzino, bevendo queste minestrucole di verdure, e trovando poi anche barattoli di pomodori, roba di questo genere. Poi sono intervenuti gli americani… il giorno successivo, devo dire, è arrivato un americano con una mucca, l’ha portata in mezzo alla piazza e c’ha sparato un colpo, la mucca è crollata e poi col suo gesto liberale ci ha indicato che potevamo approfittarne. E allora lì c’è stato un assalto a sezionare questa mucca, i più esperti naturalmente, e su grossi pentoloni [a] bollire. Abbiamo avuto la soddisfazione di bere del brodo, di mangiare della carne, insomma cose che non avevamo fatto da tanto tempo, che per noi era da un’eternità.

D: Dario, il ritorno a casa, come te lo ricordi?

R: Devo dire che eravamo liberi, ma il ritorno alle nostre case non era ancora pensabile. Per fortuna i polacchi del nostro convoglio avevano predisposto in questa cittadina, Seesen, ottenendo naturalmente tutto quello che serviva in una scuola sgomberata da banchi eccetera, [di] fare un ospedale, perché la maggior parte di noi aveva bisogno urgente di essere ricoverato, di essere curato. E quindi da lì, con dei carri – con dei carri a cavallo… trainati da cavalli – fummo trasportati in questa scuola, in questa piccola città di Seesen. E iniziammo veramente un periodo di ricostruzione di noi stessi, sia fisico che morale. Sicché ebbimo il piacere di avere le zuppe abbondantemente servite. Di essere curati non diciamo perché di medicine non ce n’erano; comunque la cura maggiore, la cura più importante era quella di poter alimentarci in maniera sufficiente.
Siccome in questo posto, a un certo punto, avevamo capito che non poteva essere il modo migliore per rimpatriare, abbiamo avuto sentore che a non molta distanza c’era un campo, un Lager di italiani internati l’8 settembre [1943], di militari italiani. E quindi abbiamo preso contatto con loro – dico ‘abbiamo’ perché avevo fatto amicizia con un deportato di Pesaro – e assieme ci siamo poi portati in questo campo da dove alcuni mesi dopo abbiamo avuto la possibilità di essere trasferiti a Braunschweig, una grande stazione, e partire per l’Italia.

D: Quale percorso hai fatto per rientrare in Italia?

R: Naturalmente la strada è stata lunga, il rientro è stato anche difficile per la condizione in cui si trovavano le ferrovie e tutto il territorio tedesco. Comunque, ricordo che verso i confini austriaci ci siamo fermati in un campo di raccolta dove siamo stati abbondantemente spruzzati di DDT e di tutte le altre cose che potevano far sì che tutti gli insetti che possedevamo fossero stati uccisi. E alimentati con un puzzolentissimo formaggio tedesco, che aveva veramente un odore schifoso, ma che insomma, per noi era già una cosa preziosa. Dopodiché, dopo questa sosta, siamo arrivati al Brennero e siamo arrivati poi giù a Pescantina, che era in Italia il primo posto di soccorso, così, di raccolta e di ripartizione poi per le varie destinazioni. E con dei mezzi americani, assieme ad altri che avevano come direzione Venezia, siamo stati portati fino a Mestre, e da Mestre, preso il treno, ho fatto finalmente ritorno a casa.

D: E questo era il…?

R: Era, diciamo, il mese di agosto [1945]. E come stranamente il mese di agosto ero finito nel campo di Buchenwald, stranamente il mese di agosto dell’anno successivo avevo avuto la fortuna di tornare a casa. Devo aggiungere che questa non fu la mia liberazione definitiva, perché io ero solo in parte liberato. Perché essendo arrivato ammalato, e essendo poi dovuto andare, per altri mali che mi erano sopraggiunti, all’Ospedale al Mare del Lido di Venezia, credendo di fare un breve periodo di riposo in zona marina, ebbi la sventura di fare tre anni e tre mesi di ricovero all’Ospedale al Mare. Tre anni e tre mesi. Dei quali, devo dire – per una questione di malattie ossee che m’aveva colpito la colonna vertebrale – almeno due anni li ho trascorsi immobile sul letto di un padiglione dell’Ospedale al Mare. E quindi la mia vera liberazione si può dire che comincia nel settembre… anzi, per l’esattezza, il 16 settembre del 1949.

D: Dei tuoi compagni, si è salvato nessuno?

R: Devo dire che io, come ho accennato in questo lungo, forse anche un po’ noioso racconto, non ho avuto l’opportunità, come tanti altri, di avere grosse conoscenze, di avere ampie conoscenze di altri prigionieri, conoscerne i nomi, le loro storie. Mi son trovato proprio a causa dei miei malanni in baracche dove addirittura non c’era nessun italiano, e quindi non ho avuto modo di conoscere chissà che amici e che persone… così, qualche persona, per uno scambio di frasi e di parole, spesso rese difficoltose dalla differenza di lingua. Ma, alla fine, io avevo due persone nel cuore: Vignando e Noro, Vignando Mario e Noro Sergio. Vignando Mario, come ho detto, è sparito e non è più tornato. Noro Sergio – che l’ho visto… quando si esce dal treno io mi sono portato nel gruppo di quelli che non potevano camminare, lui invece era nel gruppo di coloro che camminavano ancora – non ha fatto ritorno a casa. Anche lui evidentemente ha avuto qualche cosa, probabilmente in crisi, lungo il percorso è stato abbattuto da queste SS così crudeli. E quindi devo dire, concludendo questa storia, che in solitudine, quasi in solitudine, sono salito, e quasi in solitudine… anzi, sicuramente in solitudine, sono tornato.

Cantoni Rosa

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Cantoni Rosa, sono nata a Pasian di Prato, che sarebbe vicino a Udine, qui alla periferia di Udine, il 25 luglio del 1913.

D: Quando ti hanno arrestata Rosina?

R: Ecco, io sono stata arrestata i primi… non mi ricordo se 1 o 2 dicembre del 1944, cioè verso… alla fine dell’anno, ecco. E sono stata arrestata dai fascisti. Io stavo andando a un appuntamento con un compagno, al quale dovevo dare delle cose, come si faceva a quel tempo, insomma, lui ne aveva per me delle altre. Invece di trovarlo lui, a quell’ora lì, alle 9 e mezza del… alle 8 e mezza del mattino, attendevo, lui non veniva. E allora ho fatto… sono salita, ero in bicicletta, sono salita per andare un po’ più avanti pensando che ritardasse per qualche motivo. Escono dalle siepi di qua e di là – perché ero però alla periferia di Udine – due giovani in borghese che erano della milizia della polizia fascista, insomma, della 63ª Legione Tagliamento, mi pare, che aveva sede in via Aquileia, a Udine. Allora questi mi chiudono la strada e io devo fermarmi, e mi chiedono la carta d’identità, e quello che sembrava il capo della pattuglia me l’ha presa, l’ha letta e se l’è messa in tasca, nel taschino. Allora fra me e me ho detto “adesso ci siamo”, perché sennò me la restituiva. Ho cercato di dire qualcosa così, che ho fretta qua e là, ma insomma, [a] loro non gli importava niente. “E così deve venire con noi”. Due sono rimasti lì e due… siamo partiti a piedi, perché erano a piedi loro, io avevo la bicicletta, uno di qua uno di là, e a piedi abbiamo attraversato tutta Udine. Poi è suonato l’allarme, siamo andati sotto un ponte. E quindi mi hanno portata alla caserma della milizia dove, prima di tutto, mi hanno fatto sedere. Era vicino a me un fascista più anziano, sembrava panciuto insomma, sembrava un buon papà, che ha cercato di essere gentile con me, dicendomi che io sembro una persona per bene e che abbia fiducia in lui, che se le dico qualcosa, che rispondo alle sue domande e che eventualmente lui pensa che potrebbe mandarmi a casa. Allora io non avevo voglia di parlare tanto, tanto sapevo che… ero già preparata a queste cose, insomma, le conoscevo senza averle mai provate, ma sapevo come si comportavano, perché cercavano prima con le belle di farti… E allora ho detto: “Guardi, io sono l’ultima ruota del carro”. Perché avevo molta cosa… non potevo dire “non ho niente”. “L’ultima ruota del carro”, come si usa dire. Una che non ha niente, che non sa cosa fare, più di così… “che non ho compiti particolari, che non conosco nessuno, a parte una persona, la quale mi porta dei pacchetti che poi viene a riprenderli: una specie di deposito, ecco”. “Ma perché fa questo?”. “Perché” – e allora ho detto – “perché mi sembra, secondo il mio punto di vista, che dò una mano a chi, per dirla franca, non è fascista, e non è nazista, e non vuole insomma… vuole cambiare: io sono d’accordo con questi”. E allora così, visto che non era possibile fare niente mi hanno mandata su e poi fatto altri interrogatori, interrogatori stupidelli, così, perché proprio vuoti. Un gruppo di fascistelli lì mi ha chiesto… mi ha detto: “Voi siete comunista?”. Perché danno del voi, parlavano col voi. E ho detto: “Come faccio a essere comunista? Non ci sono neanche partiti in Italia, siete soltanto voi. Quindi io non sono niente, no? Non chiedetemi chissà che cosa perché io non so niente. Non avrei niente di utile da… per voi”. A secco, così. Insomma, poi due-tre volte ho girato un po’ di uffici là, che mi interrogavano. C’era un caporione, il quale mi ha detto: “Ma come lei è così calma? Non ha paura di quello che può capitarle, no? Sono i suoi compagni!”. Era un buffone. Un bell’uomo, stupido. “I suoi compagni che si buttano in ginocchio di fronte a me”. Ma io ho detto: “Non ho l’abitudine d’inginocchiarmi. Così e basta, no?”. E insomma, così, varie cose. Poi ho fatto un’altra trafila, ho preso un paio di ceffoni da un fascista, il quale – meridionale questo – voleva che [fossi] messa a confronto con un giovane che, a dire il vero, non lo conoscevo. Era un biondo, alto. Io ho detto: “Non lo conosco, non l’ho mai visto”. E lui, anche lui ha detto: “Non la conosco”. E così questo ha urlato: “Tutti uguali, voi banditi non vi conoscete mai?”. E allora mi è venuto a dire qualcosa e gliel’ho detta. Gli ho detto: “E voi fascisti? Cosa credete di essere?”. Pim-pum, due ceffoni. Me li son tenuti e basta. Però ero contenta di averlo detto, dico francamente. E poi, insomma, mi hanno chiuso in una stanza, vuota, dove c’era solo ritratto di Mussolini, là, in alto, che mi guardava.
Han messo dentro una povera pazza, che era con la sorella. Due sorelle di Caporetto. Erano state fermate da un fascista che conosceva… perché erano tre fratelli, i quali, secondo loro, erano partigiani – saranno stati – e volevano sapere dove erano dalle sorelle. Una non sapeva niente perché era veramente fuori di senno, e urlava, aveva la bava alla bocca, una roba tremenda. Era stata in manicomio per dieci anni, l’avevan tirata fuori per via della guerra, per tenerla a casa. E insomma… e così, ho avuto il mio da fare. Ecco, questa è stata una paura che ho presa, perché questa qui… Io sono andata vicino per cercare di calmarla, perché ho capito che era malata, e lei si è rivoltata con le mani così e mi correva dietro per prendermi per il collo. E insomma, abbiamo fatto un po’ di corsa intorno a questa stanza e per fortuna hanno buttato dentro anche la sorella che l’ha calmata. A mezzanotte circa siamo andati… ci hanno accompagnati in carcere, a Udine, il carcere di via Spalato, dove… sì, si passava dalla milizia. La milizia faceva la raccolta, prendeva la gente, e poi la passava, che andava sotto la SD. La SD era la sicurezza Deutsch., la sicurezza della Germania.

D: Scusa Rosina, la caserma della milizia dov’era?

R: In via Aquileia, in fondo. È stato bombardato… Poi son [state costruite] case nuove, negozi lì, eccetera… Era una vecchia caserma. E siamo andati di notte, insomma. C’era una bella luna, me la ricordo ancora. Mi hanno accompagnata a piedi in carcere e… [la] farei troppo lunga se racconto anche questo, ma ho fatto una bella chiacchierata con quel fascista che mi teneva per il braccio. E poi dietro di me venivano le due sorelle, quella malata e quella sana, e avevano altre due, uno di qua uno di là, poi dietro ancora c’erano tre ragazzi molto giovani, sbrindellati, vestiti presi in qualche bosco, in qualche posto, così, ed erano legati con una corda tutti e tre e due della milizia, uno di qua, uno di là e uno dietro, tre insomma. E io aprivo la strada con questo qua, il quale ha cominciato a parlarmi e a dire: “Ma” – dice – “è la prima volta che porto in prigione una persona… ho portato ancora di quelle passeggiatrici, così, ma non una persona… lei mi sembra una persona per bene ecco, come mai insomma”. “Eh” – ho detto io – “robe che succedono in questi anni belli”. E così siamo venuti nel discorso e io gli ho detto: “Guardi che lei… come fa lei a non sapere che la Germania perde dappertutto?”. Perché ormai era il ’45, quindi si andava verso… la Germania… era già stato liberato Auschwitz anche mi pare. No no, non ancora… E comunque si andava avanti, la Germania perdeva, l’Italia perdeva, il Fascismo perdeva. E allora lui: “Ma lei…”. “Guardi” – ho detto – “voi perderete la guerra, la Germania perderà la guerra quindi la perdete anche voi, perché voi siete al servizio”. Ma siccome mantenevo sempre quella calma, come adesso che parlo, questo stava ad ascoltare ed era anche un po’ impressionato. Dice: “Ma come fa lei a sapere tutte queste cose?”. “Come faccio? Niente” – ho detto – “non occorre niente, basta pensare un po’ e cercare di capire, di informarsi no”. E così siamo arrivati chiacchierando fino al carcere. Al carcere mi hanno presa in nota, come facevano per tutti. E questo qui mi guardava e non andava via, e allora poi dice: “Scusi sa, ma potrei salutarla?”. Allora io ho pensato un momento e mi allungava la mano, e allora ho pensato “Sì”. Ho detto: “Perché no? Si ricordi però di quello che abbiamo parlato oggi, si ricordi bene, ci pensi sopra”. E ci siamo lasciati così. Non so se ho fatto bene. Male no sicuro perché ho capito che non capiva niente, e che in quel momento nessuno gli aveva detto certe cose e incominciava a pensarci su, un poco. E così, finita la storia.
Sono stata in carcere. In carcere sono stata interrogata tre volte da un maresciallo. Era un austriaco, di cui ricordo il nome anche. E questo maresciallo parlava molto bene l’italiano, perfettamente. Era un professore di violino, aveva sposato una contessa friulana. Conosceva tutto il Friuli e quindi, quando l’Austria è stata incorporata con la Germania tutti gli austriaci sono diventati tedeschi sotto il nazismo, lui ha avuto… hanno approfittato del fatto che parlava bene l’italiano che conosceva tutta la zona, e era al servizio della polizia per interrogatori. Ma non interrogatori cruenti, interrogatori così, di inizio, perché quello che li faceva cruenti ho avuto la fortuna che era lontano, andato in Germania per discutere magari robe… e che sarebbe tornato fra un po’ di giorni. Ma quello era… dicono che era tremendo, eh… Comunque, altre volte mi ha interrogata. La prima ho risposto così, come ho potuto. Sì, ho risposto cercando di non dire niente, come al solito. E allora, poi mi ha richiamata. La prima volta, quando sono… mi hanno chiamato… Perché in carcere dal mattino alle 9 fino alle 5 della sera si era sempre in attesa di essere chiamati per interrogatori, si era sempre – come si dice – col cuore in mano, no? Perché si pensava di venire chiamate a interrogatori, eccetera. E allora, insomma, quel giorno lì, quella mattina lì, chiamano Cantoni Rosa, e allora vado. E tutte le compagne lì… una mi tira via… che avevo un fazzoletto rosso attorno al collo, mi tira via il fazzoletto. Un’altra mi fa il segno della croce, perché era così… un modo, così un po’… anche diremmo affettuoso. “Non parlare”. “No no, non parlo io, non so niente io”. Allora vado giù. Andando giù per le scale avevo un certo batticuore e allora mi aprono la porta e mi passa tutto. Una roba straordinaria. Sono padrona di me tanto bene. Allora entro, senza dir niente, e vedo quel signore, nella scrivania lì che mi guarda. “Buongiorno Giulia”, mi ha detto. Da notare che io avevo nome, così detta battaglia [nome di battaglia, ndr], era Giulia, ed ero stata segnalata tempo prima… una Giulia di Udine che aiutava la Resistenza, ma non avevano fatto ancora il nome vero, così quando è capitato quello là che era già in prigione e han trovato non so come… perché è morto a Dachau questo poveretto… E allora: “Buongiorno Giulia”. E io non rispondo, non sono mica Giulia. E allora lui dice: “Ho detto lei, non è Giulia lei? Il suo nome di battaglia non è Giulia?”. “No” – ho detto – “io mi chiamo Rosa Cantoni, o se vuole Rosina, perché da sempre mi hanno chiamato Rosina, in famiglia, i miei amici… e battaglie non ne ho fatte”, così. E lui era tranquillo per fortuna, anche lui, come me. Un personaggio molto dritto e che non mi ha fatto tanta impressione vederlo. Ho conosciuto dopo il figlio anche, dopo la guerra. E quindi dice… mi chiede se conosco questo, col quale dovevo trovarmi. Ho detto che “non l’ho mai visto, non so chi sia”. E allora dice: “Ma, beh…”. Insomma, mi fa altre domande. Io rispondo che non so niente, come ho detto agli altri, così. Continuavo sempre a dire quella, che non ero… non conoscevo né i capi né niente. Conoscevo solo una persona sola alla quale davo, e restituivo, prendevo pacchetti, e così ho dovuto ripetere anche che… mi pare che secondo il mio pensiero era giusto aiutare così. “Come?” – dice lui – “Aiutare i poveri soldati tedeschi, i partigiani li uccidono sparando alle spalle”. Allora mi ricordo di aver detto questo: “E i poveri soldati tedeschi cosa fanno in Italia? Se tornano a casa loro, nessuno andrà a cercarli a casa loro, no? Tornino a casa loro”. È stato zitto, non ha detto neanche […] Meno male. Avrà detto “ha ragione ‘sta qua”, forse. La seconda volta invece mi ha fatto chiamare. “Allora, non conosce questo?”. “No, non conosco”. “E allora chiamo un secondino lì… fammi venire qui tizio”. E allora tizio arriva, con la testa bassa, così, non mi guarda. E lui dice: “E questo lo conosce?”. Io ormai dovevo dir di no. Ho detto di no. Naturalmente dopo lui invece ha detto di sì. E allora lui ha detto: “Sì? E come si chiama? Che nome di battaglia ha… aveva?”. “Giulia”. Giulia, no? E allora… “E quando vi trovavate?”. Insomma, [ha confessato] tutto: due giornate settimanali che ci incontravamo per mezz’ora, così, per darci robe, eccetera. E allora dice: “E’ giusto quello che ha detto”, mi fa questo. “Se l’ha detto lui”, ho detto io. Eh, era giusto sì. Però sul nome di battaglia aveva detto un altro nome: aveva detto di chiamarsi Oscar, invece aveva… non mi ricordo più, un altro nome di battaglia. Ma insomma, non sono stata a dire “no, non eri così, ti conoscevo…”. Facciamola finita ho detto, tanto… Dopo, la terza volta invece mi han detto che sanno… sanno che so molte cose, che non le voglio dire, che me le farà dire quel tizio che era andato a Berlino. “Quando torna, quello fa parlare tutti. E come? A forza di pugni, di schiaffi e di cose peggiori” ha detto. E allora sono andata. Invece, per fortuna, intanto che quel tizio era via – non era ancora giunto – una mattina sentiamo leggere una sfilza di nomi. Eravamo in quattordici donne che sono state mandate… era venuto su un treno da Trieste, il quale aveva pochi ebrei, perché ormai eravamo verso la fine. I rastrellamenti erano fatti di ebrei, no… e tanti. Ma [c’erano anche] partigiani, sia sloveni, croati, come tanti italiani, [provenienti] dalle carceri di Udine, che erano affollatissime, specialmente nel reparto uomini, perché [c’] erano state le grandi… i grandi rastrellamenti, le grandi battaglie della fine estate e tutto l’autunno, ed era stato un macello. Anche se, pur essendo arrestati tanti, morti tanti, però la Resistenza continuava a ingrossarsi lo stesso, e a fare, ancora. E allora il carcere era pieno. Di donne non [c’] era tanto posto, ma non eravamo molte, quattordici, così. C’erano due zingare anche: erano in tre in carcere, ma una era incinta e dal carcere di Udine l’hanno mandata via. Forse se era un altro carcere dove i tedeschi erano lì, anzi, [e] doveva fare un figlio, andava a morire. Comunque, è andata così per questa, è rimasta lì. Le altre due son andate via con noi. E così tanti uomini e anzi sotto… prima di imbarcarsi sul treno insomma, [ci] siamo salutati in tanti. E mi ricordo che c’era una certa Noemi che era in carcere con me, e sapeva che il marito sarebbe stato portato in Germania. Allora mi ha detto: “Senti, se vai giù, chiedi di Bepi, di mio marito. Gli dici che lo saluto tanto e gli dai un bacio, per me”. “Sì sì” ho detto. Ho cercato questo [Bepi] e l’ho salutato. Poverino è rimasto là, a Dachau. E anche quello da cui è sorto l’arresto mio, quello non l’ho visto: probabilmente ha cercato di evitarmi, non sono neanche andata a cercarlo. E allora ho salutato quello lì, ci siamo baciati. “Coraggio” ho detto. Poverino, era un giovane così dolce, carino, si vedeva. È morto a Dachau. E di quelli lì sono morti tantissimi uomini, perché erano già alcuni debilitati per la lotta partigiana, o feriti, e poi maltrattamenti, eccetera. Erano in molti. Il treno era pronto: carri bestiame, uomini, donne. Tante donne, del Friuli Venezia-Giulia, cioè dalla provincia di Udine in gran parte, Pordenone, ma più di Udine e… di montagna e di pianura. E poi tante di queste erano… alcune di Gorizia, provincia di Gorizia, di Trieste, ma più di tutto dell’Istria. Perché l’Istria era sotto l’Italia, in quel tempo, no. Dopo la guerra del ’18 era stata [annessa] e però queste si dicevano, si intendevano [slave] ed erano partigiane di Tito. Ma ragazze in gamba! Giovani, alcune un po’ più anziane, ma altre anche giovanissime. Erano quattro sorelle, mi ricordo, quattro belle ragazze, con la madre. Una andava dai ventidue e la più piccola ne aveva quattordici, e la madre. E insomma, storie così.
E questo treno è stato… come si sa. Il viaggio in treno, in piedi, giorno e notte. E dopo [ci furono] alcuni battibecchi… no battibecchi, chiarimenti, avvenuti tra… a cui sono intervenuta, a dire il vero, io. Perché c’era una donna anziana che diceva che tutti… Lei non può vedere gli italiani perché sono tutti traditori e fascisti. Allora le ho detto che “si sbaglia, perché se noi siamo qui non siamo…”. “Eh, ma io non dico voi!”. “Vabbè, lei ha detto tutti gli italiani, e io non intendo che metta anche i miei fratelli e tutti quanti, che non sono fascisti. Mai stati. E ricordatevi…”. A me non interessava tanto lei, perché era vecchia. È morta là, poverecia. Mi interessava più le altre che capissero, perché avevano fatto piazza, si erano ritirate tutte assieme, senza toccarci, e non mi andava quella cosa lì. Allora ho detto: “Guardate, se siamo qui, noi, siamo appunto perché non siamo fasciste, e perché in Italia ci sono le carceri… dietro là nei vagoni ci sono dei vagoni pieni di giovani partigiani italiani che sono stati presi appunto perché non erano né fascisti né niente”. Insomma…

D: Scusa Rosina, quando questo è avvenuto? Quando sei partita te? Ti ricordi?

R: Ecco… sì. Il 10 gennaio [1945], perché le feste, e le robe, le abbiamo fatte tutte lì, sì, tutte in carcere. Il 10 mi pare, verso… In carcere, era dura però in carcere.

D: E siete arrivate quando?

R: Ecco, io non so. So che ci pareva fossero passati non so quanti giorni, una roba tremenda, lunga. Ma abbiamo passato alcune notti, no? Mi ricordo quando veniva sera, il fiato, l’umidità, si gelava nelle pareti del treno, perché era gennaio. Si andava nel nord, era tutto un luccichio dentro. E sempre in piedi, oppure accovacciate un po’ a turno, ma dura, è stata durissima. Di giorno però riprendevamo fiato. E a dire il vero dopo è venuto anche un simpatico… [una simpatica] amicizia fra quelle altre e noi e le altre… siamo state dopo sempre assieme, sempre molto amiche, che ho alcune che ancora conosco. E sì, siamo arrivate di giorno, dopo un lungo viaggio in treno. Una volta sola ci hanno dato da mangiare, perché avevamo qualche cosetta dal carcere, portato dentro [sul treno]. Io avevo un paio di wurstel, un po’ di pane, chi aveva divideva con le altre, no? E chi non aveva mangiava quello che gli davano. E insomma, gli uomini – il treno è stato diviso – gli uomini, di cui erano anche degli ebrei, alcune famiglie ebree, allora hanno separato gli uomini dalle donne, i bambini che sono venuti con noi a Ravensbrück, e gli uomini sono andati a Flossenbürg e poi a Dachau… e poi a Dachau. E così, non saprei se abbiamo fatto tre giorni e tre notti… lì attorno insomma, ma era un’infinità, sembrava di essere nati… nate sul treno. E cantavamo però. Per fortuna avevano le canzoni partigiane slovene, erano bellissime, mamma mia che cori! E allora si andava dietro. Cantavamo canzoni partigiane tutta la strada, per darci animo. Giova, molto! E così siamo arrivate a Ravensbrück. Siam passati Berlino. Berlino tristissima, dall’alto, si vedeva Berlino giù, no? Gente… tristezza proprio, gente pallida, rabbiosa, si vedeva chi passava sotto là. E siamo poi proseguite, e mi ricordo di aver visto la scritta ‘Sachsenhausen’, in grande, così, e lì probabilmente era il campo di Sachsenhausen e il treno passava davanti. Allora ho detto io: “Oh, guardate! […] Sarà un campo lì”. Era un gran portone… e sì, difatti era lì. Abbiamo passato Sachsenhausen e siamo andati ancora più su, fino a Ravensbrück, il quale è circa 80-90 chilometri, non so, da Berlino, verso nord-est. E quando siamo arrivati a Berlino: “Finalmente siamo a Berlino, chissà cosa ci tocca adesso, ma intanto abbiamo finito di andare in treno”. E così ci tocca come è toccato a tutti, a tutti quelli che arrivavano in un campo: spoliazione, cappelli, via vestiti, tutto… porta via tutto, orecchini… Avevo un bellissimo orologio io, era stato di un ufficiale della SS, ed era morto, e a quello che me l’ha portato ho detto: “Che bell’orologio che mi hai portato!”. Perché mi prendeva in giro: “Non hai neanche un orologio”. “Eh, son povera”. In quella volta non riuscivamo a comperarci l’orologio, neanche lavorando. “E allora ti farò avere uno io”. Questo qua era un compagno che era stato preso… bravo, medaglia d’argento, morto a Mauthausen. È stato arrestato gli ultimi tempi, ma partito dopo di me, un mese dopo. E’ partito moribondo, perché lo hanno tanto bastonato, tanto torturato: Periz, Orio [Giovan Battista, o Giobatta, Periz, nome di battaglia ‘Orio’; ndr]. E così mi ha portato questo… “Uh” – poi ho detto – “e il padrone chi era?”. “Un colonnello della SS” – ha detto – “lo abbiamo mandato a Codroipo”. Codroipo è un paese qua vicino, e così… e così è tornato a casa sua l’orologio…
E poi tutto il resto: la doccia, i vestiti, orribili… coi pidocchi, dicevano che erano disinfestati ma erano… Dopo, quando siamo entrate nelle baracche che ci avevano segnato, dalle cuciture uscivano i pidocchi secchi, uscivano secchi, come foglie secche, perché senza… andavano a cercare nutrimento, che eravamo noi. Correvano su per i vestiti, mamma mia che roba! Però m’è toccato di fare quel giorno lì un’esperienza, che sono stata tanto tempo senza ricordarla, perché succede anche una fortuna: che quando sei sbattuto in particolari situazioni, le robe che ti capitano in questo momento vanno tutte dietro, perché hai ancora da pensare “Chissà cosa mi tocca? Devo andare di là, devo andare di qua… seguiamo…”. Ma comunque, siccome eravamo circa… un centoventi saremo state – quelle slovene… quelle istriane e noi, e anche le due zingare – divise, così, a sorte, [a] metà. Una parte l’han condotta per trovare dove metterle, e l’altra avrebbero procurato per noi… Intanto in questo grande cortile c’era una tenda nera – che è stata dentro un po’ di ore anche quella compagna lì di Treviso no, la Moimas [Albina Moimas, ndr] – che sembrava un circo, come le tende del circo, grande, nera. Entriamo lì, e ci dicono: “Andate lì che presto, subito, fra poco torneremo a prendervi per portarvi al punto di destinazione”. Va bene, entriamo lì. E vediamo nella penombra di questa baracca, di questa tenda, un mucchio di donne, ma un grosso mucchio di donne, tutte così, a cono, perché man mano che… eh… e sotto probabilmente erano già tutte morte, vestite di nero. Sopra però galleggiavano alcune che si muovevano ancora un pochino, particolarmente due, una specialmente, bianche, come quella carta, con quegli occhi infossati, neri, facevano un senso. E un momento dopo arrivano due inservienti, prigionieri che facevano dei lavori per l’interno, così, e portavano un recipiente con patate lesse. Probabilmente… io non so se l’hanno fatto per farci vedere cosa succede, che sia di… o se hanno fatto [per portare] lì le patate per noi, perché noi non eravamo destinate a morire, ancora. C’erano ancora tre o quattro mesi per vivere noi, lavorando, e mangiando niente, quasi. Insomma, arrivano queste. E queste qui che erano condannate, senz’altro, a morire d’inedia, cioè messe lì, senza bere, senza mangiare, freddo tremendo – la notte specialmente, su là, sopra Berlino, in gennaio – in quelle condizioni, senza poter ribellarsi… perché non ti ribelli, come fai a ribellarti in un campo di sterminio, se non hai neanche la forza, non hai neanche le armi, non hai niente? Se ti ribelli ti succede solo peggio perché ti bastonano, ti fanno star male. Allora queste qui, queste sopra, si sono allungate, specialmente una, che era molto alta – si vedeva dalla sagoma – e ha messo la mano nell’orlo del recipiente, e le patate sono tutte corse, rotonde, correvano sul pavimento, e si sono chinate, perché non stavano in piedi, a prenderle su e a portarle subito alla bocca. Ma a vedere lo spettacolo, era una cosa spaventosa. Vedere queste, già quasi morte, non potevano muovere le mandibole perché orami erano strette, non potevano… Aprivano appena un po’ la bocca e cercavano col dito di mandar dentro, e tenevano stretta la patata perché non… ma non riuscivano a mandar dentro, a ingoiare. E quelle sotto – che erano ancora un po’… che capivano, appena appena, per istinto di conservazione, che erano sotto di loro – che cercavano di andare a portargli via il pezzettino che avevano sulla bocca. Ed era una cosa spaventosa. C’era una ragazzina, giovanissima, si è messa a piangere, ha detto: “Oddio, così succederà anche per noi”. Nessuno gli ha risposto: perché, chi lo sa? Fatto sta che queste due han gridato, [ed] è venuta la tedesca. La tedesca ha incominciato a urlare, con il bastone di gomma, a dire di tutto a queste povere disgraziate, che si son rimesse al punto di prima, in silenzio. Non ho sentito… neanche un piccolo grido abbiamo sentito. Niente, niente di niente! E si sono rimesse lì, e ci guardavano queste due sopra, con quegli occhi fondi. E così han preso su le patate e le han portate via… Noi non le avremmo mangiate, come fai a mangiare quando vedi… Magari ti allungano le mani, e se li dai da mangiare ti mettono anche te dopo lì, no. Sì, non era possibile. E così hanno portato via le patate e un po’ dopo sono venuti a prenderci. E subito tutta questa visione è andata dietro per un bel po’ di tempo, eh. Quando ho cominciato a pensare, a rivangare, con un po’ di calma, e mi è tornata su, ma… perché tutto andava dietro. E così siamo andati in questa… era una baracca di… come si dice, cosiddetta ‘quarantena’. Ma non si faceva quarantena ormai, eravamo in gennaio del ’45, una settimana almeno. Allora lì era kapò una tedesca, col triangolo verde, perché come voi sapete, eravamo… si distingueva la categoria delle prigioniere, uomini o donne che fossero stati, dal triangolo che portavano. Perciò i più numerosi erano i triangoli gialli e i triangoli rossi, poi venivano i verdi che erano delinquenti comuni, generalmente tedeschi o polacchi, uomini specialmente, testimoni di Geova, omossessuali, zingari: insomma, ognuno un colore, no. E poi c’erano anche il colore di giallo e una lista rossa, che sarebbero stati ebrei… mezzi ebrei, sì cioè, misti…

D: Scusa Rosina, ti hanno immatricolata lì a Ravensbrück?

R: Sì, sì, ci hanno immatricolate, dovevo dirlo prima quando abbiamo [parlato della] vestizione. Allora ci hanno dato, hanno messo… c’erano dei mucchietti già pronti di vestiti, cosiddetti vestiti, e con un paio di zoccoli di legno, spaiati: una che aveva i piedi piccoli aveva un numero quaranta, quella del quaranta aveva… dopo si cambiavano un po’, oppure vedevi una che girava: “Chi ha una scarpa in più, di sinistra o di destra?” – perché aveva una scarpa sola. E così ci hanno dato il numero di matricola, che era scritto stampigliato in un pezzettino di tela bianca, e sotto… dovevamo sistemarlo sotto il triangolo rosso noi, triangolo rosso e il numero di matricola. Il mio numero di matricola era 97323. Ecco, questo ero io… eravamo tutte su quella cifra lì insomma no, quelle [che] si andava assieme. E così poi ci hanno portate nella baracca e questa col triangolo verde, una sera quando hanno chiuso – siamo state una settimana lì – la baracca, la sera che chiudeva, allora diventava gentile, perché aveva sempre il bastone e urlava di far paura, aveva una voce stridula, alta ‘sta donna, sembrava tagliata come una statua abbozzata, però è stata la migliore kapò che abbiamo avuta. E allora accendeva un coso per asciugare i panni lì, o aria calda insomma, e lì c’erano già tante altre ebree, ungheresi, buona parte ungheresi, e questa qui c’ha detto: “Guardate, voi siete qui per qualche giorno, e qui mangiate una zuppa, che insomma non è cattiva”. Difatti non era cattiva. “Però” – dice – “quando andrete in baracca starete molto male, perché dormirete male, mangerete peggio, e qui invece, sì, c’è un po’ di zuppa che aveva un po’ di patate, un po’…”. E dice: “Poi, vi dico un’altra cosa, che in questa zuppa, i primi giorni che uno viene si mettono…”. Perché alcuni medici dicono che non è vero, altri dicono di sì; io ho letto su un giornale molto serio […] che parlano di questa polverina, che non mi ricordo come si chiama, che è corteccia di un albero che nasce in America del sud, il quale ha potenza sia come veleno, ma anche la medicina son tutti veleni… sì, ti guariscono secondo come li usi… Allora lei dice: “Va’ che queste fermano le mestruazioni”. I medici dicono “il corpo si difende”: sì è vero anche questo, però i primi tempi han dovuto pensare a fare qualcosa… che i primi tempi quelle donne polacche che erano prima mandate dentro – o anche le non polacche, ancora sane, no – eh, come la mettevamo? Ci sta poco a dire. Ad ogni modo, è andata così [a] noi per una decina di mesi, più o meno. Qualcuna ha dovuto curarsi, a secondo il fisico; a me non han fatto niente, andavo meglio che non ci fosse. E dopo ci han detto: “Adesso voi preparatevi, vi faccio… state sempre in gruppi, non fatevi trovare sole, perché può passare qualcuno a prendervi e sfogare tutta la rabbia che ha, o fare pazzie insomma; allora cercate di stare il più possibile insieme e non disobbedire tanto perché qua non c’è pietà, non c’è pietà. Se volete tornare a casa dovete cercare di sopravvivere”.

D: Rosina, scusa, tu quanto tempo sei rimasta lì a Ravensbrück?

R: Dunque, gennaio, febbraio, marzo… tre mesi sicuro. Perché dopo febbraio c’hanno adunate col gruppo nostro, è venuto lì un capitano della SS, piccolo, con le gambe storte, con la voce stridula. Era rabbioso, perché non rappresentava tanto bene fisicamente la razza forte: questo ho pensato io, perché mi restava di pensare, sì. E allora questo ci ha fatto un discorso, ci ha detto [che] se vogliamo andare a lavorare in una fabbrica staremo meglio, avremo… eccetera. “Allora venite fuori!”. Nessuna è andata fuori. Noi eravamo partigiane, e andiamo a lavorare volontarie in una fabbrica? Che dopo, tra l’altro, ci bombardavano anche gli americani. E insomma nessuna di noi. Quella che aveva le quattro figlie cercava di mandarle fuori ma loro si sono rifiutate, anche la madre. E allora siamo rimaste ancora lì. Più avanti ci hanno mandate fuori, perché man mano si avvicinavano i russi a Ravensbrück. E man mano perché Auschwitz in gennaio era stato liberato e i russi correvano su, andavano avanti bene. E allora hanno mandato un po’ che [di donne] a Belsen, un po’ che di qua un po’ che là. Io ho avuto la fortuna di dover mettermi a camminare. No, anzi, prima a fare un pezzo in treno, tutto il mio gruppo, più altre. Hanno tenuto le vecchie lì, che sono morte, e altre mandate a Belsen che quasi tutte morivano, malate magari, eccetera. Però son rimaste ancora molte che sono state liberate dai russi. E io con le mie abbiamo avuto destinazione Buchenwald, ma un pezzo in treno e un pezzo a piedi, sai, non era la strada dell’orso! Dormire all’aperto, pioveva, era freddo in quel periodo lì. E insomma siamo arrivate [a] Weimar e Buchenwald. A Buchenwald non siamo mai entrate perché poi c’erano anche degli uomini, non so [di] che campo, collegati con noi, dietro: gli uomini li hanno tenuti lì dentro e noi, le donne, niente. E così quella notte – la ricordo sempre quella notte – pioveva a dirotto, non so quanti giorni non si mangiava, un freddo… e quello che era peggio è il sonno. Il sonno è una cosa tremenda, quando sei lì che… ti butteresti per terra tanto volentieri, magari anche sotto la tempesta, però ti tiene su sempre quello che “non puoi! non devi”, e vai avanti. Insomma, siamo arrivate in quel posto, là, Abteroda, c’era una fabbrica vicino un bosco. Lì siamo state un po’ di tempo. Ma lavori di quelli… lavoravano per l’aviazione. Mi ricordo che veniva un vichingo, altissimo, bell’uomo, giovane, un mantellone azzurro, pieno pieno [di sè]… Uh! Credeva di essere il re del mondo. E allora “Heil Hitler” – queste donne – “Heil Hitler”, [dicevano] queste tedesche addette lì a sorvegliarci. Aspetta che ti racconto anche questa, anche se vien da ridere adesso… sì ma non è che io piangessi per questo. Lì, tutte soffrivamo di dissenteria, perché fra le varie pidocchi, scabbie eccetera c’era anche la dissenteria, e se veniva tanta si moriva. Allora eravamo stanche, magari lavorare in piedi… C’erano delle francesi – molto brave le donne francesi… sì, ci hanno aiutate, abbastanza – e c’era una matrona. [In] questa fabbrica lunga lunga, con tante macchine, in fondo, all’inizio, c’era una poltrona, seduta lì c’era una matrona tedesca, vestita di nero, di scuro, non militarizzata sarà stata, si capisce. E lì, tutto il giorno seduta lì che guardava in giro così. Per andare in gabinetto si doveva… sì, siccome c’erano i servizi, e anche con water e tutto quanto, allora quelli che han scoperto prima ci han passato la voce “sapete che si può sedersi tanto bene?”. E allora un giorno – questo lo dico per me, per dare l’idea, ma succedeva a tutte, allora qualche volta si aveva bisogno, [solo] qualche volta, per fortuna – il primo giorno io vado lì, e si doveva dire una frase che si aveva imparato lì: “Bitte Frau, viel krank”, [mentre] si teneva la pancia. “In Abort”, perché l’Abort è il cesso. Bene, vicino a lei c’era un soldatino, biondo, color canape, quello delle pannocchie, con un fucile di quelli della guerra del ’15-’18, con baionetta in canna. Allora questa matrona che era lì vede me, piccola, con la croce sulla schiena, tutta… e dico: “Bitte Frau, viel krank, in Abort”. E allora questa a questo qua che era vestito non di SS [ma] di soldato tedesco, allora mi tocca la seconda volta, così. E questo mi viene dietro, baionetta in canna, io su per le scale, per andare all’Abort. Si andava dentro e finalmente ci si sedeva. Si sedeva fino a quando lui non cominciava a batter la porta. Io esco e lui mi guarda – avevo i capelli molto scuri, quasi neri – e dice: “Franzosa?”, se sono francese. “Nein” – ho detto – “Italien”. “Ah, italianska”. Detto ciò [capisco] che quello lì non è tedesco, difatti era croato. Allora abbiamo parlato un momento. “Italianska”. “Ja, Trieste” – ho detto – “Trst”, si diceva Trieste , anche se non è vero che siamo vicino, ma abbastanza. E allora, e lui dice – aveva voglia di sfogarsi poveretto – dice: “Hrvatsko, hrvatsko”. Mi parlava in croato dopo. Mi ha fatto capire che aveva bambini, ragazzini, tanti ragazzini. Povero, è che lo hanno preso, e lui si è lasciato prendere per salvare la famiglia, sennò… E allora ha detto: “Pochi mesi”. ‘Monat’, [così] dicono i mesi, ho capito che erano pochi, non mi viene la parola [in croato]. Poi: “Fertig Krieg”, finisce la guerra. “Ja, ja, bitte”. E allora via avanti, che lui mi accompagnava dopo senza parlare, giù per le scale. Lì [ad Abteroda] siamo stati poco perché poi avanzavano gli americani, si sentiva la notte che passavano, sparavano, passavano [sopra] il tetto della fabbrica. Era una bella fabbrica, in tempo di pace, ben fatta, tutto. E così una mattina… via. E siamo partite per un viaggio senza fine, perché avrebbe dovuto essere un viaggio come quei viaggi della morte dove la gente… non sapevano più dove metterci, no. Allora abbiamo camminato un po’, senza fine non ancora, perché abbiamo camminato un po’, e poi ci hanno messe… Era in mezzo a una campagna, un piccolo campo che erano solo ebree ungheresi, saranno state, non so io, cinquecento. E lì, tutte coi vestiti loro tutti sbrindellati, chi aveva le spalle fuori, chi aveva… ce n’erano due che camminavano in ginocchio, un’altra che pregava, impazzite, donne di una certa età, però c’era qualche giovane anche. E allora lì… Penig era, un piccolo… Non si poteva scappare da lì perché non era niente. Dove vai, in campagna? Era erba dappertutto e basta. Non c’erano alberi, non c’era niente. Ed era in sotto, così. C’era un piccolo… un po’ di baracche e così siamo state alcuni giorni lì. Intanto gli americani venivano… E allora una notte, una sera verso le due di notte, ci svegliano e ci mettono… E quello era veramente il viaggio che non si sapeva dove [saremmo andate], difatti si girava di qua e di là, si andava in su in giù, da una parte dall’altra. Non ti davano da mangiare. Erano due giorni che non mangiavamo niente, solo erba, quel radicchio famoso, che si mangiava lì, come i conigli. E insomma, così, non so come abbiamo fatto. [Siamo] partite, e poi via avanti e da un campo – non so da che campo perché… un po’ la debolezza, un po’ così, [e c’erano] anche uomini, era una grande fila di donne e uomini – e abbiamo trovato… sì, combattimenti per aria, e carri armati che bruciavano per la strada, era stata battaglia lì, e un aereo inglese che si abbassava a sfiorare la… per vedere. Non ci han toccati noi, han capito che era una cosa di prigionieri, una colonna di disgraziati. Fantasmi, sembravamo fantasmi. E così abbiamo camminato un giorno, una notte, un altro giorno, un’altra notte, e poi sorgeva un altro giorno. Sai cosa significa camminare senza che ti diano niente? E loro, i tedeschi, quando ci dicevano di riposare, allora si mettevano lì, si mettevano a mangiare pannocchie. Sì, non è che si mettessero lì a mangiare bistecchine, si arrangiano, però mangiavano no! Ti veniva un desiderio di assassinio straordinario, ci sta poco da dire. E mangiavano lì di fronte a noi perché sapevano che avevamo fame e che li vedevamo: la cattiveria ancora. E una notte invece, [dopo che] io tutto il giorno rimuginavo “non vado più avanti”, in quella notte lì sono scappata con quella di Udine – insomma, siamo andate di nascosto, non ci vedeva nessuno – in una casa bombardata, e lì abbiamo trovato un’altra friulana, una belga, e due, madre e figlia ebree. E siamo state lì. Dopo abbiamo aspettato l’alba e poi siamo andate… uscite, perché la guerra non era finita… i tedeschi… Abbiamo cercato un posto e il posto era un cimitero, siamo andate in un cimitero. “E adesso?”. Il cimitero… Ma prima di arrivare al cimitero abbiamo incontrato uno vestito di SS, tutto armato, solo, che veniva contrario a noi. Avevamo quella belga che parlava tedesco, come tutti i belgi, e francese, molto bene. Era della Resistenza. Era un po’ anziana ma in gamba la donna, alta, magra, alta. Allora andiamo avanti e ci troviamo vicino. E allora questo qua: “Ma, dove andate? Chi siete, dove andate?”. “Eh” – dice lei, perché noi avevamo nominato capo questa donna, lei ci teneva – “sì, eravamo in colonna, viel krank”. Insomma, in tedesco gli ha detto ‘ci sentivamo male, siamo rimasti indietro’. “E adesso dove andate?”. “Eh, andiamo a cercare di ritrovare la colonna”. “Siete matte!”, ci fa questo SS, vestito tutto armato, tutto qua pieno di robe [Cantoni indica la presenza di un cinturone, ndr]. “Perché” – dice lei, lei gli ha detto così perché credeva fosse tedesco – “ma di dove siete?”. Allora dice: “Io sono belga”. Quella volta – mi pare di vederla ancora, stava un po’ sorgendo il giorno – si alza in tutta la sua altezza – perché era piegata nello stomaco, pancia vuota – e dice: “Sei un belga, e non ti vergogni a indossare quella sporca divisa?”. E lui [che] si è arrabbiato dice: “Ma, cosa vuoi, ero studente e mi hanno fatto…”. Ad ogni modo ci ha insegnato che lì c’era un cimitero. “Aspettate lì che arrivino gli americani”. Gli americani sono mai arrivati, poi sono arrivati i russi. Insomma, è stata tutta una storia che comunque si è conclusa bene perché sono qua a raccontarla, ecco, ma ho fatto molte esperienze anche [dopo] questa storia.

D: Ecco ascolta, una cosa Rosina, il tuo rimpatrio, quando è avvenuto?

R: È avvenuto il 27 di ottobre del ’45. Sono arrivata a Udine, sempre in vagone bestiame.

D: Passando da dove?

R: Passando per il Brennero. Sì sì, per il Brennero, perché abbiamo fatto tappa a Pescantina. Anche lì ci sono state… coi frati che non ci davano da mangiare perché eravamo partigiane. E così, tante cosucce, sai. Poi siamo andati a Mestre e finalmente siamo riusciti per venire in Friuli, io e la Casati che era di Udine. [Su] un treno merci un ferroviere ci ha detto: “Voi non avete soldi, tornate a casa e salite sul treno, questo va a Udine”. Vagone del bestiame prima, del bestiame dopo. E siamo arrivate a Udine, di sera, e ho dovuto baruffare anche col tranviere, perché era l’unico tranviere, che era fetente fascista; per andare in pensione aveva i baffi… baffone, aveva un paio di baffoni così, me lo ricordo ancora. Era l’ultima corsa dell’autobus… del treno… del tram, del tram con le ruote, e sopra c’era solo un uomo. Allora io salgo e gli dico questo, educatamente, che “non posso fare il biglietto perché non ho soldi perché vengo dalla Germania”. E lui fa: “Cosa mi importa a me se viene dalla Germania lei? Deve pagare se no sale a terra”. “Va bene, mi butti giù, e domani ci vedremo in questura” ho detto. E allora quell’altro dietro, che sbolliva, si alza su, gli dice: “Ma non si vergogna? Cosa crede di fare? Qua!”. Ha tirato fuori… costava poco, gli ha buttato i soldi così. Allora è stato zitto, e io sono scesa. Ho ringraziato quell’uomo, e son tornata a casa di notte. Mia madre era a letto, e ho fatto… Mille cose si potrebbero dire…

D: Dicevi a Pescantina, i frati? Quali frati?

R: Ma, non so, erano frati vestiti di nero mi pare. Era un posto di ristoro e non ci hanno ristorate per niente. C’erano invece tre carabinieri, giovani, son passati di lì e ci han viste sotto la pioggia lì, in quella baracca, e hanno chiesto… E allora “Venite con noi”, nella loro caserma. Poverini, tanto carini, e ci hanno fatto il vin brulè, e poi ci hanno fatto raccontare la storia, seduti sulle loro brande, così cari. E così dopo siamo andati a Mestre per vedere di trovare un treno. Treni ce n’era pochi, allora treno bestiame, andiamo a Udine, e trovo… anche quello…

D: Scusa Rosina, la Liberazione in realtà, la tua Liberazione, è avvenuta dove e quando?

R: La mia Liberazione, ecco, liberata dal campo, è stato [al] cimitero. È stato il custode del cimitero che ci ha detto che non possiamo stare lì in quella baracca che era nel cimitero, perché lui deve avvertire la polizia, e ci ha portato patate lesse. “E domani mattina andate via!”. E così, a tappe. Poi abbiamo trovato italiani, militari italiani che ci hanno aiutate, e insomma…

D: E questo cimitero dov’era?

R: Dov’era?

D: Non te lo ricordi?

R: Se sapessi andrei una volta a trovare quell’Otto che era sepolto là, coi baffoni, che era scritto ‘auf wiedersehen’. [Avevo pensato:] “Se vado via di qua stai fresco che vengo a trovarti”.

D: Non ti ricordi il posto?

R: Era… no, perché abbiamo fatto tanta strada. Certamente era Turingia, penso, perché Buchenwald è in Turingia… ma forse eravamo passati anche più…

D: E nemmeno il periodo ti ricordi, quand’era la data più o meno?

R: Guarda… la data era… dunque, la Liberazione… ecco, io, quando […]