Chieffo Giorgio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Giorgio Chieffo. Sono nato a Firenze il 05.01.21, ho ottantuno anni.

Dove sono stato arrestato? Sono stato arrestato a Milano su una delazione di un tizio, il quale era stato paracadutato, che avrebbe invece dovuto essere il collegamento tra il nostro servizio, dico nostro”, perché eravamo insieme io e Giorgino, tra il nostro servizio e il servizio segreto statunitense, l’O.S.S. che avrebbe avuto in quel periodo lo scopo di preparare uno sbarco con alianti e anche avio, se fosse stato possibile, a nord dell’Appennino.

Praticamente io ero a Milano e avevo parlato con un alto dirigente del Comitato di Liberazione che era Pietro Stucchi Prinetti, e dopo noi vivevamo nella casa di un tizio che ce l’aveva offerta, partendo da Borgotaro e una mattina siamo usciti io e lui e ci siamo trovati ingabbiati.

D: Scusa, tu facevi parte di quale organizzazione?

R: In primis, ovviamente, io facevo parte della Brigata Julia di Borgotaro. Mentre ero nella Brigata Julia, venne dal sud un piccolo gruppo, tre persone, che loro erano stati incaricati dal servizio di informazione americano, di iniziare a trovare una maniera di adepti e ovviamente informazioni.

Questi ci dissero: “Guardate, avremmo bisogno di questo e questo”. E allora abbiamo iniziato a dare queste informazioni. Volevano sapere la dislocazione dei reparti tedeschi, dei reparti fascisti. Avevano bisogno di avere delle notizie circa gli eventuali punti fortificati.

Tra l’altro riuscimmo, ma questo in maniera un po’ fortuita perché non fu merito nostro, ma fu un caso, eravamo a Borgotaro quando fu occupato questo paese dai partigiani, quando venendo giù dal passo della Cisa, veniva giù una macchina tedesca scoperta.

A questo punto, ovviamente era stata sottolineata, e all’altezza di Borgotaro un po’ di raffiche bloccando questa macchina.

Fortunatamente dentro c’era un ufficiale tedesco che aveva un grosso borsone e in questo borsone c’erano tutti i piani delle fortificazioni tedesche di La Spezia.

Erano questi i piani che ci convinsero a dire: “Andiamo a Milano perché dobbiamo portarli al Comitato di Liberazione Nazionale” che faceva capo, allora, al Partito d’Azione, a Milano, dico Stucchi Prinetti.

Quindi, a chi si faceva capo? Diciamo in maniera saltuaria, come capitano, noi avevamo proprio questo scopo, poi ovviamente si riferiva.

La cosa migliore per riferirla era tramite la radio che avevamo e poi ovviamente per quello che si poteva,

Dall’arresto fummo trasferiti a San Vittore.

D: Ti ricordi quando ti hanno arrestato?

R: Questa è la data che o la sa Giorgino o me la sono completamente dimenticata. Perché lui so che ha fatto un brogliaccio, dove ha scritto tre o quattro date, ma tra l’altro ha anche la data di quando noi fummo portati al Lager di Bolzano, poi ha la data di quando noi scappammo.

Però io gliel’ho fatto vedere: non è possibile, perché altrimenti si sarebbe stati nel Lager quindici giorni. Ci siamo stati parecchio tempo, quindi non tornavano queste date.

Quindi la data dell’arresto, con tutta sincerità non la ricordo.

D: Giorgio, quando vi hanno accerchiato per la delazione, erano italiani che vi hanno…?

R: Erano italiani, ma tutti in borghese, tant’è vero che a San Vittore, gli interrogatori ce li fece un italiano. E devo dire che per una ragione che non so, me la sono immaginata un pochino, la ragione era che le cose cominciavano ad andare poco bene sia per i tedeschi che per i fascisti, quindi le persone che in carcere avevano la fama dell’aguzzino, pian piano cominciavano a farsi un po’ un piccolo alibi. Ecco perché dico che nell’interrogatorio non è che furono bastonate o altro, anzi dicevano: “Diteci la verità, dateci una mano, altrimenti andate a finire in mano al Crup e andate a finire male”.

D: Nell’arresto hanno preso te e Giorgino?

R: Esatto.

Portati a San Vittore. A San Vittore, quinto raggio. Il quinto raggio è il raggio dell’isolamento.

Ci saremo stati quindici o venti giorni, i tempi dell’interrogatorio.

D: Gli interrogatori, scusa, li facevano lì a San Vittore?

R: Sì, a San Vittore, di sotto.

Dopo, passammo al primo raggio. Il primo raggio invece era un raggio che noi abbiamo considerato in maniera molto umoristica perché i secondini, chiaramente anche loro che cominciavano a sapere da che parte era il burro sul pane, a un momento i secondini specialmente con i politici, dicevano “Buongiorno signore, devo aprire la cella, vuole uscire?”. Aprivano la cella, e noi andavamo nei corridoi, ci si girava, ci si muoveva, ecc. e alla sera: signori, buona notte, dobbiamo rientrare.

Questo era quello che era il primo raggio, il che è comprensibile perché sapevano benissimo che eravamo dei politici ed ovviamente si rendevano conto che se un domani qualcuno gli dava una mano nel dire: “Questi ci hanno trattato bene, questi ci hanno dato una mano, questi ecc.”, era tanto di guadagnato per loro.

Proprio lì in San Vittore, durante l’interrogatorio, chi interrogava cercava di sapere qual’era il nome proprio di uno di quelli che era venuto su dal sud.

Infatti, addirittura aveva fatto uno schizzo, un disegno, che tra l’altro era molto somigliante, bravo chi l’ha fatto e volevano conoscere questo qui.

Perché? Perché questo effettivamente su a Milano aveva, indipendentemente dall’altro gruppo, organizzato un gruppo per conto proprio, tipo un gruppo di gappisti.

Comunque, a parte il fatto che non sapevamo dov’era, tutto quello che si sarebbe potuto dire era: “E’ venuto su, però ora chissà dov’è”.

Ma a parte questo, non è che fu un infierire nel vero senso della parole, né su me, né su Giorgino, per nessuno dei due, in un certo senso.

Ovviamente notizie arrivavano di persone che erano state malmenate ecc., ma non a noi direttamente, fino al giorno in cui di notte, all’improvviso, ci dissero: “Alzatevi perché voi partite”.

Allora, “Come?” “Chi?”, domande senza risposte, comunque gente del carcere aveva subito capito di cosa si trattava e di conseguenza ci dettero una mano perché chi ci dava delle coperte, chi ci dava dei sacchi di pane e formaggio, chi ci dava altre cose, praticamente per arrivare su con una certa possibilità, una certa quale possibilità.

Qui, nei pullman, pullman portati fino a su, a Bolzano, siamo entrati dentro.

D: Più o meno, anche qui non ricordi quando?

R: Io so una cosa sola: non era freddo. Non era freddo perché quando si poteva, alla mattina ci si lavava a una fonte, quindi freddo non era, settembre o roba di questo genere.

D: In quanti vi hanno preso da San Vittore e portati su a Bolzano, più o meno?

R: Erano tre autobus, quindi mettiamo trentacinque, quaranta per autobus, quindi più o meno centoventi, cento trenta persone.

D: Solo uomini?

R: No, uomini e donne.

D: Chi vi faceva da scorta?

R: Io lì per lì, io ho dato un’occhiata a destra e a sinistra, ma siccome non vedevo l’unanimità del fatto, non me la sono sentita, perché tra me e Giorgino, allora, specialmente allora, io a quell’epoca ero più robusto di ora, perlomeno più agile, c’era un tedesco accanto all’autista e un tedesco in fondo.

Seguiva ovviamente una macchina con tre o quattro tedeschi, più una motocicletta o due motociclette.

Ma volendo, il pullman lo si beccava come si voleva, però giustamente facevano osservare: “Tu prendi il pullman e per il resto come fai? Come lo levi di mezzo?” Lasciamo andare…

Ma erano tre pullman, quindi saranno state cento cinquanta persone circa.

D: Ti ricordi se durante il tragitto vi siete fermati?

R: Sì, ci siamo fermati, ma ci facevano fermare per necessità fisiologiche e basta, non c’era stato niente altro.

D: E lì siete arrivati a Bolzano.

R: Siamo arrivati al Lager, papale papale… e siamo entrati…

D: E’ entrato il pullman dentro, tant’è vero…, ovviamente ci hanno fatto scendere, quindi tutti in colonna, inquadrati, destra, a sinistra, allineati e coperti, come si diceva allora e il primo impatto e quindi le osservazioni che facevamo tra di noi: “Non ci sono scheletri”. Capite cosa voglio dire? Ci siamo meravigliati del fatto che pur essendo un Lager, la gente non aveva l’aspetto di uno scheletro, di uno patitissimo.

Ora, non sapevamo, allora, che il Lager era stato aperto da poco tempo.

C’è un punto qui dove c’è scritto che viene aperto il Lager di Bolzano.

D: Nell’estate del 1944.

R: Ti dicevo settembre, noi siamo arrivati verso quell’epoca lì. Non sapevamo che era aperto da poco.

Quindi per forza di cosa, per far sì che della gente internata diventino degli scheletri perlomeno un briciolo di tempo ci vuole.

Queste cose noi non le sapevamo, quindi ci eravamo meravigliati del fatto che perlomeno qui la gente era viva, quindi non era come ci si può aspettare e come noi sapevamo di Auschwitz.

Per cui divisione, un blocco lì, un blocco là, tre o quattro blocchi, perché c’erano due, tre, quattro capannoni e lì ci fu la cosa buffa che io mi presi del “cretino” da tre o quattro persone più anziane di me, perché erano colonnelli dell’esercito, maggiori, colonnelli dell’esercito.

Io, a quel tempo, ero capitano e basta.

Perché questo? Perché quando fu fatto il blocco e fu fatto questo gruppo e si disse: “Voi fate parte di questo blocco…”, quello che era il responsabile italiano del campo, che era un ex tenente dell’aviazione, tra l’altro, domandò: “C’è tra voi qualche ex ufficiale effettivo?”

Io, da un certo momento, da cretino, presi e schizzai fuori, “Sì, io sono ufficiale effettivo”.

Tre o quattro persone più anziane di me “Cretino” mi dissero, subito e al volo, perché loro erano più ufficiali effettivi di me diecimila volte, però ovviamente loro avevano annusato il fatto che sarebbe stata una responsabilità e basta e anzi andavo incontro a delle grane, e io in quel momento non ci ho pensato.

Quindi, fui fatto capo blocco….

D: E il blocco qual era? Te lo ricordi?

R: Allora, si entrava nel campo, i blocchi erano sulla sinistra e sulla destra, ovviamente, noi eravamo su quelli di sinistra.

Era il secondo blocco, uno, due, non so come erano indicati. Comunque era il secondo blocco.

In questo blocco c’era di tutto: c’erano politici, c’erano ebrei, c’erano zingari, poi c’erano anche prigionieri comuni.

Insomma c’era promiscuità di qualsiasi tipo, ma nessuno brontolava, le uniche persone ….

D: Giorgio, due cose, quando siete entrati, per prima cosa, vi hanno immatricolato?

R: Scusa, questo l’ho dimenticato.

Ci hanno immediatamente immatricolato. E io ero uno di quelli che scriveva i nomi, perché siccome conoscevo il tedesco un po’, di conseguenza potevo tradurre in tedesco le voci che loro chiedevano perché c’era un prontuario. C’era nome, cognome, poi un prontuario ed eventuale servizio militare fatto, e questa cosa qui, io traducevo in tedesco questi nomi. Questo, tra parentesi, che non ho trovato il mio nome tra quelli che avrebbero dovuto essere quelli iscritti.

D: Da nessuna parte?

D: Il tuo numero?

R: Non eravamo a numeri.

D: Non avevi il numero?

R: Mi sembra di no.

D: Non ti ricordi?

R: Può darsi, ma non lo ricordo. Tant’è vero che Giorgio non ha mica parlato di numero.

L’altro giorno, sono andato a trovarlo… e perché sono andato a trovarlo?

Gli ho detto: “Giorgio, bisogna che ti venga a trovare per una ragione molto semplice, perché siccome vengono a fare quattro chiacchiere con noi, cerchiamo di non dire fesserie l’uno con l’altro, oppure di non remare contro perché altrimenti sembrava di andare contro corrente, noi nel dire che lì non c’erano assassini, crudeltà, ecc., mentre è considerato il Lager che era un Lager disastroso.” Noi dicevamo quello che c’era, quindi ci siamo trovati per metterci d’accordo, dicendo: “Quello che possiamo dire è questo, né di più né di meno”. E non abbiamo parlato del numero, proprio non ne abbiamo parlato.

D: Un’altra cosa che ti volevo chiedere: ti ricordi se nel campo hai visto dei religiosi?

R: C’erano nel mio blocco. C’erano due sacerdoti.

D: Non ti ricordi i nomi?

R: No.

D: E neanche di dove erano?

Non te lo ricordi?

R: Di dov’erano, se io faccio per deduzione, sono venuti insieme a noi, quindi erano a Milano, quindi della zona, come suol dirsi.

D: Ti ricordi se nel campo hai visto anche dei bambini?

R: No, di bambini non ne ho visti.

Che ci fossero dei bambini nel blocco delle donne può darsi, però a parte che non si poteva andare da quelle parti, non ne ho visti, non ne sono stati citati.

Non se ne parlava, non è capitato di parlarne o di dire: “E’ scappato un bambino, bisogna cercarlo…”

No, non c’è stato qualcosa di questo genere.

D: Il tuo lavoro come capo blocco in che cosa consisteva?

R: Consisteva nel presentare…, i controllori, diciamo, dei blocchi erano dei militari della Wermacth che poi non erano neanche tedeschi perché erano polacchi che erano stati assimilati o cecoslovacchi che erano stati assimilati, erano tutta gente a cui non importava nulla di nulla. A loro interessava soltanto una cosa: alla mattina si scendeva dai pagliericci, come suol dirsi, ci si metteva dentro allo stanzone in fila e bisognava sempre stare attenti a mettersi in fila quattro per quattro.

Chissà perché questo tedesco sapeva contare soltanto i multipli di quattro. Non lo so perché, gli garbavano i multipli di quattro.

Comunque la risata era questa: lui partiva da una parte e faceva: uno, due, tre, quattro e contava quanti quattro erano.

Ora, a un certo momento, se uno voleva scantonare, bastava che uno in fondo, girasse, scappasse dall’altra parte, faceva il quarto, non ci voleva niente, ma non lo si faceva perché non c’era ragione, non c’erano delle ragioni per farlo ancora.

Quindi c’era questa conta.

Fatta la conta, uno si sedeva sul pagliericcio, chiacchierava, se poi usciva, perché stava nel cortile e si poteva stare.

Altre cose non è che si potevano fare.

Praticamente il capo blocco aveva come compito le adunate, l’elenco, il controllo che ci fossero tutti quanti. Questa roba qui internamente. Poi quando cominciarono ad usufruire dei prigionieri per i lavori esterni, il capo blocco aveva anche l’incarico di gestire l’attribuzione dei lavori di qua e di là e poi controllare che rientrassero tutti, il succo era questo, di mantenere il gruppo tutti insieme.

Non so se prima o dopo c’è stato un periodo che è stato un po’ duro per noi perché eravamo stati portati a lavorare in quella galleria che era stata iniziata che dentro avevano messo una fabbrica, la IMI.

Però, dopo, ci fu la popolazione che cominciò a dire: “Questa gente qui ci farebbe molto comodo per raccogliere le mele”. Quindi ci portavano là, ci mettevano a raccogliere le mele e noi facevamo il lavoro del raccoglitore gratis, per cui questa gente era tutta felice e beata.

Ed onestamente quasi tutti, quelli che sono andati, la fetta di polenta ci arrivava alla fine mattinata, fetta di polenta che normalmente noi ne mangiavamo un pezzetto e il resto si portava agli altri.

Poi l’altro lavoro che ci fecero e che fu appunto l’ultimo, quello di scaricare i treni e di mettere la roba su dei camion che dovevano andare in Germania.

Arrivavano dei treni, carichi di tutto quello che i tedeschi riuscivano a razziare dal paese, quindi magari razziavano tutto il supermercato, allora: camice, scarpe, borse, tutto quello che potevano razziare. Questa roba che era nei treni, noi dovevano scaricarla e metterla su dei camion, che erano quei camion che poi partivano per la Germania.

D: E questo dove lo facevate?

R: Io devo dire che siccome la nostra fuga avvenne in occasione di uno di questi lavori qua dei treni e siccome quando noi scappammo, io le montagne le conoscevo perché sono sempre stato in montagna.

Voi conoscete, da dove c’è uno specie di capolinea, se si guarda in alto, si vede il profilo dei monti dell’Amendola, non so quale può essere la stazione di questo genere….

D: C’era un laghetto?

R: Questo non ce l’hanno fatto vedere.

Comunque il punto di riferimento è questo, quando si scendeva dal treno, io mi guardavo in giro per vedere dove eravamo, o dove non eravamo, cosa si poteva fare o non si poteva fare, e io guardando in alto, riconoscevo il profilo dei monti dell’Amendola e dicevo: “Se noi riuscissimo ad arrivare lassù ai monti dell’Amendola siamo a cavallo perché si va di là e siamo a posto”; questo è stato il pensiero.

Allora ecco perché dico che deve essere stato Caldaro…

D: Quindi non nella stazione di Bolzano?

R: No, assolutamente no, la stazione d Bolzano la conosco.

Più che la stazione, era un punto di fermo, come per dire a Firenze, la stazione di Campo di Marte, che è tutto treni e basta.

E lì è stato che abbiamo pensato di vedere se si riusciva, dopo due o tre volte che si guardavano queste montagne, si diceva: “In qualche maniera si riesce a tagliare”, perché erano già cominciati gli invii e noi avevamo saputo che le partenze erano per Auschwitz e quindi si capiva che se non ci levavamo, andavamo a finire male.

Di conseguenza ci si pensava e abbiamo visto che il momento migliore era quando eravamo un pochino liberi di movimento perché è ovvio, noi prendevamo questa roba, scendevamo dal treno e poi arrivavamo ai carri per caricarla, per darla, quindi questa certa libertà, ad un certo momento.

Poi, tra me e Giorgino avevamo avuto un’idea, che poi si è rivelata felice.

Nel camminare con questa roba che qui avevamo, magari un pacco con quattro, cinque camice, un pacco con quattro cinque scarpe, passando ne buttavamo una o due a questi tedeschi o meglio diciamo persone, non so chi erano, comunque erano di Bolzano, non erano di altre parti. Li buttavamo a loro e questi li prendevano ben volentieri.

Perché facevamo questo? Perché dando le cose a loro, si coinvolgevano, in un certo senso, e quasi si diceva loro: “State attento, se capita qualcosa, non essere proprio te a chiamare perché se tu chiami, ti trovano con in mano un pacco di camice e non si sa da che parte vengano”.

Quindi le avevamo date.

Le avevamo date un paio di giorni avanti e allora si era rinfocolato il numero delle persone che erano lì ad aspettare e noi davamo facilmente.

A questo punto, una mattina, noi ci vestimmo di panni normali, i panni con i quali eravamo arrivati, perché dopo ovviamente con la tuta, ma prima siamo arrivati con quei panni, la tuta sopra.

Siamo usciti, tra l’altro io ricordo, mi sembravo una ciliegina, sotto il braccio avevo anche un cappello, comunque a un certo momento Giorgio mi disse: “Guarda, non ci guardano”.

Allora si mollò tutto e si fece una corsa in un campo fino a un muretto, salto del muretto e dietro al muretto ci siamo levati la tuta, senza né sentieri, niente, proprio con la bussola del naso.

Io, ogni tanto alzavo la testa, ce l’ho sempre davanti, allora su diritto, sempre in mezzo, sempre diritto.

Quando eravamo un bel pezzo su, evidentemente qualcuno se ne deve essere accorto perché abbiamo cominciato a sentire i cani, il vociare dei cani. Però penso, perché il terreno era umido dove noi salivamo, quindi doveva essere piovuto la sera avanti, comunque andò bene.

Poi su, su, a un certo momento quando fu buio buio ci si fermò un momento per riposarci, la mattina si ripartì e si arrivò su in un prato, i primi prati dell’Amendola e andammo alla parrocchia del Don… , di cui non ricordo il nome…

D: Ascolta, in due siete scappati?

R: Sì, in due. Io e lui.

D: Non avete detto a nessuno che avevate intenzione di scappare?

R: Sinceramente non l’avevamo detto, ma non con intenzione, non l’avevamo detto. Se ci avessi pensato, non l’avrei detto con intenzione, perché voi sapete benissimo che se una cosa si allarga, poi non si sa mai dove va a finire, perché Tizio lo dice a quell’altro, lo dice a quell’altro, a quell’altro e quando si arriva ad essere un certo numero di persone, qualcosa salta fuori e quindi no, lì per lì non l’abbiamo detto senza nessuna intenzione.

Però confesso che se ci avessi pensato, avrei detto: “No, non lo diciamo mai a nessuno”.

Fu proprio uno di questi prigionieri che era un prigioniero comune, diciamo o un ladro o qualcosa di questo genere, che ricordo disse: “Stai attento, ti si vede il cappello, lo capiscono che vuoi scappare…”

Fu proprio lui. Comunque andò.

Si arrivò su e Giorgio si ricorda che noi vedemmo degli operai che mangiavano.

Allora si fece la conta e si disse: “Chi ci va a domandargli un pezzo di pane? Ci vai te o ci vado io?”

Si fece pari e dispari e ci andai io.

Di conseguenza, lì ci dissero, ci dettero del pane e anche del formaggio però ci dissero: “Tagliate la corda perché prima o poi qui qualcuno arriva”.

Non è stato invece un tagliare la corda e abbiamo suonato alla parrocchia, e non so se ve l’ha detto Giorgio, il parroco Giorgio lo conosceva da quand’era a Firenze.

R: Tant’è vero che siamo rimasti di stucco, perché io dissi: “Giorgio, più fortuna di così, vai ad incrociare proprio Don…”, che lui conosceva benissimo.

Pover’uomo, questo parroco la prima cosa che ci ha domandato: “Vi ha visto nessuno?”

E noi abbiamo risposto: “No, non ci ha visto nessuno”.

Comunque, morale: ci tenne a dormire, a mangiare, in parrocchia e ci siamo stati come minimo venticinque giorni, parecchio.

Perché dico questo? E qui faccio una piccola parentesi: a me farebbe piacere rintracciare, anche per telefono, un tizio di Bolzano che era un grossista di frutta, che aveva una casa, non so se la seconda casa o cosa fosse, comunque aveva la casa a duecento metri dalla parrocchia, un po’ più in su.

Evidentemente aveva annusato la cosa e ci venne a trovare e la prima cosa che ci disse fu: “Guardate che io mi metto a vostra disposizione per qualsiasi cosa di cui potreste avere bisogno perché io sono libero di andare da qui a Bolzano come voglio, perché ho questo negozio, questa industria di frutta a Bolzano ecc…”

Il primo grosso favore che ci fece, ci fece per primo le fotografie per avere la carta di identità, per farci avere un documento, quindi ci fece le fotografie. Secondo: ci presentò, evidentemente ne avevano parlato, quindi venne un’impiegata del comune di Fondo, Fondo è vicino a Bolzano, la quale ci disse: “Vi preoccupate per la carta di identità? Non vi preoccupate, ci penso io”.

Il perché ce lo spiegò dopo. Disse: “Io ho i timbri del comune di Fondo. Faccio alla svelta. Riesco con un piccolo accorgimento, invece che Fondo, fare Fondi, e Fondi è un comune vicino Roma, come voi veniste da Roma, da Fondi vicino Roma” e ce la fece.

Ci fece questa carta di identità da Fondi vicino Roma.

Questo è uno che io ritroverei, perlomeno per telefono, molto volentieri, ma non so come indicarlo.

Gli elementi per indicarlo sono che era un grossista di frutta, aveva la casa accanto a questa parrocchia, e poi non so altro…, una persona relativamente giovane, pur essendo a capo di una grossa azienda, avrà avuto venticinque, ventotto anni, una cosa di questo genere, più o meno.

D: Giorgio, nel periodo che voi siete rimasti nascosti nella casa del padre non sono mai venuti?

R: Non è mai venuto nessuno, o quantomeno noi non l’abbiamo mai saputo, il perché non lo so. E’ difficile spiegarmelo. Tra l’altro è difficile spiegarmelo perché se avessero voluto sincerarsi veramente del come eravamo riusciti a scappare c’erano tante di quelle tracce di noi che ci eravamo arrampicati in quella boscaglia che si vedeva che avevamo preso quella direzione.

Allora, quale direzione prendono due che vogliono andare in Italia e varcare…, prendono la direzione dell’Amendola e quindi avrebbero potuto venire a fare un rastrellamento lassù.

Solamente che ho quest’impressione: che praticamente persone del Lager di Bolzano non avevano tanta voglia di andare a cincischiare e a muoversi per fare un rastrellamento al passo dell’Amendola.

Con ogni probabilità, se anche l’avessero segnalato a qualche Comando, non so se si sarebbero mossi.

Questo per una cosa che non era una cosa eccezionale, faccio per dire.

D: Ascolta, e dopo questi venticinque giorni circa?

R: E’ successo che ho detto: “A questo punto, bisogna trovare il verso di riprendere i contatti.”

Dove si riprendevano questi contatti? A Milano.

Di conseguenza, con il camion stop, perché salendo su dei camion che trasportavano mele verso il sud, sto parlando da Bolzano in giù, ovviamente a pezzi e a bocconi siamo arrivati a Milano.

D: Quindi dall’Amendola siete scesi…?

R: Sì, allo stradone, a Bolzano, praticamente alla strada che viene giù da Vipiteno, dalla strada che viene dal Brennero e viene giù, che fa Verona Milano e siamo arrivati a Milano.

A Milano abbiamo ripreso contatto con il Partito d’Azione e loro ci hanno detto, chissà come mai perché non eravamo delle persone talmente importanti da giustificare un’inchiesta di una certa importanza, insomma ci hanno detto che ci ricercavano. Ci hanno detto che la cosa migliore che potevamo fare era di passare in Svizzera.

Allora abbiamo detto: “Se volete che si passi in Svizzera, passeremo in Svizzera” e di conseguenza praticamente ci organizzarono una gita con dei contrabbandieri che conoscevano i sentieri e arrivammo in Svizzera, tutti e due e si rimase là, per un po’ di tempo.

D: In Svizzera dove?

R: C’è Giorgio, in uno dei suoi libri, che descrive l’arrivo in Svizzera.

Effettivamente è vero, quando si cammina per tutta la notte, quindi al buio, per sentieri ecc., ad un certo momento si arriva in una parte alta, in un colle, in un passaggio e di conseguenza, da questo passaggio non è più Italia e si vede tutto illuminato, si vedono tutte le case con lumi e luci e uno resta così perché si viene da un posto dove non c’era assolutamente niente e questo era la parte bella, diciamo, perché ovviamente in Svizzera abbiamo fatto un po’ di vita per bene, si poteva mangiare…

Magenes Enrico

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Enrico Magenes, nato a Milano il 15 aprile del 1923.

D: Quando ti hanno catturato, Enrico?

R: Mi hanno catturato ai primi di gennaio del ’44, l’8 gennaio del ’44 qui a Pavia, la Guardia Nazionale Repubblicana. Ha arrestato cinque dei membri del primo CLN di Pavia, il sottoscritto, Ferruccio Belli, Luigi Brusaioli, che poi è morto a Flossenburg, Angelo Balconi, che è morto ad Innsbruck, e Alberti, Lorenzo Alberti, che invece è riuscito a rientrare.

D: Scusa, Enrico. Tu sei entrato a far parte del CLN di Pavia quando?

R: Sono entrato subito, subito dopo l’8 settembre. Dicevo, effettivamente a Pavia, è strano che la provincia di Pavia è completamente ignorata, ma a Pavia nel periodo tra il 25 luglio e l’8 settembre si erano più o meno ricostituiti i vecchi partiti.

In particolare anche il Partito Popolare, c’erano ancora alcuni vecchi rappresentanti e a questi ci siamo uniti noi giovani che venivamo dalla gioventù di Azione Cattolica. Devo dire che avevamo avuto un vescovo e dei sacerdoti molto aperti da questo punto di vista.

Uno di questi è ancora vivo, è monsignor Bordoni, che è l’assistente dell’associazione partigiani cristiani, monsignor Carlo Bordoni. E’ Bordoni, no?

Ci hanno arrestato, dopodiché denunciati al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Ai primi di luglio le SS hanno fatto una razzia nelle carceri della provincia pavese, della provincia di Pavia. Sono passati da Vigevano, da Voghera, da Pavia e hanno raccolto i detenuti politici per deportarli, cosa che facevano, come sapete, d’abitudine.

D: Scusa, Enrico. Quando vi hanno arrestato, vi hanno portato nelle carceri di Pavia?

R: Di Pavia, sì.

D: Lì vi hanno interrogato?

R: Ci hanno interrogato, ma ci ha interrogato il tribunale di Pavia, il giudice di Pavia. Alle carceri di Pavia eravamo alle carceri, rispetto a quello che ci è venuto dopo ricordiamo sempre le carceri di Pavia come una specie di…

Dopo già il passaggio a San Vittore è stato più difficile, più preoccupante.

D: Ti hanno accusato di cosa?

R: Ci hanno accusato proprio perché hanno saputo che si era costituito il primo CLN. Anzi, ritenevano che noi avessimo chissà che organizzazione partigiana dietro le spalle, ma allora sapete anche voi che partigiani, anche nell’Oltrepo’ pavese, ce n’erano assai pochi.

C’erano stati i resistenti, quelli dell’8 settembre, quelli che adesso si stanno recuperando, tipo Cefalonia. Anche da queste parti c’erano dei gruppi di militari che hanno cercato di resistere. Probabilmente saprete di gruppi che hanno cercato di resistere nella Val D’Ossola, nell’alto Verbano.

Però poi sono scomparsi quasi subito, perché i tedeschi… Anche qui a Pavia…

D: Quindi a luglio svuotano le carceri pavesi, di Voghera, ecc. e vi portano?

R: A San Vittore.

D: In che raggio?

R: Nel quinto e nel sesto raggio, è chiaro.

D: Dove c’era Franz?

R: Dove c’era Franz, infatti. Lo ricordo, come ricordo anche il suo cane lupo. Io ho sempre avuto una certa quale idiosincrasia per i cani lupo, perché un cane lupo mi aveva spaventato quando avevo cinque anni. Basta, poi mi era rimasto nella testa che i cani lupo fossero cani…

D: San Vittore, cella d’isolamento oppure eravate tutti insieme?

R: No, cella d’isolamento. Eravamo ciascuno in una cella. Non c’era nessuno in camerata a San Vittore nel quinto e nel sesto raggio.

D: Siete stati di nuovo interrogati?

R: A San Vittore ci hanno semplicemente interrogati i tedeschi, quando siamo arrivati per prendere nota, nome e cognome, professione, da dove venivamo. Io figuravo come studente.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Avevo vent’anni, vent’anni e qualche mese, vent’anni e mezzo.

D: Lì a San Vittore siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti fino al 17 d’Agosto. Eravamo lì quando hanno fatto l’eccidio di Piazzale Loreto, dopodiché ci hanno deportato. Siamo arrivati a Bolzano in un gruppo di qualche centinaio di persone, adesso non ricordo più bene.

Ricordo che siamo partiti poi da Bolzano, ma prendendo anche qualcuno che era arrivato a Bolzano da Forfoli per esempio, tipo Olivelli, tipo qualcun altro del gruppo di Olivelli.

Da Bolzano siamo partiti il 5 di settembre.

D: Del Lager di Bolzano cosa ti ricordi?

R: Non granché, perché si capiva che era un posto allora di smistamento a differenza di quanto invece poi è successo a Bolzano, dove sono rimasti lì, li hanno fatti lavorare, hanno cercato di farli lavorare.

A quel punto noi passavamo la giornata dentro nelle baracche, potevamo anche andare fuori. Non era una cosa…

D: Vi hanno immatricolati a Bolzano?

R: Ci hanno immatricolato, però non mi ricordo manco più il numero di matricola. Le matricole vere e proprie sono quelle che abbiamo avuto a Flossenburg e poi a Dachau.

D: Ti ricordi se c’erano dei religiosi lì a Bolzano?

R: Sì, per esempio ho incontrato lì padre Giacomo Antonio. Anzi con padre Giacomo Antonio e con Olivelli anche abbiamo avuto qualche incontro di commento del Vangelo, lì a Bolzano.

D: Nel campo?

R: Nel campo, sì, nella baracca dove si stava dentro. Non c’era niente di… Ci facevano l’appello, non mi ricordo più, una volta o due al giorno. Olivelli era già stato segnato, aveva il cerchio rosso perché aveva tentato la fuga a Fossoli.

D: A queste riunioni oltre a te, oltre a Teresio Olivelli e a padre Giacomo Antonio partecipavano altri deportati?

R: Sì, qualcuno, quelli più o meno che si potevano conoscere. Però non mi dire riunioni.

D: Incontri.

R: Un paio di volte, un incontro, tanto per dire. Eravamo lì e si poteva pensare a qualche cosa che non fosse solo la questione della sopravvivenza, del mangiare, così come è successo invece a Flossenburg.

D: In tutto questo periodo dalle carceri di Pavia, San Vittore e Bolzano tu hai potuto metterti in contatto con la tua famiglia, i tuoi familiari, scrivere?

R: Sì, certo. Da Bolzano no, abbiamo scritto, ma non credo sia arrivato nulla, non mi ricordo più. A San Vittore e in particolare qui a Pavia c’era il comandante delle carceri che ci aveva trattati in modo particolare. Per forza, eravamo cinque persone molto conosciute a Pavia. Senza essere stati dei malfattori.

D: La giornata del 5 a Bolzano, cosa succede quel giorno?

R: Sveglia presto, partenza sui carri bestiame. Siamo partiti.

D: Vi hanno chiamato?

R: Ci hanno chiamato, l’appello. Io sono finito nello stesso carro bestiame con Olivelli per una questione di alfabeto, Magenes e Olivelli eravamo abbastanza vicini.

D: Ti ricordi il Transport da dove è partito da Bolzano?

R: Lì vicino, mi sembra forse da Gries, non lo so. Non vorrei sbagliare, non mi ricordo che ci abbiano fatto fare del tragitto a piedi molto lungo, non mi ricordo.

D: Il viaggio quanto è durato?

R: Siamo partiti alla mattina presto e siamo arrivati la prima notte, eravamo già in Germania. Siamo arrivati a Flossenburg dopo due notti, due giorni.

D: Sempre chiusi dentro?

R: Sì, sempre chiusi dentro. Ci hanno dato qualche cosa, adesso non ricordo più quando, ci hanno dato qualche cosa.

D: Da bere, per mangiare?

R: Da bere, da mangiare mi sembra.

D: Sul tuo Transport in quanti eravate più o meno?

R: Era pieno zeppo, non so cos’eravamo. Trentacinque, quaranta sul vagone.

D: Tu avevi vent’anni. C’erano delle persone più anziane?

R: Certo. Per esempio, a parte padre Giacomo Antonio, anche tra i compagni del CLN di Pavia con i quali ero stato arrestato. C’era per esempio Luigi Brusaioli, che era più anziano di tutti, era un repubblicano ancora dei tempi del ’22.

Infatti poi è stato quello che è morto subito a Flossenburg alla fine di ottobre. Brusaioli credo che fosse… Se io avevo vent’anni lui ne aveva almeno cinquanta o sessanta.

Alberti lo stesso, Lorenzo Alberti era il rappresentante del Partito Socialista. Anche lui era più anziano di noi.

D: Il Transport, il treno arriva a Flossenburg, alla stazione di Flossenburg e dalla stazione vi fanno salire su al campo. A piedi?

R: Sì, a piedi.

D: Cinque per cinque?

R: Mi fai delle domande che io non ricordo più. Cinque per cinque, sei per cinque, due per due, non lo so. Probabilmente cinque per cinque. La mia memoria non è ferrea.

D: Quando arrivate dentro nel Lager di Flossenburg cosa succede?

R: Anche qui succedono quelle scene che ti dicevo, cioè ci hanno fatto togliere i vestiti, ci hanno denudato.

D: Questo fuori dalla piazza?

R: Dalla piazza, poi da lì siamo stati messi dentro nel lavatoio per farci pulire con docce al solito, dopodiché ci hanno messo nella baracca 22 0 23, 23 se non sbaglio. Erano le due baracche vicine.

D: Nel blocco di quarantena?

R: Nel blocco di quarantena, che era vicino al blocco di Revier cosiddetto, avevamo lo stesso piazzale dove c’erano quelli ormai sfiniti che non lavoravano più e morivano otto o dieci al giorno.

Quello che effettivamente era impressionante anche per noi era che i cadaveri li mettevano in attesa che passassero quelli a portarli via, li mettevano in una casetta di legno, una costruzione in legno in cui c’erano anche i gabinetti. Li mettevano lì attorno ai gabinetti.

Quindi uno andava al gabinetto e si vedeva lì il mucchio. Alcuni dei quali anche non erano proprio del tutto morti. Belli descrive una scena di questo genere su quell’articolo che è stato pubblicato da Il Triangolo Rosso.

Descrive proprio la scena di un prigioniero russo finito che lui ha visto.

D: Le baracche 22 e 23 erano vicine al muro di recinzione con la garitta?

R: Sì, con la garitta.

D: E aldilà della garitta c’era un avvallamento?

R: Sì.

D: C’era il forno crematorio sotto?

R: Sì. Ecco, qui ci sono diverse fotografie. Ecco, gli orrori di Flossenburg. Ecco qui, guarda. Qui si vede, la 22 e la 23 erano qui in fondo.

D: Certo. Lì nel blocco di quarantena quanto tempo siete rimasti?

R: Siamo rimasti lì praticamente un mese, come durava la quarantena.

D: In questo mese vi hanno fatto l’immatricolazione?

R: Ci hanno fatto l’immatricolazione, infatti. 21648 Belli e la mia era 21600… Chi se lo ricorda più, 21650 mi sembra.

D: 42.

R: La mia era 21642, grazie.

D: Vi hanno dato la zebrata lì?

R: Ci hanno dato la zebrata qui, si capisce.

D: Nell’arco di questo mese cosa vi facevano fare?

R: Come sempre nel periodo di quarantena, cioè alle cinque, a volte anche prima, sveglia, fuori per l’appello. Lì aspettare che passassero le SS per l’appello, tutti infreddoliti ma inquadrati.

Dopodiché, fatto l’appello, ci lasciavano fuori e dato che faceva molto freddo ci riunivamo in gruppi lì alle stufe, le stufe umane. Ogni tanto poi quelli che stavano all’esterno scappavano e andavano a fare…

La giornata passava così. Ci si scambiava qualche idea. La razione era la solita zuppa, alla mattina c’era il tè, c’era la zuppa a mezzogiorno con la fetta di pane. Alla sera tè con la margarina o con qualcosa del genere.

Era ancora allora il momento in cui il pezzo di pane era abbastanza consistente, perché era il pane tedesco, diviso in quattro parti. Poi andando avanti col tempo quattro parti, cinque, sei, sette. Le ultime lì a Kottern erano delle fette, lo stesso pane diviso in otto. Si capisce.

D: Dopo un mese circa lì nel blocco di quarantena?

R: Lì hanno fatto la scelta per la selezione, come facevano sempre, per mandare poi nei lavori. Devo dire che lì io sono stato molto fortunato e devo a Olivelli il consiglio, e poi a Ferruccio Belli, l’aiuto e i suggerimenti, perché alla fine della quarantena è venuto un tecnico della Messerschmitt che veniva dal campo di Kotter.

Volevano degli operai che lavorassero a Kottern, Kottern dipendeva da Dachau, però comunque il trasporto… A questo punto, poiché avevamo più o meno tutti capito che in officina era meno faticoso che lavorare a picco e pala.

Poi ce lo dicevano quelli che erano lì nelle gallerie. Quindi credo che un buon duecento e più ci siamo dichiarati operai. Io che ero scritto come studente come faccio? Lì è stato Olivelli insieme a Belli a suggerirmi: “Beh, tu di’ che eri studente operaio, studente lavoratore”. “Lavoravo dove?”. “Alla Necchi”.

La Necchi era conosciuta allora, conosciuta anche in Germania. Era una fabbrica di macchine da cucire, Singer, Necchi, più o meno erano quelle. Quindi a questo punto mi sono presentato a questo esame, c’era una commissione formata dal tecnico della Messerschmitt, poi c’era l’interprete e c’erano le SS che controllavano. Cosa vado a dire?

D: Ti hanno fatto un esamino?

R: Sì, certo. A tutti, per scartarne, per tirarne fuori ottanta dei duecento o trecento che si erano presentati. Devo dire che lì mi è stato utile il suggerimento di Ferruccio Belli, perché gli ho detto: “Ma scusa, Ferruccio, io cosa vado a dire?”. Se mi dicono se faccio il piallatore, faccio il fresatore io non ho mai preso in mano niente. Lui mi ha detto: “Guarda, di’ che hai fatto il tracciatore, l’anglaiser, perché effettivamente l’anglaiser dal punto di vista manuale ha da fare poco”.

E’ quello che col martelletto e col bulino segna sui pezzi, per esempio, non so, i pezzi di acciaio, le linee lungo le quali devono lavorare le frese, le pialle, i torni, tirandole fuori da un disegno di macchine. A quei tempi i matematici studiavano geometria descrittiva con elementi di disegno, adesso non più. Quindi geometria descrittiva con elementi di disegno, effettivamente sapevo leggere un disegno di macchina, che era una cosa abbastanza semplice.

Ho risposto anche con quel poco di tedesco che mi avevano insegnato e che ancora ricordavo, adesso non ricordo più niente. Questo subito era un fatto, perché bypassare l’interprete per i tedeschi era già un modo col quale si dimostravano più attenti.

Non c’era niente di peggio di dire: “Non capisco”, a quel punto lì ti legnavano. A quel punto sono stato fatto abile e sono finito insieme a Belli a lavorare a Kottern, nell’officina. Lavoravamo lì nell’officina vicino, dove anche Esposito…

D: E Eugenio?

R: Certo.

D: Per il viaggio da Flossenburg a Kottern vi hanno caricati sul treno?

R: Ci hanno caricato tutti in treno, mi ricordo che siamo arrivati là… Ci abbiamo messo una notte, una notte e un giorno.

D: A Dachau non vi siete fermati?

R: Si è fermato passando il treno, si è fermato, ma non ci hanno fatto uscire. A quel punto noi eravamo sotto Dachau, infatti a quel punto la mia matricola è diventata 116364, una roba di questo genere, non me lo ricordo più.

Non so se qui c’è. Ma tu come facevi a sapere la mia matricola lì?

D: Di Flossenburg perché è sul…

R: Ah, ho capito.

D: Poi sul libro di Italo Tibaldi.

R: Sì.

D: Compagni di viaggio.

R: Ho capito.

D: Quindi siete arrivati lì nel sottocampo di Dachau.

R: Sì, a Kottern.

D: Vi hanno messo a lavorare in una fabbrica?

R: Il sottocampo conteneva circa, non so, un migliaio di prigionieri di tutti i tipi, prigionieri politici, anche qualche prigioniero comune. Vivevamo in baracche lì nel campo.

Poi ci portavano, c’erano i turni di dodici ore. Ci portavano alla mattina o alla sera a seconda del turno nella fabbrica a Messerschmitt, che era lì vicina. Sarà stata ad un chilometro di distanza. Dove ciascuno di noi faceva il lavoro che gli facevano fare.

D: Lì nella fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Sì, c’erano anche dei civili. Non solo civili tedeschi, per esempio anche lì siamo stati fortunati io e Ferruccio Belli, perché il civile tedesco che comandava il nostro gruppo di tracciatori, tutto sommato non ci ha mai molestato.

Ci lasciava anche un poco chiacchierare tra di noi. C’era con noi nello stesso gruppo anche l’ingegnere Miorin di Milano, che era il capo dei vigili del fuoco di Milano. Era stato arrestato anche lui, poi è riuscito a sopravvivere e tornare. Ormai adesso è morto.

C’erano anche dei civili, dei lavoratori italiani, quei lavoratori che erano stati obbligati ad andare a lavorare in Germania. Lì però erano liberi, nel senso che avevano lo stipendio e andavano ad abitare per conto loro.

Però li avevano obbligati ad andare a lavorare lì.

D: Quindi voi in base al turno che facevate uscivate dal Lager, facevate questo percorso a piedi di circa un chilometro, arrivavate in fabbrica e finito il turno tornavate al campo?

R: Tornavamo indietro, sì.

D: Il lavoro era sei giorni o sette giorni?

R: Era su sei giorni, la domenica eravamo lì nel campo.

D: Questo fino a quando è durato?

R: Fino alla fine della guerra. Adesso qui per le date bisognerebbe che andassi a vedere quello che mi sono scritto. Mi sembra che il 24 di aprile o il 23 di aprile hanno dato l’ordine di evacuare il campo.

Questo è stato un discorso che più o meno i tedeschi hanno fatto sempre man mano che si avvicinavano, così com’è successo ad esempio ad Auschwitz, Birkenau, la famosa camminata dove è morta un’infinità d’ebrei.

Anche a noi ci hanno obbligati a uscire e ci hanno indirizzati da Kottern, l’indirizzo era andare verso Innsbruck, ritirarsi dietro. Siamo arrivati dopo tre giorni e tre notti, siamo arrivati alla periferia di Fronten, che è una cittadina sotto Kottern nella direzione da Kottern verso la Svizzera.

Siamo arrivati lì alla sera. A un certo momento le SS di scorta sono scomparse. Ci siamo trovati lì. Devo dire che lì sempre per consiglio delle persone più anziane, tipo lo stesso Ferruccio, in un gruppetto tra italiani e francesi abbiamo detto: “Cosa facciamo?”.

“Andiamo come fanno tutti, che si sono precipitati dentro nel paese per cercare di mangiare, o stiamo qui ad aspettare che arrivino gli americani? No, stiamo qui”. Abbiamo passato una notte dentro in un bosco alla periferia di Fronten.

Alla mattina a un certo momento abbiamo sentito che arrivavano dei carri armati lungo la strada, siamo andati fuori. Io mi ricordo ancora, è un fatto che rimane in testa, che il carro armato in testa, noi siamo corsi incontro, si vede che avevano già avuto notizie, perché venivano da sopra, dell’esistenza di prigionieri politici.

Noi a salutare festosamente, il militare che era sulla torretta si è tolto l’elmetto in segno di saluto. Questo me lo ricordo. Dopodiché ci hanno portato a Fronten.

D: Il vostro gruppetto è rimasto lì?

R: Sì, poi siamo andati dentro anche noi.

D: Ma dico la notte, Eugenio e Gibillini?

R: E’ andato invece.

D: Sono andati, hanno tentato la fuga, sono scappati, no?

R: Sì, Eugenio…

D: Con Gibillini, con Venanzio.

R: Non lì, non in quell’occasione. Lì non è scappato nessuno.

D: Sono rimasti anche loro con voi? Non ti ricordi?

R: Non vorrei giurare, però non mi sembra. Nessun ha tentato di scappare, che ricordi io.

D: Tutta la marcia da lì l’avete fatta a piedi naturalmente?

R: Sì. Ci facevano viaggiare di notte, di giorno ci mettevano alla periferia accanto alle strade a dormire lì nei boschi.

D: Il ritorno com’è stato?

R: Il ritorno è stato avventuroso, perché siamo stati fessi noi che abbiamo cercato da lì di dire: “Visto che siamo vicini alla Svizzera, andiamo in Svizzera che ci accolgono”.

Siamo arrivati in Svizzera, dopo quindici giorni ci hanno fatto entrare. In Svizzera ci hanno trattati bene, chiaro. Siamo stati nei campi di concentramento che avevano lì per i prigionieri italiani.

Però siamo entrati in Svizzera per ultimi, siamo usciti per ultimi. Siamo usciti dalla Svizzera il 25 di Luglio. Sono quelle cose che…

D: Siete usciti da dove dalla Svizzera?

R: Noi eravamo finiti in Svizzera da Bregenz St. Margrethen, lago di Costanza in sostanza. Da lì dopo qualche tempo ci hanno portato a Ginevra e ci hanno tenuto a Ginevra, in una scuola che avevano adibita a campo per i profughi italiani.

Siamo stati lì praticamente fino al periodo che ho detto, siamo arrivati lì. Lì in un primo momento non riuscivamo a comunicare con le famiglie, perché c’era la frontiera chiusa.

Dopo un mese e più siamo riusciti a comunicare, almeno sono venuti a sapere che eravamo vivi.

D: Lì c’era la Croce Rossa che vi dava assistenza?

R: Dove, in Svizzera? Sì, mi sembra che erano gli svizzeri, però probabilmente era la Croce Rossa.

D: Poi sei arrivato a Milano?

R: Poi siamo arrivati a Milano passando attraverso Domodossola. L’abituale tragitto.

D: Sei arrivato a casa quando?

R: Sono arrivato a casa la sera di quel giorno, cos’era? Il 25, il giorno in cui sono arrivato. Il 25.

D: Luglio?

R: Sì. Sono venuti a prenderci a Milano.

D: Chi eravate, tu, Belli?

R : Io e Belli di Pavesi.

D: Gli altri?

R: Brusaioli è morto subito a Flossenburg, come vi dicevo, che era quello che era meno… Alberti invece non è venuto con noi a Flossenburg da Bolzano, è stato a Buchenwald e lì è riuscito a resistere, nonostante avesse già una certa età.

Era una persona serena, una persona molto forte, robusta dal punto di vista fisico. E’ riuscito a rientrare. Invece Balconi è morto a Hersbruck, dove è andato.

D: Dopo lì con Teresio Olivelli ti hanno diviso?

R: Sì, alla fine della quarantena proprio. Anzi, devo dire che io stesso avevo detto ad Olivelli: “Scusami, perché non ti spacci un po’ anche tu?”. Perché Olivelli sapeva benissimo il tedesco, faceva da interprete, quindi se avesse voluto seguire il reparto meno pericoloso, che era il nostro, probabilmente lo avrebbero in qualche modo preso.

Invece ha voluto lui proprio scegliere di stare insieme al grosso degli italiani. Del gruppo nostro di ottanta siamo tornati il 70% credo, siamo tornati quasi tutti relativamente. Mentre dell’altro gruppo sono tornati pochissimi.

E’ tornato Cognasso, l’avete mai sentito nominare? No? Sono tornati pochissimi. Olivelli, che aveva un fisico veramente atletico, di ferro, è morto nel gennaio del ’45.

D: Di quel gruppo è tornato Vittore Bocchetta…

R: Sì, che è venuto qua a Pavia proprio a ricordare. Infatti ci siamo incontrati, però naturalmente né io mi ricordavo di lui né lui si ricordava di me, perché eravamo lì in mezzo a…

Anche lui è stato uno dei pochi che sono tornati. Bocchetta l’avete incontrato anche voi? E’ venuto qua quando c’è stata quella giornata dedicata ad Olivelli. Adesso basta perché non sono più due minuti.

D: L’ultimo nanosecondo, la dislocazione qui a Pavia delle truppe germaniche, delle SS dov’era?

R: Qui a Pavia città?

D: Sì, non c’era?

R: Sì, certo che c’era. T’avevo detto, credo, che l’8 settembre un gruppetto di giovani sia dell’Azione Cattolica, sia laici ci eravamo trovati la sera dell’8 settembre in Piazza Re di Sole e avevamo coraggiosamente, ma proprio stupidamente stillato un manifesto in cui invitavamo gli universitari, gli studenti pavesi a resistere ai tedeschi, come in sostanza aveva detto il comunicato di Badoglio.

Siamo andati ad appiccicarlo proprio fuori dall’università, dopodiché a questo punto la fortuna ha voluto che il bidello dell’università, il famoso bidello che era anche amico di Freccaro, che ci conosceva bene, ha pensato bene nottetempo di tirarlo via.

La mattina dopo siamo andati in un gruppo alla caserma che c’è in fondo a Porta Garibaldi, la caserma che c’era lì a sinistra, Distretto Militare Romero. Siamo andati lì in un gruppo di ragazzi dicendo: “Siamo qui disposti se volete”. Il colonnello ci ha detto: “Non vi preoccupate, abbiamo tutto sotto controllo noi”.

Dopo un paio di ore è arrivato non so se un plotone o una compagnia, saranno stati in tutto cinquanta tedeschi, hanno occupato la città, chi s’è visto s’è visto. Naturalmente i militari se ne sono scappati, avevano tutti i motivi per scappare.

D: Questi tedeschi dove si sono insediati?

R: Qui?

D: Sì.

R: Si sono insediati un po’ dappertutto nelle caserme. Mi ricordo lì al Distretto Militare.

Militello Rosario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Militello Rosario, sono nato nel 1925 a Piazza Armerina, provincia di Enna. Di famiglia molto povera e molto numerosa.

All’età di 5 anni andavo a lavorare, andavo a raccogliere le nocciole, essendo Piazza Armerina un produttore di nocciole e mandorle, sicché si finiva di andare a scuola e si andava a cogliere le nocciole poi le mandorle e poi quando finiva la stagione si ritornava a scuola.

Comunque andiamo un po’ avanti per stringere. All’età di 14 anni lavoravo nelle miniere di zolfo di Grottacalda, a 14 anni. Lì avevo sempre paura perché continuamente scoppiava il grisou e faceva molte vittime.

Mio padre era un calzolaio che faceva le scarpe nuove, era proprio calzolaio artigiano, però non poteva avere un posto di lavoro perché non pagava la tessera fascista. Eravamo sette figli, man mano che si andava avanti eravamo in tre che andavamo a scuola. Gli altri erano ancora piccolini perché dovevano raggiungere l’età per andare a scuola.

Noi che eravamo in tre si pagava la pagella, la pagella costava una lira. Poi si pagava la tessera, la tessera costava cinque lire. Sicché cinque e tre facevano otto, e per guadagnare otto lire a uno toccava lavorare, se aveva la fortuna di poterle guadagnare. Sicché non poteva, non si pagava la tessera perché ogni volta che si parlava a mio padre di tessere… Tanto più che mio padre era una ex guardia regia. Allora si entrava nella guardia regia anche con la terza elementare. La guardia regia fu sciolta proprio da Mussolini.

Mio padre e suo zio, che erano tutti e due della guardia regia, al momento dell’occupazione di Roma da parte dei fascisti a Piazza del Popolo riuscirono a fuggire e se ne andarono in Francia, emigrarono in Francia.

Però mio padre era purtroppo troppo mammolino perché era figlio unico: è stato in Francia per qualche anno, dopo è ritornato a Piazza Armerina. Avevamo il podestà che era un fascista. Il podestà allora era il sindaco di oggi ed aveva tutto il potere nelle mani, del paese.

Questo sapeva che mio padre era qui e non pagava la tessera, non aveva diritto; per farci vivere si arrangiava anche a riparare le scarpe invece di farle nuove.

Così se lui non riusciva noi non potevamo avere niente. Pensate che davano la refezione scolastica a quelli che erano un pochettino in condizioni disagiate. A noi non davano la refezione scolastica, eravamo io e mio fratello, quello più grande di me, perché? Perché non pagavamo la tessera.

Fortunatamente nella cucina ci stavano due donnette di buon cuore: invece di darci la minestra insieme agli altri ragazzi ce la davano di nascosto, e riuscivamo ad avere… Perché noi avevamo fame, a casa non è che avevamo tanto.

Insomma, andammo avanti e lavoravo nelle miniere di zolfo. Avevo tanta paura, tanta paura che un giorno ho deciso: Adesso me ne vado via di casa”. Avevo 14 anni, e me ne vado via, dove? A Torino. Difatti me ne sono andato via, ho preso il treno e me ne sono andato a Torino. A Torino ho trovato lavoro in una fabbrica dove c’era una fonderia, ed ho lavorato nella fonderia. Questo è stato nel ’39. Nel ’40 c’è stata la dichiarazione di guerra. Mio padre dal podestà fu chiamato, non doveva fare il militare perché aveva prima di tutto famiglia numerosa, e poi aveva già una certa età, e lo sbatterono in Africa. Difatti alla prima ritirata di Montgomery fu preso prigioniero, lui e tutta l’armata italiana, portata via.

Io sono andato a Torino, ho lavorato con questa ditta; a Torino c’erano fabbriche piccole che fondevano il metallo e noi si lavorava lì. Lì ho cominciato a respirare, prendevo trentasei lire alla settimana ed erano dei bei soldini.

Comunque, andiamo avanti: c’è la dichiarazione di guerra. Comincia la guerra, mio padre parte. A Torino c’erano dei bandi emessi dal Ministero dell’Aeronautica, dove dicevano che chi voleva andare ad imparare un mestiere poteva andare nell’aeronautica.

Io sono andato in Aeronautica, ho fatto la domanda, tutto, mi hanno preso, e facevo la scuola aeronautica alla Dalmazzo – Birago a San Paolo. Avevo allora, è stato alla fine del ’42, avevo già 16 anni, qualcosa così, ed ho cominciato a studiare.

Purtroppo gli interventi della guerra andavano sempre peggio, bombardamenti da tutte le parti insomma, gli americani erano scesi in guerra per aiutare anche la Francia.

Arrivato l’8 settembre del 1943 io stavo sempre sotto le armi; alla caduta di Mussolini c’è stata una grande manifestazione a Torino. Vicino a Piazza Maria Vittoria ci stava la sede del Partito Fascista, lì c’era l’emblema, mi ricordo ancora, e fecero cadere tutto il fascio. Comunque è venuto questo 8 settembre e l’esercito si è sfasciato. Sicché noi non sapevamo dove andare, noi meridionali che eravamo su in alta Italia siamo rimasti imbottigliati, e non sapevamo dove andare. Essendo settembre, il mese della vendemmia, molti di noi furono presi dai contadini, perché i contadini avevano i figli che stavano a fare la guerra, e c’erano soltanto i contadini anziani. Sicché noi li abbiamo aiutati a vendemmiare e tutto.

Quando è arrivato ottobre-novembre del ’43, vicino all’inverno insomma, e si era fatta la semina, si era fatto tutto, si preparava il terreno per il ’44, Mussolini aveva rifatto la Repubblica Sociale. Emisero dei bandi nei quali dicevano che dovevamo andare in servizio o saremmo stati passati per le armi come disertori.

Quello ci aveva messo paura, noi altri non si sapeva come fare, i meridionali, volevamo andare via. Di fatti alla famiglia dove stavo io dicevo: “Signori io vado via” “Ma no stai qui, stai qui”. “Va bene”, sono stato lì. Con insistenza perché avevano bisogno anche loro del lavoro; aiutavo, anche non sapendo fare il contadino li aiutavo e facevo il contadino.

Ad un certo punto tra marzo ed aprile del ’44 la Repubblica Sociale aveva preso una bella consistenza. Allora che cosa succedeva? Succedeva che loro andavano tramite le spie, giravano, eravamo a Nizza, nel paesetto piccolo di Castel Boglione vicino a Nizza Monferrato. Si erano cominciate a formare delle formazioni partigiane su per le montagne. La Repubblica Sociale già si era così formata bene, aveva le spie a cui tutti andavano a dire quello che facevano. Un giorno nel mese di febbraio o marzo mi sembra, i contadini avevano una sorgente d’acqua circa un chilometro lontano dalla casa dove abitavano, avevano cinque vacche, ed avevano fatto una specie di slitta con una botte grossa con cui si andava a prendere l’acqua e poi si dava alle mucche, si faceva la pulizia, si pulivano le stalle e tutto.

Un giorno andando a prendere l’acqua, avevamo già riempito la botte, sentiamo sparare. Allora ci siamo messi paura. Con me c’era una nipotina di questo contadino e si è messa paura anche lei. Poi sentivamo strillare, da lontano sentivamo gli strilli perché loro avevano organizzato di andare casa per casa dai contadini dove trovavano quelli come noi, sbandati, che non si erano presentati, li prendevano, li arrestavano. Io non ho avuto la disgrazia di cadere nelle loro mani, non so perché.

Sapevo che tanti di questi qui venivano uccisi, dopo, sia perché scappavano sia perché li avevano arrestati.

Così io non mi sono mosso dalla sorgente ed ho detto alla bambina, si chiamava Luciana: “Luciana, vai a vedere che cosa è successo”. La bambina, io intanto stavo lì ad aspettare con questo bue, un toro era non un bue, va lì e vede che piangevano il nonno con la nonna, gli avevano dato un sacco di botte perché volevano anche me. Non me come personalità o cosa, ma perché sapevano che ero uno sbandato ed allora volevano che facessi… O mi volevano uccidere o volevano che facessi il militare con loro. Non lo so perché. Infatti questi avevano preso delle botte.

Vedendo questo io ho detto: “Senta Signora Assunta” si chiamava Assunta “mi dispiace che voi abbiate preso le botte per colpa mia, vuol dire che adesso me ne vado.” “Ma no, non te ne devi andare via perché devi stare qui…” “Però vede, se mi prendono questi mi ammazzano”. Avevo saputo che a circa dieci, dodici chilometri c’era una formazione partigiana che si era formata, ho detto: “Io me ne vado con i partigiani, vado a vedere”.

Così sono andato. Poi ce n’erano anche altri, calabresi, ci siamo riuniti in tanti e siamo andati con questa formazione.

Siamo andati su, ci siamo presentati al comandante che era un comunista. Allora ho detto: “A noi è successo così e così”, dice “Bene, bene, così infoltiamo”, però non avevamo armi. Le armi ce le avevano fatte buttare via dopo l’8 settembre, non è che abbiamo trovato un comandante che dice “Mettiamoci le armi da parte per un domani che non sappiamo”.

Così è cominciata la guerra partigiana. Abbiamo cominciato la guerra partigiana, si facevano delle sortite, e si moriva l’uno e l’altro, sia i fascisti sia noi. Lì c’era la Brigata Nera Ather Capelli, erano dei fascisti, quelli criminali. Non facevano prigionieri fra i partigiani, li ammazzavano subito sul posto.

Alla fine di settembre del ’44 cominciarono a fare i rastrellamenti in grande stile, perché noi altri eravamo sempre in minoranza, non avevamo tante armi, invece loro ci seguivano con una cicogna che veniva a bassa quota e vedeva tutti i nostri spostamenti.

Per nostra sfortuna siamo capitati sotto questi fascisti. Comandavano i tedeschi e avevano bisogno di manodopera, anche loro avevano tutta la gioventù che stava a fare la guerra, chi stava in Russia chi in Italia.

Si vede che avevano avuto l’ordine di non doverci uccidere. Ci hanno preso, ci hanno impacchettato bene bene, ci hanno chiusi in certe auto…

D: Scusa Rosario, dove vi hanno arrestato? Dove vi hanno preso?

R: Adesso lo dico. Era tra la provincia di Asti e la provincia di Cuneo, nelle Langhe. Io mi ricordo, ho guardato sempre le montagne sulla carta geografica, comunque mi ricordo ancora che vicino avevamo Santo Stefano Belbo, avevamo Canelli. Mi sembra che la montagna fosse il Monte Rosso, penso sia questo, dovrebbe essere il Monte Rosso. Insomma ci hanno rastrellato e ci hanno preso, ci hanno portato dentro degli autobus e ci hanno portato a Torino. A Torino ci hanno portato alle Carceri Nuove.

D: Questo quando?

R: L’ho detto, verso la fine di settembre del ’44, primi di ottobre, una cosa così.

D: In quanti eravate quando vi hanno preso?

R: Eravamo in tanti, perché erano parecchi gli autobus chiusi ermeticamente; in ogni autobus c’era un tedesco che aveva un cane, un pastore tedesco, che ci guardava bene. Allora ci hanno portato in questo carcere. Ci hanno chiuso in una cameretta, una cameretta di queste carceri, c’era una brandina con delle catene che si teneva sul muro e c’era un ergastolano. Ci hanno messo con quest’ergastolano.

L’ergastolano quando ci ha visto… La cella era tutta sua, poi in un angolino c’era un piccolo… per lavarsi, e poi c’era un rubinetto che buttava continuamente l’acqua a fil di spago. Sotto il lavandino ci stava la tazza per fare i bisogni.

Pareva che avessimo colpa di esserci presi tutta la cella per noi. Invece dormivano per terra perché non c’erano letti e lui dormiva nella branda. Sicché ci dava qualche schiaffone, ci dava dei calci, noi eravamo ragazzi, che dovevamo dire? Se la prendeva con noi.

Comunque in questa cameretta dormivamo, come ho detto prima, in una ventina, tutti per terra, senza pagliericcio, senza niente.

Ci siamo stati parecchio, eravamo in tanti e i tedeschi cercavano il comandante, la personalità, sicché ci facevano inchieste, interrogatori. Però noi meridionali, non si sapeva, conoscevamo le persone ma mica sapevamo, non sapevamo niente. Io sapevo soltanto che il comandante dove stavo io era uno che era stato vent’anni in galera all’isola di Ponza, ce lo diceva sempre. Sicché era molto arrabbiato di quello che aveva passato, ed era molto arrabbiato con i fascisti che ci venivano…

Così siamo stati lì quasi un mesetto, loro hanno fatto le selezioni da dentro, volevano sapere le persone che mansioni avessero, chi comandava. Ma noi altri eravamo all’oscuro di tutte queste cose perché a noi dicevano: “Guarda, domani passa un treno e dobbiamo andare a prendere…” Molte volte ci è andata male, molte volte ci è andata bene.

Una cosa volevo ricordare, forse in Italia nessuno lo dice. Avete sentito la Anselmi una volta? Lei era una staffetta, non so se la conoscete. Nessuno ha scritto del valore delle ragazze che facevano le staffette, facevano chilometri, le corse, ci avvisavano continuamente: “Arrivano i tedeschi, arrivano i fascisti, mettetevi in guardia”, tutte queste cose.

Che sappia io non ho visto niente, mi è dispiaciuto parecchio, potevano fare un bello scritto di queste ragazze perché molte sono morte, sono morte.

Comunque siamo stati lì parecchio. Verso i primi di ottobre ci hanno trasferito a Bolzano. Siamo andati a Bolzano, anche lì c’era un campo molto pieno di prigionieri, però ancora non avevamo la divisa dei prigionieri deportati. Tanto più che noi non sapevamo neanche che cosa fosse.

Era in una baracca di Bolzano dove stavano facendo un tunnel. Avevamo i pagliericci, erano tutti di paglia, invece questi li avevano riempiti tutti di sabbia. Allora sentendo gli altri che stavano prima di noi lì avevamo paura: “Questi ci acchiappano qualche giorno e faremo una brutta fine”.

La fortuna mia e di qualche altro, venti o trenta, è che ci hanno trasferiti da questa baracca ad un’altra. Lì c’è stata un po’ di liberazione. Dopo abbiamo saputo, quando stavamo a Mauthausen, che hanno trovato quelli che avevano organizzato il tunnel, mi pare che li hanno fucilati, pure. Allora ci hanno mandati in un’altra baracca e siamo rimasti lì in questa baracca. Poi c’è stato il trasporto a Mauthausen, dove le date sono un po’…

D: A Bolzano ti hanno immatricolato?

R: No, non ce l’hanno data la matricola.

D: E tu sei rimasto a Bolzano più o meno quanto tempo?

R: Posso dire una mesata, così, perché siamo arrivati a Mauthausen alla fine di novembre, e faceva molto freddo. Sono un po’ in discussione queste date perché è passato molto tempo e non mi ricordo. Comunque un giorno ci hanno preso, ci hanno…

D: Scusa ancora, Rosario, non sei mai uscito dal campo di Bolzano?

R: No, no.

D: Siete rimasti sempre dentro nel campo?

R: Sì, sempre nel campo siamo rimasti.

D: Fino a quando vi hanno chiamati…

R: Ci hanno chiamati, ci hanno messo in fila, ci hanno portati alla stazione di Bolzano, e ci hanno fatto entrare dentro questi vagoni. Non ci hanno dato né pane né acqua, niente. Ci hanno chiusi ermeticamente, e poi questo treno si è avviato. Non sapevamo dove andasse.

Arrivati, io penso fosse Innsbruck ma non sono sicuro, gli americani bombardavano il nodo ferroviario tra l’Austria e Monaco. Allora hanno preso il treno e l’hanno messo su un binario morto e ci hanno lasciato lì tutta la notte. Avevamo fame, non ci avevano dato niente, battevamo su questo vagone, che poi era un treno, non so quanti eravamo, dieci o undici vagoni, in ogni vagone c’erano sessanta persone, perciò pensa un po’… Stavamo stretti l’uno vicino all’altro, piangevamo come bambini. Non sapevamo che fare.

Poi gli americani hanno finito di bombardare. Il giorno dopo verso mezzogiorno o l’una, ma il tempo ormai non potevamo più misurarlo perché eravamo stanchi tutti, qualcuno aveva l’orologio e si guardava l’orario, ma non sapevamo più, eravamo diventati proprio dei …, siamo arrivati a Mauthausen, o verso pomeriggio, sarà stato l’imbrunire, c’era un freddo tremendo. Ci hanno fatto scendere, eravamo tutti sporchi di tutte le nostre scorie. Ci hanno messi in fila con dei cani da una parte e dall’altra, e ci hanno fatto attraversare questo paesetto in ordine, molto pulito, persone molto per bene stavano lì, passavamo noi ma nessuno ci diceva niente.

Dalla stazione ad andare a Mauthausen, al campo, ci sono circa quattro, cinque chilometri, non lo so. Pensate un po’, stanchi come eravamo, stanchi dovevamo salire, ed ancora non sapevamo che cosa ci attendesse.

Saliamo questa collina e da lontano vediamo il primo muro. C’era un bel portone con un’aquila con la svastica che quest’aquila teneva con le zampe. Era fatta così bene.

La parte dentro invece era un luogo di morte. Entriamo e vediamo tutti gli altri prima di noi, tutti smagriti, i morti per terra, le botte che davano e lì abbiamo cominciato a dire: “Signore mio, qui che cosa si fa?”

Allora uno ci ha detto: “State attenti, siete entrati di là ed uscirete da lì” ci disse. Vicino a noi c’era un avvocato, era di Nizza Monferrato, preso prigioniero anche lui. Questo era il più grande di tutti noi perché aveva fatto la prima guerra mondiale ed era stato prigioniero a Mauthausen, poi è morto a Gusen. Pensate poveretto, prigioniero nella prima guerra mondiale, portato a Gusen e poi è morto perché era anziano. Allora ci disse: “Cari ragazzi, da qui non si esce più.”

Ci fecero spogliare nudi, ci levarono tutto. La Kopfstrasse. Ci fecero andare sotto lì dove c’erano le docce, siamo entrati lì, ci buttarono subito l’acqua calda, bollente, sul corpo. Gli strilli che facevamo… Non so, li avete visti? Io e qualche altro, siccome nelle docce buttavano in mezzo l’acqua cercavamo di andare ai lati … invece questi ci spedivano di là.

Poi dopo la calda quella fredda, gelata, e questo si è fatto per quattro o cinque volte. Finito questo usciamo, c’era una porticina e c’era uno con un prigioniero che teneva un secchio, dentro questo secchio ci stava la creolina, e ci disinfettavano sotto le ascelle, qua sotto. Il bruciore che ci dava questa creolina! La creolina bruciava gli insetti, si pulivano le stalle. Poi dopo tutto questo ci diedero la divisa con il numero di matricola, ci dettero tutto.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 115.615.

D: Ascolta, oltre al numero vi hanno dato…

R: Il triangolo rosso, la matricola qui, era con il fil di ferro, e poi c’era un pezzetto di alluminio con impresso il numero. Però questo numero sarà stato di qualche altro, perché era arrugginito, i pantaloni miei erano pieni di sangue sulla sinistra, perché loro non è che bollivano, quando uno moriva gli levavano la divisa. Sa il ribrezzo che ho passato pure io a vedere quell’affare là? Dopo ci hanno mandato al blocco, al blocco n. 20 mi pare, perché dietro ci stavano gli altri che morivano diversamente. Siamo stati lì penso cinque o sei giorni, sette giorni, dieci giorni, adesso non lo so.

Un giorno ci hanno chiamati, eravamo una trentina, ci hanno messi in fila, ci hanno fatto uscire dal campo, e non ci hanno portato lì dalla scala della morte, ci hanno fatto fare un giro in largo.

Siamo arrivati in uno spazio, c’erano trenta o quaranta morti per terra, moribondi, e ce li hanno fatti caricare sulle spalle, ognuno si caricava il suo. Quello che portavo io ancora rantolava, aveva preso una pietra. Però loro che cosa hanno fatto? Dove c’era la scala della morte c’è il piazzale, l’hanno levato da lì e l’hanno portato in quell’altro piazzale di dietro, non l’abbiamo vista la scala della morte. Noi non abbiamo dovuto salire sulla scala ma ci hanno riportato dalla strada attorno attorno che gira con il viottolo e ci hanno fatto risalire su.

Quando siamo ritornati in baracca piangevamo. C’erano pure gli spagnoli: “Avete visto la scala della morte?” Noi abbiamo detto: “Quale scala della morte? Noi non abbiamo… Che cos’è la scala della morte? No, ci hanno portato dall’altra parte.” Non sapevamo neanche di questa scala, io non l’avevo vista, capito?

Comunque abbiamo preso poi questi e li abbiamo portati dietro i crematori. Noi dentro i crematori non si poteva entrare perché c’era quello all’interno; si lasciavano davanti, li prendevano loro e li portavano dove li dovevano portare.

Siamo ritornati in baracca. Siamo stati in baracca. Stringiamo ancora. Passa il tempo e da Mauthausen a piedi ci portano a Gusen. Facciamo la strada, eravamo in parecchi, e si passa da Gusen 1.

A Gusen 1 si sta un’oretta o due, c’erano quelli che dovevano rimanere a Gusen 1, poi dopo hanno preso quelli che erano rimasti e ci portano a Gusen 2. Arrivati a Gusen 2 a me mettono nel blocco n. 5. Di lì comincia la nostra odissea. Morti continuamente. A Gusen 2 non avevamo i crematori perché quelli che dovevano essere cremati si portavano a Gusen 1 dove c’era il crematorio.

Lì comincia la nostra odissea. Alla mattina sveglia alle quattro sulla piazza del campo, ci contavano. Ci chiamavano Stück, dicevano Stück, Stück. Ci contavano, ci preparavano, c’era un trenino che ci portava, era lontano dove si andava a lavorare. A mano a mano che si entrava la mattina, dopo un’ora e mezza con quel freddo, con quella divisa senza nessuna protezione: quello che avevamo addosso non ci proteggeva il corpo, niente.

Il freddo a 24/25° sotto zero. Poi ad uno ad uno quando ci avevano contato ci facevano entrare sul trenino. A mano a mano che si entrava ci davano un pezzetto di pane, una fettina. Si entrava con questo pane, pane nero, non sapevamo neanche di cosa fosse fatto, e si andava via, a lavorare.

Mi misero in un reparto che si chiamava Platz planieren: allungavano le gallerie per mettere altre fabbriche, perché lì facevano gli scheletri del V1 e V2 dei missili. Allora si allargava sempre.

Sicché mano a mano che si facevano le gallerie io facevo organizzare le linee con i vagoni, si metteva la terra dentro e poi si portava fuori e si scaricava. A mano a mano che si allungava si saliva sopra la montagna dove c’era un deposito di rotaie che stavano messe l’una sopra l’altra.

Quando c’era bisogno di venti, trenta di queste eravamo in dieci, dodici, ce le caricavamo sulle spalle e le portavamo giù, si allungava la linea man mano che si andava avanti.

Prendendo le rotaie, c’era la neve alta in mezzo alle rotaie ed aveva creato un vuoto sotto: pensate che c’era la cicoria, certa cicoria alta, tutta la prendevamo! La prendevamo e ce la mangiavamo così, cruda com’era. La mettevamo dentro al petto. La cicoria fa latte, sicché questo latte ci si attaccava addosso, ci faceva bruciore. Comunque mangiavamo la cicoria, ma certo questo non succedeva tutti i giorni. Per ritornare a prendere altre rotaie dovevi aspettare quindici, venti giorni, in modo che si facesse un altro po’ di spazio, e non è che si potesse fare tutti i giorni. Perciò la fame c’era sempre.

Quel giorno per noi era festa perché ce la mettevamo pure sotto i piedi per nasconderla: c’erano i tedeschi e non ci dovevamo far vedere a prendere questa cosa. Così tutti i giorni.

Si andava a lavorare dodici ore al giorno. Alla sera quando si usciva, praticamente lì era un posto di lavoro, ma era guardato dalle guardie, c’erano le torrette, c’era tutto, perciò non si poteva fuggire, ci contavano: doveva essere la stessa somma che era uscita la mattina. Invece quando era sera mancavano sempre cinquanta, sessanta persone, settanta, dipende.

Allora che cosa si faceva? Si entrava di nuovo per andare a cercare questi che mancavano, e si trovavano quelli moribondi e quelli già morti. Perché ormai quando si lavorava non è che ci interessassimo se uno era morto, cadeva e non sapevamo. Noi ormai avevamo perso il lume della personalità, non avevamo più un interesse. Tra noi non c’era più neanche comunicazione perché eravamo ad un tal punto, ridotti come eravamo.

Fatto sta che alla sera toccava andare dentro, si portavano i morti, quelli vivi li avevano contati, si contavano i morti, combaciavano con il numero? Si caricavano sul trenino e si portavano via, di nuovo al campo.

Noi altri vivi ci mettevamo in fila e ci ricontavano quanti eravamo rimasti. C’era un momento in cui non funzionava più il crematorio, c’era una grande baracca dove c’erano i tubi dell’acqua, dove si andava a lavarsi. Tutti questi morti venivano messi attorno ai tubi e si mettevano l’uno sopra l’altro, a cataste. Sicché non avevamo neanche più voglia di entrare là dentro, vedendo tutti questi nostri compagni, questi ragazzi, eravamo tutti giovani, la maggior parte.

Ci faceva orrore, perché questi morti morivano tutti con gli occhi aperti dalla paura, nessuno aveva gli occhi chiusi. La paura era tanta, le botte erano continue, le scudisciate, ventiquattro scudisciate, l’inginocchiatoio dove ci facevano mettere… Non le dico quello che abbiamo passato.

Quando ci facevano queste torture dovevamo essere tutti presenti a vedere ciò che si vedeva. Quello che capitava a quello poteva capitare a noi.

Purtroppo avevamo due Oberkapo, uno era uno spagnolo ed uno era polacco. Il polacco era cattivo.

Questa prigionia è durata quasi sei mesi; all’ultimo sono arrivati gli americani, fortuna mia c’era l’armata del generale Patton dei carristi. C’era un americano figlio di siciliani, si chiamava Caruso Antonio, ancora mi ricordo, sicché quando sono entrati nel campo e hanno visto tutta questa gente, i morti che c’erano ancora, tutto il campo pieno, noi altri che eravamo diventati… Io pesavo ventiquattro chili, pensi un po’.

Allora lui non ha detto: “Chi è italiano?” ma ha detto: “Chi è siciliano qua dentro?” Io ridotto in quelle condizioni gli ho detto: “Sono io”. Mi ha visto in quelle condizioni come ero, mi ha preso in braccio, mi ha messo sulla jeep e mi ha portato a Linz, mi ha portato in una clinica della San Vincenzo.

D: Ti ricordi quando vi hanno liberato?

R: Il 5 maggio del ’45. Così è finita la nostra odissea. Mi hanno portato in clinica, c’erano le suore di San Vincenzo. Suo padre era siciliano, ecco perché, pensi che lui come americano parlava il siciliano. Suo padre era di Sambuca di Sicilia, provincia di Agrigento. Si ricordava della Sicilia. Lui parlava proprio il siciliano.

Mi porta in questa clinica e le suore della San Vincenzo quando mi hanno visto in quel modo dicono: “Che gli facciamo? Noi non abbiamo…” Allora ha detto loro: “Pulite questo ragazzo bene bene, poi lo mettete…” “Sì, va bene, noi lo puliamo, però non abbiamo da mangiare”. Dice: “Non vi preoccupate”. Questo se ne va via. Prima di uscire ha detto: “Scusi sorella, avete una bilancia?” Dice: “Sì”. Così ho saputo quanto pesavo, se non l’avessi saputo non avrei potuto dirlo…

Così sono stato lì. Nel pomeriggio è venuto, faceva parte della sanità americana che curava i feriti al fronte. E’ ritornato nel pomeriggio ed ha portato un dottore, mi ha fatto visitare: avevo un’infiltrazione polmonare, poi avevo l’ulcera. Abbiamo aspettato dopo la Liberazione, sono rimasto per quasi un mese ricoverato, non potevamo dormire con le lenzuola perché ci facevano male le ossa. C’erano solo le ossa, carne non ce n’era.

Dopo ci hanno rimpatriato, sono arrivato a Roma e mi hanno ricoverato all’Ospedale del Celio, sono stato un anno ricoverato là dentro.

D: Ma quando sei rientrato in Italia?

R: Il 25 luglio del ’45. Sono uscito, mi sono presentato al Comando dell’Aeronautica a cui appartenevo, mi hanno dato la divisa, mi hanno dato tutto, e dovevo essere mandato in licenza. Invece mi mandarono alla stazione Ostiense dove si formava un treno che andava in bassa Italia, in Sicilia: volevo andare a vedere i genitori. Mi è incominciata la tosse, non potevo respirare, hanno chiamato la Croce Rossa e mi hanno portato all’ospedale, e lì sono rimasto. Sono entrato il 26/27 di luglio 1945 e sono uscito il 4 marzo del ’47.

D: Rosario, quando dicevi che da Gusen 2 vi portavano a lavorare, vi portavano nelle gallerie di Sant Georgen?

R: Sì, lì vicino a San Giorgio.

D: Lavoravate nelle gallerie?

R: Noi lavoravamo nelle gallerie, però noi San Giorgio lo sentivamo nominare, c’era uno che dirigeva i lavori, sentivo sempre Sant Georgen, sentivo nominare questo paese. Però non mi ero fatto idea.

Dopo, quando l’americano mi ha portato al campo, mi sentivo un po’ meglio, in forze, ho visto che c’era San Giorgio, il paese, poi c’era San Valentino, poi c’era un altro paese, adesso non mi ricordo come si chiamava. Insomma dopo che sono stato ricoverato e poi dimesso sono andato al campo ed ho trovato queste cose.

D: Un’altra cosa Rosario; ti ricordi il nome di qualche ditta? Voi lavoravate per qualche ditta?

R: La Messerschmitt, alla Messerschmitt si lavorava. Io sapevo che si facevano gli scheletri di duro alluminio, ed ho saputo, se è vero o non è vero non lo so, che vicino c’era una miniera di bauxite. La bauxite dicevano che si cola e fa il duro alluminio. Di fatto loro facevano il duro alluminio. Noi altri ogni tanto si prendeva qualche pezzo, si faceva un coltellino, si facevano queste cose così.

Samiolo Sergio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Sergio Samiolo, sono nato il 12 dicembre 1923, a Cismon del Grappa ed ora abito a Feltre, da sempre praticamente.

Io il 3 ottobre del 1944 sono stato arrestato dalle SS tedesche nel corso di un rastrellamento che hanno fatto qui in zona, in tutto il paese di Feltre e mi hanno portato sul cortile del Metallurgica Feltrina.

Da lì poi ci hanno spostato al cinema Italia, poi caricati su un camion. Ci hanno portato prima a Grigno di Valsugana.

Lì siamo stati un paio di notti, poi la mattina dopo ci hanno caricati sul treno, per spedirci non si sapeva dove.

Io ho la fortuna di avere uno zio che faceva il capostazione a Bolzano; arrivati a Trento ho trovato, fra i militari tedeschi che facevano il servizio lì in stazione, due miei ex compagni di naia, eravamo a fare la naia assieme all’aeroporto di Ghedi.

Quando mi hanno visto si sono meravigliati e mi hanno detto che forse potevano fare qualcosa. Io ho detto loro solamente: “Avvertite il capostazione di Bolzano che sono su questo treno e che stiamo arrivando”.

Difatti il capostazione ci ha fatto arrivare, tre giorni ci ha impiegato da Trento a Bolzano questo treno.

Quando siamo arrivati alla sera lui è venuto lì ma non l’hanno lasciato avvicinare. Ci hanno caricati su dei camion e portati nel campo di concentramento.

La mattina dopo ci hanno passati all’appello, al controllo dei militari che c’erano e ci hanno fatto dare le generalità. Poi ci hanno dato una tuta e ci hanno mandato in campo con l’ordine di adoperare solamente ed esclusivamente la tuta, senza nessun capo civile possibile: praticamente solo con la biancheria intima e la tuta e basta.

Per questo motivo una mattina che avevo più freddo del solito, mi sono messo un maglione sotto, sennonché per andare all’uscita, per andare a lavorar, e ci facevano lavorare sempre, mi hanno fatto aprire la tuta e si sono accorti che avevo un maglione sotto: mi hanno dato con un tubo di ferro di quaranta, cinquanta centimetri sulla testa e qui ne ho la cicatrice. Mi hanno steso come fossi stato un vitello, buttato per terra, per fortuna che come ha detto il mio amico, avevamo il capoblocco che era un dottore e direttore dell’ospedale di Feltre; mi ha fatto portare dentro e mi ha medicato alla meglio.

Vorrei raccontare un altro episodio.

Noi andavamo a lavorare nelle gallerie di Gries, le gallerie antibombardamento di ricovero per i militari, per evitare i bombardamenti. Al ritorno da questa caserma stavamo facendo un paio di chilometri di strada a piedi per rientrare in campo di concentramento ed avevamo i parenti che ci facevano la scorta, da Feltre a Bolzano sono 140 chilometri, devo premettere che mio padre faceva il taxista e aveva la possibilità con i parenti di uno o dell’altro di questi cento e passa miei amici, di venire su spesso e mi veniva a trovare.

Un bel giorno è venuto fuori da una casa, che era in fianco a questa strada, una signora ed ha redarguito piuttosto pesantemente il militare che ci faceva la scorta; non ho capito quello che diceva, perché il tedesco non lo so.

Il fatto che è dopo dieci minuti questo militare, che era un austriaco di Vienna, forse uno dei migliori che ho trovato come temperamento, ci ha raccomandato, ha fatto mandare via i nostri parenti ed ha detto: “Mi dispiace, ma devo agire così, perché altrimenti quella signora mi denuncia e mi manda a Stalingrado a fare la guerra”.

D: Sergio, ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Il mio numero di Bolzano era 5.001 e triangolo rosa, per circa un mese e mezzo, forse due scarsi. Verso la fine di novembre, alla mattina durante l’adunata, hanno domandato se c’era gente che volesse andare a lavorare fuori dal campo.

Io ho approfittato dell’occasione perché avevo sentito che una squadra delle nostre era andata a lavorare verso Merano in una fabbrica di marmellata ed io pensavo: “Tento anch’io”.

C’era tanta gente; c’era gente che diceva che ci avrebbero mandati su per i passi a spalare la neve, per tenere aperte le strade per i militari. Io ho tentato, invece ci hanno mandati a Vipiteno.

A Vipiteno ci hanno sistemati in una caserma; eravamo in due stanze, in una piccola eravamo in otto, su quattro letti a castello, invece i rimanenti, ventiquattro, venticinque che erano, erano in un’altra aula o camerata che dir si voglia. Praticamente lì siamo stati. Noi avevamo che ci facevano la guardia otto militari della SS altoatesini, parlavano benissimo l’italiano, fra i quali c’era anche quello che mi aveva dato il colpo in testa, un certo Baldo mi pare si chiamasse.

Avevamo anche un po’ di paura: avevamo capito che erano cattivi, erano cattivi perché erano in pochi e dovevano sorvegliare parecchie persone.

Invece lì eravamo in meno, tanto è vero che poi eravamo riusciti ad addomesticare questi militari ed alla sera uno di noi, con la scorta di uno di loro, si andava fuori e si faceva un sacco pieno di fiaschi di vino e ce li riportavano dentro.

Infatti una sera un nostro amico è andato fuori ed è ritornato con il mitra sulle spalle, ma senza sentinella, tutti quanti siamo andati fuori in cerca e lui ed il sacco di vino erano in una cunetta coperti dalla neve, ubriaco fradicio.

D: Scusa Sergio, ritornando un attimo a Gries, tu dicevi che andavate a scavare delle gallerie… Ti ricordi più o meno dove?

R: Alle spalle della caserma c’erano le gallerie; noi si andava, si scavava. Facevano saltare le mine e si andava dentro; siccome quello è granito puro, si andava dentro e mi ricordo che per più di un mese ho continuato a sputare saliva che era come malta, perché si respirava quello.

Però anche lì non è che siamo stati proprio… E’ inutile, eravamo prigionieri e bisognava agire da prigionieri, se si voleva stare… Infatti io ed il mio amico, che purtroppo oggi non c’è più, un certo Felice Bellumat, ci hanno anche premiato perché lavoravamo: ci hanno dato un pacchetto di sigarette a testa, anche se io non fumavo allora, comunque è servito da scambiare.

D: Ricordi anche tu la celebrazione della messa nel campo di Bolzano?

R: Assolutamente non mi ricordo niente della messa. Io mi ricordo che ci si trovava fra di noi, si parlava, specialmente alla sera; bisognava cercare di buttarla un po’ alla carlona, cercare di sopravvivere e reagire. Noialtri alla sera si campava, questo mi ricordo; poi quando mi hanno mandato lassù a Vipiteno ci è andata anche discretamente.

Comunque posso dire questo: che il lavoro era quello che era.

Posso dire questo: a Vipiteno, dove eravamo noi, hanno portato tutte le macchine che facevano le rivoltelle Beretta. Mi ricordo d’aver portato su dei…. e una fatica tremenda a portarli su per le scalinate, portare ai piani superiori queste macchine, che eravamo andati a prendere. Avevamo fatto un trasbordo da un camion ad un altro, uno si era rotto e siamo andati giù noi a trasbordarlo su un camion buono; poi le abbiamo portate su ed abbiamo cominciato a mettere a posto tutto quanto.

D: Dove avete portato a Vipiteno queste macchine?

R: Nella caserma dove eravamo alloggiati noi avevamo il nostro alloggio, queste due stanze, una più piccola ed una più grande, poi c’era una caserma piuttosto grande e c’erano altre stanze. In tutte queste stanze venivano messe dentro queste macchine per fare le Beretta.

D: Come deposito o per la produzione?

R: No, per la produzione. Quando ci hanno portato su quella valle che c’è alle spalle della Caserma di Gries, la Val Sarentino, c’erano due strade, una era bassa e mi ricordo che era vecchia, e un’altra sopra. Era praticamente come la Gardesana, tutte gallerie. Loro pensavano di adoperare le gallerie per metterci dentro le macchine per la produzione di armi; avevano domandato chi sapesse guidare le macchine, allora io, siccome avevo la patente, ho alzato la mano, e ci hanno mandati sulla strada di sotto a prepararla, con pale, badili e rastrelli per inghiaiare la strada, in maniera da sistemare la strada, in maniera da lasciar libere le gallerie per adoperarle come officine meccaniche dove mettere dentro macchinari. Non so se poi questo è avvenuto, perché sono stato su due volte e basta.

D: Poi sei rimasto sempre a Vipiteno?

R: Quando mi hanno trasferito a Vipiteno sono stato là fin quasi alla fine; ad un certo punto c’è stato un rilassamento della sorveglianza ed ho approfittato dell’occasione, ho preso il treno, sono scappato e sono andato a Bolzano, dove avevo, come ho detto, mio zio che era capostazione; aveva fra l’altro due figli, miei cugini, che erano tutti e due militari ed avevano vestiti da darmi.

Insomma mi sono vestito con i vestiti dei miei cugini, sono stato tre, quattro o cinque giorni, finché sono arrivati gli americani e poi sono venuto a casa così, con i mezzi americani.

D: Quindi tu non sei rimasto fino al 3 maggio?

R: No.

D: Quando sei venuto via?

R: Adesso non ricordo, ma verso la fine di aprile o qualcosa del genere, mancavano pochi giorni ormai, c’era uno sbandamento generale, si vedeva che non c’era più una disciplina che teneva ferma la gente.

D: Sei scappato?

R: Sì, sono andato, eravamo davanti alla stazione, sono montato su un treno e mi hanno portato a Bolzano. A Bolzano sono sceso e sono andato dal capostazione che era mio cugino e basta.

Sembra facile. E’ così insomma.

D: Durante il tuo periodo di deportazione hai potuto scrivere a casa?

R: No, non scrivevo perché avevo, come ho detto prima, mio padre che andava e veniva, quindi quello di cui avevo bisogno e quello che volevano sapere loro era in comunicazione diretta; in linea di massima veniva su e stava su, perché portava su i parenti dei miei amici che c’erano lì e andavano a dormire in albergo davanti alla stazione.

D: A Vipiteno tu eri addetto a cosa?

R: Noi eravamo addetti a caricare, scaricare, portare su il materiale che serviva per le pistole e i mitra che facevamo e basta; perlomeno io facevo quel lavoro, portare su e giù il materiale.

D: Rapporti con i civili e con la gente del luogo?

R: Noi avevamo rapporto con un casellante della ferrovia, che era dei nostri paesi qui vicino, un certo Sori; per mezzo suo abbiamo potuto in qualche maniera mangiare un po’ più discretamente, in quanto attraverso lui riuscivamo ad acquistare carne, pane e qualcosa.

Certo che non c’era da mangiare per tutti, quel poco che c’era, perché anche questo signore ad un certo punto doveva cercare e non era facile trovare della roba.

Mi ricordo d’aver mangiato tanto caprone.

D: Perché tanto caprone?

R: Perché era l’unica cosa che si poteva mangiare allora, ne ammazzavano continuamente e si mangiava caprone, sempre in brodo però. Si faceva il brodo.

Un’altra cosa, quando ci hanno mandato a Vipiteno ci hanno mandato con i viveri razionati per dieci giorni per tutti e trentatre.

Eravamo tutta gente di venti, venticinque, trent’anni anni al massimo, alla fine del secondo giorno avevamo fame tutti e per otto giorni cosa si faceva? Siamo stati quattro o cinque giorni a mangiare miglio ed acqua, con il miglio si faceva il minestrone, ed un po’ di margarina. Poi, quando è arrivato, siamo riusciti a conoscere questo Sori, che ci portava la carne di capra e mettevamo dentro questo e facevamo un minestrone e così si mangiava un po’ tutti.

Gasiani Armando

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Gasiani Armando, nato a Castel di Serravalle provincia di Bologna il 23.1.1927. Eravamo una famiglia di contadini, dopo dieci anni abbiamo traslocato, da Castel di Serravalle siamo venuti ad Anzola Emilia e siamo rimasti fino a dopo che sono arrivato Bologna, però il rastrellamento è avvenuto in questa zona. Prima del rastrellamento io e mio fratello, senza che i miei genitori sapessero, eravamo collaboratori della Resistenza, nella nostra campagna c’era una base partigiana. Ad un certo momento la Resistenza ha avuto un periodo molto grave, ha avuto un po’ di relax e ci hanno consigliati di andare a lavorare perché noi eravamo già una famiglia molto grossa, avevamo altri fratelli, eravamo in ventidue in famiglia, una famiglia molto grande, allora hanno consigliato a noi due di andare perché ci dicevano: “Voi da là potete ancora continuare la vostra attività, dicendo magari qualcosa che a noi può interessare”.

Durante questo è venuto proprio il giorno del rastrellamento del 5 dicembre del 1994. Questo rastrellamento io direi che è stato un rastrellamento politico guidato, pilotato da una spia, questa spia era un partigiano, è andato in mezzo alle SS e lui l’ha pilotato, praticamente lui sapeva tutta Anzola com’era messa, tutte le famiglie, le basi partigiane. Chi erano i partigiani e lui piano piano questo rastrellamento l’ha guidato, l’ha pilotato e l’ha accompagnato per tre, quattro giorni, chi non era dentro il rastrellamento è andato a prenderlo a casa. Noi eravamo tra quelli che hanno preso, perché il mattino si andava a lavorare. Sono arrivati all’improvviso.

Noi si sentiva qualcosa di diverso, sentivamo qualche abbaio di cani, ma era una mattina un po’ nebbiosa, un po’ piovosa, non era una bella mattina, però a quel momento devo dire siamo arrivati… siccome con questo documento che ci avevano dato in mano, secondo loro noi potevamo girare tutta l’Italia che eravamo in regola con questo documento firmato da Kesserling, noi forse non abbiamo badato a questo rastrellamento. Può darsi che fossimo anche fuggiti, però eravamo già messi in maniera che ormai di fuggire non era più tempo. Ci hanno presi su e ci hanno portati ad Anzola Emilia, dentro nelle scuole. Dentro nelle scuole hanno fatto questa retata di cittadini giovani, non più giovani, partigiani, non partigiani e li hanno portati in questa scuola che eravamo circa duecento. Alla sera verso le nove in questa scuola c’era una lampadina.

C’erano due tedeschi di dietro, c’era questa spia che ci mandava destra o a sinistra in modo che da una parte andavano a casa e dall’altra parte li tenevano. In quel momento noi siamo rimasti lì in sessantasette di Anzola e dopo un’oretta ci hanno caricati su due o tre camion, non ricordo, siamo partiti verso Bologna e siamo andati in Villa Chiara che lì c’era il comando della Gestapo e dopo tre o quattro giorni, hanno cominciato a fare questo processo. É per quello che dico, questo rastrellamento diventa politico per me perché era pilotato. Io, per esempio, sono stato preso un’altra volta prima del 10 settembre, però quello non era un rastrellamento, sono andato a finire a casa di un contadino e da lì sono riuscito a scappare. La differenza da quello a questo per me, infatti lo dice anche nelle condanne che loro hanno…

D: Scusa, lì in Villa Chiara vi hanno interrogato e processato?

R: Sì. Abbiamo avuto tutte le nostre condanne. Più o meno, loro hanno dato le condanne, però non si sapeva che condanne, perché abbiamo avuto anche delle persecuzioni, hanno dato dei calci. Hanno usato anche della violenza contro di noi, volevano sapere chi era qui, delle basi partigiane e tutte queste cose, ma in quel momento nessuno ha fiatato, magari cercava di tenere possibilmente il suo riserbo per non fare danno alle famiglie che erano rimaste fuori da questo rastrellamento.

D: Durante il rastrellamento hanno preso solo uomini o anche donne?

R: Anche donne. Quelle che avevano preso lì sono andate a prenderle a casa. Allora volevo tornare su Villa Chiara. Lì abbiamo avuto veramente il processo. Eravamo mica solo noi, eravamo più di duecento dentro, perché è molto grande. Questo processo è durato sette o otto giorni. C’era uno, interrogava però di dietro c’erano i picchiatori che magari pensavano loro di darci… magari per poter avere più informazioni di queste basi partigiane che ad Anzola c’erano state. Nonostante che avevano questa spia, però non erano convinti abbastanza e volevano anche sapere da noi magari quali erano le informazioni anche più sicure perché noi eravamo in zona, abitavamo lì. Dopo sette o otto giorni, finito questo processo verso l’11, 12 di dicembre, siamo partiti. Siamo andati in San Giovanni in Monte. Hanno portati tutti dentro a San Giovanni in Monte con dei catenacci avanti e indietro. Però si vedeva un po’ tutti, anche gli altri ragazzi, a un bel momento sono spariti una gran parte di questi ragazzi che erano stati processati con noi. Il 13 o il 14, non si sa la data precisa, sono partiti, sono quelli che hanno fucilato ….

La loro condanna è stata quella. Invece la nostra condanna era di venire, abbiamo capito poi dopo perché non è che a quel momento si sapesse dove si andava a finire, perché eravamo in mano sua, però nel momento che noi abbiamo avuto questa spia abbiamo dubitato qualcosa anche di grave, infatti, la condanna nostra era quella di venire in Germania. Però sempre questo viaggio ignoto, da Bologna noi siamo partiti il 23 dicembre e siamo andati a Verona, Verona, Bolzano.

D: Siete partiti con cosa?

R: Tre camion. Eravamo novantuno uomini e nove donne, cento persone.

D: Tutte di Bologna più o meno?

R: Sì, Bologna o provincia.

D: Quindi Vi siete fermati a Verona…

R: A Verona perché era giorno, viaggiavano di notte, loro viaggiavano solo di notte. Comunque tanti hanno avuto la fortuna che qualche partigiano, magari i partigiani li andavano a liberare, invece noi non abbiamo avuto nessuna… niente di questo. Siamo arrivati a Bolzano il 24, il 25 e lì siamo arrivati in questi campi. Però in quel momento non ci trovavamo in un campo di concentramento personalmente perché si vedevano i civili, si vedeva il comportamento non violento, si vedeva che chi aveva dei soldi magari poteva anche andare a comprare qualcosa. Con i civili qualcosa si poteva anche avere, però noi non avevamo nemmeno la valigia perché noi eravamo rimasti, ci avevano presi andando a lavorare, eravamo solo coi vestiti e questo continua, 7, 8, 10 giorni però non si sapeva da che parte…

D: Scusa Armando, quando siete entrati nel campo di Bolzano vi hanno dato un numero?

R: Per me agli uomini no, alle donne sì. Perché secondo l’altro, lui dice: “A me lo hanno dato”, allora ieri ci guardavamo e invece non c’è il numero degli uomini, l’hanno dato solo alle donne, si vede che loro avevano già un programma che loro rimanevano, invece noi dovevamo andar via da lì. Infatti siamo partiti dopo il 6 gennaio. Non so quanti eravamo, cinquecento o settecento non so di preciso quanti eravamo, ci hanno presi tutti e ci hanno portato alla stazione. Lì c’era un carro merci pronto per caricare il vagone. Avevo un fratello con me, come Le ho detto anche prima, io e mio fratello eravamo sempre assieme e allora in quel momento ci hanno messi su questi vagoni, sessanta ogni carro. Poco mangiare, niente da bere, poco di niente. Io in quel momento ho preso anche la febbre, non sono stato bene, forse era la commozione, non so come, debbo dire, perché allora avevo diciassette anni, non è che poi fossi tanto anziano, allora pensavo ai miei genitori o forse non sono stato bene durante due o tre giorni, però con mio fratello ci siamo rinfrancati. Lui aveva già un’esperienza di guerra, aveva fatto il soldato. Era già andato al fronte, aveva già un’esperienza e lui aveva sempre detto, è per quello che abbiamo aderito alla Resistenza, perché diceva: “Io alla guerra non ci voglio più andare. Se difendo, difendo i miei interessi, non quelli degli altri, la libertà mia, non quella degli altri”. Questo l’ha sempre detto ed è per quello che noi abbiamo fatto forse un atto contro i nostri genitori, diverso da quello che loro pensavano, invece noi pensavamo poi alla libertà di tutti.

Su questo mio fratello mi è sempre stato vicino e siamo partiti, durante il viaggio c’era con noi, mi ricordo che si chiamava… adesso non mi viene il nome, comunque diceva che se andiamo a Mauthausen a casa non ci andiamo più nessuno. Diceva cosa, Costa, mi è venuto, e diceva questo. Noi si domandava: “Cosa sai te di queste cose?” E invece lui diceva sempre: “Se andiamo a Mauthausen…” senza dire dove l’aveva imparato o no. E arriviamo proprio alla stazione di Mauthausen, eravamo in vagone assieme, perché nel vagone ce n’era più di uno. Dice: “Se non viene la Liberazione, noi qui in Italia… e non sapranno nemmeno da che parte saremo”. Io mi sono messo a piangere. E poi dopo siamo saltati giù.

L’aspetto del paese di Mauthausen. C’era la gente, quando hanno visto noi, scappavano tutti via. Ho detto a mio fratello: “Guarda che aspetto noi diamo a questa gente, cosa siamo noi nei loro confronti. Cosa vuol dire questo fuggi, fuggi, guardavano qualcosa, cosa siamo nei loro confronti! O siamo delinquenti o qualcosa del genere”. Infatti loro ci hanno sempre considerati nella politica del razzismo che noi eravamo avversari, non abbiamo aderito alle truppe alleate quando sono venute là, che prima eravamo alleati, però noi siamo stati degli avversari anche politicamente. Ma allora non è che si sapesse cos’era il comunismo o il socialismo, più che altro abbiamo avuto tante riunioni che venivano… però parlavano sempre di questa libertà perché la Resistenza non è stata fondata solo dai comunisti e dai socialisti, c’era tutto il popolo, era il corpo di Liberazione che era tutto il popolo che diceva cosa si doveva fare per essere liberati da questo. Questo è un esempio dell’impatto quando siamo arrivati in questo paese.

Pian piano andiamo su per la mulattiera, tutti pieni di fango, era il 12 o il 13 gennaio con un freddo, poi eravamo vestiti senza paltò, senza niente. Allora mio fratello mi diceva: “Vedrai…”, anzi direi che molti di noi lo pensavamo, perché quando presero l’8 Settembre i militari, li portavano in Germania, però si sapeva che andavano a lavorare. Invece anche loro hanno fatto… comunque noi si sperava di andare ad un lavoro. Allora andiamo su con queste SS con i cani, che se si sbagliava… eravamo già stanchi, perché quattro o cinque giorni con poco da mangiare avanti e indietro, però l’esperienza mi dà anche questo, che loro, secondo me, facevano questa cosa perché, saltando giù dal treno, eravamo deboli, non c’era una reazione di una fuga, di qualcosa perché eravamo tutti deboli, in maniera che nessuno aveva il coraggio magari di fare una … le hanno studiate tutte queste cose per riuscire bene nel loro programma, andiamo e arriviamo. Quando si apre il portone, ecco, io e mio fratello ci siamo abbracciati e abbiamo detto: “Ma qui è la fine del mondo”.

Vedere questo spettacolo, tutti questi prigionieri, tutti così magri, poi c’era qualche morto qua e là. Chi chiamava aiuto. Mi ricordo che sotto a Mauthausen c’è un muro dove ci sono delle catene e c’erano due o tre che chiamavano aiuto, legati alle catene. Aveva ragione Costa quando diceva: “Se andiamo lì forse non riusciremo più nemmeno a ritornare” e ci siamo abbracciati tutti e due e poi ci hanno messi in fila e pian piano abbiamo fatto tutto il giro. Il primo ti toglieva i vestiti, il secondo ti depilava e poi al terzo stadio ti segnavano un numero e poi ti facevano una fotografia a mezzo busto.

Questi erano i tre stadi, il quarto è quello di andare a fare la doccia. Là tutti assieme e poi si veniva fuori con due zoccoli. Anche lì bastonate, due zoccoli con un panno in spalla, non il vestito, un panno in spalla. E in mezzo alla piazza c’era un freddo! Allora io mi ricordo che con mio fratello pensavamo: “Cosa abbiamo fatto per venire qui, cosa abbiamo fatto di male?” Si diceva. Comunque l’abbiamo purgata abbastanza bene. Dopo due o tre ore arrivano. Ecco il numero. Ci danno il numero con il vestito, perché loro dovevano cucire, attaccato alla giacca e poi i pantaloni. E siamo partiti, lì siamo stati fermi un’oretta, neanche, e siamo andati per un’altra scala e ci hanno portato alla quarantena.

D: Armando, il tuo numero te lo ricordi?

R: 115523.

D: Ascolta, assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: No, il triangolo è quello lì, attaccato al numero, il triangolo è rosso, solo che era un po’ sbiadito, l’ho lavato, l’ho messo a posto, però man mano che si consuma, era da tanti anni…

D: E lì ti hanno mandato poi alla quarantena.

R: Alla quarantena eravamo tutti … l’impatto è stato questo, che era pieno in una maniera! Ci siamo messi in mezzo ad un baracca larga come da qui a lì, a dei materassi, sei per ogni materasso. Era lunga 100 metri, eravamo cinquecento, seicento, settecento noi, tutti in fila come le sardine. Qualche volta si divertivano: il Kapò da una parte e uno correva sopra di noi. Correre un Kapò e in due si correva e se uno si lamentava, chiamava aiuto, davano delle grandi legnate. Chi prendevano, prendevano. Questo è durato … perché lì a Mauthausen è un campo che prende la manodopera e la dà fuori e la manda in questi altri quarantotto sottocampi, non è che vadano là, muoiono lì. Man mano che le fabbriche volevano della manodopera e Mauthausen dava questa manodopera, di carne umana che eravamo noi, le cavie. Lì siamo stati fermi un venti giorni, però durante questo periodo non è che si lavorasse… si lavorava saltuariamente, però più che altro ci facevano tribolare. Alzarsi alla notte, se uno faceva dei rumori in mezzo alla piazza anche se pioveva, nevicava, bagnava, non bagnava, era uguale Loro si divertivano anche a fare questo. Per loro era un divertimento, ma per noi era un grande sacrificio, anche psicologicamente era una cosa che quando sto pensando delle volte, dico: “Io non saprei come ho fatto a venir fuori da questo coso”. Comunque siamo riusciti e abbiamo fatto questi venti giorni, più o meno e da lì mi pare che una mattina siamo partiti un bel gruppo e lì eravamo assieme io e mio fratello.

Torno indietro un passo. Io ho compiuto gli anni a Mauthausen il 23 gennaio, sono arrivato il 15. Mio fratello in quel momento non era lì. Dopo un pezzo arriva, “Oh”, dice, Armandin compi gli anni oggi?” “Sì”. “Guarda mo’ qui”, eravamo in mezzo alla piazza, “Guarda mo’ qui in che condizioni compi gli anni”. Ci sono stati tanti morti e poi chi chiamava aiuto, chi bastonava, era un delirio. Gli dico: “Io li compio oggi, tu li compi il 20 luglio. Tu non so in che modo li compirai e che terra pesteremo in quel momento”. Ci siamo andati ad abbracciare e poi abbiamo fatto un gran pianto, perché pensavamo ai nostri genitori, che loro non sapevano questo viaggio che si faceva, in che condizioni eravamo, voglio dire questo. Da lì, verso il 2 o il 3 di febbraio fanno questo gruppo perché …. a 5 chilometri e noi siamo partiti a piedi, siamo andati a … so che sono due campi e in mezzo c’è la divisione. In quel momento mi hanno diviso da mio fratello. Questo per me è stata la cosa che non posso dimenticare questa cosa perché eravamo più che fratelli, poi anche dal lato umano. Delle volte uno aveva qualcosa, magari aveva preso delle botte e aveva bisogno di sfogarsi, non avevi nessuno al quale potevi riferire queste cose, questo malumore.

In quel momento mi sono stato …. e andiamo in baracca e cominciamo a… nel frattempo che sono fuori, senti anche questo è un atto di fortuna, dice: “Non dire che sei un contadino, digli che sei un meccanico”. Di corsa, un italiano che è passato lì, perché quando ha visto che eravamo italiani, ha detto: “Non dite che siete contadini, siete dei meccanici”. Allora andiamo dentro, arriva un tedesco, non capivo niente, che avevo già il sangue che mi andava in fondo ai piedi. Dice: “Italiani… meccanico”. Al mattino dopo partiamo in treno perché … rimane sotto … e … te sai che si andava in treno coi vagoni merci. Si parte, si va a questa stazione che era distante, 500, 600 metri, a piedi sempre a piedi. Mettevano un centinaio di prigionieri ogni vagone e poi dopo uno fischiava. Chi andava su rimaneva… lì non c’era niente. Mi ricordo una volta che ho cercato di dare una mano a uno per venir su, mi è arrivata una legnata qui sopra e mi ha spaccato il labbro qui, che ho pianto. Non si poteva aiutare. In quel momento diventa difficile anche per noi il lato umano, non si era più … però se avevi un italiano vicino, un fratello vicino, quando riuscivi magari a collegare il discorso, qualche cosa poteva aiutarti per il morale e tutte queste cose. Andiamo in questa fabbrica, tu sai quanti chilometri di galleria aveva e poi, prima di arrivare lì anche questa strada, perché si saltava giù 500 metri prima.

Questa strada tutta piena di fango, sempre continuamente si doveva girare, non potevi andar sui margini perché arrivavano coi cani, con le botte. Sempre fango, era un delirio. Arriviamo in questa fabbrica. Dopo sei un numero, l’avevo imparato un po’ abbastanza nei venti giorni che siamo stati su a Mauthausen, avevi imparato il numero.

Il tedesco non lo so nemmeno ancora, però un po’ lo capivo. Mi chiamano, mi mettono vicino … dico: “Meno male che almeno siamo coperti dal fango, dalla pioggia, dal freddo”; era abbastanza caldino. Mi fa partire una macchina elettrica, io dico: “L’ho vista”, era una sega, so che tagliava i tubi. Metto giù la mano, trovo l’interruttore, proprio l’ho preso al volo. Non ho mai più avuto problemi con loro perché lì dentro magari il lavoro non era faticoso, era noioso, però non era faticoso. Primo non avevi i Kapò ai calcagni, ce n’era uno ogni cento metri, però nelle baracche invece ne avevi tre, erano continuamente in giro, invece lì non avevi … e poi avevi la protezione dall’acqua, dal freddo…

D: Quando tu dici sono stato lì in fabbrica, ma queste fabbriche erano quelle dentro le gallerie?

R: Sì.

D: Lavoravi nelle gallerie?

R: Lì si lavorava intorno e si facevano degli aeroplani. Nel nostro banco si saldavano dei tubi, le misure, si sbavavano e poi c’erano i saldatori che, man mano che noi si provava, li mettevano e poi saldavano, non so cosa facessero. Questi saldatori sapete quant’acqua hanno … per noi a rischio, perché l’acqua era avvelenata. Non si poteva bere e non davano l’acqua loro. Era avvelenata, veniva il tifo. Allora bisognava stare attenti anche a questo. Durante questo lavoro, col tegamino a rischio, si dava ai saldatori con la fiamma ossidrica la scaldavano e tutti sentivano questa bollente, ti sentivi bene. Il lavoro non era molto pesante, era … anzi tutte le mattine passava in ingegnere austriaco. Veniva da fuori perché la fabbrica era gestita da civili. Allora questo ingegnere veniva da fuori e passava, non ha mai detto che ho sbagliato qualcosa. Guardava, ogni tanto diceva: “Italiano gut”. Andava bene perché il lavoro non era poi così difficile. Le misure con tutti i suoi stampi, ho sempre incontrato … questo voglio dirlo forte e piano, questo tedesco per me era anti hitleriano. Era una brava persona, perché si confidava. Noi avevamo giorno per giorno la cosa della guerra e lui veniva dentro, era amico con uno, non so se era un tedesco, non so cosa fosse e lui gli dava le notizie del fronte della guerra. Questo era per me uno degli uomini, posso dire anche sul lavoro non ha mai detto niente a nessuno di noi, veniva dentro… poi andava via. Si vede che … l’unico che potrei dire che è stato un tedesco buono.

Vado avanti con la fabbrica. In un giorno si doveva fare un aereo, perché 12 o 14 chilometri di gallerie tutte attrezzate, alla fine veniva fuori un aereo. Fuori c’era il collaudo. Man mano che andavano su, nove su dieci venivano mitragliati dagli americani e venivano messi giù un’altra volta. Ma loro andavano avanti lo stesso. Comunque lì si stava, forse anche la gioventù, ma lì forse mi ha salvato la vita. Mi ricordo uno che era con noi, loro adoperavano tutte le cattiverie per demoralizzarti, per andare in bagno dovevi domandare al Kapò, delle volte ti facevano andare sopra una scalinata che era un freddo da cani anche se pioveva, nel frattempo che vado sopra di lì trovo un nostro amico di Bologna, si chiamava Bruna. Mi fa: “Gasiani, come sei magro”. Gli dico: “Ma tu ti sei guardato? Sei l’ombra”. Sono andato per un bel po’ di tempo, dopo pochi giorni non l’ho più visto, si vede, lavorando fuori alle gallerie, alla pioggia, ma scherzi? Era un lavoro… Era il mangiare che non c’era, non era tanto il lavoro, la fatica, ma era il vitto che era poco, le sostanze che erano poche che non potevi tirare avanti.

Un fisico ha bisogno delle sue sostanze per sopravvivere, sennò … e poi man mano che si andava avanti, calava sempre il menù del mangiare. Perché? Perché a Mauthausen arrivavano quelli dei campi che sgomberavano da Dachau, Auschwitz. A Mauthausen non saprei quante migliaia c’erano e il mangiare era quello che era e calavano sempre. Invece di dartene un litro, te ne davano tre quarti, poi il pane, invece di dartene un etto e mezzo, te ne davano un etto, la margarina mai più. Calavano anche e il lavoro, uno che lavorava fuori era molto pesante, allora ci volevano delle sostanze molto buone. Il lavoro non era… però il Kapò era cattivo, era cattivissimo. Tutte le sere che noi si veniva fuori, si dovevano caricare i morti che morivano dentro o che facevano morire. Perché bisogna dire anche questo, o che li mettevano in un forno, o che li impiccavano o che li ammazzavano di botte, tutte le sere ogni tanto toccava anche a te. Chiamava il numero, non dovevi mica rifiutare. Quando chiamava il numero non sapevi mai cosa dovevi fare, andare incontro a questi Kapò o alle SS dovevi ascoltare quello che dicevano, se indovinavi a capire bene, sennò erano dei guai. Alla sera si caricavano tutti questi morti che venivano durante le dodici ore di lavoro e si portavano al treno per portarli nel campo Gusen che lì c’era il forno crematorio che magari li cremavano. Direi di fare un appunto, questa è una cosa molto … il Kapò era molto cattivo.

Lo spiego questo perché una cosa che è capitata e sono andato vicino alla morte in questo caso. Lui aveva la corda, il banco delle bastonate, lo sgabello. Una mattina era un giorno che avevamo dormito poco perché siccome lì si facevano dei turni di dodici ore e si cambiava turno, allora quando si lavorava di giorno, si andava in baracca di notte e qualcosa riuscivi magari a riposare, ma quando di notte andavi suonava sempre l’allarme. Non è che se tu dovevi riposarti, ti lasciavano riposare, ti mandavano fuori sotto a quella montagna dove c’era il , c’era una galleria, ti mandavano su. Da noi, andare da Gusen 1 a Gusen 2, ci saranno stati 500, 600 metri e ci mandavano. Quando c’era l’allarme tu dovevi stare fuori. Un giorno non abbiamo chiuso occhio. Allora quel giorno … adesso abbiamo interrotto. L’allarme non è finito e siamo andati a lavorare al mattino. Ti puoi immaginare, ci alzavamo alle quattro, quattro e mezza e si andava al lavoro e in quel momento andare dentro in questa galleria un po’ il caldo, un po’ la stanchezza, io mi sono messo lì… così. Il Kapò mi ha visto, è corso di volata lì … me ne ha dette, di qua e di là avevo un russo e un polacco, mi hanno dato un colpo, perché loro si sono immaginati che veniva contro di me perché avevano visto la mossa. Però un colpo da non credere… questi due ragazzi parlavano un po’ il tedesco, chissà loro erano riusciti a capire o che lo sapevano prima perché erano prigionieri anche da prima, si vede che loro avevano capito, io no. Parlavano con questo Kapò e dicevano: “Non è vero” e mi hanno portato fino al suo banco. … Questa era stata la cosa più umana che nella vita abbia avuto da gente che non conoscevo, questi due ragazzi che cercavano di tirarmi indietro e poi piangevano in un modo proprio di compassione, un modo umano. Lì c’era lo sgabello e la corda, ero vicino allo sgabello e la corda era alta così, era in terra lo sgabello e di là c’era lo sgabello da appendere, il bastonato anche portare alla fine della vita perché non aveva remissioni quello lì. Ad un bel momento, continuavo a piangere, loro hanno fatto proprio così… penso che sia venuto solo io indietro, penso che sia solo io venuto indietro da lì. Nessuno ha mai visto tornare indietro. Li hanno sempre finiti.

Questo lato umano si vede che nel momento … e i ragazzi quando vado a scuola me la domandano questa cosa, il perché. Io ho i miei dubbi che lui l’abbia fatto umanamente. Secondo loro dovevano bere quando venivano in officina, avevano un mezzo litro di grappa, loro dovevano avere, perché non si può infierire su una persona che non ti ha fatto niente così terribilmente a bastonate o finirlo. Lui secondo me, il mio giudizio, non aveva bevuto, era sano di mente e si è sentito … il lato umano in questo caso l’ho capito in questo modo, lui non aveva bevuto, perché sennò non si scappa. Quando ti prendevano erano feroci in una maniera che lo deve vedere per credere … che facevano sulle persone, quando le prendevano in che modo le facevano finire. Bisogna vedere queste cose per capire. Questo lato ai ragazzi dico: “Per me è stato un attimo di compassione”. Avrà detto: “Vivrà cinque o sei giorni, poi morirà da solo”, perché eravamo già alla fine di marzo.

Con questo io direi di aver finito qui, andiamo avanti ancora? Questo il campo e poi il ritorno. Il ritorno…

D: No, aspetta. Quindi ritornavi a Gusen 2 e alla Liberazione dov’eri?

R: Viene dopo.

R: Adesso torniamo al ritorno della fabbrica. Come ho detto prima chiamavano delle volte il mio nome per caricare questi morti per portarli nella baracca perché là c’era il forno crematorio per poterli bruciare. Ma quando si entrava dentro questa piazza, non è che facessero subito in modo per andare a riposare, mancava sempre qualcuno. O lo facevano perché mancava, o lo facevano per diminuire le ore di riposo, qualcosa che per noi era molto grave perché eravamo stanchi anche dodici ore e poi al mattino tre ore prima e poi andando avanti le ore cominciavano anche ad essere molte, in piedi e non finiva mai. Poi quando si rientrava c’era la barba, la riga dei capelli si dovevano fare tutte queste cose e dovevi stare in fila che molte volte dormivi… si riposava molto poco. Questo è il rientro, perché loro non riuscivano mai a trovare il conto che volevano, secondo me era una scusa sempre per diminuire, tanto la nostra vita in questo campo doveva durare dai quattro ai cinque mesi al massimo e dare più la possibilità di guadagno, di manodopera e noi come durata era questa. Perché il loro compito era questo qui, noi eravamo dei politici, degli avversari, allora noi dovevamo finire in questo modo, finire in una tragedia molto triste.

Bisogna aver visto queste cose per capire, perché anche spiegando, andremo dopo, cinquant’anni di silenzio che ho passato senza dire queste cose, però queste cose caricano in un modo la persona, che, saltando fuori da lì, non è che poi sia… è una cosa eccezionale, non so come sia che sono riuscito a saltarne fuori. Quando vado con i ragazzi, vedo questo qui, mi domando: “E’ tutto di guadagnato dal ’45 in poi la mia vita è tutto di guadagno”. Nonostante adesso che sto parlando è ancora meglio. Questa è stata la giornata che ho spiegato anche nel mio libro, delle mie esperienze, della mia testimonianza e arriviamo alla Liberazione.

La Liberazione è avvenuta il 5 maggio, però erano quattro giorni o cinque giorni che non si andava più a lavorare. I Kapò non c’erano più. A noi hanno detto che i Kapò li hanno fatti fuori i tedeschi a Gusen 2, li hanno fatti fuori loro, però di sicuro non so. Non c’erano, c’erano tutte le guardie, si erano cambiati i vestiti, dalle SS si erano messi i vestiti del Wermacht, tutti cambiati, si erano cambiati di divisa tutti i militari. Quando il 5 maggio era una giornata abbastanza bella, io mi sono messo da una parte vicino a un muretto perché io ormai ero agli estremi, perché se mi metto in mischia qui rimango schiacciato come tanti dopo. Stavo verso le 11 così, vedo una strada lunga 200 metri, vedo un’autoblindo con questa bandiera che arrivava. Tutti contenti e sono andati tutti perché le SS erano di fuori, da noi, erano nella villa fuori dal campo, erano lì tutti i capi della SS, allora tutti, io no, sono corsi vicino a questa rete, perché eravamo ancora chiusi e loro quando sono arrivati hanno domandato chi erano i responsabili. Uno ha tentato di fuggire, l’hanno fatto fuori, gli hanno sparato e l’hanno fatto fuori. Poi il resto hanno detto: “Questo, questo” e ne hanno presi sei o sette, li hanno caricati sull’autoblindo e poi hanno detto con il microfono che c’era chi spiegava, “Gli ammalati vadano negli ospedali che noi arriveremo poi per curare, perché adesso dobbiamo mettere a posto tutte le cose”.

Dopo mezz’ora capita questo, mi giro verso la cucina, ho visto uno spettacolo mai immaginabile. Tutta questa gente che andava a prendere qualcosa. La fame è brutta, si sono dati tutti ad andare a prendere qualcosa e come una valanga. Chi rimaneva sotto rimaneva schiacciato. Finito questo, dopo due ore non c’era più niente. Io non so quanti morti che ci saranno stati là sotto, chiamavano anche aiuto ancora i viventi. Io non giravo perché ero lì messo in una maniera che non giravo più, però sentivo, eravamo distanti 150 metri, ho visto bene questa scena. Io prima ho riso quando sono arrivati gli americani, ma in quel momento mi sono messo a piangere e ho detto: “Guarda in che modo vanno a morire proprio all’ultimo momento”. Quando sono crepati dal mangiare un po’ in fretta.

Ecco questa è la Liberazione e nel frattempo che ero lì, sono arrivati degli italiani che venivano da Gusen 1 e ho cominciato a fare indagini per mio fratello. Infatti trovo uno e mi dice: “Tuo fratello c’è ancora, è vivente e ti cerca”. Ma c’erano tante migliaia di persone, andare a sapere, poi c’erano due strade, una a destra e una sinistra. Bisogna vedere se uno ha preso quella sopra o quella sotto, l’abbiamo cercato un bel po’, ma non l’abbiamo trovato. Il giorno dopo arrivano cinque o sei bolognesi fra i quali Corazza, e ci siamo uniti a loro e abbiamo deciso di venire a Linz a piedi. Abbiamo girato un paio di giorni, in quel momento mi è venuta una dissenteria che non stavo più in piedi. Allora Corazza è andato in mezzo alla strada, si sentiva una motocicletta arrivare. Infatti arriva, era un inglese. L’ha fermato, cercava di farsi capire, io ero messo in condizioni… diceva: “Sta morendo”. Mi ha caricato e mi ha portato a Linz vicino all’ospedale. A 50 metri dalla porta alle 9 di mattina mi sono accorto che era ancora buio, non mi sono mosso. In quel momento ho detto: “Sarà meglio che provi ad andare a bussare da qualche parte”. Lui mi ha scaricato lì, perché si vede che lui aveva fretta e ha detto: “Adesso poi si arrangerà anche lui”.

Ho visto questa porta dell’ospedale, sono andato ad aprire. Due infermieri mi hanno preso a braccio, mi hanno fatto fare il bagno, mi hanno messo a letto, mi hanno dato qualcosa da mangiare, ma è stata roba da poco. Comunque è stata un’accoglienza buona, però si moriva anche lì. Ti davano da mangiare poco, poco serviti, perché forse avevo bisogno anche di medicine che loro o non avevano, o eravamo già, come ho detto prima, noi italiani eravamo ancora forse sotto il mirino dell’odio, perché eravamo un po’ odiati. Dopo 4 o 5 giorni passa la Croce Rossa. Davano un po’ di zucchero, un po’ di cioccolato e poi ci faceva firmare un librone grosso così. Sfoglio, scrivo, c’era anche un italiano, dice: “Hai un fratello qui?” “Sì”, allora sfoglia, era mio fratello. Ma dov’è, dove non è. Ho domandato, “Se vieni giù te lo insegniamo”. Io vengo giù, non giravo, facevo fatica ad andare in bagno. Allora dopo che ho firmato, mi hanno dato questa roba, mi fanno andare fuori dalla porta dell’ospedale. Saremo stati in linea d’aria a un chilometro e mezzo. “Meno male, come sta?” “Sta meglio di te”. Il morale c’era, dico: “Andiamo bene, ci salviamo tutti e due”. Passo questo, qui si muore lo stesso, qui non si vive. Passano tre o quattro giorni, passa una crocerossina di Trieste, sembrava mia mamma. C’era un professore, hanno detto che era un russo e l’autista. E dice: “Se volete venire con noi, noi abbiamo preparato una gran baracca e vi daremo da mangiare e da curare per potervi mandare ai vostri paesi”. “Se mi date una mano, vengo giù”. Infatti mi danno una mano, andiamo su questo camion, eravamo una trentina e ci portano dentro una baracca, saremo stati in duecento o forse più, ognuno con il suo lettino, il lenzuolo. Sembrava tutto un altro mondo. Poi ha cominciato a darci da mangiare sei volte al giorno e una puntura un giorno sì e un giorno no. Ogni puntura che mi facevano, io mi alzavo che andavo avanti così.

Dopo sette o otto giorni dico: “Adesso vado a trovare mio fratello”. Una mattina dico al professore: “Guardi che io vorrei andare a trovare mio fratello che è qui e lo vorrei prendere, è qui a un chilometro e mezzo”. Mi guarda il professore: “Non è che sei messo male, ma quanto ti ci vuole?” “Io penserei in giornata di farcela”. “Ma vai, vai”. Allora parto, avevo un passo discreto, mi ero messo abbastanza in forza come energia, però come chili no. Parto. A 500, 600 metri c’era il comando americano. Mi chiedono: “Dove vai?” “Niente, voglio andare a trovare mio fratello che è là”. “Qui i prigionieri dei campi di concentramento non possono girare”, c’era una malattia che avevano paura che infettasse magari i cittadini. Prova una volta, prova due, prova tre. Non c’è stato niente da fare.

Una volta c’era un italiano gli dico: “Vallo a prendere tu”. “Non possiamo muovere nessuno se non hanno l’ordine di andare a casa”. Loro dopo si divertivano, quando mi hanno visto, si divertivano a venirmi a prendere, mi davano della cioccolata, allora fumavo qualche sigaretta e mi facevano le fotografie. Mi piacerebbe avere quelle fotografie, ne avranno fatte migliaia. Tre o quattro volte sono venuti a prendermi e poi mi chiamavano “la morte vivente”. “Non abbiamo mai visto uno così brutto vivente, proprio pelle e ossa e basta”. Mi chiamavano “la morte vivente”. Passa questo, non sono stato capace. L’unica cosa che mi è dispiaciuto è questa qui per mio fratello, di non potergli dare una mano, poter riuscire a venire lì. Secondo me se veniva lì può darsi che riusciva anche… ma dopo che sono arrivato a casa è venuto uno di Imola che aveva una lettera scritta da lui che diceva che era impossibile per il momento venire in Italia perché era in condizioni non molto belle. É stato lì a mangiare con noi, eravamo una famiglia di ventidue, poi siamo andati fuori. “Vedi adesso come sono, ero là anch’io, tu mi dici la verità”. Mi ha detto: “Tuo fratello quello che mangia non tiene dentro più niente. Sarà difficile che rientri. Secondo me la tubercolosi lo ha ammazzato completamente”.

Se non c’era una cura subito dopo, allora questa era stata la malattia che l’ha stroncato e questo è finito…

D: Armando, tu invece…

R: Il ritorno.

D: Quando sei rientrato?

R: Allora torniamo sul ritorno. Finito questo io sono stato lì un bel po’. Sono partito il 24 giugno che ero in condizioni abbastanza… ho domandato al professore: “Posso andare via?” “Ma sei tanto spiritoso che ce la fai”. Ho fatto una fatica. Partiamo, mi caricano in camion e mi portano alla stazione e là c’era un treno merci. C’erano sei, nove lettini per ogni vagone, si stava da Dio, poi l’assistenza, c’erano i dottori, c’era la Croce Rossa, c’era tutta l’assistenza per poter fare questo viaggio e partiamo. Un treno lunghissimo. Nel primo tempo tutti urlavano, quando il treno è partito ci siamo messi tutti a piangere per la contentezza di sentire il treno, di tornare e siamo arrivati a Bolzano dopo quattro o cinque ore. A Bolzano ci siamo fermati due giorni. Anche lì sono andato all’ospedale, lì c’è poi anche quell’affare che mi hanno dato e poi da lì quando siamo arrivati eravamo in maniera anche già… io sono stato all’ospedale poche ore. Mi hanno detto: “Tu puoi andare, non hai niente, puoi girare, puoi andare a prendere da mangiare e lì c’era tutta roba in bianco, tutta roba di riso”.

Per il microfono dicevano: “Se uno ha fame o qualcosa, venga qui e gli diamo il buono”. Allora non andavo a prendere il buono, dappertutto dove andavo, mi davano qualcosa. Avevo una valigetta grande così piena di pane di riso. Dappertutto me ne davano perché dicevano: “Questo è uno che ha fame veramente”. Lì sono stato benissimo perché ho mangiato abbastanza bene, però non ho sforzato tanto, me l’hanno detto anche loro, non è che deve sforzare perché ancora lo stomaco, era già venti giorni o più che si mangiava un po’ di più, però bisogna stare attenti. Lì c’era tutto pane di riso. Finito questo, c’è una partenza per Modena, non per Bologna, per Modena, ma noi avevamo fretta di arrivare a casa per vedere la famiglia che non sapeva niente. Parte un’autocolonna di venti camion, nel nostro c’era un tedesco a guidare, dopo due chilometri ha cominciato a dire che il camion non andava. Eravamo una trentina su questo camion, nessuno era capace di guidare, perché sennò penso che lui non sarebbe tornato indietro. Perché eravamo tanto imbestialiti, l’odio viene da queste cose perché lui voleva tornare indietro. Arriva un americano con una jeep. E dice: “Gli altri sono già avanti tanti chilometri, com’è che siete qui?” “Non vuol portarci avanti perché ha detto che il camion non va”. Gli punta la pistola dice: “Parti”. Allora è partito e siamo riusciti ad arrivare dietro gli altri. Quando siamo arrivati a Modena, c’era il campo di quarantena e noi eravamo in due e non siamo voluti andare. Abbiamo detto: “Vogliamo andare per la strada, troveremo ben qualcosa da poter…” Erano le 11 di notte, finalmente passa un camion carico di carbone. Uno con l’autista e io sopra il carbone, tutto nero. Arriviamo a Castelfranco. Lui doveva fermarsi, passa un altro, era carico di gesso. L’autista lo conosceva, si chiamava Luppi. Mi ha detto: “Ma sei tu?” Come dire che prima mi conosceva. Dico: “Sì, sono io”. “Salta su”. Anche lì perché ero più leggero mi mettono sul gesso e tra nero e bianco, tra il pelo della barba, perché a diciotto anni si ha la barba, tra la riga, tra lo sporco, avevo un giaccone tutto sporco.

Prima di Anzolo ci mette giù. Poi noi due piano piano siamo partiti. Ad un certo momento ci fermiamo su un argine, c’era una montagnetta e lì abitava una famiglia che erano sfollati a casa nostra. Sente la voce e mi chiama per Serafino. “No, dico, sono Armando”. “Aspetta che ti porto a casa io con la bicicletta”. Viene giù, erano le due e mezza di notte e andiamo a casa mia. Quando sono arrivato a casa, la debolezza, si vede, c’era la casa che sembrava grandissima, le siepi alte, la strada larga. Si vede che la debolezza che avevo addosso, la vista la faceva grande. Suono, dice: “Chi c’è?” “Guarda che ho portato a casa Armando che è arrivato dalla Germania”. Vengono giù, erano in ventuno, il ventiduesimo sono io. Allora non c’era la luce, c’erano le candele o i lumini a petrolio. Cominciano a guardare, ma no, e poi avevo perso la voce che non parlavo, parlavo male perché tra l’aria, il viaggio, avevo perso la voce. Non avevo la voce. Non mi conosceva. Io dicevo: “Sono io”, si vede che ero proprio brutto più del normale, così magro, sporco, avanti e indietro. Ha capito la mamma. “Anche voi”, allora si dava del voi alla mamma, “anche voi non mi conoscete? Sono vostro figlio”. “E Serafino è arrivato?” “No”. Sono rimasti male che non era arrivato, comunque pensavo che fosse arrivato. Mangiamo un po’, mi lavo un po’. Dopo arriva il dottore, arriva dopo un’ora, un’ora e mezza. Era il mio dottore di condotta. Dice: “Dove sei andato? Cosa hai fatto?” “Niente, è capitato un tragitto così, così”. Ho spiegato. Mi ha visitato. Ha detto: “Io non trovo più niente qui. Ti trovo esaurito in una maniera, disfatto”. Lui mi ha cominciato a curare e pian piano ho cominciato a mangiare, in un mese sono cresciuto otto chili. Io penso che fossi sempre dietro a mangiare. Passa questo, vado alla visita del dottore, perché dopo sono stato via altri due anni. A questo campo di concentramento all’arrivo ero malato di polmoni, il dispensario ad un certo momento dice: “Guarda che c’è un viaggio per malati dei campi di concentramento in Svizzera. Se vuoi andare, c’è un posto anche per te”. Allora mio babbo dice: “Sei tu che devi guarire, io penso che tu fai bene ad andare”. Sono andato in Svizzera, sono rimasto là due anni lontano dalla famiglia e questo dottore svizzero faceva per i prigionieri dei campi di concentramento, per curare mille persone. Io sono andato in questo… Da allora non ho mai avuto dei problemi come salute. Veramente sto bene.

Allora per i cinquant’anni… andiamo avanti?

D: Cosa volevi dire dei cinquant’anni?

R: Il silenzio. Forse lo volevo dire prima, va bene anche adesso?

D: Sì.

R: In casa con gli amici di questa tragedia non si poteva parlarne, perché io praticamente non ero io che ero disponibile troppo a dire perché non riuscivo magari a dire. Anche i miei genitori, quando cominciavo a dire, per esempio: “Mi è capitato questo” dicevano “É impossibile”. Allora io emotivo, mi mettevo a piangere e mi chiudevo, fermo lì e soffrivo. Ho sofferto tanto per questa cosa. Anche gli amici, quando con gli amici eravamo ragazzetti insieme e cominciavo a raccontare “La guerra l’abbiamo passata anche noi” dicevano. “Questa non è una guerra, questo è uno sterminio che abbiamo avuto noi, non è una guerra. Io non sono diventato magro così ad andare al fronte, è stato in campo di concentramento, che lì si doveva morire e scomparire completamente”. “É impossibile”. Allora ti dava questo senso di non essere creduto e sono andato avanti per quarantotto, cinquant’anni anni sempre con questo. Io sono venuto a Mauthausen, ma io ho sofferto tanto a venire. Lo facevo anche per accontentare gli altri e poi anche per mio fratello che sapevo già che era morto, anche per andarci, perché se non andavo io, magari, cercavo sempre di mandare i miei fratelli per fargli capire queste cose e per cinquant’anni anni ho avuto questo terribile… io ho passato una gioventù silenziosa, monotona, vivevo da solo, la solitudine. Questa è stata… poi il cervello è rimasto bloccato. Chi mi ha sbloccato è un po’ mia moglie che ha cominciato a dire: “Vedi che per televisione cominciano a dire queste cose, perché non vai anche tu a dirle?” “Se riesco”. “La vita è bella” di Benigni mi ha dato la via d’uscita, “La vita è bella” di Benigni, quella mi ha dato il benestare, perché ho detto: “Finalmente al mondo c’è uno che ha detto la verità senza provocare delle fratture”, anche i ragazzini possono ascoltare e possono fare anche dei calcoli su quello che ha detto e ragionare, senza essere violenti. Da quel momento andare all’associazione, ho cominciato ad andare con Corazza alle scuole e adesso dicono tutti che sono diventato molto più giovane. Si vede che è scattato un meccanismo in me che è stato una cosa e sono contentissimo adesso. Sono l’uomo più contento del mondo.

Sordo Albino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sordo Albino, nato a Castel Tesino il 24/7/1924.

D: Albino quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato il 1 gennaio 1945 a Castel Tesino, in casa, perché era appena arrivata la sera e alla mattina …

D: Tu eri arrivato da dove?

R: Dal Pader perché lavoravo a Pader perché dopo lo sbandamento mi sono ridotto solo a Pader e la sera dell’ultimo dell’anno rientro a casa…

D: Ma chi ti ha arrestato? Erano italiani o tedeschi?

R: Tedeschi, tutti tedeschi.

D: E ti hanno accusato di che cosa?

R: Di essere partigiano.

D: E tu eri partigiano?

R: Sì.

D: Con quale formazione?

R: Quella…, sono passati tanti anni, l’unica formazione che c’era qua nel tesino che veniva da…

D: Da via Glenda?

R: Sì, che la comandava il comandante Cumo.

D: Il tuo nome di battaglia qual era?

R: Nina.

D: Perché Nina?

R: Perché era la morosa.

D: Quando sono venuti in casa e ti hanno arrestato, dove ti hanno portato?

R: Ho visto che passano i tedeschi e allora ho guardato la porta della casa e ce ne erano due sulla porta della casa e allora ho chiuso la porta della casa e sono andato nella sala, ho aperto la porta della sala e ce ne erano altri due.

Mi hanno arrestato e mi hanno portato in municipio e là mi hanno fatto l’interrogatorio, ho preso anche qualche bella legnata.

Là ho passato la giornata e mi hanno fatto l’interrogatorio come a tutti, eravamo in undici e mi hanno messo su un camion e mi hanno portato a Strigno, là a Strigno ci siamo fermati…e poi siamo andati a Roncegno, in piazza a Roncegno.

Là, il giorno dopo, sono venuti a prenderci due alla volta alla caserma e ci portarono giù.

La c’erano dentro diversi tedeschi tra i quali Egendat e altri.

Uno alla volta mi interrogavano…

Dopo di me andava dentro un altro; hanno passato la giornata a interrogarci tutti e poi tornavano e li portavano su dai carabinieri.

Si pregava, si bestemmiava e non si sapeva la fine che si faceva; dopo un giorno o due, non mi ricordo, mi mettono alla mattina presto sul camion, destinazione ignota e siamo arrivati a Bolzano .

D: Nel campo di Bolzano?

R: Nel campo. Ci hanno scaricati dal camion, c’era un po’ di confusione.

Dopo hanno cominciato a domandare quelli che era capaci di fare i calzolai, falegnami, elettricisti, sarti e allora io e il Marietto siamo andati in calzoleria.

Non si stava neanche proprio male; c’era un capo della calzoleria che era un veronese. Ho fatto un po’ di amicizia con il capo calzolaio e siamo andati avanti a sistemare…… gli zoccoli di legno.

Passava un mese e intanto facevano le partenze, ne hanno fatte due intanto che eravamo là: una è andata a Mauthausen , l’altra invece li hanno portati alla stazione, alla notte c’è stato un bombardamento e li hanno riportati nel campo, dopo quella volta non ne hanno più fatte perché la linea del Brennero era sempre rotta.

Quelli che avevano avuto la fortuna nostra, che orami eravamo alla fine della guerra, abbiamo fatto quattro mesi noi, e di partenze non hanno più potuto farne.

D: Albino ma la tua immatricolazione te la ricordi? Il tuo numero di matricola te lo ricordi?

R: 8048, mi pare che era.

D: E ti hanno dato anche il triangolo ?

R: Il triangolo rosso.

D: Ti ricordi il nome del tuo capo calzolaio, quello lì di Verona?

R: Era Veronesi di cognome, ma il nome…

D: Veronesi di cognome?

R: Veronesi di cognome, me lo ricordo sempre.

D: Albino, ti ricordi quando tu eri nel campo se c’erano delle donne?

R: Sì c’erano, c’era il blocco delle donne.

D: Ma c’erano anche donne della Valsugana?

R: Sì ce ne erano due della Valsugana, madre e figlia, che erano di Novaredo.

D: E altre donne invece non te le ricordi della Valsugana?

R: No.

D: Tu non te le ricordi Albino?

R: No. Di giorno si era sempre lì in calzoleria che si lavorava e la domenica, che non si lavorava e c’erano libere anche le donne nel cortile, però io ero sempre dentro in branda e non…

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini?

R: No, non ricordo di avere visto dei bambini.

D: Ti ricordi dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, di sacerdoti ce n’era uno di Castel Tesino, che lo avevano portato a Bolzano, però dopo quando eravamo arrivati noi era già partito per la Germania.

D: Come si chiamava?

R: Don Narciso Sordo.

D: E perché era stato arrestato lui?

R: Per la questione che diceva che era dei partigiani, che sovvenzionava i partigiani ma nessuno era sicuro, non si sapeva niente. In agosto del ’44 e in ottobre del ’44 è venuto lo sbandamento, il rastrellamento , hanno portato via diverse persone qua, bruciavano le case perché ….un certo Marietto che era il padre del Renata, che poi è passato comandante dei partigiani, perché prima c’era Cumo poi con il rastrellamento … Cumo è morto e allora ne hanno fatto un altro che era…, adesso non mi ricordo più il nome.

Dopo, verso primavere, è restato un gruppetto di partigiani qua della zona, tra i quali c’era questo Renato Menefreo di Castello.

E’ restato un gruppetto e allora quando c’è stato l’ Armistizio si è formato di nuovo il gruppo e c’era il commissario, uno di …, nome di battaglia Adeo, il comandante era Marietto Celestino che era Renato.

D: Albino, ma tu con don Sordo siete parenti?

R: No.

D: Non siete parenti?

R: C’era un altro don Sordo dopo che era nei partigiani, che il nome di battaglia era Corvo ed era un prete, che dopo io con lui ho fatto una staffetta dalla malga qua dentro di Rabbiosa a Pietena dove c’era il comando a Pietena.

Il comandante che è ancora vivo, abita a Varese, era un capitano degli alpini di Varese.

Dopo è venuto il rastrellamento. Io con questo Corvo siamo partiti da Pietena, siamo arrivati a Rabbiosa, ha detto la messa e poi siamo venuti a Castello che qua si faceva il voto, il famoso voto dell’8 ottobre.

Noi eravamo in diciotto al Castello, il prete è andato su in chiesa ma io non sono andato. E’ arrivato uno e dice: “Io arrivo adesso da Grigno e la strada è tutta di tedeschi che vengono in su”.

Io sono andato ad avvisarlo e anche il Marietto e siamo scappati via dall’altra parte; quella sera sono andato ad avvisare anche ……, che era via con il vice comandante che era Nazzari di nome di battaglia e siamo scappati in Val Busa che c’erano delle gallerie…

D: Albino a proposito di sacerdoti, ti ricordi nel campo, a Pasqua, quando è stata fatta la messa?

R: Sì.

D: Hai partecipato anche tu?

R: Sì, si partecipava.

D: Ma ascolta, è entrato questo frate, questo sacerdote a celebrare la messa e dove l’ha celebrata? Te lo ricordi?

R: Sul piazzale, là sul piazzale in piedi.

D: Hanno distribuito qualche immaginetta sacra quel giorno lì?

R: No, io non mi ricordo di aver preso delle immaginette sacre, no, non le ho viste.

D: Ti ricordi, quando tu eri a Bolzano, se hai visto azioni violente?

R: No, là nel campo no. Però avevo sentito dire che quando non si poteva più portare dal Brennero per andare in Germania, mettevano della gente sul camion e li portavano fuori, però io non li ho mai visti.

D: E nel campo tu non hai mai visto azioni violente?

R: No. C’è stata una sera che hanno fatto un bombardamento gli americani e avevano centrato il magazzino della mensa e là quelli che erano di guardia intorno al campo …sono venuti giù dabbasso, perché se no tentavano di scappare, non facevano scappare nessuno.

D: Ma ci sono stati tentativi di fuga dal campo?

R: Sì, avevano fatto anche un box sotto che passava, però non sono riusciti a scappare, sono stati scoperti prima. Perché non c’era da avere neanche tanta …, perché se avevi paura…, perché se li vedevano le spie li portavano ai tedeschi.

Dopo c’era il comitato dei comunisti, non si capiva più niente.

D: Tu eri nel blocco A?

R: Blocco A.

D: Ti ricordi il tuo capo blocco come si chiamava?

R: Ermanno Trasferini.

D: Gigi Novello, non ti dice niente questo nome: Gigi Novello?

R: Era partito Gigi Novello, prima.

Era il fidanzato della Cicci, ma non era nel blocco A, veniva dal blocco B o C.

Nell’A che comandava era Pasqualini, che se si avevano soldi si poteva comprare della roba.

D: Ma dai, si poteva comprare?

R: Scatolette di sardine, roba di vestiario…

D: Quando tu sei arrivato nel campo a Bolzano, nei giorni dopo hai potuto scrivere a casa?

R: No, no.

D: E neanche ricevere pacchi?

R: Sì, è venuta mia mamma e sua mamma del Marietto e un’altra, Donata, a portare i miei pacchi; dentro mi hanno portato il pacco e me lo hanno consegnato.

D: Come avvenivano le partenze? Te lo ricordi?

R: Li mettevano tutti in fila e poi passavano due, terzo…, tre, quattro, terzo…, avevano quel sistema là.

D: Ma tu ne hai viste di partenze?

R: Io ne ho vista una di partenza e dopo la seconda li hanno portati al blocco perché la linea era saltata.

D: Tu quindi sei sempre stato in calzoleria a lavorare?

R: Sempre in calzoleria. Lavoravo in calzoleria e dopo hanno mandato via il magazziniere e mi hanno passato anche magazziniere della calzoleria. Si andava a prendere della roba su in magazzino, la portavo in calzoleria e si dava a chi lavorava.

D: Dove era il magazzino della calzoleria?

R: Si entrava ancora nel campo e dopo si andava in su, c’era una baracca con due della polizia davanti alla parta e ti stavano dietro, si prendeva la roba, li contava e poi li portavo in calzoleria.

D: Che materiali c’erano nel deposito?

R: C’era tutta roba di cuoio, a quegli zoccoli di legno si metteva su il cuoio e si facevano anche le scarpe per le SS, quelli che erano capaci di farle.

Io dall’inizio alla fine ho sempre avuto quel paio di scarpe che mi hanno consegnato, che erano ancora da finire ancora da principio e le ho portate a termine e le ho portate anche a casa, le avevo nello zaino.

D: Albino quindi, al mattino la sveglia, appello e poi andavate in calzoleria?

R: Sì e poi si andava in calzoleria.

D: E a mangiare a mezzogiorno?

R: Quello che ci davano.

D: Ma in calzoleria o nel campo?

R: No, si andava nel campo a mangiare.

D: Ritornavate nel campo e poi al pomeriggio?

R: Ritornavamo a lavorare.

D: Ancora in calzoleria? Quattro mesi così?

R: Quattro mesi così.

D: Tu fuori dal campo non sei mai andato a lavorare?

R: No, mai.

Quelli con il triangolo rosso non li facevano andare fuori dal campo.

D: Albino come ti ricordi la Liberazione?

R: La liberazione me la ricordo che alla mattina, alla sveglia, quando ci siamo alzati ho guardato fuori dal finestrino e non c’erano più le guardie sulle garritte, le mitragliatrici erano a terra.

Io ho pensato: “Qua Albino è successo qualcosa”!

Dopo è arrivata la voce che c’era la Croce Rossa Internazionale che pochi alla volta hanno mandato via tutti.

Qualcuno è stato fortunato che è andato via di qua il giorno prima, anche due e noi altri cinquanta alla volta; cinquanta li mettevano sul camion e anche se dovevano andare a Trento lo portavano in Val di Non, cinquanta li portavano da una parte, cinquanta fuori a piedi.

Toccava a tutti di andare fuori a piedi dopo.

D: Ma ti hanno dato un lascia passare?

R: Sì e dopo ci siamo trovati fuori a Ora e c’erano tutti i tedeschi che scappavano in su con le biciclette e con i carretti.

Io sono andato giù verso Trento, ho preso la strada che andava in Val di Fiemme e ci ho messo cinque giorni ad arrivare a casa, a piedi.

Volevamo fare il passo del Manghe, siamo arrivato al passo Manghe.

Alla mattina per andare fuori dalla porta c’era tanta neve fresca così.

C’era il biglietto, c’erano dei posti di blocco dove davano qualcosa da mangiare, a quelli che fumavano gli davano un pacchetto di tabacco da tagliarselo in due e piano piano siamo arrivati a Borgo.

Prima di arrivare a Borgo c’erano i contadini… a Borgo c’erano ancora i tedeschi che si stavano ritirando e ….i partigiani a Castello e siamo andati dall’Eugenio e là c’erano questi partigiani che io non avevo mai visto.

C’era uno che era un comandante dei partigiani …che prima era maresciallo delle SS.

D: E non gli hai detto niente tu Albino? Non gli hai detto niente a questo qua?

R:No, è venuto fuori un caso, mi ricordo benissimo.

Gli ho chiesto se era il comandante dei partigiani. Non mi ha neanche risposto.

Il municipio era pieno di armi, ho tirato fuori un fucile e un mitragliatore e ho preso una macchina.

Siamo andati via e siamo arrivati fino a Borgo con questa macchina e dopo da Borgo mi hanno portato fino a Pieve.

A Pieve abbiamo trovato mia mamma, sua mamma e compagnia che erano venuti a cercarmi, Marietto era già arrivato…

Siamo scesi dalla macchina … e a piedi sono arrivato qua.

D: Nel maso?

R: Avevamo le bestie, c’era mio papà con le bestie, mia mamma…, avevo un fratello più giovane, non mi ricordo neanche dov’era e siamo arrivati qua.

Le botte che abbiamo preso e la paura che abbiamo avuto in quei quattro mesi.

Dopo non sai più organizzare niente, dopo.

Quella volta c’era una cartolina da …, la Polizia Trentina o se no ..a nascondersi da qualche parte.

E io non avevo molta voglia di andare nella Polizia Trentina.

Poi avevo vent’anni, a vent’anni si ragiona anche poco.

D: Albino ti ricordi nel ’47, se non mi sbaglio, che qui in un paese vicino era stato ucciso uno che dicevano che era un fascista della decima Mas?

R: Non me lo ricordo.

Qua in Valsugana?

D: Sì.

R: No.

D: Non te lo ricordi? Era stato ucciso da ex partigiani uno.

Che poi avevano fatto un processo. Non te lo ricordi?

R: Mi sa che non è successo a Pieve

Barbieri Agostino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Agostino Barbieri, sono nato il 30 marzo 1915 ad Isola della Scala in Provincia di Verona. Sono stato arrestato in una frazione di Isola della Scala che si chiama Tarmassia perché facevo parte di una missione militare che aveva lo scopo di fornire informazioni agli eserciti alleati e organizzare gruppi di partigiani.

Sono stato arrestato il 22 novembre 1944 dalle Brigate Nere di Verona con l’ausilio della polizia tedesca perché quando sono venuti ad arrestarmi di notte i fascisti non erano riusciti a portare a termine l’operazione e hanno chiesto l’aiuto della polizia tedesca.

La difficoltà dei fascisti era dovuta al fatto che io e il contadino che mi affittava l’alloggio, perché andavo a dormire solamente da questo contadino, abbiamo reagito al fuoco e c’è stata una sparatoria.

Durante la sparatoria, siccome vicino alla cascina dove io andavo a dormire qualche volta c’era un comando tedesco, sono partiti i tedeschi e hanno completato l’operazione dell’arresto.

Dopo l’arresto siamo stati portati alla Brigata Nera di Verona che allora aveva le carceri della scuola di avviamento Sanmicheli. Siamo stati lì una settimana naturalmente sotto gli interrogatori, i soliti interrogatori a base di botte, di sevizie, di maltrattamenti di ogni genere.

Dopo una settimana siamo stati portati al comando delle SS che aveva la sede nel palazzo delle Assicurazioni in Corso di Porta Nuova a Verona.

Siamo stati lì una settimana, ma non ci sono stati interrogatori. Dopo una settimana di detenzione in questo carcere, siamo stati portati al campo di Bolzano.

D: Un attimo, signor Agostino, quando Lei parlava di organizzazione, cos’era? Militare, si ricorda come si chiamava.

R: Sì, la Missione Rye.

D : Ma lì com’era organizzata questa Missione Rye. Innanzi tutto si ricorda il significato di Rye?

R: A dir la verità Rye è una sigla, deriva dal greco, non ho mai chiesto il perché, la ragione. Era una sigla che si davano tutte le organizzazioni clandestine, specie quelle militari. Ogni missione aveva una sigla che derivava o dall’alfabeto greco o latino o da altri generi di letteratura, di idiomi.

D: E come eravate organizzati? Il reclutamento per esempio come avveniva?

R: Il reclutamento da parte mia per quanto mi riguarda è avvenuto perché io avevo fatto il servizio militare di prima nomina come ufficiale al 79° Reggimento Fanteria e il comandante della Missione, il professor Teruzzi, aveva fatto il servizio militare con me nel 79° Fanteria, perciò mi conosceva.

Mi ha fatto avvicinare tramite due ragazzi, i fratelli Corlà, che erano ragazzi che seguivano l’Azione Cattolica perché Teruzzi era stato anche Presidente dell’Azione Cattolica a Verona.

Loro mi conoscevano, non perché io fossi dell’Azione Cattolica. Io non ero niente. Io ero lì, stavo a Isola della Scala dopo aver fatto però una certa attività col Comitato di Liberazione dell’Alta Italia per la messa in salvo dei prigionieri alleati che sono stati sorpresi dall’ armistizio. Era un primo impegno che aveva preso il Comitato di Liberazione.

Finita questa operazione che si faceva portandoli col treno da Venezia a Milano, poi a Milano io li davo in consegna ad altri compagni che li portavano al confine svizzero, finita questa operazione perché a un certo momento l’organizzazione era polizia fascista che si era organizzata, perciò non era più possibile farli viaggiare in treno, mi sono ritirato a Isola della Scala dove vivevo, avevo mia madre, mio fratello.

Lì sono stato raggiunto da uno di questi fratelli Corlà, mi ha parlato della Missione, mi ha parlato di Teruzzi e compagnia bella e allora abbiamo cominciato ad operare in quella zona.

Io ho avuto la responsabilità di una vasta zona del basso veronese, poi ho avuto il comando di un battaglione di partigiani.

D: Un’altra cosa sempre a proposito della Rye. La zona operativa della Rye dov’era? A Verona solo o anche in provincia?

R: Verona e tutta la provincia e anche confinava per una certa parte della Provincia di Vicenza. La provincia era divisa in zone. Ogni zona aveva un comandante. Io avevo il comando della zona della pianura insomma.

Altri ufficiali come il Colonnello De Miglio per esempio che era stato Capo Aiutante Maggiore al 79° Reggimento Fanteria dove io avevo fatto servizio, che conoscevo, il suo comando era a Cologna Veneta. Io l’avevo stabilito invece a Tarmassia, nella canonica di Tarmassia. Perché nella canonica?

Prima di tutto perché il comandante della Missione, come ho detto, faceva parte dell’Azione Cattolica, era molto dentro in quest’ambiente. Lui aveva la radiotrasmittente, ricetrasmittente che collocava sempre o nei seminari, o nei conventi, insomma in zone che almeno sembravano sicure.

Ho avuto una grande collaborazione dal parroco di Tarmassia, il quale s’è dimostrato partigiano veramente attivissimo. Ha lavorato moltissimo con me, mi ha dato molto aiuto.

Abbiamo ospitato lì in canonica un corso per l’addestramento all’uso dell’esplosivo plastico che noi non conoscevamo, né io come ufficiale di Fanteria, né nessuno dei fratelli Corlà che era appena stato nominato ufficiale, ma che aveva appena abbandonato il servizio.

Teruzzi, il comandante, ci ha mandato un esperto in esplosivi, che aveva fatto catapultare dall’alto, venendo dall’Italia già liberata. Abbiamo fatto questo corso. Durante questo corso siamo stati arrestati.

Per fortuna non durante la “lezione”, ma in quel periodo, perciò non abbiamo potuto completare l’istruzione e attuare quel programma che doveva essere attuato di sabotaggio.

D: Se si ricorda, la maggior parte dei componenti eravate tutti militari della Rye?

R: No, no.

D: No?

R: No, no. C’era una rappresentanza direi di tutte le parti politiche. Non c’era la prevalenza dei militari. Anche Teruzzi era militare di complemento, non era un ufficiale effettivo. Io ero un ufficiale di complemento, Corlà era un ufficiale di complemento.

D: L’obiettivo, i compiti di questa missione speciale della Rye qual era?

R: I compiti erano quelli di segnare, indicare gli obiettivi militari in questo modo. Se si formava per esempio, un comando oppure un deposito, oppure un’officina, oppure soprattutto il controllo della ferrovia Verona/Bologna che era la dorsale che portava tutti i rifornimenti sul fronte di Bologna e io avevo il controllo da Verona fino ai ponti di Ostiglia.

Ho avuto una grandissima collaborazione anche, perché avevo mio fratello ferroviere, dai ferrovieri. I ferrovieri hanno partecipato in un modo veramente entusiasta. Io dai capistazione sapevo esattamente tutto quello che trasportavano.

D: I diversi movimenti di truppe, materiali?

R: Esattamente. Deviazioni che facevano i treni perché per esempio partivano, ma poi ad un certo momento li facevano deviare. C’era tutto questo movimento a mia conoscenza. Di tutto questo movimento era perfettamente al corrente.

D: Voi avevate quindi rapporti anche con gli angloamericani?

R: I rapporti con gli angloamericani venivano fatti direttamente dal comandante.

D: Avevate un tesserino, qualcosa?

R: No, nessuna tessera.

D: Anonimato.

R: Nessuna tessera per carità. Le tessere… Niente, io avevo dei documenti falsi perché allora c’era il coprifuoco ed era proibito circolare col coprifuoco. Tramite mia moglie, mia moglie lavorava in un’agenzia di esportazioni di frutta e verdura e per avere i permessi per mandare la frutta e la verdura in Germania doveva andare al comando tedesco.

Al comando tedesco ha conosciuto un ufficiale che era ufficiale con me al 79° Fanteria che era passato ai tedeschi. Tramite lui abbiamo avuto quasi tutti i documenti per me e anche per tutti quelli che operavano con me di essere operatori della Todt, allora c’era quella compagnia per reclutare lavoratori e il permesso di circolare di notte.

E infatti una notte sono stato fermato dalla Brigata Nera, anzi da una pattuglia di tedeschi, ho fatto vedere il documento, loro mi hanno detto: “Bravo, bravo Italiano”.

D: Durante gli interrogatori però è uscita questa vostra partecipazione nella Rye?

R: No. Non è uscita perché se fosse uscita per noi ci sarebbe stata la fucilazione, perché è chiaro, è la legge di guerra, che chi opera a livello di spionaggio, specialmente per un ufficiale in borghese, c’è la fucilazione. Non è uscito nulla, per fortuna.

D: Ancora una cosa della Rye perché è un gruppo importante. Grosso modo eravate in molti voi della Rye?

R: Ma, io avevo direttamente quattro o cinque collaboratori. Poi siccome si lavorava a scompartimenti stagni perché c’era l’obbligo preciso, non lo so. Ad un certo momento l’ho saputo dopo la Liberazione, quando sono tornato da Mauthausen ho conosciuto altri collaboratori che prima non conoscevo, non avevo conosciuto.

D: Quindi dal Palazzo dell’INA, riprendiamo la narrazione, dal palazzo dell’INA dov’è stato portato, da lì al campo di Bolzano.

R: Sì.

D: Eravate in molti su quel trasporto?

R: No, eravamo una decina per quanto mi ricordo. Poi sono stato molto poco al campo di concentramento, intanto mi avevano messo in un capannone di pericolosi non so per quale ragione, si vede che mi hanno ritenuto pericoloso.

Verso Santa Lucia mi sembra, prima di Natale sicuramente perché Natale l’ho passato a Mauthausen, sono stato trasportato a Mauthausen.

D: Dal campo di Bolzano vi hanno portato dove per infilarvi nei vagoni, nei carri bestiame?

R: Alla stazione, penso io. Siamo andati alla stazione, ci hanno messo sui carri bestiame, hanno sigillato i carri, poi siamo partiti. E’ durato sei o sette giorni questo viaggio, una roba bestiale.

D: Più o meno in quanti eravate su quel trasporto?

R: Forse una quarantina.

D: Per vagone però, quaranta per vagone.

R: Sì, per vagone. Si doveva defecare, urinare tutto lì, sedersi sullo sterco, una cosa spaventosa. Poi c’era il problema della sete. Il problema della sete gravissimo. C’è stata gente, i vicini alla parete del vagone che leccavano il piccolo ghiaccio che si formava dall’umidità e dal freddo esterno finché avevano la lingua rossa di sangue, perché la sete è stata una sofferenza atroce veramente.

D: A Bolzano non l’hanno immatricolata?

R: Quello non lo so. Non ho capito niente, mi hanno sbattuto entro questo stanzone e non sono più uscito. Mi hanno detto che non si poteva uscire perché eravamo pericolosi. Non so perché ero pericoloso. Non l’ho ancora capito.

Lì ho incontrato quello che è diventato il mio più grande amico: Piero Caleppi, Piero Caleppi che poi è diventato senatore, poi è diventato vice presidente del Senato e sotto segretario di Stato.

E’ nata questa amicizia che è durata fino al giorno della sua morte.

D: E altre persone di cui si ricorda? Che ha incontrato lì nel campo di Bolzano?

R: Nel campo di Bolzano non ricordo, non ho praticamente nessun ricordo particolare perché ero così attaccato a Caleppi. Lui era già dentro, praticamente chiamiamolo “anziano”. Io dormivo in una cuccetta, lui dormiva in una cuccetta attaccata alla mia, stavamo sempre assieme. Non ricordo altri personaggi, amicizie.

Poi più avanti ho conosciuto Pappalettera, Pappalettera che ha scritto quel bellissimo libro “Tu passerai per il camino”.

D: Si ricorda se c’erano dei religiosi anche?

R: Di religiosi ho conosciuto ma a Mauthausen, adesso mi sfugge il nome, Padre Gaggero, un filippino arrestato a Genova, un grande sacerdote che poi è stato spretato dopo la Liberazione.

Adesso invece è nata una storia in questo periodo. Io parlavo prima dei fratelli Corlà che sono stati arrestati. Ad Isola della Scala il paese della loro nascita s’è formato un comitato per la beatificazione. Erano due ragazzi molto, molto, molto religiosi. Dicono che hanno con la loro azione, con il loro comportamento, con la loro parola, con la loro convinzione hanno convinto l’avvocato Spaziani che era il Capo del Comitato di Liberazione di Isola a convertirsi. Sembra.

Però c’è una dichiarazione che io ritengo molto… che questa conversione sia avvenuta nel campo di concentramento di Bolzano. Quello che è stato scritto, è stato dichiarato che a Bolzano ha potuto assistere alla Santa Messa e fare la comunione.

Io ho chiesto, so anche la risposta vostra, a Bolzano se era possibile questo durante la detenzione, se c’erano servizi religiosi, questo è il punto interrogativo. A me non risulta, però non posso escluderlo, perché io ero dentro in questo baraccone, non potevo uscire, neanche prendere l’aria, perciò non so niente di quello che è successo.

Che ci siano state delle messe io non lo ricordo, perché non credo che i tedeschi… Non so, questo è un problema che non è ancora risolto.

D: Dopo sette giorni di viaggio e relative notti siete arrivati a Mauthausen.

R: Sì.

D: Come si ricorda l’ingresso nel Lager di Mauthausen?

R: Siamo scesi dal treno naturalmente nelle condizioni in cui eravamo, ci hanno inquadrati perché dalla stazione a Mauthausen c’era un pezzo di strada in salita anche che bisognava percorrere a piedi naturalmente.

Quando siamo arrivati lì il comandante del campo ha chiesto se c’era qualcuno che sapeva l’italiano. E’ venuto fuori uno, ha fatto l’interprete. Siete a Mauthausen, qui esiste solo la legge dell’obbedienza, perciò chi vuol tentare di fuggire, si guardi attorno e vedrà che non c’è nessuna possibilità. Bisogna solo tacere e obbedire.

Ci hanno portati dentro in un enorme stanzone. Ho fatto un bagno bollente e immediatamente dopo un bagno freddo secondo le regole perfette dell’igiene.

Poi ci hanno messi fuori sei minuti nudi, tagliato tutto, rasati sotto, sopra tant’è vero che io scrivo sul mio libro che io ho avuto la sensazione che mi tagliassero via tutto quando il Friseur prese in mano il pene. Qui resto senza niente.

Poi ci hanno messo fuori in fila ad aspettare. Intanto nevicava e noi fuori ad aspettare. S’è completata la fila, poi ci hanno portato nelle baracche di quarantena dove si dormiva in tre, qualche volta anche in quattro su un materasso a terra.

Ci mettemmo giù di fianco, la SS col tubo di gomma ci batteva finché ci si stringeva, imballati come le sardine. Lì abbiamo fatto parecchi giorni.

Poi facemmo dei comandi per andare a lavorare. Io, Caletti, Pappalettera, ho conosciuto una persona, vive ancora, purtroppo stavo dicendo perché è molto ammalato, il Dottor Calore. Non so se voi l’avete…

Il Dottor Calore per me è un dio, un bravo, bravissimo… S’è comportato veramente, abbiamo stretto un’amicizia e mi dispiace moltissimo che stia veramente male, molto male. L’ho visto un paio di mesi fa.

Lì ho conosciuto il Dottor Calore e Pappalettera. Siamo andati a Sant Aegid, nella Stiria, è un paesino bello anche, molto bello perché uscire di notte per andare a fare la pipì e vedere queste casette dove filtrava qualche piccola luce pur essendoci la proibizione dell’illuminazione, sembrava di essere in un presepio.

Io lo scrivo questo anche nel mio libro. Ti riempiva di nostalgia, di casa. Purtroppo c’era la baracca dietro, c’era la SS, ma più che le SS c’era il Kapò. I Kapò erano forse peggio delle SS, erano peggio delle SS. I Kapò tremendi.

Hanno fatto poi una brutta fine perché il giorno della Liberazione il 5 maggio sono stati malmenati, sputacchiati, qualcuno ci ha rimesso anche la pelle. Insomma, se lo meritavano.

D: Prima di andare però al comando di lavoro lì a Mauthausen vi hanno immatricolati?

R: Sì, mi hanno dato una nastrina con del filo di ferro che ho perso perché l’ho data ad una mostra e non me l’hanno più restituita. Se la son tenuta a Verona. Hanno fatto una mostra, mi hanno chiesto quello che avevo, l’unica cosa che avevo era quella lì, non me l’hanno più data. 113883 il mio numero. Quando mi sono tolto il giaccone l’ho buttato via.

Io sono tornato con un frac che ho trovato in un magazzino e un paio di braghe delle SS.

D: In questo comando di lavoro c’erano altri italiani, vero?

R: C’era Caleppi, c’era quello che ho nominato prima Pappalettera, non mi ricordo più i nomi adesso. Sì, c’erano italiani, eravamo un gruppo di Italiani.

D: Solo italiani?

R: No, ma c’era un gruppo di iItaliani abbastanza numeroso. Lì non si stava… Si stava male, intendiamoci, dire che si stava bene sarebbe ridicolo. Siccome era un campo piccolo, c’era meno disciplina. C’era da lavorare perché si andava a scavare per fare le fondamenta per le baracche per i sinistrati, lì si lavorava giorno e notte, acqua, vento. Si andava e si ritornava in baracca con la divisa, quella a righe che ci avevano dato e poi te la mettevi la mattina che era quasi ghiacciata.

D: Il vostro lavoro lì in cosa consisteva?

R: Piccone, badile, carriola per me. Mi hanno dato un piccone, era alto così. Guai se la carriola non era strapiena. Caleppi ha avuto lì il periodo più brutto della sua esistenza. Gli hanno rotto una gamba apposta di botte e doveva trascinare la carriola con la gamba rotta. Si trascinava così, con la mano trascinava la carriola.

Ha trovato per fortuna il medico, era un medico iugoslavo che parlava molto bene l’italiano che ha avuto compassione, in un certo senso direi che l’ha curato anche, se curare si può, intendiamoci, perché lì non c’era niente. Almeno per un certo periodo è riuscito a toglierlo dal lavoro.

Poi quando siamo tornati, siamo rientrati a Mauthausen, ricordo che ho vissuto il momento della Liberazione con Caleppi abbracciati a piangere tutte due in quel di maggio. Durante il viaggio del rientro Caleppi è stato costretto, è stato ricoverato in un ospedale svizzero perché è stato malissimo, molto male.

D: Il campo dov’eravate, questo sottocampo, era grande, era piccolo, c’erano molte baracche?

R: Piccolo, piccolo, 400 baracche. Sant Aegid.

D: Era recintato come tutti i campi?

R: Recintato con i fili spinati naturalmente con l’alta tensione.

D: Rispetto al paese il campo era vicino al centro abitato o era fuori?

R: No, era staccato, ma la popolazione in un certo senso ci ha aiutato, lasciava cadere delle patate, dei pezzi di pane. Io ho avuto anche un’esperienza, l’ho scritto anche sul mio libro, di una SS, di una giovane SS che mi sorvegliava. Sono stato portato da solo a fare un terzo lavoro. C’era questo giovane SS, avrà avuto diciotto anni poverino, faceva una pena. Io stavo peggio di lui, ma comunque…

Ad un certo momento ha lasciato cadere un pacchetto. L’ho visto il pacchetto, ma continuavo a lavorare. Se per caso mi muovo, quello lì mi… Lui continuava a guardarmi, poi mi ha fatto segno di prenderlo.

Allora mi sono fatto coraggio. Erano biscotti. Questa è stata una cosa stupenda. Questo ragazzino che evidentemente forse era anche lui lì per forza, non era che sia stato uno che ha avuto questa idea, forse suggerita dalla famiglia, dalla mamma certamente, da qualcuno. Ho avuto questa sorpresa.

Poi il problema era mangiarli o non mangiarli? Se sono avvelenati? Li ho tenuti in tasca. Poi la fame era fame e li ho mangiati.

D: Voi al lavoro lì, diceva prima che eravate addetti a degli scavi, a costruire dei basamenti…

R: Sì.

D: Lavoravate per qualche ditta?

R: Questo non lo so. Non lo so perché lì si vedevano solo deportati, Kapò, capisquadra, persone civili non ne ho mai viste. Può anche darsi.

D: Quando siete ritornati a Mauthausen più o meno quand’era? Quando è stato evacuato…

R: Siamo tornati… Dunque, la Liberazione è stata il 5 maggio, un mese prima circa, cioè quando le truppe russe stavano sfondando il fronte tedesco. Siamo tornati quasi quasi assieme ai profughi che lasciavano a piedi naturalmente, dormendo per terra, dormendo sui marciapiedi, dove capitava.

Poi ci hanno portati dentro nel penitenziario, è durato quattro/cinque giorni questo trasferimento perdendo parecchi amici, parecchi compagni perché non ce la facevano, si buttavano per terra, gli sparavano e morivano.

D: Era una delle tante marce della morte?

R: Una delle tante marce della morte, come quello che si temeva noi di Mauthausen, parlavano di evacuazione di Mauthausen le SS e l’evacuazione di Mauthausen, qui non ci resta più nessuno.

E invece no, la mattina del 5 maggio al posto delle SS sulle torrette abbiamo trovato i soldati della territoriale che se ne fregavano di noi. Da lì abbiamo capito che… Ma pure fino a quasi all’ingresso degli alleati ci sono state delle SS che hanno sparato, sparavano ancora, ammazzavano fino all’ultimo momento, fino all’ultimo momento, finché un carro armato ha sfondato il portone ed è entrato.

Lei deve sapere che però gli spagnoli aspettavano i russi, avevano preparato delle bandiere. Quando hanno visto che erano gli alleati, hanno fatto marcia indietro. Son cose che capitano.

D: E cos’è successo poi al 5 maggio del ’45?

R: Il 5 maggio del ’45, sentivamo da qualche giorno il rumore dei carri armati, l’aviazione che circolava sopra di noi perciò era chiaro che il fronte si stava avvicinando.

Poi c’era anche radio Fante, la chiamavano ed erano i prigionieri spagnoli, ancora della guerra civile spagnola, che avevano occupato certi posti di scrivano, magazziniere, quelle cose lì. Avevano possibilità di attingere notizie che poi riportavano a noi. Sapevamo che si stavano avvicinando le truppe alleate, nessuno però sapeva se erano alleati o russi. Erano alleati o russi? Poi quando sono entrati abbiamo visto che erano gli alleati.

Ci siamo trovati nella piazza dell’appello grande più di uno stadio tutta strapiena, c’era gente che era riuscita persino ad andare sui tetti delle baracche, non so come abbiano fatto, abbiano trovato la forza di andare.

Lì ci siamo abbracciati piangendo, urlando, siamo liberi, siamo liberi. E c’è stata la Liberazione.

D: Però lì a Mauthausen siete rimasti quanto ancora voi?

R: Un paio di mesi, non di più. Si sono organizzate subito delle commissioni tra le quali c’era anche il Dottor Calore che era proprio l’animatore. Sono andati in Svizzera, hanno preso contatto con la Croce Rossa. Subito hanno promesso gli elenchi dei sopravvissuti, poi ci hanno dato la possibilità di scrivere a casa. C’è stata la Liberazione.

D: Il ritorno invece com’è stato?

R: Il ritorno, sono tornato con un camion dell’esercito alleato. Abbiamo fatto un giro lunghissimo, siamo andati a finire… Abbiamo attraversato tutta la Germania. Poi siamo arrivati a Bolzano. Siamo andati… Non ricordo più, abbiamo fatto un lungo giro. Siamo arrivati fino a Monaco. Mi ricordo Monaco distrutta. E siamo arrivati a Bolzano.

A Bolzano, mia moglie che allora era la fidanzata, era stata a Bolzano due giorni prima ad aspettarmi assieme a mio fratello, ma invece il giorno in cui sono arrivato io non c’era.

C’era un camion organizzato dal comune di Isola della Scala per accogliere i deportati, quelli che rientravano. Sono salito, sono rientrato a casa.

D: Ed era quando questo?

R: In giugno, verso la fine di giugno mi sembra. Ho trovato mia madre che non aveva più lacrime perché aveva perso il marito in guerra. Quando è venuta ad accompagnarmi alla stazione di Porta Vescovo, quando siamo partiti per la Russia, perché io ho avuto anche questo grande onore, di partecipare anche alla Campagna di Russia, lei ha detto: “Ho perso il marito, adesso perdo anche il figlio”.

Quando son tornato invece che le ho telegrafato da Rimini. Che son rientrato a Rimini, non ha voluto venire alla stazione perché temeva di vedermi o senza una gamba o senza un braccio.

D: Al ritorno dalla Russia?

R: Al ritorno dalla Russia.

D: Era?

R: Quella era una storia…

D: Ha partecipato all’Armir, al Don?

R: Io sono stato tra i primi in Russia con il SIR, Corpo di Spedizioni Italiane in Russia. Dove siamo andati in Russia, qui è successa una cosa che Mussolini certamente non s’aspettava. Non so se voi avete letto qualche libro di storia, non quelli scolastici perché non dicono niente quelli scolastici. C’è una vecchia edizione di Einaudi dove dice che quasi tutti i comandanti partigiani erano ufficiali reduci dalla Russia.

Perché siamo partiti con la testa piena della propaganda fascista, i russi mangiano i bambini, i russi qua, i russi là e invece abbiamo trovato una popolazione di una dignità assoluta veramente.

Molti italiani, ma molti italiani nella grande ritirata si sono salvati per merito delle donne russe che li hanno raccolti, li hanno scaldati, li hanno nutriti. Molti italiani. Molti anche si sono accasati, sono rimasti lì.

Io ho avuto la fortuna di evitare questa ritirata perché mi sono ammalato. Per fortuna mi sono ammalato. E’ triste dire che è una fortuna ammalarsi, ma comunque è stata una fortuna, mi hanno rimpatriato prima. Ma lo stesso quella popolazione che ho conosciuto io aveva una dignità estrema. Povera, ma guardi, una cosa… Un rispetto, rispetto persino per noi che eravamo degli invasori. Ci davano, anche quel poco che avevano qualche volta ce lo davano da mangiare perché non arrivava il cibo.

Poi io sono simpatizzante dei russi. Adesso ho visto all’ospedale, mia moglie è tornata dall’ospedale pochi giorni fa, c’era un’infermiera russa. Il tipo di russo… Io ho scritto un racconto su un incontro che ho avuto in Russia con Capascha, era una partigiana russa.

Eravamo diventati… C’era un affetto. Poi l’ho trovata morta su un camion. Ho trovato questa russa, quando l’ho vista ho detto tu sei Capascha. Di una bellezza… Bella, bella, bella e lei ha voluto leggere il libro.

D: Agostino, del tuo trasporto della deportazione quanti siete tornati vivi da Mauthausen?

R: Questo non lo so. Dicono che siamo tornati circa l’8-10%, ma cifre esatte non ne ho. Non mi ricordo, pochi comunque, siamo tornati in pochi.

D: Di Isola della Scala in quanti sono stati deportati?

R: Di Isola della Scala siamo stati arrestati in 10 e siamo tornati in 3.

Girardi don Domenico

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Domenico Girardi, sono nato a Montesover, Comune di Sover in Val di Cembra il 14 agosto 1910.

D: Don Domenico, quando siete stato arrestato Voi?

R: Sono stato arrestato la metà di gennaio 1945.

D: Dove e da chi?

R: Lì ero parroco a Montalbiano di Valfloriana in Val di Fiemme e dico subito non ho fatto niente di particolare, soltanto opera di carità, son vissuto da buon cristiano. Altro che passavano di lì tanti italiani, tedeschi, anche russi, ucraini, americani, due per esempio che erano stati colpiti quando bombardavano il ponte di Egna si sono salvati col paracadute, son passati lì da me, ho dato ospitalità. Fra i tanti assistiti c’erano due tedeschi disertori dal fronte di Cassino. Son rimasti due mesi, poi son partiti. Come disertori erano condannati a morte in contumacia. Dunque sono stati ripresi dai tedeschi sempre dalle parti di Merano sopra Lavis. Hanno chiesto: Dove siete stati in questo frattempo, cioè dalla diserzione ad adesso?” Ed hanno fatto il mio nome.

Allora la mattina per tempo son venuti a prelevarmi sotto l’accusa di essere collaboratore di Banditen.

D: Chi è venuto ad arrestarvi?

R: Sono venuti ad arrestare la mattina in paese verso le 2.00, le 3.00. Il paese era circondato da circa duecento persone tra polizia trentina ed altri tedeschi. Mi sono accorto di cannoncini piccoli, non so il termine tecnico, erano nei punti strategici del paese. Credevano che fosse un paese pieno di partigiani e invece non era niente.

Ad ogni modo mi sono accorto perché un tale, Simone Nones, aveva comperato una mucca a Brusago e doveva andare a prenderla. Allora non son potuti passare. E’ venuto in canonica, mi ha suonato, mi sono alzato e allora siccome bestemmiavo un po’ di tedesco, sono disceso e ho fatto da interprete. ” Dieser Mann hat eine Kuh gekauft”, ha comperato una mucca. Niente da fare. Un’ora dopo circa il casaro che doveva andare a fare formaggio la medesima cosa. Intanto la mattina sono venute le 5.00. Sono entrati i tedeschi, la polizia trentina in tutte le case e hanno fatto uscire tutte le persone, gli uomini radunati lì nel piazzale davanti alla Chiesa, le donne lasciate libere.

Sono andato a celebrare la Messa. Era in latino, ci si voltava a dire “Dominus vobiscum”. Ho visto due SS con lo schioppo, baionetta in canna sulla porta della chiesa. Ho pensato tra me: “Guarda che buoni cristiani, stanno lì ad ascoltare la Messa”. Finita, entrato in sacrestia erano lì pronti. “Kommen Sie mit. Venga con noi. Ja, sehr gern.Molto volentieri”. Credevo nella mia ingenuità per non dire ignoranza che mi prendessero come interprete. Guardate la presunzione umana.

In quel momento così là era. Sono uscito, messo lì da parte. Ho cominciato a rientrare in me stesso. Devo andare a far colazione anche. “Nein”. Un po’ di colazione sono abituato a farla, un po’ comico. Allora mi hanno permesso, sempre accompagnato.

“Ha delle armi?” Qui è il punto, mi è venuta paura, perché avevo una Beretta, schioppo da caccia, non l’avevo denunciato perché mi premeva troppo, era nuovo, era stato un bel regalo. L’avevo nascosto su in cima, sopra l’armadio.

I tedeschi sono andati dentro. Ma davanti c’erano macchine di proiezioni per le scuole. Uno di loro è salito sulla sedia e in quel momento “pataclicchete”, è andata bene, s’è fermato, s’è fatto male al ginocchio. La mamma era con me. “Bono”, dice. “Bono”. Cioè hai avuto il giusto premio. Insomma, non l’ha trovato.

Dopo mi sono messo lì insieme con gli altri. Ad un certo punto tutti in fila verso il comune e da lì verso Trento, la prigione, via Pilati.

D: Ma tutti? Oltre a te anche gli altri paesani?

R: Non tutti, no. Ne hanno scelto una quarantina. Lì anche li hanno lasciati, anziani e così via. Quelli sui quali si sospettava maggiormente. La gente piangeva. Io li rincuoravo. “Ma no, perché?” “Noi torniamo?” “Volete che conducano via il parroco? No, io ritorno, sono insieme con gli altri. Come ritorno io…”. Sempre ingenuo, ignorante vorrei dire, non capivo la situazione in quanto io avevo fatto un’opera di bene, l’avevo detto alle SS. “Io ho fatto solo il sacerdote, predico la carità, ma prima di predicarla, devo tradurla nella pratica. Io non ho fatto niente dal lato politico o altro. Niente. Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati”.

Ero anche giovane, avevo trentacinque anni, ma potevo capirle certe cose. Non le ho capite sempre nella mia ingenuità. Poi in via Pilati. Qui sono rimasto due mesi e mezzo in cella.

D: In cella due mesi e mezzo d’isolamento?

R: Isolamento. Veramente isolamento per tanti motivi che non posso neanche nominare. Non posso dire. Questo isolamento, abbandonato da tutti. Ci si vedeva lì solo, abbandonato da Dio, abbandonato dal prossimo. Proprio non si poteva comunicare, almeno in un primo tempo, con nessuno, dopo venivano le mie sorelle a trovarmi, allora qualche notizia, altrimenti solo.

Pensavo: “Signore, è una scuola anche di psicologia, ma Signore, cosa ho fatto? Ho dato da mangiare, un’opera di misericordia, perché arrivare a ‘sto punto?” Entra quella debolezza anche morale. Non da perdersi di coraggio, non mi sono mai perso di coraggio, ma in certi momenti di ipotensione cardiaca si abbassava il morale.

Affamati naturalmente. In un primo tempo, un quartino, forse non era mezzo litro di brodo di dadi al giorno e due pezzetti di pane al giorno. A quell’età avevo anche appetito. Fatto sta che tra lì e poi al campo di concentramento ho sentito la fame.

Premendo sotto lo sterno si sentiva qualcosa di duro, era la spina dorsale. Adesso non la sento più. Era la fame, la fame. Arrivati ad un certo punto si diventa deboli, fiacchi. La sete è la cosa peggiore. Insomma io sono rimasto lì. Dopo due mesi e mezzo ci trasportano.

D: Scusa, don Domenico, ti hanno mai interrogato quando eri lì in prigione?

R: Sì, si. Mi hanno interrogato alla Villa Rossa dove adesso c’è l’ambulatorio del Dottor Torri, mi pare, lì davanti alle scuole. Due volte mi hanno interrogato.

D: Chi t’interrogava?

R: Era un tale di cui non conosco il nome, un tedesco. Dopo c’era un traduttore, aveva l’interprete. Mi è rimasta impressa una signorina, non aveva ancora trent’anni penso. Iena la chiamavamo. E’ venuta lì. Credeva che sapessi il tedesco. Parlando in fretta in tedesco naturalmente, ho capito un po’, ma ho fatto finta di non capire.

Alla fine coi pugni sotto, indietro, indietro, perché c’era il duro. Mi sembrava che mi era venuta la voglia, la tentazione di far così con quella forza, ho trentacinque anni, così di metterle le mani al collo. Mi sembrava di essere in grado di forarla. Quinto non ammazzare, però in quel momento… In certi momenti quasi quasi lo dimenticavo.

Dico: “Calma”; sono stato capace di mantenere la calma, di rientrare in me stesso. Mai, prima pensare e poi parlare.

D: Ma sei stato accusato di che cosa tu?

R: Di collaboratore di Banditen. Non di armi, collaboratore di banditi perché dando da mangiare a questi che per loro erano banditi, scampati, disertori, io ho tenuto la scala. Loro hanno rubato e io ho tenuto loro la scala. Pensate che io sono sacerdote, predico la carità, le opere di misericordia.

Anche mio papà mi ha detto, oltre che tutti gli altri, “Non è quello che predichi quello che vale, il bene non è quello che predichi, è quello che fai”.

“Ho dato da mangiare agli affamati. Per di più a due dei vostri, due tedeschi, per di più. Non mi pare di aver fatto niente di male”. Per loro erano Banditen perché condannati a morte. Per loro erano Banditen. Il mio reato è aver fatto il bene.

In prigione si può andare non soltanto quando si ruba, ma anche quando si ama.

D: Scusa, don Domenico, quando tu eri qui in prigione a Trento, era inverno vero?

R: Inverno.

D: Faceva freddo?

R: Sì. Questo inverno ha anche degli episodi belli. Il terreno tutto ghiacciato. Quando gli americani, gli inglesi bombardavano la città, lo scalo ferroviario, c’era tutto il terreno ghiacciato, dunque un corpo unico. Sembrava che le bombe cascassero lì vicino. Allora ci facevano discendere “Hinunter” dicevano, come rifugi sotto, negli avvolti delle prigioni. Lì una bella lezione.

Il momento della morte è il momento in cui anche i bugiardi dicono la verità. Inginocchiati, devoti, uomini. Le donne erano in un altro appartamento. Ci dia l’assoluzione. Inginocchiati come all’inizio di una battaglia. Atto di dolore. “Io vi assolvo dai vostri peccati, nel nome del Padre…”

Segno di croce con tanta devozione. Non segno geroglifico, ma un segno veramente da buon cristiano. Bisogna che dica, c’era anche il maresciallo Herr Kunt si diceva, erano tutti italiani lì, ma l’autorità maggiore era questo maresciallo tedesco. Arrivava, certe volte stava lì anche lui. Non il segno di croce, però stava sull’attenti.

Mi sembrava d’aver colto almeno il rispetto per l’azione che stavamo compiendo.

Un altro episodio. Dopo il primo tempo ho organizzato anche gli aiuti esterni. I miei parrocchiani ogni settimana mi mandavano un bel pacco.

Non ho mai sentito la gioia della carità come in quei momenti perché quando si riceveva qualcosa da fuori, al successivo raduno lì nel rifugio si condivideva. La gioia nel dare, perché altri venivano da altre province, non avevano nessun mezzo, nessuna assistenza. La gioia nel dare, in maniera che avevo da mangiare il primo giorno in cui ricevevo la visita, il secondo e dopo era come gli altri. Non ho mai sentito… Insomma, la gioia nel dare. Di voler del bene.

D: Don Domenico, le altre persone arrestate con te, quelle del tuo paese, sono state poi liberate?

R: Sono state liberate tranne il parroco di Casata, il parroco Don Partis, è rimasto lì con me quindici giorni e poi è stato liberato. Gli altri sono andati a casa tranne due.

D: Chi erano questi due?

R: Due. Uno era un mio parrocchiano, dopo il medico condotto, un certo Dottor Nicolini che dopo è venuto medico condotto dalle parti di Egna, Neumarkt.

D: Dopo due mesi e mezzo di carcere qui a Trento ti hanno portato dove?

R: A Bolzano, Durchgangslager, campo di smistamento. Lì eravamo circa duemila. Dico circa perché ne arrivavano cinquanta di nuovi e ne partivano trenta per Dachau, da quelle Büchenwald ,parti lì, almeno così si diceva. Ne arrivavano cento, ne partivano cinquanta e così via. Era Durchgangslager, dunque campo di smistamento.

D: Con cosa ti hanno portato da Trento a Bolzano?

R: A Bolzano su un camion, eravamo in quarantadue, anche lì è stata bella. Quarantadue su un camion scoperto naturalmente, ai quattro lati del cassone quattro SS col mitra sempre pronto.

Arrivati a Gardolo: “Schauen Sie dort” “Guarda lassù”, sei bombardieri scendevano in picchiata per bombardare il ponte della Vis, ma a quell’altezza sembrava la nostra direzione e allora “Schauen Sie durch”; hanno visto, fermano il camion alle prime case di Gardolo, siamo entrati in una casa fino al cessato allarme e poi siamo saliti.

Intanto uno l’è partito. Saliti sul camion per continuare, 50 metri un altro allarme. Dentro. Al primo è andata bene. Sono partiti altri tre. Da quarantadue siamo rimasti in trentotto. Ci avevano avvisati, ognuno che parte, che scappa, dieci vengono fucilati. Allora ne erano partiti quattro, eravamo in trentotto, tutti in fila, due file così. Ai lati SS, ce la siamo vista un po’… Dovevo dare coraggio perché ero prete. uno su dieci, siamo intrentotto, dovrebbero ammazzarne quattro, volete che vadano a Trento?

Fatto sta che pronti lì con il mitra, l’abbiamo vista brutta, ma dopo non hanno sparato. Invece che continuare per Bolzano, siamo ritornati a Trento in prigione dove eravamo prima e siamo partiti durante la notte per arrivare poi a Bolzano durante la notte.

D: Quindi durante la notte tu sei arrivato al campo di Bolzano?

R: Sì.

D: Come te lo ricordi l’ingresso nel campo di Bolzano?

R: L’ingresso, in fila, anzi due file. Tedeschi su dritti, bisognava fare i segni, cappelli, bisognava fare questo segno. Posso alzarmi? No. Allora bisogna far così. Giù, anche se uno non aveva cappello. C’era una damolina, una certa Kapeller. Il Dottor Nicolini, medico condotto, una persona molto intelligente, cappelli pronunciato dai tedeschi, Kapeller si è voltato un po’ a destra, a sinistra ‘sta Kapeller.

Il tedesco è andato lì, non uno schiaffo, un pugno. Era lì davanti. Un pugno, s’è riversato verso di me. Svenuto. Stava per svenire, allora l’ho fregato sulla testa, coraggio. Si è rimesso in sesto. Questo è stato il primo impatto.

Dopo ci hanno messi a dormire nel primo blocco, blocco A riservato agli ebrei. Durante la notte ne sono morti due, due ebrei che erano andati a prelevare da una casa di riposo. Uno scrupolo di coscienza da giovane, avevo poca esperienza. Uno proprio sotto di me. Eravamo in tre, uno sopra l’altro, tre.

Un moribondo, noi sacerdoti siamo abituati, le preghiere. Cosa fare? Non avevo niente. Ho dato l’assoluzione. Ho chiesto a uno che faceva la guardia di notte. Cosa c’è? Un vecchietto che sta morendo, niente, niente, sta morendo.

Uno, prima il saluto al medico con un pugno, uno sta morendo… Ho cominciato un po’ a raccapezzarmi. Dopo il secondo giorno ci hanno assegnato al nostro blocco, il mio era il blocco G, eravamo dentro in circa duecento.

Il blocco era come una divisione, camerette. Una malga, uno stallone con diversi divisori. Naturalmente uno sopra l’altro, anche lì tre. Anche lì da soffrire, però tanta consolazione, perché sapevano che io ero prete, mi avevano levato la veste naturalmente, mi avevano vestito… Una roba comica. Mi avevano dato un paio di calzoni da cavaliere, stretti… ” Diese Hosen sind zu klein, dico. Ste brache mi sono troppo strette. Nein”.

La prendevo con filosofia. Allora provare a metterle dentro. Erano proprio strette. Le ho messe dentro con fatica naturalmente. Dopo ho respirato. “Crac” hanno fatto e li ho visti ridere. “Diese Hosen sind zu klein”, dico calmo, tranquillo, cercavo di non arrabbiarmi perché ho come esperienza che man föngt mehr Fliegen mit dem Honig als mit dem Essig, cioè se ciapa più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto, più con le buone che con le cattive.

Con i tedeschi mi sono arrabbiato una volta sola, lì l’ho vista brutta. Volè che ve la conta? Lì è una pagina brutta perché sono venuto a sapere che mio papà era morto. Papà e mamma erano con me in canonica. Sono venuto a sapere che era morto. Allora sono andato lì. “Mei Vater ist gestorben”. “Il mio papà è morto, fatemi qualsiasi condizione, pur di vedere la mamma”. La mamma per me era tutto.

A un certo punto c’era un tavolo alla porta d’uscita, una scala, un tavolo rettangolare, ascoltava. Dicevo: “Non ho soldi qua, ma ho campi, prati a casa. Pago tutto, vendo un campo pur di vedere mia mamma”, perché mia mamma non sapeva neanche se ero vivo.

D: Questo è successo quando era in campo di concentramento?

R: In campo di concentramento, sì. L’altro dopo aver ascoltato, anche qui ingenuo, credevo, forse mi sembrava commosso. S’è alzato, adesso non posso muovermi, ha fatto il giro, ho visto dal segno del piede che stava per darmi un calcio. La porta era aperta come un ponticello dopo la scala. Non mi ha raggiunto, mi ha raggiunto soltanto di striscio con quelle scarpe di montagna qui nella parte deretana, ne porto ancora la cicatrice.

Cicatrice nel senso che la pelle è un po’ ruvida. Non posso lasciarvela vedere. Quando sono stato in fondo, mi sono voltato ho detto: “Heute mir, morgen dir”, cioè oggi sono io che le piglia, ma domani potresti essere tu. Cric crac per il campo. Lì sono diventato un po’ furbo, invece che andar diritto, andavo così perché era più difficile. Non ha sparato, ma me la sono vista veramente…

Toccarmi negli affetti più cari, più intimi, papà e mamma, non sono stato capace di vincermi.

D: Don Domenico, quando allora sei entrato ti hanno messo al Blocco A, poi al Blocco G.

R: G.

D: Ti hanno tolto il tuo abito?

R: Sì, questo me l’hanno levato, l’hanno messo in un sacco da cemento vuoto. Dopo ho guardato dove lo mettevano. L’hanno messo sopra le prigioni del campo. Ho guardato proprio perché magari pensavo che un domanisarei andato a prendermelo. Mi hanno dato la divisa, ho detto prima, quella divisa da cavaliere non andava bene. Allora mi hanno dato una tuta grigia. Bianca era originariamente, ma era grigia con la croce di Sant’Andrea davanti, sulla schiena e nei calzoni.

Croce di Sant’Andrea perché era un segno. Non si poteva uscire. Se si voleva scappare bisognava andare come si era e quindi si veniva riconosciuti. Invece il segno eccolo qua. Qui uno che non l’ha provato, non può immaginarselo.

Più delle botte mi faceva soffrire questo segno. Più delle botte. Qui era nome, cognome, titolo di studio, posizione sociale, era tutto, tutto. Vicino a questo c’era il triangolino rosso. I colori di questi segni erano tre: il giallo per gli ebrei, l’azzurro per gli ostaggi, cioè scappava un figlio, andavano a prendere il padre e il rosso per i politici, per i peggiori. Io ero uno dei peggiori.

Questo vuol dire: nome, cognome, titolo di studio, posizione sociale. Anche un cane ha un nome: Fido, Bobi, così come quello della televisione. Un cane ha un nome. Tu sei peggio di un cane e questo moralmente era una sofferenza proprio che colpiva.

D: Lì dentro?

R: I soldi, quando sono partito da casa sono sempre stato povero, avevo trecento lire. Centocinquanta le ho lasciate ai miei e centocinquanta me le son prese io. Entrati nel campo ce le cambiavano perché non si poteva comperare, né negoziare con l’esterno. Ci davano dei soldi di valore, questa era una lira.

Questa era anche una scuola. Lì dentro c’era il Comitato di Liberazione Nazionale, il famoso CLN. Lì rappresentati da cinque partiti: Comunisti, Socialisti, Partito d’Azione, adesso Repubblicano, Democrazia Cristiana e Liberali.

E quando alle 6.00 di sera ci chiudevano nei blocchi, allora ci trovavamo tutti i rappresentanti di questi cinque partiti. Sono stati gli altri perché di politica non me ne intendevo niente, come me n’intendo poco anche adesso magari.

Mi hanno dato quello della DC, la firma è Pirelli, credo che sia quello delle gomme Pirelli, porto ancora la firma, questo è l’originale. Reverendo Girardi Don Domenico, matricola 10626 è un ex detenuto politico proveniente dal campo di Bolzano e merita perciò l’aiuto di tutte le autorità civili e militari e di tutti i cittadini dell’Italia liberata in riconoscimento dei sacrifici sofferti per la patria oppressa.

Perché questo sia valido, doveva essere munito del documento di scarcerazione, eccolo qua, Entlassungsschein, il documento di scarcerazione e poi questo tagliandino, il distintivo speciale, questo.

D: Don Domenico, quando ti chiamavano allora per l’appello, ti chiamavano con il numero?

R: 10626 pulizia. Allora andavo. Il mio lavoro da principio era la pulizia dei gabinetti, non si può neanche dire perché di gabinetti non ce n’erano. Descrivo come era. Era un bidone di circa un ettolitro, un bidone di latta, in cima c’erano due orecchini così. La mattina questo funzionante gabinetto era pieno di escrementi.

Allora io e un altro prendevamo un palo, lo infilavamo in questi aggeggi, lo si portava fuori in una buca. Dopo hanno fatto una specie di orinatoio scorrevole. Allora avevo meno lavoro. Questo era il lavoro: fare le pulizie.

Dopo il lavoro batter su legna, è una delle belle consolazioni. Consolazioni per una scuola. Immaginarsi una bora di circa 20 metri, ai lati due SS col mitra sempre pronto a sparare, guai a parlare, non dicevano vai in fretta o altro, no, non parlare.

Avanti così. “Padre mi confessa?” “Sì, volentieri” Quando diceva “Confessami”, veniva lì vicino a me, intanto lavoravamo insieme, sempre in movimento. Tante volte, tanti, ma tanti che venivano a confessarsi. Dando l’assoluzione, alzando la mano facevo finta di asciugarmi il sudore, non c’erano fazzoletti.

“Io ti assolvo dai tuoi peccati in nome del Padre…” Un segno geroglifico ed era l’assoluzione. Finito un ramo dopo ne veniva un altro e tutti i giorni. Più di tutto la sera quando ci chiudevano nei blocchi, “Mi confessa Padre?” “Sì, volentieri”.

Io ero al terzo piano, lì vicino alla finestra, finestra senza vetri, mi sono preso anche una faringo/laringite cronica, per questo la voce con facilità mi scappa. Lì confessare. Barba lunga, testa rapata, confessore, confessando tutti uguali. Non mi sentivo di stare seduto, inginocchiati tutte due.

Per me era una bella consolazione poter dare una parola di conforto.

D: Don Domenico, quando sei arrivato tu nel campo di Bolzano ti ricordi che periodo era?

R: Il periodo era fine marzo.

D: Del ’45?

R: ’45. Arrestato la metà di gennaio.

D: Un’altra cosa Don Domenico. Tu potevi celebrare Messa?

R: No, mai, mai, né in prigione a Trento, mai, né celebrare, né dire il breviario, anzi, non si poteva avere niente. No, mai, mai celebrato.

D: Ti ricordi se c’erano altri sacerdoti con te a Bolzano?

R: Sì, a Bolzano lì al momento non ne vedevo, ce n’erano stati, Don Guido Pedrotti, ma era già partito. Dopo Monsignor Daniele Longhi anche. La domenica veniva un Monsignore di Genova dicevano, un Monsignore di Genova a celebrare la Santa Messa.

Un fatto che mi è rimasto impresso: la terza domenica di aprile ormai c’era odore di libertà. E’ venuto Monsignor Bortignon, allora Vescovo di Feltre/Belluno, dopo è diventato Arcivescovo di Padova. Quel famoso, bravo Vescovo che ha dato l’Olio Santo in fronte ai partigiani uccisi dai tedeschi a Bassano. S’è preso una scaletta, erano impiccati e ha dato l’Olio Santo.

Questo Vescovo, erano presenti anche SS, ha parlato in maniera ineccepibile, non potevano accusarlo i tedeschi, ma ha fatto capire a noi che ormai la vittoria, l’uscita, la Liberazione era vicina.

Anche il bell’episodio. Io avevo messo insieme un coro, cantavamo durante la Santa Messa. Le canzoni che sono conosciute dalla Sicilia fino a Bolzano. “Mira il tuo popolo”, “Lieta armonia”, “Inni e canti”, “Sciogliamo un cantico”, ecc. Queste canzoni che comunemente cantiamo o cantavamo dappertutto perché adesso ci sono altre novità.

Immaginatevi, duemila cantori. Ero su un podio, era una cassetta che scricchiolava, ero in pericolo di cadere, che dirigevo “Mira il tuo popolo”. Erano dei canti, credo che Riccardo Muti di fronte a quei concerti sarebbe risultato inferiore. Voglio dire una massa di gente stonata, non vorrei offendere la fama di Riccardo Muti…

Che sia canto stonato o non stonato, ma un’impressione, duemila persone a squarciagola che cantano “Lieta armonia”, “Mira il tuo popolo”, “Inni e canti” e così via. Vicini alla Liberazione, almeno così presentivamo. Una bella pagina.

D: Don Domenico, ti ricordi se c’erano anche delle donne nel Lager di Bolzano?

R: Sì, c’era un blocco riservato proprio alle donne. Era il blocco mi pare, non ricordo se era il blocco N. Era circoscritto, potevano uscire a pigliare l’aria fuori del blocco, potevano uscire in un piazzale. Naturalmente c’era il reticolato. Non si poteva avere nessun contatto con gli uomini, però si vedevano dentro. C’erano anche alcune che conoscevo. Questa Kapeller che ho nominato prima.

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini, dei ragazzini dentro nel campo?

R: No, proprio ragazzini e ragazzine non ne ho visti.

D: In fondo al campo c’era il Blocco Celle.

R: Il Blocco Celle. Noi la chiamavamo la prigione del campo. Lì un episodio che mi ha fatto… La prigione, l’ho qui davanti alla mente come se fosse capitato ieri.

La domenica pomeriggio, la mattina sempre lavorare, ma nel pomeriggio avevamo la libertà di passeggiare nel piazzale, oppure di fare le nostre pulizie personali, nettarci. Ci spogliavamo come i vermi e mettevamo il vestito nella macchina la chiamavamo massapioci ad una gradazione di 100 gradi dicevano.

I pidocchi venivano tutti uccisi. Il vestito sterilizzato, dopo se davi uno strappo così, si metteva. Intanto si stava lì. Una domenica pomeriggio dunque tutti dentro nei blocchi. Cosa c’è? A un certo punto verso le 3.00 una voce da una delle celle: “Dio, mamma”, forte, una voce femminile, avrà avuto venti, venticinque anni, “Dio, mamma, mamma, Dio”. Sarà durato circa dieci minuti. Dopo non si è sentito più niente. S’è visto un carro con le ruote militari, con le ruote lunghe tirato da un asino rognoso, un soldato che tirava si è avvicinato con la retromarcia all’entrata delle prigioni, hanno caricato qualcosa. Io non ho visto proprio con i miei occhi, ma certo il corpo esanime, il cadavere coperto con una tela cerata ed è passato lì sotto proprio alla finestra del mio blocco.

Ho visto che non era la tela cerata liscia così piana, ma era un po’ curvata. Sotto c’era il corpo. Dicevano due ucraini che una cella era riservata proprio per il martirio, si diceva. Acqua, all’entrata uno scalino alto così, botte, ciac, uno, l’altro, dai ancora finché la vittima era morta, cadeva per terra, se non era morto dalle botte, si apriva il rubinetto e moriva annegata.

Io però non l’ho visto. Sono entrato alla fine ma di sbirciata perché non avevo altra voglia che di prendere la mia veste, ero andato a prenderla sopra intanto e l’ho indossata, l’ho baciata e l’ho bagnata di lacrime di consolazione. Siamo ritornati a piedi fino a Cavalese.

D: Prima della Liberazione dentro nel campo quindi tutti voi avevate un lavoro?

R: Sì.

D: Non uscivate dal campo?

R: Sì, si usciva, non sempre, ma si usciva quando in città c’erano dei bombardamenti, allora si usciva come operai per riparare, la stazione in modo particolare, si faceva la parte dell’operaio. Era anche qui una bella consolazione perché c’era gente, sempre scortati dalle SS naturalmente, ma ci davano qualche pezzo di pane, si faceva in modo di ricevere senza essere visti.

D: Don Domenico, tu ti ricordi quando sei stato dentro nel campo di Bolzano se potevate scrivere e ricevere dei pacchi?

R: No, non si poteva avere nessuna comunicazione con l’esterno, nemmeno riceverla. Io non ho mai ricevuto, non ho mai scritto, non era possibile, interdetta qualsiasi comunicazione.

D: Ti ricordi se attorno al campo, cosa c’era, un muro di recinzione?

R: Un muro di recinzione, sì, ma non mi sono mai avvicinato, tra lavoro, dopo c’era il piazzale interno, dopo si era occupati al lavoro, dopo le 6.00 ci chiudevano nei blocchi, non c’era tempo di far passeggiate. Si era controllati.

D: La Liberazione, cosa ti ricordi della Liberazione dal Lager di Bolzano?

R: La Liberazione, gli ultimi giorni avevamo tanta paura perché si era diffusa la voce che i veri partigiani avrebbero assaltato il campo, ci avrebbero liberato. Circolava la voce, per dire è tutto radio scarpa, circolava la voce che i tedeschi non avrebbero dato il campo ai partigiani assolutamente, piuttosto ci avrebbero uccisi tutti quanti. Questo era il pensiero, la paura. Si diceva, “Voi partigiani state dalle vostre parti, fate quello che avete fatto fino adesso. Lasciate”. Difatti è entrato, se ben ricordo, il 27 aprile uno si diceva fosse rappresentante della Croce Rossa Internazionale, uno svizzero e siamo partiti con la carta di legittimazione, eccola qua, Entlassungsschein, il lasciapassare proprio così, Entlassungsschein Girardi Domenico,

geboren 14.8.1910, Bozen entlassen. Con questo anche se ci avessero fermati, anche per venire a casa c’erano posti di blocco, con questo potevamo superare qualsiasi difficoltà.

D: Quindi tu sei stato liberato dentro nel campo di Bolzano e poi a piedi sei uscito dal campo?

R: E arrivato… Fino a Ora col treno, no, con mezzi di fortuna, poi col trenino fino a Cavalese. A Cavalese siamo arrivati alle 2.00 di notte, entrati in un convento, c’era il padre guardiano, una volta era padre guardiano, Padre Giuseppe De Gasperi.

Arrivando alle 2.00 abbiamo messo sottosopra il convento, mangiato finalmente un po’ di pane, di formaggio. Dopo riposato, se così si può dire, la mattina ritornati a casa, io a Valfloriana che dista circa 8/10 km.

Lì una scena commovente, perché preparato quel Don Patis di cui avevo parlato, era compagno di prigionia, tutto organizzato, dovrebbe arrivare Don Domenico. Allora avvisati tutti i parrocchiani, il suono delle campane e mi sono venuti incontro per circa 4 km. fino al centro, tutti. Vedevo anche delle mamme con i bambini piccoli sulle spalle.

Scusate, anche se sono passati cinquantacinque anni, ma mi par di viverla quella roba. Viene commozione. Ritornato. Prima stazione in chiesa, ringrazio il Signore che era lì vicino, “Ringrazio Signore che mi avete fatto ritornare”.

Vicino alla chiesa il cimitero, il papà morto il 14 aprile, seppellito il 16. C’erano ancora i fiori appassiti. Visita al cimitero, qui incontro con la mamma. Qui la fossa, io e qui la mamma. L’abbraccio. Un’emorragia nasale, cola il sangue, bagnati tutti quei fiori. Dicevano un litro di sangue. Una fortuna. Se non avessi avuto quell’emorragia, potrei essere morto in altre maniere. Emorragia cerebrale, una sincope cardiaca o altro così. L’incontro con la mamma.

Ritorno in canonica a pochi passi. C’erano le mie sorelle anche e andavo errando, al momento contento ma andavo errando. Andavo cercando mio padre, inconscio di quello che facevo. Contento, ma mi mancava qualcosa, mi mancava il papà. Ho visto le sorelle e vado a cercare il papà.

Qui un dolore. E’ passata, adesso sono qui, scusate la commozione, ma quando si ha una certa età…

Moimas Albina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Moimas Albina, nata a Monfalcone il 30 ottobre del 1921.

D: Albina, quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato il 1 giugno del 1944.

D: Dove?

R: Ero a casa a dormire.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato perché la sorella più anziana aveva un figlio con i partigiani e questo figlio era in montagna, non era a casa. Allora mia sorella già aspettava qualcosa di poco buono. E’ andata a dormire in un’altra famiglia. Così la mattina del 1 giugno sono venuti e l’hanno portata via con tutta l’altra famiglia.

Poi, dato che io stavo a Ronchi dei Legionari in Piazza Oberdan, era presto, erano le 6.00 di mattina, sentivo che qualcuno chiamava perché il portone era ancora chiuso, c’era il coprifuoco e io ero a letto.

Sentii chiamare, sono andata alla finestra, ho visto che era mia sorella. Mia sorella mi ha detto Albina, vai a casa mia a prendere qualcosa perché guarda qua, ci sono i tedeschi e i fascisti”, io e Bepi, suo marito, mio cognato e gli altri li avevano portati via da casa.

“Vai a casa mia, prendimi qualche cosa perché mi portano in prigione”. Allora mi sono alzata, ma non potevo andare subito perché era ancora il coprifuoco. Ho aspettato un momento con la bicicletta, poi sono andata sempre a Ronchi, anzi ad una piccola frazione, San Vito si chiamava. Lì sono andata, c’era la casa tutta buttata per aria.

Il bambino piccolo di mia sorella solo in casa. Io sono andata dentro, ho preso due o tre cose e poi sono andata sempre in Piazza Oberdan dove erano con il camion. Era dei fascisti e dei tedeschi. Sono andata vicino per portare queste cose, le cose sue. Mi sono fermata un momento.

E’ venuto un vicino, ha detto “basta con le chiacchiere, vai a casa perché se no vai su”. Mi sono girata e ho detto: “Non faccio niente qua”. “Allora basta, vai su anche te”. Non volevo. Ho detto: “No, io non vado su, non ho fatto niente”.

Allora s’è girato dall’altra parte, “Vedi la tua famiglia in fondo sul portone? Sono capace di portarti vicino e uccidere te e anche i tuoi”.

Sentendo quelle parole, ho preso paura, ho detto “E’ meglio che vado su” e così sono andata sul camion. Eravamo in ventinove, con me trenta. Siamo stati fermi un momento. A casa mia tutti sbigottiti, hanno preso la bicicletta che era sul portone, l’hanno portata dentro e sono andati dentro.

Col camion siamo andati a Trieste. A Trieste mi hanno portato in prigione al Coroneo. Là siamo andati dentro in un grande stanzone. Siamo stati tutta la mattina lì ad aspettare. Poi chiedevano cosa, il perché, il motivo… Poi ci hanno fatto salire sopra. Ci hanno portati ognuno in prigione, nelle stanze.

Dentro eravamo in tre, c’era già dentro gente, eravamo in venti là dentro, proprio. Lì sono stata dal 1 giugno fino al 28. Ventotto giorni sono stata in prigione. Poi dalla prigione hanno fatto il convoglio e portata là. Però quando ero in prigione i miei ogni due/tre giorni venivano a portarmi la biancheria pulita e anche qualcosa da mangiare perché in prigione si mangiava quello che si mangiava, insomma. Risi e bisi tutti i giorni.

Sapendo che dovevo partire per la Germania, ho messo un biglietto nell’orlo del vestito. Loro andando a casa hanno trovato questo biglietto. Il giorno che siamo partiti sono venuti tutti in stazione a Ronchi, i familiari, gli amici, i conoscenti, tutti quanti.

Quando siamo arrivati a Ronchi il treno s’è fermato perché c’era la stazione gremita di gente. Hanno fermato il treno e sono venuti tutti giù a salutare i nostri famigliari, ci hanno portato diversa roba da mangiare, hanno portato vestiario, roba.

Lì ci hanno lasciato un quarto d’ora. Poi siamo saliti di nuovo tutti quanti in treno sulla tradotta del bestiame e siamo partiti per la Germania. Però neanche in Germania, in Polonia.

D: Scusa un attimo Albina. Scusa un secondo.

R: Sì.

D: Hai detto che quando ti hanno arrestata a Ronchi dei Legionari tu facevi la trentesima. Eravate in trenta sul camion.

R: Sul camion.

D: Quanti della tua famiglia?

R: Della mia famiglia c’erano mia sorella e mio cognato.

D: E gli altri chi erano?

R: Gente di Ronchi, tutti amici, ci si conosceva, ci si conosceva tutti quanti.

D: Ho capito. Dopo ti hanno caricato alla stazione di Trieste?

R: Sì, quando eravamo in prigione alla mattina presto ci hanno fatto venire fuori tutti quanti dalle celle e ci hanno portato giù in prigione. Giù c’era altra gente delle altre celle, era una fila grande, saremo stati circa duecento persone, sì, perché il treno era grande, era tutto pieno, tutto pieno.

Però il treno era per Auschwitz e per Buchenwald. Mio cognato l’hanno portato a Buchenwald, non a Mauthausen. Il treno era lungo, metà ad Auschwitz, metà a Buchenwald.

D: Ascolta un’altra cosa.

R: Dimmi.

D: Quando eri in prigione a Trieste sei mai stata interrogata?

R: Poco. Quando eravamo appena arrivati nello stanzone, lì mi hanno domandato qualcosa ma poco perché non avevo da dire niente, non ero come i partigiani che li prendevano qua e là e avevano da dire. Non c’era motivo per farlo perché non avevo cose da dire.

D: I vagoni dove ti hanno messo erano carri bestiame?

R: Carri bestiame, sì, altro che, chiusi anche, tutti chiusi. Quello sì.

D: Sul tuo vagone in quanti eravate?

R: Oddio, tanti. Tanti perché stavamo in piedi come sardelle, tanti. Saremo stati trenta, anche più, tanti.

D: Solo donne?

R: Solo donne. Solo donne, sì.

D: C’erano anche delle ragazzine o persone anziane?

R: No, persone anziane sì. Io avevo 22 anni compiuti, loro erano più anziane di me. Mia sorella era del 1902, era più anziana, tanto più anziana, anche altre. Noi eravamo fra le più giovani, 20-22 anni.

D: C’erano delle guardie?

R: Quando ci hanno portato via?

D: No, quando eravate sul vagone, sul Transport.

R: C’erano carabinieri nostri e tedeschi delle SS, sì, anche nella prigione ci hanno portato alla stazione a Trieste, dopo hanno fatto il viaggio con noi fino al campo. Anzi un carabiniere ci ha detto: “Andè via contente perché se in preson ti es chiuse per ciapar aria, ma là vedarè qualcosa che non ve aspetè”. Un carabiniere me l’ha detto. Quello ha detto giusto.

D: Dopo che siete partiti da Ronchi, quanto è durato il viaggio? Te lo ricordi?

R: Da Ronchi col treno? Cinque giorni di viaggio perché c’erano i bombardamenti. Il treno si doveva fermare, mettersi da parte, non andare avanti. Cinque giorni perché siamo arrivati il 3-4 luglio là.

D: Mangiare e bere?

R: Mangiare e bere caro… Allora, mangiare… Noi ringraziando Iddio avevamo ancora qualcosa perché fermando a Ronchi… Davamo da mangiare anche agli altri. Prima di tutto, eravamo in giugno, noi avevamo tanti frutti, tante ciliegie. Mi avevano portato un cestino di ciliegie, tante. Le ho spartite in treno con tutti, anche altra roba. Poi ho tenuto anche qualcosa per me che mi hanno portato via, però ho mangiato quel poco che avevo portato via. Chi aveva portato via dalla prigione, chi aveva portato qualcosa lì in stazione, ma da mangiare, caro, niente.

Quando dovevamo andare a fare i bisogni, quando c’era il treno fermo, pregavamo quelli delle SS, loro scendevano e noi vicine a far pipì, vicino a loro. Basta, poi risalire e andare là.

D: E il treno è arrivato dove?

R: Il treno dentro Auschwitz. Dentro Auschwitz.

D: Cioè Birkenau, Auschwitz 2, Birkenau.

R: No, ho paura perché questo è il fatto, perché io mi ricordo benissimo di aver visto, anzi mia figlia è qua presente che mi aveva domandato le dicevo sempre: “Mi resta in testa quel portone che c’è scritto Arbeit…” Io l’ho visto là. Io non so che giro mi hanno fatto fare perché adesso ho visto com’è Auschwitz 1 e Auschwitz 2, ma prima non lo sapevo. Adesso ho visto qualcosa di più. Là non si sapeva dove ci avevano portato.

D: Quando il treno è arrivato era mattina o sera?

R: Era verso mezzogiorno, no, verso le dieci e mezzo/mezzogiorno siamo arrivati. Appena siamo arrivati abbiamo visto il demonio. Vicino a noi quando ci siamo fermati, hanno fermato un treno di ebrei, carico, stracarico di gente mezza viva, mezza morta.

Noi eravamo da parte. Hanno aperto i vagoni, hanno preso questa gente morta, chi per le braccia, chi per le gambe e li buttavano giù di peso.

Noi appena arrivati, abbiamo detto: dove siamo arrivati? Spaventate e basta. Dopo un’altra cosa. Fino che siamo andate avanti in fila sempre lì abbiamo visto mucchi di scarpe, mucchi di capelli, orologi, carte d’identità. “Signore Iddio, cosa c’è qui?” Eravamo vicino al crematorio perché ci hanno portato dentro proprio negli stanzoni del crematorio. Noi non lo sapevamo.

Siamo entrate in questo stanzone grande. Era pieno come di spine, queste cose fuori come quando si fa la doccia. Madonna, cos’è. Noi siamo entrate là. Ci hanno fatto fare, per modo di dire, una doccia. Prima l’acqua bollente. Dopo acqua fredda. Con quella ci siamo lavate. Nude, ci hanno messe da parte là. Ci hanno tagliato i capelli, ci hanno rasate, ci hanno portato via tutto.

Quando ci siamo guardate tutte quante non sapevamo se piangere o se ridere, non ci si riconosceva più, senza capelli, spaventate. Robe da non credere.

D: Albina, c’erano delle donne incinte con te?

R: No. Questo no. No. Delle donne più anziane sì, erano due, anzi, poverette, neanche tornate, ma incinte no. Neanche tanto giovani, erano come noi sui vent’anni, ventidue. Altrimenti un po’ più vecchie.

D: Poi che cosa vi hanno fatto dopo la doccia, cosa vi hanno fatto?

R: Ci hanno attaccato il numero sul braccio. Tutti in fila, ci hanno fatto il numero.

D: E il tuo numero te lo ricordi?

R: Me lo ricordo sì, me lo ricorderò: 82139, lo ricorderò per tutta la vita anche se non l’ho sul braccio.

D: E come hanno fatto a farti il numero?

R: Il numero non era una cosa tanto difficile. Era come una penna, come quando si fanno le punture, una robetta così, avevano una pratica tagliente, mi tagliano il braccio a puntini. Un attimo, non faceva male, erano come beccatine, robette così da niente.

D: Eravate in piedi o sedute?

R: Quando ci facevano il numero sedute perché si doveva appoggiare il braccio. Loro erano seduti vicino e facevano questo numero.

D: Dopo ti hanno dato dei vestiti?

R: Mi hanno dato dei vestiti, sì, mi hanno buttato dei vestiti. Mi ricordo sempre, mi hanno dato, erano tanto pieni di pidocchi, poveretta, una maglia verde che avrò tenuto su per tre mesi, una cottola, non so di che colore era, se era a campana o a pieghe, non so. Perché come ti disinfettavano loro, mettevano dentro, poi buttavano là la roba. Non era sporca, era disinfettata, era “sgrisinida” in dialetto.

D: Tutti qui i tuoi vestiti?

R: Oddio, i miei vestiti erano anche un paio di mutande legate in vita lunghe fino al ginocchio che si tenevano su a fatica. I vestiti erano tutti quelli, non erano altro. Un paio di scarpe, una scarpa numero 36 e una scarpa numero 38. Avevo un calzino corto e un calzettone. Immaginate voi.

Poi ho m’è toccato anche andare in ospedale per causa di queste scarpe, mi hanno fatto male, mi è toccato andare in ospedale perché mi si erano gonfiati i piedi, camminando, camminando con le scarpe mal messe, una stretta e una larga, andando fuori a lavorare mi avevano fatto male.

Una mattina male, male, avevo quaranta di febbre, mi hanno portato in infermeria, mi hanno portato in ospedale, mi hanno operato. Sì, mi ha operato una dottoressa russa prima la gamba. Ho fatto due giorni che mi hanno operato alla gamba, dopo due giorni mi è venuto fuori qua sotto il braccio un affare grosso così. Mi hanno operato anche sotto il braccio. Insomma, ho fatto quasi dieci giorni di ospedale sempre a Auschwitz nelle baracche.

D: Dopo però la spogliazione ecc. l‘immatricolazione, ti hanno portato in baracca.

R: Mi hanno portato in baracca, sì. La baracca sarebbe una baracca per stare un periodo perché eravamo come in quarantena perché avevano paura che da fuori portavamo le malattie. Ci mettevano in quarantena.

Però la quarantena non l’abbiamo fatta perché c’era tanta di quella gente. Avremo fatto quindici-venti giorni, dopo da là ci hanno tirato fuori, ci hanno messi nel blocco n. 13 che l’ho cercato adesso, ma non l’ho più trovato.

D: Quando sei stata lì ad Auschwitz, quando eri lì ad Auschwitz hai lavorato tu?

R: Sì, si, ho lavorato. Mi portavano fuori. I primi momenti mi hanno portato fuori senza lavorare. Mi portavano fuori la mattina, mi facevano camminare e andar per i campi. Ci davano una pala ciascuno, un badile, girare la terra del campo i primi momenti.

Poi è arrivato il momento che mi hanno cambiato di blocco, mi hanno messo in un altro blocco e lì eravamo già pronte per andare a lavorare.

Loro fuori da Auschwitz avevano delle grandissime fattorie, avevano dei trattori, avevano dei cavalli, avevano tutto, facevano questo grande raccolto per il campo stesso.

Noi ci portavano fuori. Come tagliavano il frumento, noi dovevamo prendere i covoni, legarli, metterli da parte perché come si girava, dovevamo fare alla svelta, portali qua. Per un periodo finché c’era il frumento.

Dopo invece c’era non l’orzo, una cosa come i fagioli, ma non erano fagioli, era un’altra roba. Allora prima passavano sulla macchina, aveva su questa roba, i fagioli, li mettevano lì. Dopo noi col vasetto che avevamo buttato qua, quello da mangiare, si doveva in fila così, trenta, quaranta donne tutte quante in fila abbassate a tirar su i grani per terra. Riempire i vasetti e buttarli nei sacchi.

La sera c’erano centinaia di sacchi pieni di roba, di tutta la roba cascata per terra. Tutto il giorno con la schiena abbassata per tirar su questa roba e metterla nei sacchi. Si facevano quei lavori ad Auschwitz.

Quando si usciva, c’era la banda, tutte le belle signorine di fianco al portone, c’era il Presidente, mi ricordo quando si suonava che si passava. Bisogna che non ci pensi perché se no… Mi vien su…

D: Ascolta, altri lavori ne avete fatti?

R: Lì ad Auschwitz no perché dopo Auschwitz io sono stata a mi ricordo benissimo perché era il mio compleanno, stavo tanto male. Mi hanno portato via. Quando siamo stati a … al 30, perché sono arrivata a Ravensbrück il giorno 30. Il giorno 29 ad Auschwitz mi hanno detto che non si va a lavorare, si va fuori, bisogna tenersi tutti quanti lì fermi perché da un momento all’altro verrà un trasporto, cambiamo campo perché i giovani bisogna che vengano portati via, devono andare a lavorare in altri posti, perché si sentivano già i bombardamenti, la guerra.

Allora la mattina mi hanno portato in questo grande stanzone a fare i bagni, a cambiarsi di roba perché dovevamo fare questo trasporto.

Allora così è stato, bagno, per modo di dire, come erano abituati loro, un po’ di acqua calda, un po’ di acqua fredda, nude, ore lì senza asciugarsi, senza niente, come si è.

Allora finiamo di lavarci, ognuno passa in fila e le butta la roba. Chi un paio di mutande, chi un vestito, chi una calza. Passo io, mi buttano la mia roba. Però al momento delle scarpe, le scarpe, io sono l’ultima, no.

Vado là, vado vicino alle… Le chiamavano perché non erano neanche tedeschi questi delle SS, erano prigionieri come noi, però erano tedesche e polacche ed erano anche lì da tanto tempo prima di noi e allora erano i nostri comandanti.

Erano la Stubowa, la Blokowa, tutti quei nomi che davamo. Vedendo che ero così malcontenta, ma come, tutti hanno le scarpe e io no? Sono andata là, il mio parlare, un po’ che mi arrangiavo, non si capiva tanto, ma ho fatto in modo di far capire che io le scarpe non le avevo. Aspetta che vado a guardare un momentino se è avanzato qualcosa là. Va a guardare, “Nein”, niente. Io non vado via scalza.

Sì, ja che vado via. Come faccio? Per terra tutto pieno di pietrisco che appena si metteva i piedi per terra erano bucati. Mi siedo da parte, dico “Maria Vergine, come faccio da sola?” Mia sorella non era con me, non eravamo in campo assieme. Bisogna tener conto che io avevo 22 anni, lei ne aveva tanti di più e allora era in un altro posto.

Non l’avevano messa in quarantena, l’avevano subito mandata a lavorare sull’altro campo, faceva tappeti, con quelle più anziane. Ho detto, “Madonna, qua sola, senza scarpe, senza niente, come faccio?” Cominciava a fare freddo, erano gli ultimi di ottobre là in Polonia, fuori, l’aria era fredda. “Cosa devo fare, Maria Vergine?” Mi metto lì, batto la testa, mi tiro in parte. Madonna, un paio di scarpe. Bisogna stare attenta. Torno a guardare, un paio di scarpe. Mi abbasso pian piano, un paio di scarpe. Guada se c’è qualcuno, non c’è nessuno. Avevo paura che qualcuno veniva. Nessuno viene. Guardo le scarpe, 39, nuove, me le sono messa su, le più belle scarpe mai avute. L’ho raccontato nel campo adesso agli studenti e alle professoresse.

Prima di andar via mi hanno detto: “Signora ci racconti quella delle scarpe”, eravamo ad Auschwitz. Quando racconto, mi vengono i brividi perché è come se fosse stato un… Meraviglia. Non ne potevo più, sola, senza scarpe e invece le scarpe.

Prendo le scarpe, le metto su, ringrazio Iddio, il Signore benedetto, ringrazio, avevo le più belle di tutte. Dopo un po’ che eravamo in fila siamo partite. Ho avuto la grazia.

D: Era quando? Quando sei partita?

R: Son partita… Sono arrivata là il 30 ottobre, sono partita un giorno prima perché in un giorno siamo arrivate. Siamo partite la sera, abbiamo fatto tutta la notte, a mezzogiorno eravamo già a . Questa tenda nera Ravensbrück che ha detto la signora Rosina, Maria Vergine, la tenda della morte. Quando siamo arrivate ci hanno messo sotto là. Là c’era un tocco di pane, ma io stavo tanto male che ho preso il pane, l’ho messo sotto qua, il pane, un pezzettino di burro.

Al mattino avevo fame, ma il pane non c’era più, me l’avevano portato via.

D: Eravate in tante da Auschwitz ad andare a Ravensbrück?

R: Sì, eravamo in tante. Avevano scelto tutte le giovani, tutte meno di trent’anni, tutte sui venti, venticinque, tutte giovani. Sì.

D: Quanto tempo sei rimasta nella tenda nera di Ravensbrück?

R: Non tanto, era soltanto come per un riposo e poi continuare il viaggio. Mi hanno portato lì quando siamo arrivate verso mezzogiorno, metà giornata, mi hanno dato qualcosa, ero stanca, ho dormito. La mattina dopo siamo ripartite di nuovo.

D: Per dove?

R: Ravensbrück

D: E a Ravensbrück sei arrivata?

R: A Ravensbrück siamo arrivate… Là abbiamo trovato subito altro. Come mangiare e dormire era sempre uguale, perché… Invece tutt’altro perché appena arrivate ci hanno fatto fare la doccia, una roba più decente, non ci hanno scottato. Dopo ci hanno dato un paio di braghe, un giubbetto, un paio di mutande, lunghe anche quelle, ma non importa, stavano su per miracolo, mi cascavano sempre e le rimettevo su.

Insomma là non era un campo di quelli tremendi, era un campo più piccolo, tutte lavoravamo in fabbrica, c’erano tante polacche, tante tedesche. Italiane non eravamo in tante. Quelle slovene, anche slovene italiane perché erano di Pola, Fiume, quelle parti che erano ancora italiane.

D: Ti hanno cambiato numero?

R: Cambiato numero del braccio no, perché quello mi è restato, però numero qua sul petto sì. Allora qua avevo un altro numero, perché avevamo anche il numero. Eravamo in meno e il numero era tanto più basso.

D: Te lo ricordi il numero di Ravensbrück?

R: Guarda, non vorrei dirti una bugia, so che era col 4 davanti, sono sicurissima, ma adesso proprio tutto il numero, non voglio dire una bugia.

D: E il blocco te lo ricordi, in che blocco ti hanno messo?

R: Non erano numerati. No. Non c’erano tante baracche. Appena si entrava, c’era una baracca di SS donne. Tutte donne erano là, non uomini. L’appello, tutta la roba. Quello era interessante, l’appello. La mattina ci si doveva alzare presto, e il conteggio durava un’ora la mattina, era come punizione del campo, e un’ora la sera quando tornavi dal lavoro. In fila dritti sempre sull’attenti, guai se ci si muoveva, un’ora. Pioggia, neve, freddo, caldo, non importa. Chi stava male cascava, chi doveva fare i suoi bisogni andava sulla carriola e li cacciavano dentro in una carriola, dovevano aspettare che finisse l’appello e poi andavano a tirarli su.

Ci vorrebbe più di un’ora per raccontare tutto, è un piccolo riassunto. Una robetta così, perché raccontare tutto è troppo lunga.

D: Lì a Ravensbrück, dove andavate a lavorare?

R: Nelle fabbriche.

D: Fuori dal campo?

R: Fuori, sì, si doveva camminare dieci minuti e più. C’erano delle fabbriche grandi di aeroplani. Per una settimana ci hanno portati dentro, ci davano dei piccoli pezzi di alluminio, chiamiamoli di alluminio, e delle robette sue, da fare come chi era più bravo, chi sa far qualcosa per dopo dare i posti, come pareva loro di darmi il punteggio di chi era più… chi non era mai stata in fabbrica. Insomma, abbiamo fatto lì per un po’ di tempo.

Dopo ci hanno mandato nelle fabbriche a lavorare. Ci facevano l’appello, dopo c’era questa strada dove andare e si andava nelle fabbriche. Ognuno aveva il suo lavoro. Io lavoravo come in grandi vasche, tanta schiuma dentro, si lavavano dei pezzi, a volte mi davano, a volte niente, si dovevano lavare questi tocchi, però neanche là sono stata tanto perché sono cominciati i bombardamenti. Non siamo stati tanti nelle fabbriche.

D: Ascolta, nelle fabbriche c’erano anche degli uomini?

R: No. Tutte donne, erano proprio anche tedesche che lavoravano. Due uomini c’erano, ma non prigionieri, erano gente tedesca, due giovani che io guardavo sempre perché mangiavano delle mele piccole, mi facevano venire l’acquolina in bocca. Forse erano istruttori, guardavano quello che facevamo. Si stava abbastanza bene, c’era caldo in fabbrica. Si era riparate dal freddo, dalla pioggia. Peccato che è durato poco perché ci sono stati dei bombardamenti a Berlino. Non era tanto lontano da Berlino.

D: E dopo dove ti hanno portata?

R: Basta. In tre campi: Auschwitz, Ravensbrück, Wittenberg l’ultimo, l’ultimo è Wittenberg dove c’erano le fabbriche, tre ne ho passato. A Wittenberg c’è stata la fine che non mi è toccata tanto bella, ma mi pare che c’è ancora da dire qualcosa prima della fine.

D: Dai, dì ancora qualcosa.

R: Posso dire questo. In fabbrica sarò stata qualche mese, un mese e mezzo, dopo sono cominciati i bombardamenti, dei fumi che non si vedeva bene in cielo, tutto per coprire queste grandi fabbriche dov’erano.

Lì ci portavano nei rifugi. Dopo devono aver bombardato anche le fabbriche e non abbiamo lavorato più nelle fabbriche. Dopo ci hanno portato sempre in questo campo, ci facevano andare a lavorare per i camminamenti per i tedeschi, sottovia a coprire queste strade, a tagliare con la pala i tocchi d’erba, poggiarli sopra con le mani, prenderle così, portarle, per fare questa strada e loro passavano sotto i tedeschi. Erano gli ultimi momenti, perché era lì la guerra. Abbiamo fatto quello fino agli ultimi.

Si sentiva, guardate che sembra che finisce, che la guerra sia finita. Dopo una mattina abbiamo sentito correre, bim, bum, abbiamo guardato. Avevano tagliato con le forbici grandi, quelle che tagliano il ferro, avevano tagliato tutta la rete, hanno tirato via la corrente, hanno tagliato la rete. Allora tutti quanti con queste coperte sono scappati.

Ma noi eravamo in sei italiane siamo andate via da lì alla mattina con queste coperte sulle spalle, c’era la guerra, questi militari, questi carri armati, questa roba. Non sapevamo come fare, gira e volta. Poi alla sera abbiamo detto, torniamo al campo che è meglio perché dove andiamo a dormire? Dormire nei fossi non si poteva perché c’era la guerra.

Allora siamo tornate al campo. Ma al campo non abbiamo trovato più come prima. Quelle delle SS vicino alla nostra baracca avevano una cameretta, avevano i vestiti, le fotografie, le loro robe. Intanto che noi eravamo via avevano rotto tutto. Quando siamo entrate, hanno cominciato a picchiarci, non sapevamo neanche per cosa, perchè avevamo rotto tutto, tutti i loro ricordi, i loro vestiti, la loro roba. Cosa avevamo fatto? Noi non sapevamo niente.

Per fortuna che ce n’era una che sapeva parlare un po’ l’italiano. Ha detto, “Lasciatele in pace, io ho un figlio a Trieste e non vorrei che mi uccidessero mio figlio. Lasciatele andar via e non fate loro niente”.

Andar via e a dormire? Dobbiamo stare lì lo stesso. Allora siamo state lì. Una di Venezia mi ha detto: “Albina, vieni con me che io so dove nascondono le patate, così stasera possiamo mangiare”. Erano due giorni che non si mangiava.

“Guarda Maria, mi dispiace tanto, ma io non mi sento di venire”. “Perché devi dire di no?” “Io vi faccio la minestra, vi faccio quello che volete, ma a prendere le patate non vengo”. Con quattro parole brutte, “Guarda, va da sola”. E’ andata da sola. Noi stando alla finestra l’abbiamo guardata. Quando è stata sulla meson delle patate, i tedeschi l’hanno ammazzata. Mi aveva tanto pregata di andare. Io avevo detto, “Mi dispiace, fammi fare la minestra, fammi fare quello che vuoi, ma io con le patate non mi sentivo”. Se mi fossi sentita, avrei fatto la sua fine. L’è toccata bella.

Dopo siamo tornate indietro. Visto che l’avevano ammazzata, spaventate, non avevamo neanche da dormire, siamo scappate via prima che ammazzassero anche noi. Abbiamo preso paura anche dopo.

Poi il viaggio con i russi. Siamo andate via, camminando, camminando un giorno, due giorni, una s’è ammalata, un’altra è morta e io sono rimasta sola.

Per fortuna che passando per la strada, passavano un po’ ragazzi con lo stemma dell’Italia. Allora io ho detto che mi era successo così, che ero rimasta sola. Loro erano di Bologna. C’erano anche degli sloveni che passavano, si sono trovati insieme, hanno fatto un gruppetto. Aspetta un momentino. Mi sovviene. Avevo in mente di dire qualcosa ma mi è sfuggito.

D: Aspetta Albina, ti faccio io due domande, ascolta.

R: Sì.

D: Quando eri ad Auschwitz oppure a Ravensbrück tu hai subito delle punizioni, delle violenze?

R: No.

D: Hai visto delle violenze, delle punizioni?

R: Sì. Le ho viste proprio, agli ebrei, ne ho viste diverse. Ne ho vista una. Mentre si lavorava nei campi, come ti dicevo che raccoglievamo i fagioli, quella roba, c’era un ebreo che aveva il lavoro suo con i cavalli. Però nei taschini doveva aver avuto qualcosa, io ho visto che ha tirato fuori perché era di fianco a me lì, però il tedesco furbo delle SS l’ha visto, è venuto vicino, gli ha chiesto cosa ha tirato fuori, una bottiglietta.

Ha tirato fuori la frusta dei cavalli, gliel’ha data sul viso, gli ha tagliato mezzo viso. Io ero lì vicino. Dopo un’altra roba. La mattina quando andavamo noi c’erano dei letamai grandi, avevano tante bestie, era pieno di bestie per il latte, per il lavoro, c’erano dei letamai grandi, era la stagione calda e questi letamai grandi asciugavano.

Prendevano gli ebrei, tutti ragazzi, li mettevano dentro nei letamai tutti quanti. Uno andava a prendere l’acqua, l’altro gli dava il secchio e quello doveva svuotare il secchio dell’acqua e dopo gli mollavano anche l’acqua. Quando era sera, erano fin qua dentro nel letame, fino qua.

Quando sono tornata dall’ospedale è toccata bella anche a me. Allora mi hanno detto “Va”, io sono partita, sono andata via, però c’era il coprifuoco; siccome c’era il crematorio in funzione, doveva esserci coprifuoco, nessuno doveva camminare. Mi hanno mandato fuori. Vedo una tedesca che viene verso di me. Aveva una gomma di quelle del vino. Mi tocca bella. Parla, io non capisco niente di tedesco. Parla, grida. Ero appena uscita dall’ospedale, non potevo neanche camminare perché avevo avuto tanti giorni la febbre, mi avevano operato perché stavo male. Mi ha fatto capire che non si doveva passare. Ma se io ero in ospedale, ma non capiva. Doveva essere polacca, non capiva.

Insomma me le ha date. Via svelta. Arrivo in campo, non trovo più il mio letto, non trovo le coperte, era verso sera, non trovo niente. Il mangiare l’avevano già dato, salta anche il mangiare. Maria Vergine che roba.

La Blokova mi dice: “Stasera devi dormire lì”. “No”, ho detto io. I letti erano a tre corsie, tre castelli, sotto c’è come un cemento, come un buco. Dovevo andar in quel buco là a dormire. Io ho detto di no che non vado. “Sì” dice. “No” dico, non sono andata perché avevo paura degli scorpioni. “Io non vado”, ho detto. A vedermi dura, lì in piedi, mi ha fatto capire, c’era un letto su senza coperte, “Va su che io non ti vedo”. Ma in quel buco non vado, no, caro.

D: Albina, eravate tutte donne?

R: Sì, tutte donne. Vedevamo gli uomini perché erano di fronte a noi con la rete, li vedevamo. Ma noi eravamo tutte donne.

D: Hai visto anche dei bambini per caso?

R: Dei bambini, sì. Ho visto dei bambini. Perché nella baracca 13 dov’ero in quei quindici giorni, là c’era una baracca piena di bambini. A dir la verità io non posso dire tanto male. Oddio, piangevano, le mamme andavano vicino, erano cose che non andavano bene. Ma che facevano robe brutte io non posso dire perché io dico quello che ho visto. Le altre robe più grosse non le dico, non le ho mai dette, non le dirò mai.

D: Albina, le mestruazioni?

R: Quelle caro, appena ero in prigione. O che mi hanno messo qualcosa nel mangiare, o delle grandi paure. Perché i giorni che mi dovevano venire le mestruazioni, basta, in prigione non mi sono venute più. In prigione avevamo paura del fatto perché ogni tedesco che ammazzavano, venivano nelle celle a tirarne fuori dieci.

Allora la notte dicevamo chissà a quale cella tocca. Quella era la nostra paura. La paura era quella.

D: Ascolta, pensavi a qualcosa dentro nel campo? Pensavi a casa, pensavi a tua sorella?

R: Pensavo al mangiare. Pensavo al mangiare, ma non al mangiare buono, alle cose buone. Pensavo quando facevo il latte, il burro a casa con il fiasco in tempo di guerra. Pensavo: Quel latte lungo se l’avessi qua”. Non mi interessavano i pollastri, le galline. M’interessava quello e basta perché avevo tanta fame.

D: Ti ricordi adesso quando hai incontrato quegli Italiani alla Liberazione? Alla liberazione della fabbrica che sei rimasta da sola e hai trovato quegli italiani. Cos’erano? Militari?

R: Militari, bravo. Militari. Allora sono andata con loro per un periodo. Venivo sempre verso casa. Treni non c’erano, non c’era niente, c’era ancora la guerra, era un disastro finché non siamo arrivati un po’ più in giù.

Lì sono restata con questi qua. Una sera freddo e pioveva, c’era una brutta giornata. Questi ragazzi, andare avanti non si può andare. Abbiamo visto una casa, i tedeschi ci mettono del fieno, là sola, era mezza diroccata. Ci fermiamo là almeno stiamo là e non prendiamo la pioggia.

Così abbiamo fatto. Siamo andati là. Sola con questi sei ragazzi. “Tu Albina ti metti nell’angolo e noi dormiamo qua. Non aver paura, se viene qualcuno ci siamo noi”. Dopo tre ore che eravamo lì sento come quelle pile che c’erano. “Maria Vergine”, ho detto ai ragazzi, “viene qualcuno”. “Tu Albina stai buona, se viene qualcuno ci siamo noi”.

Entrano russi ubriachi. Entrano, prendono queste coperte. Prende la coperta, tira, c’ero io sotto. “Ah”, dice l’altro, viene vicino a me, mi ha tirato su. Gli ho mollato un sburton. In questa casetta mezza diroccata c’era una finestra bassa. Ho fatto un salto, non so come, ho fatto un salto fuori. Pioveva, era scuro, sola. In fondo vedevo come una luce. Corro fin là. Corri, corri, corri, arrivo là. C’era una stazione, una stazioncina piccola con un treno fermo e un po’ di gente che aspettava il treno, tedeschi, polacchi.

C’era il treno fermo e la stazione qua. Come faccio ad andare di là? Mi sono abbassata sotto il treno. Per sotto e sono passata. Sono arrivata là. La gente mi guardava e parlava tra loro. Da dove arriva questa?

Mi giro, vedo uno che mi segue, era un italiano di quelli che erano col gruppo, quello di Bologna. “Albina, sono venuto dietro, dove vai? Sola?” “Mario, erano ubriachi”. Non so cosa dire. Mentre eravamo lì a parlare, arriva la ronda dei russi, viene vicino. Mario, poveretto, è venuto a casa mia finito tutto, da ragazzo è venuto a casa mia con la famiglia, eravamo come fratelli. Aveva la giacca da tedesco. I russi non sapevano se era tedesco, se era prigioniero, chi era.

Anche loro saranno stati mezzi ubriachi. Domanda, “No. Nein Deutsch. Niente”. Questo che mi correva dietro, tutto bagnato, credevano fosse tedesco. Mi commuovo un po’ e perdo il filo. Dopo siamo tornati. Andiamo ancora dove sono i ragazzi. Siamo andati via. Dopo per fortuna abbiamo avuto una gioia.

Dicono questi ragazzi: “Senti, stiamo due giorni assieme e andiamo un pezzo avanti insieme”. Io sola donna, questo ragazzo che non faceva parte di loro e questi ragazzi qua. Camminiamo. Là c’era un paese tutto deserto perché la gente era tutta scappata, c’era la guerra.

Dicono questi ragazzi, mi è venuta un’impressione. “Dai, dai, senza mangiare ti gira”. Proprio perché sono senza mangiare penso a qualcosa. “Da quanti giorni non mangiamo?” “Ma, non so”. Io ho visto che vicino a quella casa c’è della terra mossa. Sì. C’è nascosto qualcosa.

Andiamo a cercare se c’è qualcosa. Sono andati sul dietro, hanno trovato la pala. Trovano questo pezzo di roba che avevano ben coperto, viene fuori il ben di Dio. Tutti questi vasetti preparati. C’erano galline, oche, non so quanti vasetti. Da un sacchetto da parte coperto c’era farina di polenta.

Allora tutti contenti. Madonna della misericordia. Prendiamo, svelti, a me e a Mario ci hanno messi da parte. “Adesso noi prendiamo tutto e poi anche voi due”. Sono entrati, hanno trovato pignatte per fare la polenta. “Io”, dico, “vado in camera a vedere se trovo qualcosa”. Ho trovato un catino con la brocca per lavarsi. Così abbiamo fatto la polenta, abbiamo mangiato e ne hanno dato un po’ anche a me e Mario.

D: Albina, quando sei rientrata in Italia?

R: Sono rientrata in Italia il 27 agosto, il giorno che è nata lei, mia figlia. Non posso significare perché è nata il giorno stesso, la prima figlia, il 27 agosto. Di sera.

Bettiol Tullio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Tullio Bettiol nato a Belluno il 1 gennaio del 1927. Sono stato arrestato a Belluno a casa dei miei genitori da una squadra di tedeschi, saranno stati dieci o undici della SS che sono venuti alle 5 di mattina per arrestare mio padre che era in casa. Mio padre è riuscito a nascondersi in un nascondiglio che avevamo creato nella casa, mentre io sono rimasto a letto.

D: Scusa Tullio, perché volevano arrestare il tuo babbo, chi era il tuo babbo?

R: Mio padre era un componente del Comitato Liberazione Nazionale Provinciale per conto del Partito Comunista Italiano. Partecipava, da lungo tempo, prima all’antifascismo e poi alla guerra di Liberazione. Si era assentato da casa, ma quel giorno era in casa, casualmente, probabilmente c’è stata qualche soffiata che indicava che mio padre era in casa e sono arrivati questi tedeschi. Noi eravamo come Alpenvorland, cioè annessi al grande Reich e quindi c’erano sì i fascisti ma non la Repubblica Sociale, c’era il commando, c’era la Federazione Repubblichina ma il territorio era governato e comandato dai tedeschi.

D: Quando sono venuti ad arrestarti?

R: Ricordo bene la data perché erano finite le scuole da pochi giorni, era esattamente il 19 Giugno del 1944. Sono venuti alle 5 di mattina, hanno circondato la casa. Mia madre ha dovuto aprire la porta di casa, sono entrati e io me li sono trovati in camera con i fucili puntati. “Raus!

Raus!”, i soliti discorsi che facevano, alzarsi in breve tempo. Mi hanno fatto caricare la radio che avevamo in casa e una macchina fotografica.

Mi hanno portato subito al distretto militare dove c’era il commando della polizia tedesca, della SS. Lì sono stato chiuso in una stanza assieme ad una ventina di persone, venti/trenta persone della città di Belluno che erano state arrestate insieme a me. Ad una certa ora sono arrivati anche il gruppo di feltrini che erano stati arrestati anche loro quella mattina. Sono stati trattati, devo dire la verità, in misura peggiore che noi, nel senso che a Feltre si erano presentati questi SS certamente ubriachi e hanno anche creato fatti di sangue; tant’è vero che sulle scale di casa, di fronte alla moglie, hanno ammazzato il Colonnello Zancanaro medaglia d’oro poi al valor militare e il figlio che era a scuola con me, era un anno più vecchio di me. Sulle scale di casa li hanno ammazzati.

C’erano anche dei preti e sono arrivati al distretto verso le 7,30/8,00 del mattino.

Ci hanno tenuti tutto il giorno chiusi in queste stanze, dopo di che in colonna, a piedi, ci hanno portato nel carcere della città a Baldenich, in località Baldenich. Siamo stati smistati, io sono stato posto in una cella singola, non so perché, e sono rimasto lì parecchi giorni, una quindicina di giorni in segregazione. Non vedevo nessuno, non sapevo niente. L’unica cosa che potevo fare era leggere qualche libro che mi passava la biblioteca del carcere. Non ho mai visto nessuno.

Finalmente dopo una quindicina di giorni mi hanno tolto dalla segregazione e mi hanno messo assieme ad altri.

D: Non ti hanno mai interrogato?

R: No, non sono mai stato interrogato. Anche questo è un mistero che non ho mai capito. Una mattina, eravamo ai primi di luglio il giorno preciso non me lo ricordo, deve essere stato intorno al 5/6 luglio, alle 5 di mattina ci hanno fatto svegliare in due o tre, ricordo io e Germano Sommavilla che poi abbiamo vissuto tutte le vicende che sono seguite assieme. Prima ci ha fatto vestire soltanto, tant’è vero che tutti hanno preso un po’ di paura, perché l’ora non era la più indicata, le 5 di mattina quando ci fanno alzare significa che può succedere sempre qualcosa di molto grave.

Per fortuna ci hanno detto di prendere le nostre poche cose che avevamo e quindi abbiamo capito che non succedeva niente di grave, ma succedeva qualcosa di diverso rispetto a quello che avevamo vissuto fino ad allora. Infatti ci hanno fatto scendere nel cortile del carcere, ed eravamo una trentina. Ci hanno caricato su dei camion e da lì in colonna siamo partiti verso Feltre.

Quando siamo arrivati a Feltre hanno caricato su questi pullman dei Carabinieri, non ricordo il perché. Ricordo benissimo che c’erano delle mogli, delle madri che piangevano, che urlavano intorno ai pullman. Ci sono state anche delle sparatorie in alto da parte dei tedeschi per allontanare la gente. Hanno caricato questi Carabinieri ed assieme abbiamo proseguito il viaggio, sempre con autocarri davanti e dietro con fucili mitragliatori e abbiamo imboccato la Valsugana.

Fatta la Valsugana siamo arrivati a Trento e poi a Bolzano al Corpo d’Armata. Nel Corpo d’Armata ci hanno tenuti tutto il giorno seduti sul campo e ad un certo punto hanno fatto uno smistamento. Io, Sommavilla e se ricordo bene, nessun altro, siamo stati portati a Gries.

Altri che ricordo sono: un certo professor Viaggi che era stato mio insegnante, allora si insegnava anche cultura militare, che era un ufficiale dell’esercito, dicevano che era dell’Intelligence Service. E’ stato portato a Dachau e non ha più fatto ritorno.

Altri sono stati tenuti al Corpo d’Armata e sono stati trasferiti nelle celle, credo, nei sotterranei del Corpo d’Armata. Io, Germano e credo altri tre o quattro, ma non di più, siamo stati portati a Gries, dove c’era questo campo che era in formazione perché allora, non ricordo la frase in tedesco, perché un po’ l’ho voluto dimenticare, sbagliando tutto, probabilmente, ma non importa, era indicato come campo di punizione e rieducazione SS. Forse punizione si può comprendere, cosa significasse rieducazione non l’ho mai capito.

Siamo entrati in questo campo, ci hanno portato in una stanza, ci hanno fatto spogliare completamente, ci hanno fatto mettere i nostri indumenti in un sacco e ci hanno dato una tuta di colore blu con delle strisce sulla schiena, sui calzoni e con il triangolo rosso sul taschino della giacca e un paio di zoccoli. Ci hanno messo nel cortile seduti ed è venuto uno con una macchinetta elettrica e ci ha pelato completamente.

É stata la prima volta che ho subito una grossa umiliazione, chi sa perché ma mi è venuto perfino da piangere a subire questa umiliazione.

D: Scusa Tullio, oltre al triangolo ti hanno dato anche un numero?

R: Sì, mi hanno dato una catenina di spago con un ciondolino sul quale era inciso il numero einundachtzig, 81, che ho dovuto sempre tenere al collo e come mia identità personale sono sparito, sono diventato solo un numero, dovevo rispondere solo al numero einundachtzig quando venivo chiamato per l’appello o per altre incombenze nel campo. Ormai Tullio Bettiol a quel punto non esisteva più, almeno secondo i tedeschi. Erano delle guardie tutte SS.

Eravamo in pochi allora, infatti io avevo il numero 81 poi invece il numero è sempre più aumentato perché sono arrivati quelli internati, deportati dal campo di Fossoli che si stava sciogliendo perché stavano avanzando le truppe alleate. Quando sono arrivati quelli di Fossoli il numero è notevolmente aumentato.

Io sono stato portato all’interno del campo poi assegnato al blocco A, era un capannone con dei letti a castello. Ci hanno dato una coperta e si dormiva in questo capannone. La vita del campo era abbastanza dura nel senso che come tempi ci svegliavano alle 5 di mattina, spogliare completamente all’interno del capannone, attendere che aprissero la porta, poi si doveva uscire nel cortile e fare la così detta doccia che consisteva in un risciacquo del corpo. L’acqua arrivava da un tubo forato, acqua fredda, eravamo in luglio però alle 5 di mattina allora non era molto caldo. Quindi si faceva questa doccia senza sapone, senza niente, un risciacquo del corpo con acqua fredda attraverso questo tubo. Dopodiché ci si doveva rivestire e ci davano la colazione che consisteva in una gavettina di, chiamiamolo caffè, era acqua sporca, acqua un po’ nera con un po’ di pane. Dopo incominciava la giornata vera e propria e dovevamo o trasportare nell’interno del campo delle travi, del legname, da un posto all’altro, oppure ci portavano in una cava del fiume vicino al campo di Gries e dovevamo caricare dei carrelli, dei decouville, di sassi e portarli, spingendoli a mano, portarli su nel campo. Era una vita molto dura soprattutto quando raccoglievamo i sassi perché era caldo, era un lavoro improbo, pesante. Quando si arrivava al campo ci davano qualcosa da mangiare, il mangiare era una cosa incredibile, era acqua sporca con una patata dentro e un po’ di pane quello nero che alle volte era anche ammuffito e poi si riprendeva lo stesso lavoro di prima e verso sera ci rinchiudevano dentro nel campo. Ci davano la cena che consisteva sempre delle stesse cose e ci chiudevano nelle baracche. Nelle baracche in silenzio si doveva dormire fino al giorno dopo. Devo dire che credevo non si potesse dormire su di un tavolaccio, invece ci si abitua, si dorme molto ma molto bene.

Alle volte succedeva o perché non si sentivano bene gli ordini tedeschi, o perché qualcuno commetteva secondo loro qualche grave fatto, allora c’erano le punizioni: calci o botte oppure punizioni vere e proprie soprattutto quando qualcuno tentava di scappare dal campo. Io ho assistito a scene veramente poco belle, poco simpatiche anche da raccontare, a dire la verità. Ma a Bolzano sì, botte sì ne ho prese perché magari uno spingeva questi carrelli e secondo loro non li spingeva con sufficiente forza allora era qualche calcio o qualche bastonata sulla schiena. Non si poteva reagire certamente a ciò che ci veniva ordinato di fare.

D: Ecco scusa, ritornando indietro un momento, tu dicevi che prima era campo di rieducazione e poi era diventato campo di punizione, cioè, è cominciato come campo di punizione, il personale di guardia, i comandanti eccetera, sono rimasti sempre gli stessi, che tu sappia?

R: Che sappia io sì, però io non ricordo i nomi di guardie che sono state poi citate nei vari documentari e nei vari documenti. Io non ne ho memoria. So che il campo, da campo di punizione è diventato campo di smistamento “DurchgangsLager“. Però i nomi non li ricordo, assolutamente. Eravamo controllati da questi SS, dai cani lupo, che erano lì nel cortile a disposizione delle guardie. No, ma i nomi non li ricordo.

D: Ti ricordi se all’interno del campo c’erano anche delle donne deportate?

R: Sì, a Bolzano sì. Direi soprattutto però ricordo le donne nel campo di Merano. Però è un episodio che forse viene dopo.

D: Ecco, e sempre a Bolzano ti ricordi dei sacerdoti deportati, dei religiosi?

R: No, non ne ho memoria.

D: Ebrei?

R: Ebrei sì, molti. Però devo dire che io a Bolzano sono rimasto un mese o poco più, perché poi sono stato trasferito in altra sede.

D: Come è avvenuta questa selezione?

R: La selezione è avvenuta in questo modo: ci hanno messo nel cortile in fila e ci hanno detto “Si facciano avanti quelli che sono disposti ad andare anche fuori dal campo o a trasferirsi in un altro campo”. Il mio amico Sommavilla, che era un pezzo di ragazzo, lo vedo, “Alza su le spalle, io sono un po’ curvo per natura, alza su le spalle, fagli vedere che sei forte e andiamo via di qua”. Siamo stati selezionati anche noi e ci hanno trasferito su dei camion, ci hanno trasferito a Merano nelle caserme di Maia Bassa.

D: Eravate in molti in questo trasferimento?

R: No, direi che saremmo stati una cinquantina, cinquanta/sessanta, però a Merano abbiamo trovato già dei prigionieri e donne anche che erano già lì, ma da poco, penso.

Eravamo divisi come sesso, da una parte gli uomini, dall’altra le donne. Lì si è modificata un po’ la situazione nel senso che la vita era meno dura che a Bolzano: botte no, mangiare se si può dire un po’ meglio…sì un po’ meglio. E ci portavano fuori dal campo, nella stazione ferroviaria vicino a Maia Bassa, saranno stati cento metri di distanza, e ci facevano scaricare del materiale dai vagoni ferroviari che avevano razziato un po’ in tutta Europa. Ricordo tessuti pregiati, quadri, tappeti, anche zucchero e generi alimentari, ce li facevano caricare su dei camion e poi ce li facevano smistare, portare e scaricare nei castelli vicino a Merano. Io ricordo benissimo il castello, sono riuscito a trovarlo anche recentemente, dove si doveva salire su per le scale con questi tappeti pesantissimi, a parte che eravamo un po’ debilitati anche noi questo è logico, e si doveva salire per le scale e portare su questi tappeti e accatastare tante di quelle cose in questi castelli… cioè, era materiale che era stato razziato un po’ in tutta Europa, direi, materiale anche prezioso. Prezioso nel senso: tappeti persiani, telerie anche di pregio e cose del genere.

Un’altra cosa che ricordo è lo zucchero: i sacchi maledetti, scusate il termine, di zucchero che ci si caricava sulle spalle e si dovevano portare su per le scale. Ed io ero un ragazzetto, insomma, non ero un colosso, avevo sedici/diciassette anni, ma non è che fossi un gran colosso. Poi ho dovuto sopportare questi carichi…eppure li ho sopportati, sono ancora qui. Quindi vuol dire che la capacità di sopravvivenza e la resistenza hanno un certo peso nella vita di un uomo. Lì a Merano si faceva questo tipo di vita. Anche da lì, senza preavviso né niente, ci hanno caricato, un gruppo, e ci hanno trasferito a Karthaus, Certosa.

D: Ecco, un attimo: il campo di Merano era allestito dove?

R: Il campo di Merano era nella zona di Maia Bassa vicino all’ippodromo e vicino alla vecchia stazione ferroviaria di Maia Bassa, erano delle caserme dell’esercito italiano. Si dormiva in questi stanzoni, non più in gran capannoni, ma in stanzoni come quelli delle caserme, insomma.

D: E lì le sentinelle, le guardie, chi erano?

R: Le guardie erano sempre SS. Sempre, sempre. Io ho sempre avuto a che fare con SS, tranne su, se volete lo dirò dopo, tranne su a Karthaus, dove c’erano come comandanti SS, però c’erano delle truppe della Wermacht, cioè truppe, scusate, c’era un gruppo, un drappello della Wermacht.

D: Il lavoro che facevate lì di scarico, di portare ed occultare questi beni all’interno dei castelli lo facevate durante il giorno?

R: Sì, sì, durante il giorno. Sì, sì, di sera mai.

D: Ed anche le donne partecipavano?

R: No, le donne rimanevano all’interno del campo. Forse accudivano ad altre incombenze, ma non fuori. Io non ho mai visto portare fuori le donne.

D: E di italiani eravate in molti lì a Maia Bassa?

R: Beh direi che eravamo tutti italiani ed ebrei. Italiani ed ebrei. Però ebrei italiani. Non mi ricordo di prigionieri di altre nazionalità. Però adesso, ripensandoci ricordo che su a Karthaus eravamo assieme, c’era un gruppo di ebrei e c’erano anche ebrei francesi. Ricordo benissimo, invece, un tipo simpaticissimo che aveva un basco in testa, era un ebreo francese, che cantava sempre un ritornello che ricordo tuttora proprio. Ricordo che lo cantava sempre questo ebreo francese.

D: Ascolta Tullio, tu dici che c’erano degli ebrei perché erano contraddistinti in un altro modo da voi?

R: Sì, gli ebrei avevano il triangolo giallo. Noi il triangolo rosso, gli ebrei il triangolo giallo. Forse avevano anche, se si può dire un trattamento quasi peggio del nostro, nel senso che pigliavano più botte di noi, ecco. Per il resto alla pari.

D: Lì a Merano quanto tempo sei rimasto?

R: A Merano credo di essere rimasto fino a settembre, adesso non so se all’inizio o alla fine di settembre, e poi sono appunto stato trasferito a Certosa.

D: Tutti siete stati trasferiti a Certosa?

R: No, solo alcuni. Solo una cinquantina di persone, mentre a Merano eravamo sicuramente più di duecento.

D: C om’è che siete stati scelti?

R: Così, non saprei che scelta abbiano fatto i tedeschi.

D: Con cosa vi hanno portato a Merano?

R: Ci hanno portato con dei camion militari, sempre con la scorta. Ci hanno portato su in alcune baracche che forse erano state dell’esercito italiano, sotto il paese. Successivamente quando è venuto più freddo, ci hanno portato in una caserma che era una caserma di confine dell’esercito italiano. Nelle baracche siamo stati fino a novembre, si dormiva per terra, trattati veramente male e anche lì ci facevano lavorare nel senso che alla mattina ci caricavano sui camion e attraverso la valle che arriva giù al paese di Senales, se ricordo bene, una valle molto stretta, valle pericolosa anche. Ci portavano alla stazione ferroviaria e ci facevano scaricare dei vagoni ferroviari e caricare sui camion del materiale che erano, ricordo benissimo, soprattutto zaini e scarponi dell’esercito francese, erano proprio dell’esercito francese. Mi ricordo bene perché me lo avevano detto gli ebrei francesi che erano lì, ci si chiedeva la provenienza di questa roba. Ce la facevano portare su nelle baracche a Certosa. Quando è aumentato il freddo ci hanno portato in questa caserma sopra il paese di Certosa, ma eravamo in pochi, eravamo rimasti una trentina di ebrei e quattro o cinque italiani, non di più, pochissimi. Era proprio un minicampo. Chi comandava era un sorgente delle SS reduce della guerra di Russia, era stato ferito, era lui il comandante, un certo Otto, un pezzo d’uomo che poi aveva avuto la sua lezione, ho sentito, su a Bolzano. E un caporale delle SS polacco, Daloch, che poi i tedeschi avevano ribattezzato …. che dimostrava di avere una paura maledetta perché sentiva che gli alleati stavano avanzando e oramai era convinto dentro di se che probabilmente la guerra l’avevano persa e aveva una gran paura di ritornare in patria per le conseguenze che forse avrebbe subito. Questo non è che ce lo dicesse ma riuscivamo a capirlo noi.Mentre gli altri, saranno state una decine le guardie, erano della Wermacht. Eravamo in questa caserma recintata e si faceva quel lavoro di avanti e indietro con questi camion fino giù alla stazione di Senales poi ritorno. Ad un certo momento gli ebrei sono partiti per essere portati all’interno, non so se siano tutti arrivati… non so la fine che hanno fatto. Ho cercato di uno e purtroppo so che è morto ma credo sia morto in campo. Deve essere stata l’ultima spedizione che è partita da Bolzano verso l’interno perché poi sono state bombardate le linee ferroviarie e non ci sono stati più traslochi verso l’interno. Eravamo rimasti alla fine, era proprio in smobilitazione il campo, eravamo rimasti quattro italiani soli: io, Sommavilla che citavo prima; un giovane di Pavia, un certo Carlo che non ho più ritrovato, non ho più avuto notizie dopo la guerra e un certo Contiero di Bressanone che preparava il cibo ed era d’accordo con i tedeschi, faceva un po’ la spia, il controllore.Partiti gli ebrei, credo verso Natale o subito dopo Natale, avevamo capito che si metteva male anche per noi perché non si poteva sostenere un campo con quattro prigionieri, tenendoli lì a far cosa? Infatti ci avevano fatto capire che saremmo stati trasferiti nuovamente a Bolzano e di lì non si sa. Allora abbiamo pensato se si riusciva ad organizzare una fuga, ma solo noi tre, io, Sommavilla e questo ragazzo di Pavia, non il cuoco del quale non ci si fidava. Andando giù a caricare questo materiale alla stazione di Senales, abbiamo avuto modo di conoscere il capostazione che era italiano, di fede italiana, il quale aveva anche un po’ di compassione, pietà per noi ragazzi. Parlando assieme in qualche modo siamo riusciti a spiegarci e a fare in modo che lui avvisasse Belluno che avevamo intenzione di scappare perché si metteva male qua su. In quel momento ha funzionato l’organizzazione nel senso che mia sorella con il fidanzato sono venuti su da questo capostazione di Senales, con vestiti, con carte di identità false, con cibo e una bottiglia di cognac con del sonnifero che mia sorella si era fatta dare, o mia madre non ricordo, da un farmacista di Belluno che poi era venuto in campo insieme a noi. La farmacia funzionava ancora e sono riusciti a fregare il sonnifero, era una polvere quasi impalpabile bianca, ricordo.

Allora, i vestiti e tutto li ha tenuti il capostazione; noi in qualche modo ci siamo fatti dare questa bottiglia con il sonnifero e l’abbiamo portata su a Senales con la scusa che era il compleanno di Sommavilla e abbiamo offerto il cognac anche alle guardie, non alle SS perché questi dormivano non nella caserma ma in un albergo del paesetto, mi pare si chiamasse Croce Bianca l’albergo, ci sono due alberghi. Potrei dire l’episodio dell’albergo La Rosa dove invece c’erano due ragazze meravigliose che ci hanno anche aiutato quando Sommavilla stava male.

D: Dopo questa ce la racconti però.

R: Sì, questa posso raccontarvela perché poi è successo un episodio qualche anno fa, un paio d’anni fa anche difficile da raccontare ma emozionante per come è avvenuto.

Allora abbiamo inventato che era il compleanno di Sommavilla e abbiamo offerto da bere alle guardie che anche loro erano ragazzi giovani e hanno bevuto volentieri, solo che nelle cose che abbiamo offerto loro c’era il sonnifero che ha funzionato subito molto bene perché dopo un’ora dormivano tutti della grossa, tutti i soldati all’interno della caserma.

Quando abbiamo sentito che dormivano, perché russavano proprio, allora abbiamo deciso: “Qui, si scappa”. Abbiamo scavalcato la finestra di un bagno, abbiamo scavalcato il muro di cinta della caserma e siamo scesi giù per la valle. Avevamo dei ramponi, che ci erano stati forniti da mia sorella, perché c’era molto ghiaccio, era febbraio, c’era neve e ghiaccio, la località è a 1800 metri, mi pare. Era un freddo, freddo, ma devo dire che nonostante il freddo e io avessi solo un vestito di tela addosso, nient’altro, non ho avuto un raffreddore che fosse uno. Una volta il fisico reagiva bene, si mangiava poco, si lavorava come cani, senza vestiti, senza niente a queste temperature, non ho mai avuto niente. Solo Germano Sommavilla aveva preso una specie di bronchitaccia ma poi con l’aiuto di quelle sorelle che accennavo prima e che riprenderò, è guarito in poco tempo anche lui.

Tornando all’episodio della fuga, siamo scesi giù per la valle, sarà stato mezzanotte, l’una di notte, noi tre, io, Sommavilla e questo ragazzo di Pavia, in fila indiana siamo andati giù per la valle. Ad un certo punto del percorso è avvenuto un episodio un po’ strano, drammatico anche. Abbiamo incontrato, che salivano a piedi, dei militari tedeschi, erano dell’aviazione tedesca. Credo, che da quanto mi hanno detto dopo, che c’era un campo… una specie di rifugio per aviatori tedeschi, per riposare a Madonna che è un paese vicino a Certosa.

Erano in tre o quattro, loro venivano in su sulla loro destra contro la roccia, e noi eravamo sulla nostra destra sul ciglio dello strapiombo, perché è molto stretta e a strapiombo. Quando li abbiamo visti “Cosa facciamo?” io ero l’interprete ufficiale del campo, parlavo il tedesco e quando ci siamo incontrati è stato un momento di suspance perché ci hanno visto che avevamo ancora indosso i vestiti dei prigionieri e ci hanno detto “Gute Nacht”. Forse hanno capito che noi eravamo decisi un po’ a tutto, forse hanno avuto paura anche loro perché erano dei ragazzi, il fatto è che loro hanno proseguito, noi anche e appena passati noi ci siamo messi a correre come dei matti però loro non hanno avuto reazioni in quel momento.Così siamo arrivati giù a Senales dove siamo stati dal capostazione il quale ci ha rifocillato, ci ha dato dei vestiti diversi, ci ha dato i documenti e ci ha chiusi in un carro ferroviario. Con quello siamo partiti e siamo arrivati a Merano. Lì avevamo un punto di riferimento, una famiglia, i Pasi, che ci hanno accolto, avevamo l’indirizzo che ci aveva fornito mia sorella. Ci hanno accolto, ci hanno rifocillato, ci hanno dato una bicicletta e ci hanno indicato la strada per proseguire verso Bolzano, Belluno. Noi quindi siamo partiti e siamo arrivati oltre Bolzano, non mi ricordo mai il nome del paese sotto il passo del Campolongo….non mi ricordo mai il nome, eventualmente posso controllare e riferire.

Arrivati in questo paese siamo entrati in una trattoria, in un bar ed abbiamo trovato un gruppo di contrabbandieri, allora facevano contrabbando di sale e di tabacchi. Abbiamo cominciato a parlare “Dove andate?” “Andiamo a Pieve di Livinallongo” “Anche noi dobbiamo fare il passo del Campolongo, possiamo venire con voi perché non conosciamo la strada?” erano italiani. Loro ci hanno detto di sì, a condizione che portassimo anche noi una di quelle valigie piene di sale o di tabacchi. Noi abbiamo detto “Sì, volentieri” e abbiamo fatto di sera tardi, 9/10 di sera, tutto il passo del Campolongo e siamo arrivati a Pieve di Livinallongo. Lì siamo andati in un albergo, che abbiamo sbagliato tutto perché era una sede del comando Tedesco, l’Albergo Italia e lì abbiamo consegnato i documenti, questi li hanno guardati e hanno creduto che fossero validi, invece erano documenti falsi e ci hanno lasciato stare. Quindi abbiamo dormito e la mattina abbiamo preso una corriera, si chiamava allora, che faceva il servizio Pieve Livinallongo/Belluno e siamo arrivati a 7/8 Km da Belluno, dove ad una frazione del comune di Sedico, dove c’era un posto di blocco. Noi siamo riusciti proprio prima a far fermare il pullman dicendo che dovevamo scendere e siamo passati oltre il torrente e siamo andati nel convento dei frati che è un convento che c’è tuttora, i frati di Vedana. C’è un laghetto, c’è un bellissimo convento ma adesso non è più frequentato. Sembra che riprenda vita, ma non si sa, allora c’erano i frati domenicani.

Ci hanno accolto nel convento, nel frattempo siamo riusciti a far avvisare che eravamo lì, sono venuti con un mio vecchio compagno, si chiamava Bossi, poveretto è morto. É venuto con la macchina, ci ha caricato, facendo un giro largo ha evitato il posto di blocco, andando su per le frazioni e ci ha portato a Belluno. Naturalmente dimenticavo di dire che eravamo rimasti in due perché con il ragazzo di Pavia ci siamo separati a Merano, lui è andato verso la Lombardia e noi verso Belluno.

Arrivati a Belluno a casa mia non c’era più nessuno, la famiglia si era disgregata per necessità, non volontariamente. Mia madre era a Belluno, mio fratello da un’altra parte, mia sorella con la mamma e mio padre era in tutt’altre faccende. Verso Padova, anche lui è stato arrestato, è riuscito a fuggire e anche qui è successo un episodio che varrebbe la pena di raccontare.

Ci hanno rifocillato per sette/otto giorni in questa casa di amici che partecipavano al movimento della Resistenza, di Liberazione. Dopo di che ci siamo separati: Sommavilla è andato con il comando piazza a Belluno, si chiamava comando piazza, cioè un movimento partigiano e aveva giurisdizione nella città. Io invece sono andato con la bicicletta fino a Padova e da lì in Cansiglio dove mi sono aggregato alla Brigata Fratelli Bandiera della divisione partigiana Nannetti e sono stato lì fino alla Liberazione.

Lì ho avuto modo di rincontrare mio padre che nel frattempo era stato arrestato dai fascisti della Repubblica Sociale Banda Carità, famosa Banda Carità di Padova. Era riuscito a fuggire in maniera quanto meno rocambolesca con l’aiuto di mia madre ed era stato accolto nell’arcivescovado di Padova e poi con una macchina dell’arcivescovado portato su in cascina dove ci siamo incontrati, tutti e due fuggiti da due posti diversi quasi contemporaneamente e lì siamo stati assieme fino alla fine della guerra, alla Liberazione.

D: Ci racconti adesso quell’episodio di solidarietà delle due ragazze.

R: Lo racconto volentieri perché sul piano umano è stata veramente una cosa che può colpire, io sono sempre stato grato a queste due ragazze.

Erano due ragazze proprietarie dell’albergo La Rosa di Certosa, ci avevano aiutato perché quando il mio amico Sommavilla era stato male una delle due ragazze aveva avuto il coraggio di entrare nel campo, scavalcando le guardie, dicendo alle guardie che lei non portava niente ma sapeva che c’era un ammalato nell’interno. Ha portato dei medicinali, delle aspirine in modo che è guarito, una ragazza molto coraggiosa, devo dire la verità.

Questa ragazzo l’ho incontrata nuovamente dopo quaranta anni, sono stato ospite dell’Assessorato e Cultura di Bolzano e della RAI e siamo stati assieme a Certosa. Mentre la RAI cercava un posto per fare delle riprese e farmi un’intervista, aveva individuato un cortile, una casa che sembrava andasse bene e io mi sono messo là. Da questa casa è uscita una signora anziana che ha chiesto chi eravamo, è stato detto che era la RAI e che doveva fare un’intervista. Ci siamo guardati e lei mi ha riconosciuto, era una delle due sorelle che ci aveva aiutato. É stato veramente un fatto emozionante che, devo dire la verità, mi commuove tutt’ora. Perché ritrovare le persone conosciute in quelle situazioni è stata una cosa incredibile, ci siamo abbracciati fortemente, siamo stati assieme qualche ora e poi successivamente abbiamo avuto anche corrispondenza. Lei mi chiede sempre di andare a trovarla e io purtroppo non sono mai andato e mi riprometto sempre di andare, ma bisogna che mi decida di andare a trovare questa cara ragazza.

D: Quando tu poi sei rientrato e ti sei aggregato alla formazione partigiana Fratelli Bandiera, lì cosa avete fatto? Avete avuto modo di fare altre azioni?

R: Sì, perché ormai eravamo alla fine della guerra, perché io sono scappato dal campo di Certosa il 4 febbraio del ’45 quindi sono stato una decina di giorni a Belluno, eravamo già a marzo/aprile. Lì si era molto bene organizzati come corpo partigiano, dormivamo nelle tende, alle volte si scendeva nei paesi o per rifornimenti o per altri mansioni.

Quando le truppe alleate si sono avvicinate, sono arrivate su nel nord, siamo scesi a Vittorio Veneto per essere anche noi partecipi, o forse prima degli alleati, alla Liberazione di Vittorio Veneto e come divisione Nannetti, abbiamo liberato Vittorio Veneto. Dopo noi siamo risaliti e si doveva liberare Belluno, c’erano le truppe tedesche che ormai erano in ritirata disordinata, proprio abbandonando un po’ tutto, però reagendo delle volte in maniera molto crudele.

Siamo arrivati a Belluno, io sono entrato dopo le esperienze vissute, sono entrato a Belluno con un carro armato, per modo di dire, era un automezzo corazzato, con le ruote di gomma ma corazzato e sono arrivato in centro a Belluno con questo Tank con tanto di mitra a tracolla e divisa partigiana. Così è finito l’episodio della guerra.

D: Tu hai conosciuto il maggiore Tilman?

R: Sì, ho avuto modo di conoscere il maggiore Tilman della Missione Alleata perché lui era il coordinatore delle varie divisioni di varie estrazione politica, perché c’era Giustizia e Libertà, i Garibaldini… Uno dei suoi trasferimenti dalla zona del feltrino doveva venire in Cansiglio e una notte io sono stato fino alle 5 di mattina ad aspettarlo giù al ponte, si chiama ponte delle Schiette, e da lì è arrivato e l’abbiamo portato assieme ad un altro giovane che ricordo era sempre triste, è dovuto rientrare perché aveva tanta nostalgia di casa, malinconia, un giovane inglese. Invece il maggiore Tilman l’abbiamo portato su al comando della divisione, io ero semplice ragazzo garibaldino e quindi non partecipavo alle riunioni importanti.

D: Alle quali invece partecipava il babbo?

R: Alle quali partecipava mio padre che era allora il commissario politico della Brigata Fratelli Bandiera con il nome di Garibaldi.