Cassani Giorgio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Cassani Giorgio, nato ad Imola il 19 Agosto 1923.

D: Dove eri l’8 Settembre?

R: Dunque, ero con le truppe d’occupazione in Francia. Quindi dopo l’8 settembre io ed un mio amico siamo andati nei partigiani francesi, eravamo nelle formazioni francesi.

Abbiamo fatto le formazioni, eravamo gran parte italiani e francesi. Per noi c’era un comandante, un ex fuoriuscito che aveva fatto la guerra di Spagna, era quello che ci comandava.

Al 6 aprile 1944 fummo attaccati dai tedeschi, in parte morirono, in parte furono feriti e furono uccisi dopo, e parte furono presi e mandati – tra i quali c’ero io – nella caserma di Digne.

D: Scusa Giorgio, quando tu ti sei aggregato a questa formazione di partigiani francesi la vostra zona di operazione qual era?

R: Noi eravamo sopra Tolone, poi ad un certo momento, siccome ci cercavano, eravamo in continuo spostamento, lo spostamento più grosso in attesa dello sbarco fu fatto… venimmo a Nizza. Venimmo a Nizza in treno, a piccoli scaglioni. Venimmo in treno. Da Nizza ci portarono su a Lambrois, e lì siamo stati attaccati, presi dai tedeschi.

D: Solo tedeschi?

R: Tedeschi e francesi. Poi lì, dopo gli interrogatori e vari colpi ecc… ci hanno mandato a Marsiglia nelle prigioni. Prigioni nuove che hanno rinnovato sia i francesi che noi altri.

Dopo ad un certo momento ci hanno portato a Compiègne. Di lì il campo di smistamento per la Germania. Di fatti ogni lunedì c’era un trasporto per la Germania.

A Compiègne ho trovato l’organizzazione del Partito Comunista.

D: Clandestino?

R: Clandestino. Siccome io parlavo bene il francese perché l’avevo studiato a scuola, allora si parlava un po’ con i francesi, anche quando eravamo nei partigiani. C’era un antifascista italiano di Trieste che mi prendeva tutte le mattine, facevamo il giro della piazza del campo e mi dava lezioni di cultura politica.

Solo che ad un certo momento è toccato il trasporto per noi altri. Siamo andati a Dachau.

D: Scusa un attimo, quando sei entrato a Compiègne vi hanno immatricolato?

R: No.

D: Niente?

R: Lì non ci sono, non c’erano immatricolati perché Compiègne era il centro di smistamento per la Germania, venivano da tutte le parti della Francia.

D: Cosa ti ricordi del campo di Compiègne? C’erano dei blocchi? Delle baracche?

R: Sì, c’erano le baracche e poi c’era lo spiazzo, c’erano le cucine, poi c’era lì vicino un altro campo aggiunto che fu occupato da gente che veniva dalle prigioni della Francia del nord, perché si avvicinava lo sbarco, quindi…

D: Lì a Compiègne tutto il giorno… tu quanto tempo sei rimasto a Compiègne?

R: Lì, ricordarsi adesso… Aspetta…

D: Più o meno, un mese, dieci giorni?

R: Sono stati giorni, perché sono arrivato a Dachau in giugno, dove ho fatto la quarantena.

D: Un bel giorno vi chiamano…

R: Avevano già le liste, ci accompagnano alla stazione, ci caricano nei carri bestiame, voi sapete i carri bestiame chiusi ecc… Poi noi si guardava dal finestrino, ci avevano dato un pezzo di pane, uno di quei salamini tedeschi, che non avevamo però la possibilità di bere, quindi…

D: Eravate solo uomini?

R: Eravamo… eravamo uomini che venivano da Compiègne. Però quando siamo arrivati a Monaco, eravamo appena arrivati, è suonato l’allarme, c’erano già gli apparecchi sopra, allora stavano per contarci, ci hanno messo sotto un sottopassaggio vicino alla stazione, e lì c’erano altri. C’era una famiglia di Fiume… C’erano i due figli giovani, giovanissimi. Erano venuti da altre parti.

D: Poi da Monaco vi hanno portato a Dachau.

R: A Dachau.

D: Come ti ricordi il tuo ingresso a Dachau?

R: Ci siamo, eravamo lì davanti al piazzale, nel piazzale ci hanno spogliato tutti, abbiamo depositato la nostra roba e poi ci hanno mandato ai bagni. Ai bagni, che erano praticamente…veniva giù l’acqua dall’alto, nudi, e poi c’era … tutto. L’altro con un bidone ed un pennello da imbianchino che ti disinfettava tutto.

Solo che il Friseur qui ti lasciava la Strasse, che noi chiamavamo Hadolf Strasse.

Poi dopo abbiamo fatto la quarantena nel blocco della quarantena, e ci hanno anche fatto i raggi X. Siamo passati attraverso i raggi X per vedere chi era adatto al lavoro, e chi non era adatto al lavoro veniva…

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco di quarantena?

R: Quello lì non me lo ricordo, è un 40 ma… Quello lì l’ho già perso.

D: Lì quanto tempo sei rimasto, in questo blocco in quarantena, a Dachau?

R: Non certo 40 giorni perché dopo lo sbarco la situazione diventava critica perché tutti i prigionieri li raccoglievano nei campi. Sono andato a finire ad Allach che è un sottocampo vicino a Monaco.

D: Scusa, quando ti hanno immatricolato?

R: Subito.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: Non mi ricordo, ce l’ho lì nella cartella.

D: Ascolta, come ti hanno vestito?

R: Avevamo, dopo il bagno, quando ci hanno mandato in baracca, camice, giacca, pantaloni rigati blu, ed un paio di zoccoli.

D: Biancheria intima?

R: Niente.

D: Ti hanno dato anche un cappello?

R: Sì, il famoso Mütz tondo, rigato. Avevamo la targhetta qui con il numero stampato, triangolare.

D: Ed anche un triangolo ti hanno dato?

R: No, il triangolo è quello che aveva la nostra sigla, ed il numero di matricola.

D: Giorgio, ti ricordi se il triangolo era colorato?

R: Era rosso. Rosso.

D: Quindi da Dachau, dopo il periodo di quarantena, ti hanno mandato ad Allach, e ad Allach che cosa hai fatto?

R: Ad Allach ci facevano più che altro fare delle … e delle grandi… Poi è arrivato il momento di mandarci in una fabbrica, stavano costruendo una fabbrica in cemento armato a prova di bombe. Era nei dintorni di Allach, in un bosco. Lì io ho fatto di tutto, manovale, ho fatto…

D: Ecco, ma che fabbrica era questa?

R: Credo, lì c’era… parlavano della Messerschmitt che faceva i cilindri degli apparecchi.

Poi dopo siamo tornati, da lì ci hanno tolto e siamo andati sempre ad Allach. Da Allach siamo andati su per giù nel mese di novembre in un altro comando, anzi prima di novembre, molto prima di novembre, un altro comando, siamo andati nel campo di Natzweiler ai confini con la Francia, c’era un tunnel e lì si lavorava un’altra volta penso per la Messerschmitt, perché si facevano i motori proprio degli apparecchi. Io ho lavorato un po’ alla macchina, poi dopo mi hanno cambiato e mi hanno messo con un vecchio, anziano, a spingere il carrello del ferro grezzo per portarlo alle macchine.

D: Scusa Giorgio, come te lo ricordi il campo di Natzweiler?

R: Natzweiler era tra le montagne, perché il tunnel era proprio dentro la montagna. Lì abbiamo assistito purtroppo alla mattina, alle cinque abbiamo assistito all’impiccagione di un italiano.

D: Ma nel campo o nel tunnel?

R: No, fuori, lì davanti alle baracche.

D: Nel campo?

R: Sì, era un campo per modo… C’erano le baracche, poi c’era lo spazio, perché quello lì non mancava mai. Era buio, noi non abbiamo visto chi era, solo che lui disse il nome e dalla parlata mi sembrava un meridionale.

D: Il nome non te lo ricordi però?

R: No. Disse il nome, si rivolse agli amici.

D: Non sai il motivo, perché?

R: Probabilmente aveva tentato di fuggire.

D: Ritornando ancora lì al campo di Natzweiler, questo campo dicevi che era in montagna?

R: Era in mezzo ai monti perché la galleria, il tunnel era dentro la montagna. Noi non eravamo molto distanti da entrare in galleria. Poi c’era la stazione, perché arrivavano i treni e caricavano il materiale lì.

D: E dal campo alla galleria come vi portavano?

R: Incolonnati cinque per cinque. A piedi, sempre con i cani lungo il tragitto.

D: Giorgio, ti ricordi se il campo aveva delle mura, delle recinzioni, oppure c’era il reticolato?

R: Penso che… Non ho visto perché lì si lavorava dodici ore. Di notte, noi vivevamo di notte perché di notte andavi a lavorare, di notte venivi fuori e già non vedevi un tubo di niente.

D: Non ti ricordi quindi se c’era…

R: Non ho visto proprio la sagoma del campo di Natzweiler.

D: Ti ricordi se c’erano delle garitte, delle torrette di guardia?

R: Quelle c’erano dappertutto, perché l’unica volta che non c’è stato è stato l’ultimo comando, quando siamo ritornati indietro, perché naturalmente il fronte veniva avanti ed allora ci hanno riportati un’altra volta ad Allach, e poi lì ci hanno cambiati, fatto il bagno, disinfettati, e poi ci hanno dato un altro paio di… Avevamo il cappotto, sempre della stessa stoffa, e le stesse righe.

D: Ritornando sempre lì a Natzweiler, ti ricordi se le baracche erano tutte sullo stesso piano, oppure erano…

R: Come ti dico, lì…

D: Non te lo ricordi.

R: Non me lo ricordo.

D: Tu più o meno quanto tempo sei rimasto a Natzweiler?

R: Non molto. Non molto perché in novembre eravamo, siamo partiti e siamo andati a Rosenheim in un altro comando, quindi in ottobre eravamo a Natzweiler, sarà stato un mese e mezzo dopo, al massimo.

D: Il tuo lavoro nelle gallerie, nel tunnel di Natzweiler, in che cosa consisteva?

R: Io facevo all’inizio la parte esterna del cilindro rigato. Poi dopo mi hanno cambiato perché c’era un olandese, che era il capo reparto, che mi dice: “E’ meglio che tu… se no vai nei guai” e mi mise, c’era una persona anziana che spingeva il carretto del… ed allora io andai lì ad aiutarlo.

D: Le gallerie quindi erano già state scavate?

R: Quando siamo arrivati noi c’era già un’officina avanti, avanzata, in quel…

D: Lavoravate sempre di notte voi?

R: Generalmente sì.

D: Dopo un mese che siete a Natzweiler… Scusa, a Natzweiler ti hanno cambiato il numero?

R: Sì, hanno cambiato il numero, perché lì c’è scritto il numero, che non me lo ricordo, era più lungo.

D: Poi da Natzweiler ti hanno portato in un altro comando?

R: No, da Natzweiler mi hanno mandato un’altra volta ad Allach. Ad Allach siamo stati lì discretamente perché c’erano i bombardamenti. C’erano due postazioni di antiaerei attorno al campo…

Poi c’è un fatto, dopo, quando sentivi… Ci hanno mandato in un comando a Rosenheim, lì eravamo un po’ più liberi perché avevamo come guardie i riservisti, quelli a cui avevano messo addosso la divisa delle SS, però i giovani erano andati alla famosa offensiva, lì si respirava un po’ di più perché c’era gente che quando capitava il bombardamento a Rosenheim ci faceva scappare. C’è stata una volta sola che non sono riusciti a farci fuggire, ci hanno mandato nella cantina della mensa civile, dove c’era la mensa di quelli che erano in Germania a lavorare. È l’unica volta che ci hanno mandato in un ricovero.

D: Il campo di Rosenheim?

R: Rosenheim non era un campo proprio, perché eravamo affiancati dalla scuola della contraerea. Allora lì infatti io ebbi un ascesso in bocca e fui curato dal loro dottore, perché non c’era mica altro lì. Era già bancarotta. Per Natale bombardarono l’officina in cui lavoravamo. La disfecero completamente.

Dopo ci mandarono a raccogliere le macerie in città, ed anche delle volte a chiudere le buche dei contadini. Per noi era la manna, perché in città tu arrivavi sempre di nascosto, perché cercavi sempre dove i tedeschi tenevano i vasi dove ci mettevano la carne, ci mettevano la roba, per vedere di mangiare.

Quelli che andavano in campagna, una volta ci sono andato anche io, il contadino ti cucinava un bel paiolo di patate, e ti dava le patate.

Ma lì erano già cambiati i sistemi. Infatti il comandante del campo, ai francesi, ai belgi, agli olandesi arrivavano i pacchi della Croce Rossa, allora lui cosa fece? Un bel giorno si stancò e prese tutti i pacchi, fece fare da mangiare, lo diede a tutti.

D: Lì a Rosenheim …

R: A Rosenheim abbiamo praticamente avuto la Liberazione. Ma non lì, perché prima di farci liberare ci hanno fatto fare una marcia non indifferente lontano dalla città. Di fatti noi incontravamo le truppe tedesche che si ritiravano.

D: Marcia in direzione di cosa?

R: In direzione dei confini dell’Austria. Perché dopo, finito il baccano, quando sono spariti i tedeschi e poi l’8 maggio è finito… Praticamente noi siamo stati senza sentinelle, siamo stati dai primi di maggio fino all’8 maggio. Ci siamo arrangiati un po’ per mangiare, perché lì vicino c’erano anche degli italiani vestiti da tedeschi che erano a scuola.

Poi dopo sono arrivati gli americani.

D: Quando tu ti sei accorto di essere stato liberato?

R: Quando sono sparite le guardie. Sono sparite le guardie.

D: Voi avete cercato la fuga?

R: Sì. Perché dopo l’abbiamo cercata, eravamo in quattro o cinque, abbiamo cercato ed abbiamo trovato un camion che era un’autobotte, con della benzina dentro. Con quello lì siamo arrivati, siamo partiti e siamo andati a finire in Austria. Siamo arrivati ad Innsbruck il giorno in cui gli americani non facevano più le tradotte per il momento, perché chi arrivava prima poteva entrare direttamente dal Brennero in Italia, perché poi c’erano – dicevano – che c’erano ancora … dispersi che potevano anche fare dei gesti… Allora ci hanno fermato ad Innsbruck in attesa di fare le tradotte da portare in Italia.

Il 25 giugno io sono arrivato a casa.

D: Quindi sei rimasto lì da maggio fino a giugno ad Innsbruck?

R: Sì.

D: Dove eravate? In giro liberi?

R: Io sono stato anche ricoverato in ospedale ad Innsbruck perché lì si mangiava di più, e poi non è che ti curassero, perché non avevano praticamente niente, ti facevano degli esami. Sono stato un dieci, dodici giorni lì, poi quando mi hanno avvisato che stavano facendo le tradotte… e via.

D: Dopo Innsbruck quando sei arrivato in Italia dove ti sei fermato?

R: Ho fatto Bolzano, fermo. Poi dopo a Verona, fermo. A Verona ci hanno caricato sui camion, c’erano i tedeschi prigionieri che guidavano i camion. Però c’erano le camionette americane che venivano, e siamo arrivati a Modena.

D: Ascolta Giorgio, a Bolzano sei rimasto fermo quanto?

R: Poco tempo, poco, perché dopo ci hanno fatto partire. Non so, neanche un giorno. Ci hanno fatto partire per Verona.

D: Sei rimasto a Bolzano alla stazione o…?

R: Sì, eravamo fermi.

D: Perché invece a Verona dove sei rimasto fermo?

R: A Verona sempre in stazione. Poi dopo, quando ci hanno portato fuori c’erano già, arrivavano i camion e ci caricavano sui camion per portarci a Modena.

D: I camion che erano degli alleati?

R: Sì, erano degli alleati.

Poi quando sono stato a Modena, a Modena ci hanno scaricato e ci hanno messo nella piazza, allora cercavamo un mezzo per venire a Bologna. Passa un camion alleato con un negro, eravamo in cinque o sei, io avevo addosso il vestito civile preso da dove ci avevano liberati, mi avevano dato un vestito civile. Poi avevo fatto un sacco con tutta la roba, quella roba lì. Fortuna che avevo la giacca ed il berretto che dopo si è perduto, avevo la giacca, il pastrano ed i pantaloni.

Nel camion quando abbiamo caricato la nostra roba avevo ancora un piccolo fagotto, avevo poi la giacca ed anche della roba da mangiare, la tenevo sempre. Il negro ha messo la marcia nel camion e poi è partito, ci ha portato via tutto.

D: Quindi tu hai lasciato su il tuo zaino?

R: Ho portato a casa solo la giacca ed il berretto.

D: Ascolta Giorgio, ma quando sei arrivato a Bolzano ti hanno rilasciato un documento?

R: Niente, lì non c’era niente, ancora, perché era ancora da organizzare.

D: Neanche ad Innsbruck ti hanno rilasciato un documento?

R: Niente.

D: Quindi tu della tua deportazione…

R: Io ho il foglio di Rosenheim, che è lì. Ci mancano alcune date di Natzweiler.

D: E poi hai la giacca…

R: La giacca con la targhetta. È qui nel museo. Il berretto nel fare san martino due o tre volte il berretto è smarrito.

D: Ascolta Giorgio, tu non sei più ritornato a Compiègne per esempio?

R: Mai.

D: A Natzweiler?

R: Neanche.

D: A Dachau?

R: In Francia ci è andato invece quello con cui ero insieme, in Francia, il partigiano, quando ci attaccarono lui morì. Lui morì ed allora c’è stato un altro, un toscano, amico, quando siamo stati liberati lui era in un altro campo, era andato a finire non ad Allach ma era andato a finire a Kempten, perché lui veniva su con i partigiani da Marsiglia, ed a Marsiglia aveva una zia, è venuto su lui ed un suo amico perché si erano rifugiati da sua zia. Sua zia ad un certo momento poiché diventava pericoloso, gli ha indirizzato la strada dei partigiani, è venuto da noi.

Così quando è rientrato non è rientrato in Italia, è rientrato in Francia, allora mi hanno mandato la documentazione per me e per il mio amico. Tutta la documentazione del partigianato.

D: Tu eri nell’organizzazione del partigianato francese? 

R: Sì.

D: Facevi parte, eri assieme…

R: Sì, noi facevamo parte della formazione organizzate dal Partito Comunista Francese. Erano… Force Francaise Interrier, FFI.

D: Quindi neanche a Dachau tu sei più ritornato?

R: No, fortuna. Per fortuna.

D: No, dico dopo da libero, in questi anni.

R: No. I ricordi non… Anche perché a raccontare tutto quello che si è passato, perché io ho fatto il racconto dove sono stato, ma la vita interna era un inferno. Quindi tra gli appelli, il conteggio, tutto quello che veniva fatto appositamente per farti perdere completamente il senso del…

Cressina Letizia

Nota sulla trascrizione della testimonianza: L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Letizia Cressina, sono nata a Parenzo, il paese è Radmami dove sono nata io. Hanno arrestato me e mio papà…

D: Scusa, Letizia, quando sei nata?

R: Io sono nata il 16 giugno 1924.

D: Dicevi, ti hanno arrestata a te e al tuo babbo.

R: A me e al mio babbo, alle 3.304.00 di mattina sono venuti col rastrellamento e ci hanno portati via dal letto.

D: Chi ti ha portato via?

R: I tedeschi.

D: Perché?

R: Non lo so.

D: Dove ti hanno portato?

R: Ci hanno portato in un paesino che era la caserma dei carabinieri una volta, si chiama Sbandati. Siamo rimasti là tre giorni, poi ci hanno portato a Paenze in caserma, poi siamo andati in un albergo che era il comando delle SS. Poi da là sia io sia mio papà siamo andati in carcere e il mio ragazzo dentro in questo albergo. Poi di nuovo in caserma, siamo andati a Pola in carcere e ci siamo stati due mesi in carcere a Pola.

Ero con una suora là che mi voleva un bene di vita, la aiutavo a nettare le carote così almeno mi dava un po’ di mangiare, le carote. L’amico di mio papà era cuoco dentro dei tedeschi e ci portava. Però io pregavo la suora che mandi a mio papà e a questo ragazzo questo mangiare su in caserma, perché loro non potevano arrangiarsi come mi arrangiavo io.

Siamo rimasti là non mi ricordo quanti giorni per dire la verità. Siamo andati con la nave da Pola a Trieste sempre durante la notte. Siamo venuti a Trieste nel Coroneo e là volevo a tutti costi domandare per quale motivo mi hanno arrestato. Perché poi io avevo tre fratellini piccoli a casa, mio nonno cieco di novantaquattro anni e papà invalido della prima guerra mondiale, quindi non potevo far niente di male a nessuno.

Quando siamo venuti a Udine dal Coroneo siamo partiti per la Germania. A Udine di nuovo sono andata, là c’erano i fascisti e anche i tedeschi. Volevo parlare con mio papà, prima con questo SS, questo capitano che mandi a casa mio papà, perché gli ho detto: “A casa io ho tre bambini piccoli. Chi li guarda a casa? Lui è invalido”. L’hanno preso per detto e l’hanno portato in corriera un’altra volta. Ho detto: “Fate quello che volete di me”. Poi noi siamo stati imbarcati su questo treno merci e ci hanno portato via da Udine. Siamo partiti, per dove non sapevamo. Siamo venuti a Salisburgo mi pare, sì.

Là mi hanno fatto scendere, solo noi donne. Siccome io avevo cinque lire, quella volta cinque lire valevano soldi, che mio papà mi aveva dato, ho preso questi pomi, ho alzato su la gonna così perché non avevo dove metterli e ho portato questo ragazzo in vagone, che era quell’altro.

Quella volta noi siamo partiti per Auschwitz e loro non so per dove, non l’ho mai più visto. Non ho saputo più niente di lui, neanche del suo babbo.

D: Ascolta, Letizia, quindi ti hanno portato a Trieste al Coroneo?

R: Al Coroneo, dal Coroneo siamo partiti per Udine e da Udine siamo andati col carro merci, siamo partiti per la Germania, ma non sapevamo dove andavamo. A Salisburgo c’era un croato, c’era una mia compagna che sapeva parlare in croato, ha detto: “Se avete i soldi, guardate, io vi do la cartolina, scrivete a casa dove siete, una roba e l’altra”.

Io non potevo scrivere, mi tremavano le mani, allora ha scritto questa mia amica che adesso penso che si trovi a Sidney, se è viva ancora. In questa cartolina ho scritto solo: “Saluti, siamo fermi, così e così, non sappiamo dove andiamo e saluti cari, bacioni. Vostra Letizia”. Dopo per un anno non ho sentito né visto nessuno.

D: Eravate in tante sul tuo vagone?

R: Come le sardine eravamo. C’era un buco dove dovevi fare pipì e tutto quello che c’era giù e andava per la strada. Non dovevi neanche pensare a questa roba, di mangiare. Quando siamo venuti ad Auschwitz dopo tanti giorni mi hanno portato in una stanza grande, mi hanno portato via tutto l’oro quei mascalzoni assassini, scusatemi se dico queste parole, hanno portato via tutto l’oro alle ragazze, tutti i soldi che si avevano.

Per questo oggi sono ricchi, si sono rifatti, ma non con il loro lavoro, il loro oro, ma con i nostri sacrifici, col nostro oro. Ce l’hanno portato via. Noi pensavamo di andare a lavorare là e basta, invece non era vero. Io avevo ottantasei chili quando sono andata in Germania, ero un tocco di ragazza.

Poi siamo andati in questa stanza, ci hanno denudati tutti completamente, ci hanno sbarbati tutti. A me i capelli no, solo un poco, ma non tutti i capelli, perché hanno visto che ero pulita. Dopo ci hanno messo sotto la doccia fredda che veniva sopra di noi e ci hanno dato questo unico, senza avere mutandine, senza niente, zoccoli e questo vestito con questa giacca, l’unica roba che c’era. Praticamente quando c’era freddo e neve andavamo in giro così, fino alla pancia, tutti dentro nella neve con gli zoccoli, senza calze, senza niente.

Lavoravamo, io lavoravo proprio vicino alla mia baracca. C’era un canale grande, dovevo, scusatemi, slargare le gambe abbastanza bene e tirare fuori il fango di questo canale, con questa palla pesante. C’era tipo graia, ma era fatto tutto di frasche, capisce cosa sto dicendo? Come un muro, dentro c’era cric, cric, cric facevano le ossa della gente che bruciavano.

Bruciavano la gente, perché vedendo che c’erano due carneri, quando venivano specialmente questi ebrei dentro, due carneri che parte per parte li prendevano per le spalle e per le gambe, giù dal camion e li portavano dentro.

D: Scusi un attimo, Letizia. Quando tu sei arrivata ad Auschwitz con il treno, con il Transport, il treno dove vi ha lasciati?

R: Dritto dentro in Auschwitz, dritto dentro nel campo è andato.

D: Dopo la spogliazione?

R: Siamo andati in baracca.

D: Ti hanno immatricolata?

R: Sì, prima di tutto mi hanno messo subito il numero sul braccio, poi mi hanno messo qua un numero, 120, e anche qua sul braccio. Sì, sì, me l’hanno messo.

D: Qual è il tuo numero?

R: Questo, 87062.

D: Quando ti chiamavano, come ti chiamavano?

R: Zweite Reihe italienish.

D: Poi ti hanno mandato in baracca?

R: Poi ci hanno portato in baracca. Dormivamo sulla paglia per terra, le russe avevano la loro baracca a piani, noi dormivamo per terra sulla paglia che si bagnava due o tre volte al giorno questa paglia. Quindi dormivamo in acqua. Capisce? Iole e Emma, ci credo, loro avevano lavorato nei campi però, quella che ha parlato ieri con loro.

D: Tu invece dove hai lavorato, oltre a quel fosso?

R: Vicino alla baracca, in questo canale lavoravo. Io non sono andata in campo.

D: Sei sempre stata lì a lavorare?

R: Fino a che è venuto un signore di Kirchenberg, è venuto e mi ha guardato le mani bene, così, avevo le mani forti. Poi mi ha portato lì per andare a lavorare in fabbrica di munizioni.

D: Quanto tempo sei rimasta ad Auschwitz Birkenau?

R: Penso un due mesi e qualcosa. Guarda, questa è una domanda che non mi ricordo più niente. Perdo i colpi adesso. Sul serio, sa? Perdo colpi. A Kirchenberg siamo rimasti abbastanza, camminavamo per andare dove lavoravamo dodici ore, sia di notte sia di giorno.

Cosa che non dava quel pochettino di patate marce che bollivano in acqua. Io aspettavo quando vedevo un tedesco che spellava le patate, speravo che andava via presto che le andavo a ingrumare, le mettevo in vaso tipo di conserva in cui si tiene la salsa, questa roba qua, per poterle lavare e cucinarle, mettere un goccio di sale e mangiarmele.

D: Le bucce delle patate?

R: Le bucce delle patate, sì. Quando andavamo anche a tirare fuori, perché loro facevano un fossato e dentro mettevano un tubo per dare aria alla patate dentro, un fossato grande e le patate erano marce. Però erano come impuzzate dentro queste patate, però noi facevamo così e le mangiavamo. Per non morire.

D: Ascolta, a Birkenau…

R: Non so cos’è Birkenau.

D: Auschwitz.

R: Allora parlami di Auschwitz, non di Birkenau.

D: Quando tu sei rimasta lì a Auschwitz…

R: Sono stata poco là. Siamo restati poco perché poi è venuto quel signore che mi aveva scelto e siamo andati subito là a Wittenberg.

D: In questa fabbrica di munizioni.

R: Fabbrica di munizioni.

D: Il Lager dov’era rispetto alla fabbrica? Era vicino?

R: No, la fabbrica era sul monte e giù in pianura c’era il Lager. Quando c’era il coprifuoco e quando volevano bombardare, noi eravamo in un bunker che era tutto munizioni sotto. Noi pregavamo Dio e la Madonna che mi ha salvato la vita, perché tutto in giro avevamo le munizioni e se scoppiava la bomba scoppiavamo anche noi tutti per aria.

D: Quindi voi ogni giorno lasciavate il Lager per andare in fabbrica?

R: Sì, ogni giorno. Durante il giorno dovevamo pulire intorno quando c’eravamo, dopo andare a lavorare. A me m’avevano fatto questa bua, allora le russe maledette, cattive come il diavolo, loro non volevano fare, le capisco, e quando veniva il controllo dentro e non era fatto, davano addosso a me. Ero ventiquattro ore coi miei ginocchi, che oggi non posso camminare, sulla giarina, inginocchiata finché veniva fuori il sangue con un tedesco collo schioppo davanti.

D: Questo per punizione?

R: Per la punizione. Prima le ho prese col manganello, dopo mi hanno messo a fare per punizione quella roba là, inginocchiata ventiquattro ore.

D: Ma tu cos’avevi fatto, Letizia?

R: Io ho nettato tutto sotto i nostri Lager, di Emma, di Iole, perché eravamo insieme e questa signora Anna che prima ti dicevo che è in Australia, eravamo insieme. Io e Emma eravamo sempre state insieme nella stanza. Però queste disgraziate non volevano pulire niente, allora noi le prendevamo per loro. Dopo è venuto questo signore, che siamo andate a Kirchenberg. Là avevo trovato un vecchio, povero, che faceva la guardia in fabbrica. Noi per settimana prendevamo sette sigarette per paga, allora questo tedesco vecchio mi diceva che se io gli davo le sigarette, lui mi lasciava tutto il suo mangiare. Beato Dio, che almeno ho portato trentacinque chili a casa, trentacinque chili. Come ti chiami di nome?

Così io gli dicevo di sì, perché o mi dava la polenta o le patate o qualunque cosa sia avevo qualcosa in stomaco. Poi avevamo anche le cape dentro che stavano vicino a noi, poi avevamo dei piatti così capovolti, lisci e questo era per le capsule che si mettono sulle munizioni per tirare. Guai se c’era una striscia.

Noi avevamo cinquecento lampadine sopra di noi, noi avevamo perso la vista del tutto, ma là non perderemo mai. Anche questa capa nostra a me lasciava un piccolo pomo o un goccetto di pane, mi mostrava con la mano, non poteva venire vicino a noi. Intanto non avevamo proprio lo stomaco vuoto, allora quell’altra che fumava ne diceva di tutte brutte parole, diceva: “Anche noi ti lasciamo mezzo nostro pane”.

“Ma tu mi davi mezzo così del tuo pane, mentre io avevo un bel piattino di patate. E’ facile per te stare senza fumare, ma io senza mangiare no”.

Così si è andato avanti parecchio tempo. Venivamo a casa, buttavano scorze di patate, patate neanche lavate, marce, come c’erano, e buttavano un poco di grish e questo lo mettevano in questo coso che avevamo, tipo militare, dentro e mangiavamo sempre con questa roba. Noi la chiamavamo Miska.

Ce la portavamo sempre con noi. Sul petto, per non farcela portare via. Il cucchiaio e questa roba qua. Questo lo davano alla mattina, finché non venivi a casa non ti davano più da mangiare. Venivi a casa e ti davano la stessa roba. O ti davano il tè alla mattina, acqua e basta che ti slavazzava lo stomaco e nient’altro. Là dovevi stare tante ore con quella roba.

D: Prego, Letizia.

R: Dove eravamo?

D: Lì in fabbrica di munizioni…

R: Eravamo in fabbrica dove lavoravamo. Facevamo tanto che avevamo una cara amica di passato il fiume, verso il Bona, non so poi se è viva o se è morta. Perché poi via dalla Germania, io sono andata una delle prime via, sono andata per la Jugoslavia, siamo venuti a casa.

Quando siamo venuti a Trieste col treno del bestiame naturalmente siamo scappate fuori di modo da non metterci in quarantena. Ma questo è tutto dopo. Là lavoravamo le ore che dovevamo lavorare ed eravamo per diverso tempo. Questo vecchietto che mi dava da mangiare mi diceva: “Non preoccupatevi che si avvicina il fronte russo”. Se non che dopo siamo andati a Mauthausen da là.

D: In questa fabbrica che facevate le munizioni quanto tempo sei rimasta?

R: Non lo so, so abbastanza, la maggior parte del tempo eravamo in questo Lager dove facevamo le munizioni. Assai tempo eravamo là, vedevi che morivano. Non occorre neanche pensare, poi ti racconto cosa mi è successo a me.

Là lavoravamo, venivamo a casa e facevamo lo stesso lavoro, sempre con le gambe nude, senza calze, senza niente. Poi un giorno cominciano a bombardare e questo signore mi ha detto: “Guarda che presto si avvicinano i russi verso di voi”.

Allora a noi ci hanno fatto rendere con tanti di quei carri di quattro cavalli, ne toccava menasse la poletta con le gambe, con le mani, avanti, tutto con le mani. ….Carichi questi carri, dormivamo per i fienili alla notte che ci fermavamo, finché siamo arrivati a Mauthausen.

Là ci hanno portato in un bunker giù, non su in alto, in alto c’erano gli uomini, di sotto eravamo solo donne. Io sempre con questa lattina che aspettavo per ingrumare queste scorze di patate. Le mie amiche erano dentro che dicevano: “Noi ci buttiamo un poco”. Dicevo: “Buttatevi, io vado fuori se posso prendere qualche cosetta”. Tanto che mettevo ho detto: “Madonna mia, ma qua cos’è successo?”. Guardo dappertutto, non ci sono tedeschi, non ci sono scorze di patate, non c’è niente.

Chiamo: “Iole, Emma, correte fuori. Antonia, corri fuori”. Che poi i tedeschi hanno ucciso il figlio a quest’Antonia e la nuora bruciata in Risiera. “Cos’è, Letizia?”. “Cosa sono le bandiere?” ho detto, “Cosa sono le bandiere su in alto?”

Tutte bandiere su, di tutti i colori le bandiere, non solo tedesca. Oltre il portone non c’erano tedeschi intorno al Lager, perché poi penso che sotto facevano gli aeroplani dove eravamo noi in questa baracca. Solo che era tutto un …, dormivamo uno sopra l’altro, tutto bagnato, tutto sporco, tutto quello che vuoi, le donne piene di pidocchi, povere.

C’erano tante bestie intorno, era tutta sporcizia da numero uno. Noi andiamo su, quando veniamo su troviamo tutti questi morti uno sopra l’altro. Non si capiva se erano donne o erano uomini, perché la natura dell’uomo non la vedevi, il collo era tutto dentro, ritirati i nervi, solo questa povera testa che non era né dentro, non aveva niente, cadaveri proprio.

Come se li avessi tirati proprio fuori dalla bara, ecco. “Dio, Dio”, ho detto, “quante mamme piangeranno queste creature”. Dopo questi americani ….., erano bloccati in giro, tutto attorno hanno dovuto scavare con la gru, hanno messo solo un coperchio così sopra in modo che solo il viso era coperto, chi era così, chi aveva le gambe così, erano tutti storti, poveri, uno sopra l’altro. Guardiamo come li seppelliscono e tutto.

Queste povere donne, puoi immaginare, mangiare mai né condito né cotto niente neanche, cominciano a dare margarina, tè, questo e quell’altro, una roba e l’altra, hanno preso tutti la diarrea. Io grazie a Dio no. Io e una mia amica, questa è bella, sa? Abbiamo rotto una coperta e abbiamo fatto a mano una borsa a tracolla, siamo andate fuori dal Lager.

Ho detto: “Andiamo, andiamo a domandare di darci un pochettino di cipolla, un po’ di aglio, una roba e l’altra”. Avevamo desiderio di mangiare quella roba là. “Zweite Reihe Italienish, los”, diceva, “geh mal los “. Va bene.

Se non che noi andiamo avanti, c’era un russo che lavorava in una fattoria, si è innamorato della mia amica. Io so abbastanza parole in russo, adesso magari mi sono anche dimenticata abbastanza, ho detto: “Aspetta, aspetta”. Abbiamo preso la falce, addosso a una gallina così e l’abbiamo tagliata, abbiamo messo la testa, il collo sotto l’ala, perciò non veniva fuori sangue. Siamo venute al campo, avevamo abbastanza verdura, abbiamo rotto il gabinetto, avevamo un secchio.

Io ho cucinato il brodo e l’ho portato da mangiare alle ragazze, brodo e questo. Dovresti andare a Pola, ti racconterebbero loro quello che ho fatto io per loro, non per loro, per tutte. Sempre io ho fatto per loro. Di queste ragazze che c’erano, ho detto: “Madonna mia, bisogna dargli da mangiare qualche cosetta, perché non possono stare così”. Sono andata dove c’erano quei bei lenzuoli a quadri, ho detto “Aspetta che li porto nella mia baracca, dopo a me mi portano a casa”.

Allora io ho portato a casa questa roba, signorina. Mi dicono: “Letizia, cosa pensi di fare con questa roba? Lascia stare”. Portavo tutte queste cose e mettevo tutto sopra alla baracca, sopra questo letto. Quando vedevo che questa signora stava male, ho detto: “Cosa ha, signora, che non lascia andare su?”. Corre in gabinetto e aveva tutto questo mangiare sopra la branda, prendo questa roba e tutta via in condotta, in gabinetto.

Quando via di là, mi fa: “Ma chi mi ha portato via tutto il mio mangiare?”. “Io”. “Ma perché mi hai fatto questa roba?” ha detto. “Perché l’ho fatto? Perché ti porti la testa a casa” le ho detto, “Non ti da più figlio, hai una creatura piccola a casa, bisogna che vai a casa per lei”.

Perché aveva lasciato un piccolino a casa e il marito, uno l’avevano ammazzato i tedeschi, impiccato. Ti raccontavo che ieri sera c’era il nome di questa ragazza. Siamo andate a casa per via Lubiana, Maribor, a Trieste, siamo scampate via da là.

Valcovic Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Ci dici come ti chiami?

R: Mario Valcovic, nato a Umago il 07.04.1925, allora era provincia di Trieste ma ora è Croazia.

D: Mario, quanto ti hanno arrestato, chi ti ha arrestato e perché?

R: Mi hanno arrestato le SS il 20 dicembre 1943 a Doberdò del Lago, in provincia di Gorizia.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Perché ero armato, ero con i partigiani; ad un rastrellamento sono venuti alla mattina e ci hanno arrestati tutti, tanto è vero che eravamo in un fienile, avevamo tirato su la scala, c’eravamo un po’ occultati, per dire la verità, ma dopo due o tre tentativi che cercavano in quella stalla o nella stalla vicina; noi eravamo armati.

Sono andato fuori, in quel momento è venuto un contadino che lavorava in questa piccola fattoria ed ha fatto cenno che i partigiani erano sopra: le SS erano andate in una stalla e con degli uncini cercavano nel fieno, ma non avevano trovato nessuno.

I partigiani erano sopra: noi avevamo tirato su la scala, eravamo in sei su ed uno, poveretto, si è fatto prendere dal timore, dal panico, tremava tutto, noi eravamo in cinque sopra di lui a tenerlo, per non far sentire di sotto.

Io ero ferito e sono andato su proprio quel giorno, sono rimasto lì per non tornare a Monfalcone.

C’era un giovane alpino di Bergamo, vent’anni aveva, è sepolto nel cimitero e non se ne sa ancora nome e cognome, partigiano ignoto, io ho cercato, abbiamo anche scritto ma non abbiamo mai saputo come si chiamava né niente.

Questo alpino, questo giovane di Bergamo, quando i tedeschi sono arrivati di nuovo lì ha tirato due colpi di pistola ed i tedeschi si sono ritirati, sono andati indietro cinque o sei metri ed hanno cominciato a sparare, da sotto e da una finestrella piccola.

Mi ricordo ancora che ho messo il viso e mi è passata una pallottola che mi aveva bruciato tutti i capelli.

Avevano sparato due, tre minuti: di sotto si vedevano questi tedeschi, avevano quelle bombe con il manico, se buttavano su una bomba saltavamo noi che eravamo in cinque con tutto il paese vicino.

Dopo un paio di minuti o secondi, noi avevamo messo il fieno, si sentiva sparare da tutte le parti, era tutto un fumo ed abbiamo gridato di fermarsi, “Veniamo giù, ci arrendiamo”.

Hanno smesso di sparare: poi dovevamo andare giù, ci aspettavano, abbiamo messo la scala di nuovo per andare giù.

Nessuno voleva essere il primo.

Mi ricordo come adesso, sono passati cinquantasei anni, ho buttato una giacca al tedesco che era sotto, l’ha presa nel mitra ed ha cominciato a sparare di nuovo, poi hanno cessato e niente da fare, nessuno voleva andare giù per primo.

Finalmente il più coraggioso, questo che è morto a Mauthausen, Giorgio, è andato lui per primo.

Com’è andato giù lo aspettavano, gli hanno dato col calcio del mitra e l’hanno portato dove c’era il comando partigiano, piccolo comando partigiano, l’hanno messo lì.

Poi il secondo, nessuno voleva andare giù, il terzo, intanto a fianco c’era una parete e c’era una piccola finestrella, si poteva tentare di scappare e poi saltare in un orto vicino.

Uno o due si sono messi a scappare da quella parte, ma intanto al secondo che andava giù è arrivata la stessa sorte e poi io ho tentato, uno è scappato, ma dove tentavano di scappare?, saltava nell’orto e lì c’erano i tedeschi che l’aspettavano e li portavano dentro nella cucina.

Mi ricordo che volevo anch’io saltare, ero già a metà finestrella, ma poi uno più grosso mi ha tirato indietro, io avevo diciotto anni, ma ero magro.

Due sono usciti, io sono uscito per terzo, il quarto è andato giù per questa scaletta e con i due che erano usciti dalla finestrella ci siamo ritrovati tutti nella stanzetta.

La stanzetta me la vedo ancora, una scatola di scarpe: noi eravamo tutti armati di pistole e bombe, hanno messo le pistole e le bombe in questa scatola, ma eravamo in sei ed avevamo cinque pistole, loro battevano che ne dovevamo averne sei.

Uno ha detto: “Ma io non l’avevo, non ero armato”.

Allora il tenente ha detto: “Se entro due minuti non viene fuori la sesta pistola venite uccisi tutti quanti”.

Sono tornati di sopra a cercare ma effettivamente non c’era.

La cucina era piccola, un tavolino e tutti sei in piedi, bianchi, cadaveri, perché non occorre neanche dire in che condizioni eravamo.

E’ venuto dentro un tedesco, era vestito da militare ma era metà civile, aveva un cappello da contadino e ha detto: “Questo è il comandante dei partigiani”; il comandante dei partigiani si chiamava a quei tempi, adesso è morto anche lui, Sirio Malega. Alla sera avevamo cenato lì, avevamo mangiato la minestra con i bigoli: il tedesco ha preso il tegame e l’ha rovesciato in testa. Come ha rovesciato questo tegame, l’ha preso per l’orecchio e gli ha tagliato l’orecchio, si immagini lì a vedere l’orecchio tagliato, fagioli, pasta nel viso e lui con mestolo che gli dava botte in testa.

Eravamo tutti pieni di paura, intanto i tedeschi avevano circondato tutto il paese e portavano tutta la gente in piazza, perché la piazza da lì a lì sono 20 metri.

E’ venuto un comandante che era lì ed ha detto: “Questo è il comandante dei partigiani”. Eravamo tutti e sei sulla porta, non hanno scelto, è venuto un tenente, ha preso il primo che era vicino alla porta, l’ha portato fuori dalla porta e gli ha sparato con il mitra due scariche, ci hanno fatto passare davanti a lui, intanto tutto il paese era portato fuori, ci hanno messo davanti alla chiesa, a quei tempi si vedevano i pini nel cimitero. Pensa che ci hanno preso alle 7.05 della mattina, siamo stati con le mani in alto mezz’ora, un’ora; tenere le mani in alto è difficile, se tu le tieni cinque minuti ti fanno male i nervi.

Noi per la paura eravamo sempre con le mani in alto.

Ha preso tutto il paese fuori, hanno tirato fuori quattro con la mitraglia e si pensava che tutto il paese era fuori e noi lì, uno era morto per terra, pensavamo che ci uccidessero tutti, invece è venuto Blechi, il famoso Blechi, lo ricordano tutti e poi ha tradito ed è andato con loro, ha combinato più danni lui finché è stato ucciso da noi. L’hanno preso qui, l’hanno ferito, l’hanno portato in ospedale e poi siamo dovuti andare lì ad ucciderlo, hanno ucciso lui ed anche la mamma che era vicino.

Perché è finito così, perché lui ha fatto uscire tutto il cantiere, uno ad uno, circa duecento sono stati fatti prigionieri da lui.

I due comandanti si sono messi d’accordo di portarci a Monfalcone. Sono cinque chilometri e mi ricordo ancora, non avevo neanche legato le scarpe, c’erano i lacci molli ed ero ferito al ginocchio.

Ci hanno messo una bicicletta a tracolla ed una cassetta di munizioni, con le mani in alto fino a Monfalcone, attraverso i monti. Prima di scendere, hanno tagliato il monte, “Adesso ci uccidono lì!” invece ci hanno portato fino a Monfalcone.

Uno lo hanno ucciso lì e noi ci hanno rinchiusi a Monfalcone, c’era una fabbrica di colori, ci hanno chiusi tutti in un gabinetto. Il primo interrogatorio: hanno domandato se eri partigiano, perché, per come, allora bisognava trovare delle scuse, perché ero andato prima, ma non l’ho detto a loro.

Ma perché un giovane così grande e bello è andato con i banditi, con i ribelli? L’8 settembre non veniva nessuno e siamo scappati, ma chi vi ha mandati, come siete andati. Parlavano in cantiere, siamo andati su come bambini.

Ci hanno preso e ci hanno portato con un camion.

Prima siamo andati in stazione a Monfalcone, il treno non arrivava mai, siamo scesi alla stazione, le SS hanno fermato un camion e ci hanno portato a Trieste.

Mi ricordo ancora che eravamo lì ed intanto si era propagata la voce, qualcuno di Monfalcone voleva tentare, a parte che di tedeschi ce n’erano venti, venticinque e noi eravamo in sei.

E’ sceso da un’auto, da Trieste, un piccolo repubblichino, parlava in tedesco ed ha chiesto: “Chi sono?” “Banditi”.

Uno di noi ha risposto: “Meglio essere banditi ribelli che un collaborazionista come te”, gli ha sputato ed andato via.

Hanno fermato un camion e ci hanno portati a Trieste.

A Trieste alla stazione, fino in Via Ghega a piedi, poi dove va su il tram ad Opicina, hanno fermato il tram, il manovratore, erano due donne e noi dentro, tutti sanguinanti, e le donne piangevano, ci hanno portato fino davanti a Piazza Oberdan, su ad Opicina, ci hanno fatto scendere e siamo andati su.

Poi ci hanno portato in una villa di SS, mi ricordo come adesso, abbiamo passato una notte con loro, loro erano lì che mangiavano, parlavano, fumavano, buttavano le sigarette vicino e si è passati la notte lì.

Alla mattina è venuto un camioncino, avevano quei camioncini gialli, che avevano pala e piccone dietro incrociate, “Adesso ci portano al poligono”.

Invece hanno fatto il giro per Trieste, siamo andati giù e siamo andati alla prigione

Ci hanno portato in Coroneo ed io mi sono fatto trentacinque giorni solo e gli altri erano assieme.

Lì Blechi era venuto, io ho subito un interrogatorio solo in piazza Oberdan.

Una camera imbottita, una grande carta geografica topografica della regione, la stenografa, due tavolini con la corrente elettrica, nome, cognome, perché sei andato con i partigiani ed io ho risposto a tutto.

Ad un certo punto hanno legato le mani.

Io ho visto le foto del Vietnam, un bastone qui, due sedie e ti capovolgi.

Poi mi hanno buttato un secchio d’acqua e sono rotolato giù e mi hanno portato nelle cellette piccole, buie.

Fortuna che io ho subito un solo interrogatorio, trentacinque giorni, intanto nel frattempo avevo trovato anche mio fratello, visto nel corridoio, perché andavo all’aria solo, gli altri andavano assieme a camminare, quella mezzora o un’ora.

Allora lì nelle celle, che eravamo isolati, sentivo, chi sei e nel frattempo avevano fatto prigioniero tutto il Comitato di Liberazione di Trieste, chi si ricorda c’erano tanti di loro lì.

Piccolo particolare, ero solo, il secondo giorno ero tutto ammaccato, ero seduto sul letto, perché ero pieno di piaghe, ad un tratto aprono la porta ed arriva un graduato tedesco, con il secondino ed io con le mani così chissà pensavano, non mi sono alzato, allora ha cominciato a gridare in tedesco a quell’altro. Gridavano tra di loro, verso me, poi mi sono alzato, tutto spaurito. È andato via il tedesco ed ho chiesto cosa avesse detto. Aveva detto: “Portati via il lettino con la coperta, perché non ti sei messo sull’attenti di fronte ad una SS”. E’ sei mesi che dormo nel bosco.

Un giorno: “Valcovic prendi la roba, vai a casa”. “Non prendo niente, perché mi portano a fucilare”. “Sul serio, prendi la roba che vai via”.

Malvolentieri ho preso quei quattro stracci che avevo e mi hanno portato giù e lì ho trovato tutto Monfalcone, che nel frattempo avevano fatto prigionieri. Intanto quei cinque che eravamo assieme e poi tutti gli altri e lì c’erano tutti: Quinto, Luciano Recnis, tutti gli amici.

“Ci portano in Germania, andiamo… forse si starà meglio”, perché qui c’era sempre la paura, ogni tanto li portavano a fucilare.

Una mattina, alle 3 di notte, lo hanno portato al Coroneo, con le lampade e siamo andati nel vagone e siamo andati a Mauthausen, almeno noi novantatre che eravamo siamo andati a Mauthausen, ma qualcuno è anche ad Auschwitz, come Giovanni.

D: Quanto sei partito te lo ricordi?

R: Penso il 30 gennaio del ’44. Mi hanno preso il 20 dicembre, trentacinque giorni ho fatto d’isolamento; penso il 28 il gennaio del ’44. Siamo arrivati a Mauthausen penso il 1 febbraio del ’44.

D: C’erano anche delle donne con voi, alla partenza da Trieste?

R: No.

D: Tutti uomini eravate?

R: Sì, tutti uomini.

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Due giorni, perché c’erano i bombardamenti, poi ci siamo fermati. Io sento ancora il treno che fischia in quella stazione, perché siamo stati fermi un paio d’ore o anche una giornata.

Siamo arrivati a Mauthausen.

Io sono andato a Mauthausen nel ’69 ed ho trovato due giovani e cercando da dormire in paese ho detto loro: “Quando ero giovane come voi ero in campo di concentramento”. Loro mi hanno risposto di non saper niente, non aver visto niente e non sapere nulla.

I tedeschi si erano fatti furbi, avevano messi due o tre partigiani presi nei boschi in Jugoslavia, non so come erano capitati al Coroneo a Trieste e li avevano messi davanti al nostro convoglio. I bambini ci sputavano addosso, a me avevano scritto “Banditi, ribelli”, ci sputavano e ci tiravano sassi.

Siamo arrivati davanti al portone, ci siamo spogliati, tutto in terra. Abbiamo mangiato, c’era ancora qualcosa, perché quando eravamo al Coroneo qualcosa arrivava, arrivava il pacco ogni quindici giorni.

Avevamo mangiato tutto quello che avevamo, burro, zucchero ed abbiamo fatto bene, perché poi non abbiamo mangiato più per diciotto mesi, non abbiamo mangiato più.

Hanno preso il nome, a chi l’aveva la fede, qualche catenina, qualche dente d’oro e siamo passati, ci hanno tagliato i capelli, rapato a zero, messo il numero e siamo andati in quarantena.

D: Il tuo numero di Mauthausen?

R: 50.916. Me lo ricordo perché per dire la verità, quando ero a Gusen 2, chiamavano in due o tre lingue all’appello, italiano no, tedesco, francese e polacco. Anche quello me lo ricordo. E chiamavano i numeri, gli ultimi erano inebetiti e non sapevano, non rispondevano, perché bisognava rispondere.

D: Stavi dicendo della quarantena di Mauthausen.

R: La quarantena di Mauthausen è la quarantena, l’ho raccontato anche adesso, nella baracca stavamo in mille; non c’erano castelli, si dormiva per terra e per terra facevano la fila e ti sdraiavano, testa e piedi testa e piedi; tra una fila e l’altra c’era uno spazio di 50 centimetri.

Quando ci mettevamo l’uno contro l’altro, con testa e piedi, e non ci stavamo tutti, veniva il capo e ci stringeva come le sardine; il bello era che poi di notte chi doveva andare a fare la pipì, tu ti alzavi ed il posto non lo trovavi più, perché erano tanto stretti che non vedevano l’ora che qualcuno si alzasse per recuperare un po’ di spazio.

Poi anche lì avevamo la giacchettina ed il berretto raggomitolato, le ciabatte, non mi ricordo neanche se avevamo le ciabatte. Ti alzavi e camminando toccavi qualcuno, la testa o il piede, allora da quello prendevi un morso e ti buttava avanti, quell’altro ti dava un calcio più avanti, perché la baracca era lunga 20 metri, 30 non so quanto, insomma a suon di calci e morsi arrivavi fino al gabinetto, poi era un altro problema ritornare al posto, perché il posto era occupato.

Quando arrivavi lì vedevi il posto, cercavi di allargare e loro cominciavano in tutte le lingue a bestemmiare, era un problema.

La mattina quando pulivano eravamo tutti fuori, il muro c’è ancora a Mauthausen e quando c’erano da fare le pulizie del blocco ci buttavano fuori e fuori … era gennaio e febbraio, c’erano 17 gradi sotto zero, per riscaldarci ci mettevamo l’uno sopra l’altro, appoggiati al muro, addossati al muro, ma quando eri il primo era una cosa, il secondo, il terzo, ma quando ce n’erano dieci che ti pressavano, non ti veniva più il respiro ed allora era un continuo uscire fuori e metterti davanti, era un continuo girotondo di corpi umani, questo per quelle due ore intanto che pulivano e poi ritornavamo in baracca.

In baracca sempre silenzio.

Due volte ho fatto il viaggio sulla scalinata perché dovevano allargare il campo ed ho fatto due viaggi con le pietre, l’ho fatta due volte la scalinata.

Non ho fatto quaranta giorni.

Al primo trasporto siamo andati in tre: io, Ulian Andonando e Lino Furla, in tre siamo andati, del nostro convoglio, noi che eravamo arrivati, siamo andati a Loilblpass, in treno, tutti ci guardavano, ma rimanevamo isolati. Tutti ci guardavano.

Ci hanno portato lì, poi con un camion ci hanno portato su, perché da lì a sopra saranno 12 chilometri e da una fabbrica ci buttavano pezzi di pane.

Siamo arrivati nel campo; pochi si sono fermati nel campo dalla parte jugoslava, campo sud e noi, attraverso un piccolo cunicolo, perché era già bucato dove poi si costruiva il tunnel, quando sono arrivato io avevano fatto pochi metri.

Siamo andati dalla parte di là e là eravamo adibiti a spalare neve. A quei tempi nevicava e toccava spalare la neve e buttarla in una muraglia, due o tre metri di neve, sempre buttare sopra ed ogni notte nevicava.

Le SS, i giovani, cantavano tutte canzoni partigiane, per vedere chi erano partigiani da noi, perché erano sloveni o croati e le sapevano le canzoni ed uno di noi, Ulian, rispondeva: “Ma stai zitto, vedi che fanno apposta per sapere da dove vieni e cosa hai fatto?” Invece lui era un po’ intontito e rispondeva; poi buttavano le sigarette e quando andavano per prendere la sigaretta te la schiacciavano davanti.

Lì abbiamo fatto venti giorni e poi sono andato nel comando dove tagliavano gli abeti. Tagliavano gli abeti, i più dritti, per adibirli a rinforzare le impalcature del tunnel che stavano costruendo dalla parte austriaca.

Tanto è vero che c’erano cinque baracche di qua e cinque di qua, ma una, quella verso l’Austria era quasi vuota.

C’erano gli addetti che segavano i pini, poi qualcuno era adibito a pulire i rami e poi bisognava portarli sulla strada principale.

Allora lì era un bosco, buche, non era uniforme la strada e le SS erano due o tre. Ne mettevano dieci da una parte e dieci dall’altra, o quindici e quindici, poi mettevamo il tronco sulla schiena. Quando eravamo pronti le SS sfoltivano un po’, uno sì, tre no, perché sembrava che facessimo poca fatica.

Tutti gli addetti ai lavori non erano della stessa altezza, io a quei tempi ero 1,85, qualcuno era 1,70 ed il peso non era uniforme, perché pesava sulle spalle agli altri, insomma a suon di botte si portava fin sulla strada.

Era vicino il campo, ogni giorno dovevamo portare una pietra per il campo, Mauthausen erano quelle pietre e lì, invece, il male era che dovevi prendere la pietra da solo, erano accatastate le pietre, però dovevi prenderne una media, se ne prendevi una piccola … una volta sono stato fregato. Ne ho preso una piccola e la SS mi ha buttato via quella e me ne ha messa una in spalla, non riuscivo, mi è scivolata, fortuna che sono arrivato tutto graffiato, tutto sanguinato ma sono arrivato fino all’entrata del campo.

Ogni giorno era così.

Nevicava sempre. Mi è venuta la scabbia e la scabbia si allargava sempre di più, macchie, pus. Dovevamo andare in ospedale, perché nella parte sotto c’era un piccolo ospedale: mi hanno salvato due dottori, un cecoslovacco ed un francese.

Nel frattempo un polacco è riuscito a dare la pala in testa ad un SS ed è scappato; l’hanno preso dopo tre giorni.

In quei tre giorni abbiamo fatto il campo pulito come un biliardo a suon di botte e dopo tre giorni l’hanno preso, è arrivato in campo di nuovo, ma sapete come l’hanno ucciso? Siamo tornati, la SS era ancora con la benda, tutti schierati intorno, su una pietra grande; hanno dato alla SS un martello grande e l’hanno fatto picchiare, tutti in giro a guardare e lui picchiava. I primi dieci, cento colpi, con la pistola, ogni tanto si fermava, me lo vedo ancora adesso, con quei capelli, zebrato: ha fatto un buco così nella pietra, veniva su il fumo bianco ed aveva tutte le sopracciglia bianche, ogni tanto si fermava, insomma ha resistito fino a mezzogiorno.

I suoi compagni lo hanno lavato, ma con la stanchezza, sono tornati alle due, non ne poteva più, era tutto sanguinante allora le SS gli hanno tirato con la pistola davanti a noi.

A dire la verità ne ho visti tanti, anche annegare, poi pensavo, come diceva prima Mario, alla forca: pensavo che quando impiccano uno muovesse le gambe, invece inclina solo il viso, viene fuori la lingua, a parte che sono già morti prima, perché sono cose inaudite.

Ho preso la scabbia e sono rientrato nel campo A nella parte jugoslava, là era meglio, là erano organizzati, ho trovato Lino Furlan, che parlava un po’ il francese, si è messo d’accordo con il dottore cecoslovacco, sono guarito dalla scabbia. Prima di andare via è venuto vicino, si è graffiato e si è infettato anche lui; dopo un paio di giorni è venuto anche lui di là e ci siamo rimasti tutti e due. Lino ha trovato lavoro, io sono guarito dalla scabbia e sono andato a lavorare. Lì ho trovato un bel lavoretto, il cambio turno dei minatori: avevano l’elmo con la luce e si incontrava il turno di notte a metà strada dal campo a lì sarà un chilometro e si incontrava.

In tutte le lingue chiamavano, si salutava e si incontravano alle due, solamente alla domenica ci si vedeva.

Io ero in un comando a scaricare sacchi di cemento, arrivava il camion di cemento, poi c’era una baracca ed un paio di minuti portavano questi sacchi, li stivavamo lì e poi ce ne stavamo nella baracca. Se non mi veniva la febbre non avrei patito tanto come quello che mi è toccato a Gusen 2.

Sono andato in infermeria, perché il dottore imparava l’italiano, avevo sempre febbre, mi ha tenuto quindici giorni, mi cambiava; ogni mattina arrivava alle sei, controllava tutti sul letto.

Poi sono dovuto ritornare in campo, ho preso due pleuriti e solamente ad agosto o settembre sono ritornato in campo a Mauthausen.

Andando in campo, con il cambiamento d’aria e a vedere tutti quei morti mi è sparita la febbre.

Camminavo, non avevo più febbre, sono stato dieci, quindici giorni lì.

Prima Lei ha domandato se c’erano dei preti, io ne visti in baracca a Mauthausen. Non so quanti; c’era un posto per loro, avevano un rotolo di pelle come le gomme, avevano cinque o sei rotoli di pelle attorcigliata, perché si vede che prima erano abbastanza grassi.

Sono ritornato in campo.

Poi tornato in campo di nuovo abbiamo fatto la quarantena e la prima volta ho detto di essere un meccanico aeronautico e mi hanno mandato a fare la galleria, ho dormito trentatre giorni assieme ad un ingegnere, un giovane ingegnere francese ed avevo imparato abbastanza bene. “Mario, la prossima volta vieni con me”.

Cercavano ingegneri, controllori, ho detto che lavoravo in aeronautica.

Il secondo trasporto, da Mauthausen siamo andati a piedi a Gusen, attraverso i boschi, me lo ricordo ancora: era settembre e c’erano delle mele, cercavo con i piedi di poter prenderne una, la SS guardava: niente da fare.

Sono arrivato a Gusen.

D: A quale Gusen?

R: 2, ma Gusen 2 o 1 era quasi uguale. A volte durante i bombardamenti ci portavano in galleria a Gusen 1, dove c’era una galleria in costruzione. Me lo ricordo, sa perché? Perché un giorno c’era un bombardamento e mi ero appisolato, sono caduto giù, saranno stati due metri ma c’era la sabbia.

Come primo lavoro mi hanno dato la carlinga, facevamo le carlinghe.

Mi hanno dato due rotoli da disegno, non so quanti colori… “Il primo che fa sabotaggio viene impiccato subito”. A dire la verità lavoravo all’aggiustaggio, non avevo mai visto tanti fili di tutti i colori, cose che non avevo mai visto.

Mi è venuta la febbre una mattina. Sono rimasto a casa e la sera dopo ho cambiato e sono andato a controllare i pezzettini che venivano fuori, piccoli elementi che facevano questa carlinga, era facile lì.

Non avevo un disegno, contavo i pezzi, quelli avariati li mettevo in parte, firmavo e avanti, mi sono fatto otto mesi.

Io ed un ingegnere russo fino alla fine della guerra; gli altri dovevano lavorare, c’erano tre turni, dalle 6.00 alle 14.00; dalle 14.00 alle 22.00; dalle 22.00 alle 6.00. Su Gusen io ho letto una testimonianza, ma mi hanno spiegato che c’era il treno che ci portava. Quando si usciva da Gusen ci contavano e si saliva sul vagone, avevano fatto un terrapieno che saranno due chilometri dal campo a lì ed il treno a passo d’uomo si arrivava lì.

Aprivano i vagoni ed entravi a Gusen 2, a Sant Geogen sono stato a vedere ma non si vede più dove c’erano le gallerie, è tutto brutto, sporco, hanno cercato di occultare, hanno fatto saltare tutto.

Come scendevi ti contavano. Controllo sopra controllo, contare, monta in treno, torna ad uscire dal treno, entra in quell’altra gabbia prima della galleria, tutto circondato con la corrente, poi si entrava in galleria e si lavorava.

C’erano tutti i mestieri: tornitori, lattonieri, facevano la carlinga. Il 5 maggio, finita la guerra, era ancora pieno di carlinghe, non so dove le assemblassero; lì facevano le carlinghe, da un’altra parte facevano i timoni, da un’altra parte le ali, da un’altra parte i motori.

La fabbrica non ha mai chiuso un giorno, bombardamenti sempre, si restava un’ora, mezzora senza luce: solo il tifo petecchiale ha fermato la produzione. Nel febbraio del ’45 è scoppiato il tifo petecchiale ed è stata una carneficina.

Fuori, sulla neve, ci hanno dato la puntura; c’erano morti da tutte le parti.

Quattro donne hanno rimesso in piedi il lavoro, abbiamo lavorato fino al 2 o al 3 maggio.

Mi ricordo una notte, la SS aveva un cane lupo grande, è venuta vicino e mi ha detto: “Tutti i calibri ed i disegni portarli in ufficio”.

La SS si è seduta insieme, perché erano mesi che la gente scappava. Gusen è sulla strada, a quei tempi c’era una fiumana interrotta di baracche, cavalli che scappavano da una parte, l’avanzata dei russi verso gli americani: sono venuti assieme russi ed americani a Mauthausen: l’ultima casa era il confine.

La sera siamo tornati in campo, la mattina calmi aspettavamo gli americani e sulle garitte le SS non c’erano più, c’erano quattro vecchi del Comune, quei poveretti che hanno messi lì di guardia.

Alle tre del pomeriggio mi ricordo che c’era uno di Milano, non so se era il senatore Albertini, era un avvocato, non mi ricordo: “Mario, non guardare!” ma io vedevo che qualcosa non andava bene.

Guardo fuori e vedo …. dov’era il magazzino, non so quant’era largo, cinque o sei metri, erano andati in duecento e nessuno riusciva a tornare su: appena arrivava su uno era tutto sporco di zucchero, burro, i capelli, tutto ed appena arrivava su c’erano altri quattro o cinque che lo prendevano e portavano via tutto.

Sono entrati attraverso i vetri rotti, come gli affamati.

Uno era seduto in cucina con la minestra che bolliva e lui con il cucchiaio era seduto sull’orlo che mangiava.

Un altro ha preso un bidone da 50 litri, ad andare vicino a domandare una ciotola di minestra alzava il mestolo! Come dire, paura di non saziarsi con 50 litri! Non ti dava nemmeno quello.

Portavano le patate e le rape in cucina, il campo era grande, però erano tanto ben organizzati i russi, se ne toccavi uno era grave, perché non avevano niente.

Prima c’erano gli ebrei, poi i russi e terzi gli italiani i malvisti nel campo; c’erano diciannove nazioni. Capivo quasi tutte le lingue, perché avevo il numero basso; la gente aveva un po’ di riguardo per me ma io non stavo nemmeno in piedi, avevo le ginocchia così, pesavo 40 chili. Come passavo si scansavano, perché avevano paura, come dire che ero un capo grande.

Insomma i russi, torno a ripetere, andavano all’assalto per prendere una rapa o una patata. Andare a prendere venticinque bastonate con quel tubo equivaleva a mangiare tutto il carro, niente da fare, si erano messi in testa, era il senso della sopravvivenza, stavano lì attaccati. Ma poi, vedere le spartizioni! Nei castelli si dormiva in quattro, quattro e quattro e per spartirsi un pezzetto di pane, il pane al principio era a metà, quando eravamo a Gusen, perché era come a casa a confronto di là, poi in quattro, poi in otto, poi in dodici, poi in ventiquattro. A ventiquattro avevano fatto i bilancini, grammo per grammo, come le formiche. Vedere la spartizione! Poi c’erano i kamikaze.

Non so quanto spazio ci fosse da un castello all’altro, 80 centimetri, 50: con le gambe non si riusciva, due si buttavano dentro e qualcosa dovevano arraffare, poi non spartivano lì, dovevano saltare ed andavano fuori e si spartivano tra loro.

Era una cosa vedere la sera la babele di tutte le lingue.

Poi i trucchi con le sigarette, da un campo all’altro: si doveva vendere un pacchetto di sigarette, prima di buttare, nessuno voleva buttare prima il pane e le sigarette, fare il cambio, niente, volevano cercare, “Ma è sicuro che sono buone?”, “Sì, guarda”, il russo fumava e gli dava…

Quando facevano il cambio era paglia, avevano imbrogliato.

D: Mario, tu da Gusen 2 uscivi dal campo, salivi sul treno ed andavi a Saint Georgen?

R: Sempre con il treno. Si scendeva di nuovo e si entrava, anche lì era chiuso con la corrente, si passava, contavano dieci. Devo raccontare una cosa di Gusen 2: l’ultimo mese era il mese più brutto, in aprile morivano tutti, perché il mangiare non c’era, bombardamenti, scappavano… la Croce Rossa ha mandato un paio di pacchi ai polacchi, ai francesi, agli italiani no, noi eravamo i peggiori.

L’ho detto: ebrei, russi e poi noi.

Avevano spartito questi pacchi e poi la notte non si poteva dormire più, perché dove c’era un pacco si sapeva che c’era un pezzetto di cioccolata, due sigarette. Allora sentivi di notte l’assalto: levavano le assi da sotto, crollava il castello, era tutto un fuggi fuggi, sentivi, non occorreva suonare lì, le intere zone di luce erano lo spauracchio, quanto sentivi “tic” erano tutti all’erta.

Allora quattro botte e tutto ritornava normale: due giorni, tre giorni, e i pacchi avevano già cambiato residenza: dai polacchi erano andati ai russi, dai francesi dall’altra parte. Quelli che avevano più fame e che erano più organizzati avevano rubato tutto.

Gli ultimi giorni vedevi quando scendevamo dal treno, all’entrata della galleria, c’erano 100 metri, lo vedevi quello che aveva ancora un pezzettino di cioccolata, due sigarette, un pezzo di pane. Dietro vedevi come gli squali tutti quegli altri, aspettavano di entrare in galleria e quando arrivavano in galleria sentivi urli, grida e quello rimaneva tutto stracciato, sanguinante e della porzione di pacco che gli era rimasta non aveva più nulla.

Poi quando arrivava sul lavoro prendeva anche là la dose, perché era tutto sbracato, tutto sanguinante. Ogni sera portavamo a casa i morti, cinque, sei, avvolti nei sacchi di cemento.

Una notte c’era un bombardamento, mi hanno chiamato. Erano le sei e tre di noi siamo andati fuori, perché la galleria era una montagnetta piccola, come metà della rocca, non erano tanti metri.

Insomma, sono andato vicino, sotto tiro da una carretta: uno aveva tentato di fuggire ed hanno sparato. E’ venuta la luce, è tornata la corrente ed ho domando alle SS di poter prendere, aveva un bel paio, io avevo gli zoccoli, quello un paio di belle scarpe, non so come le aveva racimolate, mi sembrava di essere di nuovo…

Poi io ero controllore, seduto: non vedevo l’ora di andare in officina per stare in pace, vicino a me c’era il gabinetto e lì venivano tutti per andare al gabinetto ed i capi, perché le SS non c’erano dentro, erano tutti capi, la SS era uno, mai uno graduato in divisa, era tutto amministrato tra loro.

Noi avevamo il nostro ….. che parlava sempre il russo, ma io capivo, parlavano tra loro e sapevo tutto, raccontava dell’avanzata ecc..

Ogni giorno hanno preso questo, hanno preso quell’altro, invece il primo maggio niente, il 2 maggio “Qua si sono messi d’accordo, dobbiamo morire!”: avrebbero minato l’entrata e tutti i buchi, avrebbero fatto saltare tutto con noi dentro, non so come non siano mai riusciti.

Ancora un particolare. Quei capi, uno aveva dieci, quindici operai ed i poveretti ebrei non avevano mestiere, erano scopini, facevano i lavori più umili, scopavano ed allora io stavo a vedere, scommettevano a sigarette quanti salti si veniva a fare, come la lana, scommettevano cinque, sei e lo facevano saltare, tiravano con la pistola e poi si vedeva che si spartivano le sigarette, quello quanti salti ha fatto, cinque, tre…

D: La Liberazione come te la ricordi?

R: Una sera era il 3 maggio, hanno preso tutti i disegni e la mattina non siamo andati più a lavorare, hanno cambiato le garitte ed il pomeriggio sono passate due jeep. I russi avevano già aperto una breccia, già ritornavano in campo con mucche, capre, galline, era tutto un fumo.

Alle sei siamo scappati e verso le tre sono passate due jeep, sono andate a Mauthausen, il campo era davanti, non si sono nemmeno fermati.

Quella notte fuochi, patate, conigli, era tutto un subbuglio e la mattina era venuta la pioggia. Io ho lasciato più morti che vivi.

In pochi, in due hanno preso il comandante del campo, lo hanno impiccato con un uncino. Gli americani sono venuti in campo e filmavano.

Erano tutti vestiti in blu, cravatte ed hanno cominciato a pulire il campo.

Allora gli spagnoli con la chitarra sopra, il tedesco sotto che doveva pulire, quando tirava su il secchio dava un colpo e buttava di nuovo giù ed avanti così.

C’erano morti, cataste di morti.

Siamo partiti la mattina e vedere l’uscita di Gusen 2, migliaia di gente che torna a casa: “Dove vai?” In Italia, in Russia, altri in Polonia, altri di qua, altri là, andavano in tutte le parti d’Europa e la strada era piena di morti.

Da lì siamo andati in un fienile. Se non avessimo sentito parlare in italiano saremmo ancora lì, perché uno è morto subito per la diarrea; poi ci hanno preso e portato a Saint Georgen in alcune case che erano state abbandonate.

Abbiamo cominciato a far da mangiare, qualche gallina, qualche uovo, ma gli americani volevano che tutti i prigionieri ritornassero nel campo: non volevano che rimanessero fuori per le strade. I civili non aprivano la porta, avevano paura dei russi.

Siamo tornati in campo a Mauthausen. Intanto lì gli americani avevano detto di non fraternizzare, loro erano già con le jeep, con le “mule” tedesche e noi in campo a pelar patate, per mangiare di più. Non c’eravamo ancora saziati.

Io sono ritornato a casa il 29 giugno. Siamo partiti da Gusen, sul camion, abbiamo tirato su un nostro amico che era in ospedale, è venuto in pigiama, senza zoccoli, uno è morto a Bolzano, poi siamo andati in treno.

In treno anche lì, tre giorni, si è fermato anche nel ritorno a casa in mezzo ai campi, anche lì in cerca di mangiare.

A Bolzano in ospedale uno è morto, un nostro compagno.

Poi ancora una cosa: con il camion siamo andati a Treviso in un campo di tedeschi. Qualcuno di noi ha cominciato ad inveire contro i tedeschi, erano ufficiali, giocavano a pallone e noi stipati sul camion; a parole ci hanno gridato di tutto anche loro.

D: Poi da Treviso?

R: Da Treviso poi abbiamo sbagliato il camion e siamo andati fino a Modena, abbiamo fatto un giro, fino ad Udine

Marchesich Iolanda

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Marchesich Iolanda, sono nata a Tregara nel Comune del Pinguente il giorno 12.02.1924, il 6 giugno del 1944 sono venuti a prelevarmi i fascisti di Portole.

Il motivo è stato questo, una mia cara amica, lei era della lista che la cercavano i fascisti con altre cinque persone del paese, e lei domenica sera il 5 giugno è andata in un altro paese perché era il presidio dei fascisti tedeschi ed allora lei si è tirata fuori e ha messo dentro me.

Però questo io non lo sapevo. Alla mattina quando sono venuti i fascisti in paese ed hanno bussato alla porta, sono entrati in casa, mia madre è andata ad aprire, sono venuti direttamente su in camera ed hanno chiesto a mio padre Come ti chiami?” “Marchesich Matteo”, “Alzati e vieni con noi”, hanno detto subito. Mio padre si è alzato, si è vestito ed è andato giù.

Vengono da me “Tu come ti chiami?” “Marchesich Iolanda”, “Alzati vestiti e vieni giù”, poi hanno chiesto a mia sorella “Tu come ti chiami?” “Marchesich Maria”, per fortuna, perché lei si chiama Amalia. Siccome una Amalia era già nella lista e lei era a Trieste, allora è stata una grande fortuna, perché mio fratello, Oscar Marchesich è stato arrestato in maggio, mi pare il 17 maggio, è stato arrestato a Pinguente, lo hanno portato a Pisino, e poi è venuto anche lui a Trieste e di lì è andato a … ed io e mio padre abbiamo fatto un mese nelle carceri del presidio a Portole, io avevo ogni giorno, ogni secondo, come gli veniva a loro, interrogatori, sempre. Mi chiedevano dove sono questi che erano in lista, che cosa fanno. Io non sapevo mai niente, non ho mai saputo niente. Questo era, posso dire, non ogni giorno, ma ogni settimana due volte, anche tre.

L’ultimo interrogatorio era un capitano dei fascisti e ancora non era delle SS, erano sempre loro che mi interrogavano. Mi hanno interrogato, ed io ho dato sempre la stessa risposta, che non sapevo niente. Hanno aperto la porta dell’ufficio, era un pianerottolo, c’erano dei gradini, mi hanno dato una spinta e sono andata giù per le scale. Ho fatto così e con la testa così, ma non mi sono fatta niente. Sono tornata su.

Poche ore dopo è venuta la colonna dei tedeschi, ci hanno prelevato e ci hanno portato al Coroneo, dove siamo arrivati il 3 luglio del 1944.

Quando entriamo al Coroneo, mio padre è andato da una parte ed io in quell’altra, non ci siamo più visti.

Nella stessa sera, c’era l’allarme e ci hanno portato in un rifugio e lì ho trovato l’amica Eva e Wilma, e da quella volta siamo state sempre assieme, adesso non ricordo la data che siamo partiti da Trieste.

D: Scusa Iole, ma di cosa ti hanno accusato?

R: Che collaboravo con i partigiani. Perché questi che erano in lista collaboravano. Ma noi non avevamo mai collaborato, la mia famiglia è sempre stata rispettata. Ma questa mia amica lei si è tirata fuori perché? Perché un sacerdote del paese con altre due persone sono andate nel presidio ed hanno cancellato la sua e mi hanno messo dentro. La stessa mattina quando io ero fuori dalla porta vedo entrare questa mia amica in paese ed io non sapevo niente. E come la vedo, mi è venuta una stretta al cuore, adesso la prendono.

Quando arriviamo a Portole, dentro nel presidio dove c’erano i fascisti, il primo giorno hanno prelevato non so quanti ragazzi del paese. Ventiquattro, venticinque, ventisei, quella gioventù. La prima cosa che mi hanno detto “Guarda tu sei qui, ma questa persona è a casa perché ti ha messo te invece che lei”. Io ho fatto un mese a Portole insieme a mio padre, siamo partiti insieme per Trieste, io non ho mai più detto niente. I tedeschi ormai mi hanno detto “Kaputt”, l’ultimo interrogatorio che mi hanno fatto hanno detto “Kaputt”.

D: Scusa Iole, il Coroneo qui a Trieste che cos’era?

R: Il carcere di Trieste, il carcere di Trieste si chiama Coroneo. Ecco. E lì si aspettava, cimici a tonnellate, terrore, paura e fame e tutto assieme. Poi avevo un ascesso sotto l’ascella, mi portava in infermeria la suora ed un quattro giorni, cinque, mi portava in infermeria, mi metteva l’ittiolo e l’ultimo giorno mi porta in infermeria mi mettono su una barella con tre tedeschi in bianco, uno con una bacinella, ed uno prende come un coltello, infila dentro nell’ascesso e mi fa così e così e ne è venuta una bacinella piena di quella materia, fuori.

Poi siamo partiti, anzi mi hanno chiesto se volevo partire mercoledì, lo stesso giorno che sono andata a fare l’intervento su, ho visto mio padre che erano pronti per partire, ho chiesto la suora se mi lasciava vederlo, “Fai alla svelta, perché non devo lasciarti”, ho parlato con mio papà “Cosa fai?” “Partiamo giovedì”.

Allora quando mi hanno chiesto nelle celle, di partire giovedì, allora siamo partiti giovedì con il convoglio per Trieste, così c’era anche mio padre. L’ultima volta ci siamo visti a Villaco.

D: Vi hanno caricato sui treni. Dove?

R: In stazione centrale. Sui treni vagone, bestiame. Stivati come le bestie. Il finestrino, sa come sono i vagoni delle bestie e lì abbiamo fatto un otto giorni, non mi ricordo in modoesatto.

D: Non ti ricordi quando sei partita?

R: Da Trieste? Proprio esattamente no.

D: Sul trasporto con te, nel tuo vagone, eravate in tante?

R: Pieno. Stivati come le bestie. Non ci si poteva muovere.

D: Anche ragazzine c’erano?

R: Giovani? Sì, erano giovani, qualche donna più anziani, ma più gioventù era. Anche uomini c’erano, lo stesso dentro. Infatti hanno caricato degli ebrei, ed io ricordo che uno aveva una ciocca di capelli bianchi davanti e lo abbiamo visto anche ad Auschwitz, fino là siamo arrivati. Poi gli hanno tagliato i capelli e non si sapeva più niente.

D: Quanto è durato il viaggio?

R: Io penso un otto, nove giorni, non mi ricordo esattamente. Mi pare di sì.

D: Ascolta, durante il viaggio vi siete mai fermate?

R: Sì ci saremmo fermate, ma non mi ricordo. Purtroppo il terrore, la paura, la fame, il pensiero delle famiglie era tutto.

D: Quando sei scesa dal treno dove eri?

R: La prima volta siamo scesi dal treno a Villaco. Ci hanno dato un pezzo di pane nero, quello loro. Anzi io avevo cinque lire, che mi portavo da casa, un pezzo di cioccolata ed un pezzo di pane l’ho dato a mio padre. Perché poi di lì lui è andato a Salisburgo e noi abbiamo proseguito per Auschwitz.

D: Sei arrivata ad Auschwitz 1? O ad Auschwitz Birkenau?

R: Direttamente a Birkenau, direttamente. E lì ci hanno sbarcato, eravamo in un altro mondo. Che noi non sapevano niente, siamo caduti dal cielo. Abbiamo visto gente, questi prigionieri, ma non sapevano niente.

D: Ma con il treno sei arrivata dentro nel campo?

R: Sì, dentro.

D: Poi li che cosa è successo? Raccontaci che cosa è successo.

R: Lì è successo che ci hanno sbarcati dal treno come le bestie e ci hanno portato, adesso non mi ricordo, ma non nelle baracche, sa che non mi ricordo. Mi ricordo che ci hanno portato in un grande salone, c’era un bancone grande e lì ci hanno portato via tutto l’oro, vestiti e tutto, ci hanno denudato, ci hanno dato una coperta e lì stavamo fino a che hanno finito, poi ci hanno messo in un altro grande casermone, per terra, senza acqua e senza niente e poi ci hanno messo nelle baracche. Tirati via i capelli, tutti, io avevo un dito, ci hanno rasato tutto.

D: Ti hanno immatricolato?

R: Ci hanno fatto il numero e nello stesso giorno che loro mi hanno fatto il numero che eravamo lì, mi hanno messo un velo di fascia, non garza, lo hanno messo dentro la ferita e tutti i giorni durante il viaggio, senza disinfezione, senza niente, quando eravamo su per fare il numero, mi tiravo pezzettini di fascia fuori. Una puzza.

D: Iole, ti ricordi il tuo numero?

R: 82954, non me lo dimenticherò mai. Anche se non lo avessi sulla mano, non lo dimenticherò mai.

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra cosa?

R: Hanno messo un triangolo sulla giacca, no, sul vestito. No, no, sì hanno messo sul vestito borghese una stelletta con il numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Rosso, un triangolo rosso.

D: Perché rosso?

R: Perché il triangolo rosso era per i politici e con la “I” di italiano.

D: Poi che cosa è successo? Dove ti hanno messo?

R: Nelle baracche, ed eravamo in quattro o cinque che dormivamo assieme, con zoccoli di legno, vestiti di tutti i colori, senza calze e senza tutto il resto che mancava.

D: Ti ricordi in che blocco ti hanno messo?

R: Adesso sono due, o nel 12 o nel 24, ma nel 24 mi pare, non mi ricordo esattamente. Non mi ricordo esattamente o 12 o 24.

D: Ascolta a Birkenau quanto tempo sei rimasta?

R: Lì siamo rimasti fino a dicembre, mi pare. Abbiamo fatto il Natale a Hirtenberg, allora fino a novembre.

D: Ascolta Iole.

D: Ancora un momento. Perché quando ad Auschwitz un giorno sono andata in svenimento e mi sono ritrovata nel Revier. Mi sono ritrovata e lì c’era la paura di non ritornare mai più fuori. Ecco. Io ho conosciuto una russa, un’infermiera giovane e poi anche la dissenteria ci ha colpito, anche quella e mi portava delle pastiglie e nello stesso tempo mi diceva, “Non prenderle”, sotto voce. “Che queste ti faranno morire”, ma non si doveva parlare con nessuno e niente, lei sottovoce come mi dava le pastiglie mi diceva “Iole non prenderle” e di fatto non le prendevo ed ho fatto otto giorni in riviera, se non di più.

Poi mi hanno lasciato, sono tornata nel blocco e mi pare che il secondo o il terzo giorno, adesso non mi ricordo esattamente, sono venuti a prelevare quattrocento prigioniere per portarci a lavorare, poi la mattina nel campo alle quattro, alle cinque ci si alzava alla svelta, a pelo, anche due ore all’appello, sull’attenti fino a che facevano. Un freddo, paura. Bastonate e tutto.

Poi ci hanno trasportato a Hirtenberg con il treno, siamo arrivati là, era una piccola filiale e là ci hanno portato a lavorare nelle fabbriche delle munizioni, turni di dodici ore.

D: Quando eri ancora a Birkenau tu sei stata sottoposta a qualche selezione?

R: No, io no.

D: Hai visto altre tue compagne sottoposte a selezione?

R: No, io non ho visto, ma ritornando a casa, qualche anno fa parlando con un’amica nostra con Draga che a lei hanno fatto degli esperimenti sull’utero.

D: Io dicevo le selezioni per andare a lavorare.

R: Per andare a lavorare ci prendevano e andavamo a lavorare fuori del campo con l’orchestra, con l’orchestrina fuori del campo per contare la fila, andavamo per cinque, e come suonavano noi dovevamo andare a passo della musica e lì era il controllo ed andavamo 8 chilometri fuori dal campo, mi pare, vicino ad un fiume a tagliare, non so come dire, delle frasche, lì ti tormentavano, portavano il pranzo e fino alla sera, al pomeriggio si stava lì poi si rientrava nel campo sempre in fila, con l’orchestra, entrando dentro, sempre.

D: Ma questo a Birkenau?

R: Sì a Birkenau.

D: Anche voi cantavate?

R: No, no, solo l’orchestra suonava e noi a passo dell’orchestra dovevamo camminare. Per il conteggio e loro contavano se non mancava nessuno.

D: Invece in questo sottocampo, in questa fabbrica?

R: In questa fabbrica la mattina all’orario dovevamo andare in fabbrica a lavorare, erano due o tre chilometri via del campo, non ricordo esattamente. Erano delle baracche nel bosco, lì lavoravamo sulle capsule delle pallottole, eravamo in sei in fila e le macchine lavoravano e lì abbiamo fatto i turni di dodici ore.

D: Avevi ancora il tuo stesso numero o ti hanno dato un numero nuovo?

R: Sempre 260, ci hanno dato il numero 260 e quello scritto sulla divisa, il nostro numero era questo sulla mano.

D: Lì in fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Sì erano delle civili controllore, erano delle civili, e per quanto riguarda la fila dove ero io, anche abbastanza coccole. Abbastanza, come dovrei dire, ci portava del filo, dell’ago, non si poteva parlare con nessuno, assolutamente, neanche tra noi, tutto zitto. Non si doveva aprire bocca con nessuno.

Noi non sapevamo niente di cosa succedeva. Noi di Auschwitz abbiamo visto il fumo ed il crematorio, qualcuno forse si immaginava, forse qualcuno sapeva, ma noi, non dovevamo parlare né niente. Dovevamo stare zitti.

D: Ascolta in questo sottocampo, in questa fabbrica di munizioni eravate solo donne?

R: Solo donne, solo donne, mi pare in quattrocento ci hanno prelevato ad Auschwitz, per portarci in questa fabbrica.

D: Ascolta lì facevate i due turni, giorno e notte. L’alimentazione ad Auschwitz come era?

R: Triste. Zuppa, che non si poteva neanche mangiarla. Era lotta quando si aspettava in fila, perché fame era, loro facevano quello che volevano, amici o conoscenti che c’erano prendevano sempre qualche cosa meglio di noi. Capitava che prendevi solo l’acqua, solo il liquido, e dovevamo andare avanti. La sera era un pezzettino di margarina, un pezzo di pane. Alla mattina ci davano caffè, c’era una rottamaia. Siamo sopravvissuti non so come. Guardi noi a Hirtenberg lavoravamo in fabbrica; a pranzo restava tutto il mangiare sul tavolo, non si poteva mangiare. Non andava giù. Tanti giorni lei vedeva tutte le trenette che davano loro rimaste sul tavolo piene perché non si poteva mangiare.

D: Quando tu dici che vi hanno selezionato in quattrocento per mandarvi in questo campo in questa fabbrica di munizioni, c’erano altre donne di altri Lager?

R: No, no, solo noi di Auschwitz. Solo noi di Auschwitz, perché sono venuti lì ed hanno prelevato quattrocento ad Auschwitz. Erano slave, croate, polacche, russe, francesi, io ero con una cecoslovacca.

D: Visto che eravate tutte donne, quando sei stata nel campo, il problema delle mestruazioni?

R: Non c’era. Non c’era. Siamo arrivati su e lì è finito. Siamo tornati a casa, siamo tornati a casa in giugno e fino a settembre niente. Hanno bloccato, non so cosa mettevano dentro. Non so, bromuro o qualche cosa, non mi ricordo, cosa mettevano nel mangiare che hanno spento tutto.

Quando io sono ritornata a casa, è venuta una commissione di medici anche per questo a casa, per vedere una via, e poi hanno detto che non ci sono problemi, di fatto, dopo un anno, siamo arrivati come prima, il ciclo regolare.

D: Iole, a fianco a te, c’è una casacca. Una giacca.

R: Scusatemi. Questa era la nostra divisa con un’ostrichetta bianca con il triangolo rosso italiano. Questo è un nostro ricordo triste.

D: Iole la Liberazione come è avvenuta?

R: La liberazione è stata il 2 aprile del 1945, il fronte russo era vicino. E allora i tedeschi per non lasciarci nelle mani dei russi ci hanno trasferito ed abbiamo fatto tredici giorni per arrivare a Mauthausen, portando tutti gli attrezzi, cucina, munizioni, viveri, tutto a mano, tutto a mano, 30 chilometri al giorno per tredici giorni. Siamo arrivati a Mauthausen sfiniti poi ci hanno messo in un grande salone giù di 186 scalini, ci hanno portato in un grande casamento, però tutto aperto, per terra, dormivamo come le sardelle per terra, sul cemento. Lì non c’era, aspettare perché non si faceva niente. Se non aspettare. Poi il 3 o 4 maggio, hanno cominciato a mancare le sentinelle, ed allora si capiva che qualche cosa doveva essere successo, infatti il giorno 5 maggio del 1945 abbiamo visto entrare i primi americani nel portone centrale, da dove stavamo noi giù, abbiamo visto come sono entrati, con una bandiera bianca, lì ci ha sollevato. Ci ha sollevato, che qua non si credeva, ma nello stesso tempo, non vedendo le SS attorno a noi, avevamo una piccola speranza.

Poi lì abbiamo fatto non so quanti giorni e poi ci hanno portato su nel campo, fuori dove c’erano le baracche dei tedeschi ed eravamo lì dentro fino alla partenza.

Siccome c’era anche mio padre, ma non sapevo dove, allora ho chiesto ad una nostra collega guida, se per caso, perché per entrare nel campo dovevamo avere un lasciapassare, lei ci ha fatto questo permesso, sono andata su a vedere e domandare se mio padre era lì, ma non sapevano niente. Io non sapevo niente, non esisteva niente, nessuna roba, fino a che non sono ritornata a casa.

Mio padre lavorava a Salisburgo in una ditta di calzolai privati, sempre sotto il controllo delle SS, lui sapeva parlare il tedesco, ha chiesto ai capi, ma nessuno sapeva niente.

Lui è tornato a casa il 9 maggio del 1945 a piedi da Salisburgo a casa.

D: Invece tu?

R: Noi siamo partiti il giorno 29 maggio da Mauthausen e siamo arrivati il giorno 6 a Trieste, 6 giugno.

Abbiamo fatto sosta a Vienna, a Lubiana, e poi Trieste. Quando siamo arrivati a Trieste alla stazione, siamo scesi tutti e dicevano che dovevamo fare la quarantena, ma siccome a noi ci hanno fermato a Maribor, ed hanno fatto le visite, ci hanno rilasciato un documento che diceva che non avevamo malattie contagiose. Però io, Emma ed un’altra amica nostra è stata la fortuna, ho trovato il militare che era la guardia di servizio che non si doveva neanche andargli vicino a quello, pian piano gli hanno chiesto, ha detto “Non si può”, poi mi ha detto “Guarda che noi veniamo così, così e così”, infatti, è stato, ha detto ” Quando io passo giù, voi filate di qua” e così abbiamo fatto. Siamo andate noi tre, fuori dalla stazione abbiamo preso il tram n. 1, non avevamo soldi, viene il bigliettaio, e chiede i biglietti, e noi abbiamo detto che non abbiamo soldi perché veniamo da così così e così e lui si è opposto e ci ha fatto pagare i biglietti. Poi c’era della gente che se poteva lo linciavano. “Come hai il coraggio di chiederle? Non vedi in che condizioni sono ?” Una è scesa ed è andata sopra la Galleria che aveva una zia, ed io ed Emma siamo partite verso Sant’Anna e qua per andare a Viscosa che io avevo una zia che stava lì, lei ha proseguito avanti ed io mi sono fermata da questa zia. Quando arrivo da questa mia zia, erano tutti giù in corte, erano pieni di partigiani e militari quella volta, pieni, quando arrivo giù, avevo uno zainetto, lo butto là per terra e mi sono bloccata. Questa mia zia mi guarda e mi chiede cosa volessi, io al momento non potevo risponderle perché ero completamente bloccata, guardavo e poi “Zia, ma non mi conosci?” “No, chi sei tu? “Sono Iolanda”, “No, Iolanda è morta”, diceva mia zia. “No, zia sono io, così e così”, poi pian piano si è resa conto.

Quando siamo a Sant’Anna fuori dal tram, ho visto delle mie paesane, ho mandato a dire a casa mia, perché per il telefono non c’erano possibilità, ho detto di avvisare la mia famiglia di venirmi a prendere dalla zia, ma questa signora, rimasta anche lei scioccata, non mi conosceva, l’ho chiamata tre volte, poi mi ha promesso “Io vado a casa domani mattina o questa sera ed avviserò”, il secondo giorno la gioventù del paese aveva una conferenza a Capo d’Istria. Quella volta io ero da mia zia, avevo le gambe gonfie così, non mi sono più potuta muovere, allora questa signora è andata a casa, subito quella stessa sera, ha detto alla figlia, “Domani mattina andate a Capo d’Istria ed avvisa Amalia”, perché ci conoscevamo tutti.

Quando sono arrivate in questa sala riunioni la segretaria chiama “Chi è di Pregara?”, allora mia sorella ha detto “Sono io”, allora questo presidente gli ha detto: “Vai a casa e andate a prendere tua sorella a Trieste dalla zia Maria”. Mia sorella è rimasta con la bocca aperta. Gli hanno detto “Vai subito a casa”, altre due amiche l’hanno accompagnata a casa, sono venute a casa nostra, e mia mamma è rimasta. “Amalia che cosa è successo che sei già qui?” Mia sorella piangendo, “Iolanda è da zia Maria, andiamola a prendere”, “Ma viva o morta?” “Viva, viva”.

Infatti la stessa sera mio padre è andato, perché non c’erano mezzi, qualche cavallo, due famiglie li avevano e sono venuti il giovedì mattina, il giorno 8 giugno, sono venuti da mia zia a prendermi con il cavallo e con il carro, per portarmi a casa. Mi hanno messo sul carro e lì sono rimasta come un pezzo di legno.

Prima di venire in casa in paese, mi ha aspettato tutta la gioventù con le bandiere, tutti, ma due chilometri e mezzo fuori dal paese.

Quando siamo alle porte del paese erano tutti i bambini con le bandiere, tutti. Chi poteva camminare. Mi hanno aspettato, sono venuta a casa, mi hanno messo giù dal carro, sono andata in casa, mi sono seduta sulla panchina grande in cucina, e c’era gente che andavano uno sulle spalle all’altro per vedermi. Perché non si rendevano conto che non ero più io. E mio papà è venuto prima, lui mi ha dato un po’ di forza.

Di mio fratello non sapevamo niente. Io ho pensato “Non ritornerà più”, perché avevamo visto che cosa era. Invece loro sono stati liberati dai russi e lui è venuto a casa appena in agosto. Ma lui è venuto a casa ben nutrito, tutto sistemato bene. E così. Ma io pesavo 36 chili quando sono arrivata a casa.

Io andavo a dormire la sera in letto, perché non c’erano materassi di lana, né permaflex purtroppo, i paioni con le foglie del granoturco, e si dormiva. Io di notte mi alzavo e andavo per terra a dormire, mia madre due o tre volte la notte si alzava e mi metteva in letto. Ed io facevo così. Fino a che pian piano mi sono sistemata.

Poi andavo fuori dalla porta e cadevo per terra perché non avevo forza nelle gambe, era un calvario. Poi pian piano mi sono ripresa e poi sono venuti da Capo d’Istria le Commissioni della polizia, perché loro sapevano tutto, sapevano la storia, chi mi ha fatto andare e tutto. Mi portavano il verbale, basta firmare per farla sparire, ed io ho detto “Mi sono fatto una promessa, di non fargli del male a nessuno” e infatti non gli ho fatto del male, non ho voluto denunciarla, è viva ancora oggi. Però non ci vediamo. Non poco, niente. Gli anni indietro, se poteva mi schivava, ma non mi interessa.

Ed io pensavo che nessuno sapeva niente di queste cose, invece in marzo quest’anno sono stata da un mio parente e mi ha detto “Sai Iolanda tutti sapevamo. Tutti subito. Come è stato, chi è andato. Cosa ti hanno fatto. Ma hai avuto la fortuna che sei ritornata ed hai riportato a casa la tua pelle. Questo forse è un grande smacco per chi ti ha fatto questo” e infatti, guardi.

Tintorri Romolo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni

Intanto dico le mie generalità. Sono Romolo Tintorri, sono nato a Loiano in Provincia di Bologna il 18 marzo 1928.

D: Quando ti hanno arrestato, Romolo?

R: Dunque, io sono nato a Loiano però mi hanno portato subito via perché mia mamma aveva sposato una persona di Sestola in Provincia di Modena, che è un paese climatico a 1.000 metri d’altezza, e mi hanno riportato lì dopo pochi giorni che ero nato. Quindi la mia vita l’ho passata sempre a Sestola, dove mio padre aveva un negozio di ferramenta.

Il mio paese, che è vicinissimo anche alla Repubblica, quella che è stata la Repubblica di Monte Fiorino, nei paraggi del modenese, era stato occupato da una formazione di Tomaso, che era un distaccamento della grande Formazione di Armando da Pavullo, e si viveva proprio, mi ricordo benissimo, addirittura abbiamo fatto una partita anche con i partigiani, quindi vivevamo in un momento quasi irreale, proprio al di fuori.

Naturalmente io sentivo che avevano fatto dei rastrellamenti a Pollinago, in tutti i paesi vicini, a Fanano dove addirittura avevano ucciso tre persone. Avevano impiccato ai lampioni della strada tre persone.

Vivevamo proprio… Però il mio paese, occupato dai partigiani, distava pochissimo, 25 chilometri da Pievepelago, dove c’erano le SS.

Una mattina, dunque il paese è stato occupato. sono stato preso verso la fine di giugno, verso la fine di giugno.

D: Di che anno?

R: Del 1944. Il mio paese è stato occupato, anzi è stato sostituito il vecchio podestà con un sindaco, sono stati attaccati i manifesti della Liberazione al campanile della chiesa, inneggiando a questa nuova e ritrovata libertà. Si viveva proprio come ho detto prima, in uno stato irreale.

Però una mattina alle 4 del mattino da Pievepelago, che distava 25 chilometri da Sestola, sono arrivati su tre camion questi SS, e questi uomini della gendarmeria. C’è stata una battaglia, mi ricordo, furibonda, veramente furibonda. A Sestola ci sono dei portici lungo il corso principale, mi ricordo una battaglia veramente tremenda, queste pallottole che fischiavano, una cosa veramente…

Io praticamente ero giovanissimo, avevo neanche sedici anni, pensavo che naturalmente non succedesse niente. Io sono rimasto in casa ed ho sentito ad un determinato momento che hanno bussato violentemente con il calcio del fucile nel portone, una volta nelle ferramenta, nei negozi ai vecchi tempi c’erano ancora i portoni di legno, ed allora mio padre poveretto ha tardato, sebbene fosse abbastanza giovane, ha tardato ad aprire, allora i tedeschi lo hanno colpito violentemente con il calcio del fucile e gli hanno rotto tre costole.

Poi dopo naturalmente io sono rimasto in casa, invece sono venuti di sopra e mi hanno preso, mi hanno buttato giù perché noi avevamo la scaletta che finiva nella ferramenta. Mi hanno buttato giù in ferramenta e poi mi hanno portato nel centro del paese, proprio lunga la mura della Piazza della Vittoria, della piazza principale di Sestola, tuttora esistente, e ci hanno messi tutti lì in fila.

Hanno incendiato tre alberghi di Sestola, ho visto che hanno fatto razzia di quei pochi apparecchi radio che c’erano una volta, alcune biciclette. Poi naturalmente aspettavamo con trepidazione quello che sarebbe successo.

Per fortuna non c’è stato nessun morto da nessuna parte, né dalla parte dei partigiani né dalla parte dei tedeschi. Praticamente noi pensavamo che poi ci liberassero.

Invece no, siamo stati caricati su dei camion, siamo stati caricati.

Mio padre non era stato preso, ha voluto venire via con me. Ho visto mio padre che trascinandosi, perché era stato colpito qui dietro, trascinandosi tra lo stupore mio e degli stessi tedeschi è salito anche lui sul camion ed ha voluto seguirmi. Uno di quegli eroismi sconosciuti che quando racconto ai bambini delle scuole, vado a fare le testimonianze, rimane molto impresso questo amore paterno così grande.

D: Romolo, scusa, oltre a te quante altre persone hanno preso?

R: Hanno preso anche delle altre persone, però alcuni, non so perché, prima di partire i camion sono state liberate, non so per intercessione di chi, o del parroco, mi sembra di Don Pedroni che c’era il parroco lì. Noi invece siamo stati portati a Pievepelago, nel famoso carcere della Gestapo, che si chiamava la Direttoria, pensate.

Siamo rimasti in questa prigione per cinque giorni. Hanno incominciato ad interrogarci. Anche a me hanno dato uno schiaffo, mi prendevano, mi strattonavano per sapere certe cose che alla mia età poi non è che sapessi.

Invece mio padre forse chissà, si vede che qualcuno aveva parlato, aiutava un po’ i partigiani perché era in condizioni, noi eravamo in condizioni abbastanza buone, quindi avevamo la possibilità di dare qualcosa a questi movimenti partigiani.

Lì siamo rimasti cinque giorni. Pensate che con noi c’era anche uno che poi è diventato un senatore democristiano, pensate, ha avuto degli incarichi di governo, un certo Bisori, che è diventato poi senatore della Repubblica.

Dopo cinque giorni siamo stati caricati, ci hanno caricati su un camion, eravamo rimaste una decina di persone, non di più.

D: C’erano anche delle donne?

R: Niente, nessuna donna. Solo uomini. Nessuna donna.

Ci hanno portato in camion a Fossoli, a Fossoli di Carpi.

Appena arrivati naturalmente a Fossoli di Carpi le solite cose che fanno nei campi di concentramento, rasatura, depilarci e via, interrogatori, e poi ci hanno assegnato nelle diverse baracche. Io ero nella baracca 18 A, ed avevo questo numero che conservo con particolare… Sì, l’avevo anche perso addirittura durante una testimonianza, ma poi l’ho ritrovato. Avevo il 2548, mi padre 2547. Questo è originale, è l’originale del campo di concentramento di Fossoli di Carpi.

D: Scusa Romolo, il babbo non l’hanno rilasciato?

R: No, il babbo non l’hanno rilasciato, è sempre rimasto con me. L’hanno interrogato, pensavo: “Magari potrebbero anche rilasciarlo”, invece l’hanno portato a Fossoli anche lui.

D: Tu durante gli interrogatori sei stato accusato di qualcosa?

R: No, non sono stato accusato, volevano assolutamente sapere di questi movimenti partigiani, specialmente le posizioni, specialmente le case dove a Sestola erano ospitati i partigiani e l’albergo dove naturalmente fino all’ultimo sono stati dentro i partigiani. Quelle cose lì più che altro. A mio padre non so, hanno chiesto altre cose, se lui aveva aiutato i partigiani, perché avevano saputo che mio padre qualcosa dava, quello che poteva dava ai partigiani.

D: Fossoli, baracca 18 A.

R: Baracca 18 A, campo lungo un chilometro per due, anticamera dei campi di sterminio, Fossoli. Lì abbiamo passato uno dei periodi più tremendi della mia storia di deportazione. Perché l’11 luglio del 1944, come dice Collotti anche nel libro… forse io sono uno dei pochi superstiti di quel famoso giorno dove hanno chiamato queste persone.

Però eravamo tutti, naturalmente avevamo l’appello alle 19, nella piazza dell’appello, che lì non si chiamava ancora Appel Platz, ci trovavamo tutti lì, ha incominciato il maresciallo Haage, che comandava più… Il comandante del campo era Thito, il tenente Thito, però naturalmente chi comandava e chi faceva era il maresciallo Haage…

Ha incominciato a chiamare ed io mi ricordo, chiamavano nominalmente e non per numero. Mio padre mi ha detto: “Guarda Romolo”, quasi prevedesse quello che poi sarebbe successo, oppure chissà cosa pensava, mi ha detto: “Romolo, se chiamano te ci vado io”. Un’altra cosa meravigliosa da parte di un padre.

Comunque non ci hanno chiamato e ne hanno tirati fuori settantuno, vero?

D: Ma chiamavano con una lista?

R: Con una lista già. Perché poi ho letto dopo, perché leggo come un pazzo tutti questi libri della deportazione, perché è un po’ la mia vita ormai rimasta, era un ordine che era arrivato da Verona, dal comando di Verona. Perché Haage e Tito andavamo lì, ogni tanto Thito si spostava a Verona ed andava a prendere ordini su quello. Infatti Gasparotto che è stato ucciso in giugno è stato un ordine che è arrivato da Verona.

Dopo naturalmente questi settantuno chiamati sono stati messi dentro in una baracca, rinchiusi in una baracca. Il nostro comandante di campo italiano, quello che faceva un po’ chiamiamoli “”interessi, era Maltagliati del Partito d’Azione, del Partito d’Azione, ed ha avvisato questa gente: “Guardate che purtroppo vi succederà qualcosa di non simpatico, cercate di fare qualcosa”.

Allora durante la notte si è sentita questa gente che urlava, che batteva contro questa baracca, una notte veramente tremenda.

Di questi settantuno adesso… Teresio Olivelli si nascose, l’ho visto, lo conosco benissimo, un uomo meraviglioso, un esponente dell’Azione Cattolica, credo che ci sia il processo di beatificazione presto, vero? Teresio Olivelli si nascose nella baracca 15, nella baracca dei pagliericci, nella baracca dei pagliericci sotto.

Così naturalmente i tedeschi non avevano, erano talmente portati… e poi consideravano anche quello che stavano facendo, si vede che non ci hanno più pensato, non li hanno più contati, loro sono partiti, sono partiti alle quattro, il primo è partito alle quattro del mattino con venticinque deportati.

Pensa che io li conoscevo tutti, conoscevo il generale Robolotti, perché ero uno dei più giovani e quindi sai, qualche scherzo, qualche piccola cosa, “ragazzo” mi chiamavano. Robolotti, Panceri, di vista così li vedevo tutti.

Il primo è stato alle 4.00, sono partiti e li hanno portati al poligono di Carpi di Cibeno. Il primo gruppo li hanno uccisi, li hanno fatti inginocchiare vicino ad una buca che era stata fatta da degli ebrei, otto ebrei, l’avevano fatta il giorno prima o due giorni prima, avevano scavato questa buca al poligono, li hanno fatti inginocchiare. Anzi no, seduti così con le gambe accavallate li avevano messi. Poi il primo gruppo li hanno uccisi subito, però il secondo gruppo naturalmente hanno sentito gli altri, hanno capito quello che succedeva, alcuni si sono ribellati ed infatti gli Emina e poi Mario Fasoli, il muratore, sono riusciti a scappare, tanto che Fasoli è stato anche colpito in una gamba ed ha continuato lo stesso questa corsa pazzesca in mezzo ai campi per parecchio tempo. Così loro sono stati liberati, nonostante che un russo, un guardiano russo, di quelli che naturalmente lavoravano per la Germania, delle SS, sparava come un pazzo contro questa povera gente.

Così due sono riusciti a fuggire. Di questi settantuno ne hanno ammazzati sessantasette, perché Caremini fu levato via dalla lista per l’intercessione di un’impiegata che forse aveva un debole, non so. Ed un’altra persona che è Baroncini mi sembra, non mi ricordo il numero, che è stato levato all’ultimo momento dal maresciallo Thito perché era una persona che faceva dei piccoli… era muratore e faceva dei lavori nel campo, quindi era utilissimo alla continuazione di questo.

Di questi settantuno ne hanno ammazzati sessantasette.

Poi per ingannarli avevano caricato anche un camion con tutte le valigie, e questo camion… Mi ricordo che sono tornati, questi li abbiamo visti proprio noi, che uno di questi tedeschi, di queste SS, aveva un braccio fasciato, poi tutti graffiati. Poi avevano preso, rubato gli orologi ed altre cose che aveva questa povera gente, se le erano messe loro.

Io avevo la baracca 18 A, dietro c’era una specie di prato libero dove hanno buttato tutte le valigie. Questo mucchio di valige poi l’hanno bruciato, e noi dopo abbiamo capito, abbiamo capito anche prima, però abbiamo visto che naturalmente era successa una cosa terribile.

Da quel giorno lì un silenzio di morte è proprio sceso nel nostro campo, perché avevamo la paura di finire tutti in quella maniera lì.

Mentre invece poi la sera dopo il maresciallo Haage ci disse che naturalmente una rappresaglia non sarebbe più stata fatta, però saremmo stati mandati tutti in Germania, ci disse, però non sarebbe più successa questa rappresaglia. Dicono che fosse per l’uccisione di sei alti… al bar Olanda di Genova, uccisi. Perché forse facendola in Liguria era troppo in mezzo alla gente, questa cosa si sarebbe saputa. Mentre invece lì pensavano che la cosa non si sapesse, oppure arrivasse in ritardo.

D: Romolo, ti posso chiedere due cose?

R: Sì, è meglio che mi fai qualche domanda.

D: Come ti ricordi tu il campo di Fossoli? C’erano dei reticolati?

R: Sì, me lo ricordo, guarda, me lo ricordo. Era un campo di un chilometro per due, solo da una parte mancavano un po’ di reticolati. Per il resto su tutte le altre parti anche dietro alle nostre baracche c’era un doppio reticolato, e nel mezzo naturalmente c’erano queste luci violente. Mi ricordo benissimo che c’erano nove garitte con le mitragliatrici sopra. Nove, questo me lo ricordo, nove garitte con le mitragliatrici, ed il campo era circondato da questi reticolati doppi. Nel mezzo questa luce.

D: Ecco, ed a fare le guardie c’erano solamente germanici o anche italiani?

R: No, ecco, benissimo, è importantissimo. Naturalmente c’erano degli ucraini dentro, come c’erano… Ma c’erano anche delle guardie Repubblichine, verissimo. Perché la prima volta, prima che ci fosse questa chiamata, questa rappresaglia, mi ricordo che misero una mitragliatrice, ed erano dei Repubblichini, misero una mitragliatrice proprio nella piazza dell’appello, me lo ricordo benissimo. Non so perché, forse avevano paura che succedesse… Però il giorno dopo è sparita.

Poi io vi racconto una cosa che in nessun libro è mai stata detta. Dentro da noi naturalmente funzionava anche una specie di Comitato di Liberazione, non era proprio… però si pensava, hai capito, anzi avevano detto in questo comitato che ad un determinato momento, adesso proprio il giorno non me lo ricordo, un apparecchio sarebbe passato ed avrebbe sganciato una bomba sul reticolato, e noi saremmo riusciti a fuggire.

Quindi ci hanno detto preparatevi tutti, vestitevi, preparatevi con scarpe… Ancora avevamo le scarpe, non avevamo gli zoccoli come in Germania, che poi scapperete.

Cosa che è successa. Però la bomba invece di colpire il reticolato ha colpito la lavanderia, quindi non è successo assolutamente niente, capite? Quando noi siamo usciti hanno cominciato subito a sparare, a sparare, allora ci siamo tutti messi velocissimi a spogliarci, a rimetterci sotto il letto per far finta di dormire, oppure di non essere mai usciti.

Alcuni naturalmente sono stati presi, che avevano ancora i vestiti, mi ricordo che li hanno fatti passare attraverso le nostre camerate battendoli a morte. Guardi, una cosa tremenda, percuotendoli a morte, mi ricordo ancora di un giovane, non mi ricordo i nomi, sono tanti, che era pieno di sangue, di lividi. Era stato trovato vestito e naturalmente loro hanno capito che questo qui tentava di scappare.

Quella lì è stata una delle cose di cui mai nessuno parla, sono stato anche con Varini, con degli altri nel campo di concentramento a portare i ragazzi, ma nessuno ne parla mai di queste cose qui.

D: Durante il tuo periodo di deportazione di Fossoli dentro nel campo ti ricordi se c’erano anche dei religiosi?

R: Sì, ecco, religiosi ce n’erano tre o quattro, anche di più. C’era Don Liggeri, e poi c’era il nostro parroco di Sestola, di Ronco Scaglia.

D: Te lo ricordi come si chiamava? Don Dinamite?

R: Don Crovetti. Me lo ricordo benissimo, il nostro Don Crovetti. Perché lo chiamavano Dinamite?

D: Lo sai perché?

R: Sì, sì, perché avevano trovato la dinamite in casa, un po’ di miccia e capite… i parroci di montagna avevano i fondi, avevano i poderi che si tenevano dietro forse più della chiesa. Lui aveva questo qui ed è stato accusato. Quando ci hanno caricato e siamo andati verso Pievepelago dovevamo passare attraverso il paese Ronco Scaglia, ed allora l’hanno caricato prima, mi ricordo che il ponte era distrutto, lo chiamavano il ponte del prete, e lui l’hanno picchiato in una maniera terribile perché naturalmente mettesse giù alcune tavole per far passare questo camionaccio, questo camion con carico di queste persone che c’erano dentro.

D: Quindi ti ricordi di Don Paolino…

R: Sì, mi ricordo. Quello poi… e di Don Crovetti. Però altri non me li ricordo sai?

D: Ecco, l’altra cosa che volevo chiederti è questa: durante sempre la permanenza del babbo e tua a Fossoli siete riusciti a comunicare con l’esterno?

R: Sì, siamo riusciti a comunicare con l’esterno perché… queste qui le cose di mio padre, … di Fossoli questo, questo qui. No, questo qui non c’entra, è per far vedere ai ragazzi. Questi qui sono… ne ho delle altre lettere, le ho portate così.

Questa qui era anche che non si poteva scrivere, è una comunicazione, una Commissione Provinciale di censura, una di quelle lettere lì l’hanno cestinata perché non potevano …che mia madre poverina l’aveva scritta, o noi l’avevamo scritta in carta quadrettata. Loro pensavano che naturalmente… ecc… avessimo dette certe cose.

Che poi purtroppo anche se si stava male ai genitori si scriveva sempre “Stiamo bene”. È vero che è così?

D: Hai ricevuto dei pacchi da mamma?

R: Ho ricevuto dei pacchi solo a Fossoli. Ho ricevuto un pacco solo, no, due pacchi, uno da mia mamma ed uno da un altro signore di Modena, un certo Benatti, che naturalmente serviva mio papà nel negozio al quale ci eravamo rivolti. “Per favore, dato che è più vicino ci mandi qualcosa”, ci aveva mandato un pacco. Due pacchi abbiamo ricevuto, quello è vero.

D: Ascolta, avevate i vostri abiti civili?

R: Sì, avevamo gli abiti civili, avevamo solo qui davanti sulla sinistra e sul pantalone, e su quel poco che avevamo, quello che avevamo da casa, questo numero qui appunto, che vi ho fatto vedere, questo. Questo è proprio l’originale, questo.

D: Poi da Fossoli cosa è successo?

R: Poi da Fossoli, dunque, da Fossoli voi sapete che sono partite addirittura sette Transport, tra i quali in quello di febbraio c’era anche Primo Levi, formato da seicentocinquanta persone, di cui ne sono rimaste vive soltanto tre. Comunque ne sono partiti parecchi, per Auschwitz, per Mauthausen, per Bergen-Belsen anche. Poi naturalmente verso la fine di luglio abbiamo saputo che dovevamo prepararci per andare. Ma così, da parte del nostro Maltagliati, non da loro, perché naturalmente non dicevano, ti prendevano e via…

Siamo stati caricati su dei camion. Quando siamo arrivati al Po’ il Po’ era completamente… Non c’erano più ponti, non c’era niente. Siamo stati fatti traghettare su un barcone e via, tra le urla di “Vigliacchi, partigiani, banditi”, perché ci chiamavano banditi, vigliacchi, canaglie, “troverete un ambiente ben diverso da quello che avete trovato a Fossoli”. Perché Fossoli per quanto sia praticamente si riusciva ancora a vivere. Come mangiare era pochissimo anche lì, però c’era una comunicazione, si parlava tra di noi, qualche giornale addirittura arrivava. Non avevamo contatti però con gli ebrei perché erano dalla parte di là. Lì chi li comandava era un certo Finzi, che poi non so se sia stato portato in Germania e che fine abbia fatto, non ho mai saputo più niente.

Poi siamo stati portati a Verona. A Verona ci hanno messi in una caserma, siamo stati lì due notti e poi una mattina ci hanno fatti alzare…

D: Due giorni in una caserma?

R: In una caserma, però non ricordo dove sia questa caserma. Sono stato ultimamente… Comunque siamo stati messi lì dentro, tutti insieme, non c’erano letti, non c’era niente, buttati sulla paglia aspettando di essere caricati per essere portati in Germania.

Poi siamo stati messi in fila, naturalmente abbiamo attraversato, questa è una cosa terribile, abbiamo attraversato una strada di Verona ed alcuni di questi veronesi, di queste persone veronesi addirittura aprivano anche le porte per riuscire a far salvare qualcuno di questa colonna, che loro capivano dove sarebbe andata. Però noi non siamo riusciti, abbiamo continuato, siamo arrivati fino a Pescantina a piedi, e poi siamo stati caricati su quei famosi vagoni. Quaranta uomini, cavalli e bestiame, non so, in quei carri siamo stati caricati sopra, in questi vagoni piombati.

Lì è un po’ la solita vita che molti esempi hanno raccontato nei loro libri. Eravamo chiusi in questo vagone con un piccolo recipiente da una parte dove dovevamo fare… Quindi abbiamo vissuto veramente dei momenti tremendi, questa gente che urlava, chi piangeva, chi bestemmiava, proprio vivevo come inebetito questo viaggio senza sapere in quale destinazione…

Quando siamo arrivati…

D: Scusa Romolo, c’era anche il babbo con te?

R: Sì, c’era anche mio padre, sì.

D: Sullo stesso…

R: Sullo stesso… pensa, dopo ti spiego tante altre cose.

Qui un signore, guardate un po’, quando siamo arrivati in questo paese, noi abbiamo fatto il Tarvisio per andare, Santa Maria di Salonicco era, un signore ci ha buttato dentro questa cartolina e noi, cose bellissime, io ci ho messo subito “Alla mia cara mamma, Tintori Alfonsina, ricevi tanti saluti e baci dal tuo Romolo e Fernando” perché c’era mio padre. Questa l’ho conservata. Pensa, questo signore che sapeva naturalmente la tragedia, perché molti passavano dal Tarvisio, mi mise dentro questa cartolina.

Prima di arrivare ai confini con la Germania uno dei nostri è riuscito ad aprire, a farsi una piccola apertura da una parte, ed alcuni sono saltati giù. Che poi ne parlano anche nei libri di questa fuga. Però quando naturalmente io e mio padre ci siamo avvicinati, anche noi, abbiamo sentito le mitragliatrici, gli spari dei fucili e compagnia bella, allora abbiamo pensato di seguire il nostro destino.

Chissà se il mio amico Tubino di Genova si è salvato, perché lui si è buttato giù, un carissimo amico. Non ho mai più saputo niente, Tubino di Genova, mai più saputo niente.

Così abbiamo seguito il nostro destino. Abbiamo fatto quattro giorni, due notti e due giorni sempre su questo vagone. Poi siamo arrivati in un grande campo, era un campo nei pressi di Berlino. Prima di arrivare a questo campo guardavo questa città che era completamente distrutta, erano colpite casa per casa, c’erano delle pareti che sembravano quinte di teatro, dentro non c’era niente. Una cosa terribile.

Siamo arrivati in questo enorme campo dove arrivava quest’umanità disperata da tutte le parti d’Europa. Intere famiglie arrivavano, dalla Russia, dalla Polonia, da altri paesi, anche molti francesi. Un enorme campo.

Prima di destinarci ai diversi campi si era fatta una specie di interrogatorio, così ci interrogavano. Mi si è avvicinato un italiano, non so cosa fosse, o lavorava lì da tanto tempo, forse un lavoratore libero addetto alle cucine, non so, di questo enorme campo, mi ha detto: “Romolo, guarda, sei studente?” dico: “Sì, ho appena finito a Bologna”. “Non dire mai che sei studente” perché gli studenti naturalmente vanno incontro ad una brutta esperienza perché vengono considerati non capaci di lavorare. Allora dico: “Cosa devo dire?” “Dì che sei falegname”. Così abbiamo detto che eravamo falegnami tutti e due, ma questo penso non abbia contato niente perché non abbiamo mai fatto il lavoro di falegname, siamo stati messi subito nelle industrie di guerra e quindi il falegname non l’abbiamo mai fatto.

D: Il nome di questo campo non te lo ricordi?

R: Non me lo ricordo proprio, non me lo ricordo. Ma era enorme, un campo enorme. Avrei voluto… Pensa, ho tante cose ma di quello lì…

D: Più o meno in questo campo sei rimasto quanto tempo?

R: Pochissimo tempo, pochissimo tempo.

D: Quindi non ti ricordi la disposizione dei blocchi?

R: No, niente, perché poi si dormiva in condizioni disperate, non c’era più niente, si dormiva giusto per passare la notte.

D: Ecco, ma ti hanno immatricolato in quel campo?

R: No. Poi dopo naturalmente una mattina siamo stati caricati sopra… Adesso non mi ricordo questo particolare però, se ci hanno caricato su dei camion o su dei vagoni, non mi ricordo. Perché noi siamo andati a Neuengamme. Ci hanno portato a Neuengamme. Con me c’erano dei francesi, c’erano dei partigiani friulani, mi ricordo il vecchio Sonov ecc… e ci hanno portato tutti a Neuengamme.

Però a Neuengamme siamo stati pochissimo, dormivamo per terra su delle tavole con della paglia, perché ancora non siamo stati immatricolati a Neuengamme. Siamo rimasti lì soltanto per un po’ di tempo perché poi siamo stati portati poi, assieme a dei francesi, a dei polacchi, a questi partigiani del Friuli, e noi, quei tre o quattro del modenese, siamo stati portati in uno degli ottanta, perché aveva ottanta sottocampi Neuengamme. In questo campo che si chiamava Wittenberg. Qui ci sono i sottocampi di Neuengamme nel mezzo, e qui ci sono i sottocampi.

Perché poi la letteratura della concentrazione parla sempre dei grossi campi, ma invece anche nei piccoli campi praticamente c’era la stessa situazione che c’era nei grossi campi. Anzi, le SS le vedevi di più perché li avevi pronti ad ogni minuto, perché il nostro campo era più piccolo. Praticamente lo stesso trattamento che avevamo lì l’avevano a Neuengamme, l’avevano negli altri campi, … non se ne parli. Delle volte si parla di Gusen, Gusen era forse peggiore dello stesso Mauthausen, vero?

D: Ecco, e lì sei stato immatricolato?

R: Dunque, lì siamo stati immatricolati, io avevo il… 12603, perché era un campo più piccolo. Avevamo solo le piastrine e basta, non avevamo altro.

D: E poi?

R: E poi nei primi tempi ci avevano dato quella divisa zebrata, poi l’abbiamo persa perché praticamente eravamo abbandonati a noi stessi, poi vi spiegherò un po’…

Siamo andati a lavorare, ci hanno immesso a lavorare in una fabbrica proprio un po’ fuori, in periferia di Wittenberg, tanto che il nostro campo distava io penso un chilometro e mezzo, due anche da dove avevamo il nostro campo. Dover andare ciabattando con questi zoccoli, con queste pezze ai piedi era una cosa terribile, una zona freddissima, avevamo delle sciarpe di nebbia attorno perché c’era sempre la nebbia.

Ciabattando andavamo a questo campo. Io ho notato sempre che non ho mai notato in un tedesco un senso di… non so, qualche pensiero, qualche riflessione, anche qualche parola che ci avesse fatto pensare che eravamo considerati dei prigionieri, oppure delle persone che avevano fatto il loro dovere però naturalmente erano stati messe in questi campi. I bambini ci sputavano addosso, specialmente anche mio padre poverino che raccoglieva le cicche, infatti raccoglievamo le cicche perché c’era questa mania del fumo, e questa gente per una sigaretta, per fumare ti dava anche quel po’ di niente, quel po’ di niente che davano. Allora mio padre si chinava, anche io, a prendere queste cicche, le raccoglievamo e facevamo questi scambi che nel campo erano chiamati la valuta, perché naturalmente era un modo di scambio.

D: In questo campo piccolo c’erano delle baracche?

R: C’erano delle baracche però in muratura erano, in muratura, ad un piano solo, letti a castello a due piani. Con questo terribile tormento delle cimici e dei pidocchi che proprio era una cosa che non ti lasciavano vivere.

Adesso entro in un particolare, erano pidocchi non nella testa, erano pidocchi del pube, pensate, noi li avevamo lì, pensate un po’. Non ti lasciavano vivere, una cosa terribile. Poi queste cimici che erano una cosa terribile, ce ne erano a iosa. Come ce n’erano anche a Fossoli. Anche a Fossoli era proprio…

D: Ed era un campo solo maschile però?

R: Quello era un campo solo maschile, vicino a noi c’era un altro campo di donne polacche. Ho visto delle cose terribili veramente in queste donne. Ho visto una mattina una donna polacca che non aveva ubbidito, qualcosa, è stata pestata da una di queste … come le chiamavano, queste che erano più tremende degli stessi uomini, avevamo solo il campo di queste donne polacche. Con noi c’erano francesi che avevano un trattamento molto meglio di noi, perché noi avevamo un trattamento pessimo. Noi …maccaroni, traditori due volte. Invece i francesi avevano una certa libertà anche, pensate, in fabbrica. Anche una certa libertà. Quella che non avevamo noi, nel modo più assoluto.

D: Quanti italiani eravate lì?

R: Lì eravamo direi sui quattrocentocinquanta, sì, tra italiani e… C’erano poi anche i partigiani friulani, però con noi c’erano anche dei francesi, non so stabilire proprio l’esatta…

D: Sì, ma italiani ce n’erano?

R: Sì, ce n’erano parecchi di italiani, sì, ce n’erano parecchi.

D: Ed il babbo sempre con te?

R: E mio padre sempre con me, pensate.

D: In fabbrica cosa facevate?

R: In fabbrica, noi lavoravamo in una fabbrica che faceva i pezzi per le mitragliatrici leggere, nelle catene di montaggio. Pensate un ragazzo di sedici anni abituato magari ad andare a scuola, a studiare, messo, buttato dentro questa catena di montaggio impressionante, facevamo una settimana di giorno ed una settimana di notte. Sempre assieme a mio padre, sempre, eravamo addirittura nello stesso reparto. Chissà il destino, cosa che è successa a pochi, perché di solito li dividevano subito, madre, padre, zii, parenti, sorelle, li dividevano. Qui il destino delle volte ti può dare…

D: Ti ricordi il nome della fabbrica per caso?

R: Sì che me la ricordo, la mia fabbrica era una volta la Singer, che facevano le macchine da cucire, che era stata trasformata in industria di guerra.

D: C’erano anche dei civili in fabbrica?

R: Sì, c’erano anche dei civili, verissimo, c’erano anche dei civili. Infatti io penso che uno del nostro reparto, fossero addirittura due o tre i civili nel nostro reparto, solo nel nostro reparto, e ce n’erano parecchi, ce n’erano tre. Noi non abbiamo mai avuto contatti perché sapevo anche poco il tedesco, specialmente nei primi tempi. Non abbiamo mai avuto veramente contatti con queste persone civili, mai contatti.

D: Ed in fabbrica sieste rimasti quanto?

R: In fabbrica siamo rimasti, siamo arrivati… Aspetta un po’ perché abbiamo fatto tutto luglio, alla fine di agosto siamo partiti… siamo rimasti fino… So che tra Fossoli e la fabbrica ho fatto dieci mesi di prigionia. Saremo rimasti otto mesi, no, sette mesi in fabbrica.

D: Sempre in quel campo lì?

R: Sempre in quel campo lì siamo rimasti. Abbiamo avuto parecchi bombardamenti, ma i primi bombardamenti, adesso vi racconterò, non hanno fatto niente, siamo sempre rimasti in questa fabbrica assieme ai francesi e polacchi, lavoravamo in questa fabbrica.

D: Il primo grosso Lager è forse Sachsenhausen?

R: Quello proprio non lo so, era enorme, grandissimo. So che Sachsenhausen è uno dei più grossi lager della Germania, può darsi che fosse anche quello, io penso… Di grande Lager non ce n’erano mica, lì era veramente enorme, può darsi benissimo. Mi hai messo in mente una cosa che può darsi benissimo fosse Sachsenhausen.

D: Non vorrei deviarti.

R: Hai ragione. Ma io poi di questo grande Lager non mi ricordo niente, so che abbiamo subito dei bombardamenti feroci dentro lì. Naturalmente loro avevano i rifugi e compagnia bella, a noi ci sbattevano durante questi bombardamenti, quindi saremo rimasti tre o quattro giorni, non di più. C’erano delle buche scavate nel terreno con delle tavole sopra e ci cacciavano lì dentro, ci facevano andare lì e non so perché, potevano anche lasciarci fuori, non è che contassero molto. Ma di questo Lager proprio non mi ricordo niente, ma pensa. Sarebbe stato bello…

D: Riprendiamo dalla fabbrica.

R: Io sono rimasto lì, sì, perché dunque siamo arrivati… siamo rimasti lì fino ad aprile. … Siamo rimasti dal settembre fino all’aprile dell’altro anno. Quanti mesi sono?

D: Tanti.

R: Tanti mesi, tanti mesi. Quasi otto mesi.

D: Ecco, nell’arco di questi otto mesi non ti sei mai ammalato tu?

D: L’importante, come sempre si dice, è di non ammalarsi mai, se no si finiva nel Revier e naturalmente la nostra vita era attaccata proprio ad un filo, perché loro potevano disporre di te come volevano e finivi anche nelle camere a gas. Nel nostro campo non esistevano le camere a gas e neanche i forni crematori. Dopo fu distrutto completamente.

Naturalmente è un po’ la vita di tutti i deportati, nel nostro campo alzata alle cinque d’estate ed alle sei d’inverno, avevamo questi orari qui. Il solito caffè tremendo che loro chiamavano caffè, questa brodaglia nera con delle erbe essiccate dentro che loro chiamavano caffè. Poi verso le 13 si smetteva di lavorare e prendevamo mezzora per questo pasto, chiamiamolo così, tra virgolette, questo pasto, era una brodaglia, una zuppa di rape da foraggio con qualche patata che galleggiava dentro qualche volta.

Allora i miei amici che vedevano questo ragazzo giovane: “Fatti furbo, non devi andare all’inizio”, perché all’inizio naturalmente prendi l’acqua, lo sapevano già tutti. C’era un lavoro, chi si spingeva di qua, di là, il sottoscritto parecchie volte… Mio padre no, ma parecchie volte mi bevevo dell’acqua perché non riuscivo mai… A sedici anni come si fa…

Però guardate, non ho mai avuto paura della morte proprio. Perché? Perché avevo il grande appoggio morale di mio padre. E poi come può aver paura della morte un ragazzo di sedici anni? Non può pensare già alla morte, non può. Quindi mi sono sempre, con questo grande aiuto di mio padre…

Negli ultimi tempi no perché la demoralizzazione era arrivata anche lì, perché vedevamo che era tanto… Perché pensate che sono stato quasi otto mesi dentro e vedevamo che questa Liberazione non arrivava mai. Si sapevano certe notizie, riuscivamo a capire da altri che erano più furbi di me che riuscivano a capire qualcosa. Ma vedevamo che i russi, perché eravamo dalla parte dei russi, non arrivavano mai. Allora dopo la demoralizzazione.

Alla sera, facevamo dodici ore una settimana di giorno ed una settimana di notte. Per le punizioni, una piccola cosa, una qualsiasi cosa, perché i tedeschi avevano una forma maniacale, ..cinque per cinque, una forma maniacale in tutto. Mi ricordo che io ho avuto due punizioni, la prima volta perché non avevo capito un ordine di uno di questi tedeschi, di uno di questi capi del nostro campo. Lì mi ha colpito con il Gummi, il famoso Gummi, quest’anima d’acciaio rivestita di gomma. Ma non è arrivato a venticinque, me ne ha date alcune e poi dopo mi ha lasciato andare.

Poi un’altra volta durante la notte perché avevamo i gabinetti, chiamiamoli cessi proprio che rende più la parola, con un’apertura davanti, ogni tanto passava il capo e guardava dentro se uno s’addormentava durante la notte. Io una notte mi sono addormentato, ero talmente stanco che mi sono addormentato, lui mi ha preso, mi ha tirato fuori, e poi picchiandomi mi ha fatto andare per tutto il reparto. Pensate mio padre che mi ha visto in quelle condizioni. Però mi avevano detto di stare dritto, di non prenderle mai sui reni, perché sui reni sarebbe stata una cosa… Di prenderla tipo sulle spalle. Io ho applicato un po’ alla mia maniera, come potevo, e questi colpi sì mi hanno fatto stare per parecchi giorni… però non sono stato a letto. Perché doversi ammalare oppure saltare il lavoro per loro diventavi una bocca inutile da sfamare e ti colpivano, non avevano mica nessuna pietà per nessuno.

D: Appunto, nessuna pietà per nessuno. Dicevi di quella donna che hai visto nell’altro campo, lì nel vostro campo oppure durante la fabbrica sei stato testimone di atti di violenza?

R: Sì, sono stato testimone più che di atti e di cose di grandi… picchiavano questi prigionieri in una maniera pazzesca. Però proprio atti che si arrivasse a colpirli e ad ammazzarli io questi non li ho mai visti nel mio campo.

Però ho visto alcuni che sparivano, per esempio loro ci dicevano che erano stati mandati a lavorare in altri posti, però io ho avuto sempre dei dubbi sulla loro sorte, ho sempre avuto dei dubbi. Infatti nel nostro campo ne sono mancati parecchi, non so se andavano a lavorare nei campi o fossero trasferiti, oppure avessero fatto un’altra… Perché c’era un tipo di … naturalmente che era stato partigiano, era stato nel partito comunista, quindi era un personaggio piuttosto pericoloso magari per loro. Quello non l’ho più visto. Sono dubbi che mi sono entrati nella memoria, nella mia testa.

D: Dicevi che c’erano molti francesi.

R: Molti francesi, molti francesi sì.

D: Ricevevano pacchi questi?

R: I francesi ricevevano pacchi. Tanto che uno di questi qui una volta mi diede un cioccolatino anche a me, questo grande… mi diede questo cioccolatino. Ricevevano pacchi, ricevevano pacchi. Poi stavano meglio, addirittura alcuni avevano intrecciato anche delle relazioni con delle donne tedesche, addirittura. Sì.

D: Accennavi prima Romolo ai bombardamenti, in questo campo dipendente da Neuengamme. Ecco, cosa succedeva? Eravate in fabbrica o nel campo?

R: Tutti i bombardamenti che abbiamo subito, che io ho subito nella Wittenberg sono stati tutti sempre dentro alla fabbrica. Eravamo sempre dentro alla fabbrica. Nella fabbrica avevano dei rifugi un pochino più decenti, avevano delle gallerie scavate ed allora i prigionieri li mettevano lì sotto, forse c’era un pochino più di sicurezza. Ma la Wittenberg è stata quasi completamente distrutta, parecchie volte ha avuto dei bombardamenti. Allora lì ci prendevano fuori dalla fabbrica e ci mettevano, ci regimentavano, ci portavano a sgomberare le macerie. Sempre, due o tre volte l’ho fatto assieme a mio padre, andavamo… Anzi, pensavamo: “Forse ci fanno fare i falegnami questa volta”. Mentre invece non ci facevano fare niente, lavoravamo solo a spostare mattoni e basta, a tirare su cadaveri e basta.

D: Il momento della Liberazione come te lo ricordi?

R: Ma c’è ancora da parlare. Dunque, poi il mio campo, eravamo in fabbrica, assieme a mio padre ed a tutti gli altri, è stato un bombardamento feroce che ha distrutto quasi completamente Wittenberg, le ultime case che erano rimaste, ed ha distrutto completamente anche il nostro campo. Quando siamo arrivati non abbiamo più trovato niente, niente. Anche mio padre poveretto aveva nascosto un po’ di pane e non ha più trovato niente. Delle calze, un paio di calze che io non so dove fosse riuscito ad averle perché mio padre cercava sempre. Io invece li subivo, ma mio padre invece…

Il mio campo è stato completamente… Ma pensate che siamo stati rinchiusi poi lì mentre arrivavano i russi, i cannoni dei russi erano a pochissima distanza, ci hanno rinchiusi in un campo per due o tre giorni, una cosa terribile. Nascondevamo la testa dentro la sabbia, a questa terra, delle cose terribili.

Poi siamo stati portati fuori, siamo stati messi in quelle famose colonne che poi ho saputo in seguito che si chiamavano le marce della morte, e perché dopo ho identificato? Perché durante questa marcia è stata una cosa veramente terribile, guardate, uccidevano questi vecchi che non riuscivano a camminare e li abbandonavano lungo i marciapiedi delle strade. Io ho visto delle cose terribili. Un ragazzo a sedici anni che vive delle cose così ti rimangono impresse per tutta la vita, perché c’è qualcosa di disumano, di criminale, di pazzesco proprio. Questi vecchi che naturalmente non riuscivano più a camminare li uccidevano e li abbandonavano lungo la strada.

Poi un’altra cosa che mi ha colpito, quando si dice che naturalmente c’era in Germania molti che non la pensavano… Pensate che lì da noi c’erano lungo le strade, quando passavamo, c’erano i ragazzi della Hitler-Jugend che avranno avuto quindici anni che aspettavano i carri armati russi. Pensate l’indottrinamento di quella gente lì, pensate un po’. Per loro era morte certa perché i tedeschi naturalmente non facevano più prigionieri, ma anche i russi avevano ragione, non ne facevano più di prigionieri, ammazzavano tutti quelli che trovavano. Quindi pensate un po’ l’indottrinamento di questi giovani. A quindici anni ancora ad aspettare lì… era la loro morte, sapevano che dovevano morire.

Allora in questa marcia della morte durata tre o quattro giorni, perché si andava piano, ci si fermava delle volte per delle cose più strane. Una sera siamo stati messi in una grande masseria, in una grande azienda agricola, chiusi dentro in questo fienile che era enorme, chissà che azienda grande era. Tutti questi prigionieri della nostra colonna messi lì dentro.

Io e mio padre abbiamo avuto un momento di coraggio veramente, e durante la notte siamo scappati, io e mio padre soli siamo scappati. Non so, o non ci hanno visti o è stato il destino, io non so come sia stata questa cosa qui, siamo riusciti a scappare e ci siamo buttati subito nella campagna, c’era un boschetto lì vicino, l’abbiamo attraversato, e poi abbiamo continuato a camminare, camminare. Siamo riusciti a scappare.

D: Camminare fino a dove?

R: Poi dopo siamo arrivati verso …, abbiamo fatto tanti paesi che adesso non ricordo. Ma lì noi siamo riusciti anche a mangiare qualcosa perché i tedeschi hanno un particolare modo di conservare le patate, fanno una specie di paglia, sabbia, paglia, poi una specie di piramide, paglia ancora e sabbia, e si conservano benissimo da un anno all’altro. Allora io e mio padre uscivamo a prendere queste patate, nei primi tempi si mangiavano addirittura crude senza pelarle, senza niente perché la fame era paurosa.

Poi in un secondo tempo siamo entrati anche in certe case, perché i tedeschi avevano una paura mortale dei russi, li avevano indottrinati in una maniera che avevano una paura mortale dei russi, quindi le case le abbiamo trovate addirittura abbandonate, moltissime case. Siamo entrati con mio padre e qualcosa siamo riusciti naturalmente a cuocere magari qualche patata, perché ormai non si trovava quasi più niente.

Lì c’è stato un momento terribile perché mio padre durante questi sette, otto giorni che abbiamo camminato è stato preso da una febbre altissima, non riusciva più a camminare. Allora io ho preso quest’uomo, un uomo meraviglioso, l’ho messo sotto ad un carretto, pensate, avevo sedici anni, sotto un carro bestiame che era fermo in una di queste case di contadini o di padroni, non so, di agricoltori. Tre giorni è restato così, tanto che non pensavo di portarlo più a casa. È stato un momento terribile della mia vita quello lì.

Poi il destino che aiuta sempre si è ripreso, pensate, dopo una febbre feroce, sragionava “Allora cosa c’è, la mamma, mia moglie ecc…” una cosa terribile per un… Durante la notte stavo lì vicino a lui. È stato tre giorni, poi è riuscito, si è rialzato e così abbiamo proseguito il nostro cammino. Verso che cosa? Scappavamo solo, per paura di essere ripresi.

Durante questo passaggio attraverso i boschi abbiamo incontrato altri cinque militari che erano scappati da un campo militare, ci siamo messi con loro tanto che poi abbiamo poi trovato un cavallo, ammazzato, e finalmente lì abbiamo fatto una mangiata bellissima con questo.

Pensi che io ho ancora delle memorie scritte in un librettino che ho trovato, adesso bisognerebbe che facessi stampare.

D: Memorie scritte da chi?

R: Da me.

D: In quel momento? Tipo diario?

R: In quel momento. Tipo diario, ma solo negli ultimi giorni perché prima non potevo mica scrivere io, non potevo mica durante la prigionia perché non avevi matite, né fogli, niente. L’ho trovato in una di queste case, allora ho scritto le ultime mie impressioni di questa prigionia finale, della Liberazione e tutto. Adesso bisogna che lo faccia stampare, è un libricino grande così.

D: Romolo, da quando siete scappati sei riuscito a recuperare il percorso, la direzione?

R: Sì, un pochino sono riuscito a recuperarla. Sono passato da …, sono passato verso… Io sono stato liberato vicino a Perleberg credo, penso di sì.

Poi una mattina eravamo lì in una capanna, in una specie di baracca lì fuori, abbiamo sentito un grande rumore, uno sferragliare, un passaggio di cavalli, di cavalleria. Allora abbiamo pensato di uscire verso la strada che era sulla destra di questo bosco. Allora siamo stati liberati dall’esercito russo.

Era il 2 maggio, un mercoledì, alle 10.30, siamo stati liberati dai russi, mercoledì alle 10.30, 2 Maggio.

D: Cosa ti ricordi di quel momento?

R: Un momento fantastico, guarda. Fantastico. Perché dopo ci hanno rifocillato, ci hanno dato anche da mangiare. Siamo rimasti così, “Pensate siamo liberi”, “Pensa papà siamo liberi, è una cosa grandissima”. Grande, enorme è stata. Veramente grande.

Poi siamo andati in paese, che penso fosse Perleberg, e lì abbiamo avuto una disavventura perché abbiamo trovato un magazzino della SS della… sapete che il nostro stomaco era ridotto ai minimi, allora abbiamo trovato dentro questo grande magazzino scarpe ed altro che non ci interessava più, abbiamo trovato del latte condensato della Nestlé, tubetti, allora io e mio padre li abbiamo ingurgitati in una maniera esagerata, è stata una cosa pazzesca, abbiamo rischiato lì di finire con il latte condensato nei nostri giorni della Germania.

Poi la nostra zona dai russi è passata agli americani naturalmente hanno diviso in zone la Germania, è passata sotto agli americani, siamo stati lì un po’ di tempo. Poi siamo stati messi nella zona inglese, e lì ci siamo stati parecchio. Perché io sono stato liberato il 2 maggio del ’45, sono rimasto lì fino all’inizio di settembre. Anche di lì siamo scappati con il nostro capo campo che si chiamava Bedosti, ho ancora tutti i proclami a casa di Bedosti che ci diceva di stare calmi, di stare buoni ancora perché naturalmente… “Siete liberi ormai, però tra poco arriverà…”. Noi aspettavamo sempre di tornare dalle nostre famiglie ma non arrivava mai.

Allora anche lì siamo scappati.

D: Dove era questo campo qui?

R: Aspetta un po’…

D: Questo campo degli inglesi.

R: Chissà poi dove era… non lo so. Io ho una fotografia… se mi verrà in mente…

D: Dicevi questo capo campo che tu hai a casa ancora i proclami.

R: Pensa, ho i proclami di questo Bedosti dove ci dice di stare calmi perché la nostra libertà finalmente l’avevamo avuta, però di stare calmi che sarebbe arrivato il momento.

Invece siamo scappati anche da lì, siamo scappati prendendo i più strani treni che non si sapeva dove andavano, …poi tornavi indietro, poi andavi avanti, finalmente siamo arrivati fino, questo me lo ricordo benissimo, siamo arrivati al campo di Mulenberg, che era un campo degli americani, e lì siamo stati disinfettati con il famoso DDT, irrorati da capo a piedi di questo DDT, poi di lì abbiamo avuto la possibilità di prendere un treno che ci avrebbe portato al di fuori della Germania e poi in Italia. Ma siamo stati in questo campo alcuni giorni. Io ho a casa ancora proprio DDT ecc… quando siamo stati spolverati.

D: Il percorso di ritorno dal Brennero?

R: Dal Brennero. Anche lì… Lì abbiamo fatto aprire… trovavamo dei camion, montavamo lì, siamo arrivati, abbiamo fatto tanti paesi, tanti paesi, prendevamo il camion che andava… Il nostro punto era sempre Verona, e finalmente siamo arrivati a Verona.

Da Verona anche lì siamo arrivati con un camion a rimorchio che portava dei sacchi non so a chi, siamo arrivati fino a Modena. Poi da Modena ancora su un camion di autotrasportatori siamo arrivati a casa mia a Sestola.

D: La mamma?

R: Pensate un po’, mia madre naturalmente non ha mai saputo niente, i paesani… guarda, sono arrivati Romolo e Fernando. Adesso mia madre… Mia madre pensate un po’ non si reggeva in piedi, anche noi questa gioia di tornare, di vedere… Perché a casa avevamo lasciato la mamma e la nonna. La nonna centenaria, ha vissuto fino a cento anni. È stata una cosa… Veramente in quel momento mio padre più di me era in condizioni disastrose poveretto, era proprio una larva di uomo, era diventato, perché si privava delle volte di quel poco o di quel niente che ci davano per darlo a me. Quindi sono di quelle cose che non si dimenticheranno mai.

Ditemi qualcos’altro.

D: Quand’era quando sei arrivato a casa? A settembre?

R: Sì, sono arrivato a casa a settembre proprio, a settembre, verso il 10 di settembre.

D: Ascolta un attimo, come hai visto che avevi diciassette anni…

R: Sì, diciassette anni.

D: Con i tuoi amici, i tuoi amici di… compagni di scuola, raccontavi? Ti chiedevano?

R: Sì, perché naturalmente alcuni di loro si erano salvati perché si erano nascosti, quel famoso giorno dell’arrivo dei tedeschi a Sestola, alcuni si erano nascosti. Invece io stupidamente… ma non stupidamente, perché come si fa a prendere un ragazzo di quell’età lì. Le raccontavo e stavano a sentire quello che mi era successo.

Però dopo per un po’ di tempo anche io ho smesso di parlare perché raccontavo delle cose talmente grandi, talmente al di fuori della realtà che molti sì, quasi non le capivano.

Chieffo Giorgio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Giorgio Chieffo. Sono nato a Firenze il 05.01.21, ho ottantuno anni.

Dove sono stato arrestato? Sono stato arrestato a Milano su una delazione di un tizio, il quale era stato paracadutato, che avrebbe invece dovuto essere il collegamento tra il nostro servizio, dico nostro”, perché eravamo insieme io e Giorgino, tra il nostro servizio e il servizio segreto statunitense, l’O.S.S. che avrebbe avuto in quel periodo lo scopo di preparare uno sbarco con alianti e anche avio, se fosse stato possibile, a nord dell’Appennino.

Praticamente io ero a Milano e avevo parlato con un alto dirigente del Comitato di Liberazione che era Pietro Stucchi Prinetti, e dopo noi vivevamo nella casa di un tizio che ce l’aveva offerta, partendo da Borgotaro e una mattina siamo usciti io e lui e ci siamo trovati ingabbiati.

D: Scusa, tu facevi parte di quale organizzazione?

R: In primis, ovviamente, io facevo parte della Brigata Julia di Borgotaro. Mentre ero nella Brigata Julia, venne dal sud un piccolo gruppo, tre persone, che loro erano stati incaricati dal servizio di informazione americano, di iniziare a trovare una maniera di adepti e ovviamente informazioni.

Questi ci dissero: “Guardate, avremmo bisogno di questo e questo”. E allora abbiamo iniziato a dare queste informazioni. Volevano sapere la dislocazione dei reparti tedeschi, dei reparti fascisti. Avevano bisogno di avere delle notizie circa gli eventuali punti fortificati.

Tra l’altro riuscimmo, ma questo in maniera un po’ fortuita perché non fu merito nostro, ma fu un caso, eravamo a Borgotaro quando fu occupato questo paese dai partigiani, quando venendo giù dal passo della Cisa, veniva giù una macchina tedesca scoperta.

A questo punto, ovviamente era stata sottolineata, e all’altezza di Borgotaro un po’ di raffiche bloccando questa macchina.

Fortunatamente dentro c’era un ufficiale tedesco che aveva un grosso borsone e in questo borsone c’erano tutti i piani delle fortificazioni tedesche di La Spezia.

Erano questi i piani che ci convinsero a dire: “Andiamo a Milano perché dobbiamo portarli al Comitato di Liberazione Nazionale” che faceva capo, allora, al Partito d’Azione, a Milano, dico Stucchi Prinetti.

Quindi, a chi si faceva capo? Diciamo in maniera saltuaria, come capitano, noi avevamo proprio questo scopo, poi ovviamente si riferiva.

La cosa migliore per riferirla era tramite la radio che avevamo e poi ovviamente per quello che si poteva,

Dall’arresto fummo trasferiti a San Vittore.

D: Ti ricordi quando ti hanno arrestato?

R: Questa è la data che o la sa Giorgino o me la sono completamente dimenticata. Perché lui so che ha fatto un brogliaccio, dove ha scritto tre o quattro date, ma tra l’altro ha anche la data di quando noi fummo portati al Lager di Bolzano, poi ha la data di quando noi scappammo.

Però io gliel’ho fatto vedere: non è possibile, perché altrimenti si sarebbe stati nel Lager quindici giorni. Ci siamo stati parecchio tempo, quindi non tornavano queste date.

Quindi la data dell’arresto, con tutta sincerità non la ricordo.

D: Giorgio, quando vi hanno accerchiato per la delazione, erano italiani che vi hanno…?

R: Erano italiani, ma tutti in borghese, tant’è vero che a San Vittore, gli interrogatori ce li fece un italiano. E devo dire che per una ragione che non so, me la sono immaginata un pochino, la ragione era che le cose cominciavano ad andare poco bene sia per i tedeschi che per i fascisti, quindi le persone che in carcere avevano la fama dell’aguzzino, pian piano cominciavano a farsi un po’ un piccolo alibi. Ecco perché dico che nell’interrogatorio non è che furono bastonate o altro, anzi dicevano: “Diteci la verità, dateci una mano, altrimenti andate a finire in mano al Crup e andate a finire male”.

D: Nell’arresto hanno preso te e Giorgino?

R: Esatto.

Portati a San Vittore. A San Vittore, quinto raggio. Il quinto raggio è il raggio dell’isolamento.

Ci saremo stati quindici o venti giorni, i tempi dell’interrogatorio.

D: Gli interrogatori, scusa, li facevano lì a San Vittore?

R: Sì, a San Vittore, di sotto.

Dopo, passammo al primo raggio. Il primo raggio invece era un raggio che noi abbiamo considerato in maniera molto umoristica perché i secondini, chiaramente anche loro che cominciavano a sapere da che parte era il burro sul pane, a un momento i secondini specialmente con i politici, dicevano “Buongiorno signore, devo aprire la cella, vuole uscire?”. Aprivano la cella, e noi andavamo nei corridoi, ci si girava, ci si muoveva, ecc. e alla sera: signori, buona notte, dobbiamo rientrare.

Questo era quello che era il primo raggio, il che è comprensibile perché sapevano benissimo che eravamo dei politici ed ovviamente si rendevano conto che se un domani qualcuno gli dava una mano nel dire: “Questi ci hanno trattato bene, questi ci hanno dato una mano, questi ecc.”, era tanto di guadagnato per loro.

Proprio lì in San Vittore, durante l’interrogatorio, chi interrogava cercava di sapere qual’era il nome proprio di uno di quelli che era venuto su dal sud.

Infatti, addirittura aveva fatto uno schizzo, un disegno, che tra l’altro era molto somigliante, bravo chi l’ha fatto e volevano conoscere questo qui.

Perché? Perché questo effettivamente su a Milano aveva, indipendentemente dall’altro gruppo, organizzato un gruppo per conto proprio, tipo un gruppo di gappisti.

Comunque, a parte il fatto che non sapevamo dov’era, tutto quello che si sarebbe potuto dire era: “E’ venuto su, però ora chissà dov’è”.

Ma a parte questo, non è che fu un infierire nel vero senso della parole, né su me, né su Giorgino, per nessuno dei due, in un certo senso.

Ovviamente notizie arrivavano di persone che erano state malmenate ecc., ma non a noi direttamente, fino al giorno in cui di notte, all’improvviso, ci dissero: “Alzatevi perché voi partite”.

Allora, “Come?” “Chi?”, domande senza risposte, comunque gente del carcere aveva subito capito di cosa si trattava e di conseguenza ci dettero una mano perché chi ci dava delle coperte, chi ci dava dei sacchi di pane e formaggio, chi ci dava altre cose, praticamente per arrivare su con una certa possibilità, una certa quale possibilità.

Qui, nei pullman, pullman portati fino a su, a Bolzano, siamo entrati dentro.

D: Più o meno, anche qui non ricordi quando?

R: Io so una cosa sola: non era freddo. Non era freddo perché quando si poteva, alla mattina ci si lavava a una fonte, quindi freddo non era, settembre o roba di questo genere.

D: In quanti vi hanno preso da San Vittore e portati su a Bolzano, più o meno?

R: Erano tre autobus, quindi mettiamo trentacinque, quaranta per autobus, quindi più o meno centoventi, cento trenta persone.

D: Solo uomini?

R: No, uomini e donne.

D: Chi vi faceva da scorta?

R: Io lì per lì, io ho dato un’occhiata a destra e a sinistra, ma siccome non vedevo l’unanimità del fatto, non me la sono sentita, perché tra me e Giorgino, allora, specialmente allora, io a quell’epoca ero più robusto di ora, perlomeno più agile, c’era un tedesco accanto all’autista e un tedesco in fondo.

Seguiva ovviamente una macchina con tre o quattro tedeschi, più una motocicletta o due motociclette.

Ma volendo, il pullman lo si beccava come si voleva, però giustamente facevano osservare: “Tu prendi il pullman e per il resto come fai? Come lo levi di mezzo?” Lasciamo andare…

Ma erano tre pullman, quindi saranno state cento cinquanta persone circa.

D: Ti ricordi se durante il tragitto vi siete fermati?

R: Sì, ci siamo fermati, ma ci facevano fermare per necessità fisiologiche e basta, non c’era stato niente altro.

D: E lì siete arrivati a Bolzano.

R: Siamo arrivati al Lager, papale papale… e siamo entrati…

D: E’ entrato il pullman dentro, tant’è vero…, ovviamente ci hanno fatto scendere, quindi tutti in colonna, inquadrati, destra, a sinistra, allineati e coperti, come si diceva allora e il primo impatto e quindi le osservazioni che facevamo tra di noi: “Non ci sono scheletri”. Capite cosa voglio dire? Ci siamo meravigliati del fatto che pur essendo un Lager, la gente non aveva l’aspetto di uno scheletro, di uno patitissimo.

Ora, non sapevamo, allora, che il Lager era stato aperto da poco tempo.

C’è un punto qui dove c’è scritto che viene aperto il Lager di Bolzano.

D: Nell’estate del 1944.

R: Ti dicevo settembre, noi siamo arrivati verso quell’epoca lì. Non sapevamo che era aperto da poco.

Quindi per forza di cosa, per far sì che della gente internata diventino degli scheletri perlomeno un briciolo di tempo ci vuole.

Queste cose noi non le sapevamo, quindi ci eravamo meravigliati del fatto che perlomeno qui la gente era viva, quindi non era come ci si può aspettare e come noi sapevamo di Auschwitz.

Per cui divisione, un blocco lì, un blocco là, tre o quattro blocchi, perché c’erano due, tre, quattro capannoni e lì ci fu la cosa buffa che io mi presi del “cretino” da tre o quattro persone più anziane di me, perché erano colonnelli dell’esercito, maggiori, colonnelli dell’esercito.

Io, a quel tempo, ero capitano e basta.

Perché questo? Perché quando fu fatto il blocco e fu fatto questo gruppo e si disse: “Voi fate parte di questo blocco…”, quello che era il responsabile italiano del campo, che era un ex tenente dell’aviazione, tra l’altro, domandò: “C’è tra voi qualche ex ufficiale effettivo?”

Io, da un certo momento, da cretino, presi e schizzai fuori, “Sì, io sono ufficiale effettivo”.

Tre o quattro persone più anziane di me “Cretino” mi dissero, subito e al volo, perché loro erano più ufficiali effettivi di me diecimila volte, però ovviamente loro avevano annusato il fatto che sarebbe stata una responsabilità e basta e anzi andavo incontro a delle grane, e io in quel momento non ci ho pensato.

Quindi, fui fatto capo blocco….

D: E il blocco qual era? Te lo ricordi?

R: Allora, si entrava nel campo, i blocchi erano sulla sinistra e sulla destra, ovviamente, noi eravamo su quelli di sinistra.

Era il secondo blocco, uno, due, non so come erano indicati. Comunque era il secondo blocco.

In questo blocco c’era di tutto: c’erano politici, c’erano ebrei, c’erano zingari, poi c’erano anche prigionieri comuni.

Insomma c’era promiscuità di qualsiasi tipo, ma nessuno brontolava, le uniche persone ….

D: Giorgio, due cose, quando siete entrati, per prima cosa, vi hanno immatricolato?

R: Scusa, questo l’ho dimenticato.

Ci hanno immediatamente immatricolato. E io ero uno di quelli che scriveva i nomi, perché siccome conoscevo il tedesco un po’, di conseguenza potevo tradurre in tedesco le voci che loro chiedevano perché c’era un prontuario. C’era nome, cognome, poi un prontuario ed eventuale servizio militare fatto, e questa cosa qui, io traducevo in tedesco questi nomi. Questo, tra parentesi, che non ho trovato il mio nome tra quelli che avrebbero dovuto essere quelli iscritti.

D: Da nessuna parte?

D: Il tuo numero?

R: Non eravamo a numeri.

D: Non avevi il numero?

R: Mi sembra di no.

D: Non ti ricordi?

R: Può darsi, ma non lo ricordo. Tant’è vero che Giorgio non ha mica parlato di numero.

L’altro giorno, sono andato a trovarlo… e perché sono andato a trovarlo?

Gli ho detto: “Giorgio, bisogna che ti venga a trovare per una ragione molto semplice, perché siccome vengono a fare quattro chiacchiere con noi, cerchiamo di non dire fesserie l’uno con l’altro, oppure di non remare contro perché altrimenti sembrava di andare contro corrente, noi nel dire che lì non c’erano assassini, crudeltà, ecc., mentre è considerato il Lager che era un Lager disastroso.” Noi dicevamo quello che c’era, quindi ci siamo trovati per metterci d’accordo, dicendo: “Quello che possiamo dire è questo, né di più né di meno”. E non abbiamo parlato del numero, proprio non ne abbiamo parlato.

D: Un’altra cosa che ti volevo chiedere: ti ricordi se nel campo hai visto dei religiosi?

R: C’erano nel mio blocco. C’erano due sacerdoti.

D: Non ti ricordi i nomi?

R: No.

D: E neanche di dove erano?

Non te lo ricordi?

R: Di dov’erano, se io faccio per deduzione, sono venuti insieme a noi, quindi erano a Milano, quindi della zona, come suol dirsi.

D: Ti ricordi se nel campo hai visto anche dei bambini?

R: No, di bambini non ne ho visti.

Che ci fossero dei bambini nel blocco delle donne può darsi, però a parte che non si poteva andare da quelle parti, non ne ho visti, non ne sono stati citati.

Non se ne parlava, non è capitato di parlarne o di dire: “E’ scappato un bambino, bisogna cercarlo…”

No, non c’è stato qualcosa di questo genere.

D: Il tuo lavoro come capo blocco in che cosa consisteva?

R: Consisteva nel presentare…, i controllori, diciamo, dei blocchi erano dei militari della Wermacth che poi non erano neanche tedeschi perché erano polacchi che erano stati assimilati o cecoslovacchi che erano stati assimilati, erano tutta gente a cui non importava nulla di nulla. A loro interessava soltanto una cosa: alla mattina si scendeva dai pagliericci, come suol dirsi, ci si metteva dentro allo stanzone in fila e bisognava sempre stare attenti a mettersi in fila quattro per quattro.

Chissà perché questo tedesco sapeva contare soltanto i multipli di quattro. Non lo so perché, gli garbavano i multipli di quattro.

Comunque la risata era questa: lui partiva da una parte e faceva: uno, due, tre, quattro e contava quanti quattro erano.

Ora, a un certo momento, se uno voleva scantonare, bastava che uno in fondo, girasse, scappasse dall’altra parte, faceva il quarto, non ci voleva niente, ma non lo si faceva perché non c’era ragione, non c’erano delle ragioni per farlo ancora.

Quindi c’era questa conta.

Fatta la conta, uno si sedeva sul pagliericcio, chiacchierava, se poi usciva, perché stava nel cortile e si poteva stare.

Altre cose non è che si potevano fare.

Praticamente il capo blocco aveva come compito le adunate, l’elenco, il controllo che ci fossero tutti quanti. Questa roba qui internamente. Poi quando cominciarono ad usufruire dei prigionieri per i lavori esterni, il capo blocco aveva anche l’incarico di gestire l’attribuzione dei lavori di qua e di là e poi controllare che rientrassero tutti, il succo era questo, di mantenere il gruppo tutti insieme.

Non so se prima o dopo c’è stato un periodo che è stato un po’ duro per noi perché eravamo stati portati a lavorare in quella galleria che era stata iniziata che dentro avevano messo una fabbrica, la IMI.

Però, dopo, ci fu la popolazione che cominciò a dire: “Questa gente qui ci farebbe molto comodo per raccogliere le mele”. Quindi ci portavano là, ci mettevano a raccogliere le mele e noi facevamo il lavoro del raccoglitore gratis, per cui questa gente era tutta felice e beata.

Ed onestamente quasi tutti, quelli che sono andati, la fetta di polenta ci arrivava alla fine mattinata, fetta di polenta che normalmente noi ne mangiavamo un pezzetto e il resto si portava agli altri.

Poi l’altro lavoro che ci fecero e che fu appunto l’ultimo, quello di scaricare i treni e di mettere la roba su dei camion che dovevano andare in Germania.

Arrivavano dei treni, carichi di tutto quello che i tedeschi riuscivano a razziare dal paese, quindi magari razziavano tutto il supermercato, allora: camice, scarpe, borse, tutto quello che potevano razziare. Questa roba che era nei treni, noi dovevano scaricarla e metterla su dei camion, che erano quei camion che poi partivano per la Germania.

D: E questo dove lo facevate?

R: Io devo dire che siccome la nostra fuga avvenne in occasione di uno di questi lavori qua dei treni e siccome quando noi scappammo, io le montagne le conoscevo perché sono sempre stato in montagna.

Voi conoscete, da dove c’è uno specie di capolinea, se si guarda in alto, si vede il profilo dei monti dell’Amendola, non so quale può essere la stazione di questo genere….

D: C’era un laghetto?

R: Questo non ce l’hanno fatto vedere.

Comunque il punto di riferimento è questo, quando si scendeva dal treno, io mi guardavo in giro per vedere dove eravamo, o dove non eravamo, cosa si poteva fare o non si poteva fare, e io guardando in alto, riconoscevo il profilo dei monti dell’Amendola e dicevo: “Se noi riuscissimo ad arrivare lassù ai monti dell’Amendola siamo a cavallo perché si va di là e siamo a posto”; questo è stato il pensiero.

Allora ecco perché dico che deve essere stato Caldaro…

D: Quindi non nella stazione di Bolzano?

R: No, assolutamente no, la stazione d Bolzano la conosco.

Più che la stazione, era un punto di fermo, come per dire a Firenze, la stazione di Campo di Marte, che è tutto treni e basta.

E lì è stato che abbiamo pensato di vedere se si riusciva, dopo due o tre volte che si guardavano queste montagne, si diceva: “In qualche maniera si riesce a tagliare”, perché erano già cominciati gli invii e noi avevamo saputo che le partenze erano per Auschwitz e quindi si capiva che se non ci levavamo, andavamo a finire male.

Di conseguenza ci si pensava e abbiamo visto che il momento migliore era quando eravamo un pochino liberi di movimento perché è ovvio, noi prendevamo questa roba, scendevamo dal treno e poi arrivavamo ai carri per caricarla, per darla, quindi questa certa libertà, ad un certo momento.

Poi, tra me e Giorgino avevamo avuto un’idea, che poi si è rivelata felice.

Nel camminare con questa roba che qui avevamo, magari un pacco con quattro, cinque camice, un pacco con quattro cinque scarpe, passando ne buttavamo una o due a questi tedeschi o meglio diciamo persone, non so chi erano, comunque erano di Bolzano, non erano di altre parti. Li buttavamo a loro e questi li prendevano ben volentieri.

Perché facevamo questo? Perché dando le cose a loro, si coinvolgevano, in un certo senso, e quasi si diceva loro: “State attento, se capita qualcosa, non essere proprio te a chiamare perché se tu chiami, ti trovano con in mano un pacco di camice e non si sa da che parte vengano”.

Quindi le avevamo date.

Le avevamo date un paio di giorni avanti e allora si era rinfocolato il numero delle persone che erano lì ad aspettare e noi davamo facilmente.

A questo punto, una mattina, noi ci vestimmo di panni normali, i panni con i quali eravamo arrivati, perché dopo ovviamente con la tuta, ma prima siamo arrivati con quei panni, la tuta sopra.

Siamo usciti, tra l’altro io ricordo, mi sembravo una ciliegina, sotto il braccio avevo anche un cappello, comunque a un certo momento Giorgio mi disse: “Guarda, non ci guardano”.

Allora si mollò tutto e si fece una corsa in un campo fino a un muretto, salto del muretto e dietro al muretto ci siamo levati la tuta, senza né sentieri, niente, proprio con la bussola del naso.

Io, ogni tanto alzavo la testa, ce l’ho sempre davanti, allora su diritto, sempre in mezzo, sempre diritto.

Quando eravamo un bel pezzo su, evidentemente qualcuno se ne deve essere accorto perché abbiamo cominciato a sentire i cani, il vociare dei cani. Però penso, perché il terreno era umido dove noi salivamo, quindi doveva essere piovuto la sera avanti, comunque andò bene.

Poi su, su, a un certo momento quando fu buio buio ci si fermò un momento per riposarci, la mattina si ripartì e si arrivò su in un prato, i primi prati dell’Amendola e andammo alla parrocchia del Don… , di cui non ricordo il nome…

D: Ascolta, in due siete scappati?

R: Sì, in due. Io e lui.

D: Non avete detto a nessuno che avevate intenzione di scappare?

R: Sinceramente non l’avevamo detto, ma non con intenzione, non l’avevamo detto. Se ci avessi pensato, non l’avrei detto con intenzione, perché voi sapete benissimo che se una cosa si allarga, poi non si sa mai dove va a finire, perché Tizio lo dice a quell’altro, lo dice a quell’altro, a quell’altro e quando si arriva ad essere un certo numero di persone, qualcosa salta fuori e quindi no, lì per lì non l’abbiamo detto senza nessuna intenzione.

Però confesso che se ci avessi pensato, avrei detto: “No, non lo diciamo mai a nessuno”.

Fu proprio uno di questi prigionieri che era un prigioniero comune, diciamo o un ladro o qualcosa di questo genere, che ricordo disse: “Stai attento, ti si vede il cappello, lo capiscono che vuoi scappare…”

Fu proprio lui. Comunque andò.

Si arrivò su e Giorgio si ricorda che noi vedemmo degli operai che mangiavano.

Allora si fece la conta e si disse: “Chi ci va a domandargli un pezzo di pane? Ci vai te o ci vado io?”

Si fece pari e dispari e ci andai io.

Di conseguenza, lì ci dissero, ci dettero del pane e anche del formaggio però ci dissero: “Tagliate la corda perché prima o poi qui qualcuno arriva”.

Non è stato invece un tagliare la corda e abbiamo suonato alla parrocchia, e non so se ve l’ha detto Giorgio, il parroco Giorgio lo conosceva da quand’era a Firenze.

R: Tant’è vero che siamo rimasti di stucco, perché io dissi: “Giorgio, più fortuna di così, vai ad incrociare proprio Don…”, che lui conosceva benissimo.

Pover’uomo, questo parroco la prima cosa che ci ha domandato: “Vi ha visto nessuno?”

E noi abbiamo risposto: “No, non ci ha visto nessuno”.

Comunque, morale: ci tenne a dormire, a mangiare, in parrocchia e ci siamo stati come minimo venticinque giorni, parecchio.

Perché dico questo? E qui faccio una piccola parentesi: a me farebbe piacere rintracciare, anche per telefono, un tizio di Bolzano che era un grossista di frutta, che aveva una casa, non so se la seconda casa o cosa fosse, comunque aveva la casa a duecento metri dalla parrocchia, un po’ più in su.

Evidentemente aveva annusato la cosa e ci venne a trovare e la prima cosa che ci disse fu: “Guardate che io mi metto a vostra disposizione per qualsiasi cosa di cui potreste avere bisogno perché io sono libero di andare da qui a Bolzano come voglio, perché ho questo negozio, questa industria di frutta a Bolzano ecc…”

Il primo grosso favore che ci fece, ci fece per primo le fotografie per avere la carta di identità, per farci avere un documento, quindi ci fece le fotografie. Secondo: ci presentò, evidentemente ne avevano parlato, quindi venne un’impiegata del comune di Fondo, Fondo è vicino a Bolzano, la quale ci disse: “Vi preoccupate per la carta di identità? Non vi preoccupate, ci penso io”.

Il perché ce lo spiegò dopo. Disse: “Io ho i timbri del comune di Fondo. Faccio alla svelta. Riesco con un piccolo accorgimento, invece che Fondo, fare Fondi, e Fondi è un comune vicino Roma, come voi veniste da Roma, da Fondi vicino Roma” e ce la fece.

Ci fece questa carta di identità da Fondi vicino Roma.

Questo è uno che io ritroverei, perlomeno per telefono, molto volentieri, ma non so come indicarlo.

Gli elementi per indicarlo sono che era un grossista di frutta, aveva la casa accanto a questa parrocchia, e poi non so altro…, una persona relativamente giovane, pur essendo a capo di una grossa azienda, avrà avuto venticinque, ventotto anni, una cosa di questo genere, più o meno.

D: Giorgio, nel periodo che voi siete rimasti nascosti nella casa del padre non sono mai venuti?

R: Non è mai venuto nessuno, o quantomeno noi non l’abbiamo mai saputo, il perché non lo so. E’ difficile spiegarmelo. Tra l’altro è difficile spiegarmelo perché se avessero voluto sincerarsi veramente del come eravamo riusciti a scappare c’erano tante di quelle tracce di noi che ci eravamo arrampicati in quella boscaglia che si vedeva che avevamo preso quella direzione.

Allora, quale direzione prendono due che vogliono andare in Italia e varcare…, prendono la direzione dell’Amendola e quindi avrebbero potuto venire a fare un rastrellamento lassù.

Solamente che ho quest’impressione: che praticamente persone del Lager di Bolzano non avevano tanta voglia di andare a cincischiare e a muoversi per fare un rastrellamento al passo dell’Amendola.

Con ogni probabilità, se anche l’avessero segnalato a qualche Comando, non so se si sarebbero mossi.

Questo per una cosa che non era una cosa eccezionale, faccio per dire.

D: Ascolta, e dopo questi venticinque giorni circa?

R: E’ successo che ho detto: “A questo punto, bisogna trovare il verso di riprendere i contatti.”

Dove si riprendevano questi contatti? A Milano.

Di conseguenza, con il camion stop, perché salendo su dei camion che trasportavano mele verso il sud, sto parlando da Bolzano in giù, ovviamente a pezzi e a bocconi siamo arrivati a Milano.

D: Quindi dall’Amendola siete scesi…?

R: Sì, allo stradone, a Bolzano, praticamente alla strada che viene giù da Vipiteno, dalla strada che viene dal Brennero e viene giù, che fa Verona Milano e siamo arrivati a Milano.

A Milano abbiamo ripreso contatto con il Partito d’Azione e loro ci hanno detto, chissà come mai perché non eravamo delle persone talmente importanti da giustificare un’inchiesta di una certa importanza, insomma ci hanno detto che ci ricercavano. Ci hanno detto che la cosa migliore che potevamo fare era di passare in Svizzera.

Allora abbiamo detto: “Se volete che si passi in Svizzera, passeremo in Svizzera” e di conseguenza praticamente ci organizzarono una gita con dei contrabbandieri che conoscevano i sentieri e arrivammo in Svizzera, tutti e due e si rimase là, per un po’ di tempo.

D: In Svizzera dove?

R: C’è Giorgio, in uno dei suoi libri, che descrive l’arrivo in Svizzera.

Effettivamente è vero, quando si cammina per tutta la notte, quindi al buio, per sentieri ecc., ad un certo momento si arriva in una parte alta, in un colle, in un passaggio e di conseguenza, da questo passaggio non è più Italia e si vede tutto illuminato, si vedono tutte le case con lumi e luci e uno resta così perché si viene da un posto dove non c’era assolutamente niente e questo era la parte bella, diciamo, perché ovviamente in Svizzera abbiamo fatto un po’ di vita per bene, si poteva mangiare…

Magenes Enrico

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Enrico Magenes, nato a Milano il 15 aprile del 1923.

D: Quando ti hanno catturato, Enrico?

R: Mi hanno catturato ai primi di gennaio del ’44, l’8 gennaio del ’44 qui a Pavia, la Guardia Nazionale Repubblicana. Ha arrestato cinque dei membri del primo CLN di Pavia, il sottoscritto, Ferruccio Belli, Luigi Brusaioli, che poi è morto a Flossenburg, Angelo Balconi, che è morto ad Innsbruck, e Alberti, Lorenzo Alberti, che invece è riuscito a rientrare.

D: Scusa, Enrico. Tu sei entrato a far parte del CLN di Pavia quando?

R: Sono entrato subito, subito dopo l’8 settembre. Dicevo, effettivamente a Pavia, è strano che la provincia di Pavia è completamente ignorata, ma a Pavia nel periodo tra il 25 luglio e l’8 settembre si erano più o meno ricostituiti i vecchi partiti.

In particolare anche il Partito Popolare, c’erano ancora alcuni vecchi rappresentanti e a questi ci siamo uniti noi giovani che venivamo dalla gioventù di Azione Cattolica. Devo dire che avevamo avuto un vescovo e dei sacerdoti molto aperti da questo punto di vista.

Uno di questi è ancora vivo, è monsignor Bordoni, che è l’assistente dell’associazione partigiani cristiani, monsignor Carlo Bordoni. E’ Bordoni, no?

Ci hanno arrestato, dopodiché denunciati al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Ai primi di luglio le SS hanno fatto una razzia nelle carceri della provincia pavese, della provincia di Pavia. Sono passati da Vigevano, da Voghera, da Pavia e hanno raccolto i detenuti politici per deportarli, cosa che facevano, come sapete, d’abitudine.

D: Scusa, Enrico. Quando vi hanno arrestato, vi hanno portato nelle carceri di Pavia?

R: Di Pavia, sì.

D: Lì vi hanno interrogato?

R: Ci hanno interrogato, ma ci ha interrogato il tribunale di Pavia, il giudice di Pavia. Alle carceri di Pavia eravamo alle carceri, rispetto a quello che ci è venuto dopo ricordiamo sempre le carceri di Pavia come una specie di…

Dopo già il passaggio a San Vittore è stato più difficile, più preoccupante.

D: Ti hanno accusato di cosa?

R: Ci hanno accusato proprio perché hanno saputo che si era costituito il primo CLN. Anzi, ritenevano che noi avessimo chissà che organizzazione partigiana dietro le spalle, ma allora sapete anche voi che partigiani, anche nell’Oltrepo’ pavese, ce n’erano assai pochi.

C’erano stati i resistenti, quelli dell’8 settembre, quelli che adesso si stanno recuperando, tipo Cefalonia. Anche da queste parti c’erano dei gruppi di militari che hanno cercato di resistere. Probabilmente saprete di gruppi che hanno cercato di resistere nella Val D’Ossola, nell’alto Verbano.

Però poi sono scomparsi quasi subito, perché i tedeschi… Anche qui a Pavia…

D: Quindi a luglio svuotano le carceri pavesi, di Voghera, ecc. e vi portano?

R: A San Vittore.

D: In che raggio?

R: Nel quinto e nel sesto raggio, è chiaro.

D: Dove c’era Franz?

R: Dove c’era Franz, infatti. Lo ricordo, come ricordo anche il suo cane lupo. Io ho sempre avuto una certa quale idiosincrasia per i cani lupo, perché un cane lupo mi aveva spaventato quando avevo cinque anni. Basta, poi mi era rimasto nella testa che i cani lupo fossero cani…

D: San Vittore, cella d’isolamento oppure eravate tutti insieme?

R: No, cella d’isolamento. Eravamo ciascuno in una cella. Non c’era nessuno in camerata a San Vittore nel quinto e nel sesto raggio.

D: Siete stati di nuovo interrogati?

R: A San Vittore ci hanno semplicemente interrogati i tedeschi, quando siamo arrivati per prendere nota, nome e cognome, professione, da dove venivamo. Io figuravo come studente.

D: Tu quanti anni avevi allora?

R: Avevo vent’anni, vent’anni e qualche mese, vent’anni e mezzo.

D: Lì a San Vittore siete rimasti fino a quando?

R: Siamo rimasti fino al 17 d’Agosto. Eravamo lì quando hanno fatto l’eccidio di Piazzale Loreto, dopodiché ci hanno deportato. Siamo arrivati a Bolzano in un gruppo di qualche centinaio di persone, adesso non ricordo più bene.

Ricordo che siamo partiti poi da Bolzano, ma prendendo anche qualcuno che era arrivato a Bolzano da Forfoli per esempio, tipo Olivelli, tipo qualcun altro del gruppo di Olivelli.

Da Bolzano siamo partiti il 5 di settembre.

D: Del Lager di Bolzano cosa ti ricordi?

R: Non granché, perché si capiva che era un posto allora di smistamento a differenza di quanto invece poi è successo a Bolzano, dove sono rimasti lì, li hanno fatti lavorare, hanno cercato di farli lavorare.

A quel punto noi passavamo la giornata dentro nelle baracche, potevamo anche andare fuori. Non era una cosa…

D: Vi hanno immatricolati a Bolzano?

R: Ci hanno immatricolato, però non mi ricordo manco più il numero di matricola. Le matricole vere e proprie sono quelle che abbiamo avuto a Flossenburg e poi a Dachau.

D: Ti ricordi se c’erano dei religiosi lì a Bolzano?

R: Sì, per esempio ho incontrato lì padre Giacomo Antonio. Anzi con padre Giacomo Antonio e con Olivelli anche abbiamo avuto qualche incontro di commento del Vangelo, lì a Bolzano.

D: Nel campo?

R: Nel campo, sì, nella baracca dove si stava dentro. Non c’era niente di… Ci facevano l’appello, non mi ricordo più, una volta o due al giorno. Olivelli era già stato segnato, aveva il cerchio rosso perché aveva tentato la fuga a Fossoli.

D: A queste riunioni oltre a te, oltre a Teresio Olivelli e a padre Giacomo Antonio partecipavano altri deportati?

R: Sì, qualcuno, quelli più o meno che si potevano conoscere. Però non mi dire riunioni.

D: Incontri.

R: Un paio di volte, un incontro, tanto per dire. Eravamo lì e si poteva pensare a qualche cosa che non fosse solo la questione della sopravvivenza, del mangiare, così come è successo invece a Flossenburg.

D: In tutto questo periodo dalle carceri di Pavia, San Vittore e Bolzano tu hai potuto metterti in contatto con la tua famiglia, i tuoi familiari, scrivere?

R: Sì, certo. Da Bolzano no, abbiamo scritto, ma non credo sia arrivato nulla, non mi ricordo più. A San Vittore e in particolare qui a Pavia c’era il comandante delle carceri che ci aveva trattati in modo particolare. Per forza, eravamo cinque persone molto conosciute a Pavia. Senza essere stati dei malfattori.

D: La giornata del 5 a Bolzano, cosa succede quel giorno?

R: Sveglia presto, partenza sui carri bestiame. Siamo partiti.

D: Vi hanno chiamato?

R: Ci hanno chiamato, l’appello. Io sono finito nello stesso carro bestiame con Olivelli per una questione di alfabeto, Magenes e Olivelli eravamo abbastanza vicini.

D: Ti ricordi il Transport da dove è partito da Bolzano?

R: Lì vicino, mi sembra forse da Gries, non lo so. Non vorrei sbagliare, non mi ricordo che ci abbiano fatto fare del tragitto a piedi molto lungo, non mi ricordo.

D: Il viaggio quanto è durato?

R: Siamo partiti alla mattina presto e siamo arrivati la prima notte, eravamo già in Germania. Siamo arrivati a Flossenburg dopo due notti, due giorni.

D: Sempre chiusi dentro?

R: Sì, sempre chiusi dentro. Ci hanno dato qualche cosa, adesso non ricordo più quando, ci hanno dato qualche cosa.

D: Da bere, per mangiare?

R: Da bere, da mangiare mi sembra.

D: Sul tuo Transport in quanti eravate più o meno?

R: Era pieno zeppo, non so cos’eravamo. Trentacinque, quaranta sul vagone.

D: Tu avevi vent’anni. C’erano delle persone più anziane?

R: Certo. Per esempio, a parte padre Giacomo Antonio, anche tra i compagni del CLN di Pavia con i quali ero stato arrestato. C’era per esempio Luigi Brusaioli, che era più anziano di tutti, era un repubblicano ancora dei tempi del ’22.

Infatti poi è stato quello che è morto subito a Flossenburg alla fine di ottobre. Brusaioli credo che fosse… Se io avevo vent’anni lui ne aveva almeno cinquanta o sessanta.

Alberti lo stesso, Lorenzo Alberti era il rappresentante del Partito Socialista. Anche lui era più anziano di noi.

D: Il Transport, il treno arriva a Flossenburg, alla stazione di Flossenburg e dalla stazione vi fanno salire su al campo. A piedi?

R: Sì, a piedi.

D: Cinque per cinque?

R: Mi fai delle domande che io non ricordo più. Cinque per cinque, sei per cinque, due per due, non lo so. Probabilmente cinque per cinque. La mia memoria non è ferrea.

D: Quando arrivate dentro nel Lager di Flossenburg cosa succede?

R: Anche qui succedono quelle scene che ti dicevo, cioè ci hanno fatto togliere i vestiti, ci hanno denudato.

D: Questo fuori dalla piazza?

R: Dalla piazza, poi da lì siamo stati messi dentro nel lavatoio per farci pulire con docce al solito, dopodiché ci hanno messo nella baracca 22 0 23, 23 se non sbaglio. Erano le due baracche vicine.

D: Nel blocco di quarantena?

R: Nel blocco di quarantena, che era vicino al blocco di Revier cosiddetto, avevamo lo stesso piazzale dove c’erano quelli ormai sfiniti che non lavoravano più e morivano otto o dieci al giorno.

Quello che effettivamente era impressionante anche per noi era che i cadaveri li mettevano in attesa che passassero quelli a portarli via, li mettevano in una casetta di legno, una costruzione in legno in cui c’erano anche i gabinetti. Li mettevano lì attorno ai gabinetti.

Quindi uno andava al gabinetto e si vedeva lì il mucchio. Alcuni dei quali anche non erano proprio del tutto morti. Belli descrive una scena di questo genere su quell’articolo che è stato pubblicato da Il Triangolo Rosso.

Descrive proprio la scena di un prigioniero russo finito che lui ha visto.

D: Le baracche 22 e 23 erano vicine al muro di recinzione con la garitta?

R: Sì, con la garitta.

D: E aldilà della garitta c’era un avvallamento?

R: Sì.

D: C’era il forno crematorio sotto?

R: Sì. Ecco, qui ci sono diverse fotografie. Ecco, gli orrori di Flossenburg. Ecco qui, guarda. Qui si vede, la 22 e la 23 erano qui in fondo.

D: Certo. Lì nel blocco di quarantena quanto tempo siete rimasti?

R: Siamo rimasti lì praticamente un mese, come durava la quarantena.

D: In questo mese vi hanno fatto l’immatricolazione?

R: Ci hanno fatto l’immatricolazione, infatti. 21648 Belli e la mia era 21600… Chi se lo ricorda più, 21650 mi sembra.

D: 42.

R: La mia era 21642, grazie.

D: Vi hanno dato la zebrata lì?

R: Ci hanno dato la zebrata qui, si capisce.

D: Nell’arco di questo mese cosa vi facevano fare?

R: Come sempre nel periodo di quarantena, cioè alle cinque, a volte anche prima, sveglia, fuori per l’appello. Lì aspettare che passassero le SS per l’appello, tutti infreddoliti ma inquadrati.

Dopodiché, fatto l’appello, ci lasciavano fuori e dato che faceva molto freddo ci riunivamo in gruppi lì alle stufe, le stufe umane. Ogni tanto poi quelli che stavano all’esterno scappavano e andavano a fare…

La giornata passava così. Ci si scambiava qualche idea. La razione era la solita zuppa, alla mattina c’era il tè, c’era la zuppa a mezzogiorno con la fetta di pane. Alla sera tè con la margarina o con qualcosa del genere.

Era ancora allora il momento in cui il pezzo di pane era abbastanza consistente, perché era il pane tedesco, diviso in quattro parti. Poi andando avanti col tempo quattro parti, cinque, sei, sette. Le ultime lì a Kottern erano delle fette, lo stesso pane diviso in otto. Si capisce.

D: Dopo un mese circa lì nel blocco di quarantena?

R: Lì hanno fatto la scelta per la selezione, come facevano sempre, per mandare poi nei lavori. Devo dire che lì io sono stato molto fortunato e devo a Olivelli il consiglio, e poi a Ferruccio Belli, l’aiuto e i suggerimenti, perché alla fine della quarantena è venuto un tecnico della Messerschmitt che veniva dal campo di Kotter.

Volevano degli operai che lavorassero a Kottern, Kottern dipendeva da Dachau, però comunque il trasporto… A questo punto, poiché avevamo più o meno tutti capito che in officina era meno faticoso che lavorare a picco e pala.

Poi ce lo dicevano quelli che erano lì nelle gallerie. Quindi credo che un buon duecento e più ci siamo dichiarati operai. Io che ero scritto come studente come faccio? Lì è stato Olivelli insieme a Belli a suggerirmi: “Beh, tu di’ che eri studente operaio, studente lavoratore”. “Lavoravo dove?”. “Alla Necchi”.

La Necchi era conosciuta allora, conosciuta anche in Germania. Era una fabbrica di macchine da cucire, Singer, Necchi, più o meno erano quelle. Quindi a questo punto mi sono presentato a questo esame, c’era una commissione formata dal tecnico della Messerschmitt, poi c’era l’interprete e c’erano le SS che controllavano. Cosa vado a dire?

D: Ti hanno fatto un esamino?

R: Sì, certo. A tutti, per scartarne, per tirarne fuori ottanta dei duecento o trecento che si erano presentati. Devo dire che lì mi è stato utile il suggerimento di Ferruccio Belli, perché gli ho detto: “Ma scusa, Ferruccio, io cosa vado a dire?”. Se mi dicono se faccio il piallatore, faccio il fresatore io non ho mai preso in mano niente. Lui mi ha detto: “Guarda, di’ che hai fatto il tracciatore, l’anglaiser, perché effettivamente l’anglaiser dal punto di vista manuale ha da fare poco”.

E’ quello che col martelletto e col bulino segna sui pezzi, per esempio, non so, i pezzi di acciaio, le linee lungo le quali devono lavorare le frese, le pialle, i torni, tirandole fuori da un disegno di macchine. A quei tempi i matematici studiavano geometria descrittiva con elementi di disegno, adesso non più. Quindi geometria descrittiva con elementi di disegno, effettivamente sapevo leggere un disegno di macchina, che era una cosa abbastanza semplice.

Ho risposto anche con quel poco di tedesco che mi avevano insegnato e che ancora ricordavo, adesso non ricordo più niente. Questo subito era un fatto, perché bypassare l’interprete per i tedeschi era già un modo col quale si dimostravano più attenti.

Non c’era niente di peggio di dire: “Non capisco”, a quel punto lì ti legnavano. A quel punto sono stato fatto abile e sono finito insieme a Belli a lavorare a Kottern, nell’officina. Lavoravamo lì nell’officina vicino, dove anche Esposito…

D: E Eugenio?

R: Certo.

D: Per il viaggio da Flossenburg a Kottern vi hanno caricati sul treno?

R: Ci hanno caricato tutti in treno, mi ricordo che siamo arrivati là… Ci abbiamo messo una notte, una notte e un giorno.

D: A Dachau non vi siete fermati?

R: Si è fermato passando il treno, si è fermato, ma non ci hanno fatto uscire. A quel punto noi eravamo sotto Dachau, infatti a quel punto la mia matricola è diventata 116364, una roba di questo genere, non me lo ricordo più.

Non so se qui c’è. Ma tu come facevi a sapere la mia matricola lì?

D: Di Flossenburg perché è sul…

R: Ah, ho capito.

D: Poi sul libro di Italo Tibaldi.

R: Sì.

D: Compagni di viaggio.

R: Ho capito.

D: Quindi siete arrivati lì nel sottocampo di Dachau.

R: Sì, a Kottern.

D: Vi hanno messo a lavorare in una fabbrica?

R: Il sottocampo conteneva circa, non so, un migliaio di prigionieri di tutti i tipi, prigionieri politici, anche qualche prigioniero comune. Vivevamo in baracche lì nel campo.

Poi ci portavano, c’erano i turni di dodici ore. Ci portavano alla mattina o alla sera a seconda del turno nella fabbrica a Messerschmitt, che era lì vicina. Sarà stata ad un chilometro di distanza. Dove ciascuno di noi faceva il lavoro che gli facevano fare.

D: Lì nella fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Sì, c’erano anche dei civili. Non solo civili tedeschi, per esempio anche lì siamo stati fortunati io e Ferruccio Belli, perché il civile tedesco che comandava il nostro gruppo di tracciatori, tutto sommato non ci ha mai molestato.

Ci lasciava anche un poco chiacchierare tra di noi. C’era con noi nello stesso gruppo anche l’ingegnere Miorin di Milano, che era il capo dei vigili del fuoco di Milano. Era stato arrestato anche lui, poi è riuscito a sopravvivere e tornare. Ormai adesso è morto.

C’erano anche dei civili, dei lavoratori italiani, quei lavoratori che erano stati obbligati ad andare a lavorare in Germania. Lì però erano liberi, nel senso che avevano lo stipendio e andavano ad abitare per conto loro.

Però li avevano obbligati ad andare a lavorare lì.

D: Quindi voi in base al turno che facevate uscivate dal Lager, facevate questo percorso a piedi di circa un chilometro, arrivavate in fabbrica e finito il turno tornavate al campo?

R: Tornavamo indietro, sì.

D: Il lavoro era sei giorni o sette giorni?

R: Era su sei giorni, la domenica eravamo lì nel campo.

D: Questo fino a quando è durato?

R: Fino alla fine della guerra. Adesso qui per le date bisognerebbe che andassi a vedere quello che mi sono scritto. Mi sembra che il 24 di aprile o il 23 di aprile hanno dato l’ordine di evacuare il campo.

Questo è stato un discorso che più o meno i tedeschi hanno fatto sempre man mano che si avvicinavano, così com’è successo ad esempio ad Auschwitz, Birkenau, la famosa camminata dove è morta un’infinità d’ebrei.

Anche a noi ci hanno obbligati a uscire e ci hanno indirizzati da Kottern, l’indirizzo era andare verso Innsbruck, ritirarsi dietro. Siamo arrivati dopo tre giorni e tre notti, siamo arrivati alla periferia di Fronten, che è una cittadina sotto Kottern nella direzione da Kottern verso la Svizzera.

Siamo arrivati lì alla sera. A un certo momento le SS di scorta sono scomparse. Ci siamo trovati lì. Devo dire che lì sempre per consiglio delle persone più anziane, tipo lo stesso Ferruccio, in un gruppetto tra italiani e francesi abbiamo detto: “Cosa facciamo?”.

“Andiamo come fanno tutti, che si sono precipitati dentro nel paese per cercare di mangiare, o stiamo qui ad aspettare che arrivino gli americani? No, stiamo qui”. Abbiamo passato una notte dentro in un bosco alla periferia di Fronten.

Alla mattina a un certo momento abbiamo sentito che arrivavano dei carri armati lungo la strada, siamo andati fuori. Io mi ricordo ancora, è un fatto che rimane in testa, che il carro armato in testa, noi siamo corsi incontro, si vede che avevano già avuto notizie, perché venivano da sopra, dell’esistenza di prigionieri politici.

Noi a salutare festosamente, il militare che era sulla torretta si è tolto l’elmetto in segno di saluto. Questo me lo ricordo. Dopodiché ci hanno portato a Fronten.

D: Il vostro gruppetto è rimasto lì?

R: Sì, poi siamo andati dentro anche noi.

D: Ma dico la notte, Eugenio e Gibillini?

R: E’ andato invece.

D: Sono andati, hanno tentato la fuga, sono scappati, no?

R: Sì, Eugenio…

D: Con Gibillini, con Venanzio.

R: Non lì, non in quell’occasione. Lì non è scappato nessuno.

D: Sono rimasti anche loro con voi? Non ti ricordi?

R: Non vorrei giurare, però non mi sembra. Nessun ha tentato di scappare, che ricordi io.

D: Tutta la marcia da lì l’avete fatta a piedi naturalmente?

R: Sì. Ci facevano viaggiare di notte, di giorno ci mettevano alla periferia accanto alle strade a dormire lì nei boschi.

D: Il ritorno com’è stato?

R: Il ritorno è stato avventuroso, perché siamo stati fessi noi che abbiamo cercato da lì di dire: “Visto che siamo vicini alla Svizzera, andiamo in Svizzera che ci accolgono”.

Siamo arrivati in Svizzera, dopo quindici giorni ci hanno fatto entrare. In Svizzera ci hanno trattati bene, chiaro. Siamo stati nei campi di concentramento che avevano lì per i prigionieri italiani.

Però siamo entrati in Svizzera per ultimi, siamo usciti per ultimi. Siamo usciti dalla Svizzera il 25 di Luglio. Sono quelle cose che…

D: Siete usciti da dove dalla Svizzera?

R: Noi eravamo finiti in Svizzera da Bregenz St. Margrethen, lago di Costanza in sostanza. Da lì dopo qualche tempo ci hanno portato a Ginevra e ci hanno tenuto a Ginevra, in una scuola che avevano adibita a campo per i profughi italiani.

Siamo stati lì praticamente fino al periodo che ho detto, siamo arrivati lì. Lì in un primo momento non riuscivamo a comunicare con le famiglie, perché c’era la frontiera chiusa.

Dopo un mese e più siamo riusciti a comunicare, almeno sono venuti a sapere che eravamo vivi.

D: Lì c’era la Croce Rossa che vi dava assistenza?

R: Dove, in Svizzera? Sì, mi sembra che erano gli svizzeri, però probabilmente era la Croce Rossa.

D: Poi sei arrivato a Milano?

R: Poi siamo arrivati a Milano passando attraverso Domodossola. L’abituale tragitto.

D: Sei arrivato a casa quando?

R: Sono arrivato a casa la sera di quel giorno, cos’era? Il 25, il giorno in cui sono arrivato. Il 25.

D: Luglio?

R: Sì. Sono venuti a prenderci a Milano.

D: Chi eravate, tu, Belli?

R : Io e Belli di Pavesi.

D: Gli altri?

R: Brusaioli è morto subito a Flossenburg, come vi dicevo, che era quello che era meno… Alberti invece non è venuto con noi a Flossenburg da Bolzano, è stato a Buchenwald e lì è riuscito a resistere, nonostante avesse già una certa età.

Era una persona serena, una persona molto forte, robusta dal punto di vista fisico. E’ riuscito a rientrare. Invece Balconi è morto a Hersbruck, dove è andato.

D: Dopo lì con Teresio Olivelli ti hanno diviso?

R: Sì, alla fine della quarantena proprio. Anzi, devo dire che io stesso avevo detto ad Olivelli: “Scusami, perché non ti spacci un po’ anche tu?”. Perché Olivelli sapeva benissimo il tedesco, faceva da interprete, quindi se avesse voluto seguire il reparto meno pericoloso, che era il nostro, probabilmente lo avrebbero in qualche modo preso.

Invece ha voluto lui proprio scegliere di stare insieme al grosso degli italiani. Del gruppo nostro di ottanta siamo tornati il 70% credo, siamo tornati quasi tutti relativamente. Mentre dell’altro gruppo sono tornati pochissimi.

E’ tornato Cognasso, l’avete mai sentito nominare? No? Sono tornati pochissimi. Olivelli, che aveva un fisico veramente atletico, di ferro, è morto nel gennaio del ’45.

D: Di quel gruppo è tornato Vittore Bocchetta…

R: Sì, che è venuto qua a Pavia proprio a ricordare. Infatti ci siamo incontrati, però naturalmente né io mi ricordavo di lui né lui si ricordava di me, perché eravamo lì in mezzo a…

Anche lui è stato uno dei pochi che sono tornati. Bocchetta l’avete incontrato anche voi? E’ venuto qua quando c’è stata quella giornata dedicata ad Olivelli. Adesso basta perché non sono più due minuti.

D: L’ultimo nanosecondo, la dislocazione qui a Pavia delle truppe germaniche, delle SS dov’era?

R: Qui a Pavia città?

D: Sì, non c’era?

R: Sì, certo che c’era. T’avevo detto, credo, che l’8 settembre un gruppetto di giovani sia dell’Azione Cattolica, sia laici ci eravamo trovati la sera dell’8 settembre in Piazza Re di Sole e avevamo coraggiosamente, ma proprio stupidamente stillato un manifesto in cui invitavamo gli universitari, gli studenti pavesi a resistere ai tedeschi, come in sostanza aveva detto il comunicato di Badoglio.

Siamo andati ad appiccicarlo proprio fuori dall’università, dopodiché a questo punto la fortuna ha voluto che il bidello dell’università, il famoso bidello che era anche amico di Freccaro, che ci conosceva bene, ha pensato bene nottetempo di tirarlo via.

La mattina dopo siamo andati in un gruppo alla caserma che c’è in fondo a Porta Garibaldi, la caserma che c’era lì a sinistra, Distretto Militare Romero. Siamo andati lì in un gruppo di ragazzi dicendo: “Siamo qui disposti se volete”. Il colonnello ci ha detto: “Non vi preoccupate, abbiamo tutto sotto controllo noi”.

Dopo un paio di ore è arrivato non so se un plotone o una compagnia, saranno stati in tutto cinquanta tedeschi, hanno occupato la città, chi s’è visto s’è visto. Naturalmente i militari se ne sono scappati, avevano tutti i motivi per scappare.

D: Questi tedeschi dove si sono insediati?

R: Qui?

D: Sì.

R: Si sono insediati un po’ dappertutto nelle caserme. Mi ricordo lì al Distretto Militare.

Militello Rosario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Militello Rosario, sono nato nel 1925 a Piazza Armerina, provincia di Enna. Di famiglia molto povera e molto numerosa.

All’età di 5 anni andavo a lavorare, andavo a raccogliere le nocciole, essendo Piazza Armerina un produttore di nocciole e mandorle, sicché si finiva di andare a scuola e si andava a cogliere le nocciole poi le mandorle e poi quando finiva la stagione si ritornava a scuola.

Comunque andiamo un po’ avanti per stringere. All’età di 14 anni lavoravo nelle miniere di zolfo di Grottacalda, a 14 anni. Lì avevo sempre paura perché continuamente scoppiava il grisou e faceva molte vittime.

Mio padre era un calzolaio che faceva le scarpe nuove, era proprio calzolaio artigiano, però non poteva avere un posto di lavoro perché non pagava la tessera fascista. Eravamo sette figli, man mano che si andava avanti eravamo in tre che andavamo a scuola. Gli altri erano ancora piccolini perché dovevano raggiungere l’età per andare a scuola.

Noi che eravamo in tre si pagava la pagella, la pagella costava una lira. Poi si pagava la tessera, la tessera costava cinque lire. Sicché cinque e tre facevano otto, e per guadagnare otto lire a uno toccava lavorare, se aveva la fortuna di poterle guadagnare. Sicché non poteva, non si pagava la tessera perché ogni volta che si parlava a mio padre di tessere… Tanto più che mio padre era una ex guardia regia. Allora si entrava nella guardia regia anche con la terza elementare. La guardia regia fu sciolta proprio da Mussolini.

Mio padre e suo zio, che erano tutti e due della guardia regia, al momento dell’occupazione di Roma da parte dei fascisti a Piazza del Popolo riuscirono a fuggire e se ne andarono in Francia, emigrarono in Francia.

Però mio padre era purtroppo troppo mammolino perché era figlio unico: è stato in Francia per qualche anno, dopo è ritornato a Piazza Armerina. Avevamo il podestà che era un fascista. Il podestà allora era il sindaco di oggi ed aveva tutto il potere nelle mani, del paese.

Questo sapeva che mio padre era qui e non pagava la tessera, non aveva diritto; per farci vivere si arrangiava anche a riparare le scarpe invece di farle nuove.

Così se lui non riusciva noi non potevamo avere niente. Pensate che davano la refezione scolastica a quelli che erano un pochettino in condizioni disagiate. A noi non davano la refezione scolastica, eravamo io e mio fratello, quello più grande di me, perché? Perché non pagavamo la tessera.

Fortunatamente nella cucina ci stavano due donnette di buon cuore: invece di darci la minestra insieme agli altri ragazzi ce la davano di nascosto, e riuscivamo ad avere… Perché noi avevamo fame, a casa non è che avevamo tanto.

Insomma, andammo avanti e lavoravo nelle miniere di zolfo. Avevo tanta paura, tanta paura che un giorno ho deciso: Adesso me ne vado via di casa”. Avevo 14 anni, e me ne vado via, dove? A Torino. Difatti me ne sono andato via, ho preso il treno e me ne sono andato a Torino. A Torino ho trovato lavoro in una fabbrica dove c’era una fonderia, ed ho lavorato nella fonderia. Questo è stato nel ’39. Nel ’40 c’è stata la dichiarazione di guerra. Mio padre dal podestà fu chiamato, non doveva fare il militare perché aveva prima di tutto famiglia numerosa, e poi aveva già una certa età, e lo sbatterono in Africa. Difatti alla prima ritirata di Montgomery fu preso prigioniero, lui e tutta l’armata italiana, portata via.

Io sono andato a Torino, ho lavorato con questa ditta; a Torino c’erano fabbriche piccole che fondevano il metallo e noi si lavorava lì. Lì ho cominciato a respirare, prendevo trentasei lire alla settimana ed erano dei bei soldini.

Comunque, andiamo avanti: c’è la dichiarazione di guerra. Comincia la guerra, mio padre parte. A Torino c’erano dei bandi emessi dal Ministero dell’Aeronautica, dove dicevano che chi voleva andare ad imparare un mestiere poteva andare nell’aeronautica.

Io sono andato in Aeronautica, ho fatto la domanda, tutto, mi hanno preso, e facevo la scuola aeronautica alla Dalmazzo – Birago a San Paolo. Avevo allora, è stato alla fine del ’42, avevo già 16 anni, qualcosa così, ed ho cominciato a studiare.

Purtroppo gli interventi della guerra andavano sempre peggio, bombardamenti da tutte le parti insomma, gli americani erano scesi in guerra per aiutare anche la Francia.

Arrivato l’8 settembre del 1943 io stavo sempre sotto le armi; alla caduta di Mussolini c’è stata una grande manifestazione a Torino. Vicino a Piazza Maria Vittoria ci stava la sede del Partito Fascista, lì c’era l’emblema, mi ricordo ancora, e fecero cadere tutto il fascio. Comunque è venuto questo 8 settembre e l’esercito si è sfasciato. Sicché noi non sapevamo dove andare, noi meridionali che eravamo su in alta Italia siamo rimasti imbottigliati, e non sapevamo dove andare. Essendo settembre, il mese della vendemmia, molti di noi furono presi dai contadini, perché i contadini avevano i figli che stavano a fare la guerra, e c’erano soltanto i contadini anziani. Sicché noi li abbiamo aiutati a vendemmiare e tutto.

Quando è arrivato ottobre-novembre del ’43, vicino all’inverno insomma, e si era fatta la semina, si era fatto tutto, si preparava il terreno per il ’44, Mussolini aveva rifatto la Repubblica Sociale. Emisero dei bandi nei quali dicevano che dovevamo andare in servizio o saremmo stati passati per le armi come disertori.

Quello ci aveva messo paura, noi altri non si sapeva come fare, i meridionali, volevamo andare via. Di fatti alla famiglia dove stavo io dicevo: “Signori io vado via” “Ma no stai qui, stai qui”. “Va bene”, sono stato lì. Con insistenza perché avevano bisogno anche loro del lavoro; aiutavo, anche non sapendo fare il contadino li aiutavo e facevo il contadino.

Ad un certo punto tra marzo ed aprile del ’44 la Repubblica Sociale aveva preso una bella consistenza. Allora che cosa succedeva? Succedeva che loro andavano tramite le spie, giravano, eravamo a Nizza, nel paesetto piccolo di Castel Boglione vicino a Nizza Monferrato. Si erano cominciate a formare delle formazioni partigiane su per le montagne. La Repubblica Sociale già si era così formata bene, aveva le spie a cui tutti andavano a dire quello che facevano. Un giorno nel mese di febbraio o marzo mi sembra, i contadini avevano una sorgente d’acqua circa un chilometro lontano dalla casa dove abitavano, avevano cinque vacche, ed avevano fatto una specie di slitta con una botte grossa con cui si andava a prendere l’acqua e poi si dava alle mucche, si faceva la pulizia, si pulivano le stalle e tutto.

Un giorno andando a prendere l’acqua, avevamo già riempito la botte, sentiamo sparare. Allora ci siamo messi paura. Con me c’era una nipotina di questo contadino e si è messa paura anche lei. Poi sentivamo strillare, da lontano sentivamo gli strilli perché loro avevano organizzato di andare casa per casa dai contadini dove trovavano quelli come noi, sbandati, che non si erano presentati, li prendevano, li arrestavano. Io non ho avuto la disgrazia di cadere nelle loro mani, non so perché.

Sapevo che tanti di questi qui venivano uccisi, dopo, sia perché scappavano sia perché li avevano arrestati.

Così io non mi sono mosso dalla sorgente ed ho detto alla bambina, si chiamava Luciana: “Luciana, vai a vedere che cosa è successo”. La bambina, io intanto stavo lì ad aspettare con questo bue, un toro era non un bue, va lì e vede che piangevano il nonno con la nonna, gli avevano dato un sacco di botte perché volevano anche me. Non me come personalità o cosa, ma perché sapevano che ero uno sbandato ed allora volevano che facessi… O mi volevano uccidere o volevano che facessi il militare con loro. Non lo so perché. Infatti questi avevano preso delle botte.

Vedendo questo io ho detto: “Senta Signora Assunta” si chiamava Assunta “mi dispiace che voi abbiate preso le botte per colpa mia, vuol dire che adesso me ne vado.” “Ma no, non te ne devi andare via perché devi stare qui…” “Però vede, se mi prendono questi mi ammazzano”. Avevo saputo che a circa dieci, dodici chilometri c’era una formazione partigiana che si era formata, ho detto: “Io me ne vado con i partigiani, vado a vedere”.

Così sono andato. Poi ce n’erano anche altri, calabresi, ci siamo riuniti in tanti e siamo andati con questa formazione.

Siamo andati su, ci siamo presentati al comandante che era un comunista. Allora ho detto: “A noi è successo così e così”, dice “Bene, bene, così infoltiamo”, però non avevamo armi. Le armi ce le avevano fatte buttare via dopo l’8 settembre, non è che abbiamo trovato un comandante che dice “Mettiamoci le armi da parte per un domani che non sappiamo”.

Così è cominciata la guerra partigiana. Abbiamo cominciato la guerra partigiana, si facevano delle sortite, e si moriva l’uno e l’altro, sia i fascisti sia noi. Lì c’era la Brigata Nera Ather Capelli, erano dei fascisti, quelli criminali. Non facevano prigionieri fra i partigiani, li ammazzavano subito sul posto.

Alla fine di settembre del ’44 cominciarono a fare i rastrellamenti in grande stile, perché noi altri eravamo sempre in minoranza, non avevamo tante armi, invece loro ci seguivano con una cicogna che veniva a bassa quota e vedeva tutti i nostri spostamenti.

Per nostra sfortuna siamo capitati sotto questi fascisti. Comandavano i tedeschi e avevano bisogno di manodopera, anche loro avevano tutta la gioventù che stava a fare la guerra, chi stava in Russia chi in Italia.

Si vede che avevano avuto l’ordine di non doverci uccidere. Ci hanno preso, ci hanno impacchettato bene bene, ci hanno chiusi in certe auto…

D: Scusa Rosario, dove vi hanno arrestato? Dove vi hanno preso?

R: Adesso lo dico. Era tra la provincia di Asti e la provincia di Cuneo, nelle Langhe. Io mi ricordo, ho guardato sempre le montagne sulla carta geografica, comunque mi ricordo ancora che vicino avevamo Santo Stefano Belbo, avevamo Canelli. Mi sembra che la montagna fosse il Monte Rosso, penso sia questo, dovrebbe essere il Monte Rosso. Insomma ci hanno rastrellato e ci hanno preso, ci hanno portato dentro degli autobus e ci hanno portato a Torino. A Torino ci hanno portato alle Carceri Nuove.

D: Questo quando?

R: L’ho detto, verso la fine di settembre del ’44, primi di ottobre, una cosa così.

D: In quanti eravate quando vi hanno preso?

R: Eravamo in tanti, perché erano parecchi gli autobus chiusi ermeticamente; in ogni autobus c’era un tedesco che aveva un cane, un pastore tedesco, che ci guardava bene. Allora ci hanno portato in questo carcere. Ci hanno chiuso in una cameretta, una cameretta di queste carceri, c’era una brandina con delle catene che si teneva sul muro e c’era un ergastolano. Ci hanno messo con quest’ergastolano.

L’ergastolano quando ci ha visto… La cella era tutta sua, poi in un angolino c’era un piccolo… per lavarsi, e poi c’era un rubinetto che buttava continuamente l’acqua a fil di spago. Sotto il lavandino ci stava la tazza per fare i bisogni.

Pareva che avessimo colpa di esserci presi tutta la cella per noi. Invece dormivano per terra perché non c’erano letti e lui dormiva nella branda. Sicché ci dava qualche schiaffone, ci dava dei calci, noi eravamo ragazzi, che dovevamo dire? Se la prendeva con noi.

Comunque in questa cameretta dormivamo, come ho detto prima, in una ventina, tutti per terra, senza pagliericcio, senza niente.

Ci siamo stati parecchio, eravamo in tanti e i tedeschi cercavano il comandante, la personalità, sicché ci facevano inchieste, interrogatori. Però noi meridionali, non si sapeva, conoscevamo le persone ma mica sapevamo, non sapevamo niente. Io sapevo soltanto che il comandante dove stavo io era uno che era stato vent’anni in galera all’isola di Ponza, ce lo diceva sempre. Sicché era molto arrabbiato di quello che aveva passato, ed era molto arrabbiato con i fascisti che ci venivano…

Così siamo stati lì quasi un mesetto, loro hanno fatto le selezioni da dentro, volevano sapere le persone che mansioni avessero, chi comandava. Ma noi altri eravamo all’oscuro di tutte queste cose perché a noi dicevano: “Guarda, domani passa un treno e dobbiamo andare a prendere…” Molte volte ci è andata male, molte volte ci è andata bene.

Una cosa volevo ricordare, forse in Italia nessuno lo dice. Avete sentito la Anselmi una volta? Lei era una staffetta, non so se la conoscete. Nessuno ha scritto del valore delle ragazze che facevano le staffette, facevano chilometri, le corse, ci avvisavano continuamente: “Arrivano i tedeschi, arrivano i fascisti, mettetevi in guardia”, tutte queste cose.

Che sappia io non ho visto niente, mi è dispiaciuto parecchio, potevano fare un bello scritto di queste ragazze perché molte sono morte, sono morte.

Comunque siamo stati lì parecchio. Verso i primi di ottobre ci hanno trasferito a Bolzano. Siamo andati a Bolzano, anche lì c’era un campo molto pieno di prigionieri, però ancora non avevamo la divisa dei prigionieri deportati. Tanto più che noi non sapevamo neanche che cosa fosse.

Era in una baracca di Bolzano dove stavano facendo un tunnel. Avevamo i pagliericci, erano tutti di paglia, invece questi li avevano riempiti tutti di sabbia. Allora sentendo gli altri che stavano prima di noi lì avevamo paura: “Questi ci acchiappano qualche giorno e faremo una brutta fine”.

La fortuna mia e di qualche altro, venti o trenta, è che ci hanno trasferiti da questa baracca ad un’altra. Lì c’è stata un po’ di liberazione. Dopo abbiamo saputo, quando stavamo a Mauthausen, che hanno trovato quelli che avevano organizzato il tunnel, mi pare che li hanno fucilati, pure. Allora ci hanno mandati in un’altra baracca e siamo rimasti lì in questa baracca. Poi c’è stato il trasporto a Mauthausen, dove le date sono un po’…

D: A Bolzano ti hanno immatricolato?

R: No, non ce l’hanno data la matricola.

D: E tu sei rimasto a Bolzano più o meno quanto tempo?

R: Posso dire una mesata, così, perché siamo arrivati a Mauthausen alla fine di novembre, e faceva molto freddo. Sono un po’ in discussione queste date perché è passato molto tempo e non mi ricordo. Comunque un giorno ci hanno preso, ci hanno…

D: Scusa ancora, Rosario, non sei mai uscito dal campo di Bolzano?

R: No, no.

D: Siete rimasti sempre dentro nel campo?

R: Sì, sempre nel campo siamo rimasti.

D: Fino a quando vi hanno chiamati…

R: Ci hanno chiamati, ci hanno messo in fila, ci hanno portati alla stazione di Bolzano, e ci hanno fatto entrare dentro questi vagoni. Non ci hanno dato né pane né acqua, niente. Ci hanno chiusi ermeticamente, e poi questo treno si è avviato. Non sapevamo dove andasse.

Arrivati, io penso fosse Innsbruck ma non sono sicuro, gli americani bombardavano il nodo ferroviario tra l’Austria e Monaco. Allora hanno preso il treno e l’hanno messo su un binario morto e ci hanno lasciato lì tutta la notte. Avevamo fame, non ci avevano dato niente, battevamo su questo vagone, che poi era un treno, non so quanti eravamo, dieci o undici vagoni, in ogni vagone c’erano sessanta persone, perciò pensa un po’… Stavamo stretti l’uno vicino all’altro, piangevamo come bambini. Non sapevamo che fare.

Poi gli americani hanno finito di bombardare. Il giorno dopo verso mezzogiorno o l’una, ma il tempo ormai non potevamo più misurarlo perché eravamo stanchi tutti, qualcuno aveva l’orologio e si guardava l’orario, ma non sapevamo più, eravamo diventati proprio dei …, siamo arrivati a Mauthausen, o verso pomeriggio, sarà stato l’imbrunire, c’era un freddo tremendo. Ci hanno fatto scendere, eravamo tutti sporchi di tutte le nostre scorie. Ci hanno messi in fila con dei cani da una parte e dall’altra, e ci hanno fatto attraversare questo paesetto in ordine, molto pulito, persone molto per bene stavano lì, passavamo noi ma nessuno ci diceva niente.

Dalla stazione ad andare a Mauthausen, al campo, ci sono circa quattro, cinque chilometri, non lo so. Pensate un po’, stanchi come eravamo, stanchi dovevamo salire, ed ancora non sapevamo che cosa ci attendesse.

Saliamo questa collina e da lontano vediamo il primo muro. C’era un bel portone con un’aquila con la svastica che quest’aquila teneva con le zampe. Era fatta così bene.

La parte dentro invece era un luogo di morte. Entriamo e vediamo tutti gli altri prima di noi, tutti smagriti, i morti per terra, le botte che davano e lì abbiamo cominciato a dire: “Signore mio, qui che cosa si fa?”

Allora uno ci ha detto: “State attenti, siete entrati di là ed uscirete da lì” ci disse. Vicino a noi c’era un avvocato, era di Nizza Monferrato, preso prigioniero anche lui. Questo era il più grande di tutti noi perché aveva fatto la prima guerra mondiale ed era stato prigioniero a Mauthausen, poi è morto a Gusen. Pensate poveretto, prigioniero nella prima guerra mondiale, portato a Gusen e poi è morto perché era anziano. Allora ci disse: “Cari ragazzi, da qui non si esce più.”

Ci fecero spogliare nudi, ci levarono tutto. La Kopfstrasse. Ci fecero andare sotto lì dove c’erano le docce, siamo entrati lì, ci buttarono subito l’acqua calda, bollente, sul corpo. Gli strilli che facevamo… Non so, li avete visti? Io e qualche altro, siccome nelle docce buttavano in mezzo l’acqua cercavamo di andare ai lati … invece questi ci spedivano di là.

Poi dopo la calda quella fredda, gelata, e questo si è fatto per quattro o cinque volte. Finito questo usciamo, c’era una porticina e c’era uno con un prigioniero che teneva un secchio, dentro questo secchio ci stava la creolina, e ci disinfettavano sotto le ascelle, qua sotto. Il bruciore che ci dava questa creolina! La creolina bruciava gli insetti, si pulivano le stalle. Poi dopo tutto questo ci diedero la divisa con il numero di matricola, ci dettero tutto.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 115.615.

D: Ascolta, oltre al numero vi hanno dato…

R: Il triangolo rosso, la matricola qui, era con il fil di ferro, e poi c’era un pezzetto di alluminio con impresso il numero. Però questo numero sarà stato di qualche altro, perché era arrugginito, i pantaloni miei erano pieni di sangue sulla sinistra, perché loro non è che bollivano, quando uno moriva gli levavano la divisa. Sa il ribrezzo che ho passato pure io a vedere quell’affare là? Dopo ci hanno mandato al blocco, al blocco n. 20 mi pare, perché dietro ci stavano gli altri che morivano diversamente. Siamo stati lì penso cinque o sei giorni, sette giorni, dieci giorni, adesso non lo so.

Un giorno ci hanno chiamati, eravamo una trentina, ci hanno messi in fila, ci hanno fatto uscire dal campo, e non ci hanno portato lì dalla scala della morte, ci hanno fatto fare un giro in largo.

Siamo arrivati in uno spazio, c’erano trenta o quaranta morti per terra, moribondi, e ce li hanno fatti caricare sulle spalle, ognuno si caricava il suo. Quello che portavo io ancora rantolava, aveva preso una pietra. Però loro che cosa hanno fatto? Dove c’era la scala della morte c’è il piazzale, l’hanno levato da lì e l’hanno portato in quell’altro piazzale di dietro, non l’abbiamo vista la scala della morte. Noi non abbiamo dovuto salire sulla scala ma ci hanno riportato dalla strada attorno attorno che gira con il viottolo e ci hanno fatto risalire su.

Quando siamo ritornati in baracca piangevamo. C’erano pure gli spagnoli: “Avete visto la scala della morte?” Noi abbiamo detto: “Quale scala della morte? Noi non abbiamo… Che cos’è la scala della morte? No, ci hanno portato dall’altra parte.” Non sapevamo neanche di questa scala, io non l’avevo vista, capito?

Comunque abbiamo preso poi questi e li abbiamo portati dietro i crematori. Noi dentro i crematori non si poteva entrare perché c’era quello all’interno; si lasciavano davanti, li prendevano loro e li portavano dove li dovevano portare.

Siamo ritornati in baracca. Siamo stati in baracca. Stringiamo ancora. Passa il tempo e da Mauthausen a piedi ci portano a Gusen. Facciamo la strada, eravamo in parecchi, e si passa da Gusen 1.

A Gusen 1 si sta un’oretta o due, c’erano quelli che dovevano rimanere a Gusen 1, poi dopo hanno preso quelli che erano rimasti e ci portano a Gusen 2. Arrivati a Gusen 2 a me mettono nel blocco n. 5. Di lì comincia la nostra odissea. Morti continuamente. A Gusen 2 non avevamo i crematori perché quelli che dovevano essere cremati si portavano a Gusen 1 dove c’era il crematorio.

Lì comincia la nostra odissea. Alla mattina sveglia alle quattro sulla piazza del campo, ci contavano. Ci chiamavano Stück, dicevano Stück, Stück. Ci contavano, ci preparavano, c’era un trenino che ci portava, era lontano dove si andava a lavorare. A mano a mano che si entrava la mattina, dopo un’ora e mezza con quel freddo, con quella divisa senza nessuna protezione: quello che avevamo addosso non ci proteggeva il corpo, niente.

Il freddo a 24/25° sotto zero. Poi ad uno ad uno quando ci avevano contato ci facevano entrare sul trenino. A mano a mano che si entrava ci davano un pezzetto di pane, una fettina. Si entrava con questo pane, pane nero, non sapevamo neanche di cosa fosse fatto, e si andava via, a lavorare.

Mi misero in un reparto che si chiamava Platz planieren: allungavano le gallerie per mettere altre fabbriche, perché lì facevano gli scheletri del V1 e V2 dei missili. Allora si allargava sempre.

Sicché mano a mano che si facevano le gallerie io facevo organizzare le linee con i vagoni, si metteva la terra dentro e poi si portava fuori e si scaricava. A mano a mano che si allungava si saliva sopra la montagna dove c’era un deposito di rotaie che stavano messe l’una sopra l’altra.

Quando c’era bisogno di venti, trenta di queste eravamo in dieci, dodici, ce le caricavamo sulle spalle e le portavamo giù, si allungava la linea man mano che si andava avanti.

Prendendo le rotaie, c’era la neve alta in mezzo alle rotaie ed aveva creato un vuoto sotto: pensate che c’era la cicoria, certa cicoria alta, tutta la prendevamo! La prendevamo e ce la mangiavamo così, cruda com’era. La mettevamo dentro al petto. La cicoria fa latte, sicché questo latte ci si attaccava addosso, ci faceva bruciore. Comunque mangiavamo la cicoria, ma certo questo non succedeva tutti i giorni. Per ritornare a prendere altre rotaie dovevi aspettare quindici, venti giorni, in modo che si facesse un altro po’ di spazio, e non è che si potesse fare tutti i giorni. Perciò la fame c’era sempre.

Quel giorno per noi era festa perché ce la mettevamo pure sotto i piedi per nasconderla: c’erano i tedeschi e non ci dovevamo far vedere a prendere questa cosa. Così tutti i giorni.

Si andava a lavorare dodici ore al giorno. Alla sera quando si usciva, praticamente lì era un posto di lavoro, ma era guardato dalle guardie, c’erano le torrette, c’era tutto, perciò non si poteva fuggire, ci contavano: doveva essere la stessa somma che era uscita la mattina. Invece quando era sera mancavano sempre cinquanta, sessanta persone, settanta, dipende.

Allora che cosa si faceva? Si entrava di nuovo per andare a cercare questi che mancavano, e si trovavano quelli moribondi e quelli già morti. Perché ormai quando si lavorava non è che ci interessassimo se uno era morto, cadeva e non sapevamo. Noi ormai avevamo perso il lume della personalità, non avevamo più un interesse. Tra noi non c’era più neanche comunicazione perché eravamo ad un tal punto, ridotti come eravamo.

Fatto sta che alla sera toccava andare dentro, si portavano i morti, quelli vivi li avevano contati, si contavano i morti, combaciavano con il numero? Si caricavano sul trenino e si portavano via, di nuovo al campo.

Noi altri vivi ci mettevamo in fila e ci ricontavano quanti eravamo rimasti. C’era un momento in cui non funzionava più il crematorio, c’era una grande baracca dove c’erano i tubi dell’acqua, dove si andava a lavarsi. Tutti questi morti venivano messi attorno ai tubi e si mettevano l’uno sopra l’altro, a cataste. Sicché non avevamo neanche più voglia di entrare là dentro, vedendo tutti questi nostri compagni, questi ragazzi, eravamo tutti giovani, la maggior parte.

Ci faceva orrore, perché questi morti morivano tutti con gli occhi aperti dalla paura, nessuno aveva gli occhi chiusi. La paura era tanta, le botte erano continue, le scudisciate, ventiquattro scudisciate, l’inginocchiatoio dove ci facevano mettere… Non le dico quello che abbiamo passato.

Quando ci facevano queste torture dovevamo essere tutti presenti a vedere ciò che si vedeva. Quello che capitava a quello poteva capitare a noi.

Purtroppo avevamo due Oberkapo, uno era uno spagnolo ed uno era polacco. Il polacco era cattivo.

Questa prigionia è durata quasi sei mesi; all’ultimo sono arrivati gli americani, fortuna mia c’era l’armata del generale Patton dei carristi. C’era un americano figlio di siciliani, si chiamava Caruso Antonio, ancora mi ricordo, sicché quando sono entrati nel campo e hanno visto tutta questa gente, i morti che c’erano ancora, tutto il campo pieno, noi altri che eravamo diventati… Io pesavo ventiquattro chili, pensi un po’.

Allora lui non ha detto: “Chi è italiano?” ma ha detto: “Chi è siciliano qua dentro?” Io ridotto in quelle condizioni gli ho detto: “Sono io”. Mi ha visto in quelle condizioni come ero, mi ha preso in braccio, mi ha messo sulla jeep e mi ha portato a Linz, mi ha portato in una clinica della San Vincenzo.

D: Ti ricordi quando vi hanno liberato?

R: Il 5 maggio del ’45. Così è finita la nostra odissea. Mi hanno portato in clinica, c’erano le suore di San Vincenzo. Suo padre era siciliano, ecco perché, pensi che lui come americano parlava il siciliano. Suo padre era di Sambuca di Sicilia, provincia di Agrigento. Si ricordava della Sicilia. Lui parlava proprio il siciliano.

Mi porta in questa clinica e le suore della San Vincenzo quando mi hanno visto in quel modo dicono: “Che gli facciamo? Noi non abbiamo…” Allora ha detto loro: “Pulite questo ragazzo bene bene, poi lo mettete…” “Sì, va bene, noi lo puliamo, però non abbiamo da mangiare”. Dice: “Non vi preoccupate”. Questo se ne va via. Prima di uscire ha detto: “Scusi sorella, avete una bilancia?” Dice: “Sì”. Così ho saputo quanto pesavo, se non l’avessi saputo non avrei potuto dirlo…

Così sono stato lì. Nel pomeriggio è venuto, faceva parte della sanità americana che curava i feriti al fronte. E’ ritornato nel pomeriggio ed ha portato un dottore, mi ha fatto visitare: avevo un’infiltrazione polmonare, poi avevo l’ulcera. Abbiamo aspettato dopo la Liberazione, sono rimasto per quasi un mese ricoverato, non potevamo dormire con le lenzuola perché ci facevano male le ossa. C’erano solo le ossa, carne non ce n’era.

Dopo ci hanno rimpatriato, sono arrivato a Roma e mi hanno ricoverato all’Ospedale del Celio, sono stato un anno ricoverato là dentro.

D: Ma quando sei rientrato in Italia?

R: Il 25 luglio del ’45. Sono uscito, mi sono presentato al Comando dell’Aeronautica a cui appartenevo, mi hanno dato la divisa, mi hanno dato tutto, e dovevo essere mandato in licenza. Invece mi mandarono alla stazione Ostiense dove si formava un treno che andava in bassa Italia, in Sicilia: volevo andare a vedere i genitori. Mi è incominciata la tosse, non potevo respirare, hanno chiamato la Croce Rossa e mi hanno portato all’ospedale, e lì sono rimasto. Sono entrato il 26/27 di luglio 1945 e sono uscito il 4 marzo del ’47.

D: Rosario, quando dicevi che da Gusen 2 vi portavano a lavorare, vi portavano nelle gallerie di Sant Georgen?

R: Sì, lì vicino a San Giorgio.

D: Lavoravate nelle gallerie?

R: Noi lavoravamo nelle gallerie, però noi San Giorgio lo sentivamo nominare, c’era uno che dirigeva i lavori, sentivo sempre Sant Georgen, sentivo nominare questo paese. Però non mi ero fatto idea.

Dopo, quando l’americano mi ha portato al campo, mi sentivo un po’ meglio, in forze, ho visto che c’era San Giorgio, il paese, poi c’era San Valentino, poi c’era un altro paese, adesso non mi ricordo come si chiamava. Insomma dopo che sono stato ricoverato e poi dimesso sono andato al campo ed ho trovato queste cose.

D: Un’altra cosa Rosario; ti ricordi il nome di qualche ditta? Voi lavoravate per qualche ditta?

R: La Messerschmitt, alla Messerschmitt si lavorava. Io sapevo che si facevano gli scheletri di duro alluminio, ed ho saputo, se è vero o non è vero non lo so, che vicino c’era una miniera di bauxite. La bauxite dicevano che si cola e fa il duro alluminio. Di fatto loro facevano il duro alluminio. Noi altri ogni tanto si prendeva qualche pezzo, si faceva un coltellino, si facevano queste cose così.

Samiolo Sergio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Sergio Samiolo, sono nato il 12 dicembre 1923, a Cismon del Grappa ed ora abito a Feltre, da sempre praticamente.

Io il 3 ottobre del 1944 sono stato arrestato dalle SS tedesche nel corso di un rastrellamento che hanno fatto qui in zona, in tutto il paese di Feltre e mi hanno portato sul cortile del Metallurgica Feltrina.

Da lì poi ci hanno spostato al cinema Italia, poi caricati su un camion. Ci hanno portato prima a Grigno di Valsugana.

Lì siamo stati un paio di notti, poi la mattina dopo ci hanno caricati sul treno, per spedirci non si sapeva dove.

Io ho la fortuna di avere uno zio che faceva il capostazione a Bolzano; arrivati a Trento ho trovato, fra i militari tedeschi che facevano il servizio lì in stazione, due miei ex compagni di naia, eravamo a fare la naia assieme all’aeroporto di Ghedi.

Quando mi hanno visto si sono meravigliati e mi hanno detto che forse potevano fare qualcosa. Io ho detto loro solamente: “Avvertite il capostazione di Bolzano che sono su questo treno e che stiamo arrivando”.

Difatti il capostazione ci ha fatto arrivare, tre giorni ci ha impiegato da Trento a Bolzano questo treno.

Quando siamo arrivati alla sera lui è venuto lì ma non l’hanno lasciato avvicinare. Ci hanno caricati su dei camion e portati nel campo di concentramento.

La mattina dopo ci hanno passati all’appello, al controllo dei militari che c’erano e ci hanno fatto dare le generalità. Poi ci hanno dato una tuta e ci hanno mandato in campo con l’ordine di adoperare solamente ed esclusivamente la tuta, senza nessun capo civile possibile: praticamente solo con la biancheria intima e la tuta e basta.

Per questo motivo una mattina che avevo più freddo del solito, mi sono messo un maglione sotto, sennonché per andare all’uscita, per andare a lavorar, e ci facevano lavorare sempre, mi hanno fatto aprire la tuta e si sono accorti che avevo un maglione sotto: mi hanno dato con un tubo di ferro di quaranta, cinquanta centimetri sulla testa e qui ne ho la cicatrice. Mi hanno steso come fossi stato un vitello, buttato per terra, per fortuna che come ha detto il mio amico, avevamo il capoblocco che era un dottore e direttore dell’ospedale di Feltre; mi ha fatto portare dentro e mi ha medicato alla meglio.

Vorrei raccontare un altro episodio.

Noi andavamo a lavorare nelle gallerie di Gries, le gallerie antibombardamento di ricovero per i militari, per evitare i bombardamenti. Al ritorno da questa caserma stavamo facendo un paio di chilometri di strada a piedi per rientrare in campo di concentramento ed avevamo i parenti che ci facevano la scorta, da Feltre a Bolzano sono 140 chilometri, devo premettere che mio padre faceva il taxista e aveva la possibilità con i parenti di uno o dell’altro di questi cento e passa miei amici, di venire su spesso e mi veniva a trovare.

Un bel giorno è venuto fuori da una casa, che era in fianco a questa strada, una signora ed ha redarguito piuttosto pesantemente il militare che ci faceva la scorta; non ho capito quello che diceva, perché il tedesco non lo so.

Il fatto che è dopo dieci minuti questo militare, che era un austriaco di Vienna, forse uno dei migliori che ho trovato come temperamento, ci ha raccomandato, ha fatto mandare via i nostri parenti ed ha detto: “Mi dispiace, ma devo agire così, perché altrimenti quella signora mi denuncia e mi manda a Stalingrado a fare la guerra”.

D: Sergio, ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Il mio numero di Bolzano era 5.001 e triangolo rosa, per circa un mese e mezzo, forse due scarsi. Verso la fine di novembre, alla mattina durante l’adunata, hanno domandato se c’era gente che volesse andare a lavorare fuori dal campo.

Io ho approfittato dell’occasione perché avevo sentito che una squadra delle nostre era andata a lavorare verso Merano in una fabbrica di marmellata ed io pensavo: “Tento anch’io”.

C’era tanta gente; c’era gente che diceva che ci avrebbero mandati su per i passi a spalare la neve, per tenere aperte le strade per i militari. Io ho tentato, invece ci hanno mandati a Vipiteno.

A Vipiteno ci hanno sistemati in una caserma; eravamo in due stanze, in una piccola eravamo in otto, su quattro letti a castello, invece i rimanenti, ventiquattro, venticinque che erano, erano in un’altra aula o camerata che dir si voglia. Praticamente lì siamo stati. Noi avevamo che ci facevano la guardia otto militari della SS altoatesini, parlavano benissimo l’italiano, fra i quali c’era anche quello che mi aveva dato il colpo in testa, un certo Baldo mi pare si chiamasse.

Avevamo anche un po’ di paura: avevamo capito che erano cattivi, erano cattivi perché erano in pochi e dovevano sorvegliare parecchie persone.

Invece lì eravamo in meno, tanto è vero che poi eravamo riusciti ad addomesticare questi militari ed alla sera uno di noi, con la scorta di uno di loro, si andava fuori e si faceva un sacco pieno di fiaschi di vino e ce li riportavano dentro.

Infatti una sera un nostro amico è andato fuori ed è ritornato con il mitra sulle spalle, ma senza sentinella, tutti quanti siamo andati fuori in cerca e lui ed il sacco di vino erano in una cunetta coperti dalla neve, ubriaco fradicio.

D: Scusa Sergio, ritornando un attimo a Gries, tu dicevi che andavate a scavare delle gallerie… Ti ricordi più o meno dove?

R: Alle spalle della caserma c’erano le gallerie; noi si andava, si scavava. Facevano saltare le mine e si andava dentro; siccome quello è granito puro, si andava dentro e mi ricordo che per più di un mese ho continuato a sputare saliva che era come malta, perché si respirava quello.

Però anche lì non è che siamo stati proprio… E’ inutile, eravamo prigionieri e bisognava agire da prigionieri, se si voleva stare… Infatti io ed il mio amico, che purtroppo oggi non c’è più, un certo Felice Bellumat, ci hanno anche premiato perché lavoravamo: ci hanno dato un pacchetto di sigarette a testa, anche se io non fumavo allora, comunque è servito da scambiare.

D: Ricordi anche tu la celebrazione della messa nel campo di Bolzano?

R: Assolutamente non mi ricordo niente della messa. Io mi ricordo che ci si trovava fra di noi, si parlava, specialmente alla sera; bisognava cercare di buttarla un po’ alla carlona, cercare di sopravvivere e reagire. Noialtri alla sera si campava, questo mi ricordo; poi quando mi hanno mandato lassù a Vipiteno ci è andata anche discretamente.

Comunque posso dire questo: che il lavoro era quello che era.

Posso dire questo: a Vipiteno, dove eravamo noi, hanno portato tutte le macchine che facevano le rivoltelle Beretta. Mi ricordo d’aver portato su dei…. e una fatica tremenda a portarli su per le scalinate, portare ai piani superiori queste macchine, che eravamo andati a prendere. Avevamo fatto un trasbordo da un camion ad un altro, uno si era rotto e siamo andati giù noi a trasbordarlo su un camion buono; poi le abbiamo portate su ed abbiamo cominciato a mettere a posto tutto quanto.

D: Dove avete portato a Vipiteno queste macchine?

R: Nella caserma dove eravamo alloggiati noi avevamo il nostro alloggio, queste due stanze, una più piccola ed una più grande, poi c’era una caserma piuttosto grande e c’erano altre stanze. In tutte queste stanze venivano messe dentro queste macchine per fare le Beretta.

D: Come deposito o per la produzione?

R: No, per la produzione. Quando ci hanno portato su quella valle che c’è alle spalle della Caserma di Gries, la Val Sarentino, c’erano due strade, una era bassa e mi ricordo che era vecchia, e un’altra sopra. Era praticamente come la Gardesana, tutte gallerie. Loro pensavano di adoperare le gallerie per metterci dentro le macchine per la produzione di armi; avevano domandato chi sapesse guidare le macchine, allora io, siccome avevo la patente, ho alzato la mano, e ci hanno mandati sulla strada di sotto a prepararla, con pale, badili e rastrelli per inghiaiare la strada, in maniera da sistemare la strada, in maniera da lasciar libere le gallerie per adoperarle come officine meccaniche dove mettere dentro macchinari. Non so se poi questo è avvenuto, perché sono stato su due volte e basta.

D: Poi sei rimasto sempre a Vipiteno?

R: Quando mi hanno trasferito a Vipiteno sono stato là fin quasi alla fine; ad un certo punto c’è stato un rilassamento della sorveglianza ed ho approfittato dell’occasione, ho preso il treno, sono scappato e sono andato a Bolzano, dove avevo, come ho detto, mio zio che era capostazione; aveva fra l’altro due figli, miei cugini, che erano tutti e due militari ed avevano vestiti da darmi.

Insomma mi sono vestito con i vestiti dei miei cugini, sono stato tre, quattro o cinque giorni, finché sono arrivati gli americani e poi sono venuto a casa così, con i mezzi americani.

D: Quindi tu non sei rimasto fino al 3 maggio?

R: No.

D: Quando sei venuto via?

R: Adesso non ricordo, ma verso la fine di aprile o qualcosa del genere, mancavano pochi giorni ormai, c’era uno sbandamento generale, si vedeva che non c’era più una disciplina che teneva ferma la gente.

D: Sei scappato?

R: Sì, sono andato, eravamo davanti alla stazione, sono montato su un treno e mi hanno portato a Bolzano. A Bolzano sono sceso e sono andato dal capostazione che era mio cugino e basta.

Sembra facile. E’ così insomma.

D: Durante il tuo periodo di deportazione hai potuto scrivere a casa?

R: No, non scrivevo perché avevo, come ho detto prima, mio padre che andava e veniva, quindi quello di cui avevo bisogno e quello che volevano sapere loro era in comunicazione diretta; in linea di massima veniva su e stava su, perché portava su i parenti dei miei amici che c’erano lì e andavano a dormire in albergo davanti alla stazione.

D: A Vipiteno tu eri addetto a cosa?

R: Noi eravamo addetti a caricare, scaricare, portare su il materiale che serviva per le pistole e i mitra che facevamo e basta; perlomeno io facevo quel lavoro, portare su e giù il materiale.

D: Rapporti con i civili e con la gente del luogo?

R: Noi avevamo rapporto con un casellante della ferrovia, che era dei nostri paesi qui vicino, un certo Sori; per mezzo suo abbiamo potuto in qualche maniera mangiare un po’ più discretamente, in quanto attraverso lui riuscivamo ad acquistare carne, pane e qualcosa.

Certo che non c’era da mangiare per tutti, quel poco che c’era, perché anche questo signore ad un certo punto doveva cercare e non era facile trovare della roba.

Mi ricordo d’aver mangiato tanto caprone.

D: Perché tanto caprone?

R: Perché era l’unica cosa che si poteva mangiare allora, ne ammazzavano continuamente e si mangiava caprone, sempre in brodo però. Si faceva il brodo.

Un’altra cosa, quando ci hanno mandato a Vipiteno ci hanno mandato con i viveri razionati per dieci giorni per tutti e trentatre.

Eravamo tutta gente di venti, venticinque, trent’anni anni al massimo, alla fine del secondo giorno avevamo fame tutti e per otto giorni cosa si faceva? Siamo stati quattro o cinque giorni a mangiare miglio ed acqua, con il miglio si faceva il minestrone, ed un po’ di margarina. Poi, quando è arrivato, siamo riusciti a conoscere questo Sori, che ci portava la carne di capra e mettevamo dentro questo e facevamo un minestrone e così si mangiava un po’ tutti.

Gasiani Armando

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Gasiani Armando, nato a Castel di Serravalle provincia di Bologna il 23.1.1927. Eravamo una famiglia di contadini, dopo dieci anni abbiamo traslocato, da Castel di Serravalle siamo venuti ad Anzola Emilia e siamo rimasti fino a dopo che sono arrivato Bologna, però il rastrellamento è avvenuto in questa zona. Prima del rastrellamento io e mio fratello, senza che i miei genitori sapessero, eravamo collaboratori della Resistenza, nella nostra campagna c’era una base partigiana. Ad un certo momento la Resistenza ha avuto un periodo molto grave, ha avuto un po’ di relax e ci hanno consigliati di andare a lavorare perché noi eravamo già una famiglia molto grossa, avevamo altri fratelli, eravamo in ventidue in famiglia, una famiglia molto grande, allora hanno consigliato a noi due di andare perché ci dicevano: “Voi da là potete ancora continuare la vostra attività, dicendo magari qualcosa che a noi può interessare”.

Durante questo è venuto proprio il giorno del rastrellamento del 5 dicembre del 1994. Questo rastrellamento io direi che è stato un rastrellamento politico guidato, pilotato da una spia, questa spia era un partigiano, è andato in mezzo alle SS e lui l’ha pilotato, praticamente lui sapeva tutta Anzola com’era messa, tutte le famiglie, le basi partigiane. Chi erano i partigiani e lui piano piano questo rastrellamento l’ha guidato, l’ha pilotato e l’ha accompagnato per tre, quattro giorni, chi non era dentro il rastrellamento è andato a prenderlo a casa. Noi eravamo tra quelli che hanno preso, perché il mattino si andava a lavorare. Sono arrivati all’improvviso.

Noi si sentiva qualcosa di diverso, sentivamo qualche abbaio di cani, ma era una mattina un po’ nebbiosa, un po’ piovosa, non era una bella mattina, però a quel momento devo dire siamo arrivati… siccome con questo documento che ci avevano dato in mano, secondo loro noi potevamo girare tutta l’Italia che eravamo in regola con questo documento firmato da Kesserling, noi forse non abbiamo badato a questo rastrellamento. Può darsi che fossimo anche fuggiti, però eravamo già messi in maniera che ormai di fuggire non era più tempo. Ci hanno presi su e ci hanno portati ad Anzola Emilia, dentro nelle scuole. Dentro nelle scuole hanno fatto questa retata di cittadini giovani, non più giovani, partigiani, non partigiani e li hanno portati in questa scuola che eravamo circa duecento. Alla sera verso le nove in questa scuola c’era una lampadina.

C’erano due tedeschi di dietro, c’era questa spia che ci mandava destra o a sinistra in modo che da una parte andavano a casa e dall’altra parte li tenevano. In quel momento noi siamo rimasti lì in sessantasette di Anzola e dopo un’oretta ci hanno caricati su due o tre camion, non ricordo, siamo partiti verso Bologna e siamo andati in Villa Chiara che lì c’era il comando della Gestapo e dopo tre o quattro giorni, hanno cominciato a fare questo processo. É per quello che dico, questo rastrellamento diventa politico per me perché era pilotato. Io, per esempio, sono stato preso un’altra volta prima del 10 settembre, però quello non era un rastrellamento, sono andato a finire a casa di un contadino e da lì sono riuscito a scappare. La differenza da quello a questo per me, infatti lo dice anche nelle condanne che loro hanno…

D: Scusa, lì in Villa Chiara vi hanno interrogato e processato?

R: Sì. Abbiamo avuto tutte le nostre condanne. Più o meno, loro hanno dato le condanne, però non si sapeva che condanne, perché abbiamo avuto anche delle persecuzioni, hanno dato dei calci. Hanno usato anche della violenza contro di noi, volevano sapere chi era qui, delle basi partigiane e tutte queste cose, ma in quel momento nessuno ha fiatato, magari cercava di tenere possibilmente il suo riserbo per non fare danno alle famiglie che erano rimaste fuori da questo rastrellamento.

D: Durante il rastrellamento hanno preso solo uomini o anche donne?

R: Anche donne. Quelle che avevano preso lì sono andate a prenderle a casa. Allora volevo tornare su Villa Chiara. Lì abbiamo avuto veramente il processo. Eravamo mica solo noi, eravamo più di duecento dentro, perché è molto grande. Questo processo è durato sette o otto giorni. C’era uno, interrogava però di dietro c’erano i picchiatori che magari pensavano loro di darci… magari per poter avere più informazioni di queste basi partigiane che ad Anzola c’erano state. Nonostante che avevano questa spia, però non erano convinti abbastanza e volevano anche sapere da noi magari quali erano le informazioni anche più sicure perché noi eravamo in zona, abitavamo lì. Dopo sette o otto giorni, finito questo processo verso l’11, 12 di dicembre, siamo partiti. Siamo andati in San Giovanni in Monte. Hanno portati tutti dentro a San Giovanni in Monte con dei catenacci avanti e indietro. Però si vedeva un po’ tutti, anche gli altri ragazzi, a un bel momento sono spariti una gran parte di questi ragazzi che erano stati processati con noi. Il 13 o il 14, non si sa la data precisa, sono partiti, sono quelli che hanno fucilato ….

La loro condanna è stata quella. Invece la nostra condanna era di venire, abbiamo capito poi dopo perché non è che a quel momento si sapesse dove si andava a finire, perché eravamo in mano sua, però nel momento che noi abbiamo avuto questa spia abbiamo dubitato qualcosa anche di grave, infatti, la condanna nostra era quella di venire in Germania. Però sempre questo viaggio ignoto, da Bologna noi siamo partiti il 23 dicembre e siamo andati a Verona, Verona, Bolzano.

D: Siete partiti con cosa?

R: Tre camion. Eravamo novantuno uomini e nove donne, cento persone.

D: Tutte di Bologna più o meno?

R: Sì, Bologna o provincia.

D: Quindi Vi siete fermati a Verona…

R: A Verona perché era giorno, viaggiavano di notte, loro viaggiavano solo di notte. Comunque tanti hanno avuto la fortuna che qualche partigiano, magari i partigiani li andavano a liberare, invece noi non abbiamo avuto nessuna… niente di questo. Siamo arrivati a Bolzano il 24, il 25 e lì siamo arrivati in questi campi. Però in quel momento non ci trovavamo in un campo di concentramento personalmente perché si vedevano i civili, si vedeva il comportamento non violento, si vedeva che chi aveva dei soldi magari poteva anche andare a comprare qualcosa. Con i civili qualcosa si poteva anche avere, però noi non avevamo nemmeno la valigia perché noi eravamo rimasti, ci avevano presi andando a lavorare, eravamo solo coi vestiti e questo continua, 7, 8, 10 giorni però non si sapeva da che parte…

D: Scusa Armando, quando siete entrati nel campo di Bolzano vi hanno dato un numero?

R: Per me agli uomini no, alle donne sì. Perché secondo l’altro, lui dice: “A me lo hanno dato”, allora ieri ci guardavamo e invece non c’è il numero degli uomini, l’hanno dato solo alle donne, si vede che loro avevano già un programma che loro rimanevano, invece noi dovevamo andar via da lì. Infatti siamo partiti dopo il 6 gennaio. Non so quanti eravamo, cinquecento o settecento non so di preciso quanti eravamo, ci hanno presi tutti e ci hanno portato alla stazione. Lì c’era un carro merci pronto per caricare il vagone. Avevo un fratello con me, come Le ho detto anche prima, io e mio fratello eravamo sempre assieme e allora in quel momento ci hanno messi su questi vagoni, sessanta ogni carro. Poco mangiare, niente da bere, poco di niente. Io in quel momento ho preso anche la febbre, non sono stato bene, forse era la commozione, non so come, debbo dire, perché allora avevo diciassette anni, non è che poi fossi tanto anziano, allora pensavo ai miei genitori o forse non sono stato bene durante due o tre giorni, però con mio fratello ci siamo rinfrancati. Lui aveva già un’esperienza di guerra, aveva fatto il soldato. Era già andato al fronte, aveva già un’esperienza e lui aveva sempre detto, è per quello che abbiamo aderito alla Resistenza, perché diceva: “Io alla guerra non ci voglio più andare. Se difendo, difendo i miei interessi, non quelli degli altri, la libertà mia, non quella degli altri”. Questo l’ha sempre detto ed è per quello che noi abbiamo fatto forse un atto contro i nostri genitori, diverso da quello che loro pensavano, invece noi pensavamo poi alla libertà di tutti.

Su questo mio fratello mi è sempre stato vicino e siamo partiti, durante il viaggio c’era con noi, mi ricordo che si chiamava… adesso non mi viene il nome, comunque diceva che se andiamo a Mauthausen a casa non ci andiamo più nessuno. Diceva cosa, Costa, mi è venuto, e diceva questo. Noi si domandava: “Cosa sai te di queste cose?” E invece lui diceva sempre: “Se andiamo a Mauthausen…” senza dire dove l’aveva imparato o no. E arriviamo proprio alla stazione di Mauthausen, eravamo in vagone assieme, perché nel vagone ce n’era più di uno. Dice: “Se non viene la Liberazione, noi qui in Italia… e non sapranno nemmeno da che parte saremo”. Io mi sono messo a piangere. E poi dopo siamo saltati giù.

L’aspetto del paese di Mauthausen. C’era la gente, quando hanno visto noi, scappavano tutti via. Ho detto a mio fratello: “Guarda che aspetto noi diamo a questa gente, cosa siamo noi nei loro confronti. Cosa vuol dire questo fuggi, fuggi, guardavano qualcosa, cosa siamo nei loro confronti! O siamo delinquenti o qualcosa del genere”. Infatti loro ci hanno sempre considerati nella politica del razzismo che noi eravamo avversari, non abbiamo aderito alle truppe alleate quando sono venute là, che prima eravamo alleati, però noi siamo stati degli avversari anche politicamente. Ma allora non è che si sapesse cos’era il comunismo o il socialismo, più che altro abbiamo avuto tante riunioni che venivano… però parlavano sempre di questa libertà perché la Resistenza non è stata fondata solo dai comunisti e dai socialisti, c’era tutto il popolo, era il corpo di Liberazione che era tutto il popolo che diceva cosa si doveva fare per essere liberati da questo. Questo è un esempio dell’impatto quando siamo arrivati in questo paese.

Pian piano andiamo su per la mulattiera, tutti pieni di fango, era il 12 o il 13 gennaio con un freddo, poi eravamo vestiti senza paltò, senza niente. Allora mio fratello mi diceva: “Vedrai…”, anzi direi che molti di noi lo pensavamo, perché quando presero l’8 Settembre i militari, li portavano in Germania, però si sapeva che andavano a lavorare. Invece anche loro hanno fatto… comunque noi si sperava di andare ad un lavoro. Allora andiamo su con queste SS con i cani, che se si sbagliava… eravamo già stanchi, perché quattro o cinque giorni con poco da mangiare avanti e indietro, però l’esperienza mi dà anche questo, che loro, secondo me, facevano questa cosa perché, saltando giù dal treno, eravamo deboli, non c’era una reazione di una fuga, di qualcosa perché eravamo tutti deboli, in maniera che nessuno aveva il coraggio magari di fare una … le hanno studiate tutte queste cose per riuscire bene nel loro programma, andiamo e arriviamo. Quando si apre il portone, ecco, io e mio fratello ci siamo abbracciati e abbiamo detto: “Ma qui è la fine del mondo”.

Vedere questo spettacolo, tutti questi prigionieri, tutti così magri, poi c’era qualche morto qua e là. Chi chiamava aiuto. Mi ricordo che sotto a Mauthausen c’è un muro dove ci sono delle catene e c’erano due o tre che chiamavano aiuto, legati alle catene. Aveva ragione Costa quando diceva: “Se andiamo lì forse non riusciremo più nemmeno a ritornare” e ci siamo abbracciati tutti e due e poi ci hanno messi in fila e pian piano abbiamo fatto tutto il giro. Il primo ti toglieva i vestiti, il secondo ti depilava e poi al terzo stadio ti segnavano un numero e poi ti facevano una fotografia a mezzo busto.

Questi erano i tre stadi, il quarto è quello di andare a fare la doccia. Là tutti assieme e poi si veniva fuori con due zoccoli. Anche lì bastonate, due zoccoli con un panno in spalla, non il vestito, un panno in spalla. E in mezzo alla piazza c’era un freddo! Allora io mi ricordo che con mio fratello pensavamo: “Cosa abbiamo fatto per venire qui, cosa abbiamo fatto di male?” Si diceva. Comunque l’abbiamo purgata abbastanza bene. Dopo due o tre ore arrivano. Ecco il numero. Ci danno il numero con il vestito, perché loro dovevano cucire, attaccato alla giacca e poi i pantaloni. E siamo partiti, lì siamo stati fermi un’oretta, neanche, e siamo andati per un’altra scala e ci hanno portato alla quarantena.

D: Armando, il tuo numero te lo ricordi?

R: 115523.

D: Ascolta, assieme al numero ti hanno dato anche un triangolo?

R: No, il triangolo è quello lì, attaccato al numero, il triangolo è rosso, solo che era un po’ sbiadito, l’ho lavato, l’ho messo a posto, però man mano che si consuma, era da tanti anni…

D: E lì ti hanno mandato poi alla quarantena.

R: Alla quarantena eravamo tutti … l’impatto è stato questo, che era pieno in una maniera! Ci siamo messi in mezzo ad un baracca larga come da qui a lì, a dei materassi, sei per ogni materasso. Era lunga 100 metri, eravamo cinquecento, seicento, settecento noi, tutti in fila come le sardine. Qualche volta si divertivano: il Kapò da una parte e uno correva sopra di noi. Correre un Kapò e in due si correva e se uno si lamentava, chiamava aiuto, davano delle grandi legnate. Chi prendevano, prendevano. Questo è durato … perché lì a Mauthausen è un campo che prende la manodopera e la dà fuori e la manda in questi altri quarantotto sottocampi, non è che vadano là, muoiono lì. Man mano che le fabbriche volevano della manodopera e Mauthausen dava questa manodopera, di carne umana che eravamo noi, le cavie. Lì siamo stati fermi un venti giorni, però durante questo periodo non è che si lavorasse… si lavorava saltuariamente, però più che altro ci facevano tribolare. Alzarsi alla notte, se uno faceva dei rumori in mezzo alla piazza anche se pioveva, nevicava, bagnava, non bagnava, era uguale Loro si divertivano anche a fare questo. Per loro era un divertimento, ma per noi era un grande sacrificio, anche psicologicamente era una cosa che quando sto pensando delle volte, dico: “Io non saprei come ho fatto a venir fuori da questo coso”. Comunque siamo riusciti e abbiamo fatto questi venti giorni, più o meno e da lì mi pare che una mattina siamo partiti un bel gruppo e lì eravamo assieme io e mio fratello.

Torno indietro un passo. Io ho compiuto gli anni a Mauthausen il 23 gennaio, sono arrivato il 15. Mio fratello in quel momento non era lì. Dopo un pezzo arriva, “Oh”, dice, Armandin compi gli anni oggi?” “Sì”. “Guarda mo’ qui”, eravamo in mezzo alla piazza, “Guarda mo’ qui in che condizioni compi gli anni”. Ci sono stati tanti morti e poi chi chiamava aiuto, chi bastonava, era un delirio. Gli dico: “Io li compio oggi, tu li compi il 20 luglio. Tu non so in che modo li compirai e che terra pesteremo in quel momento”. Ci siamo andati ad abbracciare e poi abbiamo fatto un gran pianto, perché pensavamo ai nostri genitori, che loro non sapevano questo viaggio che si faceva, in che condizioni eravamo, voglio dire questo. Da lì, verso il 2 o il 3 di febbraio fanno questo gruppo perché …. a 5 chilometri e noi siamo partiti a piedi, siamo andati a … so che sono due campi e in mezzo c’è la divisione. In quel momento mi hanno diviso da mio fratello. Questo per me è stata la cosa che non posso dimenticare questa cosa perché eravamo più che fratelli, poi anche dal lato umano. Delle volte uno aveva qualcosa, magari aveva preso delle botte e aveva bisogno di sfogarsi, non avevi nessuno al quale potevi riferire queste cose, questo malumore.

In quel momento mi sono stato …. e andiamo in baracca e cominciamo a… nel frattempo che sono fuori, senti anche questo è un atto di fortuna, dice: “Non dire che sei un contadino, digli che sei un meccanico”. Di corsa, un italiano che è passato lì, perché quando ha visto che eravamo italiani, ha detto: “Non dite che siete contadini, siete dei meccanici”. Allora andiamo dentro, arriva un tedesco, non capivo niente, che avevo già il sangue che mi andava in fondo ai piedi. Dice: “Italiani… meccanico”. Al mattino dopo partiamo in treno perché … rimane sotto … e … te sai che si andava in treno coi vagoni merci. Si parte, si va a questa stazione che era distante, 500, 600 metri, a piedi sempre a piedi. Mettevano un centinaio di prigionieri ogni vagone e poi dopo uno fischiava. Chi andava su rimaneva… lì non c’era niente. Mi ricordo una volta che ho cercato di dare una mano a uno per venir su, mi è arrivata una legnata qui sopra e mi ha spaccato il labbro qui, che ho pianto. Non si poteva aiutare. In quel momento diventa difficile anche per noi il lato umano, non si era più … però se avevi un italiano vicino, un fratello vicino, quando riuscivi magari a collegare il discorso, qualche cosa poteva aiutarti per il morale e tutte queste cose. Andiamo in questa fabbrica, tu sai quanti chilometri di galleria aveva e poi, prima di arrivare lì anche questa strada, perché si saltava giù 500 metri prima.

Questa strada tutta piena di fango, sempre continuamente si doveva girare, non potevi andar sui margini perché arrivavano coi cani, con le botte. Sempre fango, era un delirio. Arriviamo in questa fabbrica. Dopo sei un numero, l’avevo imparato un po’ abbastanza nei venti giorni che siamo stati su a Mauthausen, avevi imparato il numero.

Il tedesco non lo so nemmeno ancora, però un po’ lo capivo. Mi chiamano, mi mettono vicino … dico: “Meno male che almeno siamo coperti dal fango, dalla pioggia, dal freddo”; era abbastanza caldino. Mi fa partire una macchina elettrica, io dico: “L’ho vista”, era una sega, so che tagliava i tubi. Metto giù la mano, trovo l’interruttore, proprio l’ho preso al volo. Non ho mai più avuto problemi con loro perché lì dentro magari il lavoro non era faticoso, era noioso, però non era faticoso. Primo non avevi i Kapò ai calcagni, ce n’era uno ogni cento metri, però nelle baracche invece ne avevi tre, erano continuamente in giro, invece lì non avevi … e poi avevi la protezione dall’acqua, dal freddo…

D: Quando tu dici sono stato lì in fabbrica, ma queste fabbriche erano quelle dentro le gallerie?

R: Sì.

D: Lavoravi nelle gallerie?

R: Lì si lavorava intorno e si facevano degli aeroplani. Nel nostro banco si saldavano dei tubi, le misure, si sbavavano e poi c’erano i saldatori che, man mano che noi si provava, li mettevano e poi saldavano, non so cosa facessero. Questi saldatori sapete quant’acqua hanno … per noi a rischio, perché l’acqua era avvelenata. Non si poteva bere e non davano l’acqua loro. Era avvelenata, veniva il tifo. Allora bisognava stare attenti anche a questo. Durante questo lavoro, col tegamino a rischio, si dava ai saldatori con la fiamma ossidrica la scaldavano e tutti sentivano questa bollente, ti sentivi bene. Il lavoro non era molto pesante, era … anzi tutte le mattine passava in ingegnere austriaco. Veniva da fuori perché la fabbrica era gestita da civili. Allora questo ingegnere veniva da fuori e passava, non ha mai detto che ho sbagliato qualcosa. Guardava, ogni tanto diceva: “Italiano gut”. Andava bene perché il lavoro non era poi così difficile. Le misure con tutti i suoi stampi, ho sempre incontrato … questo voglio dirlo forte e piano, questo tedesco per me era anti hitleriano. Era una brava persona, perché si confidava. Noi avevamo giorno per giorno la cosa della guerra e lui veniva dentro, era amico con uno, non so se era un tedesco, non so cosa fosse e lui gli dava le notizie del fronte della guerra. Questo era per me uno degli uomini, posso dire anche sul lavoro non ha mai detto niente a nessuno di noi, veniva dentro… poi andava via. Si vede che … l’unico che potrei dire che è stato un tedesco buono.

Vado avanti con la fabbrica. In un giorno si doveva fare un aereo, perché 12 o 14 chilometri di gallerie tutte attrezzate, alla fine veniva fuori un aereo. Fuori c’era il collaudo. Man mano che andavano su, nove su dieci venivano mitragliati dagli americani e venivano messi giù un’altra volta. Ma loro andavano avanti lo stesso. Comunque lì si stava, forse anche la gioventù, ma lì forse mi ha salvato la vita. Mi ricordo uno che era con noi, loro adoperavano tutte le cattiverie per demoralizzarti, per andare in bagno dovevi domandare al Kapò, delle volte ti facevano andare sopra una scalinata che era un freddo da cani anche se pioveva, nel frattempo che vado sopra di lì trovo un nostro amico di Bologna, si chiamava Bruna. Mi fa: “Gasiani, come sei magro”. Gli dico: “Ma tu ti sei guardato? Sei l’ombra”. Sono andato per un bel po’ di tempo, dopo pochi giorni non l’ho più visto, si vede, lavorando fuori alle gallerie, alla pioggia, ma scherzi? Era un lavoro… Era il mangiare che non c’era, non era tanto il lavoro, la fatica, ma era il vitto che era poco, le sostanze che erano poche che non potevi tirare avanti.

Un fisico ha bisogno delle sue sostanze per sopravvivere, sennò … e poi man mano che si andava avanti, calava sempre il menù del mangiare. Perché? Perché a Mauthausen arrivavano quelli dei campi che sgomberavano da Dachau, Auschwitz. A Mauthausen non saprei quante migliaia c’erano e il mangiare era quello che era e calavano sempre. Invece di dartene un litro, te ne davano tre quarti, poi il pane, invece di dartene un etto e mezzo, te ne davano un etto, la margarina mai più. Calavano anche e il lavoro, uno che lavorava fuori era molto pesante, allora ci volevano delle sostanze molto buone. Il lavoro non era… però il Kapò era cattivo, era cattivissimo. Tutte le sere che noi si veniva fuori, si dovevano caricare i morti che morivano dentro o che facevano morire. Perché bisogna dire anche questo, o che li mettevano in un forno, o che li impiccavano o che li ammazzavano di botte, tutte le sere ogni tanto toccava anche a te. Chiamava il numero, non dovevi mica rifiutare. Quando chiamava il numero non sapevi mai cosa dovevi fare, andare incontro a questi Kapò o alle SS dovevi ascoltare quello che dicevano, se indovinavi a capire bene, sennò erano dei guai. Alla sera si caricavano tutti questi morti che venivano durante le dodici ore di lavoro e si portavano al treno per portarli nel campo Gusen che lì c’era il forno crematorio che magari li cremavano. Direi di fare un appunto, questa è una cosa molto … il Kapò era molto cattivo.

Lo spiego questo perché una cosa che è capitata e sono andato vicino alla morte in questo caso. Lui aveva la corda, il banco delle bastonate, lo sgabello. Una mattina era un giorno che avevamo dormito poco perché siccome lì si facevano dei turni di dodici ore e si cambiava turno, allora quando si lavorava di giorno, si andava in baracca di notte e qualcosa riuscivi magari a riposare, ma quando di notte andavi suonava sempre l’allarme. Non è che se tu dovevi riposarti, ti lasciavano riposare, ti mandavano fuori sotto a quella montagna dove c’era il , c’era una galleria, ti mandavano su. Da noi, andare da Gusen 1 a Gusen 2, ci saranno stati 500, 600 metri e ci mandavano. Quando c’era l’allarme tu dovevi stare fuori. Un giorno non abbiamo chiuso occhio. Allora quel giorno … adesso abbiamo interrotto. L’allarme non è finito e siamo andati a lavorare al mattino. Ti puoi immaginare, ci alzavamo alle quattro, quattro e mezza e si andava al lavoro e in quel momento andare dentro in questa galleria un po’ il caldo, un po’ la stanchezza, io mi sono messo lì… così. Il Kapò mi ha visto, è corso di volata lì … me ne ha dette, di qua e di là avevo un russo e un polacco, mi hanno dato un colpo, perché loro si sono immaginati che veniva contro di me perché avevano visto la mossa. Però un colpo da non credere… questi due ragazzi parlavano un po’ il tedesco, chissà loro erano riusciti a capire o che lo sapevano prima perché erano prigionieri anche da prima, si vede che loro avevano capito, io no. Parlavano con questo Kapò e dicevano: “Non è vero” e mi hanno portato fino al suo banco. … Questa era stata la cosa più umana che nella vita abbia avuto da gente che non conoscevo, questi due ragazzi che cercavano di tirarmi indietro e poi piangevano in un modo proprio di compassione, un modo umano. Lì c’era lo sgabello e la corda, ero vicino allo sgabello e la corda era alta così, era in terra lo sgabello e di là c’era lo sgabello da appendere, il bastonato anche portare alla fine della vita perché non aveva remissioni quello lì. Ad un bel momento, continuavo a piangere, loro hanno fatto proprio così… penso che sia venuto solo io indietro, penso che sia solo io venuto indietro da lì. Nessuno ha mai visto tornare indietro. Li hanno sempre finiti.

Questo lato umano si vede che nel momento … e i ragazzi quando vado a scuola me la domandano questa cosa, il perché. Io ho i miei dubbi che lui l’abbia fatto umanamente. Secondo loro dovevano bere quando venivano in officina, avevano un mezzo litro di grappa, loro dovevano avere, perché non si può infierire su una persona che non ti ha fatto niente così terribilmente a bastonate o finirlo. Lui secondo me, il mio giudizio, non aveva bevuto, era sano di mente e si è sentito … il lato umano in questo caso l’ho capito in questo modo, lui non aveva bevuto, perché sennò non si scappa. Quando ti prendevano erano feroci in una maniera che lo deve vedere per credere … che facevano sulle persone, quando le prendevano in che modo le facevano finire. Bisogna vedere queste cose per capire. Questo lato ai ragazzi dico: “Per me è stato un attimo di compassione”. Avrà detto: “Vivrà cinque o sei giorni, poi morirà da solo”, perché eravamo già alla fine di marzo.

Con questo io direi di aver finito qui, andiamo avanti ancora? Questo il campo e poi il ritorno. Il ritorno…

D: No, aspetta. Quindi ritornavi a Gusen 2 e alla Liberazione dov’eri?

R: Viene dopo.

R: Adesso torniamo al ritorno della fabbrica. Come ho detto prima chiamavano delle volte il mio nome per caricare questi morti per portarli nella baracca perché là c’era il forno crematorio per poterli bruciare. Ma quando si entrava dentro questa piazza, non è che facessero subito in modo per andare a riposare, mancava sempre qualcuno. O lo facevano perché mancava, o lo facevano per diminuire le ore di riposo, qualcosa che per noi era molto grave perché eravamo stanchi anche dodici ore e poi al mattino tre ore prima e poi andando avanti le ore cominciavano anche ad essere molte, in piedi e non finiva mai. Poi quando si rientrava c’era la barba, la riga dei capelli si dovevano fare tutte queste cose e dovevi stare in fila che molte volte dormivi… si riposava molto poco. Questo è il rientro, perché loro non riuscivano mai a trovare il conto che volevano, secondo me era una scusa sempre per diminuire, tanto la nostra vita in questo campo doveva durare dai quattro ai cinque mesi al massimo e dare più la possibilità di guadagno, di manodopera e noi come durata era questa. Perché il loro compito era questo qui, noi eravamo dei politici, degli avversari, allora noi dovevamo finire in questo modo, finire in una tragedia molto triste.

Bisogna aver visto queste cose per capire, perché anche spiegando, andremo dopo, cinquant’anni di silenzio che ho passato senza dire queste cose, però queste cose caricano in un modo la persona, che, saltando fuori da lì, non è che poi sia… è una cosa eccezionale, non so come sia che sono riuscito a saltarne fuori. Quando vado con i ragazzi, vedo questo qui, mi domando: “E’ tutto di guadagnato dal ’45 in poi la mia vita è tutto di guadagno”. Nonostante adesso che sto parlando è ancora meglio. Questa è stata la giornata che ho spiegato anche nel mio libro, delle mie esperienze, della mia testimonianza e arriviamo alla Liberazione.

La Liberazione è avvenuta il 5 maggio, però erano quattro giorni o cinque giorni che non si andava più a lavorare. I Kapò non c’erano più. A noi hanno detto che i Kapò li hanno fatti fuori i tedeschi a Gusen 2, li hanno fatti fuori loro, però di sicuro non so. Non c’erano, c’erano tutte le guardie, si erano cambiati i vestiti, dalle SS si erano messi i vestiti del Wermacht, tutti cambiati, si erano cambiati di divisa tutti i militari. Quando il 5 maggio era una giornata abbastanza bella, io mi sono messo da una parte vicino a un muretto perché io ormai ero agli estremi, perché se mi metto in mischia qui rimango schiacciato come tanti dopo. Stavo verso le 11 così, vedo una strada lunga 200 metri, vedo un’autoblindo con questa bandiera che arrivava. Tutti contenti e sono andati tutti perché le SS erano di fuori, da noi, erano nella villa fuori dal campo, erano lì tutti i capi della SS, allora tutti, io no, sono corsi vicino a questa rete, perché eravamo ancora chiusi e loro quando sono arrivati hanno domandato chi erano i responsabili. Uno ha tentato di fuggire, l’hanno fatto fuori, gli hanno sparato e l’hanno fatto fuori. Poi il resto hanno detto: “Questo, questo” e ne hanno presi sei o sette, li hanno caricati sull’autoblindo e poi hanno detto con il microfono che c’era chi spiegava, “Gli ammalati vadano negli ospedali che noi arriveremo poi per curare, perché adesso dobbiamo mettere a posto tutte le cose”.

Dopo mezz’ora capita questo, mi giro verso la cucina, ho visto uno spettacolo mai immaginabile. Tutta questa gente che andava a prendere qualcosa. La fame è brutta, si sono dati tutti ad andare a prendere qualcosa e come una valanga. Chi rimaneva sotto rimaneva schiacciato. Finito questo, dopo due ore non c’era più niente. Io non so quanti morti che ci saranno stati là sotto, chiamavano anche aiuto ancora i viventi. Io non giravo perché ero lì messo in una maniera che non giravo più, però sentivo, eravamo distanti 150 metri, ho visto bene questa scena. Io prima ho riso quando sono arrivati gli americani, ma in quel momento mi sono messo a piangere e ho detto: “Guarda in che modo vanno a morire proprio all’ultimo momento”. Quando sono crepati dal mangiare un po’ in fretta.

Ecco questa è la Liberazione e nel frattempo che ero lì, sono arrivati degli italiani che venivano da Gusen 1 e ho cominciato a fare indagini per mio fratello. Infatti trovo uno e mi dice: “Tuo fratello c’è ancora, è vivente e ti cerca”. Ma c’erano tante migliaia di persone, andare a sapere, poi c’erano due strade, una a destra e una sinistra. Bisogna vedere se uno ha preso quella sopra o quella sotto, l’abbiamo cercato un bel po’, ma non l’abbiamo trovato. Il giorno dopo arrivano cinque o sei bolognesi fra i quali Corazza, e ci siamo uniti a loro e abbiamo deciso di venire a Linz a piedi. Abbiamo girato un paio di giorni, in quel momento mi è venuta una dissenteria che non stavo più in piedi. Allora Corazza è andato in mezzo alla strada, si sentiva una motocicletta arrivare. Infatti arriva, era un inglese. L’ha fermato, cercava di farsi capire, io ero messo in condizioni… diceva: “Sta morendo”. Mi ha caricato e mi ha portato a Linz vicino all’ospedale. A 50 metri dalla porta alle 9 di mattina mi sono accorto che era ancora buio, non mi sono mosso. In quel momento ho detto: “Sarà meglio che provi ad andare a bussare da qualche parte”. Lui mi ha scaricato lì, perché si vede che lui aveva fretta e ha detto: “Adesso poi si arrangerà anche lui”.

Ho visto questa porta dell’ospedale, sono andato ad aprire. Due infermieri mi hanno preso a braccio, mi hanno fatto fare il bagno, mi hanno messo a letto, mi hanno dato qualcosa da mangiare, ma è stata roba da poco. Comunque è stata un’accoglienza buona, però si moriva anche lì. Ti davano da mangiare poco, poco serviti, perché forse avevo bisogno anche di medicine che loro o non avevano, o eravamo già, come ho detto prima, noi italiani eravamo ancora forse sotto il mirino dell’odio, perché eravamo un po’ odiati. Dopo 4 o 5 giorni passa la Croce Rossa. Davano un po’ di zucchero, un po’ di cioccolato e poi ci faceva firmare un librone grosso così. Sfoglio, scrivo, c’era anche un italiano, dice: “Hai un fratello qui?” “Sì”, allora sfoglia, era mio fratello. Ma dov’è, dove non è. Ho domandato, “Se vieni giù te lo insegniamo”. Io vengo giù, non giravo, facevo fatica ad andare in bagno. Allora dopo che ho firmato, mi hanno dato questa roba, mi fanno andare fuori dalla porta dell’ospedale. Saremo stati in linea d’aria a un chilometro e mezzo. “Meno male, come sta?” “Sta meglio di te”. Il morale c’era, dico: “Andiamo bene, ci salviamo tutti e due”. Passo questo, qui si muore lo stesso, qui non si vive. Passano tre o quattro giorni, passa una crocerossina di Trieste, sembrava mia mamma. C’era un professore, hanno detto che era un russo e l’autista. E dice: “Se volete venire con noi, noi abbiamo preparato una gran baracca e vi daremo da mangiare e da curare per potervi mandare ai vostri paesi”. “Se mi date una mano, vengo giù”. Infatti mi danno una mano, andiamo su questo camion, eravamo una trentina e ci portano dentro una baracca, saremo stati in duecento o forse più, ognuno con il suo lettino, il lenzuolo. Sembrava tutto un altro mondo. Poi ha cominciato a darci da mangiare sei volte al giorno e una puntura un giorno sì e un giorno no. Ogni puntura che mi facevano, io mi alzavo che andavo avanti così.

Dopo sette o otto giorni dico: “Adesso vado a trovare mio fratello”. Una mattina dico al professore: “Guardi che io vorrei andare a trovare mio fratello che è qui e lo vorrei prendere, è qui a un chilometro e mezzo”. Mi guarda il professore: “Non è che sei messo male, ma quanto ti ci vuole?” “Io penserei in giornata di farcela”. “Ma vai, vai”. Allora parto, avevo un passo discreto, mi ero messo abbastanza in forza come energia, però come chili no. Parto. A 500, 600 metri c’era il comando americano. Mi chiedono: “Dove vai?” “Niente, voglio andare a trovare mio fratello che è là”. “Qui i prigionieri dei campi di concentramento non possono girare”, c’era una malattia che avevano paura che infettasse magari i cittadini. Prova una volta, prova due, prova tre. Non c’è stato niente da fare.

Una volta c’era un italiano gli dico: “Vallo a prendere tu”. “Non possiamo muovere nessuno se non hanno l’ordine di andare a casa”. Loro dopo si divertivano, quando mi hanno visto, si divertivano a venirmi a prendere, mi davano della cioccolata, allora fumavo qualche sigaretta e mi facevano le fotografie. Mi piacerebbe avere quelle fotografie, ne avranno fatte migliaia. Tre o quattro volte sono venuti a prendermi e poi mi chiamavano “la morte vivente”. “Non abbiamo mai visto uno così brutto vivente, proprio pelle e ossa e basta”. Mi chiamavano “la morte vivente”. Passa questo, non sono stato capace. L’unica cosa che mi è dispiaciuto è questa qui per mio fratello, di non potergli dare una mano, poter riuscire a venire lì. Secondo me se veniva lì può darsi che riusciva anche… ma dopo che sono arrivato a casa è venuto uno di Imola che aveva una lettera scritta da lui che diceva che era impossibile per il momento venire in Italia perché era in condizioni non molto belle. É stato lì a mangiare con noi, eravamo una famiglia di ventidue, poi siamo andati fuori. “Vedi adesso come sono, ero là anch’io, tu mi dici la verità”. Mi ha detto: “Tuo fratello quello che mangia non tiene dentro più niente. Sarà difficile che rientri. Secondo me la tubercolosi lo ha ammazzato completamente”.

Se non c’era una cura subito dopo, allora questa era stata la malattia che l’ha stroncato e questo è finito…

D: Armando, tu invece…

R: Il ritorno.

D: Quando sei rientrato?

R: Allora torniamo sul ritorno. Finito questo io sono stato lì un bel po’. Sono partito il 24 giugno che ero in condizioni abbastanza… ho domandato al professore: “Posso andare via?” “Ma sei tanto spiritoso che ce la fai”. Ho fatto una fatica. Partiamo, mi caricano in camion e mi portano alla stazione e là c’era un treno merci. C’erano sei, nove lettini per ogni vagone, si stava da Dio, poi l’assistenza, c’erano i dottori, c’era la Croce Rossa, c’era tutta l’assistenza per poter fare questo viaggio e partiamo. Un treno lunghissimo. Nel primo tempo tutti urlavano, quando il treno è partito ci siamo messi tutti a piangere per la contentezza di sentire il treno, di tornare e siamo arrivati a Bolzano dopo quattro o cinque ore. A Bolzano ci siamo fermati due giorni. Anche lì sono andato all’ospedale, lì c’è poi anche quell’affare che mi hanno dato e poi da lì quando siamo arrivati eravamo in maniera anche già… io sono stato all’ospedale poche ore. Mi hanno detto: “Tu puoi andare, non hai niente, puoi girare, puoi andare a prendere da mangiare e lì c’era tutta roba in bianco, tutta roba di riso”.

Per il microfono dicevano: “Se uno ha fame o qualcosa, venga qui e gli diamo il buono”. Allora non andavo a prendere il buono, dappertutto dove andavo, mi davano qualcosa. Avevo una valigetta grande così piena di pane di riso. Dappertutto me ne davano perché dicevano: “Questo è uno che ha fame veramente”. Lì sono stato benissimo perché ho mangiato abbastanza bene, però non ho sforzato tanto, me l’hanno detto anche loro, non è che deve sforzare perché ancora lo stomaco, era già venti giorni o più che si mangiava un po’ di più, però bisogna stare attenti. Lì c’era tutto pane di riso. Finito questo, c’è una partenza per Modena, non per Bologna, per Modena, ma noi avevamo fretta di arrivare a casa per vedere la famiglia che non sapeva niente. Parte un’autocolonna di venti camion, nel nostro c’era un tedesco a guidare, dopo due chilometri ha cominciato a dire che il camion non andava. Eravamo una trentina su questo camion, nessuno era capace di guidare, perché sennò penso che lui non sarebbe tornato indietro. Perché eravamo tanto imbestialiti, l’odio viene da queste cose perché lui voleva tornare indietro. Arriva un americano con una jeep. E dice: “Gli altri sono già avanti tanti chilometri, com’è che siete qui?” “Non vuol portarci avanti perché ha detto che il camion non va”. Gli punta la pistola dice: “Parti”. Allora è partito e siamo riusciti ad arrivare dietro gli altri. Quando siamo arrivati a Modena, c’era il campo di quarantena e noi eravamo in due e non siamo voluti andare. Abbiamo detto: “Vogliamo andare per la strada, troveremo ben qualcosa da poter…” Erano le 11 di notte, finalmente passa un camion carico di carbone. Uno con l’autista e io sopra il carbone, tutto nero. Arriviamo a Castelfranco. Lui doveva fermarsi, passa un altro, era carico di gesso. L’autista lo conosceva, si chiamava Luppi. Mi ha detto: “Ma sei tu?” Come dire che prima mi conosceva. Dico: “Sì, sono io”. “Salta su”. Anche lì perché ero più leggero mi mettono sul gesso e tra nero e bianco, tra il pelo della barba, perché a diciotto anni si ha la barba, tra la riga, tra lo sporco, avevo un giaccone tutto sporco.

Prima di Anzolo ci mette giù. Poi noi due piano piano siamo partiti. Ad un certo momento ci fermiamo su un argine, c’era una montagnetta e lì abitava una famiglia che erano sfollati a casa nostra. Sente la voce e mi chiama per Serafino. “No, dico, sono Armando”. “Aspetta che ti porto a casa io con la bicicletta”. Viene giù, erano le due e mezza di notte e andiamo a casa mia. Quando sono arrivato a casa, la debolezza, si vede, c’era la casa che sembrava grandissima, le siepi alte, la strada larga. Si vede che la debolezza che avevo addosso, la vista la faceva grande. Suono, dice: “Chi c’è?” “Guarda che ho portato a casa Armando che è arrivato dalla Germania”. Vengono giù, erano in ventuno, il ventiduesimo sono io. Allora non c’era la luce, c’erano le candele o i lumini a petrolio. Cominciano a guardare, ma no, e poi avevo perso la voce che non parlavo, parlavo male perché tra l’aria, il viaggio, avevo perso la voce. Non avevo la voce. Non mi conosceva. Io dicevo: “Sono io”, si vede che ero proprio brutto più del normale, così magro, sporco, avanti e indietro. Ha capito la mamma. “Anche voi”, allora si dava del voi alla mamma, “anche voi non mi conoscete? Sono vostro figlio”. “E Serafino è arrivato?” “No”. Sono rimasti male che non era arrivato, comunque pensavo che fosse arrivato. Mangiamo un po’, mi lavo un po’. Dopo arriva il dottore, arriva dopo un’ora, un’ora e mezza. Era il mio dottore di condotta. Dice: “Dove sei andato? Cosa hai fatto?” “Niente, è capitato un tragitto così, così”. Ho spiegato. Mi ha visitato. Ha detto: “Io non trovo più niente qui. Ti trovo esaurito in una maniera, disfatto”. Lui mi ha cominciato a curare e pian piano ho cominciato a mangiare, in un mese sono cresciuto otto chili. Io penso che fossi sempre dietro a mangiare. Passa questo, vado alla visita del dottore, perché dopo sono stato via altri due anni. A questo campo di concentramento all’arrivo ero malato di polmoni, il dispensario ad un certo momento dice: “Guarda che c’è un viaggio per malati dei campi di concentramento in Svizzera. Se vuoi andare, c’è un posto anche per te”. Allora mio babbo dice: “Sei tu che devi guarire, io penso che tu fai bene ad andare”. Sono andato in Svizzera, sono rimasto là due anni lontano dalla famiglia e questo dottore svizzero faceva per i prigionieri dei campi di concentramento, per curare mille persone. Io sono andato in questo… Da allora non ho mai avuto dei problemi come salute. Veramente sto bene.

Allora per i cinquant’anni… andiamo avanti?

D: Cosa volevi dire dei cinquant’anni?

R: Il silenzio. Forse lo volevo dire prima, va bene anche adesso?

D: Sì.

R: In casa con gli amici di questa tragedia non si poteva parlarne, perché io praticamente non ero io che ero disponibile troppo a dire perché non riuscivo magari a dire. Anche i miei genitori, quando cominciavo a dire, per esempio: “Mi è capitato questo” dicevano “É impossibile”. Allora io emotivo, mi mettevo a piangere e mi chiudevo, fermo lì e soffrivo. Ho sofferto tanto per questa cosa. Anche gli amici, quando con gli amici eravamo ragazzetti insieme e cominciavo a raccontare “La guerra l’abbiamo passata anche noi” dicevano. “Questa non è una guerra, questo è uno sterminio che abbiamo avuto noi, non è una guerra. Io non sono diventato magro così ad andare al fronte, è stato in campo di concentramento, che lì si doveva morire e scomparire completamente”. “É impossibile”. Allora ti dava questo senso di non essere creduto e sono andato avanti per quarantotto, cinquant’anni anni sempre con questo. Io sono venuto a Mauthausen, ma io ho sofferto tanto a venire. Lo facevo anche per accontentare gli altri e poi anche per mio fratello che sapevo già che era morto, anche per andarci, perché se non andavo io, magari, cercavo sempre di mandare i miei fratelli per fargli capire queste cose e per cinquant’anni anni ho avuto questo terribile… io ho passato una gioventù silenziosa, monotona, vivevo da solo, la solitudine. Questa è stata… poi il cervello è rimasto bloccato. Chi mi ha sbloccato è un po’ mia moglie che ha cominciato a dire: “Vedi che per televisione cominciano a dire queste cose, perché non vai anche tu a dirle?” “Se riesco”. “La vita è bella” di Benigni mi ha dato la via d’uscita, “La vita è bella” di Benigni, quella mi ha dato il benestare, perché ho detto: “Finalmente al mondo c’è uno che ha detto la verità senza provocare delle fratture”, anche i ragazzini possono ascoltare e possono fare anche dei calcoli su quello che ha detto e ragionare, senza essere violenti. Da quel momento andare all’associazione, ho cominciato ad andare con Corazza alle scuole e adesso dicono tutti che sono diventato molto più giovane. Si vede che è scattato un meccanismo in me che è stato una cosa e sono contentissimo adesso. Sono l’uomo più contento del mondo.