Emer Luigi

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Luigi Emer. Il mio nome di battaglia è “Avio” perché ero dell’aviazione. Sono nato a Dermulo il 27 agosto 1918, nel comune di Taio in provincia di Trento.

D: Perché sei stato arrestato?

R: Sono stato arrestato in seguito ad un combattimento contro un presidio nazifascista che si trovava a Cavalese. Abbiamo ricevuto l’ordine da parte del Comitato di Liberazione di Trento, che era organizzato dall’ex senatore Mascagni e dal professor Fabio Visentini. In seguito ebbi anche contatti a Trento col povero Manci. Da lì fui destinato prima in Val di Non poi in Val di Cembra, poi di nuovo in Val di Non sui Crozi Carlini; poi in Val di Cembra, sopra il lago di Pinè, ricevemmo l’ordine di attaccare il presidio nazifascista di Cavalese.

Partimmo di notte e arrivammo nel villaggio vicino a Molina di Fiemme; fummo ospitati da una nostra staffetta, una certa Sabina, per una notte e un giorno. In quella circostanza arrivammo stanchi e affamati e ci diedero, se è il caso di dirlo, un cane da mangiare, cosa che abbiamo saputo 5 anni dopo. All’indomani sera ci unimmo ad un’altra formazione di partigiani, comandata dal povero Iseppi Aldo ed incontrata in Val di Fiemme, e ad altri compagni, tra cui Franco Franch e Corradini Quintino, per attaccare il presidio.

Era verso le 10 di sera quando una bomba a mano mi scoppiò fra le gambe e mi fratturò completamente la gamba destra, l’ulna del braccio sinistro; le schegge mi riempirono tutto il corpo, provocandomi profonde lacerazioni e ferite.  Quando caddi, i compagni volevano sospendere l’azione; chiesi loro se avessero ultimato l’azione, dissero: “Ancora no”; allora diedi l’ordine di proseguire e di portare a termine l’azione. Portarono a termine l’azione e cercarono di portarmi in salvo, caricandomi sopra un carretto; mi trascinarono fino al villaggio di Stramentizzo.

C’era una regola fra di noi: i feriti gravi che si rendevano intrasportabili dovevano essere fatti fuori con un colpo di pistola.  Un compagno, tuttora vivente a Bolzano, si preparò per spararmi il colpo di pistola alla testa, ma disse: “Ma no, è inutile sparare, questo è morto”. Avevo infatti perso i sensi. Convinti che fossi morto, se ne andarono di notte attraverso le montagne e mi abbandonarono sul carretto. Durante la notte del 26 agosto del 1944 ripresi i sensi, cercai aiuto: nessuno rispondeva. Silenzio assoluto, buio pesto, cielo sereno: guardavo le stelle. Verso l’alba si avvicinarono alcuni partigiani paesani del posto, di Stramentizzo, fra i quali una ragazza, una certa Sabina che fungeva da staffetta. Vedendomi in quelle condizioni chiamò un medico che arrivò, mi fasciò la gamba destra e scappò subito via in motocicletta per paura di essere catturato.

Questa ragazza cercò di alimentarmi dandomi un bicchiere di latte e una coperta che prelevò dalla stalla. Avevo soldi e armi addosso, li buttai su un cumulo di legna. Dopo, notai che la gente curiosa che si era avvicinata si stava allontanando. Alzai il capo e vidi che immediatamente venni accerchiato dalle SS; fui preso e catturato.

Ma nel frattempo c’è un particolare importante. La ragazza riuscì a mettersi in comunicazione con l’ospedale di Bolzano, dove c’era una nostra cellula; dall’ospedale di Bolzano partì un’autoambulanza col dottor Lucenti, con la scusa di andare a prelevare un paziente in Val di Fiemme; l’autoambulanza venne bloccata perché se ne servirono per caricarmi sopra; contemporaneamente caricarono anche un altro giovane e mi portarono alla caserma di Cavalese. Lì dalla mattina fino alla sera fui sottoposto a lunghi interrogatori, senza essere curato, fasciato, alimentato.

Alla sera con la scorta armata mi portarono nel carcere di Trento, e la prima sera passai la notte in una stanza di detenuti comuni, qualcuno dei quali si offrì di darmi qualcosa da mangiare.

All’indomani fui posto in segregazione in una cella dove nessun altro metteva piede; neanche il cappellano delle carceri poteva entrare nella mia cella. E lì fui sottoposto a continui interrogatori, torture, sevizie; continuamente svenivo, e allora mi facevano rinvenire con delle iniezioni, poi, appena rinvenivo, altre scudisciate. Gli interrogatori si protrassero per giorni e giorni, anche di notte. Non resistevo più, spesso svenivo, invocavo la morte per porre fine a questo supplizio.

Alla mattina nella cella entravano i carcerieri a sbattere i ferri della finestra; mi diedero come alimentazione una ciotola di roba soltanto verso mezzogiorno; altro non potevo mangiare. Non potevo muovermi né spostarmi, ero completamente nudo, lacero e ferito, sporco di terra e sangue, non mi diedero neanche un indumento.

Quelle condizioni si trascinarono dall’agosto fino ai primi di ottobre; ad un certo momento alla vigilia di un giorno dei primi di ottobre, si presentò in cella un detenuto politico, un ex maestro che fungeva da infermiere. Mi sbarbò, mi lavò, mi pulì, mi diede una casacca da indossare; a quelle condizioni tutti sospettavano che io venissi condannato a morte. Quello era il nostro destino, poiché erano qualificati come ribelli tutti coloro che venivano catturati con le armi in mano, e che facevano parte delle formazioni partigiane; venivano fucilati, impiccati e quantomeno torturati. Io ebbi la fortuna di essere portato nel carcere di Trento, dove fui continuamente sottoposto a interrogatori e torture, sevizie, fintanto che una sera, dopo essere stato lavato e pulito, prevedendo che all’indomani mi avrebbero portato di fronte ad un plotone di esecuzione, entrarono nella mia cella alcune donne del carcere femminile, donne detenute politiche, che mi portarono parole di conforto, qualche frutto da consumare e nient’altro.

All’indomani mattina presto nel corridoio del carcere sentii dei passi ferrati: erano quelli delle SS che entrarono nella mia cella e chiesero subito: “Tu stare in piedi?”, dico: “No, non ce la faccio a stare in piedi in queste condizioni”. Mi caricarono sopra una barella, mi portarono fuori, nell’attraversare i corridoi del carcere altri detenuti cominciarono a battere le gavette ed i piatti di alluminio contro la porta in segno di protesta. Mi portarono nella fureria del carcere, mi diedero un panino e una coperta, da lì mi caricarono sopra un motofurgoncino e mi portarono alla stazione di Trento. Alla stazione di Trento mi caricarono sopra un vagone merci, e io ero piantonato sempre dalla polizia; entrarono altri cittadini, tra i quali un parente che, non appena mi ebbe riconosciuto, scese dal treno e scappò via.

Premetto una cosa: il giorno dopo che fui incarcerato mi portarono all’ospedale civile di Trento al pronto soccorso, per ottenere le prime cure. Al pronto soccorso c’era il dottor Franco Visentini, il quale mi riconobbe; rimasi stupito e lui disse: “Questo bisogna ricoverarlo”, e loro risposero che non era il caso; nel contempo entrarono nella sala del pronto soccorso Mascagni, con Nella Mascagni, ignorando che io fossi stato catturato, perché pensavano che fossi morto. Vedendomi in barella rimasero stupiti e feci cenno col capo ad indicare che non avevo parlato. Loro se ne andarono via subito, scapparono.

Riprendendo il discorso, caricato sul vagone merci, fui trasferito alla stazione ferroviaria di Bolzano. Lì mi scaricarono in una sala d’aspetto sempre piantonato dalla polizia; in quelle condizioni non potevo né muovermi né parlare; ricordo un particolare: un soldato polacco fece per offrirmi un frutto, ma questi delle SS reagirono in malo modo e lo picchiarono di santa ragione con i calci dei mitra.

Dopo di che ci fu l’allarme. Nel frattempo ero già passato di competenza al Tribunale Speciale di Bolzano. Quindi l’autista ricevette l’ordine questo di trasferirmi all’ospedale civile in via Fago, nel quartiere di Gries.

Fui messo in una stanza assieme ad altri detenuti politici, fra i quali il povero Francesco Rella, l’avvocato Ferrandi, il dottor Lubich, lo studente ora avvocato, Giorgio Tosi, l’avvocato Steiner di Lana; qualche giorno dopo mi trasportarono in sala operatoria e mi fratturarono la gamba destra e l’ulna del braccio sinistro. Rimasi ingessato per alcuni mesi, sempre poi sottoposto ad interrogatori da parte del procuratore del Tribunale Speciale, che era abbastanza burbero ma non osò mai usare metodi violenti.

I medici dell’ospedale, ai quali va tuttora il mio sincero e vivo ringraziamento, cercarono di protrarre il più possibile la mia degenza: mi trovavo con la gamba in trazione e dopo alcuni mesi mi ingessarono la gamba.

Tra i medici posso ricordare il professor Chiatellino, il professor Settimi, il dottor Bailoni, il dottor Lucenti e tutto il corpo infermieristico che mi assistette, sia me che altri con molto senso di umanità, di solidarietà e con molta comprensione. Questo è un ricordo che mi trascinerò sempre per tutta la vita.

Dopo il secondo giorno che avevo la gamba ingessata mi fornirono un paio di stampelle; due agenti di scorta l’indomani mattina mi accompagnarono verso i servizi, quando uno mi disse: “Tra poco verranno quelli delle SS”, al che riuscii appena a lavarmi. Non appena mi ebbero scortato in stanza, con le stampelle, entrò un ufficiale delle SS con altri quattro, sempre delle SS, e chiese: “Tu Luigi, tu Emer Luigi?” “Sì” e rivolgendosi all’altro: “Tu Francesco Rella?” “Sì” “Tutti e due condannati a morte”: il Tribunale Speciale il 12 dicembre del 1944 aveva confermato la nostra condanna a morte.

Ci prelevarono dall’ospedale ai primi del febbraio del 1945. Feci per prendere le stampelle, ma mi dissero: “Queste non servono più”; feci per prendere qualche indumento da portare con me, ma mi dissero: “Non serve più”. L’altro, Francesco Rella, aveva gli occhi bendati, era mezzo cieco. Ci prelevarono e ci sollevarono tutti e due; ci caricarono sopra una macchina, la quale macchina, con la scorta, arrivò fino al Corpo d’armata. Al Corpo d’armata fecero scendere Francesco Rella; lì poi il povero Francesco Rella venne fucilato, massacrato negli scantinati. Sapendo la nostra destinazione io aspettavo il mio turno; nonostante le invettive da parte di altri militari tedeschi, rimanevo sempre fermo in macchina: vidi che stavano trascinando per terra il corpo di un giovane, pesto e sanguinante, lo caricarono in macchina. Questi era un certo Walter Pianegonda da Schio, aveva la mamma con tre sorelline deportate nel campo di concentramento; il papà, che era capo partigiano, era stato fucilato.

Chiesi se potevo parlare, e il comandante disse: “Parlate pure”, chiesi dove ci potessero portare. L’ufficiale non rispose, ma Walter Pianegonda disse: “Io vengo dal campo di concentramento, chissà che non ritorniamo lì”. Noi pensammo subito che ci avrebbero portato sotto Castel Flavon, dove avvenivano le fucilazioni. Questo è quanto si sapeva allora.

Invece ci portarono nel campo di concentramento, io fui ricoverato all’infermeria, ma prima fui portato all’ufficio della fureria, e lì mi presero in forza, mi consegnarono un triangolo rosso col numero da portare obbligatoriamente sulla casacca. Mentre ero in fureria, una donna, soprannominata La Tigre, sapendo che ero partigiano – almeno per loro ero un ribelle – cercò di farmi avventare contro due cani poliziotto che erano pronti ad aggredirmi, sennonché intervenne un sottufficiale delle SS, la bloccò, e in tedesco la rimproverò molto, facendo capire che non poteva agire così. Questo stesso sottufficiale mi accompagnò all’infermeria e mi raccomandò, parlando in uno stentato italiano, di stare alla larga da quella donna.

All’infermeria fui messo in un lettino dove ebbi occasione di conoscere il professor Meneghetti, rettore dell’Università di Padova, e il professor Virgilio Ferrari, che era primario degli ospedali di Garbagnate e di Milano, il colonnello Andreoli da Verona, e altri deportati politici. I primi giorni mi guardavano con un certo sospetto: allora ero giovane, con tutti i miei capelli, biondi, occhi azzurri e pensavano che fossi una spia. Quando nell’infermeria stava passando un altro deportato politico per distribuire un po’ di sale e chiesi di darmene, questi fece scena muta e se ne andò. Dopo, tramite Laura Conti ed un’altra dottoressa, poiché avevano contatti con l’esterno, seppero effettivamente chi ero; allora avvertirono gli altri e da lì in poi ebbi tutto il conforto, l’aiuto ed il sostegno da parte di tutti i compagni dell’infermeria e di altri amici politici del blocco E.

Poi un amico che lavorava nella falegnameria del campo, mi fornì due stampelle; intanto avevo la gamba ingessata, ed un prigioniero pilota italoamericano di origine trentina, saputo che ero trentino, poiché poteva ricevere dei pacchi, mentre noi non potevamo ricevere niente, mi fece avere un paio di uova.

E’ un particolare a cui tengo: prima di consumarle, qualcuno mi disse: “Guarda che nel blocco E c’è il conte Wolkenstein che sta per morire di fame, potresti portarle a lui?”. Gli portai le uova, e fu come se fosse stato un lingotto d’oro. Siano state le uova, o che altro, il conte Wolkenstein di Castel Toblino si rimise bene in sesto e uscì anche lui dal campo! Lo ricordo tuttora: mi ospitò nel suo castello al lago di Toblino, mi fece conoscere anche suo figlio. Mentre ero ricoverato all’infermeria, dovevo stare molto attento e nascondermi alla vista dei famosi aguzzini, i due ucraini. I due ucraini erano sempre ubriachi, e quando vedevano uno di noi, quello veniva torturato, massacrato, picchiato … scene strazianti che è doloroso e triste rievocare.

La gente era intimorita, un po’ paurosa, ma in gran parte era anche rassegnata al proprio destino; il nostro destino era quello.

Il Tribunale Speciale, saputo della morte del partigiano Francesco Rella, infermo e cieco, chiese alle SS: “Avete fucilato un infermo; volete fucilarne un altro?”. Il Tribunale Speciale – storia ricostruita poi in seguito – commutò la mia pena di condanna a morte nell’ergastolo, destinato ai blocchi di eliminazione in Germania.

Però la mia sopravvivenza la devo soprattutto a loro, perché a loro interessava conoscere l’organizzazione clandestina della lotta partigiana.

D: Quando tu parli del campo, quale campo di concentramento intendi?

R: Il Lager di Bolzano, in via Resia.

D: I tuoi interrogatori erano per capire l’organizzazione partigiana?

R: Io soltanto ho sempre negato e taciuto tutto ciò che sapevo, però di fronte alla morte ho dovuto dare le mie vere generalità. Dopodiché una pattuglia si spinse fino al mio paese d’origine, volendo quasi incendiare la casa dove risiedevano mia madre con i miei fratelli e sorelle; questo non avvenne per intercessione di altri. La mia povera madre per ben tre volte apprese che io ero morto: la prima quando mi catturarono, la seconda dal carcere di Trento, la terza quando ero nel campo di concentramento di Bolzano.

Quello che è stata la vita nel campo del Lager di Bolzano di Via Resia è indescrivibile; la gente soffriva, penava, era affamatissima, si andava a rovistare persino nelle immondizie per cercare qualche buccia di patata. Bisognava cercare di evitare l’incontro con gli ucraini o La Tigre, perché sapevi quale sarebbe stato il tuo destino. Un giorno ci fu la partenza di qualche centinaio di deportati, politici soprattutto, che vennero caricati su carri bestiame alla stazione di Bolzano. Vi rimasero per un giorno e una notte, e poi ritornarono nel campo, perché la linea del Brennero era continuamente martellata. Da lì non ci furono poi più passaggi attraverso la Germania e l’Austria. Forse qualche camion con deportati politici, quello sì riuscì a passare.

D: Ti ricordi quando eri nel campo di Via Resia se c’erano anche dei religiosi deportati?

R: Sì, c’erano dei frati, c’erano dei religiosi, soprattutto Don Antonio Pedrotti, Don Longhi, Luigi Longhi mi pare si chiamasse, e altri frati che erano stati catturati non so esattamente dove, ma c’erano diversi religiosi.

D: Don Pedrotti non era Don Guido, per caso?

R: Don Guido Pedrotti, sì.

D:  E Don Daniele Longhi?

R: E Don Daniele Longhi.

D: Anche loro deportati?

R: Sì, nel campo di concentramento.

D: Luigi, ti ricordi il tuo numero di immatricolazione?

R: 9861, ho qui con me il triangolo rosso. E nel campo un giorno incontrai un mio carissimo amico, che è riuscito a sopravvivere, il quale rimase anche lui ferito ad un occhio, un certo Corradini Quintino, soprannominato Fagioli, destinato al blocco celle. Nel blocco celle era detenuta anche Nella Mascagni.

D: Sei stato testimone di atti di violenza all’interno del campo?

R: Personalmente non sono stato testimone, personalmente non ho visto … però voci correvano e si conoscevano atti di violenza, di pestaggi, di torture, che venivano regolarmente eseguiti. Ma si aveva anche paura di parlare e di tacere; essere presenti era molto pericoloso, perché venivi coinvolto nel fatto e andavi a fare la fine di tanti altri, venivi massacrato anche tu. Perciò si cercava di sfuggire a queste azioni.

D: Ti ricordi se nel campo c’erano anche delle donne deportate?

R: C’erano moltissime donne. Oltre alla famiglia di questo Walter Pianegonda c’era Laura Conti e un’altra dottoressa della quale mi sfugge il nome, poi c’era anche una certa Cicci, che faceva da capogruppo alle donne, che era poi diventata la moglie di un certo Novello; un particolare curioso: c’era anche la moglie di Indro Montanelli. Con Indro Montanelli ebbi un fugace incontro subito dopo la guerra perché voleva sapere del comportamento di questa donna all’interno del campo. Io naturalmente dissi che il comportamento era stato veramente esemplare, come da parte di tutte le donne.

Poi c’erano famiglie di ebrei dentro, con dei bambini. Delle tre ragazzine di Schio, le Pianegonda, ricordo la più giovane Noemi, una bambina dalla treccia bionda, che alla mattina usciva per lavorare, e rientrando la sera passava davanti all’infermeria, cercava di offrirmi una banana di pane perché la popolazione delle case Semirurali alle colonne di lavoratori e lavoratrici davano qualche cosa da mangiare. E io dissi: “Hai la mamma e due sorelline dentro, dai a loro da mangiare”, e lei rispose: “No, la mamma mi ha detto di dare a te il pane”. E’ rimasto con questa famiglia un legame molto profondo, fraterno, di sincera amicizia; è un’amicizia indissolubile che non si può così materialmente concepire perché fra noi c’era un particolare legame, cioè il destino che ci accomunava tutti quanti, il destino della morte che ci si aspettava, attraverso i blocchi di eliminazione in Germania o attraverso quello che poteva accadere all’interno nel campo stesso.

Noi col triangolo rosso, politici e partigiani, eravamo i più perseguitati e presi di mira. Io riuscii a nascondermi più volte, ma altri furono picchiati, torturati, seviziati. Personalmente non ho assistito, non posso ricordare altri episodi.

D: Nel campo c’erano anche forme di solidarietà tra voi deportati?

R: Sì, c’era molta solidarietà, anche se fino ad un certo punto. La solidarietà consisteva nel conforto morale, spirituale, era un sollievo al nostro destino che tutti ci aspettavamo, quello di essere condannati da un momento all’altro, o attraverso i campi di concentramento e i blocchi di eliminazione in Germania o attraverso i forni crematori, di cui correva voce. Noi eravamo considerati i più pericolosi, i più esposti, pertanto la solidarietà per noi era guardarsi con un occhio quasi di compatimento e di sopportazione, no, non di sopportazione ma di incitamento e di conforto.

D: All’interno del campo i deportati cosa facevano?

R: Alcuni erano destinati, quelli che potevano, alla falegnameria; altri quelli che potevano uscire, uscivano alla mattina per andare a lavorare; le donne andavano a pulire le stanze dei militari fuori o gli alloggi. Alcuni andavano verso Gries, non so cosa facessero esattamente; non ricordo a distanza di tutto questo tempo, per me è difficile dover ricordare e rievocare questi episodi.

D: Sei rimasto nel campo di Bolzano fino a quando?

R: Sono rimasto dentro fino alla Liberazione. La Liberazione è avvenuta tramite l’intervento della Croce Rossa Internazionale in accordo con il Comitato di Liberazione Nazionale di Milano e di Bolzano.

Prima uscirono politici, ebrei, ed altri tipi di deportati, renitenti al lavoro, tedeschi disertori, tedeschi renitenti che rifiutavano di prestare servizio nella Wehrmacht. C’erano diversi tedeschi, specialmente della Val Passiria, tra i quali ho conosciuto anche il dottor Pitschiller, che cercava di aiutarci, era un deportato anche lui. Per primi uscirono tutti quelli che non avevano niente a che vedere con noi. Per ultimo uscimmo noi, ma correva voce che ci avrebbero eliminati, perché dalla torretta una mitragliatrice era puntata sul nostro gruppo. Uscendo camminavamo all’indietro, perché aspettavamo che ci falciassero, e invece riuscimmo ad uscire. Da lì cominciò poi il periodo della Liberazione.

D: Come ricordi  il giorno in cui vi hanno liberato?

R: Eravamo tutti increduli, sembrava di affacciarsi su un altro mondo, di fronte alla realtà che non conoscevamo più, che avevamo dimenticato. Vedere altra gente, vedere movimento … Fui ospitato da una famiglia delle semi rurali a consumare un pasto, ricordo che questo pasto fu molto abbandonante e stetti male per tre giorni, comunque ringrazio lo stesso. Si consigliava a tutti quanti di non mangiare tanto, i primi giorni, perché lo stomaco non era più abituato ad assorbire tanto cibo.Poi fui ospite per qualche giorno della famiglia Carlini a Gries, e poi trovai modo di sistemarmi in una stanza in piazza Walther; poi ci furono dei retroscena nel dopoguerra.

D: Quando sei stato deportato nel campo di Bolzano, tu o altri deportati, potevate ricevere posta dall’esterno, pacchi?

R: No, noi non potevamo ricevere niente. Dall’esterno arrivavano solo messaggi. C’era un contatto con l’esterno, che teneva soprattutto Laura Conti e l’altra donna di cui mi sfugge il nome, tramite ad esempio il CNL esterno, fra i quali c’era Franca Turra. Ci mandavano dei messaggi. Qualche cosa facevano avere ad altra gente, ma noi come politici e partigiani non potevamo ricevere niente; solo il blocco degli italoamericani potevano ricevere pacchi.

D: Potevate comunicare con l’esterno?

R: Noi non abbiamo mai avuto occasione di comunicare con l’esterno, almeno io personalmente, ma neanche altri. Tra i tanti, centinaia e centinaia, senz’altro qualcuno riusciva a comunicare e mandare delle lettere ai suoi familiari e conoscenti, che facevano pervenire attraverso i collegamenti clandestini con quelli che erano addetti all’esterno.

D: Quindi tu non hai mai potuto scrivere?

R: No, soltanto nel carcere di Trento l’ultima notte mi diedero la possibilità di scrivere; scrissi alla mia povera madre, feci quasi un testamento spirituale chiedendole perdono di tutte le sofferenze che le avrei potuto provocare e perdono per altre eventuali cose che la videro preoccupata; ha avuto una vita abbastanza avventurosa e tormentata, perciò scrissi alla mia povera mamma, a cui confidavo tutto quello che potevo, aiutandola  a sopportare e lenire queste sofferenze; questa lettera mi risulta che non sia mai pervenuta a casa mia.

D: Ritorniamo indietro, a prima del tuo arresto. Facevi parte di una formazione partigiana?

R: Sì, era il battaglione Fabio Filzi. Per risalire alle origini, io ebbi contatti a Bolzano con il povero Pedrotti, per primo con il povero Marco Zadra, il quale mi mise in contatto con Pedrotti e Pedrotti mi mandò a Trento a prendere contatti col povero Manci. Trento mi mandò con altri compagni, che eravamo già riusciti a mettere insieme, in Val di Fiemme a Cavalese, per prendere contatti con Ariele Marangoni. Ma quando mi presentai, la mia prima funzione fu quella di commissario politico, poi quella di comandante di formazione. Quando presi contatto con la famiglia Marangoni si affacciò alla porta una signora piangente, disse: “Ma ragazzi, cosa cercate?” “Cerchiamo suo figlio” “Mio figlio è scappato, ma scappate anche voi perché ieri c’è stato un rastrellamento nella valle adiacente a Cavalese”. C’era stato un rastrellamento in cui rimasero feriti diversi partigiani della Val di Fiemme. Noi allora a piedi scendemmo giù attraverso la Val Floriana verso Trento a riprendere contatti con il povero Manci, da cui fui ospite, e che poi ci destinò come formazione in Val di Non. In Val di Non cambiammo più volte posizione perché eravamo continuamente segnalati e dovevamo sfuggire ai rastrellamenti. Siamo riusciti a sfuggirvi per ben 3 / 4 volte; c’erano sempre delle spie in giro che segnalavano ai tedeschi le nostre posizioni. Anche nella nostra formazione si era inserita una spia, che scappava di notte, andava ad informare sulla nostra posizione; poi quale spia fu condannata a morte.

D: La vostra zona di operazione come partigiani era la Val di Non?

R: Per prima era la Val di Non, poi i Crozi Carlini sopra il Lago di Pinè, poi la Val di Cembra. Dopo aver fatto alcuni atti di sabotaggio alla ferrovia del Brennero, scendemmo dalla Val di Non, ma non potemmo più risalirla, perché i tedeschi ci stavano alle costole; allora scendemmo verso Mezzocorona, bloccammo con le armi alla mano il trenino che proveniva dalla Val di Non e scendemmo a Lavis. Da lì entrammo in Val di Cembra. Al nostro passaggio, ricordo specialmente il paese di Albiano, si chiudevano tutte le finestre. Dalla Val di Cembra salimmo fin sopra a Baselga di Pinè e Miola e ci attendammo sui Crozi Carlini. Avevamo poche tende, si dormiva all’aperto, si mangiava quello che si poteva, e spesso soffrivamo la fame, soprattutto la fame. Qualche volta andavamo nelle malghe e lasciavamo dei buoni di sequestro per prendere qualche pezzo di formaggio e qualche pezzo di burro; erano contenti, tutti ci aiutavano, e c’è stata molta solidarietà da parte dei malgari e dei contadini, che cercavano di aiutarci in ogni modo. Da lì ci trasferimmo, appunto, in Val di Fiemme, per compiere questa azione contro il presidio nazifascista. Avevamo altri compiti per il dopo, cioè quello di spostarci verso il Veneto, ma tutto fu troncato con la mia cattura: la formazione si sciolse, qualcuno entrò a far parte delle formazioni venete, qualcun altro entrò nella missione speciale che è stata paracadutata dagli alleati, che operavano con delle ricetrasmittenti; insomma la nostra formazione fu quasi sciolta, altri si sbandarono e entrarono a far parte di altri gruppi.

D: Del campo di concentramento ti è rimasto qualche documento? Accennavi al triangolo.

R: Sì, il triangolo rosso con il relativo numero di matricola. Inoltre ho anche il foglio di rilascio della liberazione dal campo di concentramento. Questo è il fazzoletto dei deportati politici con sopra il numero originale di matricola del campo di concentramento del Lager di Bolzano.

D: Quello era il tuo numero?

R: Questo era il mio numero.

D: E dove lo avevate questo numero?

R: Appuntato al petto; poi l’ho attaccato sul fazzoletto.

D: All’appello ti chiamavano per numero?

R: Per numero sì, si doveva rispondere col numero.

D: Vi chiamavano in tedesco?

R: Eh sì, ci chiamavano in tedesco.

D: E chi non capiva?

R: Doveva capire per forza, c’era qualcuno che parlava anche mezzo italiano fra i tedeschi, c’era qualche elemento che conosceva anche l’italiano.

D: Accennavi alla motivazione della medaglia.

R: La motivazione della medaglia d’argento fu di aver resistito alle torture, alle sevizie del carcere prima e del campo di concentramento poi, di non aver parlato, di non aver fatto nessun nome, nessun accenno; ho sempre resistito, ho fatto sempre scena muta, a costo di rimetterci la pelle perché preferivo che mi ammazzassero, nelle condizioni in cui ero. Tant’è che in cella, quando mi capitò quello delle SS, chiesi: “Se avete da fucilarmi, fucilatemi” “Non ti preoccupare – disse questo maggiore … di Merano – le tue gambe stanno facendo cancrena”. Allora mi diede quattro scudisciate, io gli sputai in un occhio; mi diedero tante di quelle scudisciate che svenni. Secondo loro sarei dovuto morire per le ferite che non erano mai state curate, di cui porto tuttora le tracce; porto tuttora nel corpo e nelle ossa schegge della bomba a mano che si sono ossificate o incarnite.

D: Quelle medaglie le porti sempre con te, Avio?

R: Quando ci sono le celebrazioni del 25 aprile.

D: Altri documenti non ne sono rimasti del campo?

R: Sì, li ho lì nascosti.

D: La dottoressa a cui accennavi era forse Ada Buffulini?

R: Buffulini, sì, Laura Conti e Buffulini, proprio lei.

D: Era lei che ti ha aiutato?

R: Sì. Ecco qui la motivazione della medaglia d’argento.

D: Cos’è che hai in mano adesso?

R: Un notes, ecco qui: “Comitato di Liberazione Nazionale, campo di concentramento Bolzano, il signor Emer Luigi, matricola 9860 è un ex detenuto politico proveniente dal campo di concentramento di Bolzano; egli merita perciò l’aiuto di tutte le autorità civili e militari e di tutti i cittadini dell’Italia liberata, riconoscimento ecc. ecc. Il possessore di questa tessera deve essere subito munito del documento di scarcerazione”, che ho qua. Questo è un santino che conservo ancora del campo di concentramento, distribuito in occasione della Pasqua 1945, con sopra i nomi di altri deportati, c’è anche un tedesco.

D: Chi te lo ha dato, ti ricordi?

R: Il santino me lo ha dato il prete, quando è venuto a celebrare la Pasqua.

D: All’interno del campo?

R: All’interno del campo, e sopra vi sono le firme di alcuni detenuti politici.

D: Quel notes lì l’avevi tu nel campo?

R: Sì, me lo avevano dato nel campo quelli che lavoravano alla tipografia. Qua c’è il nome del dottor Leoni, del colonnello Andreani, poi c’era Padre Ghino Andreani, direzione generale società Ilva di Genova. Qui ci sono le monete che sono riuscito a recuperare all’uscita del campo di concentramento, alcune monete da 10, 50 e 100 lire, che erano di carta.

Questa era una tessera della cellula clandestina del partito comunista del campo di concentramento. Qui ci sono il dottor Leoni, il Colonnello Andreani, Ada Buffulini, il professor Baroncini Ciro di Verona, Brunner Giuseppe da Corvara, Rabenstein Moser di Passiria, il dottor Antonio Dalle Mule da Belluno, l’avvocato Ducci Luigi di La Spezia, Deria Cesare da Torino, tutti con i rispettivi numeri di matricola, Dossi Giovanni via Tasso Bergamo, il professor Virgilio Ferrari senatore in Garbagnate Milano, il dottor Franco Ferrazzi da Castelfranco Veneto Treviso, Polivotto Carlo Perearolo di Pieve di Cadore, Pisciotta Frank. Questo Pisciotta Frank era un italo-americano, era dottore, catturato con gli americani, nel Lager fungeva da dottore, Zuliani Bianca da Longarone, Zusso Mario di Milano, Sardi Alberto da Asti, Bonifaci Beppi da Valdastico, è quello che mi ha fatto avere le stampelle, lavorava in falegnameria; poi c’è l’avvocato Ferrandi Giuseppe, il dottor Lubic Gino, quelli che erano all’ospedale, l’avvocato Steiner Massimiliano di Lana.

E devo aggiungere un particolare: dopo che mi hanno portato via dall’ospedale con il povero Francesco Rella, il procuratore del Tribunale Speciale, persona degnissima, per quanto fosse compito condannare in base alle leggi che vigevano allora, commutò la mia pena di morte nell’ergastolo. Trasferì questi altri detenuti politici, fra i quali Ferrandi, Lubic, Steiner, un certo Tosi Giorgio da Riva e il professor Doglioni da Belluno, nelle carceri mandamentali della provincia, dove la vigilanza era esercitata soltanto dalla Wehrmacht, per sottrarli alle eventuali vendette della SS o della Gestapo.

Hudson Giorgio di Genova, Calter Antonio di Vicenza; insomma qua ci sono vari indirizzi. Ecco qua … Montanelli Margarita si chiamava, era di origine austriaca lei. E poi Tomba Antonietta da Riva del Garda, Di Giovanni Renzo da Predazzo, non li guardo mai, Pianegonda da Valli Sant’Antonio, è quella di cui parlavo prima; questa è di Vicenza, Antonella, Bianconi Valentino di Vittorio Veneto, Roncoletta Giuseppe era impiegato alla Cassa di Risparmio di Belluno. Poi c’era dentro un tale Fabbro Rinaldo, Dino del Bo di Milano, il dottor Ribotto Lionello di Garbagnate Milano matricola 9664, Massetti Piero da Milano, Segno da Torino, Lubic Luigi, il dottor Luigi. Il conte Tonetti di Roma, lo ricordo, Marianna Scola di Torino. Luciana Feratro di Roma.

Poi basta, mi ero stufato di scrivere a penna i nomi.

Addomine Renato

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io sono di Feltre, la mia famiglia è di Feltre da generazioni e generazioni. La caratteristica di Feltre, essendo provincia di Belluno, storicamente è sempre stata la bella stagione di Goldoni, il retroterra dell’estate per i veneziani, come educazione, come tutto. A un bel momento mi trovo senza sapere perché nella situazione della Seconda Guerra Mondiale, la capitolazione e tutte queste cose. Nelle tre province, sia di Trento che di Bolzano che di Belluno, ci sono dei villaggi e delle zone in cui si parla tedesco, basti pensare a Cima Sappada, su nell’alta provincia di Belluno, tanto quanto Trento. Caduto il fascismo, si è formato il fascio repubblicano anche a Feltre, un po’ dappertutto. A un bel momento sono venuti i…

Noi chiamiamo tedeschi nel senso generale tutto ciò che è aldilà del Brennero, non andiamo mica tanto per il sottile. Quello che noi chiamiamo tedesco non distinguiamo se è prussiano, se è di altre parti. Sono venuti i tedeschi, ci hanno occupati. A un bel momento hanno dato ventiquattro ore di tempo perché i fascisti abbandonino le tre province di Trento, Bolzano e Belluno, cosa che non tutti sanno. Questi signori hanno fatto le consegne di tutta la loro situazione politica delle varie famiglie, di chi era e di chi non era, consegnati ai tedeschi e sono andati via.

I fascisti sono stati mandati via. Non era più questione di fascisti o non fascisti, era soltanto l’ennesima occupazione che noi avevamo, cosa che non abbiamo mai fatto noi. C’era una piccola storia piuttosto interessante che ricordo, che mio padre quand’era ragazzino, parliamo dell’ottocento ancora, sentiva da mio nonno una frase di cui non ho mai saputo chi sia l’autore, probabilmente qualcuno lo saprà. Mio nonno diceva: “E poiché gli Alemanni in casa avete, serviteli bene e fatevi mostrare le spade loro con che vi hanno fesso i visi e padri e figli uccisi”.

Mio papà diceva: “Ma no, ormai sono finiti quei tempi”. Si è beccato tutta la Prima Guerra Mondiale, sette anni di servizio militare, Feltre è stata invasa per l’ennesima volta. Mio padre quando è successo che siamo entrati in guerra nella Seconda Guerra mi ripeteva questa frase: “E poiché gli Alemanni…”. E io dicevo: “Ma papà, dai che sono cambiati i tempi”. Per l’ennesima volta è successa la stessa cosa.

Quindi nel sangue noi non è tanto con le persone, io ho degli amici tedeschi singoli. Addirittura c’era un ufficiale delle SS, lui viveva in America, che eravamo amici intimi, però lui sapeva e io gli dicevo: “Guarda che se tu metti la divisa, tu mi fai fuori”. E lui mi diceva: “Cosa vuoi che ti dica? Così è”. Per dire l’abisso mentale che c’è, questa è quindi la cattiva disposizione.

D: Addomine, Lei dice che i fascisti sono andati via…

R: Sono stati mandati via. Tanta gente non lo sa.

D: Quando è avvenuto questo?

R: Glielo dico subito, forse non esattamente, verso l’agosto, settembre del 1944.

D: 1944?

R: 1944. Sono stati mandati via. E cosa che non tanti sanno, il capo un po’ dei fascisti repubblichini che era quello che faceva arrestare e consegnavano ai tedeschi il Tizio, Caio e Sempronio, perché venivano consegnati soprattutto da questi, a un bel momento sono stati mandati via. Però hanno lasciato tutto un dossier di dichiarazioni. Aspetti, ho detto agosto? No, il 19 giugno c’è stata una grande retata a Feltre, quindi ai primi di giugno sono stati mandati via con l’occasione di quella retata.

D: Voi quanti anni avevate allora?

R: Io ho compiuto vent’anni in campo di concentramento, perché sono del 1924, quindi avevo diciannove anni. Mio fratello ne aveva sedici, quindici e mezzo, sedici e due sorelle maggiori, perché siamo stati deportati in quattro. Io mi ero appena diplomato a Vicenza e a Feltre c’era la direzione della costruzione della diga del Trabignolo su in Val di Fiemme.

Io lavoravo dentro in quest’impresa svizzera. Circolavo coi documenti Schuetzbetrieb, cioè stabilimento protetto e venivo anche a Milano ai collaudi delle turbine, delle centrali allora sotto i tedeschi, sempre con questi documenti. Quando c’è stato il grande rastrellamento, i documenti stracciati, buttato via tutto, portato via tutto quello che avevamo addosso.

D: Voi siete stato fermato in un rastrellamento?

R: No, al mattino alla cinque tutta Feltre è stata occupata da un’azione militare e hanno portato via duemila e tante persone su una cittadina come Feltre. duemila circa concentrate tutte in uno stabilimento e mandate poi alla Todt, a lavorare alla Todt. Centodiciassette selezionati, fra i quali io, un fratello e due sorelle tirati fuori. Questi centodiciassette, ci hanno portati tutti su un teatro, chiusi dentro senza mangiare né niente né bere là, sulle sedie di questo teatro. Il giorno dopo sono andati su sul palco, tutte le porte picchettate.

In questo non c’entrano né fascisti né niente, perché ormai erano stati mandati via. Avanti una famiglia. Questa famiglia, nome? Avevano tutti i foglietti consegnati dai fascisti. Posso dire che quando è toccato a me, eravamo io, mio padre, mia sorella, altre due sorelle e un fratello, sei persone, quando siamo arrivati: famiglia Addomine. Allora uno fa con la mano così, metà da una parte e metà dall’altra. Un gruppo concentrato così, dov’è la metà?

Un po’ qua, un po’ là. Hanno fatto così e ci hanno sbattuti quattro da una parte e due dall’altra senza stare là a contare. Poi questi qua fucilati e gli altri no non si sa niente, là il momento era così, perché fuori intanto avevano fatto l’ira di Dio, avevano impiccato delle persone. Ci siamo trovati in quattro e gli altri mandati via.

D: Le volevo chiedere: che giorno era questo?

R: Questo era il 3 ottobre 1944. Ci hanno separati in questa maniera, né mangiare né niente, privati di tutto quello che avevamo addosso, portati via ori, anelli, orologi, tutto, spogliati di tutto, messo dentro tutto in un sacco, portato via tutto. Al mattino presto chi poteva dormire là tra un seggiolino e l’altro di un cinema? Ci sono dei camion fuori, si sente che sparano, l’ira di Dio.

Veniamo fuori, incolonnati e messi su dei camion. Attraversando tutto il centro di Feltre tutta la gente che piangeva, noi ci sentivamo che è finita, volavano dalle finestre le coperte per cercare di ripararci. C’è stato quel senso che senza guardare in faccia chi fosse bisognava aiutare questa povera gente. Col camion dove andiamo?

Erano cinque o sei camion, eravamo stretti come sardine. Un piccolo particolare: quelli che hanno mandato via, sono tornati a casa e quelli che siamo rimasti, siamo stati in centodiciassette, cento uomini e diciassette donne. Questi che poi siamo stati deportati.

D: E la Vostra famiglia era?

R: Io, due sorelle e un fratello, quattro. Invece che fare tre e tre, che siamo rimasti lì hanno fatto quattro e due. Poteva essere.. Non lo sapevo se così o così, che andavano a casa. Il babbo e una sorella a casa. Quattro ci siamo trovati così. Con questi camion coperti di teloni cercando di guardare fuori abbiamo passato Primolano, siamo arrivati a Grigno. Hanno fermato i camion, dentro in una scuola. Scendere tutti, ci hanno fatto dormire dentro nelle scuole elementari di Grigno, un paesetto per andare in Valsugana, per andare a Trento.

Al mattino presto: “Su, Aussen, tutti su, tutti in piedi, tutti allineati contro il muro”. Dico: “E’ finita qua”. Altra volta, qua adesso ci hanno messi al muro. Invece no, ci hanno tenuti là fermi finché arrivava sulla ferrovia della Valsugana un treno merci che si è fermato non in stazione e ci hanno fatto montare su, su dei vagoni come bestie. Bombardavano la linea del Brennero allora. Siamo arrivati alla sera del 5 ottobre a Bolzano. Guardano fuori, chi conosceva: “Sì, siamo a Bolzano”. Poi a un bel momento davanti a un grande cancello eravamo all’entrata del campo di Gries a Bolzano.

D: Siete arrivati in treno a Bolzano dove?

R: Alla stazione di Bolzano.

D: Alla stazione.

R: Alla stazione ci hanno fatto scendere, caricato con dei camion ancora e portati davanti al portone del campo. Guardando fuori ho visto reticolati, mi sa tanto di campo di concentramento, ma noi non sapevamo dove eravamo, dove andavamo.

D: Lì cos’è successo?

R: Lì ci hanno fatto entrare, tutti fermi. Vedo certa gente, tutti con una tuta addosso, pelati a zero. Era pomeriggio e ci mettono dentro divisi in baracche. C’erano baracche con castelli di tre piani di legno, pagliericcio per modo di dire, era una specie di coperta straccia e segature. In questo grande capannone, uno dei due o tre, ci siamo tirati su e vedevamo questi qua che venivano su al buio come anime morte e noi: “Dove siamo?”. “Siete in campo. Siamo destinati ad andare tutti in Germania”; le prime informazioni che correvano.

Al mattino giù tutti, hanno diviso le femmine da una parte, gli uomini dall’altra, spogliati, un grande getto con la manichetta per fare la doccia davanti al cortile con la manichetta dei pompieri. I cani addestrati che ci mordevano se uno si curvava, anche questa è una cosa nota, cosa che è molto bella. Il nervo di bue è l’unica cosa, a frustate, ci hanno dato una tuta che erano le tute di fatica, allora, quella che ho avuto io, dell’aviazione nostra, quelle tute bianco grezzo. Quella mi ha accompagnato. Spogliato di tutto il resto, solo la tuta.

Hanno fatto il primo discorsetto: “Da questo momento siete sotto il controllo del vostro capo campo”, che era un certo Maltagliati, fratello della Evi Maltagliati attrice. In gamba, perché con un assembramento di gente così eterogenea se non c’è un capo succede l’ira di Dio, perché le donne, gli uomini erano dagli avanzi di galera Il professor Ferrari, primo Sindaco di Milano del dopoguerra dormiva vicino a me. Mi ricordo, una mattina mi sono svegliato, avevo un mal di gola tremendo, avevamo il terrore di cose del genere perché non c’erano condizioni igieniche.

Mi fa: “Dopo ti guardo io”. “Ma te ne intendi un po’?” mi ha detto lui, mi ha guardato… “No, no, è un angina semplicemente”. Dico: “Ma chi sei tu?”. “Sono Ferrari di Milano”, poi è diventato il primo Sindaco del dopoguerra di Milano, professor Ferrari.

Mi ha guardato in gola, era anche lui con la tuta come me, con gli zoccoli, eravamo tutti uguali, tutti “Banditen”, eravamo banditi e basta.

D: Lei ha subito un interrogatorio?

R: No.

D: Niente?

R: Una cosa posso dire, c’è una storia pregressa. Nessun interrogatorio perché era già tutto predisposto e deciso, era la lezione che dovevano dare a Feltre. Perché con l’occupazione delle tre province a un bel momento i giovani di leva, come ero io, come altri, io ero iscritto al corso ufficiale di stato maggiore di Marina, perché avevo fatto radiotecnica come specialità, ma che poi è finita la guerra l’8 settembre

Ci avevano dato la possibilità di scegliere, scegliere volontari delle SS o delle SD, di vestire in ogni caso la divisa tedesca. Un bel mattino corre la voce che sono arrivati giù i partigiani e hanno portato via tutto… Certo, non hanno potuto fare la chiamata ufficialmente e questa è stata la grande lezione che ci hanno dato. Duemila portati a lavorare in fortificazioni alla Tod e centodiciassette deportati, che eravamo destinati all’eliminazione. Come siamo entrati in campo di concentramento ci hanno dato un triangolo rosa, che vuol dire rastrellato.

I triangoli erano il giallo, ebrei, rosa, rastrellati, rosso, politico pericoloso e azzurro che era qualche inglese, qualche svedese, straniero ma non militare, senza significato politico. Questi erano i triangoli. La cosa è durata poco, perché a un bel momento hanno cominciato a fare le prime partenze, a mandare via qualcuno di noi, poi non è tornato nessuno. Sono andati in Germania, il campo di Bolzano era un campo di smistamento, era un Durchgangslager, un campo di attraversamento. Sotto SS, soltanto controllato da SS.

Noi non potevamo neanche salutare qualcuno della Wermacht. In pieno inverno ci avevano dato una specie di berretto fatto con un pezzo di coperta, a passare davanti a uno della SS bisognava tirare giù il berretto e stare fermi, fermi, fermi finché c’era il consenso di proseguire. Al mattino era una beffa. Alle cinque del mattino, sei, che era notte, quando ci facevano l’adunata, ci contavano tutti. Davanti ad ogni blocco c’era il capo blocco, ci contavano e allora uno diceva: “Siamo in tanti più tre che sono magari morti dentro”.

Dovevano quadrare i conti, sennò là era fame, botte, acqua mai vista, fuoco: chi ha mai visto il fuoco? Sa cosa vuol dire? Passare un inverno, lavorare, poi le squadre. O portavi i feriti che scaricavano dai treni all’ospedale di Bolzano, c’erano degli ospedali, mi ricordo, grandissimi che ricoveravano i feriti che venivano dal fronte, e li portavamo con le barelle su. O a cavare granito.

D: Ma fuori dal campo?

R: Sì, sì, fuori dal campo. Al mattino c’era un certo numero di squadre che uscivano. Andavamo a Gries, andavamo a Appiano, andavamo di qua e di là a fare qualunque lavoro, pulire tutti gli ospedali. In ogni caso la cosa più frequente era cavare pietre in cava.

D: In cava?

R: Sì, le cave di granito, ci sono su, di porfido.

D: E dove, si ricorda?

R: Esattamente no. Sa che non mi ricordo esattamente? Poi c’era un distaccamento a Merano, aspetti. C’era un distaccamento del campo di Bolzano a Merano perché tutta la roba che portavano su con l’avanzata degli alleati dall’Italia veniva messa dentro, i vari castelli della Val Venosta, tutti i castelli che ci sono là. Io mi ricordo una volta un certo maresciallo Kek, allora io avevo studiato tedesco, tedesco e francese, l’inglese era proibito ai miei tempi, io avevo studiato tedesco e allora ero comodo, qualche volta potevano rivolgermi la parola per certe cose.

Una volta chiedevano uno Spezialist Tecknik degli orologi, dico: “Se si tratta di mangiare un pezzo di pane in più, mi intendo anche di orologi”. Avevano migliaia di orologi che avevano sequestrato, allora li avevo tutti classificati, mi ero fatto gli attrezzi, quelli che lavoravano come forgiatori mi avevano fatto le pinzette, degli amici dentro. Tanto per darLe un’idea, ero diventato uno Spezialist, mi era comodo in un certo senso. Ecco perché dico se vado a Merano non c’è l’aria di Bolzano, Merano è un altro clima d’inverno di Bolzano, a Merano si sta molto meglio come temperatura.

Là a Merano qualche grado di più voleva dire tanto per sopravvivere, veramente. Là mi ricordo siamo entrati in un castello accompagnati da un signore con questi della SS sempre, perché c’erano dei quadri. Eravamo io, un certo dottore, che è morto adesso, Nino Paoletti, Bepi D’Antoni che era direttore, è stato direttore della Dalmine Acciai Speciali, che era prigioniero anche lui con me. Avevamo una certa cultura, per chiederci se potevamo classificare in ordine di valore un certo numero di tele.

Erano tele che credo fossero state portate su da Bologna, Modena, non so dove, ma delle tele meravigliose. Allora noi mettevamo a seconda dell’ordine d’importanza, classificate così. E’ venuto dentro un signore che parlava tedesco perfettamente e mi ha chiamato in disparte. Mi ha detto: “Come vi trattano qua?”. Come si fa a dire a uno che me lo porta la SS che mi trattano male? Per prenderle? Ho detto: “Così”. “Abbi pazienza, ci vedremo presto”.

Ed era quello stesso signore, era il rappresentante della Croce Rossa Internazionale, svizzero di Merano che è venuto dentro lui a portarci il foglio di scarcerazione. Questo che era un esperto di pittura, d’antichità, che viveva a Merano, che è venuto dentro con la scusa dei quadri per fare la valutazione di queste tele che avevano portato via, a Castello… Non mi ricordo più quale, li conoscevo tutti.

D: Ma in città o fuori città?

R: Fuori città. A Merano eravamo alla caserma di Maiabassa, prigionieri. Però eravamo sempre fuori. Per cui ho visto dei capolavori passare via, cosa ci potevo fare? Questo signore che avevano invitato per fare la stima in franchi svizzeri, l’aveva fatta lui la stima di questi quadri, è stato quel tale che è venuto dentro ufficialmente. Al 30 aprile è finita e sono arrivati gli americani.

Al 2 o 3 maggio eravamo ancora prigionieri dentro e non si sapeva cosa succedeva, è capitato dentro accompagnato dagli ufficiali con i fogli di scarcerazione di tutti noi. Per cui tutte le cose impensate, chi lo sa. Questa è un po’ la mia strana storia. Posso dire una cosa, però. Quella notte, dopo che ci hanno lasciati dentro, chiusi dentro quei centodiciassette, mi sono arrampicato su sul palcoscenico dove avevano le loro scrivanie, eravamo in due o tre, a raccogliere i bigliettini che avevano stracciato, dove avevano preso gli appunti.

Nel caso mio, cosa straordinaria, mi è capitato proprio “famiglia Addomine, composta di sei elementi, favoreggiatori e collaboratori di banditi”. Questa era la mia accusa. “Dichiarazione Recalchi”. Storia premessa: mio padre aveva uno studio fotografico, questo Recalchi era venuto su perché parente di un certo Rovali da Ferrara, io non ero neanche nato allora. Aveva uno studio fotografico, in un certo senso c’era la concorrenza professionale. I ricordi più lontani della mia infanzia, quindi parliamo del 1926, 1927, ho visto mio padre piangere perché il Recalchi aveva mandato i figli che erano tutti fascisti, mio padre invece non era fascista, era socialista, a spaccare tutti i vetri delle finestre di casa nostra.

Non potevamo fare niente, perché mio padre era socialista e quegli altri erano fascisti. Questi naturalmente erano tutti fascisti, tant’è vero che uno di questi Recalchi sono andati a prelevarlo in prigione e l’hanno fatto fuori, perché ha fatto quella cosa orribile. Una cosa strana che succede: la guerra finisce, sono venuti su con dei camion da Feltre a portarci giù, noi sopravvissuti. Arriviamo giù e ormai eravamo ai primi di maggio. Mi dicono che mio padre è impazzito, dico: “Perché?”. “Pensa che avevano preso Recalchi e messo su in una nicchia che c’è nella porta imperiale a Feltre per fucilarlo, mio padre gli ha fatto scudo e ha detto: “Questo mai”.

Pur essendo lui che ci ha deportati, ci ha fatto deportare lui e la sua famiglia, ha detto: “Ci sarà una giustizia, non facciamo queste cose”. Questo è un ricordo meraviglioso che ho di mio padre. Lei non sa niente perché ci siamo conosciuti e sposati in America con lei, poi era di Rovereto, però soltanto sentito dire. Però testimonio che quando mio padre è morto, vent’anni fa, io da Milano sono andato a Feltre naturalmente perché c’era il funerale di mio padre e vedo uno lontano, ricordo, dico: “Quello è Recalchi”.

Un figlio, il più giovane di questa famiglia era venuto con il motorino da La Spezia a Feltre per rendere scusa e omaggio alla tomba di mio padre. Guardi se non è un po’ un dramma impressionante. Questa è la mia storia. Eccola qua. Io non sono un eroe, non ho meriti particolari, ringrazio il Padre Eterno che mi ha fatto uscire in qualche maniera ed essere qui a raccontare, non posso neanche dire “Io sono un eroe”. No.

D: Una cosa, quando eravate lì a Merano a Maiabassa nella caserma, Vi ricordate la caserma qual’era? Era vicino a una stazione, a un albergo?

R: La caserma me la ricordo sì. Dunque, c’era la strada, uscivo qualche volta che mi facevano tirare fuori i cavalli. Fra me e i cavalli… Con il carretto… Una volta mi è scappato il cavallo, anzi no, ho preso il cavallo. La cavalla, la chiamavano la Fittoria… Questa ha aperto la porta, ha preso la corsa, le si sono fermate le stanghe e io sono volato fuori… Un disastro, fra me e i cavalli proprio non… Si costeggiava un fiume. Comunque la caserma di Maiabassa per me era notissima.

R: Addirittura a Feltre devo avere una delle fotografie del grande cortile interno, perché c’era un grande cortile interno.

D: Della caserma?

R: Sì. Proprio fatte il giorno che ci avevano liberati, devo avere una o due fotografie con le mie sorelle. Poi il triangolo me l’hanno cambiato in rosso. Senza sapere perché, non era più rosa, sono diventato rosso, politico pericoloso, ma non so perché.

D: Una cosa, oltre al triangolo Le hanno dato anche un numero?

R: 4.972.

D: Le Sue due sorelle erano con voi a Maiabassa?

R: Sì.

D: Anche loro?

R: Anche loro.

D: Ma qui non avete però la tuta bianca?

R: No, quella era a Bolzano, questo è Merano. Quella è la foto che si deve vedere il cortile, mi pare, è il cortile della caserma di Maiabassa quello là.

D: Allora, rimaniamo un attimo a Bolzano.

R: Sì.

D: Allora, Vi hanno dato il numero, la tuta e il triangolo.

R: Sì.

D: Poi il capo campo vi ha fatto il discorso.

R: Ha fatto il discorsetto il capo campo che si chiamava Maltagliati, che poi è stato sostituito da altri che adesso mi sfugge il nome, ma a cui posso risalire.

D: In che baracca Vi hanno messo?

R: Io sono entrato nella H.

D: Nella H?

R: Sì.

D: Vi ricordate il capo blocco chi era?

R: Sì, Musi, tenente dei carabinieri.

D: Qualche altro Vostro compagno Ve lo ricordate, oltre al professor Ferrari?

R: Compagni?

D: Dentro in baracca.

R: Dentro in baracca? Giuseppe D’Antoni… Ah no, questo poi era a Merano, poi ci siamo trovati là. E’ un gruppo diverso. Tutto il gruppo di Feltre, me li ricordo… Ci deve essere qualche elenco…

D: Se Le viene in mente qualche nome così.

R: Perbacco, il dottor Nino Paoletti, Antonio Paoletti che era il mio vicino di casa.

D: Vostro fratello era con voi?

R: Sì.

D: Invece le Vostre sorelle dove le hanno messe?

R: Nel blocco a fianco, che era delle donne.

D: Vi ricordate se avete visto che dentro nel campo c’erano anche dei sacerdoti?

R: Sì.

D: Lì avete visti?

R: Sì, perché il giorno di Natale a un bel momento uno di questi prigionieri si è messo su uno straccio sopra, ha fatto la messa per tutti, ha dato un pezzettino di pane secco, ha detto: “Questo è il simbolo…”, senza confessione né niente, “fate la comunione tutti perché qui è finita”.

D: Il nome non Ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo.

D: Ma era un feltrino?

R: No, non era un feltrino perché li conoscevo.

D: La messa di Natale.

R: La messa di Natale. Non ricordo chi fosse. Ha detto: “Questa è la confessione generale a tutti, perché avete pagato tutte le vostre colpe”, senza confessione né niente, un pezzo di pane che sia simbolo della comunione.

D: Vi ricordate i capi invece tedeschi?

R: Sì.

D: Questi nomi Vi ricordano qualcosa?

R: Haage, il maresciallo Haage, il tenente Thito, che quando veniva fuori lui era perché c’erano delle spedizioni, organizzava le spedizioni, le partenze, Thito poi il maresciallo Kek.

D: A Bolzano questo maresciallo?

R: No, Kek era a Merano, invece Haage e Thito erano a Bolzano. Ricordo benissimo che c’erano due o tre ucraini che erano i capi celle che pestavano la gente, poi li impiccavano con le mani sul palo così, sollevati da terra a morire dal freddo.

D: Nel campo?

R: Nel campo. Alla mattina si usciva e si vedeva sul palo uno là e non si poteva toccare, stava morendo servito da questi signori ucraini.

D: Lei a Bolzano quanto tempo è rimasto prima di partire per Merano?

R: Tre mesi e mezzo, quattro mesi.

D: Quindi ha visto numerose partenze?

R: Altroché.

D: Quegli ucraini, Ve li ricordate i nomi degli ucraini?

R: No, però in uno dei libri che ho ricevuto, ho letto, ho trovato, non so che, ci sono.

D: Otto e Lischa?

R: Esatto.

D: Vi ricordate se c’era anche una donna?

R: Sì. Era la iena, era tremenda, la chiamavano “la iena”. C’era questa donna, sì.

D: Una cosa, il campo aveva un muro di recinzione?

R: Sì.

D: Sopra il muro c’era del filo elettrificato, del filo spinato?

R: Filo spinato tutto attorno, elettrificato lo ritenevamo, ma non lo sapevamo. C’erano però ogni tot metri delle torrette con le guardie armate.

D: Delle garitte quindi?

R: Delle garitte proprio sopra il muro.

D: Senta, l’appello come avveniva?

R: Mai fatto appello. Noi dal momento che si entrava, che ci hanno dato il numero, il nostro nome era sparito, soltanto il numero, eravamo solo il numero.

D: Ma alla mattina non vi chiamavano fuori dalle baracche?

R: Certo, tutti in fila e ci contavano, ogni blocco. Questo ne ha centoventicinque, centoventitre, allora il Kapò del blocco veniva avanti, due sono morti dentro, oppure non so, uno è moribondo. Il papà di Gianfranco Grabuio per esempio una volta era pronto per la spedizione, portato via, hanno detto: “E’ morto, lascialo qua”, invece poi è sopravvissuto. Il papà di Gianfranco Grabuio era…

D: A proposito di morti, diceva prima di violenze. Quindi Voi avete assistito a delle violenze?

R: Io ad esempio, siccome lavarsi niente, avevo un’infezione di barba tremenda, siccome non c’era barbiere, altro che per tagliare i capelli con la forbice, i capelli a zero, un’infezione di barba tremenda, mi ricordo. Un mattino col freddo passo via e il maresciallo Kek mi chiama, grida, mi giro, fermo, duro, siccome non ho tirato giù il berretto sperando che non mi vedesse mi ha dato delle nervate in viso.

Avendo tutte le croste dell’infezione di barba sono entrato in blocco che ero tutto sanguinante, sembrava chissà che, però era superficiale, perché erano croste. A vedere i miei compagni che piangevano mi è venuto un male al collo, loro piangevano e per me e io dicevo: “Va beh, insomma, mi ha dato delle nervate”.

Non mi ero visto allo specchio che avevo tutto il sangue dell’infezione di barba. Così si viveva, in queste condizioni. Col terrore. Poi i cani poliziotti sempre addestrati, sguinzagliavano i cani con l’istruzione precisa di saltare addosso se uno si muoveva fuori dalla riga, mordevano. Anche questa era una cosa piuttosto antipatica.

D: Nel periodo che Voi siete rimasto a Bolzano uscivate a lavorare, costituivano delle squadre di lavoro?

R: Sissignore.

D: Quindi uscivate dal campo?

R: Si usciva dal campo comandati da un plotone tedesco, sempre accompagnati da un plotone armato e ci portavano, non so, ad un ospedale o in cava o a scaricare vagoni.

Oh, una cosa che mi sono dimenticato, molto carina anche quella, con i bombardamenti che c’erano nel Brennero le varie stazioni, tutti i vari binari venivano smantellati per ricostruire le linee su cui poter passare. Quella di cavare su rotaie era una cosa spaventosa.

D: Quindi vi mandavano a lavorare sulle massicciate anche?

R: Certo, anche molto grazioso era scaricare le bombe inesplose con un bel martello di gomma, le istruzioni, poi si mettevano di dietro e ti facevano segno così. Quando davi il colpo così slittava la spoletta, facevi così, sono qua o sono… Anche quella era una cosa molto graziosa.

D: E sotto la galleria del Virgolo?

R: Il Virgolo l’abbiamo fatto noi, la galleria del Virgolo era galleria per la strada, ma è diventata una fabbrica di cuscinetti a sfera che era necessaria e dentro al Virgolo a fare le massicciate, a portare i muri… Il Virgolo è stato fatto con tutti i prigionieri. La fabbrica di cuscinetti a sfera.

D: La Imi, Imi si chiamava.

R: Non lo so, non ricordo.

D: La Imi. Quindi Voi siete stato anche lì?

R: Certo. Altroché.

D: A proposito di questa cava, può dirmi qualcosa di più? Perché di questa non avevo mai sentito. Non so assolutamente dove collocarla, era vicino al campo o andavate a piedi?

R: Era lunghetta. Per …. era un altro, subito prima di Bolzano per andare su, cosa c’è? Laives?

D: Laives Bronzolo.

R: Da quelle parti là.

D: Porfido quindi?

R: Porfido, il granito.

D: Estraevate il porfido e lo mettevate sul camion?

R: Sul camion i blocchi venivano caricati…

D: Quindi una cava all’aperto?

R: All’aperto. … Quello era un altro, poveretto.

D: Cioè, hanno ammazzato qualcuno?

R: E’ successo dentro, quando l’hanno portato in Germania, un mio amico.

D: A Bolzano?

R: No.

D: A Merano?

R: No, in Germania, non mi ricordo più, erano tre o quattro campi, erano sempre quelli.

D: Allora, lì siete rimasti tre mesi?

R: Tre mesi circa, sì. Poi sono stato liberato a Merano ed è stata a Merano la storia dei quadri. Di quello che era il funzionario della Croce Rossa Internazionale, che nessuno lo sapeva, che faceva l’antiquario di Merano, loro credevano che fosse un antiquario, era uno svizzero.

D: Il nome non lo sa?

R: No.

D: E questi quadri erano dentro a questo castello?

R: Sì.

D: Però diceva che il castello è fuori Merano.

R: Fuori, fuori. Tutti quei castelli lì attorno, Annaturno, Sluderno…

D: Se io Le dico un nome, Le dice qualcosa San Leonardo in Passiria?

R: San Leonardo anche, sì.

D: Ma non è quello dei quadri?

R: No, non è quello dei quadri questo.

D: Lì a Merano la sua occupazione qual è stata? Quella dei quadri sempre?

R: No, quella è stata incidentale. A Merano era caricare e scaricare i vagoni, tutto quello che portavano su, dai sacchi di caffè, che allora il caffè era una cosa rarissima. Caricare e scaricare vagoni.

D: In stazione?

R: In stazione.

D: Maiabassa?

R: Maiabassa, sì. Ma tante volte non si fermavano in stazione i vagoni, perché con la storia dei bombardamenti venivano spostati in rami ferroviari tirati fuori, secondari. E cavare su rotaie per ripristinare la linea ferroviaria, il ponte di Bodi, quante volte l’hanno bombardato.

D: Siete andati anche lì?

R: Anche lì, perbacco.

D: Sai dov’è? Prima di Trento?

R: Fra Trento e Bolzano. Il ponte di Bodi. Coi bombardamenti di allora buttavano giù tante di quelle bombe che facevano spavento, tant’è vero che la montagna per un certo periodo aveva tutte le buche delle bombe. Anche là, prendere e ripristinare almeno una linea che potesse tirare dritto per poter proseguire.

D: E uscivate con le zebrate, con le tute?

R: Sì, sì. Non esisteva altro per cambiarsi. A Merano avevo quell’altra tuta, due pezzi, a Bolzano quella bianca. Non ho mai avuto altro.

D: Quando eravate lì a Bolzano o anche a Merano avete potuto scrivere a casa?

R: Sì, qualche volta sì. Perché quando ci mandavano fuori con le squadre c’era qualche paesano che salutava così e allora avevamo sempre nascosto un pezzettino di carta, qualche cosa. “Tò, consegnalo”, si poteva comunicare in questa maniera.

D: Però voi potevate ricevere lettere o pacchi?

R: No, mai ricevuto.

D: Avete mai ricevuto niente?

R: Io non ho mai ricevuto pacchi, però c’è stato qualcuno che riceveva dei pacchi. Come non lo so.

D: All’interno del campo c’era chiamiamolo un movimento resistenziale, c’era qualcuno che si dava da fare?

R: No, no. Ho visto delle cose meravigliose, delle cose orribili, però là era proprio la sopravvivenza e basta.

D: Vi ricordate qualche cosa meravigliosa?

R: Una cosa meravigliosa sì. Quando hanno scavato quella galleria nel silenzio per uscire dal blocco, per poter scappare, li hanno sorpresi all’ultimo momento perché hanno fatto la spia. Eravamo 15, 20 gradi sotto zero, tutti inquadrati fuori al freddo. “Se non salta fuori chi è stato non vi muovete”.

Le solite guardie, i cani, ecc.

Non è saltato fuori per un giorno, il giorno dopo si è fatto avanti uno che era un ex ufficiale, non mi ricordo più se degli alpini o di dove fosse. Si è costituito lui, in realtà erano più, erano parecchi. Però con questo hanno liberato le squadre. Ho visto un gesto di uno che ha dato la propria, ha offerto la propria vita per gli altri, sì. Anche questo ho visto. Era nel blocco…l’ultimo del capannone su, non mi ricordo più come si chiamasse. Che roba!

D: Voi dicevate prima dei triangoli azzurri che erano degli inglesi.

R: Sì.

D: Cioè nel campo c’erano anche…

R: Sa che con la guerra, ancora quando c’era l’esercito italiano, un certo numero per esempio di inglesi erano stati catturati in Africa e portati qua. A quelli sbandati, i tedeschi hanno attribuito questo triangolo che non erano né italiani né niente, militari ma non catturati da loro. Questo era il triangolo azzurro.

D: Erano lì a Bolzano, nel campo di Bolzano?

R: Sì, c’erano questi, c’erano i gialli che erano gli ebrei, i rosa che erano i rastrellati e gli ostaggi.

D: Gli ostaggi?

R: Bambini di cinque o sei anni col nonno di sessanta, settanta.

D: Bambini c’erano?

R: Bambini di pochi anni, certo.

D: Dov’erano questi?

R: Qua e là, messi nel blocco. Magari cercavano uno che era, non so, ufficiale degli alpini, avevano preso il padre e il figlio. Allora praticamente nonno e nipote messi in campo di concentramento e tenuti dentro. Che fine abbiano fatto non lo so, però c’erano sì.

D: Non Vi ricordate che c’era una famiglia dentro nel blocco celle che avevano un bambino appunto piccolo di quattro anni, c’erano due sorelle?

R: Ho un vago ricordo. Però quello delle celle era proprio in mezzo al campo, messo di traverso così.

D: In mezzo al campo?

R: Sì, sì. Non era un blocco, le celle erano proprio in mezzo al campo.

D: Non erano in fondo?

R: O in fondo, ma comunque non facevano parte dei capannoni. No.

D: Questa famiglia che erano mamma, due figlie di vent’anni…

R: Ho vaghi ricordi di tutte queste mostruosità, però… C’erano anche quelli, sì.

D: Ci raccontate un’altra cosa bella del campo che avete visto? Oltre a quella del tentativo di fuga.

R: Quella è stata una cosa che non dimenticherò mai.

D: Un altro fatto, un altro episodio a cui avete assistito di questi belli?

R: Non saprei.

D: Allora uno brutto. Quello più brutto a cui avete assistito.

R: C’era uno messo dentro in cella con le gambe e le braccia rotte. Dopo una settimana tirarlo fuori proprio con gli arti spezzati e pestarlo ancora, a questo ho assistito, fatto da quei due ucraini maledetti.

D: Lui chi era?

R: Un italiano sicuramente. Queste sono cose terribili.

D: Su quando Vi hanno chiamato per andare a Maiabassa, cosa Vi hanno detto?

R: Che c’era bisogno di uno Spezialist. Siccome io servivo per fare l’elettricista… Una cosa molto graziosa: nella caserma di Maiabassa nel distaccamento delle SS di Merano, nel distaccamento di Merano verso la fine della guerra erano un po’ tutti abbacchiati, sentivano che stava per finire anche questi signori della SS. E bevevano.

Avevano preso l’abitudine, siccome avevano tutte le villette attorno, vivevano dentro nelle villette questi ufficiali, avevano preso la mania di spararsi un colpo di pistola nella serratura dopo essersi ubriacati, così non vai a letto, uno con l’altro.

Alla mattina lo Spezialist, che ero io, doveva andare ad aprire le porte, per cui io facendo il giro avevo tolto tutte le combinazioni dentro, in maniera che bastava anche un chiodo piegato per aprire, perché sennò dovevo stare là a diventare matto. Come Spezialist ogni tanto mi davano magari una mela o mi davano…

D: Cioè gli avete tolto un nottolino?

R: Sì, sì. Sa che c’è la combinazione? Ho tolto quel nottolino per non stare a diventare matto. Anche queste cose…correre dietro a…

D: Il campo di Merano era anche quello sotto le SS, non c’era Wermacht?

R: Solo SS. E non solo, noi eravamo consegnati con tutti i numeri da un distaccamento all’altro e se ne assumevano la responsabilità di questi numeri.

D: Quanti eravate più o meno lì a Merano?

R: A Merano trenta o quaranta.

D: Arrivavano ogni tanto delle persone in più oppure siete…

R: No, perché eravamo già verso la fine e quindi non arrivavano più.

D: Neanche se ne tornavano?

R: Neanche andavano indietro. Per me è stato un bel rifugio, un bello scappare, Merano per me è stato un bel passo avanti. Anche perché avevo cominciato, sia pure ad andare ad aprire le porte, ma almeno sentivo un ambiente caldo per scaldarmi le mani.

D: Cos’era, marzo, aprile?

R: Fine aprile.

D: A Merano?

R: A Merano io sono andato tra febbraio ed aprile, sono stato a Merano.

D: Il 30 aprile del ’45 Voi eravate a Merano?

R: Prigioniero ancora. Sapendo la gente che gridava per le strade, questo e quell’altro, eppure…finché non sono venuti dentro ufficialmente a scarcerarci. Avevo però da buon Spezialist fatto le chiavi false dell’armeria. Eravamo in tre o quattro pronti a vendere cara la pelle se per caso capita.

D: Anche Vostro fratello?

R: No, mio fratello non è venuto con me.

D: Ah no? E’ rimasto giù?

R: E’ stato scarcerato lui. Un certo numero dopo due mesi o tre li hanno scarcerati, triangolo rosa ancora. E’ stato allora che hanno mandato là quelli rosa e poi quelli dentro sono diventati rossi.

D: E le Vostre sorelle invece sono venute su?

R: Rosse anche loro, triangolo rosso, sempre con me, sempre.

D: Il 30 aprile a Merano, attorno al 30 Aprile, è successo un fatto di sangue, Ve lo ricordate?

R: Sì. Sparavano dalle strade, ci hanno sparato dietro anche a noi.

D: Come vi hanno sparato dietro?

R: Dalle case, le infermiere degli ospedali. Sa che gli alberghi erano ospedali, quasi tutti. Ci hanno sparato dietro. Quando sono uscito per la strada ci sparavano gli infermieri, dicevano, perché chi poteva essere che rimaneva là ormai?

D: Sono state uccise anche delle persone?

R: Certo.

D: Altre due cose importanti. Nel campo di Bolzano, quando siete arrivati nel campo di Bolzano all’ingresso c’era su una targa, c’era qualcosa?

R: Sissignore. Polizeilisches Durchgangslager.

D: Era sul cancello?

R: Sul cancello.

D: Sopra il cancello?

R: Sopra il cancello e i reticolati, sopra c’era questo cartello e poi c’era il cancello.

D: E a Merano cosa c’era scritto?

R: Niente. C’era il cartello che diceva “Amministrazione delle SS del distaccamento di Merano”.

D: La vita nel campo di Merano era un po’ sul ritmo di quello di Bolzano?

R: Mille volte meglio. Eravamo pochi, ci conoscevamo e anche qualche maresciallo o con le denominazioni delle SS che erano completamente diverse di gradi, qualcuno diceva: “Presto finisce”. Sentire confidenze di questo genere dalle SS per me sembrava di toccare il settimo cielo, sta proprio per finire.

D: E a Merano c’erano anche ebrei o eravate solo triangoli rossi pericolosi?

R: Nessun ebreo a Merano.

D: Donne?

R: Donne sì.

D: Le sorelle. Più uomini o più donne?

R: Più o meno metà e metà. Perché le facevano cucire, confezionare sacchi, sempre per queste spedizioni, sa?

D: Quando eravate a Bolzano nel campo avevate sentito di questi altri campi? Avevate sentito parlare prima di Maiabassa o di altri posti?

R: No, però ho sentito il capo blocco Maltagliati che aveva detto: “Occorre un certo numero di persone per Merano”. Un mio carissimo amico che è morto adesso purtroppo, proprio nati e cresciuti insieme, Nino Paoletti che conosceva, era andato tanto tempo, diceva: “Potessimo andare a Merano, è tutta un’altra aria”. Si è fatto avanti, allora per me lo stimolo, dice: “Se non altro, non moriamo dal freddo in queste condizioni”, perché il freddo è stata una cosa tremenda.

Arrivare bagnati con una sola tuta e fare il bilancio scientifico: conviene tenerla visto che non è calda l’acqua che ho addosso o toglierla? Qual è il bilancio termico che conviene tra questi due ragionamenti? Comunque con tutto questo sono arrivato a casa che pesavo quarantadue chili io, uno di ottanta chili.

D: Avevate vent’anni?

R: Sì. Vent’anni giusti. Sono del ’24.

D: Per quello che riguarda le funzioni religiose, Lei si ricorda di questa di Natale e si ricorda magari di qualche altra funzione oppure è l’unico episodio?

R: L’unico episodio che ricordo è questo, però c’erano dei preti. C’erano dei preti perché so che quando ci hanno portato via tutti gli indumenti, i vestiti e ci hanno dato questo berretto, alla mattina c’era la famosa adunata, tutti inquadrati con i numeri, “berretti su” traducevano, “berretti giù”, finché non sentivano il colpo secco tutti insieme non si diceva: “Fuori le squadre”.

Ce n’erano uno o due che avevano tagliato il cappello da prete che avevano e avevano fatto il berretto un po’ più consistente con la cupola che poteva stare addosso. Sapevo che erano preti insomma.

D: Glielo ho chiesto perché alcuni si ricordano di un sacerdote che entrava che non era prigioniero, ma che veniva apposta il sabato o la domenica a celebrare messa.

R: Mai visto.

D: E poi usciva, era un esterno.

R: No, non lo ricordo assolutamente.

D: Neanche a Pasqua?

R: Io ero a Merano a Pasqua.

D: Magari era venuto qualcuno nel campo di Bolzano.

R: A Pasqua ero a Merano.

D: Il Monsignore però, Monsignore Bontignon.

R: Il Vescovo?

D: Il Vescovo, sì.

R: Io non ero…

D: Era su a Merano. Lì a Merano Vi ricordate, a proposito di questo personaggio della Croce Rossa, che c’era un italiano che poi è scappato alla Liberazione e che ha riparato in Svizzera? Non Ve lo ricordate?

R: Non esattamente.

D: Edgardo Sogno? Non Ve lo ricordate?

R: Mi suona il nome, ma non ricordo assolutamente.

D: E’ andato su a Merano Sogno, scappando. La Liberazione, ce la raccontate?

R: La Liberazione è stata un sogno.

D: Dove eravate Voi in quel momento?

R: Già la sera prima avevamo visto dei movimenti strani e avevo distribuito le mie chiavi dell’armeria, perché dico: “Questi qua ci fanno fuori”. Al mattino chi dorme? Nessuno. Affacciarsi con la testa così a guardare giù, vedo tutto uno strano movimento.

Ci hanno riuniti tutti insieme ed è venuto avanti questo signore che era quello che giorni prima era venuto per i quadri, questo svizzero. Ha detto: “La guerra è finita”, c’è stato un urlo generale per noi. Quando abbiamo varcato la porta e abbiamo visto le jeep americane, erano già arrivati gli americani, delle jeep americane, ci sembrava un sogno. Mi ricordo che si sono avvicinati e ci hanno detto se eravamo prigionieri. Mi hanno offerto le Chesterfield. Un sogno sembrava.

D: Poi cos’è successo?

R: Poi da Feltre sono venuti su con dei camion, l’impresa locale Dalla Corte, questi Dalla Corte avevano avuto anche loro dei figli prigionieri come me, a raccoglierci, a portarci giù. Ci hanno portati giù a Feltre coi camion.

D: Quindi direttamente da Merano?

R: Da Merano.

D: Non siete più ritornati a Bolzano?

R: No, perché eravamo un certo numero, ci siamo riuniti e siamo venuti giù da Merano direttamente.

D: Lei a Merano ha ricevuto il foglio di rilascio?

R: Sì.

D: Proprio quello firmato da Titho?

R: No, Titho non c’entrava, dalla Croce Rossa Internazionale.

D: Ce l’ha ancora questa carta?

R: No, non sono riuscito a farmela dare, perché quando è finita la guerra mi hanno chiamato al servizio militare. Allora ho dovuto allegarla come documento al distretto militare di Belluno. In altre occasioni successivamente sono andato per farmelo ridare indietro, mi hanno detto che non c’era più.

D: Ma dopo avete dovuto fare il militare, il servizio militare?

R: No. Perché avevo questo documento di scarcerazione dal campo di concentramento.

D: Neanche le Vostre sorelle hanno quel documento?

R: Sono morte ormai da anni. Probabilmente sì.

R: Mi ricordo che ci hanno fatto la lunga presentazione del mondo che avremmo trovato fuori, dice: “Guardate che trovate per tornare a casa un percorso duro e tremendo. La guerra è stata spaventosa”. Ci raccontava tutti questi particolari questo svizzero. E’ stata una sorpresa, io non avrei mai immaginato.

D: Cos’era, uno svizzero che parlava italiano?

R: Parlava italiano, tedesco, parlava benissimo.

D: Ma lui era svizzero tedesco, italiano? Che svizzero era?

R: Parlava italiano benissimo, però parlava tedesco benissimo perché era lui il consulente per i quadri della SS.

D: Che età poteva avere più o meno?

R: Allora avrà avuto sui quarant’anni.

D: Con divisa da SS?

R: No, no, in borghese.

D: Ah, in borghese?

R: Era un cittadino che era stato preso per stimare dei quadri.

D: Un esperto?

R: Un esperto di quadri. Però mi ha chiamato in disparte quando mi ha detto: “Come vi trattano?” Io gli ho detto: “Zitto, per l’amor del cielo, guai, si sbaglia tutto”.

D: E’ importante secondo Voi che i giovani di oggi conoscano questa storia?

R: Le ho premesso prima: “E poiché gli Alemanni in casa avete…”. Mio nonno garibaldino lo diceva, mio papà: “Ma dai che sono cambiati…”, mio papà lo diceva a me e io dicevo: “Ma papà, dai che sono cambiati…”. Io l’ho ripetuta cento volte alle mie due figlie, che non mi vengano a dire che i tempi sono cambiati perché può succedere ancora.

Ecco perché è importante, perché è un niente che un gruppo di violenti col potere in mano… Non c’è più né destra né sinistra, non c’entra, sono tutte balle. Io ho girato il mondo con molto piacere e ho visto due cose che si assomigliavano spaventosamente: la Spagna di Franco, che più fascista non poteva essere, e la Russia di Breznev, che più comunista non poteva essere. La stessa roba, da una parte a Barcellona dicevano sottovoce: “Stamattina ne hanno fucilati due ancora”, a Mosca mi dicevano: “Stamattina ne hanno mandato quattro in Siberia dei nostri” sottovoce. Poi in confidenza dicevano: “Che speranza c’è per il mio popolo?” I russi.

Mi ricordo che una volta ho detto: “Guardate, io stamattina sono entrato al Cremlino. Voi da cinquanta anni non ci entrate, se non settanta anni. Vuol dire che siete sulla buona strada, visto da me evoluzione, non rivoluzione, perché sennò vanno su quelli più cattivi di voi, secondo me”. Allora sentire queste famiglie a Mosca che volevano sentire il “Kapitalist”, che ero io secondo loro, come la pensavo, è successo così.

Io ho portato mia moglie ed è entrata tranquillamente al Cremlino, ma loro per due generazioni o tre non sono mai entrati. Evoluzione, non rivoluzione. La rivoluzione non fa niente.

D: Prima raccontavate di quell’episodio quando eravate a Caracas se non mi sbaglio, che è venuta questa…

R: Zoppoli, sì.

D: Chi era questo?

R: Quello era un prigioniero che lavorava nell’officina delle automobili, di riparazione automobili dentro nel campo di Bolzano. L’officina era dietro il muro, là facevo l’orologiaio io.

D: Allora, se questo è il campo, questo è l’ingresso…

R: L’ingresso, l’officina era qua, da questa parte.

D: Si usciva come? Da qui oppure c’era una porta nel muro?

R: No, no, la porta è sempre stata interna, dal muro.

D: C’era una porta dal muro?

R: Sì, sì.

D: C’era questo garage, c’era questa officina meccanica, poi c’erano altre officine?

R: Sì, forgiare, ferro, fare catenacci…

D: C’era anche una tipografia?

R: Sì, ho un vago ricordo che c’era anche una tipografia, sì. Con delle macchinette.

D: Voi a Bolzano avevate delle monete interne del campo?

R: No, io no. Avevo sentito parlare, però io non le ho mai avute monete interne del campo.

D: C’era anche una falegnameria che Lei sappia?

R: Non ricordo.

D: Una lavanderia?

R: Sì, lavanderia sì.

D: Vi ricordate, visto che facevate un po’ l’elettricista anche, se c’era un elettricista di Milano?

R: Non ricordo.

D: Che aveva nascosto una radio, un apparecchio radio.

R: Io non ho mai detto che ero radiotecnico, perché quella era una condanna a morte per me, per paura di spionaggio, sa? Mai, per questo che da buon radiotecnico sono andato a fare l’orologiaio, perché solamente a parlare di radio era finita, paura di comunicazione col nemico. Mai detto.

D: Quando partivano i deportati per la Germania, cosa succedeva lì?

R: Succedeva questo: al mattino era una mattina come un’altra, però si vedeva il tenente Tito con tutte le scartoffie. Adesso qua le liste. Cominciava l’appello dei numeri, tirava fuori e durava un’ora, un’ora e mezza, ripetere il numero…

A un bel momento questi venivano messi da parte, gli altri rientravano nei blocchi, questi venivano portati alla stazione che c’erano già i treni di solito, perché gli stessi prigionieri dovevano sigillare i vagoni. C’era Beppi Grisotto e altri che conoscevo che tornavano indietro dopo aver sigillato i vagoni con questa gente che veniva spedita via dalla stazione.

D: Dalla stazione? Non da altre parti?

R: Non lo so, perché io non sono mai andato.

D: Li facevano sigillare?

R: Sì.

D: Adesso una cosa, questa fotografia qui…

R: Questo sono io e le mie due sorelle, questa è proprio dentro nel cortile di Maiabassa di Merano. In fondo questi erano capannoni dove si imballava roba.

D: Che tuta avete su lì?

R: Questa ormai eravamo liberi, perché potevamo fare le fotografie. Ci siamo messi su una maglia per uno. Avevamo la tuta in due pezzi.

D: C’è il triangolo però?

R: Sì, non è una tuta, avevamo due pezzi qua. Tutti, era a Bolzano che avevamo la tuta unica.

D: Chi vi ha fatto questa foto?

R: Uno che era venuto su, perché dentro veniva anche a lavorare della gente fuori di Merano, venivano a lavorare anche loro. Non ricordo più chi me l’abbia fatta, so che mi ha fatto un rullino. Ho detto: “Dammelo che poi penso io”. E questa eccola qua. Vede, il triangolo e il numero.

D: Certo.

R: Io avevo il 4.972.

D: Vi siete ricordati il numero, eh?

R: Già mi crescevano i capelli, vede già lunghi due dita. Eravamo sempre rapati a zero. Qualche volta anche le donne. Se non c’erano cimici, c’erano pidocchi, piccole cose che si dimenticano. Le assicuro che la scabbia, grattarsi fra le dita qua, non avere acqua, non avere niente, cose che non si credono. Qui è stato il ritorno alla vita.

D: C’era un’altra foto. C’è un’altra informazione molto preziosa perché una memoria così viva sui motivi della presenza a Merano non l’avevo mai sentita.

R: Questa è stata così. A Merano occorrevano dei prigionieri un po’ da fidarsi, perché c’era da trattare della roba bella, non solamente mani da cava, capisce? Bisognava tirare fuori qualcuno che sapesse come si tiene un quadro, per dare un’idea.

D: Certo. E di quella roba non si sa poi che fine…?

R: Hanno detto che parte è stata recuperata. Sono tutte voci che ho sentito dopo, perché io non ho voluto più saperne niente, sa, la ripulsa di dire che è il mondo passato, la vita comincia domani, guardiamo davanti.

D: Sa che c’è una via a Merano che si chiama Via trenta aprile?

R: Non lo sapevo. Allora bisogna che si torni a Merano.

D: Questa foto invece?

R: Questa è in Piazza Alta, però me la sono trovata a casa. Era la foto della resa di Feltre, così mi hanno detto, la presentazione dei documenti della resa agli americani, doveva essere.

D: Quindi questo è il ’45?

R: Il ’45 questa.

D: In che zona della città questa?

R: Piazza Vittorio Emanuele, sulla Piazza Alta, questo è il palazzo Guarnieri a sinistra, che non si vede, quello tutto settecentesco, bello. Ricordo benissimo dov’è. Qui a destra c’è il teatro del Palladio.

Forse l’ha fatta mio padre di sfuggita.

D: Allora Vi piace Merano e Bolzano?

R: Sì, molto.

D: Non siete più ritornato?

R: Ogni tanto. Mia figlia appunto per l’ospedale che ci è andata su, diverse volte ho detto: “Vengo su anch’io magari in giro”. Ma non è neanche più l’ombra di quella triste cosa. Guardi che era brutto, perché…

D: Non Vi andrebbe di raccontare la vostra storia a degli studenti?

R: Quali studenti?

D: Ragazzi delle scuole medie o delle medie superiori. Di Bolzano e di Merano. Italiani o tedeschi.

R: Io non ho niente, assolutamente niente in contrario.

D: Raccontare la Vostra storia come ce l’avete raccontata a noi?

R: Certo, perché no? Io ho visto una cosa molto simpatica che mi ha fatto impressione, vedere dei ragazzi giovani che uno parla italiano, l’altro risponde correttamente in tedesco o viceversa, senza problemi. Io sono un internazionalista, sono cittadino del mondo io, a me piace la libertà. Quando ricordo che fuori per le squadre magari ci fermavano in centro…

R: Dicevo che passeggiando era normale che venissero dei bambini e vedevano queste bestie rare vestite con la tuta. Mi ricordo uno che veniva: “Bist du ein Zigeuner?”, “Sei uno zingaro?” Perché eravamo confusi come degli zingari, come della sottospecie. Guarda caso, magari con me c’era il professor Ferrari, però eravamo ridotti in quelle condizioni.

Un’altra cosa che mi ha fatto molto dispiacere, una volta a Bolzano, c’era la Lancia a Bolzano, sì, lo stabilimento della Lancia, erano tutti italiani. Quando passavano le squadre c’era dietro qualche angolo qualcuno con dei pezzi di pane che cercava di darci un pezzo di pane, perché era fame. Vedere magari una bella signora molto elegante avvicinarsi, buttarlo per terra e schiacciarlo sotto i piedi. Questo è capitato anche a me. Non è bello questo.

D: Cioè gli operai vi davano…?

R: Certo, se potevano. Qualcuno cercava di dare un pezzo di pane a questi prigionieri che passavano al mattino e poi scappavano via, perché era proibito avvicinarsi. Mi ricordo di questa donna molto fine, si è avvicinata, avevo il pane così in mano, me l’ha buttato per terra e schiacciato sotto i piedi.

Questo non deve essere una ragione per creare sette e odi, però dire che gente che c’è dappertutto. Io sono razzista perché il mondo si divide in due razze, persone per bene e persone non per bene. Non c’entra il colore della pelle. Guardi, io ho vissuto in mezzo ai sanguemisti. Meglio un negro onesto, in gamba che un ciarlatano di quelli pieni e presuntuosi nostri bianchi. E viceversa.

R: Una cosa bellissima, come siamo arrivati, un gruppo di una ventina, quindici o venti, da Bolzano che ci hanno portato a Merano, ci hanno portati tutti nelle cantine a spidocchiarci. Eravamo pieni di pidocchi e di scabbia, ecc. Per poi portarci nella caserma di Maiabassa. Ci hanno spidocchiati tutti. Sa che sollievo. Era normale che venissero fuori i pidocchi dalle maniche, che roba. Non eravamo esseri umani.

D: Vi fate un giro su a Bolzano e a Merano.

R: Volentieri.

D: Vi chiamo come testimone.

R: Sì.

D: Sai cosa sarebbe bello? Sarebbe bello… assieme all’ingegnere Bettion.

R: Di … mi ha detto?

D: No, di Belluno.

R: Anche a Belluno con la storia là di Piazza dei Martiri, ne hanno impiccato uno per ogni palo. Che vergogna.

D: Invece l’ingegnere Bettion era a Certosa Val Senales e scendeva a Giuderno anche lui alla stazione per caricare…

R: Ecco, vede.

D: Anche lui mi ha parlato di questo, però per un’altra zona. Per la zona di Merano Lei me ne parla.

R: La zona di Merano, sì, sì.

D: Bettion era anche a Maiabassa, penso. Lui andava in un castello solo, si chiama Castel di Nova, dice che portavano dei tappeti e loro dovevano trasportare questi rotoli di tappeti dentro al castello.

R: Sì, sì.

D: L’abbiamo trovato questo castello, abbiamo fatto un giro con l’ingegnere, un giorno un giro a Merano e poi l’abbiamo trovato. Ovviamente il nome non lo conosceva.

R: Che nome ha?

D: Castel di Nova in italiano.

R: Sì, ma mi pare di saperlo che aveva tutti i tappeti dentro.

D: Lui dice che lì portavano i rotoli di tappeti.

R: Perbacco.

D: Lui dice che questo castello…

R: Ingegner Bettion, non lo ricordo.

D: Tullio Bettion si chiama, ma lui è scappato a marzo del ’45, è scappato dal campo di Certosa Val Senales.

R: Ce l’ha fatta?

D: In due sono scappati.

R: Querincig, anche lui è scappato.

D: E’ scappato da dove?

R: Dal treno per andare in Germania.

D: Allora lui è scappato che stava andando… E di dov’è lui?

R: Non lo so, lui era venuto a Feltre, ma non era feltrino. E’ stato catturato a Feltre. Doveva essere sloveno, da quelle parti là.

D: Quindi è arrivato a Bolzano?

R: E’ stato a Bolzano, poi tra gli imbarcati per portare…ed è riuscito a scappare dal treno.

D: Vi siete visti dopo la guerra?

R: Sì, perbacco.

R: Comunque il rastrellamento di Feltre e la deportazione di Feltrini quel 3 ottobre sono significativi perché erano tutti gruppi, pezzi di famiglia. Molti erano in due, tre, unici in quattro noi, io, un fratello e due sorelle. Gli altri due o tre, i Dallacorci, i Palminteri, ecc. Se tu guardi nella lista…

D: Sono passati con gli elenchi.

R: Uno faceva così col mitra, da una parte e dall’altra, nessuno ha mai saputo se quelli di qua vivi e gli altri morti o viceversa. Certo è che era avvenuta la divisione. Poi ho visto che quelli che erano di qua, compreso mio padre e una mia sorella, hanno aperto le porte e li hanno accompagnati fuori e siamo rimasti noi là di notte, può pensare che allegria.

D: Quando è finito tutto avete rivisto Vostro padre?

R: Io ho detto una cosa, è una cosa che sembra mostruosa, ma bisogna provare. Solo una gioia così grande si prova soltanto con un dolore così grande. Questa è la verità. Ero padrone del mondo.

D: …. E’ un professore di Verona che era già laureato in lettere e filosofia quando è stato preso, è stato mandato a Bolzano, Flossenburg, ….., è vissuto a ….. Poi è andato in Sud America a cercare fortuna, perché poi è stato anche picchiato quando è tornato a casa, non solo picchiato in campo, ma quando è uscito si è accorto che la lotta non era finita. Forse non era neanche cominciata. Poi dal Sud America è passato in Nord America e lì è stato in un’università del posto a Chicago. Adesso sono cinque o sei anni che è tornato in Italia. E’ a Verona.

R: E’ così. Tredici anni sono stato io in Venezuela. Dal ’47 al ’60. Siamo stati fra i fondatori della Casa d’Italia ai tempi a Caracas, poi ha portato un angolo di cultura musicale. Facevo le trasmissioni alla radio nazionale della presentazione della musica italiana tutte le domeniche al pomeriggio, la presentazione delle opere, della musica classica. Lo facevo per hobby così mi divertivo un mondo. Senso di libertà. Io sono nato e cresciuto in un ambiente musicale per la verità, quindi questo ha contribuito. Tintinnio e musica.

D: Anche Vittore, Vittore poi è un pittore. Poi si è innamorato, Vittore quando racconta la sua storia, viene con noi nelle scuole a raccontare la sua testimonianza…

R: C’era una certa Marianne Menius e una certa… due tedesche di Ulma, prigioniere, giovani. Anche zingari c’erano.

D: A Merano anche gli zingari?

R: A Merano no.

D: A Bolzano?

R: Sì, a Merano sì, c’era la Maria Ferrari si chiamava che era zingara, sì.

D: Che triangolo aveva?

R: Come il nostro, italiana.

D: Rosso?

R: Rosso.

D: E queste due tedesche?

R: Monica Cloz e Marianne Menius si chiamavano. Non sono mai riuscito a sapere cosa facessero là, avevo sempre paura che fossero spie dentro. Poi scarcerate, sparite, così. Di Ulma.

D: Lavoravano come voi?

R: Sì.

D: Prigioniere?

R: Prigioniere. Io credo che probabilmente avevano seguito qualche militare ai tempi e le hanno prese e messe dentro. Probabilmente erano fidanzate di qualche italiano prima, forse è successo questo. Là non guardavano in faccia a nessuno.

Le zingare, la Maria e sua sorella. C’era la cosa strana, proprio gli ultimi giorni un certo maresciallo Kek che era un archeologo della SS, era una persona coltissima, uno specialista in scavi, nel Nord Africa era stato. Maresciallo Kek. Aveva un certo cuore, almeno con me mi chiamava: “Renato, Spezialist, komm”.

Cosa strane, non era di quelli che si sparavano dentro le serrature, erano gli altri disgraziati. Questo maresciallo Kek una volta mi ha detto: “Renato, vieni che andiamo a caricare della roba là”. Poi mi ha portato all’ospedale, “Andiamo a trovare Maria”, era questa zingara che stava morendo. Un gesto di umanità di questo maresciallo della SS.

D: Questo a Merano?

R: A Merano.

D: All’ospedale c’era una zingara deportata?

R: Deportata che stava per morire, però mentre a Bolzano l’avrebbero lasciata morire nella baracca, a Merano l’hanno fatta ricoverare e sono andato a salutare Maria che era tubercolosa.

D: Di dov’era questa?

R: Non lo so, so che si chiamava Maria, Ferrari di cognome. Parlava italiano, so che era zingara. Siccome questo maresciallo Kek era tubercoloso, allora non c’era ancora la penicillina né antibiotici… Guarda come saltano fuori tutti questi ricordi. Incredibile

Bruni Eugenio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Prego.

R: Mi chiamo Eugenio Bruni, sono nato a Bergamo, l’11 luglio del 1918 e …

D: Prego, prego, vai.

R: Dimmi quello che …, vado avanti nella mia vita anche?

D: Esatto, ad un certo punto voi avete fatto una scelta di resistenza …

R: No, aspetta allora, in una famiglia antifascista, mio padre era combattente della guerra 1915-1918, pluridecorato, ed era stato licenziato dal Comune per scarsi sentimenti nazionali, perché non era iscritto al Partito Fascista, questo aveva incominciato a farmi pensare e con me fare pensare mio fratello.

Quando abbiamo visto che una volta veniva messo in carcere perché arrivava il Duce a Bergamo, un’altra volta veniva licenziato perché era di scarsi sentimenti nazionali, perché nostro padre lo avevamo sempre visto come persona non soltanto coraggiosa ma ben voluta in città, quando è stato licenziato, tutta una gran parte della città che contava gli ha dimostrato la sua solidarietà, perché allora un atto di coraggio era possibile quanto meno, e questo rincuorava.

Tutto questo ha fatto pensare a noi che la libertà era una qualche cosa a cui non si poteva rinunciare, e siamo cresciuti proprio con questo spirito di ribellione di fronte a tutte le imposizioni che il fascismo faceva, dalle imposizioni di carattere ideologico, alle quali era facile dire di no, alle imposizioni di carattere formale, alle quali era più difficile dire di no, divise, adunate e cose di questo tipo.

Ci siamo ritrovati alcuni compagni e abbiamo incominciato a pensare che dovevamo fare qualcosa, e quel qualcosa si è tramutato in scritte sui muri, nel pubblicare una rivistina da distribuire, in cui esprimevamo quello che sentivamo, i nostri pensieri, fino a che abbiamo creduto di dover richiamare l’attenzione della città con un’azione un po’ eclatante, e cioè nel centro di Bergamo i fascisti avevano fatto un monumento nel quale era effigiato con maggior evidenza il Duce.

Noi abbiamo sporcato la faccia di questo Duce con una vernice studiata apposta, resinosa, che si staccava a mala pena, e che aveva un colore che la assimilava ad un prodotto organico. Hanno incominciato a parlare nei palazzi, c’è stato qualche d’uno che ha parlato, preso dalla paura evidentemente, siamo stati arrestati, e siamo stati portati nelle carceri di Bergamo.

D: questo quando Eugenio, quando è successo?

R: 11 ottobre 1941. Dopo qualche giorno, senza essere stati interrogati naturalmente, siamo stati portati a San Vittore a Roma, portati attraverso trasporto speciale, perché mio padre era terrorizzato dall’idea che noi potessimo andare in un vagone per detenuti …

D: San Vittore a Roma o …?

R: No San Vittore, Regina Coeli, si può correggere?

D: Sì, sì prego.

R: Là si è rimasti, direi, un paio di mesi in perfetto isolamento, che non auguro a nessuno.

D: Vi hanno arrestati, chi?

R: Hanno arrestato me, mio fratello, il dottor Taino e un certo Virginio Caffi, cantante lirico.

D: Tutti di Bergamo?

R: Tutti di Bergamo. Sto pensando, anche il dottor Antonucci. Il processo nel marzo del 1942, abbiamo saputo per vie particolari che la sentenza era stata già segnata sul fascicolo dallo stesso Mussolini, e la condanna era di anni tre di reclusione per me, di anni quattro per il dottor Taino, mentre mio fratello, che non aveva partecipato a quest’azione, anche perché in condizioni di salute non felici, e il dottor Antonucci, che evidentemente non era emerso nelle sommarie indagini che allora venivano fatte, venivano assolti per insufficienza di prove.

Quindi venivamo portati nel braccio famoso per i politici di Regina Coeli, e da lì poi partivamo per andare a Castelfranco Emilia, io, a Castelfranco Emilia e Taino, ma in un altro braccio perché là c’erano due bracci per i politici, mentre il Caffi andava al reclusorio di San Geminiano. Sono rimasto in carcere dalla fine del processo fino al 25 luglio 1943, e dirò che la vita nel carcere è stata rasserenata dal fatto di essere assieme a tutti i politici, si studiava, si pativa la fame, perché ci dividevamo tutto quello che arrivava, soldi e pacchi, ma era bello perché ci si sentiva anche molto uniti.

Fino a che è avvenuta la caduta del fascismo e ci siamo trovati in mezzo a Bergamo a vedere passare i carri armati, vedere tutti i soldati scappare, non avere neanche un punto d’ancoraggio, cercare di andare in qualche caserma per richiamare gli ufficiali superiori ad un minimo di senso del dovere e di fedeltà al giuramento, cosa che è riuscita assolutamente vana, e quindi soli di fronte alla nostra coscienza, vedere che la via della libertà era la via della montagna, e lì ci siamo avviati.

Mio fratello è rimasto a casa perché, come dicevo, non poteva affrontare una fatica di questo tipo, mentre io sono andato ad unirmi ai partigiani. Purtroppo il carcere aveva lasciato dei segni nella mia salute e quindi sono andato a Milano per vedere di farmi curare, naturalmente con tutti i sotterfugi delle carte d’identità e di quanto altro, dopo di che sono ritornato e ho preso contatti tramite mio padre con il comandante Buttero, e sono stato mandato in Val Canobina.

D: La vostra formazione partigiana quale era?

R: Qui non c’era un nome preciso perché eravamo proprio agli inizi, e la Val Canobina non sono neanche riuscito a sapere esattamente che cosa era, perché abbiamo preso un treno a Milano, ci siamo avviati sul lago Maggiore, poi lì uno ci ha ricevuto alla stazione, ci ha avviato su una strada, ci ha detto di andare su, poi abbiamo dormito una sera nell’accampamento dei partigiani, poi dovevamo raggiungere un altro distaccamento e siamo stati affidati quindi ad un partigiano.

Non so che cosa sia successo lì, fatto sta che in questo cammino, in questo percorso per raggiungere questa nostra nuova destinazione, ad un certo punto il partigiano è sparito e invece sono sbucati dei militi forestali, i quali ci hanno subito preso, ci hanno spianato le armi contro e noi non abbiamo potuto fare atro che dire di sì.

D: Lì c’era anche Roberto, no, il fratello?

R: Certo, ovviamente c’era il problema Roberto da risolvere, ed è sembrato giusto che questo problema lo risolvesse con me, perché restare in città, non potevamo sottrarre mio padre a quelle che erano le sue normali occupazioni, mia madre e mia sorella non erano assolutamente adatte, e quindi l’unico adatto a stargli vicino ero io, ed allora a questo punto non c’era altro da dire. “Andiamo e vediamo di poter risolvere il problema là”.

Siamo stati presi, i partigiani sono venuti e hanno fatto un attacco alla casermetta di questi militi, una battaglia che non finiva più, dopo di che non sono riusciti assolutamente a sfondare, e quindi abbiamo dovuto subire l’umiliazione dell’attacco di gerarchi fascisti, poi lungo la strada essere consegnati ai nazisti, alle SS, e andare lungo la strada dove questi giovani fascisti sputacchiavano, insolentivano, picchiavano, era gente alla quale ci avevano affidati perché facessero tutto quello che volevano, che era suggerito dai loro istinti più bassi, più volgari e più violenti.

Poi siamo stati portati, perché siamo arrivati a …, come si chiama lì, sul Lago in fondo, la patria di Chiara …

R: Luino.

D: Luino, lì che periodo era quando vi hanno arrestati?

R: Dunque, vediamo un po’, marzo, febbraio, 4 marzo …

D: Del ’44?

R: 1944. Da Luino saliamo su un motoscafo, anzi ci pigliano con un motoscafo lì, non so quale era la base di partenza, ci accompagnano a Luino. A Luino le SS ci fanno un piccolo interrogatorio, puramente formale, dopo di che ci caricano su questo motoscafo e scendiamo la prima volta una terra, ci spianano i fucili addosso, dopo di che rinunciano, saliamo ancora sul motoscafo, seconda fermata e poi terza fermata, poi capiamo che siamo di fronte a sadici che vogliono vedere le reazioni di gente che è posta di fronte ad un plotone d’esecuzione.

Arriviamo ad un’oasi di riposo a San Donnino. A San Donnino, restiamo lì parecchi giorni insieme a tutti i politici, mio padre aveva interessato della nostra sorte un certo Eugenio Rosasco di Como, che faceva parte anche del CLN, il quale organizza dei partigiani, che vengono e danno l’assalto a San Donnino …

D: Scusa Eugenio, siete stati arrestati te e Roberto e basta, o anche insieme ad altri?

R: Io e Roberto e basta. Il terzo, che era con noi, poi è scappato.

D: Poi vi hanno portato al carcere di Como a San Donnino?

R: Lì dicevo, c’è stato quest’assalto, dopo di che c’è stato l’ingresso a San Vittore

D: Vi hanno trasferiti a Milano?

R: Trasferiti a Milano a San Vittore. La vita a San Vittore è stata una vita si può dire abbastanza tranquilla, per quanto era possibile e per quanto avevamo intravisto in queste prime vicende. C’era questo maresciallo tedesco, si chiamava Franz, che era una cosa spaventosa, lanciava urla terribili, veniva con quel cane che abbaiava, e noi sentivamo il terrore che ti scorreva un pochettino addosso. Eravamo sempre in tensione, poteva succedere di tutto, ma anche dall’altro braccio si sentiva arrivare urla, certe volte, e noi immaginavamo che fosse qualche d’uno dei nostri che veniva trattato in modo non certo complimentoso.

Così è stata un po’ la vicenda a San Vittore, ricordo che una volta sono riuscito ad avere per vie traverse, erano i preti in genere, forse c’era anche qualche SS cattolica non so, erano venute mia madre e mia sorella, e siccome avevano delle caratteristiche somatiche, mia sorella è molto riccia e mia madre con un naso piuttosto pronunciato, le hanno tenute per tre ore all’entrata di San Vittore dicendo che loro dovevano dimostrare di essere ariane, perché davano tutta la sensazione di essere ebree, questo è per dire il clima nel quale noi si viveva.

Fino a che un giorno sono arrivati dei pullman, ci hanno fatto uscire, e ci hanno mandati, passando attraverso le nostre contrade, che oramai conoscevamo a mena dito, perché ci avevamo passato la nostra giovinezza, siamo andati verso Bolzano. Scappare sarebbe stato forse possibile, forse, infatti c’è stato l’avvocato Luciano Elmo per esempio che è scappato, si è rotto il naso, e Luciano era su a Bolzano con me, non era però del mio trasporto, mi sembra.

Fatto sta che siamo arrivati a Bolzano e a Bolzano abbiamo visto cose brutte. Abbiamo visto per esempio un palo in mezzo a questa grande distesa e abbiamo visto attaccato uno che veniva percosso perché aveva tentato di scappare, e quindi veniva castigato in questo modo, almeno la voce correva che fosse questa la ragione, ma non poteva avere commesso niente che meritasse un castigo di questo tipo.

D: Eugenio scusa, nel carcere di San Vittore ti ricordi qualche nome di altri arrestati che c’erano, perché voi siete rimasti fino a giugno?

R: C’era un certo ragioniere Castelli, che era di Bergamo, che dopo non l’ho più visto, c’era Mike Bongiorno come ho detto, c’era don Gagino …

D: Leggeri?

R: Don Liggeri, direi di sì, perché mi ricordo che a San Vittore ho avvicinato un prete per parlare di temi di religione con lui, ero in un momento che non è che avessi bisogno di vincere i miei dubbi, perché i miei dubbi erano già risolti, ma con un religioso certe volte si può parlare di valori morali che possono interessare anche al laico, come ero io, come mi ritenevo io, questo lo ricordo. Non ricordo se c’era Indro Montanelli, a me sembra, io ho la sensazione che lo avessi visto o che l’ho avessi sentito nominare, però francamente altri non li ricordo.

Sai si viveva in una specie di nebbia, perché non era facile vivere. Non era facile vivere perché, io avevo alle spalle tutto il carcere, un anno e mezzo di carcere, insomma non è poco per riprenderti e per acquistare tutta la tua lucidità, tutta la capacità e tutta la forza di reagire a quello che stava succedendo. Era una nuova tappa che si apriva per uno che aveva già preso le sue brave mazzolate. Quindi i nomi, io avrò parlato con Tizio, Caio e Sempronio, però che i nomi mi siano rimasti incisi, può darsi che per esempio lo chiamassi Paolo, lo chiamassi Carlo, chi lo sa? Però non ricordo.

D: Di Bolzano, del campo di Bolzano per esempio cosa ti ricordi, i blocchi, ti ricordi qualcosa oltre alla piazza dell’appello?

R: Ricordo che noi avevamo un blocco che era sulla sinistra entrando, a Gries eravamo, io il resto non lo ricordo.

D: Neanche il numero del tuo blocco, la sigla del tuo blocco?

R: No, no, per me francamente, ricordo il mio blocco a Dachau.

D: Lì a Bolzano siete rimasti quanto tempo?

R: Dunque a Bolzano siamo rimasti penso, ho il certificato della Croce Rossa e caso mai te lo posso dire, penso un mesetto, un mesetto e mezzo.

D: E lì cosa facevate tutto il giorno?

R: Niente. Siamo andati a lavorare con dei territoriali tedeschi in una galleria, che era sotto il vecchio ospedale di Bolzano, questi due territoriali erano Enrico Fucilone… Anche lì, a mio avviso era facile scappare, però scappare in due, tirare dietro mio fratello il quale aveva sempre perplessità, dubbi, poverino …

D: Era più giovane di te?

R: Più vecchio.

D: Ah, più vecchio di te?

R: Più vecchio di me.

D: Lì a Bolzano vi hanno dato una divisa?

R: No, siamo rimasti con i nostri vestiti.

D: Avevate un numero?

R: Neanche, io non lo ricordo, ricordo il numero a Dachau, 113157, l’ho visto adesso, ma l’ho riconosciuto perché ho lì …

D: Quindi uscivate per lavorare in questa …

R: Poi venivamo riaccompagnati dentro.

D: E cosa facevate in questa galleria?

R: Ma, gli sciocchi! Raccoglievamo del materiale della migliore qualità possibile, lo caricavamo su dei carrelli, che poi spingevamo e giocavamo su questi carrelli, perché ci mettevamo su e ci spingevamo a vicenda, fino a che in fondo c’erano questi soldati che dicevano “Ferma, ferma, ferma” e gridavano, tutto lì insomma.

Poi una volta siamo andati a cogliere le mele, con delle strane scale, fatte con un bastone in mezzo e i pioli che uscivano a lato, una sacca in spalla, potevamo mangiare le mele, e questi contadini non parlavano, non dicevano niente …

D: E di personaggi diciamo così?

R: Io ricordo che sono scappati da lì due toscani, uno si chiamava Giorgio, io avevo portato con me da San Vittore, perché nessuno mi aveva perquisito, avevo della simpamina, e allora non potendo andare con loro sempre per la stessa ragione, gli ho dato queste pastigliette di simpamina e gli ho detto “Queste vi tira su, vi dà la carica e andate” erano dopati insomma. È stato un dopaggio ante litteram. Avevo questa simpamina perché avevo fatto atletica leggera, c’era chi mi aveva suggerito di doparmi, non lo avevo fatto, però quando ho dovuto affrontare i passaggi, le camminate, ecc, io venivo dal carcere ed ero indebolito al massimo, mi ero ricordato e allora avevo comperato questa simpamina.

D: Ti ricordi Eugenio di Titho, Haage lì a Bolzano, dei comandanti del campo?

R: Li ricordo, ma non li ricordo di nome.

D: E neanche del blocco celle ti ricordi?

R: Il blocco celle sì, era spostato più in fondo, esatto.

D: Dove c’erano gli ucraini …

R: Ecco.

D: Otto e Misha?

R: Adesso i nomi non domandarmeli.

D: Non te li ricordi. Ti ricordi lì a Bolzano di avere incontrato altri sacerdoti, deportati dentro nel campo?

R: No.

D: E donne ne hai viste?

R: No.

D: Non hai visto donne nel campo, deportate?

R: No.

D: Si arriva al giorno che vi chiamano …

R: … E ci caricano sul vagone bestiame.

D: Ti ricordi da dove siete partiti, da dove vi hanno caricati sul Transport?

R: Alla stazione, allo scalo ferroviario. Ci hanno messo lì e poi siamo saliti su questo vagone.

D: Vi hanno dato qualcosa da mangiare, da bere?

R: Non lo ricordo, ho la sensazione di sì, pochissimo, ma sì, però questo non lo ricordo, so che avevamo qualche cosina di nostro, che c’eravamo portati dietro fino da Milano, un po’ di zucchero, due biscotti, roba del genere, non ricordo neanche come li avessi avuti, non mi ricordo.

Ricordo che a San Vittore, tu adesso stai scavando nella mia memoria, cosa che io ho sempre cercato di non fare, e mi ricordo per esempio che a San Vittore avevo fame, e avevo tanta fame che una volta, mi ricordo, c’è stata una vicenda di pane che è arrivato dentro, che chi lo aveva preso, chi non lo aveva preso, Franz gridava l’ira di Dio.

Deve essere successo invece che, a Bolzano, vi era un commerciante di legname, si chiamava Amati, e aveva delle ragazze, di Bolzano, che cercavano di fare qualche cosa, ed erano riuscite a fare entrare un pacchetto con queste piccole cose, evidentemente non era niente, che poi mi aveva aiutato un pochettino durante questo viaggio.

D: Questo viaggio era iniziato i primi di ottobre del ’44?

R: Sì.

D: Ed è durato quanti giorni?

R: Ho la sensazione che sia durato un giorno, una notte, ed un altro giorno, però ho il dubbio che siano state una o due le notti che noi abbiamo passato su questo … cosa risulta a voi?

D: E no, adesso bisogna recuperare le date, durante il percorso si è mai fermato il treno, il Transport?

R: Può darsi.

D: Non so, per i bisogni fisiologici …

R: No, no, no, mai, mai, perché avevamo questo grosso problema, questo grosso problema. Qui poi succede questo che poi i ricordi si sommano ai ricordi che io ho sentito da altri, per cui per esempio avevamo recuperato delle latte, queste latte servivano per l’acqua, ma io pensavo che era per fare la pipì, altri mi avevano detto che avevano sollevato un asse del vagone, questo ha creato in me, non so se suggestione o ricordo autentico, che anche noi avessimo sollevato questo asse, in modo tale da poter …

Ricordo le fermate, questo sì, perché ricordo le urla, le urla delle SS, erano urla di “State indietro”, o parlavano fra loro ad una certa distanza per cui era necessario urlare, però lo ricordo esattamente, avvertivamo qualche cosa che c’era fuori del nostro carro bestiame.

D: E quando vi hanno fatto scendere?

R: A Dachau.

D: Direttamente lì vicino …

R: Davanti al portale.

D: Del campo, e poi lì cosa è successo?

R: Lì si è aperta la porta. Oltre tutto non ricordo, vedo adesso, tu mi dici che c’erano parecchi che erano partiti quel giorno, io ricordo soltanto quelli che sono partiti con noi, saremo stati una cinquantina penso, siamo andati nel magazzino a destra, ci hanno portato via tutto, ci hanno fatto spogliare, ci hanno vestito con una camicia, una giacca, ci hanno tagliato i capelli e poi ci hanno fatto la riga in mezzo, ci hanno dato i sabot.

L’unica cosa che ho visto, ecco c’era un prete, perché ho visto un prete spogliato nudo con un tricorno in testa, era là, tu sai che c’era l’Antreten lì, con tutti i fari, la mattina presto venivano, lì un registro doveva esserci stato per creare proprio il senso l’ossessione, e ricordo che era lì, lo avevano lasciato lì quasi per derisione. Dopo di che siamo andati nel blocco …

D: Quale blocco, te lo ricordi?

R: 25, io direi 25, siamo entrati sulla sinistra, sulla destra c’era la parete chiusa, ci hanno detto “Pigliate posto” e siamo entrati in tre in una, erano a tre piani, ognuna era in tre, e lì è incominciata.

D: L’immatricolazione quando ve l’hanno fatta?

R: Non me lo ricordo, so che sulla giacca c’era scritto 113157, il 113 lo ricordavo, il 157 l’ho visto adesso ma ho quello della Croce Rossa che segna, il triangolo con la “I”, e sopra il coso bianco con il numero.

D: Il triangolo di che colore era?

R: Rosso.

D: Lì nella baracca 25, nel Block 25, fino a quando sei rimasto?

R: Fino a che non sono andato in infermeria.

D: Al Revier?

R: Sì, perché ho dovuto lasciare mio fratello, perché ero …, c’era un tifo petecchiale in giro, intanto noi eravamo afflitti dai pidocchi, a manciate li tiravamo via, ogni tanto andavano a farci la disinfezione all’aperto con dei grossi pennelli, li intridevano nella …, cosa è quel disinfettante biancastro …

D: Creolina?

R: … Creolina, lì ci pitturavano tutti, non serviva a niente. Dopo di che mi è venuta la febbre e sono dovuto entrare in infermeria, avevo 38 e mezzo circa di febbre. Lì è stato brutto perché intanto il passaggio delle docce, ricordo che nevicava, ci hanno fatto spogliare nudi, ci hanno fatto entrare e l’acqua era in alternanza, fredda e calda, e qualcuno quando sono passato io è morto. Dopo di che siamo andati avanti con questi passaggi, aperto, chiuso, aperto, chiuso, fino a che sono arrivato nel mio posto.

D: E lì cosa ti hanno fatto?

R: Niente, niente. L’unica cura che io ho avuto, intanto c’era un cibo che davano invece delle carote e delle rape, davano una specie di riso, con un colore biancastro che doveva essere latte.

Siccome eravamo in due, non ho mai parlato con quello vicino, e quello vicino non ha mai parlato con me, perché eravamo esausti primo, in secondo luogo la lingua non si conosceva, ricordo che due volte è capitato che ho tenuto quello lì morto, e ho preso la sua scodella per poterne mangiare due.

Quando si andava giù al gabinetto, che era vicino alla porta che dava all’aperto, si vedevano fuori mucchi di cadaveri, di venti persone, trenta persone, in fondo dall’altra parte c’era il crematorio.

Dopo sono uscito, ad un certo punto si è stabilito che ero guarito, e quindi sono uscito, sono andato a pigliarmi un altro blocco, perché ad un certo punto sono stato abbandonato un po’ a me stesso, sono andato prima di tutto a chiedere notizie di mio fratello ed ho appreso che era morto, c’era un padre domenicano nel blocco, che teneva nota di tutti quelli che erano morti, l’ho chiamato e mi ha detto “È morto il 13 di febbraio, l’altro giorno” così quando poi sono arrivati gli americani …

D: Scusa Eugenio, quindi tu sei andato in un altro blocco, quando sei uscito da lì?

R: Sì.

D: Non ti ricordi che blocco fosse?

R: Non mi ricordo, non mi ricordo.

D: Cosa facevi durante il giorno?

R: Niente.

D: Dentro nel blocco eri?

R: Dentro nel blocco o nel cortiletto che intercorreva tra un blocco e l’altro, si camminava sotto l’acqua, sotto la pioggia, sotto la neve, sotto il sole.

D: Non sei mai stato chiamato in un commando di lavoro?

R: No sono stato qualche giorno con don Angelo. Con don Angelo è lui che me lo ha detto, mi ha detto “Vieni con me”, don Vismara che era di Bergamo, aveva presentato anche don Angelo, e don Angelo era un galletto per quanto consentiva il posto. Mi ha detto “Vieni con me che si mangia a metà mattina, ti danno qualche cosina ancora” e cosa si doveva fare? Si doveva stracciare vecchi indumenti dei tedeschi, mutande, ecc, ecc, e poi dovevi fare la treccia, poi veniva lì ogni tanto se era fatta bene o se non era fatta bene, e se non era fatta bene la rompeva magari e te la faceva rifare, poi questa roba qui non l’ho …

D: Non l’hai più fatta?

R: … Non l’ho più fatta perché, intanto volevo stare vicino a mio fratello, perché questo era avvenuto prima, in secondo luogo bisognava andare all’appello la mattina ed era una cosa terribile, perché lì ti picchiavano con i calci dei fucili, e poi questa specie d’asfissia lì dentro, per un pezzettino di cosa che non serviva assolutamente a niente.

Ho provato anche, questo non con don Angelo, alla ferrovia, ma era pazzesco. Era pazzesco perché dovevi alzarti di mattina, prestissimo, entravi e passavi attraverso questo piazzale d’adunata, attraverso le urla di questi signori che urlavano “Scnell! Los!”.

Poi si aprivano queste porte, si saliva su un carro bestiame dove gente aveva fatto lì i propri bisogni, l’ira di Dio, si arrivava ai binari della ferrovia di Monaco, là scendevi, eravamo in dicembre, gennaio, vestiti com’eravamo vestiti, ti davano un piccone di quelli che hanno una parte un po’ a paletta, e dovevamo, sotto il comando di un operaio di Monaco, rincalzare i sassi sotto le traversine, quindi comandava “Hanz, vai, hanz, vai, hanz, vai” e tu dovevi seguire quel ritmo, se non seguivi quel ritmo c’era una botta.

Tutto questo per avere poi un piccolo scampolo di riposo, nel quale potevi pigliare mezza fettina di pane e una fettina di margarina, se tutto questo valeva quel dispendio d’energie che ci obbligavano a fare, per poi arrivare meglio a cercare di chiacchierare con qualcuno se era possibile. Infatti avevo conosciuto un certo Andrè Romer dei Vosgi, un ragazzo bravo che è venuto poi a Bergamo a trovarmi, e lì si camminava per cercare di avere un pochettino di caldo, ci si stancava e quindi ci si fermava per avere un po’ di freddo, ma intanto si chiacchierava, lui mi parlava del suo paese, io parlavo della mia città, ci scambiavamo il conforto di ricordare un pochettino qualche cosa.

D: Questo fino alla Liberazione?

R: Fino alla liberazione.

D: E come te la ricordi la liberazione?

R: La Liberazione me la ricordo, ero in questo famoso blocco nel quale ero entrato dopo essere uscito dal Reviere, ad un certo punto si sono incominciati a sentire i duelli aerei sopra, poi abbiamo visto due o tre volte degli aerei che cadevano, che fossero tedeschi o che fossero inglesi, erano il segno di una battaglia che si svolgeva proprio sopra di noi.

Dopo di che ci hanno portato tutti sul piazzale, e lì ci hanno dato mezzo pane, una scatola di flaisch, li chiamavano flaisch non so cosa sia, una specie di impasto di carni animali, e poi siamo stati lì ad aspettare. Io ho mangiato subito tutto, ho detto “Qui è meglio mettere giù, piuttosto che …”

Poi una parte, sono partiti, un certo numero, e noi invece siamo rientrati, eravamo lì, i nervi tesi, dicevamo “Ci siamo, ci siamo, ci siamo” e, infatti, si è affacciata al campo una giornalista americana con la pistola in pugno, le SS hanno sparato qualche colpo sul piazzale dove c’erano ancora i nostri, ma sono state immediatamente fatte fuori dalle truppe americane che erano arrivate, quindi poi è cominciata la festa. È cominciato questo senso di ricominciare a guardare avanti a noi, di incominciare a dire adesso si apre qualche cosa che è diverso.

D:Voi italiani vi siete subito organizzati?

R: Noi italiani ci siamo organizzati in un gruppo, ed è saltata fuori la fantasia italiana, perché in un gruppo …, non so, ogni tanto ci penso “Ma come è successo?”, socialista, comunista, si sono divisi e hanno formato quasi il CLN.

Poi si andava fuori, mi ero procurato un piccolo biglietto che c’eravamo fatti a vicenda, lo facevamo vedere agli americani e uscivamo, io sono uscito un due o tre volte.

Una volta, la penultima volta, ho visto un treno con tutti i morti, francesi, e c’era un ometto lì vicino al quale dico “Dubish doich” “Nein italijenick” “Italiano? Di dove?” “Sono di Bergamo” “Sono di Bergamo anche io” “Ma dove?” “Borgo Canale”, che è un borgo di Bergamo, “Anche io sono nato in Borgo Canale” “Come ti chiami?” mi dice lui, “Bruni” “Ma ti sei figlio del professor Bruni?” “Sì”. Si è messo a piangere, ad abbracciarmi, ecc.

Lui era lì con la Todt, era da un fornaio, allora io sono rientrato un momento, sono riuscito, sano andato da lui, ho mangiato a crepapelle e ho dormito ventiquattro ore. Dopo di che ho rubato una bicicletta, senza nessun rimorso, lui aveva un carrettino, se lo era già preparato, dove aveva su il suo bottino di guerra, pelli per fare scarpe, ecc, ecc, e siamo partiti.

D: E siete arrivati dove?

R: Siamo arrivati a Garmish-Partenkirchen.

D: In quanti giorni?

R: Abbiamo dormito in fienili, ecc, ecc.

D: Tutto a piedi, in bicicletta …

R: A piedi, in bicicletta.

D: E non vi ha fermato nessuno?

R: Sì, i francesi ci hanno portato via tutto.

D: Cioè?

R: Ci hanno portato via tutto, carrettino, bicicletta, tutto, e ci siamo avviati a piedi. Ci hanno lasciato qualche cosa da mangiare che aveva lui.

D: Eugenio tu avevi ancora la zebrata?

R: Certo non avevo altri vestiti, io.

D: E dopo Garmish cosa è successo?

R: E dopo Garmish c’erano ancora gli americani, gli inglesi non so chi. Lì c’era un gruppo d’italiani, militari, li vediamo bene in carne, uno ha addirittura una forma di groviera, e ci da un bel pezzettone di groviera.

Ci organizziamo un po’ anche, si nomina un organismo di disciplina, di cui faccio parte anche io, saputo che ero studente di legge, è vero fino a che ad un certo punto ci hanno detto: “Salite sulle nostre camionette e andiamo”, e ci fanno attraversare il Brennero, e arriviamo …

D: E siete arrivati?

R: Non a Bolzano, dunque no, a Bolzano mi sono fermato perché c’era quel tale Amati, e allora sono sceso, ho lasciato andare avanti gli altri e ho detto “Io vorrei andare …” lui mi ha detto “Guarda pronti, qui c’è un camion che parte adesso per Milano, ferma a Treviglio, poi a Treviglio qualche d’uno ti aiuterà”

Difatti a Treviglio mi sono fermato, si era formato già il CLN, ecc, ecc, tutta gente che poi magari è ritornata ad essere fascista. …

Lì mi ricordo che c’era uno che conoscevo, un certo Tombini, il quale ha procurato una macchina, ma il mio grosso cruccio era sapere se i miei sapevano di mio fratello, perché portare quella notizia lì era una cosa tragica, invece lo sapevano.

Lo sapevano me lo hanno detto lì a Treviglio, era già tornato uno prima di me, un italiano, che era un certo Americano Italo, che era venuto a cercarmi, ma era uno che aveva una certa libertà, perciò mi puzzava di qualche cosa che non andava, è venuto a cercarmi, mi aveva pescato lì, non lo so, non mi ricordo, e mi aveva regalato una bottiglia di olio di fegato di merluzzo, che io avevo messo via per partire.

Poi visto che dovevo partire l’avevo regalata ad un prete, non faccio il nome, che l’aveva messa via “Tieni, io guarda parto, ormai chissà cosa fanno qui, mi sbattono, mi fucilano o roba del genere, pigliala”, quando ho visto che non si partiva, io sono andato là e gli ho detto “Guarda che non sono partito, tornamela”, tornamela, non tornamela è caduta e si è rotta.

Quindi a Treviglio mi hanno dato queste notizie e sono ritornato.

D: Quindi i genitori, mamma e babbo, sapevano già di Roberto?

R: Sì, sì.

D: Tu quando sei uscito dal Reviere, e che hai appreso la notizia di Roberto, ti sei messo a cercare dove era stato messo, sepolto?

R: Ma che mai sepolto? Cremato. Perché me lo hanno detto, poi sapevo, vedevo passare i carri con su tutti i cadaveri che andavano a finire al crematorio. Io il crematorio dentro non l’ho mai visto, perché c’erano i beccamorti che andavano là a fare questo mestiere, ma sapevo benissimo.

D: Eugenio, alla Liberazione di Dachau, voi deportati vi organizzate in comitato con Melodia, con altri, e l’autorità italiana c’era?

R: Assente.

D: Voi non l’avete mai incontrata, neanche quando sei tornato?

R: Mai, niente. No, dopo qui hanno detto che si doveva andare all’ARC, in Via Borgo Palazzo, che era organizzata mi sembra dalla Croce Rossa, lì tanto è vero che c’è il certificato della Croce Rossa Internazionale, che ha raccolto tutti i dati, poi li aveva già raccolti non so come, e hanno preso nota di un po’ di tutto, ma altrimenti …

D: Cioè sul piano della salute, voglio dire?

R: Niente.

D: Perché quando siete tornati non è che…?

R: Io pesavo 35 chili.

D: Sì, poi con malattie?

R: Ero piagato. Avevo tutte le gambe piagate.

D: Ecco, questa attenzione sanitaria, la cura sanitaria, è stata tutta a carico tuo voglio dire?

R: Sì, a carico mio, ma è consistito nel fare una vita normale, quindi forse non ricordo se sulle gambe ho spalmato qualche cosa, qualche crema …

D: L’autorità non si è interessata?

R: No, no, no, non è che mi abbiano detto “Lei poverino è tornato, adesso venga qui”. C’è un mio amico che mi ha fatto una visita, il dottor Leidi, che ricordo sempre con molto affetto, il dottor Paolo Leidi, il quale mi ha chiamato, siccome era medico polmonare, e c’era pericolo soprattutto per i polmoni, mi ha fatto una visita scrupolosa e mi ha detto “No, stai bene”, anche perché il tifo non lascia tracce se si guarisce, almeno credo, non me ne intendo.

D: Di Bergamo oltre a te e tuo fratello, sono state deportate …

R: C’era, io avevo visto un certo Battagion, che poi è sparito, ma non ha lasciato traccia questo tale. Questo tale io lo conoscevo a Bergamo, e là, non lo so, quando sono entrato così, ho visto, ho intravisto, della gente che giocava a pallone cosa che mi ha … “Ma siamo diventati matti?”, ed era anche lui che giocava a pallone.

D: Questo a Dachau?

R: A Dachau, dopo non ho visto più niente di tutto questo. Ma se tu sapessi come si affollano i ricordi, proprio si intrecciano, uno si sovrappone all’altro e viene fuori qualche cosa che probabilmente ha un po’ dell’uno un po’ dell’altro, però inquina tutti e due i ricordi.

D: C’è un altro tipo di ricordo, gli odori di Dachau te li ricordi?

R: Gli odori di Dachau li ricordo benissimo, mi ricordo certi episodi, per esempio tu sai cosa si mangiava? La mattina davano un certo caffè che era poi dell’acqua tinta, ma anche tinta male, poi ti davano le carote con le rape, e la sera ti davano il pane a fette con un po’ di margarina o un salsicciotto, una roba che …

Ci mettevamo tutti in fila, e le fette non le potevano tagliare tutte uguali, tu guardavi, contavi e dicevi “L’ottava fetta è più grossa” allora cercavi di contare a che punto eri della fila, e cercavi di sgattaiolare o fare qualche cosa del genere, o passare facendo finta di andare al gabinetto, che era la cosa migliore, rientrare appena vedevi che la fila aveva sedici posti e tu avevi adocchiato al diciassettesimo una cosa più grossa, tacchete dentro e arrivavi, ed erano 3 grammi di più. Ecco, questa è stata la nostra vita.

D: Eugenio un’ultima domanda, la babele delle lingue, delle urla, dei rumori del campo, come te lo ricordi?

R: Le urla no, mica tante, gli impiccati sì, nel viale. Le urla no. Dicevano che i russi rubavano, che passavano sopra il tetto dei blocchi, facevano il buco e poi entravano dentro, dicevano. Guardavamo con invidia i danesi, perché avevano il pacchetto della Croce Rossa, e c’erano i polacchi, che io ho sempre visto di una dignità straordinaria. Mi ricordo che c’era un ingegnere polacco che era là fermo, sempre così, non è morto, praticamente così, guardando nel vuoto, una testa a uovo, per cui non erano riusciti neanche a raparlo, ed era sempre là così che guardava.

Degli italiani ricordo un avvocato Bruni, si chiamava Alessandro Bruni di Torino, che era l’avvocato dell’UTET, della casa editrice, è morto nella merda, è morto sotto di me, siccome c’era questo tifo petecchiale, questa diarrea, non riusciva più a muoversi assolutamente, fino a che un giorno lo abbiamo trovato lì morto, abbiamo portato fuori un pagliericcio intriso di …, marcito, una cosa terribile, Alessandro era buono, erano tutti buoni.

Cosmar Franco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Cosmar Franco nato a Remanzacco in provincia di Udine, il 28.05.1927 e adesso sono residente qui a Bologna da tanti anni, una quarantina di anni.

Io sono stato deportato perché sono stato preso in combattimento.

Ero nella formazione partigiani della divisione Valnatisone, Brigata Piccelli, io sono stato preso in combattimento in Jugoslavia, a Barcis, in Jugoslavia. Dovevamo attraversare il fiume e la vecchia ferrovia.

Sembrava sul momento, come dicevano i nostri ufficiali che erano essi d’accordo con i repubblichini. Poi però cosa successe da noi? Da noi è venuto a mancare un uomo, un uomo che abbiamo cercato tutto il giorno e non l’abbiamo trovato.

Alla notte, quando siamo partiti, sarà stata mezzanotte, abbiamo disceso questo paese, attraversando questa ferrovia. C’era un chiaro di luna e il prato sembrava una tavola da biliardo quanto era bello…

Allora, davanti a noi c’era la pattuglia, le mitragliere e subito dietro a noi la seconda squadra del secondo distaccamento del battaglione…

Arrivati quasi in fondo, si sentì uno sparo o due perché la pattuglia era riuscita a sparare perché era un’imboscata dei tedeschi, tedeschi, repubblichini e anche alpini come loro si sono definiti. Fatto sta, che lì ci hanno fatto prigionieri.

D: Franco, scusa, quando questo è accaduto?

R: Io sono stato preso il 2 gennaio del 1945…, sono stato fatto prigioniero. Abbiamo avuto l’assalto sul campo con trentuno o trentatre morti, tutto il resto, gli altri tre battaglioni si sono ritirati, non hanno accettato il combattimento perché erano tutti allo scoperto. Per noi è stata un’improvvisata questo tradimento e nessuno se lo aspettava.

Ci hanno portato su i tedeschi, prima hanno cominciato a venire con il mitra attorno a noi…, ci volevano ammazzare, poi c’erano anche i repubblichini, i fascisti jugoslavi, i cernisi che sono gente cattiva quelli.

Ci hanno portato giù in una casa, c’erano tre o quattro case, ci hanno messo al muro per fucilarci i tedeschi.

Poi, hanno detto: No, questa è zona nostra, voi non li fucilate, perché abbiamo avuto abbastanza morti, voi non li fucilate”.

Allora mandavano di là la staffetta tedesca, per avere l’ordine dal comando tedesco di sapere cosa dovevano fare di noi. Ci hanno legati dentro, e poi io avevo il vestito di un soldato tedesco, hanno cominciato a dire: “Tu, kaput”.

Poi giù botte, ci hanno legato con le mani di dietro e lì aspetta per delle ore, finché arrivò la staffetta e ci dissero: “Via”, ci hanno fatto camminare fino a Tolmino a piedi, con un buio terribile.

Ci hanno messo dentro le carceri a Tolmino, arrivammo in quindici, c’era un ufficiale con noi, Paride, fatto sta che ci hanno messo a dormire per terra, senza una coperta, senza niente, sul cemento così, un freddo, un freddo, roba da matti. E ogni tanto entravano dei fascisti con la baionetta in canna che ci volevano ammazzare. I tedeschi ci proteggevano. Gli italiani ci volevano uccidere, gli jugoslavi ci volevano uccidere, i fascisti… Siamo stati senza mangiare.

Quando entravano a fare i compiti gli ufficiali, prima entrava la truppa con il mitra spianato e poi piano, piano entrava l’ufficiale, e diceva: “Ragazzi, mi dispiace per voi, però non posso darvi da mangiare”. Senza mangiare, io non so niente. “In ogni caso, stasera”, disse, “quando arriverò, se riuscirò a racimolare qualcosa”.

Questo qui è venuto alla sera, tutti i soldati, ci ha portato una pagnotta, quelle nere che si è diviso in quindici persone. Poi disse: “Ho lasciato ordine a tutti gli alberghi di qua, di Tolmino che le cose che a loro avanzano, di non gettarle via, ma di tenerle a parte per voi altri”.

Siamo stati cinque giorni, tra fame e freddo, non riesco a descriverlo. Una sera è arrivato lì l’ufficiale tedesco, e ci ha detto: “Preparatevi, mettetevi in fila”; ci hanno legato, ci hanno messo in fila, in mezzo alla fila con questa gente che ci voleva ammazzare. E io pensavo: “Ci vogliono ammazzare tutti”. Ci proteggevano però i tedeschi. Fatto sta che ci hanno buttato sul camion allo scoperto e in ogni camion, sopra alla tettoia dell’autista c’era un uomo con il mitragliatore, e di dietro c’era un soldato con il fucile.

Io avevo le mani slegate e giravano su e giù e nel convoglio di prima avevano caricato dei piselli secchi e io volevo prendere dei piselli per mangiare, con la fame che c’era. Non si vedeva l’ora di partire, siamo partiti, altrimenti ci scoppiava il cuore con quella gente che ci voleva massacrare, da un momento all’altro potevano dire: “Salta su”, e ti ammazzavano che per loro era tutto regolare.

Allora partimmo, e loro avevano paura che i partigiani per strada, nella zona partigiana succedesse qualcosa come un’imboscata ecc.

Speravo anch’io, ma niente da fare. Allora dissi a un mio amico: “Ho le mani ghiacciate, ho un freddo da matti. Come facciamo?” “Sei solo te slegato, anzi tu prendi quello di dietro, e quello davanti si gira, ci spara e ci ammazza”.

Fatto sta che arrivammo a Cividale, posto di blocco dei cosacchi, dopo Cividale siamo passati al mio paese di Arnazacco, da Arnazacco fino a Gorizia. A Gorizia ci hanno messo nelle carceri, e nelle carceri era pieno di pidocchi. Tutta la gente che gridava, cantava canzoni slave, patriottiche, tutti i giorni e notte a cantare perché erano i giorni che arrivavano i tedeschi e prendevano a secondo la gente che volevano ammazzare e dicevano: “Tu, tu fuori”. E uno pensava che si andasse a casa, chissà dove, invece li portavano al castello e li fucilavano.

Ogni tedesco che i partigiani uccidevano lì attorno, uccidevano un soldato, dieci partigiani e un ufficiale.

Fatto sta che ci hanno interrogato e come sono entrato io dalla SS, vestito così da soldato tedesco e poi era una divisa estiva, di quelle di tela.

Hanno fatto tante di quelle domande e non ne potevo più.

Allora non mi hanno picchiato.

Hanno provato a mandarmi in carcere, poi in carcere ci davano quella sbrodaglia regolare, tutti i giorni, tutte le mattine arrivavano con quel martello nelle sbarre, finché un giorno si dormiva sul fieno, sulla paglia, il gabinetto era un secchio, finché un giorno mi sono sentito chiamare: “Cosmar, si prepari, deve venire giù con me”. Pensai: “Questi qui mi fanno fuori, mi chiamano per nome”, forse perché ero vestito da tedesco… Invece quando sono arrivato giù, mi dissero: “Guarda che c’è un signore che ti vuole vedere.”

“Come mi vuole vedere?” Non davano loro a un partigiano preso con le armi in mano, la possibilità di avere un colloquio con qualcuno.

Mio padre avevo lavorato sempre in Germania, aveva anche conosciuto mia madre in Germania e sapeva la lingua. Si vede che lui ha incastrato questo tedesco… , e mi ha fatto avere il colloquio con mio padre.

Mio padre mi disse: “Ti ho portato una valigia”, quelle di cartone legate con le corde perché in Germania è freddo. “Da domani partirai per la Germania a lavorare”. Come sapeva mio padre che partivo l’indomani? Perché aveva parlato con l’ufficiale tedesco. Fatto sta che quando sono arrivato dentro alla cella sono rimasti tutti di stucco, e mi hanno detto: “Non ti hanno fatto niente?” “Sono qua…”

L’indomani mattina, tutti fuori dalle celle in fila per quattro, fuori tutti.

E ci hanno portato alla stazione di Gorizia.

Lì in stazione c’erano tutti i vagoni aperti. Lì ci hanno incastrato sopra questi vagoni e poi quando era pieno chiudevano… Allora aspettavamo che partisse il treno, passò un giorno, passò il secondo, passò il terzo… e il treno non partiva. E la gente del paese, ogni tanto, quando un tedesco o un italiano lasciava un po’ passare, buttavano giù qualcosa da mangiare, però lo prendevano sempre quelli che erano davanti, quelli che erano di dietro non prendevano niente. Lì l’egoismo dell’italiano era quello di tenersi tutto per sé.

Io non avevo niente, anche quello di dietro a me non aveva niente.

D: Posso chiederti? Dicevi che avevi addosso una divisa da tedesco…

R: Sì, perché avevano bloccato un convoglio tedesco. I convogli andavano a prendere i generi alimentari, da Gorizia andavano a Tolmino, Caporetto.

Allora, noi facevamo così, quando c’era da prendere qualcosa, perché il mangiare non arrivava …, ho mangiato tante di quelle rape…

D: Non avevate aiuti?

R: Sì, c’erano gli aiuti, ma non lasciavano passare. In Friuli c’erano trentanovemila uomini tra cosacchi, Repubblica di Salò, Jugoslavi. C’erano trentanovemila uomini…, poi qualcosa mi sfugge sempre. Lì non riuscivano a passare. Noi avevamo una zona molto dura lì.

Noi, tutti i giorni, era chiamata anche divisione d’assalto, tutti i giorni noi avevamo un rastrellamento perché noi partigiani, la linea di Tarcento che andava in Austria era l’unica che andava, le altre linee erano saltate tutte. Lì non sono riusciti la linea a farla saltare dietro ai monti perché i tedeschi hanno messo una grande contraerea che li disturbava e quando si alzava su alta quota, buttavano giù le bombe, con il vuoto d’aria le bombe si spostavano, non andavamo mai a colpire il bersaglio.

Allora il Generale Alexander, comandava il generale Alexander, diceva: “Domani passano due divisioni di tedeschi, dovete fare saltare la linea, disturbare, ritardare”.

Questi qua poi che cosa facevano? Si fermavano sì, ma venivano contro di noi a combattere.

E noi avevamo sempre il combattimento…

Ecco perché era chiamata divisione d’assalto.

D: In quanti eravate, più o meno, in questa divisione?

R: Eravamo seimila credo.

D: Quindi si può dire che sei stato preso a Barcis, o vicino a Barcis.

R: Sì, c’è un ponte di legno e mi mandò la fotografia quell’ufficiale che lui ha detto che è un alpino, che è repubblichino, che sparavano contro di me. Due ne ho trovate.

D: Dopo…

R: Sì, su in montagna le ho trovate.

E’ un caso. Io non ho odiato quella gente perché lui cos’ha fatto? Lui ha scelto una via e io ho scelto quell’altra. Se a me andava male, se andava bene a lui, cosa succedeva? La stessa cosa. Non si può odiare per questo, come odiavi sul fronte nemico non si può odiare, dopo la guerra non si può odiare perché ognuno combatte per il suo paese, per il suo ideale e tutto il resto.

Per quello dico che non si può odiare.

Perché loro, spiego questo famoso… repubblichino, lui non vuole essere chiamato Repubblica di Salò, repubblichino, alpino che anche lui, dopo la Liberazione, ha avuto delle cose che non trovava mai lavoro perché era dei repubblichini.

Ha dovuto girare tutta l’Italia per trovare lavoro.

Era come per il Friuli.

Nel Friuli, quando uno era stato partigiano, secondo loro era stato comunista e non trovava lavoro.

Era la stessa cosa.

D: Accennavi prima a Porzius?

R: Sì.

D: Cioè?

R: Io ho conosciuto tutti quelli di Porzius, perché tutti i giorni io passavo di lì per andare a prendere i medicinali o per andare a prendere armi e munizioni. I lanci che facemmo sulla valle di Porzius, gli inglesi di Pippo, di notte,buttavano giù questi qua e buttavano giù anche gli ufficiali, buttavano giù gli inglesi. E io andavo sempre lassù.

Queste donne che loro dicono, l’avevano condannata come spia, le donne che avevano quelle di Porzius e le altre c’erano quando io andavo su, ma io non sapevo che erano ricercate.

D: Siamo rimasti quando eravate alla stazione di Gorizia nei treni.

R: Siamo stati lì tre giorni fermi e per fare i bisogni, ogni tanto aprivano lì fuori ai vagoni, davanti al pubblico che era fuori, poi dentro Roma, lì in piedi senza potersi neanche sedersi, ma neanche voltarsi. Ci avevano talmente incastrati dentro che non passava neanche l’aria.

Finché un pomeriggio, verso sera, il treno andò avanti, andò avanti, ma non molto, si fermò a Pradamano, è un paesino prima di Udine, su un binario morto perché c’erano i bombardieri che andavano su e giù e allora avevano paura dei bombardamenti.

Il giorno dopo, di notte, ci hanno portato alla stazione di Udine e ci hanno collegati insieme a quelli della Risiera di San Sabba, e noi di Udine, di Gorizia e poi quelli di Udine sul treno. Hanno collegato tutti i vagoni, senza mai uscire, e siamo andati via.

Ogni galleria, se c’era un allarme, dovevamo stare dentro alle gallerie con quel fumo, che non si respirava. Anche un giorno si stava là dentro.

Infatti per arrivare a Mauthausen ci abbiamo messo una settimana, sempre chiusi nei vagoni e lì era venti gradi, anche ventidue a Tarvisio.

Quando siamo arrivati a Mauthausen, siamo arrivati a Mauthausen verso sera.

D: Che periodo era più o meno?

Sai il giorno in cui siete arrivati a Mauthausen?

R: Il giorno, con precisione, non lo so.

D: Era sempre gennaio?

R: All’inizio di gennaio.

Fatto sta che di lì ci hanno aperto tutti i vagoni, la prima cosa che ho guardato quando ci hanno fatto scendere, il nome della stazione dove eravamo: Mauthausen e ho detto: “Guarda dove sono arrivato?”

Pensate mio padre che era uno della guerra del 1914 – 1918 è stato prigioniero a Mauthausen e mi raccontava che mangiava le ortiche per sfamarsi e sono arrivato qui anch’io.

Dopo, messi in riga, siamo andati un bel po’ avanti, non abbiamo attraversato il paese di Mauthausen, ci hanno fatto prendere le mulattiere, di notte, al buio e cammina, cammina non si arrivava mai in fondo.

Ad un certo punto si videro delle luci, tutto un chiarore.

Man mano che si andava avanti si vede che si ingrandiva questo colosso di campo.

In una parte Mauthausen è tutta di cemento armato.

Lì si vide questo portone alto, a fianco c’era una piscina… questi riflettori che sparavano addosso. Si è aperto il portone e ci hanno fatto entrare, dentro ci hanno fatto mettere in fila e sulla destra venne fuori un uomo dicendo che era il capo del campo, su un balcone, parlava in tedesco, io il tedesco non lo capivo.

Dopo un po’, quelli del campo, i tedeschi hanno detto: “Via tutte le valigie…”, si è messo via prosciutto, salame, e in tutto il viaggio noi siamo rimasti senza mangiare.

I tedeschi hanno sequestrato via tutto.

Di lì ci hanno fatto andare su a destra, un’altra decina di gradini, poi un gran portone di nuovo qui, si è aperto ancora il portone, e subito dopo il portone a destra, una scalinata dove c’erano i bagni, le docce.

Ci hanno fatto spogliare tutti nudi, un freddo…, fuori c’era il ghiaccio e la neve, tutti nudi, e lì a fare la doccia, calda, fredda, calda, fredda, ghiacciata.

Di lì i tedeschi, la SS ci ha fatto togliere tutto…, chi aveva la fede, chi aveva l’orologio d’oro, tutte quelle cose lì.

C’era da noi un prete jugoslavo, di Lubiana, lui sapeva il tedesco. Aveva una catenina, ha detto in tedesco: “Per piacere, non me la portate via, è un ricordo di mia mamma”. Questo tedesco l’ha guardato in faccia e ha cominciato a offendere, hanno fatto un girotondo e l’hanno pestato. Non l’abbiamo più visto, non so dov’è andato a finire, se l’hanno ammazzato, non l’abbiamo più visto.

Di lì nudi, ci hanno detto: “Fuori in baracca“. Fuori, con il ghiaccio, tutti nudi, e via camminare scalzi fino alla baracca, in quarantena, ho saputo dopo che era quarantena, perché ho saputo dopo che la quarantena era distaccata dalle altre baracche, la quarantena era dall’altra parte, dicevano che si stava lì quaranta giorni e poi ti mandavano a lavorare.

Siamo andati in quarantena, lì ci hanno dato i vestiti, non quei vestiti rigati, erano dei pantaloncini, messa una pezza con la riga e il numero di matricola e poi ci hanno dato il bracciale con il filo di ferro, la placchettina e si doveva dire il numero in tedesco perché se non sapevi dire il numero in tedesco non mangiavi.

Poi siamo arrivati dentro lì. Adesso, disse, andate a dormire… Ma dove a dormire? Che non c’era neanche un letto, niente.

“Vedete lì in fondo? C’è un mucchio di sacchi”, erano di carta fatta attorcigliata con dentro della segatura, avevano sdraiato tutti questi materassi e ci avevano messo a dormire come le sardine. Così, io i piedi in bocca a lui, lui i piedi in bocca a me.

Camminava sui nostri corpi… e dava tante di quelle botte…, non potei neanche muovermi tutta la notte. Finché è giunto da noi un ebreo nella nostra baracca, che l’ebreo non poteva venire dentro, eravamo solo italiani.

Questo capo della baracca è venuto lì dicendo: “Sei italiano?”

Prende uno zoccolo da uno lì, lo getta lui questo zoccolo, ma lui prende questo ebreo e gli spacca la scatola cranica, l’ha ammazzato.

Al mattino arrivavano lì i barbieri, lì tutti nudi ci hanno rapato fino all’ultima pelle.

Avevano dei rasoi …, non gliene fregava niente perché per un lavoro che facevano prendevano una minestra in più.

Ci hanno rapato, e poi c’era un secchio come quella colla che va sui manifesti, con un pennello te la mettevano di qui, di là, per paura dei pidocchi.

Dopo di lì ci hanno mandato fuori, a un freddo, tutti rannicchiati uno vicino all’altro, saremo stati lì tre o quattro ore.

Ad un certo punto arrivò il capo blocco e disse: “Tutti in riga, guai se uno di voi sgarra e che stia fuori riga”.

Fatto sta che ci metteva in riga in quella maniera e se sgarravi prendevi tante di quelle botte da matti. Perché passava quello delle SS, si doveva pazientare e tutto il suo gruppo doveva essere a posto e tutti presenti. Bisognava avere il cappello così, altrimenti erano botte.

Di lì, rotte le file, ci portarono il caffè secondo loro, il caffè arrivò in un bidone, era tutto foglie di tiglio e ci hanno dato un pezzettino di pane, sarà stato 50 grammi e un po’ di margarina quella minerale, arancione carica. Meno male pensammo, qui ci danno da mangiare…

Quando arrivò la minestra…, a mezzogiorno pensammo ci daranno qualcosa! A mezzogiorno arrivarono lì e dissero: “Chi è volontario e vuole andare a prendere i bidoni di minestra?”…. ti davano una minestra in più. Noi non abbiamo visto la realtà del campo, quello che succedeva niente. Dopo fatto la quarantena si vedeva veramente quello che era il campo, ma non eravamo convinti neanche con questo, vedevamo della gente portare dei morti sulla coperta e poi buttarle là a mucchi, ma non pensavi che fosse…

Fatto sta che sono andato a prendere la minestra, sono tornato indietro. Molti di loro quando ci hanno dato la minestra non l’hanno mangiata.

Sulla porta che era di metallo in fondo della quarantena, c’erano quei poveretti che erano magri, malmessi, che venivano ad elemosinare questa minestra e il primo giorno dicevano che faceva schifo e non la mangiavano.

Fatto sta che molti di loro non la mangiavano… Di lì ci portarono,qualche giorno dopo, a fare le fotografie in due o tre pose con il numero di matricola.

Avevamo la riga qua in mezzo

Poi ci hanno dato un paio di guanti di feltro…

D: Ti ricordi il numero di matricola?

R: 126691.

Fatto sta che, la mattina, siamo andati a lavorare prima a Gusen e poi da Gusen siamo andati alla stazione ferroviaria, non avevo mai visto quella stazione ferroviaria, avevo visto che c’erano i vagoni, però non era la stazione. Erano dei binari che passavano così. Fatto sta che ci hanno fatto caricare tutti sui vagoni aperti, in ogni vagone c’era un tedesco, e lì ci hanno portato alla stazione di Linz, tutta bombardata, massacrata, vagoni in alto, a destra, a sinistra, tutta roba che arrivava dall’Italia, pane, pasta, miele, tabacco, guai se toccavi qualcosa.

Il primo giorno che si lavorava un freddo cane. Nessuno si rende conto di quello che fa lo spostamento d’aria sui binari, distrugge come se fosse un cappello…, da non crederci.

C’era un maresciallo dei tedeschi cattivo, con il cane lupo… e pretendeva di più di quello che noi potevamo fare.

Fatto sta che alla sera, dopo dodici ore di lavoro, ci hanno portato a Gusen a dormire.

Dovevamo aspettare, perché a Gusen facevamo i turni a lavorare nelle miniere sotto e poi c’erano le fabbriche di armi,… facevano dei pezzi… quando andavano al lavoro loro,noi andavamo a dormire nelle loro cuccette.

Al mattino mi alzai, e quando mi svegliai il Kapò, il Kapò era uno senza un braccio, cattivo come una bestia……, cominciava a dire…., fatto sta che i miei zoccoli non c’erano più. Mi avevano rubato gli zoccoli.

Come facevo adesso a camminare sui binari, se c’erano dei vetri e con il freddo che c’era?

Io ho guardato, ho preso un paio di zoccoli di quelli che dormivano, li misi, e avevo le dita così, sono andato a lavorare in quella maniera lì e so che mi ha fatto un’infezione lì dietro.

Mi venne fuori un’infezione, un bozzo lì…, e si doveva lavorare lo stesso.

Io dicevo… c’era la gioventù italiana, non ne avevano più di anziani, c’era qualcuno che comandava, però erano tutti giovani italiani. “Tu, italiano kaput crematorio”. Non sapevo neanche crematorio cosa volesse dire, ancora perché non avevo avuto il tempo di vedere queste cose.

Fatto sta… “crematorio” diceva.

Era questo il fatto. Mi era rimasto un po’ impresso. Ognuno di noi, con il freddo e la fame sveniva non è che dicesse: “Prendilo, rimettilo là che poi rinviene”. No, in due si doveva prendere, uno per i piedi e uno per le mani, vivo e buttarlo dentro alla buca, dai uno, dai due, dai tre, dai tre, dai quattro e seppellirli, buttando sopra la terra, vivi.

Mi sono preso anche paura io, … crematorio, camera a gas.

Ritorniamo a Gusen, alla sera, io scoppio dalla febbre, non stavo neanche diritto dal male che mi faceva e lavorare sempre con quel male, finché ho detto al Kapò di Gusen, dissi… “Le faccio vedere…”, mi ha dato un manganello sulla schiena che sono rimasto secco e sono dovuto andare a lavorare lo stesso. I miei amici mi guardavano.

Sono andato a lavorare e lì piangevo dal dolore e non c’è stato niente da fare.

Allora, alla sera, invece di andare a dormire a Gusen, siamo andati al campo n. 2 di Linz, c’è la caserma delle SS che gli americani hanno bombardato, la caserma, hanno fatto saltare un mucchio di gente del campo e hanno ammazzato un mucchio di deportati.

Allora, di lì siamo andati a dormire, solo che ci hanno messi e da varie ore eravamo già lì.

Dopo dodici ore di lavoro chiamarci e stare lì delle ore, aspettare per mandarci in baracca e darci quel po’ di minestra calda, io sentivo urlare a destra, a sinistra.

Io stavo male e mi faceva male. Passò di dietro questo tedesco, quando mi ha visto curvo mi ha dato tante di quelle botte, ecco perché ci avevano mandato in baracca, perché secondo loro mancava una persona, non mi vedevano e lì sono stati fuori … per colpa mia.

Un’altra sera siamo andati a dormire a Gusen, a Gusen non c’era posto quella sera lì e dove si dormiva? Fuori delle baracche.

Ci hanno dato una coperta e basta… C’era il fango. Io ho messo la coperta sopra e sotto niente. Di notte ghiaccia e più o meno il corpo scalda un po’. Alla mattina staccarsi dal ghiaccio per non rovinare anche il vestito, se lo rovinavi eri rovinato del tutto.

Strappai un po’ alla volta, e via a lavorare di nuovo.

Allora dissi al tedesco, alle SS … e l’altro: “Tu italiano… kaput”.

Come kaput?

Solo che poi è arrivata un’anima buona, dietro di me, uno vestito da SS e disse: “Vieni con me…”, era un italiano, “e non ti meravigliare che sono delle SS, ho dovuto accettare anch’io queste cose qui perché altrimenti facevo la fine che dovresti fare te adesso. Vieni qua, metti sotto quel … che nessuno ti tocca”.

Fatto sta che nessuno mi ha toccato.

Alla mattina, a Gusen di nuovo, … a Mauthausen ci hanno portato quelli che eravamo ammalati.

D: Franco, scusa un attimo, quando tu parli di Gusen, ti riferisci a quale Gusen?Gusen 1 o Gusen 2 ?

R: Sai che non l’ho mai capito. Per me era tutto Gusen, che era schifoso Gusen.

Non lo so che Gusen era.

D: Allora, quelli ammalati lì a Gusen li prendono…

R: No, gli ammalati hanno chiesto la visita medica…

Li prendono e li portano a Mauthausen…

D: A Mauthausen dove? Dentro al campo di Mauthausen o in fondo…

R: No, dentro il campo di Mauthausen perché doveva essere la Commissione Medica a dire se eravamo recuperabili o no. Ci hanno fatto fare la doccia, fuori, nudi, in attesa del responso della Commissione Medica. Fatto sta che siamo stati lì quattro o cinque ore, un freddo, e mai preso un raffreddore.

Pensavamo tutti: “E’ meglio che ci ammazzano, altrimenti qua…,” invece è stato contrario… Poi all’ospedale, anzi era un’infermeria, sono arrivato là, giù…, non sono andato dentro alla baracca, mi hanno messo subito in sala operatoria, mi hanno disteso su un tavolaccio, mi hanno mezzo legato, mi hanno tagliato con un po’ di tintura e c’era il pus che schizzava da tutte le parti.

Poi sono andati con le forbici a tagliare e poi hanno messo una stecca di legno, c’era un barattolo con dentro una cosa nera, come una pomata, me l’hanno messa sulla ferita, senza cucire niente e la fasciatura non con la garza, con i rotoli di carta igienica li adoperavano per fasciarci. Poi mi portarono in baracca.

Quella lì non era una baracca, quando ho visto questa gente, tutta aperta, che mi guardava…, sono morti viventi! Ma quella gente lì è ancora viva?

Si vedeva solo gli occhi e i denti, le mani scarne, si vedevano le ossa, e mi guardavano e io guardavo loro.

Poi mi hanno assegnato un posto, eravamo in sei, era a tre piani, tre alla testa e tre ai piedi, il materasso sempre così stretto, con un asse di legno e una coperta in sei.

Di lì, dopo, mi venne la febbre a 41.

Cominciai a tossire sangue…, non sapevo cos’era. Passò un dottore, un dottore che andò da un russo, questo russo lavorava alla cava delle pietre, era un colosso, gli usciva l’acqua dalla pancia, chissà cos’era. Fatto sta che gli fa questa puntura, al petto, non ricordo più, so che appena fatta la puntura, questo russo ha cominciato… hai visto le bolle dei bambini di sapone?…

Poi io dissi: “Dottore…, guardi qui”, avevo rotto un lembo della coperta, dove c’era tutto il sangue. Allora mi ha visitato. Io ho ascoltato, non ha detto: “Dategli una camicia”, niente… Ha detto: “Guarda, ragazzo, vuoi vivere? Se vuoi vivere, se arrivano i miei colleghi quel sangue non glielo devi fare vedere perché qui la tubercolosi…”, non disse tubercolosi, non sapevo neanche che era tubercolosi io. Questo qui disse: “Se i miei colleghi ti vedono, ti fanno fuori. Hai visto cosa hanno fatto al russo? Toccherà a te”.

Io camminavo per cercare qualcosa da mangiare. Davano un mestolo di minestra al giorno, senza pane, senza niente, all’ospedale.

Andavo in giro a vedere, fuori l’erba era rasata tutta.

Si tirava su tutto, quello che c’era di commestibile, con le patate dei fiori, delle piante, non era rimasto niente fuori.

Qualcuno fuggiva, di notte, dalle finestre, andava nei rifugi delle SS e qualche volta gli davano una buccia di patata, e sembrava avere risolto chissà che cosa. E lì, tutti a destra, sinistra, fuori e poi arrivò la dissenteria.

La dissenteria, cinque giorni, se dura cinque giorni muori.

Fatto sta che uno con la dissenteria in cinque giorni diventa pelle e ossa perché va in continuazione al gabinetto.

Dov’era il gabinetto? In fondo dove a destra c’era il mucchio di cadaveri, e a sinistra c’era un asse per traverso e lì si facevano i propri bisogni, due o tre alla volta, tutta roba liquida, che di consistente non c’era niente.

Fatto sta che la dissenteria…, non si arrivava mai al gabinetto e te la facevi addosso.

Infatti tutto per terra, pieno di liquido. Era una cosa brutta.

Chi cadeva giù, pur di arrivare, cadeva giù già sfinito, morto.

Chi, mentre faceva i bisogni, cadeva e moriva lì, chi arrivava gli dava uno spintone e cadeva dentro tutto questo liquido che era lì, si affogava anche di liquido.

Non eravamo più degli esseri umani, eravamo delle bestie. Ma neanche delle bestie, le bestie…

Tutti al gabinetto, su e giù…, cosa succede dopo? Che quello che ho avuto io all’inguine, mi venne dall’altra parte.

Lì facevano molti esperimenti, c’era della gente che aveva aperta tutta la muscolatura dei piedi, la schiena…, facevano gli interventi e poi c’era tutta questa carne aperta.

Andai lì, mi portarono giù di nuovo in infermeria, stavolta svenni perché ero molto più debole.

Però guarivo presto anche…, c’era uno di fianco che disse: “Partigiano tu di dove sei? Sei di Olzano?” Olzano, il mio paese. Dissi: “Non sto bene”. E lui mi ha detto: “Ti aiuto io a letto, ti aiuto io a portare …” Ma quando sono tornato, un giorno non c’era più, si vede che era morto.

Però, con tutto questo, un giorno successe il patatrac. Arrivarono i tedeschi dentro le baracche e pensai: “Ci ammazzano tutti”.

“Fuori, fuori, lasciate tutto lì, a mani vuote”, eravamo sempre nudi a 24 gradi sotto zero, broncopolmoniti… Fatto sta che dissero: “Fuori tutti”.

Non sapevo cosa era successo, però non pensavo che fosse qualcosa che qualcuno avesse fatto la spia.

Noi avevamo qualcuno con i cucchiai di ferro e cosa facevano? Battevano come il contadino batte la falce,è dura la lama, si indurisce la lama e fa una lama tagliente per l’erba, e per tutto. Anche le assi di legno, sai quanto carbone delle assi di legno ho mangiato io per fermare la dissenteria che me le dettero i francesi? Poi dopo un po’ ci mandarono tutti dentro di nuovo. Era successo che lì da noi mangiavano i cadaveri, aprivano la pancia dei cadaveri, pelle e ossa, cos’era più commestibile? Secondo lei cos’è di più commestibile? Secondo lei cos’è? Il fegato. E litigarsi i pezzi di fegato, e poi andarsi a nascondersi sotto i letti a castello che gli altri ti assalivano.

Qualcuno è andato a riferire ai tedeschi…, e avevano paura che venisse la peste. Così portarono via tutto, anche quello. Che brutta…

D: Franco, quando tu parli dell’infermeria di Mauthausen quale intendi, quella dentro nel campo?

R: Quella giù nell’ospedale.

Quel dottore lì mi salvò la vita anche quello, due volte. La prima volta per la selezione degli ammalati mise fuori la chiacchiera che erano tutti ammalati gravi e ci portarono su al campo, dicendo che nel campo avevano fatto un ospedale per i più gravi. Io sono andato nella fila di quel dottore. Quando sono andato là mi ha scartato e mi sono messo a piangere.

Siamo andati in baracca, passò la giornata, alla sera successe che arrivò uno lì e disse: “Sapete chi sono io? Sono quello che è scappato da quel convoglio che oggi hanno fatto”.

“Cosa hanno fatto?” “Hanno mandato tutti alla camera a gas”.

“Non vi presentate più, altrimenti vi gasano tutti”.

Il dottore lo sapeva.

Poi di lì, poiché io ho vissuto in Francia, ho fatto scuole in Francia, parlavo poco l’italiano, ho conosciuto dei francesi lì dentro e ai francesi davano il pacco della Croce Rossa, solo ai francesi. E noi chi eravamo? I figli di nessuno?

E lì era l’ultima fila dove c’erano i cadaveri.

E di lì, ho detto al francese: “Per domani ti danno il pacco, sei fortunato, per domani ti danno il pacco così ti rimetti in carne, ti tiri un po’ su.”

E disse: “Spero che domani ci diano il pacco, di mangiare e stare meglio”.

Dissi: “Te lo auguro”.

La mattina mi alzai e dissi: “Vado a salutare il francese, così faccio amicizia che salta sempre fuori qualcosa”.

Andai là, questo qua aveva già la bava alla bocca.

E pensai: “Oh Dio, questo qua ha già la bava alla bocca”. Le bestialità di un uomo quando è alla disperazione: io scambiai il mio numero di matricola con il suo.

Quando chiamarono lui, presi il pacco io. Mi sono mangiato due scatolette di carne in scatola americana, qualche galletta, la sigaretta e il tabacco le tenevo per fare gli scambi con la minestra. Chi era ammalato di fumo…, io non voglio morire di fumo, volevo morire di mangiare e faceva lo scambio.

Il giorno dopo hanno fatto la spia…, venne l’interprete della SS, in fondo alla baracca, qui disse: “Qualcuno ieri ha ritirato il pacco francese ecc., salti fuori, lo consegni”. Era un furto, lì impiccavano, o in forno crematorio, o gli sparavano in testa.

Allora io zitto, sotto la baracca, di nuovo sotto ai letti castelli, per fortuna che hanno lasciato andare dopo. Hanno visto che nessuno si presentava…, meno male ho detto.

Poi, tutta la notte a stare attento, con dei dolori alla pancia, avevo mangiato la carne dura, mi rotolavo dal dolore, dal male, anche l’egoismo per mangiare…. Fatto sta, a vedere gli altri che mentre mangiavo, quello zoppo moriva dal letto, veniva fuori blocco di sangue, portarli via con tutto sangue, urine e quel po’ di grasso che erano di calorie intorno…

E’ una cosa indescrivibile, pazzesca.

Il giorno dopo dissero: “Da domani tutti i francesi si devono presentare, verrà consegnato un pacco e partiranno per il sanatorio in Svizzera…”. Quando questi due pullman della Croce Rossa erano pieni, partivano e se ne andavano. Al mattino c’erano sempre gli stessi pullman, altri due pullman. Pensavo che veramente andassero là in sanatorio, altri due pullman e così, fin quando sono finiti i francesi. Non si è saputo più nulla. Dissi a questo francese: “Se tu vai a casa, telefona a mio fratello che lui è ufficiale dell’esercito di De Grulle”.

Fatto sta che finisce la guerra, arrivano gli americani, non è che arrivano gli americani, perché era successo, secondo la storia che mi raccontavano loro che come c’è stata la fuga dei russi, che si è saputo di Mauthausen, qualcuno aveva raggiunto, passato il fiume, il Danubio, la zona dei russi. Allora hanno detto: “Là stanno uccidendo sempre, ogni giorno di più”. Tutti quelli che arrivavano dagli altri Lager, là non c’era posto e li hanno tutti gasati, tutti uccisi, chi moriva ghiacciato, morto, al mattino, li avevano uccisi tutti, ma era parecchio tempo che arrivavano dagli altri Lager, Dachau e tutto il resto. Fatto sta che i russi hanno detto agli americani: “Guardate o voi andate avanti o noi non guardiamo più niente, attraversiamo il Danubio e andiamo noi …” Fatto sta che è arrivata una pattuglia americana con due autoblindo, non c’era più un tedesco…, ne hanno beccati parecchi. Sono arrivati lì, hanno tirato giù la svastica… , con le autoblindo, hanno parlato e poi cosa hanno fatto? Hanno armato la gente, i deportati e li hanno messi…

Hanno dato l’ordine che nessuno doveva uscire dal campo fin quando non fosse arrivato il grosso della truppa.

Siamo stati quasi una settimana, perché avevano paura che noi andassimo fuori, ci hanno maltrattato, pestato questi austriaci. Avevano paura che andassimo fuori a fare qualcosa contro il popolo austriaco.

Qualcuno è scappato, fatto sta che di lì sono arrivati gli americani dopo tre giorni, tutta la truppa. E cosa ci davano da mangiare? Latte e verdure per dilatare un po’ lo stomaco.

Ci hanno messo su delle barelle. In quel momento hanno portato una catasta di casse da morto, fatte di quattro assi, ma visto che le casse da morto occupavano molto posto, li buttavano dentro alle fosse comuni.

Poi di lì li hanno portati in ospedale loro, da campo, su una barella, i più gravi e lì tutte le mattine facevano l’ispettorato, guardavano come stavi, e in fondo a questa baracca c’era adibita un’infermeria e tutte le sere mi facevano una puntura di un calmante che avevo dei dolori enormi e vicino a me c’era un italiano, che lui era un partigiano piemontese, uno che ha fatto l’università, sapeva l’americano. E mi raccontò, era gonfio, mi raccontò che lui aveva nascosto dei documenti molto importanti della casa reale, che lo sapeva solo lui, li ha nascosti, murati in montagna, e lo sapeva solo lui. Fatto sta che lui ne parlò con gli americani e quando hanno saputo che documenti erano, gli americani li hanno messi da parte lì e gli hanno fatto il plasma, delle trasfusioni ecc., e niente da fare.

Lui è morto, nessuno ha saputo niente e lui ha detto: “Se mi salvate lo dico, se non mi salvate non dico niente”. Tutto è andato così, è morto. Lì siamo stati lì un bel po’. Ci portarono all’ospedale a fare dei lavaggi, non so se era luglio, in radiologia e lì mi trovarono la TBC bilaterale attiva. Tornai sull’autoambulanza, mi avvicinai ad altri italiani, e dissero: “Tu sei tubercoloso, sei tisico…”, non sapete la paura che avevo di questa malattia, facevo dei chilometri per non andare vicino ad uno quando era stato ammalato.

Mi faceva tanta paura. E dissi: “Non posso tornare a casa”.

I miei, quando sapranno che ho la tubercolosi, che sono tisico, non mi vorranno neanche a casa…

Dicevano: “Non scherzerai mica… con le tecniche nuove, con una puntura di calcio guarisci”.

Così, dai oggi, dai domani, mi hanno convinto.

Di lì mi hanno portato distaccato nelle baracche delle SS dove ci stanno i vari monumenti. Sei stato a Mauthausen? E’ subito dietro al nostro monumento, c’è la baracca delle SS, dove c’è il numero in italiano c’era la cucina americana e tedesca.

Lì, alla baracca delle SS, mi hanno messo in questa baracca, su un castello, tutti erano a bassa quota, non erano sul letto a castello, su un letto normale. Ho pensato: “Cosa ci sarà qui dentro?” Ho aperto, i materassi erano tutti fatti con capelli di donne, dormivi sui capelli delle donne. E ti davano da mangiare scatolette di fagioli…, allora abbiamo reclamato e abbiamo detto: “Come mai voi mangiate uova, mangiate… e a noi date questa porcheria con la febbre…?” Abbiamo reclamato, ma non c’è stato niente da fare. Ci davano quello e dovevamo mangiare quello. I mesi passarono finché un giorno vidi che stavo in piedi a camminare, mi sono alzato piano piano, al secondo portone che ho detto io, in fondo a sinistra c’è una garitta in fondo, per le scale dove c’è il monumento…, c’è un portone, in fondo a sinistra c’è una garitta, lì c’erano i militari americani, che noi eravamo in isolamento, ma non sapevo il perché, dopo si è saputo. Allora ho cominciato a camminare trascinando i piedi e quando sono arrivato vicino a questa garitta che ho girato a destra, c’è ancora il filo spinato largo tre metri… e in mezzo arrotolato così. Sentì che uno mi disse: … “Ma sei proprio tu che sei ridotto così? Cosa fai di là?” “Sono in ospedale risposi”. “Come in ospedale…? Sai che noi partiamo domani mattina? Si è riunita la Commissione medica del Vaticano e ha detto che i primi a partire devono essere gli ammalati”.

“E voi partite e noi rimaniamo qua? E’ una schifezza…”

Allora disse: “Sai cosa fai? Stasera, vieni qua alle sette, che loro quando scambiano stanno dieci minuti e anche di più, a chiacchierare e ridere anche di là e noi prendiamo delle assi di legno, e quando si addormentano tutti, andiamo di qua…”

Allora, piano, piano, presi una coperta, ma era pesante, che se cadevo…, fatto sta che sono arrivato là e gli americani parlavano tra di loro…, sono andati via loro, in quattro e quattro otto abbiamo girato… Siamo andati di là e c’era un rebus quando siamo andati in baracca. Non c’entravo io, ero l’ultimo, non sapevano da dove venivano…. , tutti hanno reclamato. Allora dissero: “Facciamo così, scrivete la vostra data in cui siete stati qui a Mauthausen”. Io ho scritto la data e sono risultato il più vecchio.

Alla mattina siamo partiti, abbiamo lavorato due mesi…, giorno e notte…, morivano anche dopo, abbiamo fatto il saluto a tutti i nostri morti. C’erano delle donne che hanno avuto dei bambini con le SS per salvarsi.

Ci hanno caricato sui carri bestiame.

Idem quando siamo arrivati… su ogni vagone c’era un americano con baionetta in canna.

Tutti questi austriaci prima ci sputavano in faccia, con la bandiera sembra che piangessero, piangevano perché eravamo ancora vivi, questi disgraziati! Vedi il mondo come gira!

Quando il treno è partito, al mattino è partito presto, verso mezzogiorno fermarono il treno vicino a due, tre case contadine e sulla sinistra c’erano dei binari morti dove c’erano dei vagoni letto con della gente dentro.

Lo fermarono lì e c’erano prigionieri politici, militari e civili.

I civili erano ben messi.

Allora questa gente, fermato il treno a mezzogiorno, sparpagliati un po’ qua e un po’ là… Poi c’erano le patate che erano nate così, un campo di patate… Hanno cominciato ad accendere il fuoco, con le patate… , quella disgraziata di contadina là ha cominciato a urlare e quando sono arrivati gli americani hanno detto: “Cosa succede?” E lei ha risposto: “Guardi il campo, uccidono le galline…”

Ha sparato in aria questo americano.

Arrivato sui vagoni, cosa è successo? Vennero dentro due ragazzi tedeschi, austriaci… lì hanno preso questi ragazzi e li ammazzavano. Se non arrivava l’americano ammazzavano, ha cominciato a dare ordine di sparare in aria altrimenti li ammazzavano sul serio.

Da lì, verso sera siamo arrivati in un altro campo, anche lì un campo di concentramento, di lì ci hanno fatto scendere piano, piano e la prima cosa che ho cercato, ho cercato un letto. “Stasera, italiani”, dissero, “facciamo i maccheroni”.

Dopo un po’ che ero lì sdraiato, sentii: “Vieni…” Risposi: “Cosa è successo? Cosa c’è?” “Vieni”, mi dissero.

Allora mi alzai piano piano e quando sono arrivato a metà strada, vidi un gruppo di gente americana. “Cosa è successo?” dissi.

“Ti ricordi quello che ti ha spaccato la schiena? E’ un italiano”.

“Cosa dici?” risposi. “Ha avuto il coraggio di venire con noi. Mi ha aperto le valigie: orologi, collane d’oro… mi hanno ammazzato di botte”.

Sono arrivati gli americani…, ma penso…ha avuto un bel coraggio a venire via con me…. Come faceva questo a sapere che lui mi ha massacrato di botte?

Arrivati a Bolzano, il treno camminava piano piano, la gente a baciare la terra…, arrivati a Bolzano, tutti questi signori con le fotografie dei figli e dicevano: “Questo lo conosci? Lo hai visto?” E’ difficile ricordarsi.

Oltretutto dove lavoravo io…., senza niente, si cambia fisionomia e cambia tutto. E mi hanno dato un uovo con un panino, mia madre mi dava dei soldi…, ho aperto l’uovo e lo mangiavo con il pane.

Poi hanno detto: “Venite, ragazzi che vi diamo dei vestiti civili, venite che buttate via quelli lì”. Dicemmo: “Va bene”.

Mi hanno dato i vestiti civili, sono arrivato lì e mi hanno detto: “Mi dispiace, abbiamo solo una camicia”. Rigata anche quella. “Mi dia pure la camicia” dissi.

Dopo un po’ mi dissero: “Vai all’ospedale”.

Ma io risposi: “Non mi prendono neanche vedendo che io sono tubercolotico”.

“Ma dai”, mi dissero, “cosa dici?”

Dissi:” No, non ci vado”, finché la febbre mi ha convinto e sono andato dentro all’infermeria in ospedale, avevo il pus che mi colava…, avevo tutto sangue marcio. Volevano operarmi. Ma io dissi: “No, mi hanno già operato due volte, quel cane là”.

Fatto sta che in ospedale mi misero in un letto con lenzuola bianche, coperte bianche, dormivo un po’ di qua e un po’ di là…, mi hanno fatto delle punture e dormii tutta la notte. Alla mattina dormivo ancora e sentii: “Quelli di Udine si presentino che stamattina si parte e si va a casa”. Così pian piano mi sono svegliato, mi hanno preso mi hanno portato sulla corriera e siamo partiti.

Dove c’erano dei punti che non erano sicuri, facevano scendere tutti e passava l’autista. Dove si mangiava, nei posti in cui loro avevano già preparato per mangiare, sempre dalle suore o dai preti, mangiavo, ma appena mangiavo mi facevo tutto addosso, non tenevo più.

Avevo talmente la pelle che non tenevo più niente, avevo fatto tutto addosso. Allora mentre andavano a mangiare, io andavo al gabinetto…. “Dai, vieni a mangiare” e io dicevo “No, non ho fame”. Non potevo dire all’autista: “Fermati” a metà strada, per me.

Siamo arrivati a Pordenone e … mi ha convinto a medicarmi. Sono andato con lei, mi ha medicato e tutto, e poi da lì siamo arrivati a Udine alla sera.

Ha avuto un bel cuore di dire: chi vuole andare a casa, lo portiamo a casa.

E lì sono andato alle scuole IV Novembre che erano le scuole apposta per gli ammalati, IV Novembre ad Udine. Lì c’era il dott. De Bellis, con le suore lì dentro. Il dottore mi disse: “Avvisiamo tutte le vostre famiglie”.

Dissi: “Dott. Bellis, mi faccia un piacere, non lo dica a nessuno dei miei”.

“Perché?” mi disse. “Se mi vedono così…, sono pelle e ossa”.

“Va bene”, mi rispose.

Andai a letto, mi medicavano, mi misero una zanzariera contro le mosche per tutto il pus che mi colava giù, finché un giorno un pomeriggio dopo mangiato, sentivo parlare, dopo un po’ sento che uno mi scuote. Dissi: “Cosa c’è?” E’ venuto un signore con il dott. De Bellis, e lui ha detto: “Questo è Cosmar”.

“Ma non è mio figlio questo qui, ho visto mio figlio prima di partire per la Germania, non sarà mica ridotto così. No… Poi, vede che ho la lettera che mio figlio è morto a Mauthausen.”

Poi allargarono la zanzariera e parlava con questo dottore che mi voltava la schiena, parlava con il dottore. Allora mi sono affacciato alla porta e dissi: “Papà”!

Quando si è girato, quel che si è sentito lui non lo so dentro di sé, ma so che non è riuscito a parlare per un bel po’.

Disse: “Sei proprio te?”

Dissi: “Sono proprio io, sono arrivato”.

Di quelli che arrivavano della Croce Rossa Internazionale del Vaticano, gli ammalati arrivavano lì e dopo due o tre giorni morivano tutti. Erano già alla fine, senza avere neanche la soddisfazione di vedere i propri familiari.

E’ quello che mi fa rabbia.

D: Quando sei entrato lì quand’era?

R: Era il 26 o 28 giugno.

D: Del 1945?

R: Sì.

Balboni Ferdinando

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Balboni Ferdinando, sono nato il 27.5.1923.

D:. Dov’è che sei nato?

R: Sono nato a Castelmaggiore, un paese vicino a Bologna, il 27 maggio 1923. La mia storia possiamo dire che comincia fra la fine di febbraio e i primi di marzo.

Ci fu una chiamata, siccome molti non avevano ricevuto la cartolina tutti quelli nelle classi ’22, ’23, ’24, fino a ’25 e anche ’26 avevano l’obbligo di presentarsi volontariamente.

D: Questa chiamata in che anno è avvenuta?

R: Nel ’44. Io non è che avessi troppa voglia di andarci, allora fui contattato una sera da un certo Giordano Maz, penso che si chiamasse così, è una specie di reclutatore, il quale mi offrì di entrare in una piccola squadra partigiana, roba di principianti.

Io entrai, accettai. Andavamo in giro per le campagne, il nostro ordine era di approvvigionare quelli della montagna. Siccome nella zona dov’ero io c’era un sacco di piccoli proprietari terrieri che facevano il mercato nero. Allora noi, adesso non so se sia giusto dirlo questo, andavamo alla sera.

Prelevavamo quanto ci serviva, però abbiamo sempre lasciato una ricevuta con la quale alla fine della guerra questa gente che aveva dato la roba poteva per lo meno giustificarsi. Non so se siano stati rimborsati o pagati, però per lo meno non sono stati né arrestati né tacciati di collaborazionismo.

Anzi, sono stati apprezzati come collaboratori. Poi venne il periodo della mietitura, allora c’era l’ordine che nessun carico di grano doveva partire. Noi alla notte andavamo a bruciare le macchine, le trebbiatrici con delle molotov, con una bombetta a mano, prima la molotov poi la bombetta a mano.

Ogni tanto abbiamo avuto qualche scontro, perché nei fienili su c’erano le Brigate Nere, allora qualche sparatoria, ecc. Fu in una di queste sparatorie che un mio collega rimase ferito da una scheggia di legno che gli si piantò nel collo. Non avevamo medicinali.

Siccome io nella zona ero quello conosciuto di meno, andai a Minerbio, un paese sempre vicino a Bologna a prendere dei medicinali. Naturalmente i medicinali che presi io insospettirono il farmacista, il quale era un noto fascista. Mi dette tutta la roba, presi bende, ecc.

Anche lì, un po’ ingenuo. Appena fuori fui fermato dalla Todt, da guardiani della Todt. Io avevo una tessera della Todt come documento, mi lasciarono andare. Solo che quel maiale di farmacista andò dentro alla Casa del Fascio, che era lì proprio nella piazzetta dove c’era la farmacia, disse che un tipo sospetto si era presentato e aveva preso dei medicinali.

Allora mi mandarono dietro. Solo che io non me ne accorsi, perché io avevo una bicicletta, allora le chiamavano alla Valencia, cioè col manubrio così, una motocicletta moderna. Se io mi fossi solo voltato, mi bastava accelerare.

Mi stavano seguendo due con quelle biciclette da bersaglieri a ruote piene, non c’era competizione. Invece mi sono arrivati dietro che non me ne sono accorto, mi hanno intimato l’alt.

A quel punto mi ritengo fortunato, perché nei mesi precedenti non sono mai uscito una volta armato, senza due pistole. Avevo due Browny calibro lungo che avevamo prelevato disarmando fascisti e tedeschi.

Per fortuna quel giorno non ce l’avevo, non l’avevo con me, quindi me la cavai, mi arrestarono. Subii un primo interrogatorio, poi mi mandarono alla caserma dei carabinieri, il maresciallo dei carabinieri era un fascista.

D: Scusa, Ferdinando, quando? Ti ricordi il giorno che ti hanno arrestato?

R: Il giorno che mi hanno arrestato deve essere stato il 24 giugno.

D: Del ’44?

R: Del ’44, però non è che io ricordi esattamente, è già passato tanto di quel tempo.

D: Questi due che ti hanno seguito chi erano?

R: Erano due della Brigata Nera, due brigatisti neri. Mi hanno spianato il mitra e mi hanno detto di precederli. Io sono andato davanti e loro dietro.

Ad un certo punto mi è venuto in mente che io avevo una scatola di fiammiferi nel taschino, piegata nella parte sotto c’è una lista d’armi che io dovevo far avere a Castelmaggiore. Ho detto: “Qui sono fatto, sono finito”.

Ad un certo punto si dà il caso che passassimo dove stavano facendo dei lavori, c’era un tombino di fognatura aperto. Io tirai fuori la scatola, dico: “E’ già finita, avete da accendere?”, poi ho buttato via la scatola così dentro lì.

Mi hanno arrestato, mi hanno fatto un primo interrogatorio in cui io ho raccontato una storia alla quale non avrebbe creduto nemmeno Cappuccetto Rosso penso, di getto. Ad un certo punto mi misero dentro in cella.

Poi dice: “Domani ti interroghiamo, domattina ti interroghiamo”. Alla mattina fui portato all’interrogatorio.

D: Questo dove? Ti hanno messo in cella in quale località?

R: A Minerbio sempre.

D: Ti hanno portato lì nella caserma?

R: Mi hanno portato nella caserma, poi dopo un piccolo sommario interrogatorio in cui io gli raccontai una storia tanto per dire qualcosa mi misero in cella. Alla mattina andai all’interrogatorio.

Primo interrogatorio, l’interrogatorio venne su alla casa della GIL, era la caserma delle Brigate Nere. Avevo davanti quattro o cinque persone, io ero seduto su una specie di poltrona da barbiere girevole. Cominciarono ad interrogarmi.

Mi interroga, io racconto questa storia ecc. Ad un certo punto uno: “No, sono tutte balle quelle che stai dicendo, non è vero”. Poi uno schiaffone. “Tu hai detto così e così, invece non è vero”, poi i tre mi giravano, un altro schiaffone.

A turno mi hanno schiaffeggiato tutti, diverse e svariate volte. Dopo però finita lì, sono tornato in cella. Stetti sveglio tutta la notte a cercare di architettare una storia credibile e un po’ mi sembra di esserci riuscito.

La mattina dopo ricominciano, per un’ora li lascio andare avanti sulla vecchia versione con schiaffoni, ecc. Alla fine feci una scena, feci finta di piangere: “No, basta, vi dirò tutto. Sì, la storia che vi ho raccontato non è vera”. “Allora che storia?”. E gli raccontai quella che mi ero costruito.

Lì ho tenuto botta per quattro giorni, sotto le botte non ho mai sbagliato una parola. Non è che io l’avessi scritta, ma ormai me l’ero memorizzata. Allora non avevo la memoria di adesso.

Non dico che furono costretti a crederci, ma dovettero crederci, perché nemmeno sotto gli schiaffoni ecc… Difatti mi avevano ridotto la faccia, sanguinavo un po’ dappertutto, la faccia gonfia. Poi mi misero un giorno in cella.

Mi arriva dentro all’improvviso, sento aprire la cella, mi si presenta un certo Romano Ricci. Era un partigiano, veniva a portarci da mangiare nelle basi dove andavamo delle volte. Per fortuna aveva il carabiniere dietro e non s’accorse che Ricci ebbe un momento così…

Io invece ebbi il sangue freddo di rimanere impassibile. Salutai, poi stavo leggendo un libro e mi rimisi a leggere. Me lo lasciarono lì, io gli feci segno che avrebbero potuto essere in ascolto. Così parlammo un po’ del più e del meno.

Dico: “Se permetti adesso voglio finire questo libro, tanto a te non interessa”. Dopo mezz’ora lo vennero a prendere e lo rimandarono a casa, perché anche lui era un sospetto, però non avevano niente in mano.

In poche parole fui spedito a Bologna, dopo quello mi mandarono a Bologna alla caserma Giulio Bernini. Allora dalla caserma Giulio Bernini avevano estradato i frati, era un vecchio convento, e si erano insediate le Brigate Nere. Gli avevano dato il nome di Giulio Bernini; credo che fosse un eroe loro.

Sono stato lì diversi giorni. Anche lì botte da orbi, non ho sbagliato una parola nemmeno lì. Allora si sono convinti. Nel frattempo c’era stata una fuga a San Giovanni in Monte, nel carcere di San Giovanni in Monte, purtroppo l’avevano fatta troppo presto.

Quando sono arrivato io ci misero dentro una cella. Eravamo in trentacinque dentro una cella, ognuno aveva la sua branda, c’era il passeggio. La cella sarà stata lunga 20, 25 metri, larga 8 o 10, si stava comodi. A parte il fatto che non si mangiava niente, ma si stava comodi.

Lì chiamavano gli interrogatori. Io non fui mai chiamato e sono stato lì. Adesso esattamente non lo so, sarà stato il 14 o il 15 d’agosto che sono andato a San Giovanni in Monte e sono rimasto lì fino al 27 ottobre, il giorno che ci hanno mandato a Bolzano.

Premetto: nella cella dove ero io hanno fucilato un sacco di gente, li tenevano come ostaggi, ma eravamo tutti ostaggi, anche noi. Ammazzavano un fascista, ne prendevano dieci o quindici, li portavano contro al muro lì e li ammazzavano spesso e volentieri, dove c’è il muro del pianto adesso con tutte le fotografie, i tre tabelloni.

Li ammazzavano lì contro, poi li lasciavano lì, il giorno dopo li esponevano, tanto per farli vedere. Io ho subito tre o quattro di queste incursioni dentro, che c’era il famoso Tartarotti, il famigerato Tartarotti. Era credo a Villa Triste, credo che fosse a Milano Villa Triste, so che era una villa dove si compivano un sacco d’orrori e i capi dentro queste villa erano Osvaldo Valenti e la Luisa Ferida.

Hanno raccontato delle cose spaventose di quelli. Sembra che la Luisa Ferida, sembra, non lo so, io non ho visto, si esibisse nuda, che legavano questi ragazzi, lei gli si esibisse nuda davanti, magari anche avvicinandoli a contatto, naturalmente ragazzi giovani, si eccitavano.

Allora delle gran legnate sul sesso, questa è una delle cose. Poi c’era la famosa tortura del fiammifero sotto le unghie. Io fortunatamente non ho mai avuto torture, botte ne ho prese.

Ma sai, le botte si sopportano. A quell’età ti viene un nervoso addosso che le senti dopo magari, ché ti ritrovi con una faccia così. Dov’ero rimasto? Ero rimasto che ero ancora dentro a San Giovanni in Monte e venivano alle cinque della mattina.

Quando il secondino, erano secondini normali, secondini impiegati, venivano a chiamare, cominciavano: “Tizio, Caio, Sempronio, altri fate fagotto”. A quell’orario fare fagotto voleva dire andare contro il muro.

C’erano i vari orari. Alle nove c’era l’orario dell’interrogatorio, alle undici invece se ti chiedevano di fare fagotto venivi scarcerato. Fare fagotto voleva dire racimolare il materasso, tirare su il materasso dalla brandina, il lenzuolo, quello che avevano dato e poi portarlo in magazzino.

Poi da lì o andavi da Tartarotti o andavi all’interrogatorio. No, all’interrogatorio comunque non facevano fagotto, dall’interrogatorio dopo ritornavano. Ho visto diversi, sono stati in cella con me, fucilati. Sono tutti là.

C’è un certo Onofri, Gino Onofri credo che si chiamasse, un signore sulla quarantina d’anni, un certo Musi, che era uno che avevano beccato con del tritolo sulla bicicletta. Anche lì dopo averlo torturato l’avevano buttato contro al muro.

Poi chi c’era? Adesso i nomi purtroppo non me li ricordo più, ma ce n’è diversi che li conosco guardandoli. Poi ad un certo punto verso il 5 ottobre ci fu un grossissimo bombardamento a Bologna, che durò dalle nove di mattina alle cinque del pomeriggio.

Sembrava che preludesse l’entrata degli alleati a Bologna, invece poi non è stato vero. Gli alleati erano ancora lontani. Premetto una cosa ancora, che io ero sotto il Tribunale Speciale di Parma, perché l’unica accusa che mi rimase era il sospetto di essere partigiano e disertore.

Bastava quello in tempo di guerra per cacciarti contro un muro, però non sono mai andato a Parma. Ci caricavano su un camion, eravamo in trentaquattro, trentacinque, eravamo noi un po’ della nostra cella, d’altre celle. C’erano anche, posso parlare chiaramente, c’erano anche tre prostitute di Roma.

Il loro crimine era quello di avere impestato un mezzo reggimento di tedeschi, o qualcosa del genere. Naturalmente, come furono a Bolzano, le rimandarono subito a casa. Ce n’era una con una pancia così, a quella detti l’indirizzo di casa mia e la mandai a casa mia, da mia madre raccomandandole di dare quello che poteva per aiutarla.

Difatti mia madre la tenne in casa diversi giorni, le preparò un piccolo corredino per il bambino. Mia madre era una ricamatrice bravissima. Le dette delle cose, la aiutò. Poi arrivammo a Bolzano.

Però prima di arrivare a Bolzano nei pressi del Po’ fummo attaccati da due Moschitos, quelli a doppia coda, che ispezionavano un po’ la strada. Ci fermammo, c’era il camion e dietro di noi c’era una di quelle jeep tedesche, quelle anfibie con quattro SS sopra coi mitra. Ce n’erano due in cabina.

Ad un certo punto la jeep si fermò e il camion invece non capì, proseguì e ci rimase per venti, trenta secondi tre o quattrocento metri di strada libera. Allora quattro saltarono giù, mi ricordo i nomi. Erano Vittorio Chefeo, Fellicani, Didomizio e un capitano dei bersaglieri ebreo, un certo Ascoli.

Quelli riuscirono a scappare, saltarono giù al volo, gli spararono dietro, ma gli spararono dietro con una Maschinenpistole. Quelli correvano in mezzo alla campagna. Per non perdere capre e cavoli siamo andati avanti così e siamo arrivati a Verona, al castello.

Era il periodo che c’erano De Bono, Ciano. Li avevano fucilati subito prima o subito dopo, adesso non ricordo più. Io so che ci cacciarono in una camerata con della paglia per terra e ci misero a dormire là.

Alla mattina alle quattro ho passato il più grosso spavento della mia vita. Ci svegliano, c’è un prete. Erano le quattro di mattina. Questo prete dice: “Io sono autorizzato per speciale dispensa papale ad assolvervi e a comunicarvi tutti in massa”. Dico: “Qui ci danno l’assoluzione in massa alle quattro del mattino, qui ci fucilano tutti”.

Invece fortunatamente ci caricarono su un camion e arrivammo a Bolzano il giorno dei Santi, non mi ricordo più se l’uno o il due, so che o il giorno dei Santi o il giorno dei morti. Lì appena entrati venimmo classificati, cioè segnati, tutto: nome, cognome. Presi dentro a forza, poi ci mandarono alla tosatura e ci raparono a zero.

Dopo ci presero gli abiti e ci misero sopra dei giacconi. Non avevano lì a Bolzano la divisa a strisce, avevano dei giacconi di iuta, di tela grossa, giaccone e pantalone. Dietro c’era verniciato rosso una specie di bersaglio, di tiro a bersaglio, perché se uno scappava… Non lo so.

Oppure una croce così. Ci lavarono, ci lavammo. Mi meraviglio che ci lasciarono… Io avevo un bel pacco così che mi aveva portato dentro mia madre il giorno prima, dove c’erano dentro tutte le grazie di Dio. Ci assegnano al blocco, credo che fosse il primo, il blocco non lo ricordo esattamente. So che è un blocco.. o F o… No, F no. C’erano le donne, credo fosse il blocco H.

Nel frattempo passa il rancio, uno schifo da far paura, figurati se io mangio questa roba. L’unica cosa in cui non c’era nessuna differenza con i campi veri e propri di sterminio era il mangiare, quello era uguale. Era una tazza di brodaglie con qualcosa dentro, c’era una qualche grana d’orzo.

Io ad un certo punto me ne frego, mi ero scelto un castello in alto, mi prendo fuori una bella cotoletta così e mi metto a mangiare con del pane bianco. Mentre mangiavo ad un certo punto mi sono sentito a disagio, mi sono sentito osservato. Alzo gli occhi, avevo tutto il blocco in piedi sopra che erano lì tutti attorno a guardare.

Allora non ho potuto fare a meno, ho visto uno che sembrava il capo, gli ho dato tutto e ho detto: “Distribuisci un po’ per uno”. Per me avevo da mangiare per tre o quattro giorni, ma per un centinaio che c’era dentro al blocco hanno mangiato un pezzo di roba ciascuno e sono rimasto là, per tre giorni non ho mangiato.

Dopo è diventato buono anche il rancio. Il pezzetto di pane grosso così, pane in cassetta che sarà stato un etto, poco più di un etto, ma non credo che fosse molto di più, sarà stato dodici o quattordici millimetri.

D: Ferdinando, quando ti hanno immatricolato lì a Bolzano?

R: Subito, appena arrivato. Mi hanno dato il numero 5854, achtundfunfzigvierundfunfzig, dico bene?

D: Assieme al numero ti hanno dato qualche altra…

R: Il triangolino rosso. Ce li ho ancora quelli lì. Ce l’ho qui, lo vuoi vedere? Sospendiamo per un attimo.

D: Abbiamo recuperato il triangolo. Quello è il tuo triangolo e il tuo numero?

R: Sì.

D: Di Bolzano?

R: Sì.

D: Il numero qual era?

R: 5854. Ci chiamavano col numero in tedesco, se non rispondevi… Abbiamo fatto presto ad impararlo.

Lì siamo stati fortunati che, a parte gli ultimi che avevano cinque cifre, i 110, qualche cosa del genere sono stati proprio gli ultimi entrati, erano tutti numeri a quattro cifre. Quindi erano abbastanza…

R: Mi ero dimenticato un particolare. Subito all’inizio che ero in questa piccola squadra di partigiani, che avevamo cominciato a fare delle cose, subentrò in squadra un fuoriuscito jugoslavo, un certo Vincon Laker, che poi è tornato in Jugoslavia.

Ha fatto a tempo a congelarsi un piede nell’ultimo inverno, è riuscito a scappare dopo, scappava. Lui non è mica mai stato catturato. Lui era lì con me come un domicilio coatto, era presso una famiglia di fascisti che però facevano il doppio gioco. Quindi lo tenevano lì.

Dopo è venuto in squadra con noi e ci ha insegnato diverse cose, ci siamo fatti un po’ d’esperienza. Tant’è vero che con l’incoscienza dei vent’anni io da niente ero diventato… Abbiamo fatto un paio di cose.

Tu pensa una cosa, siamo entrati io e lo svizzero, mi meraviglio che l’abbia fatto anche lui, in un bar a San Giorgio di Piano che era un covo delle Brigate Nere. Siamo andati. Mentre eravamo dentro arriva un camion. C’era stato un rastrellamento ad Argelato, un paese lì vicino.

Tutti questi fascisti: “Sì, perché qua, perché là”. Io ebbi la presenza di spirito, come entrarono nel bar gli andai incontro, dico loro: “Quei figli di puttana li avete ammazzati?”. Allora loro mi guardarono: “No”, dicono, “qualcuno sarà, perché abbiamo sparato attraverso la canapa, ma tanto non possono mica scappare. Sono là”.

Dico: “Dio bono, avete fatto bene. Dovete ammazzarli tutti quelli che ci stanno rovinando, potremmo vivere tranquillamente. Posso offrirvi da bere?”. Gli abbiamo offerto il caffè. Saranno stati ventiquattro o venticinque caffè.

Avevamo i soldi, ne avevamo. Gli abbiamo offerto i caffè: “Allora ragazzi, arrivederci”. “Grazie del caffè”, “Mi raccomando, se ne trovate ammazzateli tutti”. Poi dico: “In culo”. Avevo voglia di voltarmi. Me lo tirerete via questo suppongo.

A parte quell’episodio, adesso riprendiamo. Dove eravamo rimasti?

D: A Bolzano.

R: A Bolzano.

D: Che dopo il primo giorno che sei arrivato, che hai mangiato…

R: Sì, tutte quelle cose. Il secondo giorno passò senza niente lì in campo: appello alla mattina, appello al pomeriggio, appello alla sera. Dopo quattro o cinque giorni cominciammo a sentire, Radio Scarpa fa presto a camminare, si cominciava a sentire, noi non sapevamo niente di Mauthausen, non sapevamo nemmeno cosa fosse Mauthausen.

Si cominciava a sentire che andavano a Mauthausen, a Dachau, Buchenwald. Parlavano che li spedivano e ogni quindici giorni circa vuotavano il campo, all’infuori di quelli che erano di servizio fissi lì, vuotavano il campo.

Noi eravamo quattro o cinque giorni che eravamo lì. A un certo punto la mattina dopo è stato il colpo di fortuna. La mattina dopo all’appello c’erano tutti e due, il maresciallo Haage e il comandante Titho, con l’interprete, il quale interprete ci dice: “Chi è meccanico specializzato venga fuori”.

Io ho pensato: “Io di meccanica me ne intendo”, facevo il disegnatore tecnico. Dico: “L’incognita quale sarà? Se ci chiamano qui penso che hanno l’idea di mandarci a lavorare. Io vado fuori”. Cercai di tirare fuori qualcun altro, tirai fuori un avvocato di Bologna, l’avvocato Mocai. Tirai fuori uno studente in medicina del meridione, tirai fuori due braccianti che non sapevano nemmeno cosa fosse la parola meccanico. Tirai fuori altre due persone, andammo fuori in sette. Eravamo in trentacinque, vent’otto rimasero lì.

Dopo tre o quattro giorni quei vent’otto sono andati via, ne sono tornati due. Un certo professor Forni, che non so, poveretto, come sia andato a finire, perché io l’ho visto a casa e sembrava uno di ottant’anni, non aveva ancora quarant’anni. Era un professore di matematica dell’università di Bologna. Sono tornati in due, quell’altro non mi ricordo chi fosse. Poi siamo partiti, ci hanno caricato su un camion e ci hanno portato alla galleria del Virgolo. La stavano ultimando perché doveva venire su una fabbrica di cuscinetti da Ferrara.

Solo che non avevano operai, perché avevano tagliato la corda gli operai, allora si sono trovati che a Bolzano non c’erano operai, perché c’era la Falck., la Viberti e altre due che adesso non ricordo più come si chiamano, che lavoravano a pieno ritmo. Quindi non c’era un operaio libero, allora li vennero a cercare al campo. Andammo fuori in tutto fra tutto il campo un 170, 180 persone. Il primo mese o quasi due abbiamo lavorato a picco e pala, cioè piccone e badile, perché abbiamo depositato all’interno della galleria i binari perché entrassero col materiale, con le macchine che pesavano delle tonnellate.

Poi a un certo punto verso gennaio, primi di gennaio, cominciarono ad arrivare le macchine e fecero le squadre. Erano venuti su alcuni capisquadra da Ferrara, gli dettero una parte. Io fui assegnato al collaudo volante. Avevo sette, otto macchine da guardare con dei calibri.

Dovevo controllare queste macchine a diverse grandezze, a diversi diametri. Facevano le gole dei cuscinetti, le gole interne ed esterne, tutto. Io avevo dei misurini chiamati calibri, dovevo ogni tanto controllare la centratura di questo incavo. Nell’Isarco se vanno a guardare sotto c’è una miniera di ferro lì sotto o d’acciaio.

I tedeschi non capiscono niente da quel lato. C’era solo il pericolo di due capi torinesi, uno si chiamava Nicolini e l’altro Prelle. Il signor Prelle era una brava persona, abbastanza. Nicolini era un fascista fetente, ma di quelli fetenti, ma super fetenti.

Il quale s’accorse che io e altri due o tre sabotavamo le macchine un po’. Allora dice: “Io debbo dirlo perché sennò…”. Dico: “Signor Nicolini, si ricordi una cosa. Il suo nome è già segnalato fuori a chi di dovere, quindi le garantisco una cosa, che se Lei ci denuncia noi andiamo a finire contro al muro, ma a casa Lei non ci torna. Quello glielo garantisco io”.

Fatto sta che Nicolini si è tenuto per sé quello che sapeva. Arrivammo verso la fine. Dopo si cominciava a stare… Sai com’è, uno comincia ad organizzarsi un po’. Cominciò a saltare fuori il pezzettino del pane.

Io adesso ho un particolare, glielo dico però non l’ho detto per televisione. Praticamente un giorno io stavo dentro uno sgabuzzino, avevo una specie di sgabuzzino, stavo disegnando. Disegnavo una donnina nuda, ero abbastanza bravo a disegnare. A un certo punto mi trovo il caporale tedesco dietro la schiena che mi stava guardando.

Ho detto: “Adesso qui sono botte”. “Gut, gut”. Mi deconcentra, per me deve avere fretta di andare via. “Tu fare cose per me, qua e là”. Allora io andai un po’ oltre, gli feci un disegnino pornografico. Andò al settimo cielo. Da quel momento cominciò a portarmi un pezzo di pane, qualche sigaretta.

Allora io mi misi a lavorare, Tinto Brass è roba da ridere. Mi misi a fare questi disegnini, tutto è permesso ad un certo punto. Solo che ad un certo punto mi sono preso la più grossa legnata della mia vita.

Una mattina ci alziamo, erano le sei del mattino, cinque e mezzo. Cominciavamo il turno alle sei. Io in genere tenevo un pezzettino di pane, alla mattina ci davano un bicchierino così di caffè, acqua calda. Però era caldo, un po’ dolce.

Solo che quella mattina non c’era più niente. C’era l’ordine del giorno con tutti gli orari. Per esempio nell’ordine del giorno c’era: burro e la fetta di salame, mai visti, mai, proprio mai visti. Strappo via l’ordine del giorno. Dopo cinque minuti arriva Panciolini, lo chiamavamo Panciolini, un caporale della SS che era cattivo, ma cattivo cattivo.

Comincia ad urlare, chiama l’interprete. “Chi è che è stato a fare questo?”. Tutti zitti. “Chi è che è stato?”. Ad un certo punto dice: “Va bene, io adesso…”. L’interprete disse, io parlo, faccio finta di essere il tedesco: “Vi conto, faccio la decimazione, cioè vi conto, ogni dieci ne tiro fuori uno e viene punito”.

Io non ero sicuro che nessuno mi avesse visto strappare il foglio. Dico: “Qui se mi hanno visto va a finire che ci faccio una figura di merda, meglio prendere qualche botta”. Alzo la mano e vado fuori. Mi sono preso… Io non le ho contate, ma mi hanno detto che sono state vicino alla trentina, con il Gummi.

Era un attrezzo d’alluminio con la copertura di gomma. La prima mi ha spaccato il sopracciglio qui, la seconda mi è arrivata nel naso, poi ho cominciato a coprirmi. Tutte le altre me le hanno date da qui.

Mi sono lasciato andare in ginocchio, non sono svenuto perché avevo una tensione. Mi hanno ridotto per qualche giorno… Ha presente Quasimodo? Ero gonfio da qui fino a metà schiena. Un collo che era così.

Poi pian pianino… E tutto sommato ci guadagnai, perché mentre ero a letto, nel frattempo premetto che avevano aperto anche alle donne la galleria, c’erano arrivate altre 120 donne, c’erano arrivate altre macchine. Era tutta roba automatica, era abbastanza facile da fare.

Premetto quello, che arrivavano. Allora le donne di là lo sapevano, c’era la guardiola fra gli uomini e le donne, la guardiola con due SS, però le lasciavano. Per una decina di giorni le donne mi hanno portato tutte qualcosa da mangiare.

D: Ferdinando, quest’episodio si svolgeva nella galleria del Virgolo o nel campo?

R: No, nella caserma.

D: Vicino alla galleria?

R: Sì. C’è una caserma tuttora che esiste. Difatti quando mi avete fatto l’intervista eravamo circa in quella posizione. Dalla galleria del Virgolo avanti duecento metri sulla sinistra allora c’era una caserma.

Ci deve essere ancora, io l’ho vista, l’ho fotografata. Le ho a casa, solo che non le ho trovate. Volevo prenderle, ho a casa le fotografie. C’è ancora sulla galleria del Virgolo, c’è ancora l’aquila del Littorio.

Com’è che non la fate levare via?

D: Tu quando sei uscito dal campo, siete stati alloggiati in questa caserma?

R: In questa caserma quando siamo usciti, perché andare dal campo a lì era troppo lontano. Dal posto dove era il campo…

D: Via Aresia.

R: Da Via Aresia a lì facevano prima. Ci andavamo a piedi e in un minuto eravamo dentro. Quindi eravamo lì. Io sono stato picchiato lì, nella guardiola.

Però, come le ho detto, ci ho guadagnato, perché almeno ho mangiato qualcosa di più.

D: Anche lì al Virgolo c’erano i Kapò, c’erano dei capi?

R: No, al Virgolo non c’era nessun Kapò.

D: Nella caserma?

R: Nella caserma nemmeno, non credo. C’era il comandante del campo che seguiva, ma io non mi ricordo che ci fossero dei Kapò.

D: Ferdinando, tu sei rimasto lì fino a quando?

R: Fino al 30 aprile. Sono andato fuori il 30.

D: Cos’è successo in quei giorni?

R: In quei giorni si cominciava già ad avere il sentore che stava per finire. Noi ci siamo preparati. Ad un certo punto da fuori sono riusciti a mandarci dentro un mitra, l’abbiamo nascosto. Era nascosto sotto un letto.

Se per caso facevano degli scherzi… Invece non ci fu bisogno di niente. Ci caricarono, ci portarono tranquillamente al campo, ripassammo per la reception, ci dettero questo documento e poi a quel punto liberi.

D: Cioè, cos’è successo?

R: Come cos’è successo?

D: Liberi cosa vuol dire? Sei uscito dal campo?

R: Sono uscito dal campo lì a Bolzano. Poi a Bolzano i partigiani hanno attaccato i tedeschi sbagliando il momento, sbagliando tutto, poveretti. Anche loro non è che avessero una gran pratica di guerriglia.

Io ho visto un ragazzino dentro una porta con un mitra, sparava a mortaio col mitra, puoi ben immaginare se il mitra è efficace, a venti, trenta metri al massimo. Dopo non fa più niente. Lui sparava così.

A un certo punto i tedeschi si stancarono, li circondarono, li presero tutti, li schiaffarono dentro ad un cortile e poi li dettero in mano agli americani quando arrivarono.

Per me c’erano già stati dei contatti, perché quando tornammo indietro, non so se era a Ora, quei posti lì, c’erano già che facevano i vigili soldati tedeschi con la piastra qui. Non erano armati, però facevano i vigili.

D: Tu quando sei arrivato a casa?

R: Io sono arrivato a casa dopo sei giorni, me la sono presa comoda. Primo episodio, appena uscito dal campo, una signora di Bologna ci ha sentito parlare bolognese, una che abitava a Bolzano. Ci ha invitato a casa, ci ha fatto le tagliatelle.

Quattro o cinque forchettate, poi non andavano più giù. Lo stomachino si era ridotto. Dopo ci incamminammo, Mocai aveva uno zio facoltoso che aveva una villa a Riva del Garda. Allora siamo arrivati a Riva del Garda.

Ci siamo installati un paio di giorni a casa dallo zio facoltoso. Dopo siamo venuti via e siamo passati da Verona, eravamo in contatto col dottor Betti, che era uno dei capi, era il farmacista di Piazza delle Erbe. C’era la farmacia in Piazza delle Erbe.

Appena uscito erano già venuti a prenderlo, l’hanno portato a casa. Lui a sua volta ci ha portato a casa sua in campagna e ci siamo fermati altri due giorni lì. Lo stomaco cominciava già ad essere più ricettivo.

Jerman Ada

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Mi chiamo Ada Jerman, sono nata a Trieste, sono di famiglia slovena, sono nata nel 1926, precisamente il 6 ottobre.

Nel ’43 mi è morto il papà e noi, io, mia madre e mio fratello, essendo anche in condizioni economiche precarie, non c’era nessuna entrata, siamo andati ospiti dai parenti di mia madre nel goriziano, perché mia madre appunto è goriziana di nascita, di famiglia contadina.

Siamo stati ospitati in casa di una zia, mio fratello in casa di uno zio, e mia madre in casa di un’altra zia, un pochino sparsi ma uniti nello stesso tempo.

Dopo l’8 settembre immediatamente, come per incanto, ma come per incanto ancora oggi mi chiedo come e quando era tutto quanto preparato, ad un certo momento si sono visti i primi… C’era un fuggi fuggi, il comune, il comune di Castel Dobre in questo caso, è stato lasciato libero, i funzionari che c’erano erano scappati. Dunque tutto questo dal primo settembre era una cosa già preparata, forse io come ragazzina e tanti altri non sapevamo che questo fosse stato già preparato in anticipo. Ed è evidente che era preparato in anticipo, il malcontento e tutto quello che è successo, che poi dai libri di storia lo si sa ancora meglio.

Dunque, in quel momento subito dopo l’8 settembre si sono presentati come per incanto i partigiani. I partigiani con la stella rossa, con… non si può dire una divisa, ma quelli che avevano avuto la fortuna di avere delle divise militari. In quel momento si sono manifestati i partigiani. Si sono manifestate anche delle persone civili e si cominciava ad avere dei meeting, così detti, quella volta si diceva meeting. Naturalmente era un’insurrezione praticamente, io direi un’insurrezione.

Ma l’entusiasmo che la gente aveva, e non parliamo dei giovani poi, sapendo che i tedeschi ed i fascisti, nota bene là erano i civili che dirigevano il comune, le scuole ecc…, erano i fascisti italiani. A questo punto per me era incominciato il movimento di liberazione, anche se evidentemente preparato prima.

Da quel momento specialmente noi giovani con la direzione delle persone più preparate cominciavamo ad organizzarci per la resistenza. Resistenza erano anche le cose più piccole, più modeste, non resistenza solo quella di andare in montagna, di sparare, di avere dei collegamenti con i militari ecc… La resistenza era tutto ciò che poteva nuocere ai tedeschi occupatori. Ciò vuol dire che da quel momento anche una piccola informazione poi, diciamo così, operava come un tam-tam. Anche con i bambini più piccoli: dalle collinette si vedeva arrivare una colonna di tedeschi, nota bene che subito dopo l’8 settembre, dopo un momento di incertezza anche da parte dei tedeschi si erano manifestati i tedeschi, con la massima ferocia. Ho detto bene ferocia, giusto. Ecco, si erano manifestati.

Allora io ancora oggi mi domando come era nata questa spontaneità, questa spontaneità di tutti quanti. Tutti quanti. Non bisogna dimenticare che quella parte del Collio era di popolazione slovena, era ed è tuttora perché adesso è anche divisa dai confini: una parte è rimasta sotto l’Italia ed una parte è andata oggi come oggi alla Slovenia.

Dunque in questa maniera io ho cominciato con mia cugina, eravamo in casa giovani. Ho cominciato a collaborare in tutti i modi, in tutti i modi, facendo la staffetta, andando ad informare di tutto quello che si sapeva; tutto era collegato, eravamo collegati l’una all’altra, non c’era uno solo che lavorava. Io per esempio portavo qualche cosa ad una persona e sapevo che quella la portava avanti fino ai vertici che dovevano saper operare.

Questo era l’inizio.

In concreto sono stata presa così. Siccome ho detto che noi avevamo questa casa abbandonata, la mamma era abbastanza malata e c’era questa mia zia che la curava, di tanto in tanto si veniva a Trieste per vedere se la casa fosse aperta. Era una casetta, ancora adesso esiste la nostra casetta. Così venivo di tanto in tanto, ed avevo anche in queste occasioni da parte di queste organizzazioni giovanili il compito di portare quello che si poteva. Andavi in farmacia e se vedevi che ti davano di più garze le dovevi comprare, qualunque cosa poteva venire buona, anche noi in casa si facevano i biscotti, in casa, proprio in casa di mia cugina. Allora si faceva alla sera, magari andavano a dormire i genitori e noi si facevano i biscotti, il pane biscottato. Si faceva il pacco e si mandava su perché questo era per i partigiani feriti, per gli ospedali, organizzati come si poteva.

Per ritornare al punto concreto, come e quando, io sono venuta un giorno a Trieste, era circa prima della festa dei morti ad ottobre. Vengo a Trieste e nel mio rione con molta circospezione parlavo con i miei amichetti, amici di diciassette, diciotto, diciannove anni. Però pensavo che fosse quasi un mistero, invece anche qui era già tutto…

Difatti ho saputo che l’amico Attilio era andato con i partigiani. Poi mi rivolgo ad una amica, una certa Ninfa, che da poco tempo è anche morta; era impiegata al cantiere o alla fabbrica macchine, non saprei dire esattamente, comunque uno di questi due stabilimenti a Sant’Andrea. Lei era impiegata. Dico: “Sai, io dovrei portare qualche cosa, sono qui per casa, privatamente dico, ma dovrei portare quello che posso o devo racimolare qui, carta per ufficio, carta carbone, bende, garze, tutto quello che poteva servire diciamo ai partigiani, alle formazioni partigiane”.

Per lei non era un mistero, ho capito subito che già in fabbrica lavorava il movimento clandestino.

Allora ho detto: “Senti, tu, così che sei là, potresti procurarmi qualcosa di cancelleria?” Mi interessava. Ha detto che avrebbe fatto il possibile. Difatti la Ninfa mi ha portato non una risma completa ma una mezza risma di carta ciclostile che io, nota bene, sempre lo ripeto, non sapevo neanche che fosse carta ciclostile, dico la verità, non sapevo. Io d’altra parte mi ero procurata, pagando anche di tasca mia, della carta per dattilografia, carta semplice, quello che c’era.

In poche parole io avevo in una sporta questo materiale, parte comperato, parte ricevuto da Ninfa, carta ciclostile. Poi c’erano delle bende, della tintura di iodio.

Ecco, io avevo nella sporta tutte queste cose; sapevamo da noi che dovevamo portare, fare qualcosa per il movimento.

In quest’occasione voglio ribadire anche questo: non era solamente che ti davano un ordine perché tu facevi parte di quell’organizzazione o come volevi dirla, ma era veramente che sentivamo in blocco, in massa, di lavorare. Lo ribadisco sempre più di ogni cosa; poi certamente altri avevano anche compiti molto più impegnativi, compiti di direzione, come vorrei dire, ma eravamo tutti compatti. Perciò io dico la verità, non ero un eroe ma facevo parte di quella massa, di quel mosaico, potrei dire un mosaico di quello che era tutto contro il nazifascismo. Ed io questo ribadisco, e sottolineo, contro il nazifascismo.

Ritornando da Trieste quel giorno mi ero fermata con la mamma, perché la mamma era molto malata quella volta, mi sono fermata a Cormons perché là c’era la stazione ferroviaria, poi si prendeva la strada a piedi per andare verso il Collio. Per Cormons mancavano ancora forse uno o due chilometri, si poteva andare, era popolata, dopo di che c’erano già le tabelle “Achtung Banditen”, non so se ci fosse qualche parola in più, non mi ricordo, ma questo “Achtung Banditen”, la zona dei banditi. Anche qua li si chiamava o ribelli o banditi, no? Ma adoperavamo molto anche la parola “ribelli”, i ribelli partigiani.

Ecco, in quel momento c’era una pattuglia di SS e mi ci sono imbattuta, non solo io, ma tutti quelli che andavamo verso quella zona, ed eravamo diverse persone, anche del Collio. La cittadina dove andavano a comperare qualcosa era Cormons, nella parte sud occidentale del Collio. Là era una zona molto ben organizzata, e c’era una zona anche di operazione, là si combatteva o si facevano operazioni militaresche, non so come dire, sempre partigiane, anche tra i partigiani italiani ed i partigiani garibaldini. Era un incontro molto ben riuscito e con una collaborazione ottima direi. Ma a questo anche dai libri di storia del movimento si può risalire.

Bene, niente; a questo punto ci portano tutti in caserma, in una piccola caserma a Cormons, dei carabinieri, e questo ci tengo a dirlo: ci rinchiudono, ci consegnano ai carabinieri, ci hanno richiuso, a me ed alla mamma ci hanno separate con la raccomandazione ai carabinieri di non aprirci e di non metterci in contatto. Però tengo a dire che i carabinieri appena erano usciti i tedeschi delle SS avevano chiuso dietro la porta e ci avevano lasciati liberi. Bisogna dire la verità, eravamo in sette persone, se qualcuno suonava andavano a vedere e ci rinchiudevano. Questo lo devo dire anche ad onore della nostra gente italiana, era evidente che a loro i tedeschi non piacevano. Questo tengo a dirlo, sì.

Niente, mi sembra che era una settimana circa in cella dei carabinieri, invece il bello venne dopo, nelle carceri di Gorizia. Nelle carceri di Gorizia siamo state rinchiuse: una vera prigione, c’erano molte e molte persone, molte specialmente ragazze sempre dei dintorni della parte goriziana, e là la prima cosa è l’interrogatorio.

L’interrogatorio era con un interprete sloveno-italiano, e devo dire tutto quello che mi è successo. Loro volevano a tutti i costi sapere per chi lavorassimo. Facevo finta, cascavo dalle nuvole, dicevo di non lavorar per nessuno, e naturalmente tiravo fuori, come era vero, anche la storia anche della mia famiglia, come siamo dovuti venire via e avanti. Tiravo fuori la questione che non esisteva più il comune, ma che c’era il prete. In questa maniera io giustificavo che questo materiale che ho, in fondo in fondo fosse per la parrocchia perché non esisteva più il comune. Ad un certo punto l’avranno anche creduto, ma quando era venuta fuori la questione del ciclostile quella me l’hanno sbattuta in faccia.

Ma io torno a ripetere, non avevo pensato, non sapevo neanche, quando la Ninfa mi portò questo ciclostile; c’erano delle gomme mi sembra ed anche delle matite se non mi sbaglio, quello che aveva potuto arraffare, diciamo così. Me l’hanno sbattuto in faccia: “Ma questo tu lo sai, tu lo sai questo, sai che c’è la propaganda, noi sappiamo tutto”. Allora cominciavano a terrorizzarmi: “Noi sappiamo tutto di te, delle famiglie”. “Ma sì, va bene, sapete tutto e so che sapete”. Insomma, mi arrangiavo abbastanza a cercare di giustificarmi più o meno, ma sempre così, con questa del prete che fa ridere anche adesso, dico ma come è che mi è venuta in testa quella del prete? Il prete era anche per noi quel prete che era lassù.

A questo punto mi hanno dato uno schiaffo. Casco da una parte, ritorno su e me ne danno un altro. Questi erano i due schiaffoni che ho ricevuto, che mi hanno fatto…

D: Scusa Ada, quando è accaduto questo?

R: Questo è accaduto gli ultimi giorni di ottobre. Gli ultimi giorni di ottobre, primi di novembre, adesso…

D: Di che anno?

R: ’44. Ecco, ho fatto un paio di giorni nelle carceri di Gorizia, la mamma fortunatamente l’avevano lasciata fuori: mia madre stava appena in piedi, era abbattuta dalla morte di mio padre, ma poi anche… è stata una fortuna che se la sia ripresa questa mia zia.

La mamma l’avevano lasciata fuori, poi i parenti mi avevano contattato: c’era un’infinità di parenti che venivano a portare qualcosa da mangiare, che poi ci portavano le suore, e così avanti. Ma il 1. novembre, no il 2 novembre, al 6 siamo arrivati in Germania, non mi ricordo esattamente se era il 2 o il 3, comunque alla sera venne una suora nella stanza, nella cella che era abbastanza grande, con una lista e disse: “Per domani mattina preparatevi, queste partono”. Ero anche io con queste.

Naturalmente noi eravamo convinte di andare a lavorare, in una fabbrica, non saranno le baracche. Si sapeva che c’erano le baracche dei civili che lavoravano, e questa per noi era già la prigionia, diciamo così, se vogliamo dirlo.

Mai e poi mai avremmo potuto immaginare qualcosa di più tremendo. Tutte quante, ognuna come poteva, aveva qualcosa di caldo, di indumenti caldi, tutti cercavano in qualche modo i genitori, i familiari, e tutti avevamo la nostra valigia. Mi ricordo un vestito caldo di mia madre e l’ultimo momento prima di andare fuori dalla cella mia mamma si era presa dalla mano un anello di fidanzamento di mio padre e me l’aveva dato, dicendo: “Non si sa mai”. Probabilmente lei aveva più esperienze ed ha pensato che con un pezzetto d’oro… Ecco, mi aveva dato quell’anellino. Io di oro avevo solamente quell’anellino che mi aveva dato la mamma all’ultimo momento e gli orecchini che avevo da bambina; addosso non avevo altro perché non ne avevamo, per dire la verità.

Siamo partiti. Io sono partita da Gorizia con il carro merci, prima su un torpedone militare mi sembra fino alla stazione e poi con il carro merci, carro bestiame. Ci siamo collegati, ci siamo incontrati con il carro che veniva da Trieste. Ma noi del goriziano eravamo nel nostro carro, erano due questi carri.

Così al 6 dicembre, dopo peripezie, quattro giorni di viaggio tra fermate, poi ci hanno dato… Qua ancora erano un pochino questi che ci accompagnavano, che poi c’erano questi delle Brigate Nere, italiani, che ci accompagnavano. Ci hanno fatto anche scendere mi sembra ad Udine, c’era un bar, non so se era della stazione, non mi ricordo più esattamente. Ci hanno dato un the o qualcosa.

Poi ci si doveva fermare perché c’erano i bombardamenti durante il tragitto, e so che ci si fermava su dei binari morti, e là si aspettava quando davano loro il via per proseguire.

Fino a là penso che ci fosse ancora un po’ di speranza di arrivare ad una meta, non certamente al paradiso ma almeno…

Quando siamo arrivati verso sera, all’imbrunire, davanti all’ingresso di Ravensbrück era terrificante, in una parola. In quel momento c’è caduto tutto il morale, quelle speranze che solo i giovani possono avere, quell’ottimismo che solo i giovani possono avere, che non vedono, non vedono il pericolo e la bruttura, tanta bruttura davanti.

In quel momento era finito tutto.

Allora ci hanno fatto entrare e scendere con i nostri bagagli, con le nostre valigie, ci hanno fatto scendere, ci hanno fatto entrare dentro in questo Lager, era sull’imbrunire, non era ancora notte completa. Tutto nero, grigio. Difatti io non ricordo del Lager i colori. Il nero, il grigio, il grigio ed il nero. Anche per il fatto che lì anche il cielo era grigio perché era inverno, dunque questo è il colore, come quei vecchi film neri.

Non ci hanno fatto entrare in una baracca bensì in una tenda. Questa tenda che qualcuno chiama la “tenda nera”, io questa non la potrei definire perché non ho visto se era nera, se era quella di cui parlano, però era una tenda, perché si vedeva che non avevano baracche e roba a disposizione.

Là in quel momento, in quella notte abbiamo capito che non c’era più speranza di avere né gli indumenti né il nostro mangiare: avevamo tutte qualche barattolo di marmellata, tutto quello che si poteva avere anche durante il tempo della guerra.

Quella notte abbiamo cominciato ad aprire e mangiare tutto quello che si aveva, un po’a sonnecchiare là per terra; qualcuno ha buttato questi barattoli, ha buttato oltre perché vedevamo. Io penso, questo è un mio pensiero, che l’impatto fosse ancora migliore di quello che abbiamo visto dopo. Così si è anche buttato qualche barattolo, e c’era qualcuna che poi li raccoglieva. Abbiamo capito, diciamo.

Io dico per me, ma penso che più o meno sia uguale, da quel momento ho capito che bisognava solo subire. E a chi parla di ribellarsi non credo. Io non credo, almeno in quelle condizioni verso dicembre, arrivata su, in ottobre.

Alla mattina, non so se è il caso che ritorno a raccontare la solita cosa perché era il solito sistema, ti spogliavano tutta, ti rasavano, ti tosavano i capelli. A me no, avevo i capelli corti e non mi hanno… Specialmente si divertivano se avevi trecce, capelli belli. Poi c’era qualcuna che veniva dalle prigioni ed aveva i pidocchi. Loro sempre in nome della pulizia… A me non mi hanno tagliato, li avevo anche corti io, mi ricordo molto bene.

Niente, la solita vestizione, ti spogliavano tutta, passavi in lunghe file, era un triste defilè. Io a diciotto anni non avevo mai visto una donna nuda, mai: in casa no e fuori tanto meno, dunque non sapevo neanche, tranne il mio corpo, non conoscevo i corpi, perché c’era un pudore, erano i periodi del pudore che voi sapete, almeno per quel che non c’era come adesso, è inutile parlarne. Perciò eravamo molto… ogni donna si copriva, in quel momento non c’erano più… Passavi, era un triste defilè infernale.

Passavi con le mani, avevi le braccia alzate, ti guardavano sotto le ascelle, ti rasavano e ti guardavano evidentemente se avevi anche qualche bestia. Ti trovavi completamente nuda. Poi c’erano anche degli uomini, non c’erano solo le donne, quando ero io c’erano tre o quattro uomini seduti su una panca e passavi, questi me li ricordo. Parlo sempre del caso mio e per tutte quelle che erano quella volta con me. Quella volta erano le donne che ti guardavano con una specie di una familiarità falsa, diciamo così, e ti toglievano quello che di oro avevi addosso. Io avevo, come dico, questi due orecchini piccoli che penso fossero della Cresima, proprio piccoli orecchini, e l’anello della mamma. Questo me l’avevano tolto. Se qualcuna aveva di più insomma…

Passavi in questa famosa stanza delle docce, che era come una palestra grande, rustica, con tante docce. Passavi, ti facevano la doccia, tornavi fuori da una parte e ti consegnavano un asciugamano ruvido, grigiastro, e quello che capitava di vestire.

Io e questo nostro gruppo non avevamo più rigato, perché evidentemente non avevano più i vestiti, allora ci davano dei vestiti civili conciati in maniera peggiore di quelli rigati. Se volete vi dico anche come era.

Io avevo ricevuto un paio di mutandoni, una sottoveste, i calzettoni mi avevano lasciato i miei, quando ero partita avevo un paio di calzettoni di lana, quindi me li avevano lasciati. Non mi ricordo i particolari ma questi erano i miei. Mi avevano dato un paio di scarpe trovate là, alla rinfusa, di due numeri più grandi, non gli zoccoli ma un paio di scarpe.

Poi mi avevano dato un vestitino di cotone verdino di velluto rigato, con davanti e dietro una X fatta con la vernice, perciò indelebile. Sopra un cappottino blu ritagliata la schiena ed inserita una stoffetta molto leggera verdina, che non aveva niente a che fare con questo cappottino, e davanti la stessa cosa. Sul davanti inserita anche questa stessa. Perciò eri uno spaventapasseri e ti vedevano a mille miglia, per cui era bloccato dappertutto. A parte che poi per quanto riguarda le fughe, neanche a sognarsi.

Questo era il primo impatto.

Ma il terribile era, ma questo l’ho pensato dopo, come mai in un’Europa poteva esistere, in mezzo all’Europa, un pianeta infernale? Come mai nessuno ha fatto niente, non so, russi ed americani, tutti con i loro servizi, non parliamo anche dei servizi segreti? Poi oggi si conoscono molte cose, si sa anche quanti contatti segreti tra di loro, chi, dico io. Era un pianeta infernale.

Questo posso dire in una parola, e non si può dire altrimenti, come era tutta questa organizzazione, con questi grandi pianeti e con questi piccoli satelliti attorno.

Non c’era meglio o peggio, il sistema era uguale dappertutto per quanto riguarda i campi di sterminio. Poi c’erano quelli di lavoro, erano migliori perché almeno potevano andare fuori, avevano lo stesso un rapporto più civile. Ma parliamo di questi.

Per ciò dico questa era la situazione.

Poi ormai anche era la fine del ’44, naturalmente c’erano sempre anche gli eventi bellici, venivano avanti, di conseguenza cominciava a mancare la luce, e poi non sapevano più cosa fare con questi, questi che man mano venivano eliminati, ma era sempre pieno, sempre pieno, sempre pieno.

Allora, per farla breve, a Ravensbrück non c’era più un letto, un giaciglio per persona, non esisteva più un giaciglio perché erano tre giacigli, non due, a castello, ma tre uno vicino all’altro, ce n’erano tre, tre e tre, in ogni giaciglio eravamo in tre persone.

Quando sono venuta io, io e questo mio gruppo, perché non ero singola, non mi ricordo il numero della baracca …. Dico che delle cose potevi portartele dietro e non le ho portate. 92.000 e rotti, questo mi ricordo.

Dico, eravamo in tre e ci eravamo messe così come si poteva, una di piedi… Ma vestite come eravamo. Alla mattina quando c’era il primo non si sapeva se erano le tre, le quattro, la mattina alle cinque, chi sapeva l’ora? “Raus, Aufstehen, Los…” tre parole malefiche che ci hanno accompagnato fino alla fine dei Lager.

“Aufstehen, Los e Raus”. Fuori, svelto, alzarsi. Quella mattina ci siamo alzate, ci siamo scaraventate giù da queste… come eravamo, sotto di me c’era un’ebrea, so che penzolava, alla sera ha parlato ha parlato ancora con me, mi chiedeva da dove venivo, non so se era tedesca, non era italiana, mi sembra. Alla mattina io scendo dal letto e vedo questa gamba e questo braccio tumefatto, tutto blu: era morta.

Scendevamo, ma non era il tempo… Non mi dice nessuno che era il tempo di avere pietà perché dovevi fuggire, fuggire sempre, continuamente fuggire. Tu dovevi sempre… Almeno c’erano dei momenti che non era il tempo, tu non potevi… “Fuori”, “Raus, Raus, Schnell, Raus…” Si andava in quei gabinetti; il gabinetto e la brodaglia che ti portavano aveva tutto un odore nauseante, tutto lo stesso odore. Perché una cosa mi ricordo, io sono molto … agli odori, più che una sensibilità agli odori. Mi ricordo di quegli odori. Era come una cosa nauseante, non so, una cosa nauseante. Dopo ti abitui a tutto, naturalmente.

Questo era il primo impatto con il Lager di Ravensbrück.

Dopo per farla breve, queste ultime arrivate naturalmente all’appello … Lo sapete già, tutte hanno raccontato la solita storia: davanti c’era l’Appellplatz e tutte per cinque incolonnate, due per cinque, tutte ferme come mummie quando venivano a fare la conta ecc…

Dopo quelle che erano prima e sapevano già dove andare, noi che eravamo le ultime si aspettava sempre di essere mandate ad un lavoro. Venivano, sceglievano, ti potevano mandare a portare via i morti, ti potevano mandare alle cucine a pulire, ti potevano mandare…

Noi ci mandavano, facevano un gruppo, c’erano le russe anche, ci mandavano fuori dal Lager in una specie di palude direi io, questa terra grigia paludosa, non ho mai capito perché ci facessero mettere questa terra con le pale nella carriola e portarla in un altro posto. Io non ho mai capito.

Dopo un po’ di tempo siamo alla mattina, sempre in attesa dopo l’appello di essere mandate a qualche lavoro, dovevi stare là.

Vediamo capitare una delle Ausirke, “Ausirke sarebbero le ausiliarie, le SS che erano nuove nei campi, con una nuova Ausirka. Vediamo arrivare verso la nostra colonna dove eravamo in attesa, ancora là, sempre ancora incolonnate per cinque. Si fermano davanti a noi, guardano, parlottano un po’ ed incominciano a selezionare all’inverso, a tirare fuori le meglio diciamo, perché era evidente che se… E tirano fuori di queste nostre triestine un dieci, ed un altro sette circa russe o francesi, non so.

Abbiamo capito, siamo andate di nuovo a farci la doccia naturalmente per disinfettarci, ci hanno dato però quegli stessi abiti, solo disinfettati. Ci hanno dato un pezzo di pane, qualcosa, un po’ di margarina, quelle cose che usavano là, un pezzetto di una specie di salame. Siamo andati ed iniziavano il trasporto, Transport.

A questo punto non sapevamo niente ma eravamo come intontite, non avevamo neanche la voglia di parlare, di fare delle congetture, niente. Con questa nuova Ausirka che era una bestia siamo andate alla stazione di Ravensbrück e di là abbiamo attraversato Berlino, questo mi ricordo, naturalmente era tutto abbrunito perché era il coprifuoco. Quello mi ricordo, che era Berlino, ma se…

Verso le nove di sera, penso, siamo entrati in questo Lager, Arbeitlager, di Belzig. Ritornata a casa, perché non sapevo dove ero, guardando ben bene la carta geografica, anzi una carta geografica più locale, più topografica che geografica perché era un paesino in una cittadina, poi l’ho individuata anche tre anni fa quando ero a Berlino ed a Ravensbrück. Insomma, abbiamo attraversato questo paesino di Belzig e fuori dal paese c’era il Lager. Questo Lager era una miniatura diciamo dei Lager, una miniatura.

Nonostante le torrette, il fil di ferro, i cani e le baracche non i numeri e tutto, nonostante tutto ci parve un paradiso. Perché era almeno.. i letti a castello, ma almeno ognuna aveva questo letto. E poi il paradosso di questo loro sistema, da una parte eri… vorrei dire una parola, lo dico, eri proprio niente, anzi più che niente, eri un rifiuto per non dire un’altra parola; d’altra parte volevano pulizia, ordine. Di fatti in queste Stube c’erano questi letti, una ventina penso che eravamo in quella Stube. C’erano questi letti, ognuno, due a due. C’era un gancio anche dove dovevi appendere i tuoi vestiti. Questo pagliericcio, perché avevi una coperta sotto ed una sopra, non lenzuola, una copertina sotto e sopra, però doveva essere perfettamente come nelle caserme quando…

A questo punto ci parve veramente molto meglio. Però la solita solfa. A quell’ora ti portavano… e dopo c’era la questione di andare in fabbrica.

Si lavorava quella volta ancora in piena produzione direi, la fabbrica era un due chilometri fuori dalla baracca, a piedi, dentro in bosco, non la vedevi perché c’erano pini, abeti ecc…

Poi ti facevano la sistemazione quando e come e cominciavi a lavorare. Nove giorni consecutivi, nove giorni, non dico sei o sette come… nove, poi due giorni di riposo, questi sì, due giorni di riposo per così dire. Nove giorni tu lavoravi, la fabbrica lavorava ventiquattro ore su ventiquattro, con mezzora di pausa quando c’era il cambio dei turni, a mezzanotte ed a mezzogiorno.

Lavoravi in piedi dodici ore, mezzora di pausa, in quella mezzora ti davano quel mangiare. Dove eravamo noi in questa fabbrica c’era una specie di veranda, dove c’era questo refettorio, diciamo così, mezzora e poi riprendevi a lavorare. Questo per i primi tempi, fino a che andava la produzione.

Poi naturalmente pian piano anche il lavoro si era ridotto, non si lavorava più dodici ore ma si lavorava otto o nove ore, perché si vede che ormai l’elettricità mancava e così avanti.

Però io in questo frattempo, dico in questo Lager in miniatura, ho avuto tutto quello che si può avere da un Lager. Io arrivo da Ravensbrück a Belzig e mi porto il microbo, il virus del tifo. Quando sono all’appello un giorno cado svenuta. Le nostre ragazze naturalmente pensando che si potesse fare tutto: mi tirano su, viene la Ausirka o la Blockowa a farmi tutto, mi tirano su e mi portano in Revier, perché c’era il Revier, la cosiddetta baracca ospedale. La chiamavano Revier, non so.

La prima cosa hanno avuto subito, perché erano accorti questi diavoli, hanno avuto il sospetto che si trattava, visto che siamo venute da Ravensbrück, di qualche cosa di contagioso. Perché? Nota bene, non per me o per gli altri, ma per la fabbrica. Noi eravamo state portate lì per andare a lavorare in fabbrica.

Allora a questo punto mi portano in questo Revier, là c’era una dottoressa russa, prigioniera di guerra. Lei era proprio prigioniera di guerra, ma poi portata in questo campo, era un medico militare, così mi raccontava. Conoscendo lo sloveno potevo comunicare abbastanza bene, sai, si era anche giovani, è più facile recepire, diciamo così, e si poteva abbastanza bene comunicare, abbastanza dico.

Così mi raccontava che era stata prigioniera di guerra sul fronte, poi non so perché era arrivata qua.

Febbre, febbre, mi hanno messo in una stanzetta separata, subito isolata, immediatamente, e vedevo questo comandante, nel Lager c’era il comandante, quella stessa che era venuta a prendere il gruppo di cui facevo parte io. C’era il comandante e vedevo il comandante venire su. Allora ho capito nella mia febbre, ma i primi giorni non ho capito niente, poi … vi era questa dottoressa russa, e… un momento non ho capito niente, ma ho capito che si trattava di tifo.

Poi ad un certo momento viene un dottore da un altro Lager, uno grande, mi hanno detto anche il nome ma non lo ricordo. Allora so che per prima cosa mi hanno tagliato i capelli. Là sì che mi hanno tosato. Poi mi hanno guardato, molto mi guardavano sull’addome e sul torace, parlottavano e non capivo.

Comunque era appurato che si trattava di tifo petecchiale. Perciò io ero rimasta isolata, ma in questo caso che non tutti i mali vengono per nuocere; anche il mio blocco dove erano le ragazze che andavano a lavorare era rimasto in quarantena. La quarantena non era di quaranta giorni, era un periodo. Erano chiuse dentro, portavano loro anche il mangiare, glielo mettevano davanti alla porta e poi le richiudevano, non dovevano uscire.

Questo mi raccontavano poi le ragazze, tra l’altro dicevano: “Non so se ce la farà, chi andrà a dirlo a sua madre?” Questo mi raccontavano dopo, erano già preparate che qualcuno lo dovesse andare a dire a mia madre.

Come vedete io sono qui ancora, perciò il diavolo non mi vuole, Dio non mi vuole, fino a che non mi vuole. Così devo anche ridere perché bisogna metterla anche un po’ su questo piano.

Ecco, questa è in sintesi la mia storia personale.

D: Ada, scusa, … cosa costruivate? Che fabbrica era?

R: Questa fabbrica era di munizioni, e per quel che ho capito, e per quel che facevo io proprio, erano dei missili contraerei, dei proiettili; erano lunghi circa una ventina di centimetri. Per quello che mi avevano detto, di cui si parlava, io ero proprio nel reparto dove si faceva l’ultima fase: prima veniva messo dentro in un sacchettino di seta del piombo, che era tutto a nastro. Erano ben organizzati quei diavoli, sì. Poi venivano portati ad un altro tavolo, questi li rinchiudevano con un anello, con un tappo di metallo, poi passavano al mio tavolo dove eravamo non so, mi sembra che fossimo otto ragazze, con le cassette, perché erano inseriti nelle cassette questi proiettili, e noi mettevamo l’ultimo, diciamo si metteva l’ultima vite di questo proiettile. Poi a questo punto andava invece ad un altro tavolo dove c’era sulla parete elettricamente collegata l’ultima chiusura ermetica di questo tappo.

Ecco un altro piccolo episodio che vi posso dire, che poi di episodi ce ne sono stati tanti in questo frattempo. Verso gli ultimi, verso diciamo il 6 marzo, io ero già rientrata in fabbrica dopo il tifo, nota bene con la testa pelata e con la pancia come un barile, gialla, ero gialla. Tanto è vero che quella che faceva la capo reparto era una civile, con il vestito bianco, la vestaglia bianca, era come una mummia questa donna. Non so se le facevamo compassione o no, però era sempre in un certo qual modo controllata dalla Ausirka, perché le Ausirke venivano dentro improvvisamente, noi eravamo sotto il controllo delle Ausirke del campo.

Per la fabbrica invece era questa civile, questa donna, una bionda, mi ricordo. Aveva chiesto se ero incinta. Dunque voi capite che pancia dovevo avere, perché sapete, questo è già stato detto, che per prima cosa cessavano le mestruazioni in Lager, e naturalmente anche questa era una anomalia che senza dubbio aveva i suoi effetti.

Adesso con il tifo, senza mestruazioni, una ragazzina di diciotto anni non so se proprio può essere… Comunque una pancia gonfia, la testa pelata, e con quel vestito di spaventapasseri.

Adesso non mi fa ridere, o mi fa ridere per non piangere.

Questa civile aveva domandato perché forse pensava chissà… io dopo ho pensato, forse era così, per curiosità, o forse mi avrebbe alleggerito dal portare quella cassetta, perché dovevamo noi portare le cassette. Questo è un mio pensiero.

Ad ogni modo verso la fine della guerra, verso marzo, aprile, anche la tensione elettrica diminuiva. Al momento si aveva meno elettricità, ed un giorno quando avevamo portato queste famose cassette per farle chiudere dall’elettricità, … mettevano, inserivano in queste buche, elettricamente. Però non era finita, perché alla fine veniva l’Ausirka e dava con una specie di gomma, qualcosa così, e dava un colpo su queste cassette di proiettili. Quel giorno erano cadute tante capsule, le ultime.

Non fosse mai stato. Allora si gridava subito che c’è sabotaggio, sabotaggio… e così avanti. Noi eravamo già mezze morte, probabilmente sabotaggio non ce n’era, perché tutti facevamo il nostro, era l’elettricità stessa che non aveva la forza di chiudere bene.

Comunque quel giorno, tanto per dire le cose che facevano, io parlo di me perché poi più o meno c’era… Quel giorno tutto il nostro reparto andava verso il Lager dove ci davano, tutto sommato ci spettava, quel pezzetto di pane, per tanto o poco che era, era l’unica risorsa che si aveva; con le Kübel ci portavano il mangiare dal Lager, e alla sera dovevamo noi stesse prigioniere portarle.

C’era quel fuggi fuggi per mettersi per cinque, quella che rimaneva fuori doveva portare le Kübel. Non potevo camminare neanche io, le Kübel in due si portavano, se c’erano i manici. Mi ricordo che c’era una belga e toccava a noi due. Quella donna ha trascinato la Kübel ed anche me. Erano circa due chilometri per arrivare in fabbrica, non era dietro l’angolo.

Arriviamo in questo benedetto Lager, sempre con il cane, accompagnate con i cani e con le guardie con i fucili. Arriviamo in Lager, pensavamo che poi ci avrebbero dato quella brodaglia. Davanti al Bunker, c’era un Bunker, lo chiamavo così ma dentro c’erano anche le casse di morto, forse era un Bunker per le Ausirke nel caso di bombardamenti. Era un Bunker sotto terra.

Era ancora chiaro quando siamo venute; a distanza di qualche metro dovevamo stare in piedi, le altre erano rientrate nelle baracche. Noi non so dove prendevamo la forza, prendevamo la forza finché c’era la forza, poi si cadeva per terra, non c’era altro.

Ad un certo momento avevano aperto il Bunker, ecco che dentro il Bunker … Quel giorno, senza mangiare, dentro nel Bunker c’era una fila di casse di morto, perché se una moriva ti mettevano là accovacciate perché non avevano il posto neanche per sdraiarsi per terra, accovacciate, aspettando la mattina dopo di andare in fabbrica di nuovo.

A pranzo, guarda mi pare impossibile, qualche volta sembra di dire bugie, a te stesso sembra di dire bugie, e queste cose non le si fa volentieri, ragazzi. Questi ricordi sono come tante… oggi siamo vecchi e siamo molto più sensibili. Prendete un ragazzo di venti anni e prendete una donna di settanta, settantacinque anni.

A questo punto torniamo in fabbrica, andiamo a lavorare ed all’ora di pranzo pensavamo di andare a mangiare questa brodaglia. Davanti ho detto che c’era una specie di veranda a vetrate, fuori davanti alla veranda di nuovo in piedi senza mangiare. Non so come, passata la mezzora, il cosiddetto rancio, di nuovo in fabbrica.

Arriviamo alla sera a casa, diciamo casa, nel Lager, di nuovo niente. Niente perché eravamo tacitate di sabotaggio. Niente.

Mi ricordo che c’era la mia amica Margi che adesso purtroppo sta molto male, lei si dava da fare per quello che poteva, ed aveva fatto una cosa, almeno per me, non mi ricordo per le altre, parlo per me in questo momento, era andata da una certa Desi, era una slovena che faceva la cuoca, ed era andata a pregarla: “Ti prego Desi almeno un pezzettino di pane perché guarda, è così”. E questa Desi nonostante tutte quelle che lavoravano in questo o nel magazzino del vestiario, o nelle cucine, tra loro si aiutavano, magari prendevano un pezzo di benda. Insomma questa Margi mi aveva tramite questa Desi procurato una fetta di pane. Quel pane nero. Quella sera ho mangiato. Questo dico per me, non so le altre come si erano… Perché non erano tutte della mia stessa baracca.

Questa era una delle cose particolari, diciamo.

D: Scusa Ada, ti ricordi il nome della fabbrica per caso?

R: No, no, me lo hanno già chiesto, non ricordo. Però non è certo una cosa segreta. Era a Belzig, la fabbrica era a due chilometri in un bosco, questa fabbrica di munizioni.

D: Dicevi che c’erano anche dei civili.

R: C’erano anche dei civili perché a Belzig c’era un accampamento, non saprei come dire, una baraccopoli, non mi ricordo quante erano le baracche, e vicino al nostro, noi eravamo chiuse, c’erano dei civili, sì. Questo lo dico, non dovrebbe essere molto difficile, penso che qualcuno abbia questo nome, era a Belzig, questo sicuro.

D: E lì sei rimasta quanto, Ada?

R: Lì siamo rimasti fino all’evacuazione. Dopo la fabbrica però ha cessato di operare. La fabbrica ha cessato di operare quando cominciavano i bombardamenti. Allora in quel momento noi non siamo… era aprile, non siamo andati più in fabbrica. Ed anche il comportamento delle Ausirke stesse non era, sarebbe assurdo, affabile. Allora ci portavano prima di tutto a pulire le baracche, a mettere fuori i pagliericci di trucioli. Ci facevano portare fuori tutte queste robe. Ci facevano fare delle aiuole, capirai, delle aiuole in questa… Ci facevano andare fuori. Là cominciavamo ad andare per la prima volta fuori dal Lager, sempre incolonnate, di giorno, ma non più in fabbrica. Lungo la ferrovia c’era anche il bosco dove raccogliere delle stecche, del legname. Lavori così.

D: Lì sei rimasta fino all’evacuazione: quando è avvenuta?

R: Il momento cruciale che anche i tedeschi l’avevano capito, ormai si sentivano già le voci; c’erano certe prigioniere che cominciavano ad andare, sempre accompagnate e non libere, a prendere, per esempio la Margi questa mia amica, era andata una volta con il carro a prendere il pane fuori. Si vede che l’avevano fatto in qualche forno, non so. Mi diceva, io non sono mai stata fuori ma lei sì. Già tra queste prigioniere si sentivano le voci, poi c’erano quelle della cucina che avevano la possibilità di… sentivano…, poi si sentiva il rombo dei cannoni, si sentiva, si diceva: sono i russi. I russi venivano da questa parte.

Allora verso il 23 aprile cominciava ad esserci allarme, proprio l’allarme per i tedeschi stessi; sapevano che ormai non c’era più via di scampo. Si cominciava a vedere un certo trambusto. Si incominciava a vedere qualcuna che andava via con la valigia, si cominciava a vedere… Sì, solo una mi sembra che era andata via, poi si diceva… Poi c’erano le voci: mi sembra che è malata e queste cose.

Ad un certo punto però avevamo visto che dalle baracche, le loro abitazioni diciamo, si cominciava a portare via bauli, cesti e roba. Allora avevamo capito che l’ora era scoccata.

Ad un certo momento non c’erano più le Ausirke nel campo, e neanche in cucina c’erano più. Ad un certo momento capirai fame, ma cosa si poteva avere, se si poteva trovare un pezzo di pane o qualche patata, o qualche rapa, e questo era tutto.

Allora vedendo questo movimento da parte delle Ausirke, specialmente le russe erano corse in cucina a prendere qualcosa. C’era una russa, una ragazzina, avrà avuto vent’anni sì e no, che anche lei era corsa assieme alle altre. In quel momento il comandante si era reso conto che bisognava riprendere le redini, che non era il caso di arrendersi, capirai! Allora te lo vedi capitare nel Lager con la pistola in pugno, sparare per aria come un matto, come un matto, e queste ragazze che correvano via dalle cucine! Allora vedi, questa ragazzina correva con le due patate, questo non l’ho scritto nel diario, era passata davanti a me ed alle altre e lui correva dietro alla ragazzina, perché lei non era… Chissà, teneva queste due patate, forse non le aveva lasciate di mano. Lui era venuto in baracca, lei si era buttata sotto il lettino e lui le aveva sparato in testa, sotto la baracca. Queste due patate… erano scivolate per terra, e questo rivolo di sangue… avrà avuto vent’anni.

Queste sono le cose… eravamo impietrite a guardare, impietrite. Non c’era reazione, non c’era reazione, perché non avevi la forza di reagire, la forza fisica, e avevi il terrore. Questo è proprio il lato cruento che io ho visto con i miei occhi. Non parlo di quelle che dicevano ho visto questo e quell’altro, non mi piace parlare di quello che hanno visto gli altri, non mi piace, perché ognuno racconta la sua storia. Qualcuno dice anche quella degli altri, ma era talmente tutto in un certo qual modo di tutti e di una, le une di tutte, capisci?

Questo l’ho visto io, e parlo di quello che ho visto io. Basta.

Poi, come ho detto, siamo andate via incolonnate sempre per cinque.

D: Ada, scusa, accennavi al diario.

R: Sì, accennavo al diario.

D: Ma tu l’hai trovato questo diario?

R: Questo Tagebuch, cioè “diario” in tedesco, io l’ho trovato fuori dal Lager. Non so esattamente dove, c’erano tante di quelle cose buttate, qualcuno l’avrà buttato o qualcuno avrà rovistato in qualche casa, sai come è, tutto era ormai allo sfacelo.

Io non so esattamente, in qualche posto l’ho trovato, non mi ricordo. L’ho trovato nuovo. Non c’era scritto niente, era nuovo. Era nuovo perfettamente. Poi ho scritto qui, si vede anche la prima.. Io ho scritto qua il mio nome e cognome con il mio indirizzo di una volta. Era nuovo perfettamente, non era per niente scritto. Doveva essere di qualche studente, ragazzino, non so di chi poteva essere questa roba qua. Non so. Era comunque vergine, assolutamente non toccato.

Io però questi ultimi giorni che avevo fatto quel piccolo… lo avevo fatto nel Lager stesso perché ormai eravamo là. L’avevo fatto su una carta che poi non so neanche chi mi avesse dato questo pezzo di matita, perché c’era un pezzo di matita. Poi ci si arrangiava, qualcuno ti dava… Ti arrangiavi anche per avere qualche ago, qualcosa del genere. Non so neanche chi mi avesse dato quel pezzo di matita. Mi ricordo che era un pezzetto di matita, e l’avevo scritto su questa carta che noi avevamo presa da dei sacchi di carta che si usavano anche nella fabbrica, grezza così.

Però torno a ripetere, invece di portare nell’originale io l’avevo da diligente, mi sembrava più bello metterle così, e l’avevo ricopiato nei giorni subito dopo l’evacuazione, non a casa, intendiamoci.

Allora io l’ho riscritto il 23 aprile ’45, poi il 24 aprile, poi il 25 e poi finisce il 26 aprile. “Questa mattina ci viene detto che siamo passati sotto la Croce Rossa Internazionale”. Non siamo passati subito sotto gli inglesi…Te lo leggo dal giorno 23, quel giorno che si cominciava… E’ una cosa molto puerile, ragazzi! Come ero anche io al tempo. Posso leggerlo?

D: Certo.

R: “Già da giorni, questo è il 23 aprile del ’45, non si lavora più. Imminente si aspetta l’avanzamento in Belzig dei russi o anglo-americani. Tutti siamo in uno stato d’animo ansioso e nervoso. Noi prigionieri siamo esausti dalla fame, abbiamo mangiato soltanto mezzo litro di zuppa, ossia acqua calda, il giorno precedente, senza una briciola di pane. Guardandoci in viso ci vediamo ombre, scheletri, non più un corpo di donna.

Eppure oggi brillano i nostri occhi, un’insolita luce di contentezza. Siamo certe di essere presto alla fine delle nostre tribolazioni, o per lo meno di finire di essere le schiave”. Guarda ho usato schiave, “Le schiave dei tedeschi. Di questo sono testimoni i rombi dei cannoni che segnano la repentina avanzata dei nostri liberatori.” Questo era il 23 aprile.

Il 24 aprile del ’45: “Un altro giorno pieno di eventi. Le nostre ufficiali, ossia le nostre aguzzine, hanno sgomberato la loro baracca portando in fretta tutti i loro bauli fuori dal Lager. Diventa una confusione generale, ed a tale vista noi prigioniere non siamo più in noi dalla gioia. La cucina è stata abbandonata. Le più ardite, le russe, vi si lanciano all’assalto del pane. Dopo qualche ora però i superiori riprendono le briglie. Davanti alle cucine viene messa una sentinella. Il comandante come un forsennato minacciando con la pistola spara più volte, e sparando più volte nasce un fatto raccapricciante che ci ha scosso tutte: una giovane ventenne russa rimane vittima, una pallottola alla tempia la colpisce, e ciò perché il comandante l’aveva vista portare delle patate dalla cucina.”

Questo è quel dettaglio che vi ho spiegato prima: l’aveva colpita nella baracca quando si era rifugiata sotto il letto, sotto la branda.

“All’appello, che avviene poco dopo, il comandante ci fa tradurre in diverse lingue che chiunque commetterà una minima disobbedienza sarà freddato da lui stesso. Dopo ciò ci fa incolonnare e così si evacua il Lager.

Dopo circa venti chilometri di cammino la notte è già alta, in prossimità di un bosco ci fermiamo per pernottare. Il tempo è piovoso, tutto è bagnato.” Questa è la notte che noi abbiamo passato nel bosco. Non so se vi interessa anche il giorno 25.

“Allo spuntare del giorno si riprende la marcia, pane ed altro zero, di frequente molte donne cadono sfinite dalla debolezza e dalla stanchezza. Non è permesso soccorrerle, vengono abbandonate.

Noi sempre avanti, ma la forza ci manca. Finalmente arriviamo in una città, cittadina, Altegradhof, e scorgiamo già gli accampamenti di un altro Lager. Abbiamo percorso circa 35 chilometri. Siamo portati in un accampamento e consegnate ai soldati della Wehrmacht. È mezzogiorno ma non abbiamo ancora mangiato niente, nessuna cosa dal mezzogiorno del giorno precedente. Vinte dalla stanchezza ci stendiamo sul prato, aspettando dietro promessa il pane.

Le ore passano ma non arriva niente. Verso sera arriva la comandante che con i suoi più sgarbati modi ci fa mettere in fila a riprendere la marcia.

Piangendo ubbidiamo ma le gambe non ci reggono. Dopo circa un chilometro di strada ci lasciano riposare. Mangiamo erba e frumento del campo. Molte donne cadono e continuano a cadere.

A questo punto interviene la Croce Rossa Belga, giungono le autolettighe a raccogliere un’infinità di ammalate. Ormai la comandante ed il comandante non hanno più alcuna autorità su di noi, e di fronte al personale della Croce Rossa sono intimoriti.

Arrivano altre macchine e ci portano i pacchetti viveri americani. Vi è una grazia di Dio, ci sediamo e mangiamo. I soldati della Croce Rossa sono molto premurosi con noi, intervengono anche degli italiani che ci portano delle gallette.

Dopo essere ristorate ritorniamo sui nostri passi e ci dirigiamo verso una stalla che viene accomodata con paglia alla meno peggio. Questa stessa sera siamo passati sotto la protezione della Croce Rossa e siamo libere.”

Questo è l’ultimo. Ed abbiamo passato la notte in questa stalla. Questo non l’ho scritto perché si vede che non avevo neanche… Ormai eravamo già euforiche, ma poi dopo aver… Questo pacchetto era distribuito in quattro razioni, non era tutto il pacco, ma naturalmente era una conseguenza terribile perché quasi tutte avevano una diarrea tremenda dopo. Queste sono le cose che avete già sentito da tante altre…

D: Il tuo ritorno Ada.

R: Il mio ritorno. Il mio ritorno è stato tutta un’avventura, così come lo sono state tutte. Un arrangiarsi, diciamo, più che un’avventura. Abbiamo incontrato anche man mano facendo la strada dei soccorsi, delle emergenze che ci davano questi pacchetti.

Anzi, qua volevo dire che noi ad un certo momento siamo state consegnate perché da una parte venivano gli anglo-americani, e noi in quel momento eravamo sotto gli anglo-americani. Ma ad un certo momento, ad un certo punto, non so esattamente dire l’ubicazione, eravamo sempre nelle vicinanze di Berlino, un po’ sotto diciamo, erano venuti avanti i russi, e noi siamo passate sotto i russi, sotto il territorio russo.

In quel momento ci si arrangiava come si poteva. C’erano delle scuole libere, abbiamo visto degli istituti, ci facevano entrare, c’erano anche delle scuole militari, abbiamo capito che erano scuole militari, e là c’erano le docce. Ci davano dei pacchetti.

Nel frattempo si univano tutti questi che tornavano a casa, e noi abbiamo conosciuto anche nostri ragazzi italiani che erano militari italiani, più o meno nelle stesse condizioni, ma insomma, non nelle nostre. Così ci siamo riuniti in un bel gruppo. C’erano quelli di Monfalcone, di Trieste, i nostri ragazzi, appena abbiamo sentito che erano di Trieste capirai! Ci siamo uniti a loro, eravamo una ventina, e andavamo avanti secondo le indicazioni che ci davano anche i posti di ristoro. Era una cosa tutta accomodata secondo me, organizzata man mano che veniva avanti. Non saprei dire, direi così.

Di questi che eravamo ci siamo perdute, dopo. Molte sono andate a finire in ospedale. Noi che eravamo in grado di continuare ci siamo riunite in gruppi ed abbiamo fatto la strada assieme, e con l’aiuto della Croce Rossa e anche dei comuni, delle istituzioni locali, non saprei dire neanche io chi, siamo arrivate attraverso la Cecoslovacchia prima fino a Dresda, mi ricordo Dresda, era bombardata… un mucchio di macerie, da Wittenberg giù per l’Elba con una barca. Poi da là con mezzi di fortuna, sempre ferroviari.

Poi siamo passati in Cecoslovacchia… sempre con mezzi di fortuna, avanti fino a Bratislava, da Bratislava sempre con questo gruppo fino a Vienna. Da Vienna abbiamo attraversato il Danubio su un ponte rotto, c’erano solamente le colonne. Siamo arrivate a Vienna, sempre questo gruppo diciamo così, fatiscente proprio.

A Vienna siamo state accolte perché c’erano i gruppi di Croce Rossa che ci accoglievano, eravamo in un certo qual modo assistiti, qualche volta meglio e qualche volta peggio ma insomma assistiti durante il ritorno.

Poi a Vienna eravamo sotto l’assistenza della Croce Rossa jugoslava. Di là abbiamo preso un treno regolare, ci hanno dato anche un lasciapassare che io tengo, l’ho ancora sempre come documento perché era una dimostrazione da dove venivo anche, regolare, proprio da Vienna.

Da Vienna per Maribor giù per la Slovenia, fino a Trieste. Al 29 giugno sono arrivata a casa io, sono arrivata a casa il 29 giugno.

Le altre erano ancora peggio perché erano rimaste negli ospedali. Peggio, una parte erano ben guardate, così, ma noi avevamo questa forza fisica…

D: Scusa Ada, nella tua famiglia quante persone sono state deportate?

R: Arrivo a casa, arriviamo a casa in condizioni, potete immaginare, c’era ancora il coprifuoco a Trieste, il 29 giugno, perché noi siamo arrivate a Trieste, alla stazione di Trieste. Chi conoscevo, chi non conoscevo, erano molti questi che tornavano. Quella sera so che dovevamo fermarci in stazione perché c’era il coprifuoco e non si poteva uscire. Così abbiamo passato ancora quella notte in stazione di Trieste, c’erano i bacherozzi che camminavano e giravano, capirai, appena finita la guerra cosa poteva essere. Sporche perché cosa si poteva pensare?

Ognuna poi “ciao ciao” non vedeva l’ora di tornare alle proprie case. In quel momento quasi ci si dimenticava di tutte le nostre compagne vissute fianco a fianco, per tutte quante l’obiettivo era la casa, tornare a casa.

Però io non sapevo neanche se avrei trovato mia madre, in quanto io l’avevo lasciata fuori… C’era anche la vicina di casa che aveva le chiavi della nostra casetta. Mi incammino a piedi, presto presto perché mi vergognavo sinceramente di incontrare qualcuno, ero anche con i capelli di due centimetri, nota bene.

Arrivo a casa e trovo la mamma che ancora andava a fare legna nel bosco, quello che era rimasto perché non c’era l’elettricità in certi punti. Io pensavo che ci fossero gli americani, ci dicevano che ci sarebbe stato il caffè e tutto, invece non c’era niente; infatti nel frattempo erano già arrivati gli anglo-americani.

Insomma trovo la mamma. Felice e contenta di quello.

Però mi dice, io non sapevo di mio fratello: “Anche Nini è in Germania.” “Mamma arriverà, arrivano tutti”. Sai, capirai la gioia, l’entusiasmo… Arriverà, e giorno per giorno arrivavano i pacchi. Ci davano anche l’assistenza, ci davano dei pacchi…

Per me c’era la gioia di essere di essere tornata a casa. A diciotto anni, diciannove anni, ragazzi miei, immaginate la gioia, eravamo vincitori! Ci sembrava che tutto sarebbe stato miele e latte, tutto bello. Ma anche questa gioia non era solo una questione materiale, era proprio la gioia di avere vinto il nazifascismo; era il nazifascismo che aveva fatto tutto, tutte le colpe sono del nazifascismo. Qualche volta si confonde, a volte i tedeschi, italiani, ma il nazifascismo, il sistema, l’ideologia ed innanzitutto la loro dittatura malvagia e disumana.

Ecco, così passarono i giorni.

Noi, la gioventù di qua si era subito organizzata, c’erano i meeting, c’erano… C’era un’aria di festa e di liberazione. Ci siamo organizzati subito nelle organizzazioni giovanili antifasciste, poi c’era il Partito Comunista che aveva in mano una specie di egemonia. Non che tutti la pensassero così, intendiamoci, no, a Trieste. Ma in quel momento la maggioranza, la forza, era nostra. Dobbiamo ammetterlo, e devono anche ammetterlo perché certi erano anche terrorizzati, specialmente se avevano… Come in tutte le cose avvengono anche fatti spiacevoli che poi non erano anche colpa, non so, solo perché eri impiegato in quelli… Ma in quel momento…

Quando sono arrivata io ormai era già passata, si era già calmato tutto. Almeno quel che mi riguarda si era già normalizzato questo rapporto.

Poi c’erano i balli, c’erano le sagre, c’era questa stella rossa, queste parole, questi slogan. C’era un tripudio di gioia, di gioia ragazzi miei. Io ho assai lavorato per la gioventù antifascista, per la gioventù comunista, per tutte queste cose che in quel momento mi sembravano giuste e vere.

Poi c’era anche l’arrivare alla conquista di qualche cosa. C’era la gioia di chi vince. Dico la verità, oggi, oggi lo dico con tanto dolore proprio, dolore che mi fa male fisicamente, la gioventù non pensa ai dolori di quelle madri che aspettavano i figli, di quelle donne che aspettavano i loro mariti, di quei lutti che erano dappertutto.

Oggi penso che è terribile. Era una gioia da una parte ed era un dolore tremendo per quei vuoti che avevano lasciato, tutta questa gente. Ma per chi? Per cosa?

Cosa volete ragazzi, non si può, non si può pensare oggi, io non sono il tipo che odia, ma non bisogna dimenticare. Non dimenticare. Odiare no perché l’odio è già un sentimento che non ti dà pace, ma il ricordo è un’altra cosa.

D: Ada, ma tu e la mamma avete aspettato tuo fratello?

R: Sempre, tutta la vita.

D: E non è tornato…

R: Tutta la vita.

D: Conosci il campo in cui è stato deportato?

R: Sì, a Mauthausen.

Cantoni Walter

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

R: Io mi chiamo Cantoni Walter, nato a Medesano provincia di Parma, il 7 ottobre 1924. Sono partito per andare nei partigiani nel mese che non ricordo più bene, ma nel mese di giugno del 1944.

In questo periodo ho subito due rastrellamenti, uno era alla fine luglio del 1944, di lì siamo ritornati alla base a casa, nascosti in attesa che si formassero di nuovo i distaccamenti e le Brigate Partigiane. Col primo rastrellamento ero a Bardi, nella provincia di Parma, siamo andati anche oltre, siamo arrivati quasi ai confini con la Liguria, al Monte Groppo nel Comune di Albareto, provincia di Parma.

Ritornati come ho detto a casa, siamo rimasti a casa circa una ventina di giorni, poi ci siamo raggruppati in un distaccamento, formatosi nel periodo di fine agosto, lì nella mia frazione del comune Varano Marchesi, c’era un distaccamento che si chiamava il distaccamento Pedizza, lì eravamo circa sei squadre, formate da dieci componenti ogni squadra. Eravamo ai piedi della collina, giù dalla collina del mio comune, e siamo rimasti lì fino all’atto del secondo rastrellamento, avvenuto il 6 gennaio 1945.

Le forze partigiane avevano un compito specifico. Era di interrompere i rifornimenti che i tedeschi portavano alla Linea Gotica da La Spezia al mare, lì a Rimini. Quindi gli attacchi erano di far saltare i ponti principali perché la ferrovia non fosse più in grado di trasportare il vettovagliamento, le armi, le munizioni, ecc. Secondo anche si attaccavano le formazioni tedesche e anche fasciste, durante questi loro passaggi che fornivamo per andare al mare.

D: Scusa …

R: Più conciso.

D: No, no, i rastrellamenti …

R: Sì.

D: Erano solo formazioni germaniche …

R: No, adesso dico. Lì poi è venuto il 1945, e mi ricordo una bellissima settimana era, dopo Natale, ha fatto circa quindici giorni di bello, e lì si erano portati nei paraggi, in tutta la provincia di Parma e Piacenza, i gruppi che erano ritornati dalla Germania, la Divisione Italia, i Bersaglieri, avevano occupato i posti principali a piè di collina, proprio dove noi facevamo qualche disturbo lì, ma loro attendevano il maltempo, la neve che davo loro la possibilità di metterci in condizioni disagiate, perché loro erano armati, avevano l’appoggio delle truppe tedesche, anzi le truppe tedesche erano coloro che comandavano, loro erano coloro che erano i sottomessi, che facevano quello che loro gli dicevano.

Lì è avvenuto questo rastrellamento il 6 gennaio, proprio la notte del 6 gennaio, ha cominciato a nevicare, al mattino ci siamo trovati con 50 cm di neve in sette, otto ore e ha continuato per 3-4 giorni, le nostre colline, le prime montagne erano coperte da circa un metro di neve, quindi la difficoltà dei trasferimenti, abbiamo resistito per tre giorni, abbiamo resistito a questo attacco, poi dalla parte del Piacentino, da parte della Liguria sono entrati i tedeschi, gli sciatori tedeschi, ci hanno preso alle spalle, quindi c’è stato lo sganciamento.

Lo sganciamento significa che, ognuno delle squadre, cercano di passare le linee e di passare alla pianura, cioè dietro di loro possibilmente senza poter …, ma sa in quei periodi molti ci lasciano la pelle, vengono presi, io sono stato uno di quelli che sono stato catturato. Catturato a Mariano da uno squadrone di questi Bersaglieri della Divisione Italia.

Ci hanno portati direttamente ad un primo interrogatorio, appena presi una battuta, ma non una battuta con schiaffi o pedate, adoperavano il calcio del fucile e picchiavano in questo modo. Poi ci hanno portati in una località contadina, dove era il loro comando, e lì il mattino hanno fatto l’interrogatorio, lì hanno iniziato ad adoperare le catene, le catene che cerchiavano la testa, perché volevano sapere cose che poi in fondo il partigiano normale non sapeva.

D: Come non sapeva?

R: Perché per esempio quando uno militava nelle file partigiane scompariva il nome, cioè avevano il nome, ma davano un nome di battaglia, il quale questo nome di battaglia non poteva danneggiare nessuno, se uno prendeva diceva magari si chiama Caio, Sempronio, ecc, chi sono? Non lo so, perché c’era anche allora che non mettevano mai insieme quelli del loro paese, ecc, perché era pericoloso e quindi loro volevano sapere, dicevano quanti tedeschi, quanti Bersaglieri hai ammazzato, ecc, dove hai fatto, ecc, ecc. E lì chi si ostinava a dire magari niente, loro pensavano che questo sapesse molto, mentre invece lì anche qualche riunione che si faceva nei partigiani, parlavano, dicevano “Se domani vi prendono, voi dite il vostro nome di battaglia, e anche altri nomi di battaglia” ecco questo, questo è quello che posso sapere.

Poi ci hanno portato nella zona di Varano Marchesi, dove conoscevo bene tutta la natura, anche la gente, ecc. Lì siamo stati trattenuti tre, quattro giorni, quattro giorni, lì è successo il finimondo perché in questa frazione sono state fucilate ventidue persone, erano ventidue partigiani più quattro civili. I civili sono stati per esempio un certo pastore, poveretto che me lo ricordo ancora, era andato a casa, lì aveva l’ombrello che nevicava, e di tanto in tanto prendeva l’ombrello e lo sconquassava per liberarsi dalla pesantezza anche della neve. Arriva un cecchino, poco distante, tac e gli ha sparato e lo ha buttato là sotto la neve.

Altri due si erano nascosti in campagna, fanno per le viti quei pali, e poi fanno quelle che sembrano baracche degli indiani messe in questo modo, erano andati lì, poveretti a 20 m da casa, a nascondersi lì dove c’erano Bersaglieri che stavano venendo. Un bel momento quelli là si sono accorti, hanno messo fuori la testa, ecco li hanno direttamente uccisi senza nulla.

Queste sono state le barbarie fatte nel nostro paese, non solo le barbarie, perché sono stati torturati con le catene, avevano delle teste in questo modo, botte che non erano più capaci di parlare, io con questi ho vissuto assieme. Poi un giorno, questo è il più grave che è successo, mi hanno chiamato lì al comando, dove hanno schierato, c’era un capitano tedesco, c’erano altri, un tenente che me lo ricordo bene, si chiama il tenente Rossi che era un toscano, e poi altri.

Lì sono andato dentro come l’interrogatorio, lì presenti c’erano altre due persone, gli avevano chiesto di portare i nominativi del partigiano della propria zona, e questi quando si sono trovati di fronte a me, questo tenente gli dice “Avete i nominativi dei …” e dice “Ma come faccio a parlare di fronte a questo”, dice “No, no, parlate pure perché costui non dirà mai più nulla a nessuno”, a dire “Va bene”.

Poi è stato il giorno dopo verso sera, mi vengono a prendere, anche lì botte, mi hanno chiamato che c’erano le scuole, c’era la squadra del plotone di esecuzione, il plotone di esecuzione alla scuola era comandato da un tenente, che ricordo il nome, un certo Mele che era di Sanremo. Sono andato là e mi hanno chiesto, avevano un cittadino lì, una persona, un borghese, e mi avevano detto “Questo, riconosci se è Athos?” e non era Athos, perché Athos era il mio comandante, non era Athos, questo lo conoscevo, ma io ho detto “Questo non è Athos, non è”, “Ah no?”

Allora avevo lì dei particolari, io allora fumavo qualche sigaretta e avevano fatto un lancio gli inglesi dove avevano portato anche del tabacco, avevo un pacchettino di tabacco ancora, che anzi era profumato il loro tabacco, quando ha visto questo tabacco è venuto lì come se avessi una bomba a mano, mi ha guardato “Tabacco?” poi allora ha guardato “Tabacco inglese?” e io gli ho detto “Sì, questo è un tabacco paracadutato dagli inglesi” lì ero vestito con il cappotto da inglese, le scarpe, ecc non potevo dire che non ero un partigiano, non l’ho mica ammesso, di essere un partigiano, e mi dice “Fumalo presto perché domani ti faremo la festa”.

Il giorno dopo la festa doveva essere fatta, mi avevano preso sotto sera e mi avevano portato là dove c’era il comando dei partigiani, ma io non avevo mai detto che c’era il comando là mai, ho sempre fatto finta di non sapere mai niente, mi portano su ai piedi di un monte che c’è lì, e lì c’era una curva, c’era tanta neve perché con la spalatura della neve, e mi dicono di cercare lì che ci sono le armi, che io so che ci sono le armi, e già due mi davano queste raffiche di mitra, due dei Bersaglieri, però lì prima ho avuto un colloquio con loro direttamente, con il tenente e un caporalmaggiore.

Il tenente e il caporalmaggiore, poi ho saputo in seguito, erano due amici, il caporalmaggiore era un maestro, il tenente non lo so che cosa era, e allora nel modo di parlare confuso, in un certo qual modo, questo caporalmaggiore mi dice “Come mai sei andato dai partigiani?” e io ho spiegato quali sono state le ragioni perché sono andato dai partigiani, e ho detto anche che noi siamo discendenti della mia famiglia di socialisti, e gli ho fatto un ragionamento “Ma voi avete anche il Duce che era un socialista” e lì “È vero”, allora io non penso che la mia famiglia abbia sbagliato, anche essendo in questo …

Questo caporalmaggiore, il tenente gli ha detto “Su sbrighiamoci”, gli ha detto “No fermatevi, devo andare in perlustrazione a Mariano di Pellegrino, me lo porto con me come ostaggio”, cioè è stato colpito da questa sensibilità questo giovane.

E lì siamo andati a Mariano, mi hanno messo davanti, siamo andati a quel Mariano che saremo stati distanti 10 km o 15, 10 km senz’altro, siamo arrivati là vicino a sera, siamo andati nella casa, e avevano sempre il tedesco con loro, e questo tedesco si chiamava Walter, aveva gli occhiali me lo ricordo ancora come se fosse adesso. Siamo andati lì nella casa, dove eravamo questo caporalmaggiore, io e il tedesco, mi aveva detto questo caporalmaggiore “Andate qui”, era un nucleo di case, “Andate nelle case, però mangiate quello che vi danno, non cercate di fare …” la verità la dico, sempre, ovunque.

Siamo stati lì e c’era una famiglia di contadini poveretti, che hanno messo sulla tavola un formaggino, il pane, e un fiasco di vino, e ci hanno offerto da mangiare, siamo stati lì e abbiamo intavolato una discussione con questo caporalmaggiore, lui mi ha detto nome e cognome che non lo ricordo più, questo mi dispiace molto perché avevo sempre detto che sarei andato a trovarlo, perché è quello che mi ha salvato la vita.

Abbiamo parlato direttamente, abbiamo parlato della questione della mia famiglia, me stesso, io sono stato militare, sono fuggito l’8 settembre, sono ritornato a casa, mio padre ha fatto il prigioniero con i tedeschi, effettivamente al tempo dell’altra guerra, per esempio i tedeschi per me sono tabù, sono persone di cui nella mia famiglia si è sempre parlato male, non bene, quindi sono stato sempre alla macchia, e al momento sono partito e sono andato dai partigiani e ho ottenuto di essere nel mio paese e di lottare a salvaguardare la questione del mio paese, ecc, ecc.

“Guardate”, ho detto “Voi avete fucilato della gente, ammazzato anche in questi giorni, ne avete ucciso prima, li avete presi e li avete messi lì in carcere, ecc” proprio una discussione in questo modo. “Noi non abbiamo mai fatto questo, se abbiamo preso qualche d’uno c’era un campo di concentramento era là, e quando c’erano i rastrellamenti si lasciava andare, se abbiamo giustiziato, abbiamo più giustiziato dei nostri, che era la verità, gente che si comportava non conforme, non la disciplina, quello che era il artigianato”. E lì ho visto che si era svegliato qualcosa in lui e che mi ha detto, apertamente mi ha detto “Hai ragione, queste cose non le posso tollerare neanche io, non le posso tollerare”.

Poi siamo andati a dormire in una stalla, dove mi sono messo a dormire, mi ha messo le manette, accanto a lui perché aveva paura che io fuggissi, e poi lì discutendo ancora gli ho detto “Ma perché mi metti le manette?” e dice “Walter, io debbo farlo, ho degli ordini, ho fatto molto …” mi ha detto “Ma non ti preoccupare che fino a che sei con me non ci sarà pericolo”.

Però quando sono ritornato lì indietro, allora nel passaggio dove dovevano fucilarmi era già fatta la buca, e mi sono fermato e ho detto “Ma di chi è quella buca?” Tant’ è vero che un militare suo gli disse “Allora comandante, non dobbiamo mica riempirla?”, “Il comandante sono io non siete voi, decido io non decidete voi”. Perché lui al ritorno doveva seppellirmi, ammazzarmi e mettermi lì, e l’ho scampata. Sono venuti in quel momento, si sono fermati e non hanno più ucciso nessuno, e allora di lì siamo stati portati a Fornovo.

A Fornovo siamo stati là un tre, quattro giorni sotto delle cantine, poi di lì siamo stati portati a Cortile San Martino, dove alla scuola di Cortile San Martino c’era un piccolo concentramento, dove venivano anche portati i prigionieri che i tedeschi facevano dalla Linea Gotica, siamo stati assieme a loro circa sei o sette giorni, lì è stato l’unico momento dove ho provato una grande crisi personale, perché cosa è successo, lì c’erano i neri, ma io lì ho trovate persone buone, c’era un certo Roberto, era da due mesi in Italia e parlava già l’italiano, si capiva bene.

Un giorno che mi trovavo lì, questo lo devo dire, che parlavamo sempre con lui, mi diceva sempre “Walter, quando guerra finita io ti richiedo che devi venire a New York con me”, mi diceva sempre. È venuto che hanno preso uno, che era un ufficiale americano, un ingegnere. Un giorno questo ingegnere, che io parlavo con questo nero, con questo Roberto, viene e si avventa contro di me in un modo bestiale, e io sono rimasto lì e gli ho detto a questo Roberto “Ma cosa ha questo qua?” e dice “Lui ha che tu bianco, non devi parlare con me” dice. “Non devi parlare?”.

Allora questo bianco poi è stato colui che ha detto “Noi non vogliamo essere invischiati con questi, noi vogliamo essere messi in un reparto per conto nostro”, e sono stati messi in un reparto per conto loro, sono divisi, perché a loro davano una razione quando eravamo assieme, gli davano la margarina, gli davano il pane, gli davano questo, ma non era per noi.

Però loro lì mettevano lì e facevano comunella come tutti noi, noi eravamo in trentadue, di questi trentadue poi sono passati ancora circa sette, otto giorni, saremo stati lì una quindicina di giorni, adesso non so il 20 gennaio, il 25, proprio il calendario era sparito, una sera vengono ci mettono tutti in fila nel corridoio, e lì ne scelgono ventidue, no, ventiquattro, ogni quattro, tre, e questi per esempio sono stati fucilati a Villa Cadè, diciotto a Villa Cadè e altri sei nella zona di Parma, li hanno fucilati, eravamo rimasti in otto.

Dopo qualche giorno ancora sono venuti lì una sera, le SS, in due macchine e ci hanno portato in San Francesco, nelle carceri, e alle due dopo mezzanotte in corriera ci hanno portato a Bolzano.

D: Scusa Walter, in corriera vi hanno portato?

R: Sì, c’era una corriera.

D: E solamente voi otto?

R: No. Piena la corriera. Noi ci hanno preso in Cortile San Martino, ci hanno portato in San Francesco, e da San Francesco hanno completamente …

D: Assieme a degli altri?

R: A degli altri sì.

D: Di San Francesco.

R: Sì, la corriera era piena, non so la corriera ne conteneva quaranta, cinquanta, adesso …

D: E chi c’era a fare la guardia sulla corriera?

R: Ecco lì c’era questo qua, pensi adesso dovrei dire questo dovrei dire anche, dalla corriera quando ero a Fornovo, ritornando indietro, trovo Jim che era, un certo Jim che adesso era lì, quando l’ho visto “Ma tu sei un partigiano?”, “Sì” dice. Questo Jim era stato catturato dai partigiani in un combattimento verso Salsomaggiore, fatto prigioniero, e si era arruolato con le forze partigiane, e aveva ancora i pantaloni della Repubblica Sociale Italiana.

Quando è stato a Fornovo lui è stato furbo, è stato onesto, lui ha detto che era un prigioniero. “Walter” dice “Non dire niente”, che era prigioniero dei partigiani e che lo avevano preso là, e lì i suoi amici che erano scappati lo sono venuti a prendere e lo hanno obbligato ad andare ancora con loro, e lui ci è andato. E avevamo questo ad accompagnarci a Bolzano. Questo a Bolzano per noi è stata una grande fortuna perché, quando siamo arrivati a Verona, a Verona picchiavano. Avevano un fucile a testa, con quel bastone con quei …

D: Tu eri lì vestito ancora da inglese, con i vestiti …

R: Sì, allora quando siamo stati là, io avevo l’avvertenza di non andare mai davanti, di restare indietro, ma quella volta lì sono stato davanti, sono rimasto perché gli altri sono andati dietro loro, eravamo in fila, qui c’erano a Verona …

D: Ma quindi, partite da Parma con una corriera …

R: Sì.

D: Arrivate a Verona …

R: Sì.

D: Vi fanno scendere dalla corriera …

R: Sì, e ci portano dentro …

D: Dove?

R: Al Palazzo delle …

D: Come? Nelle cantine?

R: Sì, nella caserma dove era la Repubblica Sociale Italiana, tanto è vero che quando siamo dentro ci hanno messo in un angolo, in un coso buio, eravamo lì, e dopo circa un’oretta, sono comparsi due, due italiani, uno che era un maresciallo e l’altro era un sergente, un maresciallo perché aveva anche il cappello con la morte qui, che forse erano le SD, le SS. E lì questi qua cominciano a parlarti e dire “Tu sei stato un partigiano …” Bum … tac la testa, picchiavano forte.

Allora avevamo questo Jim che era lì che bruciava, ad un bel momento non ha più potuto resistere, è saltato in piedi, li ha presi per lo stomaco tutti e due “Per Dio” e gli ha cominciato a dire “Imboscati, vigliacchi, io sono stato in Russia e non ho mai visto di queste cose, picchiate …” e loro “Ma come tu li difendi?”, “Sì, li difendo perché siamo dei militari e dobbiamo alla questione della convenzione di Ginevra, ecc, ecc. Dobbiamo rispettarli” e allora si sono calmati.

Io e uno di Salso, e poi da lì quando è stato verso pomeriggio, ci hanno portati verso Bolzano …

D: Con cosa Walter?

R: Sempre con la corriera.

D: E sempre il gruppo che era partito da Parma?

R: Sempre il gruppo che era partito da Parma, tutti là e ci hanno portato dentro. Siamo arrivati a Bolzano dopo mezzanotte, verso l’una perché andavano piano con la questione degli apparecchi. Io avevo sempre la persuasione che mi buttassero in un burrone, che ti facessero oramai, e lì questi fili spinati che li vedevi appena, e anche lì ero il primo a scendere, perché ero davanti, andando giù quando sono andato per la porta del campo, dentro lì dove c’era questo capannone, ero un po’ restio ad andare dentro.

Ho preso due botte, sono stramazzato là nel piano, e li è venuto, mi ricordo ancora, un vecchietto come me adesso, un anziano, che poi il mattino ci siamo ritrovati, ed era un ebreo, un ebreo che aveva settantacinque anni, e lui è venuto lì che aveva un mozzicone di candela acceso e lui è venuto lì a dirmi “Guarda giovanotto” mi dice “Non cercare, qui purtroppo la vita è così, la guerra sta per finire dobbiamo essere forti” dice, mi ha rincuorato, e lì mi ha chiesto poveretto “Hai un pezzo di pane?”, “Hai un pezzo di pane?”, “No” gli ho detto “Proprio non ho niente”, “Va bene, fa niente” dice “Siamo uguali allora”.

Il mattino ci siamo ancora ritrovati con lui, e mi sono svegliato il mattino, ci hanno portato in uno spogliatoio, ci hanno ritirato tutti i nostri vestiti. Ci hanno lasciato la maglia, forse le mutande non le avevo neanche più, e poi ci hanno dato una divisa da prigioniero dove c’era la croce nella schiena, il numero davanti, io avevo il 10.079, con il quadro rosso, che era il deportato politico.

Poi sono ritornato, l’assegnazione di questo blocco, il blocco H, e lì al mattino sono venuto fuori, ho visto con grande meraviglia, ho visto delle persone che avevano il numero nero su sfondo bianco, con il quadrato nero, c’erano coloro che avevano il triangolo azzurro, c’erano la stella di Davide, e li abbiamo incominciato a vedere le cose. Il giorno dopo ho fatto un giro per il campo per ambientarmi, poi ho conosciuto diversi: Boni, Alceste, poi è venuto più tardi era venuto anche … diversi abbiamo conosciuto dentro lì …

D: Scusa Walter, il gruppo di Parma è stato messo tutto nel blocco H?

R: No, no, no. Noi eravamo questi quaranta o cinquanta che siamo venuti da Parma, ma altri erano già in questo blocco.

D: No, ma il gruppo che è venuto con te?

R: Sì, tutto nel blocco H, quello che è venuto con me.

D: E i giorni seguenti ti sei guardato in giro?

R: Eh sì, ho guardato lì, vedevo intanto, intanto che si aprivano pomeriggio, facevano fare un’ora un giro, loro che erano nelle sale di disciplina, c’erano le cose di disciplina a Bolzano, peccato che abbiano distrutto questo campo. Dove in queste prigioni di disciplina erano larghe circa 1 m, 1,20 erano larghe, e lunghe saranno state 5-6 metri, e lì dentro erano dentro sette, otto, dieci persone che, quando gli davano da mangiare non aprivano la porta, c’era un finestrino che magari, quando tu mettevi il piattino andava tutto fuori, facevano apposta perché tu non potessi … anche questo.

Lì ho visto per esempio le celle, questa gente che girava, che uno si domanda come sono, come non sono coloro perché, quando uno trasgredisce, qui del campo, qualcosa ti mettevano là, e là venivi fuori ucciso, perché noi avevamo l’obbligo, che quando eri nel campo dovevi scattare sull’attenti e metterti le mani nei capelli quando passava un tedesco, questo qua. E lì siamo stati diverso tempo …

D: E cosa facevi?

R: Dentro, lì sono stato. Un giorno, ma un giorno molto avanti … anzi devo dire questo, che questa è già la parte importantissima del campo di concentramento. Un giorno c’era il blocco E, che dicevano che erano i più pericolosi …

Blocco E e D, vado lì dove c’era dentro il reticolato, mi guardo e vedo il mio amico che eravamo in squadra assieme, che è Camangi Silvio, ci siamo abbracciati fra il reticolato, e la prima cosa che gli ho detto “Quanti giorni è che sei dentro?”, “Saranno una quindicina di giorni”. Ho detto fra di me “Qui c’è da morire”, perché l’avevo visto male, l’avevo visto deperito.

Poi è finito, poi siamo andati un giorno, chiedevano lì se si poteva andare fuori, perché poi dentro lì avevamo formato il Comitato di Liberazione, dove c’era il mio amico Alceste.

Alceste, che era l’organizzatore, lui aveva trentacinque anni, noi avevano diciannove, vent’anni, quindi era per noi uno che ti dava spirito, che ti emancipava, che ti diceva “Forza, coraggio”, aiutavamo lì la gente, diversi che magari erano messi molto male, ammalati, si cercava … eravamo d’accordo con il Comitato di Liberazione fuori, che uno magari ti dava il compito quando andava, tu lasciavi un pezzo di carta, un fazzoletto, quello là veniva, prendeva il bigliettino e poteva portare dentro qualche medicina per poter tirare avanti.

Lì un giorno vengono a chiedere per andare fuori a lavorare, avevano bisogno di fabbri, allora eravamo lì “Chi è fabbro?”, “Io” non ero fabbro porca miseria, ma ne volevano nove, dieci e io dicevo “Ci sarà uno che sarà capace di fare il fabbro”, e tutti quando ci siamo trovati lì e ci siamo detti “Ma sei capace di fare il fabbro?” e allora “No”, io ho interrogato “No”, “Tu?” “No”, “Tu?” “No”, “E tu?” “Io sì”, cosa doveva dire? Siamo andati lì in un’officina, ci facevano fare delle maniglie …

D: Fuori dal campo?

R: No, era sempre adiacente al campo, non era fuori dal campo, però lì c’era qualche borghese che potevi fare qualche scambio, tanto è vero che c’era un borghese che era lì che lavorava, io avevo un gilet che avevo salvato, nuovo, bellissimo era, l’ho venduto per due pagnotte, e una di queste pagnotte l’ho portata al mio amico Giuliano, e mi dice Giuliano “Ma tu Walter non hai fame?” “Oh! Altro che fame, ma facciamo metà per uno”.

Lì è durata che quasi era alla fine, anche lì delle volte anche da parte dei tedeschi che erano dalla parte della Wermacht non erano cattivi poveretti, c’era un sergente che quando ci ha visto lavorare, ci avevano dato un tubo grosso così da fare il gomito, era alto quasi un mezzo centimetro questo ferro, allora io dissi agli altri “Avanti alla fucina, facciamolo scaldare”, abbiamo bruciato tutto.

Questo tedesco, che era un sergente, ci ha visto e ha detto “Voi altri fabbri, nessuno” è venuto lì poveretto, dico poveretto perché sono sempre per il perdono, è venuto lì e ci ha detto “Così si fa per fare questo lavoro” e ci ha fatto questo lavoro, ce lo ha messo a posto, però il giorno dopo quasi tutti non erano più fuori.

Poi è venuto il 30 aprile, che ci hanno scarcerati, io ho avuto in consegna nella scarcerazione un partigiano che ho trovato dentro, un certo Bernaccioli Avio, che l’ho portato a casa, perché non era più in grado, se uno lo vedeva era così gonfio, era malatissimo, aveva la nefrite e la pleurite. Sono riuscito a portarlo a Trento, siamo andati nei posti di ristoro dei frati, siamo rimasti dai frati una giornata o due, lì ho visto un giorno, l’ho convinto di portarlo all’ospedale, farlo visitare da una dottoressa.

Questa dottoressa mi dice “Guardi che se questo fa ancora 10 km, rimane per strada, perché oramai…”. Allora lì ho avuto l’accortezza di farmi fare una lettera scritta da lui che diceva: “Mi trovo qui a Trento, mi trovo mal ridotto, vi prego di venirmi a prendere” da portare ai genitori.

D: Ascolta un’ultima domanda. Tu sei arrivato a casa quando?

R: Dunque, sono arrivato a casa verso il 9, 10 maggio, perché di lì siamo andati a Milano, a Milano siamo stati un giorno o due dove abbiamo passato la disinfestazione, poi un’altra giornata perché a Milano non c’era il treno, il treno c’era per un pezzo e poi a piedi. Verso il 9, 10 ecco …

D: Maggio.

R: Maggio, sì, i giorni del tragitto sono stati circa dieci giorni.

Ciceri Ambrogio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Ciceri Ambrogio, nato a Milano il 17/11/1917.

Dico anche la via dove sono nato?

D: Sì, se te la ricordi.

R: Via Pisacane 38.

D: Ambrogio, a settembre del ’43 tu dov’eri?

R: A Verona.

D: Come mai? Cosa facevi a Verona?

R: A Verona io ero staccato all’auto centro.

D: Eri militare, quindi?

R: Ero militare però io al 25 di luglio mi sono congedato da solo.

D: Come al 25 luglio?

R: Del ’43.

D: Come ti sei congedato da solo?

R: E’ quello che è successo. Allora è stato il Duce e s’eri stuf de fa il militar, ero stanco di fare il militare e sono andato a casa.

D: Sei venuto a Milano?

R: Sono venuto a Milano e mi sono preso i vestiti borghesi e sono ritornato a Verona perché a Verona avevo degli amici: uno di Rovigo, uno di Padova.

Abbiamo preso un appuntamento, prima che arrivasse l’8 Settembre e ci trovavamo in una trattoria di via XX Settembre a Verona.

Decisi di andare a Brescia, io conoscevo gente a Brescia e si sarebbe andati in Val Trompia, si sarebbe andati in montagna praticamente, invece purtroppo il 10 Settembre del ’43 siamo andati alla stazione per prendere il treno e andare a Brescia, ci hanno fermati, ci hanno chiesto i documenti, c’erano tedeschi, c’erano fascisti e ci hanno portato su al Forte San Leonardo .

Ci hanno arrestati e ci hanno portato al Forte San Leonardo, il 12 settembre.

D: Scusa Ambrogio, voi eravate decisi, te e i tuoi amici, di andare in Val Trompia per aggregarvi ad una formazione…

R: Sì ad una formazione partigiana che già cominciava a formarsi.

D: E voi avevate già i contatti?

R: Avevamo già i contatti.

D: Non ti ricordi il nome di questa formazione?

R: No, non mi ricordo, non mi ricordo.

D: Comunque siete lì alla stazione di Verona…

R: Sì di Verona.

D: Eravate in stazione di Verona e lì vi hanno arrestati?

R: No ci hanno fermati e chiesto i documenti.

Abbiamo dato i documenti, i documenti fasulli, avevamo creato dei documenti fasulli e ci hanno arrestati e ci hanno portati su al Forte San Leonardo.

D: Ecco e dicevi scusa, questo è importante: oltre ai germanici c’erano anche degli italiani?

R:I fascisti c’erano, le pattuglie fasciste c’erano e ci hanno portati su al Forte San Leonardo perché tu sai a Verona ci sono due forti: San Mattia e San Leonardo.

Ci hanno tenuti lì fino al 22 e dopo al 22 …

C’era un camerone, ci hanno interrogati, anzi ci hanno proposto di andare in Germania a fare l’istruzione per aggregarsi al nuovo esercito fascista che avrebbero fatto se firmavamo una carta, sai qualche sberla l’hai presa perché io non ho mai firmato niente, al 22 ci hanno portati giù alla stazione.

Alla stazione arrivava una cosa da Peschiera.

D: Un treno.

R: No un treno, era già carico di …

D: Sì ma era un carro bestiame?

R: Sì un carro bestiame logico mica me dan la prima clas per l’amor di Dio, ci mancherebbe altro e di lì ci hanno caricato su questo carro bestiame e ci hanno portati a Dachau .

D: Scusa Ambrogio, lì a forte San Leonardo sei rimasto dal momento che ti hanno…

R: Dodici giorni circa.

D: Lì ti hanno interrogato, ti hanno chiesto se volevi firmare per …

R: Se volevi firmare per andare…

D: Ecco oltre al vostro gruppo, oltre al tuo gruppo c’erano altre persone?

R: Sì sì, eravamo circa venticinque, trenta persone che c’erano già quando io sono arrivato.

Quel giorno, il 22, ci hanno portati giù.

E’ arrivato un convoglio da Peschiera che poi ho saputo che erano quelli che erano miliari arrestati, non so per che cosa e che io sul convoglio poi tra parentesi ho trovato un mio carissimo amico Robbiati Libero, che era di Milano, che era stato arrestato perché lui faceva il militare a Pavia, era della classe 1917, della mia classe. Eravamo amici da bambini, da ragazzi, andavamo a scuola assieme e lui è entrato in un bar una sera, c’era dentro un gruppo di gerarchi fascisti, gli hanno detto una parola in più, lui ha picchiato perché era uno che…, ha picchiato uno di quelli, l’hanno preso e gli hanno dato dieci anni di prigione perché ha picchiato un gerarca, un fascista e l’ho trovato sul carro che andava anche lui a Dachau, ma lui veniva da Peschiera.

D: Il viaggio ti ricordi quanto è durato?

R: Dunque siamo partiti al 22, siamo arrivati a Dachau circa il 25 o 26 mattina.

D: Quando tu dici che sei arrivato a Dachau il treno dove è arrivato?

R: A Monaco.

D: Poi?

R: Poi a piedi ci hanno incolonnati perché da Monaco a Dachau ci sono 10 chilometri circa e ci hanno portati a Dachau.

D: Con le guardie.

R: Con le SS in fianco, tanto è vero che prima di entrare nel campo tu leggi: il lavoratore mobilita ma stanca meno stanca…

D: ” Arbeit macht Frei”.

R: Io sto scherzando.

D: “Il lavoro rende liberi”.

R: Rende libero. Sì infatti è una libertà che non finiva più.

D: Come ti ricordi l’ingresso di Dachau quando siete arrivati?

R: Un ingresso che c’era questo scritto, un ingresso che sembrava che tu entravi in una tenuta, in un ranch, ecco una cosa così perché c’era un grandissimo piazzale che lì ci hanno fatto spogliare tutti nudi.

D: Fuori?

R: Fuori, fuori, all’aperto.

Ci hanno sequestrato tutti i panni, tutto quello che avevamo.

Siamo stati lì, perché noi siamo arrivati alle 6 a Monaco e siamo arrivai alle 7,30.

D: Alle 7,30 del mattino?

R: Del mattino. Sto parlando del mattino.

Ci hanno tenuti lì fino alle quattro di sera nudi, in piedi, tanti si sono sentiti male e poi ci hanno mandati a fare la doccia .

D: Scusami, allora, dalle 7 del mattino tutti spogliati…, il vostro trasporto eravate in tanti?

R: Eravamo in 1.500 circa.

D: Come entri in Dachau dove vi hanno messo lì nudi.

R: Entrati in Dachau sulla sinistra c’erano delle baracche dove c’erano dentro delle SS e noi ci hanno messo in faccia e ci hanno detto di spogliarci nudi, allineati, una fila di qua, una …., setto o otto file, dieci file, non mi ricordo, messi tutti i vestiti per terra, hanno spazzato via tutto, poi verso le 15,30 del pomeriggio circa perché non c’era più l’orologio, te lo hanno portato via, siamo andati dentro a far la doccia.

Mentre andavamo dentro ti facevano l’interrogatorio: “Cosa facevi di mestiere?”.

Io non sapevo cosa dire perché io non ho mai lavorato a dir la verità.

Io sono stato al Gonzaga per cinque anni, ho fatto il Gonzaga perché mio padre aveva la possibilità e poi sono andato a fare la commerciale Zaccaria in via Commenda.

Dopo in via Commenda, la seconda commerciale si doveva andare vestiti da avanguardista e io non ci sono più andato non perché io …, perché ho visto mio padre…, mio padre avendo uno stabilimento con cento operai, una pelletteria in via Giulio Carcano 26, padrone di tutta la casa e di tutto il coso, doveva avere il quadro del Duce nell’ufficio e costava 500 lire il quadro del Duce.

Non era per le 500 lire ma mio padre era socialista e non lo ha mai comperato.

Un giorno sono venuti lì, l’hanno preso, l’hanno portato fuori e lo hanno picchiato; io venivo in quel momento a casa da scuola, l’ho visto e sono andato dentro anch’io in mezzo a cercare e le ho prese anch’io, ma non perché ho preso qualche schiaffo ma perché ho visto picchiare mio padre, da lì ho odiato i fascisti.

Quando sono andato a scuola ancora a fare la seconda commerciale che mi hanno detto: “Bisogna venire vestiti…” perché c’erano i saggi ginnici e tutte quelle palle che inventavano i fascisti, dovevo andare vestito da avanguardista.

Io? Ma non spendo nemmeno una lira.

Non sono andato più neanche a scuola; oltre che non andare più a scuola, forse tu lo sai che allora si doveva andare al sabato a fare il premilitare, non andavo più neanche a fare il premilitare e mi cercavano a casa, mi venivano a cercare.

Io avevo una fidanzatina in corso S. Gottardo 40 che suo padre era un comunista sfegatato e mi teneva lì a dormire, io gli avevo raccontato tutto il fatto e lui mi teneva lì a dormire.

Lui è stato fucilato al campo Giuriati.

Si chiamava di cognome Moiraghi, invece la mia fidanzatina si chiama Moiraghi Carla, si chiama, io penso che sia ancora in vita.

Dopo lei è andata in montagna, lei ha fatto tempo ad andare in montagna a fare la partigiana.

Andiamo avanti da Dachau.

D: La doccia?

R: Prima della doccia mi hanno chiesto cosa facevamo di mestiere; l’importante è il mestiere perché se tu non avevi un mestiere …

Io non sapevo cosa dire e mi è venuto in mente e ho detto: il meccanico.

Mi ha salvato perché allora i meccanici li…, ma io non ero capace di fare il meccanico, non sapevo niente di meccanica.

Ad ogni modo ci hanno tenuto due mesi nel campo 23.

D: Nel blocco 23?

R: Nel blocco 23.

D: Ma ascolta oltre alla doccia ti hanno rasato …?

R: Sì mi hanno rasato, mi hanno lasciato in mezzo la striscia , ci hanno dato la casacca, doccia fredda senza sapone, senza salvietta, senza niente, intendiamoci bene, ti sei vestito ancora bagnato, non c’erano maglie, non c’erano mutande, non c’era calze, ci hanno dato gli zoccoli olandesi di legno e ci hanno mandato al blocco 23.

D: E ti hanno immatricolato ?

R: Sì, la mia matricola è …., deve essere su lì, 53 mila…

D: …765. Quella di Dachau?

R: Invece quella di Flossenbürg è 4958.

D: Ti hanno immatricolato e ti hanno dato anche il triangolo ?

R: Il triangolo rosso. Era già preparato sulla giacca.

D: Sulla zebrata ?

R: Sulla zebrata. Sono stato lì due mesi poi una mattina ci hanno chiamati…

D: Sei stato lì due mesi al blocco 23?

R: Senza fare niente.

D: Non facevate niente?

R: Niente dalla mattina alla sera.

D: Il blocco era diviso in due Stube ?

R: Sì praticamente c’era una cosa di rete, adesso non mi ricordo, so che noi si dormiva…, ad ogni piano di castelli eravamo in tre con una coperta, beh faceva caldo, era settembre, ottobre, non è che faceva tanto freddo.

Era lavarsi che…, tu ti dovevi lavare così senza sapone, senza salvietta, senza niente e il mangiare, perché abituarsi al mangiare è un problema.

E’ un problema quel cibo che ti davano, io adagio adagio l’ho mandato giù, quelli che non l’hanno mandato giù purtroppo ci hanno lasciato la vita e questo è successo anche a Flossenbürg.

D: Ma ascolta, lì a Dachau facevate gli appelli ?

R: Tutti i gironi, per l’amor di Dio, alla mattina, al pomeriggio.

D: Però dal campo non sei mai uscito?

R: Mai uscito, sono uscito soltanto per andare a lavorare, perché dopo due mesi ci hanno chiamati, da meccanico mi hanno fatto fare l’idraulico in un castello in riva al Danubio che doveva essere ristrutturato perché doveva servire al Fuhrer per fare le cose.

C’erano muratori, c’erano idraulici; io dato che facevo il meccanico mi hanno chiesto se sapevo qualcosa di idraulica e ho detto sì, perché poi ero riparato dal freddo, là faceva freddo, dopo ha incominciato a venire novembre, dicembre e non so come ho fatto io.

Per fortuna che c’erano…

D: I Meister .

R: Sì i Meister e io ne ho avuto uno buono che ha capito che non capivo proprio niente e mi ha fatto vedere qualcosa, è stato lì tutti i giorni fino alla fine di dicembre, il Natale lo abbiamo fatto lì.

D: Ambrogio ma da Dachau ti hanno portato solo te del tuo gruppo in questo castello?

R: Sì quel gruppo che eravamo dentro lì.

D: Ma c’erano altri italiani?

R: No italiani lì non ce ne erano, erano tutti russi, sloveni, polacchi, cecoslovacchi, un po’ di tutto.

D: Italiano eri solamente te?

R: Italiano solo io.

D: Vi hanno portato come da Dachau a questo castello?

R: Con i camion. Siamo andati via alla mattina e siamo arrivati al pomeriggio. Ci hanno messo dentro in una baracca tutti assieme, eravamo un centinaio, non di più e dalla parte di la c’era la SS, non c’era il Kapò , c’era la SS e hanno fatto un discorso che hanno detto: “Il primo che scappa lo prendono e lo fanno sbranare dai cani”.

Infatti tre li hanno riportati indietro sbranati dai cani e li hanno fatti vedere, li hanno tenuti lì fino alla sera quando siamo rientrati dal lavoro.

Lì ho passato tre mesi poi il mangiare era discreto perché lavoravi.

Poi c’era quel Meister che veniva da fuori che ogni tanto ti portava un pezzo di pane, si capisce che lo faceva anche lui per salvarsi la vita, tra parentesi, difatti dopo Natale, a febbraio…

D: Scusa, Natale lo hai fatto in campo?

R: No Natale l’ho fatto lì.

D: Al castello?

R: Al castello.

D: Al campo non sei più rientrato?

R: A Dachau no, mi hanno portato direttamente a Flossenbürg.

D: Dal castello?

R: Dal castello. Erano già in… a Flossenbürg.

D: Tutto il vostro gruppo?

R: Tutto il nostro gruppo.

D: Come vi hanno portato?

R: Con il camion.

D: Anche lì?

R: Con il camion, sì.

D: E questo è avvenuto quando, gennaio, febbraio?

R: I primi di febbraio del ’44 e hanno fatto anche lì la selezione .

Praticamente ai quei cento chiedevano e lo sapevano che io ero un meccanico, c’era poco da fare e mi hanno mandato il giorno dopo a lavorare sulle ali di apparecchi di …

D: Ascolta, arrivi a Flossenbürg e lì cosa succede?

R: Fanno la conta perché quando scendi fai la conta poi mi mandano al blocco 9. Al blocco 9 sono andato; poi dopo il Kapò alla mattina ti dice che devi andare a lavorare.

D: Ti hanno cambiato numero.

R: Sì il 4958. Se non dicevo questo non mi davano da mangiare.

Lo dovevo dire in tedesco. Ormai lo so ancora dopo sessant’anni, lo ricordo ancora questo numero, non posso dimenticarlo, non si può dimenticarlo.

D: Il giorno dopo subito a lavorare?

R: A lavorare, sì.

D: Ma l’officina era all’interno del campo?

R: No, fuori il campo, si doveva fare quasi un chilometro circa; una stradina che andava, c’erano dei capannoni, il capannone dove hanno portato me c’erano dentro delle strutture, su ogni cosa c’era su un’ala di apparecchio e tu dovevi ribattere i cosi di alluminio però non dovevi lasciare l’aria perché se lasciavi l’aria non andava bene.

Io non l’ho mai fatto.

Cosa ho fatto? Ho fatto un buco così nell’ala.

Mamma mia quante botte ho preso perché dicevano che ho fatto apposta per fare danno alla….

“Mi è scappato il trapano”, io ho detto in italiano, il kapò che parlava un mezzo italiano, aveva su il triangolo nero, “Come ha fatto a scappare?” “E’ scappato il trapano nel tirar fuori il coso ho fatto il buco”.

Mi hanno messo là e 50 nervate sul sedere e dopo dovevo lavorare ugualmente.

Lavoravo con un polacco che era un gran sporcaccione perché faceva la spia, un gran sporcaccione.

Allora ho detto: “Guardate io tengo la cosa e quello la ribatte con la cosa che è più pratico di me, io faccio il meccanico ma non ho mai fatto queste cose qua”. Infatti siamo andati avanti e sono andati bene.

La giornata era sempre quella, rientravi alle quattro e mezza, li mettevano tutti inquadrati, facevano l’appello, poi chiamavano chi doveva essere impiccato; tutti i giorni ce ne erano, una volta undici, una volta c’erano dentro anche tre italiani e poi lasciavano lì gli impiccati fino alla mattina fino a quando noi si andava al lavoro per farci vedere che chi faceva gli sgarri venivano puniti in quel modo.

Poi dopo l’impiccagione, prima c’erano 25 nervate sul sedere, poi ce n’erano 50 a secondo le cose che hai fatto e poi c’era l’impiccagione.

Poi c’era questo, adagio adagio, io avevo un numero basso, ero uno dei primi assodati a Flossenbürg, siamo andati fino a 60.000, 70.000, non si poteva più dormire nel blocco.

Un giorno sì e un giorno no si andava giù al Wäscheraum a fare la doccia e ti tenevano lì dalla sera fino alla mattina nudi; alla mattina ti davano i vestiti perché dicevano che li disinfettavano, tu dovevi vestirti e andare a lavorare e tutti i giorni era quello.

L’unico rispetto che avevano era la vigilia di Natale.

La vigilia di Natale del ’44 ho mangiato un pezzettino di carne, l’hanno data a tutti, nel brodo, hanno fatto il brodo con dentro un po’ di farina nera e c’era dentro un pezzo di carne e non ci hanno fatto lavorare, né la vigilia né Natale.

Il giorno dopo siamo andati a lavorare, ma tutti i giorni era quella stessa cosa: la conta, giù al bagno un giorno sì e un giorno no.

C’erano sempre queste cose qua.

Il forno crematorio andava dalla mattina alla sera.

Poi noi italiani eravamo dei traditori e allora la domenica noi non si riposava, si doveva portare il carbone al forno crematorio; dalla mattina alle 7 con le cose si andava giù poi si andava su poi si andava al forno crematorio fino a mezzogiorno, poi si andava al blocco.

D: Una giornata tipo di Flossenbürg, la sveglia a che ora era?

R: La sveglia era alle 5,30, 6,00.

D: Estate e inverno?

R: Estate e inverno lo stesso, non esisteva né inverno né estate, là il giorno era tutto quello all’infuori della domenica un’ora in più.

D: Alle 6 anche se pioveva, nevicava?

R: Se pioveva dovevi uscire, dovevi uscire.

D: Tu sei sempre rimasto nel blocco 9?

R: No, sono andato al blocco 7, al blocco 3, al blocco 5.

D: Anche lì Ambrogio i blocchi erano divisi in due Stube?

R: Qui a Flossenbürg c’è una scalinata, c’era una scalinata, forse non c’è più.

D: No, la scalinata c’è ancora.

R: Una di blocchi di qua e una di là.

Cominciava con il blocco 1, blocco 3, blocco 5 e andava avanti così fino al blocco 9…

Perché io quando ero al blocco 3 ero a posto perché mangiavo, perché alla notte io uscivo. Sotto il blocco 3 c’era la cucina e io andavo giù, io e un certo Esposito.

D: Eugenio?

R: No, Esposito lo conosco, quello che è morto, il pompiere, l’è un me amis, ci siamo trovati là a Flossenbürg insieme a Camia.

Andavo giù in cucina a rubare le patate e le portavo su un po’ per tutti e non si poteva farle cuocere, si mangiavano crude. Cosa vuoi fare, almeno mangiavi qualcosa no?

Le mangiavi crude fino a quando hanno pescato il mio amico, io ho fatto in tempo a scappare, lui invece lo hanno pescato i tedeschi.

E’ morto a botte dentro nel gabinetto.

Lo hanno ammazzato a botte nel gabinetto.

Si chiamava Esposito, era un napoletano.

Di lì ci hanno spostato, non so perché hanno scelto anche me, mi hanno spostato al blocco 7.

D: Nel blocco in quanti eravate più o meno?

R: Si dormiva ai castelli in tre…

D: Anche lì?

R: Sì, sì. Prima in uno, dopo in due, dopo in tre.

Dopo alla fine c’era troppa gente.

D: E di quanti piani erano?

R: Tre piani. In un blocco ce n’erano tre di là e tre di qua; si entrava, appena fuori dall’entrata c’era la guardiola del Kapò, dove dormiva il Kapò, c’era un piccolo spazio dove c’era una piccola stufa che all’inverno andava per un’ora, un’ora e mezza, dove noi si tentava di tagliare le patate con la buccia e si mettevano lì a scaldare, appena che erano calde le mettevamo in bocca per mangiarle, fino a quando ho potuto grattare le patate, quando non si poteva più niente.

Io e quello lì abbiamo rubato tutto il pane al Kapò.

È successo un disastro, è successo un disastro.

Ci hanno messo tutti in fila, una parte di Kapò e di polacchi, che erano aggregati, di là con in mano un coso a correre avanti e indietro a picchiare per un’ora e volevano sapere chi è stato.

Se ero stato io … ma chi gli diceva qualcosa, ti impiccavano, ti ammazzavano.

Mi sono sempre arrangiato così fino a quando un bel giorno lì ho trovato Camia ed Esposito.

Mi è venuta la dissenteria.

Non puoi andare al Revier perché il Revier è l’anticamera del forno crematorio e allora cosa facevo? Andavo a lavorare lo stesso, legavo i pantaloni perché la diarrea…, alla sera quando entravo mi levavo i pantaloni sotto il Wäscheraum li lavavo, li mettevo sotto il cuscino ma alla mattina erano ancora bagnati poi la dissenteria non passava, allora cosa facevo? Davo via il pane per l’acqua bollita.

Mi davano l’acqua bollita e io davo via un pezzo di pane, era poco, ti davano tanto così di pane alla sera con un cucchiaio di marmellata, un cucchiaio di margarina, a secondo, non tutti e due marmellata e margarina, una sola, fino a quando dopo venti giorni mi è passata però non sono andato alla Revier.

D: Ascolta Ambrogio, quindi sveglia alle 6, Wäscheraum per lavarsi.

R: Diciamo lavarsi.

D: Poi?

R: Poi fuori.

D: Vi davano il caffè, qualcosa?

R: Sì, acqua sporca, fuori, un mestolo poi giù da basso conta, poi accoppiati si andava fuori per andare a lavorare alle 7,30 circa.

Si andava a lavorare e si arrivava alle 8 sul lavoro, a mezzogiorno ci davano un mestolo…

D: Lì in officina?

R: In officina.

D: Quindi la Miska, la gavetta ve la portavate…

R: Per forza, se non avevi quella non mangiavi.

Portavi la gamella qua attaccata, ti davano un mestolo di minestra, non c’era dentro né riso né niente, c’era dentro verze e bucce di patate. Un mestolo e con quello lì tiravi sera; la sera andavi a casa, un pezzo di pane o un cucchiaio di marmellata o un cucchiaio di margarina o un pezzo di salame avvolto nella carta, non so che salame era e basta.

Poi se ti capitava dovevi andare giù al Wäscheraum tutta la notte perché dovevi fare la doccia per disinfettare i vestiti, un giorno sì, un giorno no, un giorno sì, un giorno no.

Ne sono morti tanti.

D: Ascolta ti ricordi oltre agli italiani che dicevi, l’Esposito il Camia, ti ricordi altri italiani lì a Flossenbürg?

R: Degli altri italiani non mi ricordo più i nomi perché io sono stato uno che ha fatto la marcia di eliminazione .

D: Lì a Flossenbürg tu sei rimasto fino a quando?

R: Fino al 19 aprile del ’45.

D: Sempre lavorando in questa…

R: No. A febbraio non ci hanno mandati più a lavorare perché già la guerra… e allora ci tenevano ai blocchi.

Il 19 Aprile del ’45 è arrivata la Croce Rossa Internazionale, sulla salita però non l’hanno fatta entrare.

Hanno incolonnato chi poteva stare in piedi, eravamo circa 1.500, 2.000 e quelli che proprio erano quasi morti e non potevano camminare li hanno lasciati lì e intanto che noi si andava giù si vedeva la Croce Rossa e l’hanno fatta entrare nel campo perché hanno lasciato libero in campo.

Ci hanno fatto fare quattro giorni a camminare senza bere, senza mangiare, chi cadeva gli sparavano alla tempia fino a Darvin ai confini della Cecoslovacchia.

Lì una mattina, il 23 di aprile, dei carri armati americani hanno fatto una puntata e i tedeschi sono scappati e ci hanno abbandonati su uno spiazzo ma gli americani non sono venuti perché gli americani sono venuti quattro giorni dopo.

Noi vedendoci liberi siamo scesi tutti, ero con quattro italiani, uno che suo padre faceva il casellante a Casale Monferrato che poverino è annegato, c’era un fiume è andato dentro a fare il bagno ed è annegato, poi c’erano altri tre italiani che non ricordo il nome perché adesso ti spiego tutto quello che è successo.

Siamo andati giù e siamo andati in una cascina vuota, c’erano delle galline, tu puoi immaginarti, eravamo quattro italiani, tre russi, due polacchi e basta.

Abbiamo preso una gallina, l’abbiamo spennata ma non l’abbiamo pulita, la abbiamo fatta cuocere; non ci ricordavamo più però l’abbiamo mangiata tanto è vero che dopo mi è venuto il paratifo.

I russi andavano in paese e requisivano tutto, portavano lì il mangiare, ce n’era di mangiare che non finiva più.

Una mattina, il 27 o il 28 mattina, alle 4 o alle 5 del mattino, era estate era il mese di aprile, ma era chiaro, si spalanca una cosa, vediamo uno nero, erano gli americani; di lì ci hanno portati al campo di aviazione che avevano creato perché loro sapevano che c’era questo trasporto e avevano trovato tutti i morti dietro la strada che hanno lasciato i tedeschi e ci hanno portato al campo di aviazione dove c’era un ospedale da campo e lì ci hanno ripulito, fatto le punture, siamo stati lì un bel po’ per tirarci su perché io pesavo 36, 37 chili.

Il campo era diretto da un ufficiale, da un tenente colonnello italo americano e allora io sono andato da questo qua e gli ho detto: “Senta una cosa, non si potrebbe dare vita agli…, siamo qua a fare! Siamo qua in quattro”, “E con che cosa vai?” “In paese sequestro un cavallo e un carretto e andiamo” ” Ma è pericoloso!”.

Dopo un po’ mi hanno fatto un permesso però dice: “A Innsbruck voi vi dovete presentare nel centro di raccolta che loro vi mandano in Italia”.

Io ho fatto tutta l’Alta Baviera, tutte le volte che ci fermavamo, poi eravamo armati perché lì non potevi andare…, poi ci hanno dato le rivoltelle, le munizioni per fare il viaggio e si andava a dormire nelle case.

Quando si andava a dormire nelle case noi si dormiva nell’ultima stanza, mai nella prima o nella seconda o in mezzo, nell’ultima. Avevamo paura che i tedeschi…

Ad ogni modo siamo arrivati ad Innsbruck.

A un certo momento quelli là mi dicono: “Allora andiamo a presentarci…?” “Io no. Io vado alla ferrovia, il primo convoglio che passa per l’Italia io me lo prendo e vado in Italia perché se andiamo dentro là stiamo quattro o cinque mesi prima di andare in Italia a casa”.

“Ma io non so, io vado”. Insomma loro sono andati, io cosa ho fatto: ho girato un po’ Innsbruck fino a quando ho trovato da vendere i cavalli.

Ho venduto i cavalli ma non per i soldi, per loro, poi mi sono fatto dare anche delle fedi perché le avevano portate via a mio padre e a mia madre i fascisti e sono andato alla stazione.

Dopo un’ora che ero lì passa mica un’altra tradotta di alpini che andava in Italia; sono saltato su e l’ho presa.

Sono andato fino a Bolzano; a Bolzano hanno riconosciuto subito da dove arrivavo.

Il giorno dopo è arrivato un pullman dell’ATM perché lì era tutto bombardato, da Bolzano fino a Verona la ferrovia non andava e mi hanno portato a Milano.

Sono arrivato a Milano il 21 luglio del ’45.

D: Luglio?

R: Luglio del ’45 a mezzanotte, dodici meno un quarto in Piazza del Duomo mi hanno scaricato.

Dovevo prendere il 24 perché abitavo in Via Ripamonti e ho preso l’ultimo tram ma ero vestito da americano con i pantaloni corti.

Il tranviere quando mi ha visto ha detto: “No, non pagare il biglietto”, tanto al pagavi no il bigliet, non potevo pagare il biglietto come faccio, non ho neanche una lira!

Sono arrivato a casa. Era estate, era il 21 luglio.

Fuori col caldo che faceva, c’era fuori una mia vicina.

Quando mi ha visto ha detto: “L’Ambrogino! Spetta ad andà in cà se no fai morire di crepacuore tua mamma perché tua mamma ti pensa morto”.

Avevo la fotografia alla chiesa di via Ripamonti, l’Annunziata come si chiama, quella mia fotografia perché io ero morto.

D: Allora te se venu a ca e la tua vicina…

R: Mi ha detto di aspettare perché doveva almeno preparare la famiglia, erano le dodici e mezza circa, poi c’era in casa mia sorella e c’era in casa, che io lo chiamavo fratellastro, un ragazzo, Giaele si chiamava, che era il figlio della portinaia della casa di mio padre in via Giulio Carcano 26, erano morti il papà e la mamma, mio papà e mia mamma lo hanno preso e lo hanno tenuto come figlio e dormiva nel mio letto, io ormai erano otto anni che ero via, lui non era nemmeno andato a militare.

Ad ogni modo poi entro in casa, ci abbracciamo, si mettono a piangere, insomma tante belle storie, tante belle balle, gli do le fedi a mio papà e alla mia mamma, mi faccio il bagno, mi vesto e me ne vado.

“Come te ne vai!”

Avevo voglia di andare in giro, di andare a vedere le vecchie cose che ho lasciato otto anni prima, non sono quasi mai venuto a casa da militare e sono andato, sono stato via quattro giorni.

Sono andato, ho trovato la mia ex fidanzata che ormai era con un capitano dei partigiani che era in montagna, non mi interessa perché non è che mi faceva dispiacere.

Poi ho trovato un’altra mia ex fidanzatina che poi l’ho sposata.

Sono stato lì in casa, abbiamo parlato, abbiamo mangiato, ho visto tutte le cose, ho visto chi è morto, chi è vivo.

Volevo essere libero e fare quello che volevo.

Poi sono andato a casa e ho cominciato a ragionare perché mio padre la fabbrica l’ha persa perché ha avuto un incidente con la centrale del latte nel ’39 quando io ero a militare.

E’ stato in coma tre mesi, quando è uscito dal coma non era più mio papà, non era più Ciceri Luigi.

Mio papà è questo.

Andavo a dormire a casa di un mio amico, non dormivo in casa, andavo lì dai miei ed a un certo momento ho detto: “Ma che vita sto facendo io, quasi quasi mi sposo”.

Quella li mi tirava per la camicia e allora mi sono sposato a ottobre del ’45, ma non mi sono sposato il 28 ottobre, mi sono sposato il 27, mai il 28 ottobre e siamo andati avanti un po’ fino a quando poi è nata mia figlia.

Mia moglie era troppo gelosa, scene da baraccone, una cosa terribile.

Io chi è geloso lo compatisco.

Io non potevo ritardare mezz’ora. Se dicevo vengo a casa alle 7, dovevo essere a casa alle 7, non potevo fermarmi con un amico a parlare, era il colmo dei colmi poi a me che piaceva la libertà era una cosa assurda.

Ad un certo momento ho detto: “Senti…”.

Una sera che sono venuto a casa, se non faccio a tempo a tirar via la testa prendevo un bottiglione che mi spaccava la testa, perché avevo ritardato un’ora o due, diceva che avevo la morosa, tute le stupidate delle donne, cosa si inventano.

Mi sono diviso, ho preso la valigia e sono andato via.

Mia figlia aveva cinque anni.

A casa di mia mamma non ci volevo andare, non volevo tornare perché dopo mia madre, Giaele era andato via, si era sposato, mia sorella si è sposata anche lei, mio padre era morto nelle mie braccia nel ’50, gli è venuto un tumore allo stomaco.

Non volevo andare a casa di mia madre a dare fastidio, poi poverina anche lei aveva tante cose, poi dopo mia sorella ha cominciato ad avere dei bambini, poi c’era mia figlia.

Insomma sono andato via, mi sono messo con una qua in corso Magenta; siamo stati lì un bel po’ assieme fino a quando ci siamo lasciati e dopo sono sempre stato solo.

D: Ma Ambrogio quando sei tornato hai iniziato a parlare della deportazione?

R: Sì ero con Papalettera, non so se ricordi Papalettera.

I primi a fondare che l’abbiamo fatto in corso Matteotti, io e Papalettera. Poverino adesso è morto.

C’era un altro, Beretta, è sempre stato anonimo, faceva l’usciere alla banca d’America e d’Italia, dietro la Scala, mi sembra.

D: Ma raccontavi ai tuoi amici, a casa?

R: Sì raccontavo, ma guarda sembravano barzellette.

Dopo tanti anni, adesso cominciano a capire qualcosa ma non tanto.

Sono andato nelle scuole anche quando c’erano i miei nipoti perché una delle mie nipoti adesso fa l’Università, io andavo quando faceva le elementari, quell’altra fa il liceo.

Quando facevano le scuole elementari mi chiamavano e andavo là a spiegare com’era la deportazione, cosa è stato, come è stato il fascismo e tante belle cose, ma vedi ho sempre visto che la gente adulta non si è mai interessata, non si è mai interessata.

Noi abbiamo un capo del Governo, scusami, che non ha mai presenziato una volta, una volta al 4 novembre ai monumenti dei deportati, non dico andare di là dagli ebrei ma al monumento dei deportati, ma nessun capo del Governo, anche democristiano, nessuno.

L’unico, quando c’era il socialismo a Milano, che mandavano un rappresentante del comune; adesso il comune manda uno che non sai nemmeno chi è a portare una corona e basta, ma non fa come Albertini che va a Musocco e poi va anche…

Ma io dico sono morti e non metto in dubbio, un morto cerchiamo di rispettarlo, lasciamo stare come la pensavano, come non la pensavano, ma che adesso mi vengono qua a raccontare che …

Da quando c’è stata la Repubblica, l’unico che ha difeso è stato Pertini.

Io ero con il fratello di Pertini a Flossenbürg e poverino hanno detto che l’hanno fucilato; non è vero, è morto poverino di dissenteria, non l’hanno fucilato Pertini perché non c’era motivo di fucilarlo, è morto come sono morti tanti altri, come tre colonnelli che venivano dalla Grecia, sono morti anche loro perché non volevano mangiare.

C’erano là anche dei generali, c’era là anche padre Gianantonio, che adesso è morto anche lui ma è morto qua non è morto là.

Praticamente non si sono mai interessati, i democristiani non si sono mai interessati di queste cose, mai, l’unico che ha fatto qualcosa, se abbiamo qualcosa è Pertini perché è stato Presidente della Repubblica, ma gli altri…

D: Ascolta Ambrogio, a Dachau o a Flossenbürg ti ricordi se hai visto anche delle donne deportate?

R: No. C’erano le donne perché si sapeva che c’erano le donne.

D: Dove questo?

R: Fuori dal campo, sia a Flossenbürg che a Dachau, ma servivano per tante cose. Per esempio a Flossenbürg c’è stato anche Canaris e l’hanno fucilato lì a Flossenbürg, Canaris.

Sai chi era?

D: Quello di Roma dici?

R: Canaris il tedesco che ha tradito Hitler.

D: Sì, sì, …quello che … di Roma.

R: Il maresciallo Canaris quando lo hanno arrestato lo hanno portato a Flossenbürg ma non con noi, fuori, a parte.

D: E le donne c’erano?

R: Sì c’erano ma fuori dal campo.

D: Non deportate come voi?

R: Non so.

D: Questo non lo sai. Ascolta, un’altra cosa, ti ricordi per caso come si chiamava la ditta dove tu andavi a lavorare lì a Flossenbürg?

R: Non ce l’hanno mai detto questo.

D: Non ve l’hanno mai detto.

R: Io penso sia la Messerschmitt perché gli aeroplani…

D: Lì eravate in tanti a lavorare in questa fabbrica?

R: A fare le ali eravamo in diversi perché c’era uno, due, tre, quattro, cinque, sei, dieci, dodici cose di ali, dodici di qua e dodici di là; ce ne erano due ogni ala, dunque eravamo ventiquattro, venticinque, ventisei lì, poi di là c’erano quelli che sceglievano le viti, c’era lì anche quello di Cuneo, un dottore di Cuneo.

D: Deportati?

R: Deportati.

D: Questi capannoni dicevi che erano distante un chilometro e mezzo dal campo.

R: Un chilometro non di più.

D: Non erano giù alla cava?

R: Sì noi andavamo giù ma non lo so se erano alla cava.

D: Non te lo ricordi?

R: Non me lo ricordo perché noi non vedevamo nessuna cava a dir la verità.

D: Ma quando andavate lì a questi capannoni attraversavate il paesino di Flossenbürg o…?

R: No, no, direttamente fuori da Flossenbürg prendevamo la stradina e si andava giù.

No, no, nessun paesino.

D: Quindi Flossenbürg non lo passavate?

R: No, no.

D: Quindi con i civili non avete ….?

R: Mai avuto contatto, mai.

D: E in fabbrica invece c’erano dei civili?

R: Sì c’erano dei civili, c’erano dei civili che verificavano il lavoro finito.

D: Una volta che voi avevate finito il lavoro ecc., quelle ali lì venivano portate via?

R: Venivano portate via, sì.

D: Ma non ti ricordi come, chi le caricava …

R: Quando le finivano le portavano via alla sera quando noi si andava via e alla mattina già trovavamo un’altra ala da ricominciare.

D: Quindi tu il tuo turno di lavoro era durante la giornata?

R: Sì era dalle 7.30, 8.00 fino a mezzogiorno, poi mezz’ora per mangiare, poi fino alle 16.30, poi ci portavano dentro.

D: Nel campo?

R: Nel campo.

D: Quindi di sera o i turni, mai?

R: No di sera mai, mai fatto i turni, mai fatto niente, mai mai mai, mai fatti i turni.

D: Ti ricordi se c’erano deportati più giovani di te o molto più anziani di te lì a Flossenbürg?

R: Più anziani di me c’erano tanti cecoslovacchi, non italiani, degli italiani forse ero io il più vecchio, che avevo ventisei anni, perché gli altri erano molto più giovani di me, Camia era molto più giovane di me, aveva vent’anni, Esposito aveva vent’anni, c’era quello che adesso non mi ricordo più, quello che ci siamo trovati lì…

D: Venanzio.

R: Venanzio aveva vent’anni. Erano tutti giovani, solo io che avevo ventisei anni. C’era Esposito, quell’altro di Napoli che aveva vent’anni, quello lì che è morto annegato che non mi ricordo il nome di Casale Monferrato, suo padre faceva il casellante, so che ce l’ho detto quando sono venuto a casa.

Perché dopo quando sono venuto a casa sono venuti a trovarmi diverse persone per sapere.

Ma guarda sono passati tanti anni che non mi ricordo.

D: Tu a Flossenbürg non sei più tornato?

R: No.

D: Neanche a Dachau?

R: No. E’ andata mia figlia per me.

D: Tu perché non sei più ritornato?

R:Guarda prima cosa perché io sono ammalato e dovrei ogni quarantotto ore fare una certa operazione che mi serve acqua calda, mi serve un bagno, mi serve…

D: Va beh le tue cose.

R: C’è una cosa che ti senti fuori…

D: Certo.

R: Capito? Ecco perché non sono mai andato né a Flossenbürg né a Dachau.

Ci vorrei andare a Flossenbürg perché forse io sono l’italiano più vecchio di tutti, come tempo, perché ci sono stato dal febbraio del ’44 fino al 19 aprile del ’45, un anno e qualche cosa.

Vorrei vedere come è combinata adesso.

D:Come si fa a sopravvivere per sei mesi e più in un Lager nazista?

R: Si fa che hai voglia di vivere, hai voglia di tornare, devi imparare a subire qualsiasi cosa e mandar giù senza mai avere una razione, senza mai …, c’è poco da fare se vuoi vivere.

D: E conta molto anche la fortuna?

R: Conta molto anche la fortuna e l’arrangiamento. Uno si deve arrangiare come è messo.

D: ” Organizziere “.

R: “Organizziere”, esatto, perché io mi ricordo quei tre colonnelli che sono arrivati dalla Grecia che non hanno aderito alla Repubblica di Salò , che come sono arrivati rifiutavano il cibo.

Io gli ho detto: “Mangiate, date retta a me se non mangiate non sopravvivete, bisogna adattarsi a tutto”.

Dopo quindici, venti giorni sono morti.

C’erano là anche due generali, uno un siciliano che mi ha scritto dalla Sicilia, non mi ricordo il nome, un generale era.

Loro mangiavano quello che gli davano se volevano vivere, c’era poco da fare, forse a loro davano qualche cosa in più, adesso non lo so, non ho mai visto niente, ma noi nei blocchi ci si doveva arrangiare, c’è poco da fare e non fumare.

D: Ambrogio ti ricordi se erano possibili all’interno del Lager atti di solidarietà fra voi deportati?

R: Non ce n’erano atti di solidarietà, non ce n’erano, ognuno pensava per se stesso, non ce n’era e bisognava anche stare attenti con chi parlavi anche, specialmente se erano polacchi perché i polacchi hanno forse nel sangue, forse adesso no ma so che là erano quasi tutti degli sporcaccioni, tutti facevano la spia al Kapò e quando succedeva qualcosa la colpa era loro.

D: La maggior parte dei Kapò che tu hai avuto di che nazionalità erano?

R: Tedeschi, tutti tedeschi.

D: Triangoli?

R: Neri.

D: Neri?

R: Neri. Criminali.

D: Dentro lì a Flossenbürg oltre ai politici e ai criminali ecc. ti ricordi anche dei testimoni di Geova?

R: No.

D: Triangoli viola?

R: No.

D: E degli ebrei ti ricordi?

R: Ebrei sì ce ne stavano ma poca roba, sono stati pochissimo tempo perché dopo li hanno levati tutti e non li hai visti più.

Io mi ricordo che quando andavo su a portare il carbone al forno crematorio, perché noi portavamo anche i morti al forno crematorio, noi italiani, alla mattina quando tu trovavi nel tuo blocco nel Wäsheraum un morto lo spogliavi nudo, dovevi scriverci il numero qua e portarlo su, lo buttavi là dentro nello stanzone, era pieno di morti e lo buttavi là.

D: Tu avevi ventisei anni e hai fatto il militare…

R: Guarda che il militare l’ho fatto come ho voluto io non come ha voluto il Duce.

D: No, no io dicevo questo per dire: il rapporto con la morte.

Quando qui si parla di morte nei Lager non si dice un cadavere, dieci cadaveri ma si inizia a contare da 100 a 500, 1000 cadaveri ed è una cosa quotidiana, no?

Ecco come cambia questo rapporto con la morte?

R: Guarda ti dirò non voglio essere…ma non mi interessava, non mi interessava, ero indifferente a tutte queste cose qua perché io sono stato anche nel blocco dove è scoppiato il tifo petecchiale.

Sopra c’era il forno crematorio e sotto c’era il blocco, eravamo in 400 circa, in tre siamo usciti.

Lì è, scusi il gesto, lì è questo…

Io non ho preso né un raffreddore invece qua continuo a prenderli, né un raffreddore né la tosse, niente; quando ho finito tutto mi sono preso: bronchite cronica, enfisema polmonare, paratifo, tutti mi sono venuti, meglio dopo che là, intendiamoci bene.

L’unica cosa che mi è venuta è stata la dissenteria, ma il rapporto morte ere indifferente, io pensavo solo di venire a casa e basta, di farcela.

La mia fissazione era questa e ce l’ho fatta.

D: E’ quello che ti ha aiutato molto, pensare…

R: Sì, sì è quello che ti aiuta molto e trattenerti anche in tante cose. Certe volte anche sul lavoro, per esempio quando mi hanno picchiato perché ho fatto quel buco, la sensazione di rivoltarsi, è stato meglio così se no sarei morto, perché nel frattempo che ti picchiano tu pensi e se gridi fanno apposta, devi stringere i denti e sopportare.

D: Ambrogio secondo te è importante che i giovani di oggi conoscono cosa è stata la deportazione?

R: Molto importante. Molto importante perché devono pensare che può succedere ancora. Sì, sì, sì.

Il mio povero padre mi diceva sempre, quando c’era il fascismo, parlo in milanese: “Ti te vedaret cosa te cumbina quest chi. Te cumbina una guera che fa muri tant di chi persun che finis pu, po ta vedaret quel che sucet”.

Ha avuto ragione, su questo ha avuto ragione.

Io dico una cosa sola: se andiamo avanti di questo passo, qui siamo già in mezzo a regime, non pensate che siamo liberi, poi voi se siete giornalisti lo sapete che non siamo liberi, che non si può scriver quello che si vuole se no guai.

Ma se andiamo avanti così non lo so quello che può succedere perché noi abbiamo un capo supremo che è l’America e l’America ha un capo supremo che è un criminale di guerra. Bush è un criminale di guerra, dovrebbe essere processato per quello che ha fatto; ha fatto morire un sacco di persone inutilmente come ha fatto il Duce.

E’ come se gli dessero il permesso di fare anche questo qua.

D: Quindi secondo te è importante che i ragazzi…

R: Che i ragazzi sappiano che possono succedere ancora queste cose qua, possono succedere, dico io che possono succedere e non credere che non…

Noi diciamo che siamo un popolo civile, non penso che noi siamo un popolo civile.

Va bene hanno commesso dei reati, la gente, capisco, ma trattiamo reati con reati.

Ci sono dei reati che sì sono dei reati però c’è la differenza perché c’è quello di B, quello di A e quello di C e noi non abbiamo un’uguaglianza, non c’è l’uguaglianza per nessuno qua.

Prendiamo nelle carceri: cosa c’è dentro poverini.

Noi prendiamo il nostro Parlamento, Bossi è condannato, Maroni è condannato, Berlusconi è sempre stato condannato, Previti non parliamone, Dell’Utri…

Prendiamo tutto questo, ma cosa abbiamo noi?

Ma perché loro no e questi poveretti sì?

Non abbiamo neanche la giustizia, non abbiamo nemmeno la giustizia e abbiamo un Presidente buono ma un pappamolla, ma molto molla, non ha polso, non ha niente.

D: Comunque ascolta una roba: se dovesse proporsi l’occasione, fermo restando con i tuoi problemi delle 24 ore, 12 ore, quello che è 48 ore ecc, tu ha i bisogno di…, una capatina su a Flossenbürg ci staresti?

R: Sì la farei quest’estate, la farei volentieri, ma l’avrei già fatta anche molto volentieri la farei, molto volentieri, sperando che non mi venga più niente, ho anche il diabete, ho un sacco di cose.

Io non so perché sono ancora vivo!

Ho avuto nel ’45 un tumore alle corde vocali destre, mi hanno fatto la radioterapia all’ospedale dei tumori…

D: Abbiamo finito.

Coppolecchia Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come si chiama?

R: Chi, io?

D: Sì.

R: Mario.

D: E di cognome?

R: Coppolecchia.

D: Di dove siete originario, Mario?

R: Di Schipella Foggia, Gargano.

D: Però vi siete trasferito?

R: Sono stato undici anni in Piemonte.

D: Dove in Piemonte?

R: Cuneo città.

D: Proprio Cuneo città?

R: Cuneo città. Poi sono stato tre anni a Torino.

D: In Piemonte dove vi hanno arrestato?

R: In Piemonte a Val Varaita, in Val Varaita a Torretta e Casteldelfino.

D: Come mai eravate lì?

R: Dai partigiani.

D: Quanti anni avevate?

R: Vent’anni.

D: Perché avete fatto la scelta del partigiano?

R: Ho fatto la scelta del partigiano perché non ho voluto aderire alla Repubblica di Salò. L’8 settembre ’43 ero a Venezia, nell’ospedale di Venezia. C’è stata la visita della duchessa di Genova, ha visitato gli ammalati.

Com’è arrivata da me, mi fa: “Tu, piccolo soldatino, cosa fai?”. Dico: “Sono qui ricoverato che ho la bronchite”, un sacco di storie, ma io l’ho fatto apposta, sigari sotto le ascelle. Mi sono arrangiato per non partire, per non andare in guerra.

Allora ha chiamato il primario e dice: “Vuoi andare a casa? Ci terresti ad andare a casa?”. “Caspita, eccome”, dico io. Allora fa al primario: “Propongo al soldatino due mesi di convalescenza”.

Mamma mia, appena è andata via mi sono messo a ballare sul letto io. Due mesi di convalescenza. Quel disgraziato cosa ha fatto, com’è andata via lei, la duchessa di Genova, al posto di due mesi ha messo il due davanti e ha fatto venti giorni.

Comunque a me è andata bene, perché al 5 settembre ’43 sono uscito dall’ospedale e sono andato con venti giorni di convalescenza, l’8 settembre c’è stata la disfatta e mi sono trovato a casa.

D: A casa dove?

R: A casa a Cuneo.

D: Ah, Cuneo.

R: Sempre a Cuneo, via Fossano 30. Che è successo? Dopo era pericoloso perché c’erano i rastrellamenti. Per mezzo di un mio paesano che era maresciallo degli alpini, mi ha portato in ufficio assieme a lui.

Dice: “Tu stattene qua, facciamo il libretto di presenza … per i dispersi di guerra”, ecc. Aiutavo a fare qualcosa, la mattina andavo e accendevo la stufa, era pieno inverno. Però mi prendevo lo stipendio, ho fatto un paio di mesi.

Nascosto sempre. Dopodiché la vita diventava impossibile in quanto c’erano i rastrellamenti continui della Wermacht e più della Monterosa. Allora un certo maggior Giannandrea mi ha detto: “Guarda che la vita diventa impossibile, qui non puoi più starci perché è pericoloso anche per noi”.

Cosa faccio? D’accordo con due fratelli, Tassoni si chiamavano questi tizi, di una frazione vicina, a tre chilometri da Cuneo. Ci siamo messi d’accordo, loro conoscevano un ex tenete dell’esercito che si chiamava Santino.

D’accordo con questo mi ha fatto pervenire due bombe a mano con la pistola, praticamente noi per andare in montagna dovevamo attraversare tutti i posti di blocco. Abbiamo fatto così.

Quei due e io siamo andati in montagna in Val Varaita. Abbiamo trovato questo tizio e ci ha assegnato il distaccamento, poi il comandante della valle era un certo Giannardo, un capitano dell’esercito anche lui.

D: Eravate una brigata quindi?

R: Una brigata, sì.

D: Che si chiamava?

R: Brigata alpini, brigata del secondo alpini. Qui ho le carte e tutto.

D: Dopo le vediamo. Lì quanto tempo siete rimasto in brigata?

R: In brigata siamo rimasti due o tre mesi.

D: Nel ’44?

R: ’44. Dopo quando mi hanno preso, mi hanno preso di sorpresa, ero di guardia, di notte mi hanno preso. Mi hanno fatto l’accerchiamento. Da là mi hanno portato alla caserma degli alpini di Casteldelfino. Sono stato dodici giorni.

D: Ma chi vi ha preso?

R: La Monterosa assieme ai tedeschi della Wermacht. Dopo dovevano fucilarmi. Mi hanno fatto fare persino la fossa con le mie mani, picco e pala.

D: Hanno preso solamente Voi?

R: Solo me, gli altri sono riusciti a scappare. Ho dato un fischio io, di corsa nel vallone proprio, c’era a picco un vallone. Uno è stato colpito però, questo l’ho saputo dopo. E’ stato colpito e dopo è morto, un certo… Come si chiamava questo tizio? Era di Vigevano. Era un ex carabiniere.

E’ stato colpito e dopo un paio di mesi è morto questo. Adesso per finire il mio racconto, sono stato dodici giorni là. Quando mi hanno fatto fare la fossa con le mie mani, dovevano fucilarmi. Dopo è venuto un contrordine.

E’ venuto un contrordine e mi hanno portato giù. Sono stato dodici giorni che mi interrogava la Monterosa. Ma io, veramente il mio racconto è troppo lungo…

D: No, non è lungo.

R: E’ successo che prima di venir via dalla caserma degli alpini mi sono procurato una licenza falsa. Dato che ero all’ufficio maggiorità, questo maggior Giannandrea, io avevo tutti i bolli a portata di mano, tutti i timbri e mi sono procurato una licenza per venti giorni di convalescenza, ho timbrato.

Però la firma del maggior Giannandrea l’avrò fatta duemila volte, ero riuscito a farla talmente precisa che nessuno si accorgeva che non era la firma di Giannandrea. Quando mi hanno preso nei partigiani, per quello mi sono salvato ancora, ho presentato questa licenza.

Guarda che io mi trovo così e così perché mi hanno preso. Ho fatto vedere la licenza e quella licenza mi ha salvato.

D: Con la firma falsa?

R: Con la firma falsa. Da Casteldelfino è venuto un contrordine e mi hanno portato a Saluzzo. Ho fatto sessantasei giorni alla Castiglia di Saluzzo sotto gli interrogatori, volevano sapere tutti i nomi dei partigiani, tutti i comandanti.

Io: “E’ poco che sono qui, non conosco nessuno”. Ho sempre negato, praticamente. Mi torturavano, con la pistola puntata sulla fronte mi facevano gli interrogatori. Di più quando mi hanno trasferito a Torino, a Le Nuove di Torino, là sono stato diciassette giorni a Torino.

D: Invece a Saluzzo siete rimasto?

R: Sessantasei giorni.

D: In cella da solo?

R: No, eravamo in due. Tutte le mattine ci tiravano fuori per sapere, per interrogare sempre, sempre la stessa storia che volevano sapere i nomi. Io ho sempre negato: “Non conosco nessuno, non conosco nessuno”.

Dopo, un bel giorno è venuto l’ordine del trasferimento da Saluzzo a Torino, alle Nuove di Torino. Diciassette giorni sotto l’interrogatorio.

D: Il trasferimento con cosa ve l’hanno…

R: Con le camionette. Sì, camionette dei tedeschi e della Monterosa. Dopo diciassette giorni anche là mi hanno trasferito a Bolzano, al blocco dei criminali. Ventitré giorni.

D: Ma quando eravate lì alle Nuove…

R: Sì.

D: Anche lì in cella d’isolamento?

R: In cella d’isolamento.

D: In cella?

R: Sì.

D: Vi ricordate il numero della cella?

R: No, quello no. Non c’era nessun numero, non siamo riusciti neanche noi, non sapevamo la cella. Eravamo all’oscuro.

D: Dopo vediamo i documenti.

R: All’oscuro di tutto.

D: Lì vi interrogavano?

R: Interrogavano ancora, sempre sotto i tedeschi, quelli della Wermacht.

D: Vi hanno portato anche all’Albergo Nazionale?

R: No.

D: Dentro, quando eravate lì alle Nuove, avete trovato altri compagni?

R: Ma noi eravamo isolati, non potevamo confabulare con gli altri. Con nessuno.

D: Questo che periodo era quando eravate lì?

R: Era… No gennaio, un momento. Dicembre.

D: Del ’43?

R: ’44.

D: Dicembre del ’44?

R: ’44, precisamente. Poi da Torino ci hanno portato lì a Bolzano, sono stato ventitré giorni al blocco dei criminali.

D: Il viaggio com’è che…

R: Camionetta sempre, sempre con camion italiani.

D: Da Torino a Bolzano in camion?

R: Da Torino a Bolzano in camion.

D: Quanti eravate?

R: Eravamo una trentina più o meno. Venti, trenta. Camion con i sedili laterali e ci portavano lì con le sentinelle dietro. Naturalmente sentinelle armate col fucile.

D: Quando siete arrivati a Bolzano cos’era? Mattina o giorno?

R: Mattina.

D: Mattina?

R: Mattina, sì.

D: Vi hanno messo dentro nel campo?

R: Mi hanno messo nel campo. Ci hanno destinato il blocco.

D: Vi hanno spogliato?

R: Spogliato completamente. Poi quando siamo andati a Mauthausen, all’arrivo di Mauthausen… Dopo ventitré giorni.

D: Vediamo lì a Bolzano. Siete entrati e vi hanno spogliato?

R: Spogliato completamente.

D: Vi hanno ritirato tutti i…

R: Ritirato tutta la nostra roba e ci hanno dato i vestiti. Ma non erano vestiti zebrati grigi, i vestiti a righe ce li hanno dati a Mauthausen. Lì ci hanno dato dei vestiti grigio-verde, disinfettati ai forni. Non è che erano lavati neanche.

D: Vi hanno dato il numero lì a Bolzano?

R: A Bolzano nessun numero.

D: Niente?

R: Niente.

D: Dove vi hanno messo? In quale blocco vi hanno messo?

R: Al blocco ventitré.

D: A Bolzano?

R: A Bolzano. Blocco ventitré.

D: Non aveva una lettera?

R: No, almeno, io non mi sono accorto di nessuna lettera. Eravamo cintati dentro. Poi un tredici o quattordici persone c’eravamo messi d’accordo di sfondare sotto il blocco.

Si faceva a turno, un’ora per uno sotto i castelli, perché lì si dormiva in castelli. Sotto il castello con certi ferri, un cucchiaio, qualcosa. Piano piano. Mancava sì e no mezz’ora a sfondare. Di notte si lavorava, a turno, un’ora tu…

C’era anche un ingegnere allora, un ingegnere di Milano, non mi ricordo più il nome.

D: Vi ricordate altri vostri compagni lì in quel blocco?

R: Sì. In quel blocco c’era con me un certo Ciamarra Michelangelo, era un ex carabiniere abruzzese questo tizio. Anche lui collaborava a sfondare questa…

D: Poi chi c’era d’altro?

R: Lì c’era un certo Pezzini, colonnello italiano. Quello ci ha fatto la spia. Non gliene dico, botte da orbi. Loro volevano sapere il responsabile, ci hanno tenuto tre giorni fuori.

D: Come fuori? Fuori dove?

R: Fuori all’aria aperta. Si entrava soltanto di sera, in pieno gennaio fuori all’aria aperta, lì in fila inquadrati. Volevano sapere il responsabile.

Visto e considerato, tre poverini sono usciti fuori, siamo stati noi i prematuri, i responsabili dell’idea di sfondare il recinto. Uno l’hanno legato al palo, parlando con molta decenza se la faceva addosso, tutto.

Dopo tre giorni è morto.

D: Come si chiamava questo?

R: Vattelapesca.

D: Non ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo. Un altro l’hanno messo addirittura in una specie di gabbia grande lì dentro. Dopo è stato liberato, dopo tre giorni c’è stata la partenza.

D: Quando eravate lì a Bolzano, cosa facevate lì a Bolzano nel campo voi?

R: Niente. Ci tenevano lì prigionieri, ci davano la minestra. Diciamo minestra, acqua calda con tre fagiolini dentro, quando si trovavano questi fagioli.

Non si lavorava, si era in attesa della partenza. Quando si raggiungeva il numero esatto per il trasporto, si andava.

D: Poi è successo quell’episodio lì che vi hanno preso?

R: Mi hanno preso dove?

D: Quando stavate facendo lo scavo…

R: Sì, ci hanno preso. Per il giorno del compleanno mi sono trovato a Mauthausen già. Lì per punizione ci hanno messo all’aria aperta, al freddo. Si moriva di freddo. Eravamo quasi a sei, sette sotto zero.

D: Con niente addosso?

R: Con niente addosso.

D: Una cosa, Mario. Lì a Bolzano c’erano anche delle donne?

R: No, con noi no.

D: Ma dentro nel campo?

R: Sì.

D: Le avete viste voi le donne?

R: Le abbiamo viste. Le abbiamo viste di sfuggita, ma non si vedevano, perché le facevano vedere.

D: Ah no?

R: No, no. Non le facevano vedere. Di sfuggita.

D: Avete visto per caso anche dei bambini lì a Bolzano?

R: No, bambini non ne ho visti.

D: Un’altra cosa, lì c’erano già le SS però?

R: Sì.

D: Vi ricordate il comandante di Bolzano?

R: Il comandante di Bolzano era un certo Frizzi, Frizzi si chiamava, sì.

D: Dei tedeschi non vi ricordate?

R: No.

D: Haage, questi nomi?

R: As.

D: As?

R: Questo sì, adesso mi viene in mente.

D: Vi ricordate del blocco celle lì a Bolzano?

R: No, il blocco celle no.

D: Non ve lo ricordate?

R: Non me lo ricordo.

D: Vi ricordate dei due ucraini che c’erano?

R: Non erano assieme a noi forse.

D: Erano assieme alle SS, Misha e Otto.

R: Misha e Otto, quelli sì, quelli me li ricordo.

D: Perché ve li ricordate?

R: Me li ricordo perché certi nomi si tengono, specialmente quelli che facevano parte delle SS e della Wermacht, si tenevano in mente di più, erano quelli che ci torturavano.

D: Vi ricordate di una donna tedesca?

R: No, la donna no.

D: E di una donna italiana piccolina?

R: La donna italiana piccolina si, però non so il nome. Quella lì sì, me la ricordo.

D: La chiamavano la Cicci.

R: Cicci. Sì.

D: Invece la tedesca la chiamavano la Tigre.

R: Quella no, ma della Cicci sì. Quella me la ricordo.

D: Ve la ricordate la Cicci?

R: Sì. Quella me la ricordo.

D: Quando eravate a Bolzano, potevate scrivere a casa Voi?

R: No, guai, per l’amor di Dio. Niente.

D: Potevate ricevere, non so, dei pacchi?

R: No. Niente. A Bolzano non potevamo ricevere né pacchi né niente. A Mauthausen i pacchi della Croce Rossa.

D: Fermiamoci ancora a Bolzano un attimo, se non Vi dispiace.

R: No.

D: Altri Vostri compagni uscivano a lavorare dal campo?

R: No, no.

D: Che Voi Vi ricordate no?

R: Che io mi ricordi non usciva nessuno.

D: Vi ricordate se c’erano dei sacerdoti lì a Bolzano?

R: C’era qualche sacerdote, sì.

D: Ve lo ricordate?

R: Il fatto è che i sacerdoti erano trattati come noi, non c’era distinzione di ceto, no. Loro avevano lo stesso trattamento.

D: Uguale al Vostro?

R: Uguale a noi.

D: Dopo ventitré giorni cos’è successo?

R: Dopo ventitré giorni fanno l’appello, ci mettono inquadrati fuori dal blocco, nudi completamente. Però noi siamo riusciti a far scappare un ferro così ricavato da un cucchiaio.

D: Cioè?

R: Una specie di lama. Se ci mandano via, perché si sentivano un po’ voci del popolo che ci mandavano via da là e ci spedivano in Germania, allora noi se capitiamo nei vagoni ferroviari tenteremo di sfondare il vagone, a potere.

Tant’è vero che abbiamo tentato di sfondare il vagone.

D: Ma lì vi hanno messo in fila…

R: Ci hanno messo in fila, nudi. Poi ci hanno rivestiti naturalmente dopo della stessa roba.

D: Vi hanno chiamato per nome o per numero?

R: Per nome. Là per nome, sì. A Mauthausen chiamavano per numero.

D: Lì a Bolzano per nome?

R: A Bolzano per nome, sì.

D: Poi cos’è successo?

R: Dopo è successo che ci hanno portato lì alla stazione, ci hanno caricato sui vagoni bestiame.

D: Alla stazione di Bolzano?

R: Alla stazione di Bolzano.

D: E con cosa vi hanno portato dal campo?

R: Sempre con la camionetta. Con questi camion, sì.

D: Quanti eravate più o meno?

R: Adesso di preciso… Ci sono stati due o tre… Noi siamo partiti per primi, una ventina. Poi ci sono stati dietro gli altri che dovevano partire assieme a noi. Adesso non so di preciso il numero. Questo non lo so.

D: Allora siete andati alla stazione?

R: Siamo arrivati alla stazione e ci hanno caricato sul carro bestiame col vagone piombato.

D: In quanti eravate dentro?

R: Lì eravamo una cinquantina.

D: E non sapevate voi dove…

R: No. La destinazione no. Sa che al Brennero sale un po’ la strada, il treno lì andava adagio con le sentinelle esterne sulle pedane in tutti i vagoni. Arrivata la notte, si incominciava a scarpellare un pochetto il vagone, un briciolo alla volta.

Siamo riusciti a tirare via una mezza tavoletta. Avevamo visto con la candela, avevamo la candela per vedere un po’. I tedeschi si sono accorti, hanno fermato il treno. Sono venuti nel vagone.

Nel vagone, parlando con molta decenza, si faceva tutto, lì si faceva la pipì, si faceva la popò, un odore che si moriva. Come le bestie, lo stesso. Hanno fermato il treno e sono venuti, hanno aperto il vagone.

Non gliene dico lì, botte da orbi col frustino.

D: A voi?

R: A noi, sì. Volevano sapere chi è stato, chi non è stato. Lì nessuno ha parlato, noi ci facevamo ammazzare però non parlava nessuno. Difatti è stato così.

D: Questo quando è stato? A gennaio?

R: A gennaio, undici gennaio mi sembra. Le date sono qui.

D: All’undici gennaio?

R: Undici gennaio.

D: Del ’45?

R: Del ’45. Dopo basta.

D: Lì vi hanno picchiato?

R: Ci hanno picchiato. Dopodiché si è avviato il treno di nuovo e arriviamo a Mauthausen. Arrivati a Mauthausen ci mettono fuori inquadrati di nuovo, fanno l’appello in attesa di fare la doccia fredda, gelata.

D: Siete arrivati a Mauthausen giù alla stazione?

R: Alla stazione. Dopo dalla stazione ci hanno portato sempre con questi camion, ci hanno portato lì al campo di Mauthausen.

D: Con i camion, non a piedi?

R: No, con i camion. Ci hanno portati là e ci hanno messo fuori dal blocco con la doccia fredda, lì tre o quattro alla volta. Come si veniva fuori, ci vestivano con questa roba zebrata, rigata, col numero di matricola.

Ognuno aveva il suo numero.

D: Vi ricordate il vostro numero?

R: 115450.

D: Vi hanno dato anche un triangolo?

R: Sì.

D: Di che colore?

R: Rosso.

D: Perché?

R: Perché eravamo prigionieri politici. Fuori dalla doccia ci destinavano il blocco, la baracca, baracca 21, 22, 23, ecc. Ci facevano trovare la minestra calda, acqua calda con due o tre fagioli, bisognava cercarli, con una mezza carota.

Là per i primi giorni ci tenevano dentro, dopo hanno incominciato che tutte le mattine verso le cinque e mezza, le sei, prima che facesse giorno, ci mandavano in trasporto a Amstetten, sgombero macerie. Dodici chilometri, a piedi. Tutte le mattine.

Dodici chilometri a piedi sotto i bombardamenti. Io ricordo un episodio, l’episodio è questo. Viene la pelle d’oca. Uno della nostra baracca ha trovato una pagnotta di pane così sotto le macerie, Dio ce ne liberi.

Ricordo un episodio che c’era un polacco, uno dei più vecchi del campo, erano i polacchi e gli spagnoli i più vecchi del campo, del ’35 c’era della gente, pochissimi, rari erano. Ma avevano i migliori posti.

Chi era addetto alla cucina, chi era addetto alle pulizie. Erano lì per comandare noi. C’era un polacco, un disgraziato questo tizio, un piccoletto di uno, non mi ricordo neanche il nome. Addirittura era peggio dei tedeschi, era feroce proprio, nonostante fosse prigioniero anche lui. Assieme alla SS.

Mi ricordo un episodio. Questa pagnotta di pane, naturale, affamati come eravamo l’avremmo divorata in due secondi. Cosa ha fatto questo qui? L’ha portata via, dopo ha preso una bacinella di quelle grandi, grandissima, piena d’acqua.

Hanno preso uno dei prigionieri, uno che era un po’ più scalmanato, che si è rivoltato contro di loro. Hanno preso quattro prigionieri di noi, lo tenevamo chi con le braccia, chi con i piedi. Siamo stati costretti a farlo affogare in quella bacinella. Col fucile puntato sulla fronte, sulla nuca, tutti e quattro.

D: Questo a Mauthausen?

R: Mauthausen, sì.

D: O ad Amstetten?

R: No, a Mauthausen questo.

D: Quando siete rientrati nel campo?

R: Quando siamo rientrati nel campo. Un momento scusi, adesso mi sbagliavo io. Proprio lì alla stazione di Amstetten.

D: Di Amstetten?

R: Precisamente. Questa bacinella, siamo stati costretti a far affogare questo tizio. Erano in quattro col mitra puntato sulla nuca a tutti e quattro noi, siamo stati costretti a farlo affogare questo povero cristo.

D: Non vi ricordate il nome di questo?

R: No, non so neanche se era del nostro blocco. E’ difficile che era del nostro blocco. Hanno preso questo tizio che era scalmanato, hanno preso quattro di noi per dare l’esempio agli altri di comportarsi in una certa maniera. E’ finita lì.

Dopo ritorniamo al campo, sempre la solita storia tutte le mattine, per dodici giorni ho fatto questa vita. Questo è stato prima della Liberazione. Nella nostra baracca c’era Piero Caleffi, eccolo qua, senatore. Era assieme a noi.

Questo siccome era il più vecchio del campo riusciva ad avere qualche notizia esterna. In segreto veniva nel blocco: “Guardate che gli americani sono a tanti chilometri di distanza”. Noi per mezzo suo si riusciva a sapere tutte le notizie fuori.

Quando poi sono arrivati a dodici chilometri, si sentiva il rombo del cannone. Questi tedeschi, quelli che erano sulle cuccette, incominciavano ad andare via. Loro si camuffavano, andavano in aperta campagna e si camuffavano, vestiti da contadini. Facevano finta naturalmente di arare il terreno.

Gli americani questo trucco lo conoscevano già, assieme ai russi, lo conoscevano già e allora facevano i rastrellamenti ogni tanto e li portavano al campo. Prima di essere rimpatriati siamo stati un mese.

D: Un momento, Mario. Quando siete arrivati a Mauthausen, vi hanno adibito a fare questo lavoro, sgombero macerie ad Amstetten?

R: Sì.

D: Questo per quanto tempo?

R: Per dodici o tredici giorni.

D: Dopo altri lavori?

R: No, altri lavori vari, lavori di pulizia interna. A Mauthausen per quindici giorni mi hanno messo addetto ai forni crematori, trasporto dei cadaveri con la carretta a mano. Mi davano una zuppa in più per fare questo lavoro.

D: In cosa consisteva questo lavoro?

R: Consisteva che tutti i morti, tutti i giorni ne morivano, si caricavano sulla carretta, quei carrettini che usavano i contadini, larghi, per caricare il letame, si caricavano cinque o sei alla volta e si portavano nei forni crematori.

Lì venivano bruciati. C’era della gente che non era ancora del tutto morta, proprio scarni completamente, ma li portavano nei forni crematori. Non è che li mettevo io.

Li portavo fin là con la carretta per avere una zuppa in più, finito questo lavoro è uscito un… Chiedevano dei barbieri, Friseur. Io, che ho fatto quel lavoro, ho alzato la mano.

Ho alzato la mano e mi hanno messo a fare quel lavoro. Quando arrivavano in trasporto a qualunque ora bisognava saltare su, alle due, all’una di notte, alle tre, alle quattro del mattino. Italieni Friseur, bisognava saltare. Come arrivava la gente del trasporto, bisognava pulirli. Pulizia generale.

D: Cioè?

R: Pelati in testa, sotto le ascelle, davanti, nel sedere, tutto completamente, proprio a zero, pelati. Per quello mi davano una zuppa in più.

Tant’è vero che questo avvocato Bonelli, che era amico del professor Ballaro della clinica Fatebene Fratelli di Milano, come mi davano questa zuppa, io avevo un rimorso di coscienza, dicevo: “Io devo mangiare questa zuppa e quelli che crepano di fame”.

Allora la distribuivo, addirittura la metà della mia la davo all’avvocato Bonelli. Si è salvato anche lui con questo. Io mi sono salvato proprio per quello, altrimenti… Facevo il Friseur. Sono andato a casa che ero trentaquattro chili e trecento grammi.

Alla Liberazione, quando siamo stati liberati, lì ci hanno dato carta bianca. Purtroppo mancavano le forze, noi potevamo fare quello che volevamo. Allora questo professore, m’ingarbuglio un pochetto perché mi incomincio a…

D: Ci fermiamo, se volete.

R: No. Questo professore mi ha detto: “Adesso puoi vendicarti di quello che hai passato”, mi ha dato un bastone di ferro addirittura, mi dice: “Il primo che ti capita dagli, ammazza, fai quello che vuoi”.

Io non avevo neanche il coraggio, m’è capitato uno e gli ho dato una bastonata, non è che l’ho ammazzato. Abbiamo tralasciato quel lato di quando ero nei partigiani che mi è capitato un maresciallo della SS che ho ammazzato.

D: Cioè?

R: Sì.

D: Ma dove? Su in Val Varaita?

R: Val Varaita.

D: Ma avete fatto un’azione?

R: No, lì c’è stata un’imboscata. Quando la valle era occupata dai tedeschi e dalla Monterosa noi eravamo sopra Torretta e Casteldelfino.

Noi si vedeva il movimento su e giù, in basso. Io mi sono appostato dietro a un cespuglio, stava passando con la moto questo maresciallo tedesco. Mi sono appostato e gli ho dato una raffica. L’ho ammazzato. Perché loro avevano un senso di coscienza contro di noi?

D: Quella era guerra.

R: Era guerra, se non ammazzavi tu, ammazzavano te, scherziamo.

D: Dicevate?

R: Tant’è vero che io gli ho sfilato il portafoglio, tre dollari aveva appena. Gli ho tirato via perfino la cinghia e me la sono messa io. Fino a qualche anno fa ce l’avevo ancora.

D: Ma dai? L’avete conservata?

R: Conservata, sì. Quel lato lasciamo stare.

D: A Mauthausen….

R: Ogni tanto quando venivano ai blocchi… Mi hanno rotto l’osso della gamba.

D: Cioè?

R: Qui.

D: Cos’è successo?

R: E’ successo che quando venivano nei blocchi, loro non guardavano… Entro cinque minuti anche il braccio qua.

D: Com’è che sono successi questi episodi?

R: Quando venivano nei blocchi loro col frustino alla mano volevano che in cinque minuti si doveva mettere a posto. Si dormiva in un materasso da una piazza in sei. Lei può immaginare in che maniera si dormiva.

Si dormiva di lato così, in costa in tre. Tre da una parte e tre dall’altra. Lì bisognava mettersi a posto in pochi minuti, altrimenti erano frustate a non finire. Io ho cercato di reagire, poi mi hanno spezzato l’osso qui della gamba e il braccio ferito.

Quando sono venuto in Italia andavo tutti i giorni a Cuneo alla Croce Rossa Italiana a farmi le medicazioni.

D: Là non vi hanno curato?

R: Curato? Menomale che c’era quel professore, lui andava in giro in tutti i blocchi. Però medicinali non gliene davano, gli davano la carta igienica.

D: Come bende?

R: Come bende, precisamente. Sono guarito in qualche maniera. Quando sono ritornato in Italia per il cambiamento, avevo cominciato a mangiare leggero, le ferite incominciavano a purgarmi.

Allora tutte le mattine andavo alla Croce Rossa a fare le medicazioni sia al braccio che alla gamba e sono stato un anno senza poter lavorare, anche se avevo le forze.

Menomale che avevo qualche soldino ancora da parte allora che mi sono curato. Per i danè di guerra mi hanno dato 94.000 lire. Tutto lì.

D: Una cosa, Mario. Quando eravate lì a Mauthausen, voi sapevate dei forni crematori?

R: Certo. Siamo stati informati, non ce lo dicevano loro. Quando li portavano via, prima di essere addetto io ai forni crematori, mai più si pensava che venissero passati ai forni crematori.

Poi c’è stato anche questo senatore Caleffi che ci ha informato: “Guarda che lì ci sono i forni crematori, così e così”.

D: Anche le camere a gas non lo sapevate che c’erano?

R: Non lo sapevamo, le camere a gas non lo sapevamo neanche.

D: Lo sapevi che c’era la cava? Tu non sei andato alla cava a lavorare però?

R: Alla cava no. Alla cava per fortuna no.

D: Perché per fortuna?

R: Per fortuna che facevo il barbiere, ero a disposizione. Sennò mi mandavano là.

D: C’erano invece…

R: C’erano.

D: Che andavano alla cava?

R: Che andavano alla cava, settanta chili.

D: Come settanta chili?

R: Gli mettevano un peso di settanta chili sulle spalle, praticamente bisognava salire una scalinata. Uno che non ce la faceva, non aveva più le forze, gli davano una raffica di mitra a bella posta e lo finivano del tutto.

D: Ascolta, Mario. Quando tu sei stato a Mauthausen ed eri nella baracca hai detto?

R: 21.

D: 21, hai assistito ad azioni di violenza quando sei stato lì a Mauthausen?

R: No, violenza vera e propria… Quando venivano nei blocchi ci trattavano come animali, frustati a non finire. Un altro episodio, questo adesso me lo sono ricordato.

Quando eravamo nel blocco, noi eravamo comandati dai criminali tedeschi borghesi, quelli usciti da galera, quelli condannati all’ergastolo, che per loro ammazzare una persona era come ammazzare una mosca, non gli interessava niente, li mettevano a comandare il blocco.

Mi è capitato un episodio, viene questo tizio, modestia a parte, prima ero giovane, quando uno è giovane, io avevo i capello ricci, è venuto da me. Loro dentro nella baracca stessa avevano una specie d tenda, dormivano separati, una tenda piccola.

Mi ha portato nella tenda, mi ha tirato fuori da mangiare finché volevo, salame, prosciutto. Questo tizio era un pederasta e volevano a tutti i costi che ci andassi assieme. A sentire quelle cose che mi sono capitate, mi è capitato perfino un prete in Piemonte, tre me ne sono capitati.

Questo tizio è il quarto. Voleva a tutti i costi che io… Io a sentire quello mi veniva il vomito addirittura. La prima volta non mi ha detto niente, mi ha richiamato la seconda, la stessa cosa. La terza, la stessa cosa. La quarta volta è diventato una bestia.

E’ andato fuori di sé, ha preso il frustino e bam, me ne ha date un sacco e una sporta. Però io non uscii tutto, per l’amor di Dio. Anche volendo, per me per l’amor di Dio, non avevo neanche le forze.

Per quello lui ha aperto lì, lo metto in forze così me ne servo, invece… Per fortuna che è stato negli ultimi tempi, prima che arrivassero gli americani. Se non fosse stato, non mi sarei salvato mica, quello mi avrebbe ammazzato senz’altro.

Quando arrivava quella gente…

D: Questo era un Kapò?

R: Un Kapò. La mattina quando venivano lì, bisognava andare alla Wascheraum addirittura a frustate. Si andava lì tutti in fila, lì c’era la fontana con tanti rubinetti, grande e tutta in giro. Lì a via di frustini si andava a lavarsi.

Lavarsi, mica lavarsi. Sciacquarsi e via, con uno straccio d’asciugamano. Si tornava nei blocchi così tutte le mattine.

D: Quanti eravate in un blocco?

R: Lì variava, perché tante volte andavano via, li mandavano via da Mauthausen e andavano a Buchenwald, andavano via anche là.

D: Ma più o meno quanti eravate?

R: Eravamo in sessanta, settanta.

D: Per blocco?

R: Per blocco, sì. Sessanta o settanta. Per ogni baracca, sì, settanta o ottanta.

D: Cosa avevate voi a disposizione, solamente il letto a castello?

R: Il letto a castello. No, che letto a castello! Per terra. Materassi per terra, mica materassi di lana, s’intende, materassi di…, tutto per terra, a tavolaccio.

D: Non avevate un armadietto dove mettere…

R: Non avevamo niente là. Nelle baracche non avevamo niente.

D: La Miska l’avevate, la ciotola per mangiare?

R: …. Contemporaneamente.

D: Cucchiaio?

R: Cucchiaio, cucchiaio e stop.

D: E basta?

R: Basta. Portavano via tutto. Al momento ci davano la roba.

D: Poi siete andati a lavorare dove? Prima parlavamo di Gusen, siete stato voi a Gusen?

R: Sì, sono stato a Amstetten e Gusen, erano lì vicino. Sono stato pochi giorni. Dodici o tredici giorni in tutto, fra Gusen e Amstetten.

D: Per fare?

R: Sgombero macerie.

D: Sempre sgombero macerie?

R: Sempre sgombero macerie, sì.

D: Poi siete entrato nel giro dei parrucchieri.

R: Poi sono entrato nei parrucchieri e mi hanno ritirato, tutti i momenti gliene arrivavano e allora bisognava essere disponibili con una zuppa appena al giorno. Arrivavano in tutti i momenti i trasporti, noi si faceva questo lavoro.

D: Lì a Mauthausen donne ne avete viste?

R: Le donne non erano vicine dove eravamo nel blocco di quarantena noi, no. Le donne erano appena entrate a Mauthausen sul lato destro, se ne servivano anche i tedeschi per fare i comodacci loro. Non si sapeva che fine facevano.

D: C’erano anche dei ragazzini?

R: Ragazzi sì, ragazzi giovani. Io ragazzi piccolini piccolini non ne ho visti, comunque ho visto dei ragazzi di sette, otto anni, dieci anni a Mauthausen. Quando morivano dovevano buttarli.

Questo episodio, quello che ho passato io l’ho raccontato all’avvocato Cappucci, intimo amico di Papalettera.

D: Di Vincenzo?

R: Si, di Vincenzo.

D: C’erano degli ebrei lì?

R: Gli ebrei erano separati da noi, loro erano in campo di quarantena. Però noi sul lato sinistro, sul fondo del piazzale e loro erano al fondo di là, sul lato destro. Quelli poveretti erano martirizzati.

Quando arrivavano i pacchi della Croce Rossa…

D: Lì arrivavano dei pacchi della Croce Rossa a Mauthausen?

R: Sì.

D: Anche per voi?

R: Anche per noi. I polacchi erano i primi, dopo i polacchi erano i francesi, dopo i francesi eravamo noi. Però in quei piccoli pacchi prima che arrivassero a noi non c’era quasi più niente. Ci davano un pezzo di pane, una fesseria, roba da niente.

Saranno arrivati due o tre volte sì e no i pacchi della Croce Rossa. Io li ho visti due volte, mi hanno dato un pezzo di pane e un pezzo di salame così e non mi ricordo più altro. Basta.

D: Una giornata dentro nel Lager com’era? Sveglia alla mattina alle?

R: La mattina all’alba ti svegliavano.

D: Poi cosa succedeva?

R: Succedeva che bisognava alzarsi, contemporaneamente al Wascheraum, al lavaggio. Dopo ci mettevano inquadrati fuori dalla baracca e facevano l’appello. Dopo ognuno era addetto ai lavori vari.

D: Anche se pioveva fuori?

R: Fuori, sempre fuori.

D: Sotto l’acqua?

R: Sotto l’acqua.

D: E poi al lavoro?

R: Poi al lavoro, ognuno aveva il suo…

D: Ma non c’era la colazione, non vi davano la colazione al mattino?

R: Ci davano un filone di pane in dodici, un mattone da chilo diviso in dodici, con un pezzettino di margarina, tanto così. Una tavolettina piccola, dieci grammi di roba.

D: E poi al lavoro?

R: Poi al lavoro.

D: Fino?

R: Fino a mezzogiorno. A mezzogiorno si rientrava, prima facevano l’appello di nuovo e dopo la distribuzione della zuppa. Per trovare tre fagioli bisognava mettersi gli occhiali, il binocolo.

D: Poi al lavoro ancora?

R: Poi al lavoro ancora fino a sera.

D: Dopo rientro nel campo?

R: Dopo rientro, l’appello ancora e dopo ognuno al suo posto. Bisognava mettersi a letto.

D: In baracca?

R: Inquadrati, un materasso in sei, in questa posizione. Alla sera la solita zuppa, la solita acqua calda. E basta. Con questo pezzo di pane diviso in dodici. La carne col binocolo.

D: Ascolta, Mario. Un atto di solidarietà all’interno del campo era possibile?

R: No.

D: Non era possibile?

R: No, no.

D: Perché non era possibile?

R: Non era possibile perché noi non eravamo liberi, come si faceva? Un atto di solidarietà con chi?

D: Con altri deportati?

R: Mai più. Ognuno la sua baracca. Quando si andava in trasporto lì a Amstetten e Gusen, a parte che c’erano i tedeschi con i cani poliziotti e se uno si permetteva di calarsi per terra per prendere una pelle di patata che si trovava in strada oppure un ciuffetto di erba lo fucilavano.

Un colpo di mitra e via, basta.

D: Quindi un atto di solidarietà era impossibile?

R: No, no. Non c’era solidarietà, era impossibile.

D: In quanti eravate dentro in tutto il campo di Mauthausen?

R: Da tremila a cinquemila, dipende. Tanti li mandavano via da Mauthausen, li mandavano a Buchenwald, dove avevano bisogno per il famoso V2, V1, precisamente.

Allora venivano trasferiti là. A me per fortuna non mi hanno trasferito.

D: Il giorno della Liberazione tu dove ti trovavi?

R: Io mi trovavo proprio nella baracca.

D: In baracca?

R: Sono arrivate tutte le camionette degli americani. Loro per la distribuzione del vitto davano la zuppa di piselli e farina di granturco.

Il professor Vallardi, Dio ce ne liberi, dato che eravamo un po’ in buona armonia con l’avvocato, dice: “Guai al mondo, non toccate questa zuppa”.

In media i morti erano sulla base di quattrocento, quattrocentocinquanta al giorno prima che arrivassero gli americani. Quando sono arrivati gli americani, i primi giorni addirittura eravamo arrivati a novecento.

La trachea era chiusa, la zuppa era troppo pesante. Poi l’hanno capita anche loro, basta, hanno sospeso. Quando sono arrivati loro, da mangiare ce n’era finché volevamo.

Il professor Vallardi ha detto: “Non toccate niente”, eravamo in quattro. Mi ha portato sulle spalle, pensi, fuori Mauthausen in aperta campagna, presso una cascina.

E ha dato ordine con la pistola in mano ai tedeschi: “Non dateci da mangiare niente, roba pesante. Esclusivamente pastina glutinata leggera e latte scremato”.

Però che è successo? E’ successo che tre giorni appena siamo stati là. Poi ognuno ha preso la sua strada. Il secondo giorno ho incominciato a mangiare qualcosa, o il cambiamento del mangiare… Mi sentivo un mal di pancia che crepavo.

Sono arrivato al punto che non ne potevo più, ho chiesto ai tedeschi se avevano una pistola, mi sarei sparato. Un male tremendo proprio. Dopo invece pian piano…

Loro non si sono permessi perché erano già minacciati, se commettevano una cosa simile, per l’amor di Dio, lì facevano una strage. Dopo invece pian piano ha cominciato a passarmi.

Dopo è venuto il professore, siamo rientrati al campo e c’è stata la Liberazione. Dovevamo essere rimpatriati per il confine svizzero. Arriviamo al confine svizzero, siamo stati tre giorni e gli svizzeri non ci hanno dato il passaggio.

Siamo dovuti ritornate indietro per il Brennero.

D: Con cosa vi spostavate?

R: Sempre con le camionette.

D: Quindi siete arrivati al Brennero?

R: Siamo arrivati al Brennero. Quando siamo stati liberati, dato che eravamo vestiti in quella maniera, c’erano dei capannoni pieni di roba italiana, stoffa, confezioni, vestiti, scarpe, l’ira di Dio, suole da scarpe…

D: Ma lì a Mauthausen?

R: A Mauthausen. Siamo andati in questi blocchi, in questi capannoni, io mi sono vestito. Mi sono messo una giacca che mi ricordo ancora, color… Questo colore, più o meno, un po’ più chiaro.

D: Marrone?

R: Marrone, questo colore, sportiva. Ho trovato la giacca e me la sono ficcata addosso, un paio di pantaloni, un paio di scarpe. Lì incominciavano a dire: “Per l’amor di Dio, gli americani non lasciano passare niente”.

Siamo capitati in una camera piena di soldi, soldi italiani, 10.000, 5.000, 1.000 Lire, 500 Lire, di carta allora, che potevamo caricarci come volevamo, addirittura un camerone pieno di soldi.

Io avevo uno zainetto, mi sono preso appena 6.000 Lire, stupido. Mi dicevano: “No, non lasciano passare”, porca di una miseria. Qualcuno è stato più furbo e qualcosa in più ha preso.

Io mi sono preso un paio di suole da scarpe, qualche rocchetto di filato, sempre roba italiana, buono, roba da niente. Quando siamo arrivati a Bolzano, siamo andati in un bar in compagnia di un genovese.

Siamo entrati in un bar e abbiamo detto: “Valgono ancora questi soldi?”. “Valgono ancora? Eccome!”. Ci siamo mangiati le mani, perché non ci hanno fatto nessun controllo. Quelli che sono stati più furbi hanno portato via, ma mica troppo perché anche loro avevano paura. Dicevano: “E’ inutile che ci prendiamo questi soldi che ce li portano via”.

D: A Bolzano siete arrivati e dove vi hanno messo?

R: A Bolzano appena arrivati là ci hanno messo dalla parte della stazione, ci destinavano: “Tu devi andare a Torino”, ad esempio, e ci destinavano. Ci facevano il lasciapassare, il foglio di rimpatrio.

D: Dopo li vediamo i documenti.

R: Il foglio di rimpatrio e ognuno prendeva la sua strada. Sono arrivato a Torino, dovevo cambiare treno, avevo il lasciapassare, il foglio di rimpatrio. Là è stato bello.

Prendo il treno per Cuneo, perché abitavo a Cuneo con mio fratello, e sul treno il controllore…

D: Perché con tuo fratello?

R: Abitava a Cuneo già mio fratello.

D: Ah, abitava a Cuneo.

R: Lui era impiegato. Mio fratello non era a Cuneo, sul treno Torino – Fossano c’era un mio paesano, mio fratello aveva battezzato una figlia di questo tizio, un ferroviere. Appena mi ha visto, io ero seduto con i bastoni, è venuto davanti e mi guardava.

Io guardavo lui e lui guardava me. Mi dice: “Ma tu non sei Mario?”. Ho detto: “Sono Mario”. Mamma mia, appena ha sentito così mi ha abbracciato. Il treno era fermo alla stazione di Fossano e mi ha portato al bar della stazione. Io non potevo mangiare niente, non potevo bere niente.

Ho preso, non so, un succo di frutta, ne ho bevuto tanto così. Questo mi fa: “Guarda che tuo fratello non è a Cuneo, non è a casa”. E chi c’è a casa? C’è la nipote, che lui andava a Torino per fare delle spese, allora mio fratello si curava per l’ulcera.

Arrivato a Cuneo, c’è la nipote. Poi mio fratello non sapeva niente che arrivavo, la sorpresa appena è entrato in casa, mi sono presentato. Si figuri un po’ quello, non aveva saputo niente di che fine avevo fatto. Là c’era la nipote in attesa che arrivasse mio fratello, siamo stati là.

Tutto lì, è finita lì. Dopo ho cominciato la tragedia di andare alla Croce Rossa per fare le medicazioni man mano che… Per un anno intero, un anno mangiare leggero, riguardato. Per lavorare chi aveva le forze? Quando mi sono rimesso ho incominciato a lavorare.

Lì a Cuneo non ho trovato più niente, nella casa, nel negozio. Avevo il negozio, la pescheria. Purtroppo me l’hanno bruciato, mi hanno portato via tutto. Ho dovuto incominciare da zero alla lettera, però io nauseato del Piemonte…

D: I genitori?

R: I genitori ce li avevo in bassa Italia. Erano giù.

D: Nauseato dal Piemonte?

R: Quando mi sono ripreso sono stato un po’ di anni là, ma non lo so, non mi trovavo più. Dico: “Vengo via”. Sono capitato per caso qui a Desio, per caso. Sono capitato a Desio e cosa facevo?

Facevo il barbiere a tempo perso, tre giorni alla settimana, era difficile anche trovare lavoro. Dopo è uscita una circolare che prendevano tutti i prigionieri di guerra, avevano la preferenza a entrare negli stabilimenti.

Io ho fatto domanda all’Incisa qui a Lissone, fabbrica di compensato. Però volevano una conferma, sono dovuto andare a Cuneo per farmi rilasciare una dichiarazione dal maresciallo dei carabinieri che io realmente ero stato…, nonostante avessi i documenti, il foglio di rimpatrio.

Ho dovuto fare quello, andare a Cuneo, farmi rilasciare la dichiarazione, il maresciallo dei carabinieri mi conosceva e subito l’ha fatta, per l’amor di Dio. Sono venuto qua e mi hanno assunto, sono stato due anni all’Incisa.

Siccome noi siamo di stirpe degli antenati tutti commercianti, mio padre commerciante, mio nonno, mio fratello, tutti quanti, le mie sorelle, dopo lavoravo ancora all’Incisa quando mi sono sposato, sono restato disoccupato quando hanno chiuso lì alla villa vicino a Lissone.

Hanno chiuso la fabbrica, ho lavorato fino all’ultimo giorno, dopo sono restato senza niente. Ho dovuto assoggettarmi e andare qui a Varedo, ho lavorato undici mesi. Dopo sono venuto a diverbi col capo turno, con un certo Galbiati, gliene ho dette di tutti i colori e sono venuto via anche di là.

Dico: “Basta padrone, non voglio più saperne di padroni, neanche se m’impicco”. Mi sono messo a lavorare subito per conto mio. E’ stata dura. Il pescivendolo facevo io, io lavoravo fuori, facevo i mercati. E lavoravo a casa, a casa avevo un negozio.

Non le dico i sacrifici che ho fatto, per l’amor di Dio, le ore io non le ho mai contate, erano dodici, erano quindici, erano sedici, erano venti anche. Pian piano ho fatto la mia carriera. Tutto lì.

D: Mario, tu non sei più ritornato a Mauthausen?

R: No. E’ quello che volevo dire. Quando vi capita l’occasione, perché per la malattia di mia moglie ho avuto un sacco di guai, mi piacerebbe venire.

D: Adesso a maggio…

R: Verso maggio?

D: A maggio vado.

R: A maggio?

D: A maggio, sì.

R: Vengo anch’io.

D: C’è la delegazione che va su con il pullman.

R: Mi tenga presente.

D: Ti mando l’invito, ti mando il programma. Tu non sei più ritornato?

R: Non sono più ritornato.

D: Perché?

R: Perché ero troppo impegnato per causa lavoro.

D: Ascolta un attimo, quando sei tornato a Cuneo i tuoi amici di un tempo…

R: Si, qualcuno.

D: Quando sei arrivato da Mauthausen…

R: Sì.

D: Hai provato a raccontare della tua deportazione?

R: Ho provato a raccontare, ma chi non prova… Bisogna provare certe cose. Ci credevano sì, ci credevano no.

D: Non ci credevano?

R: Non ci credevano. Dopo naturalmente venendo a conoscenza di tutte le mie peripezie, via via si sono ricreduti. A casa mia non sapevano niente, niente, niente.

Alla Liberazione, mi sfuggiva un particolare, quando siamo stati liberati, sempre per mezzo di questo professore mi ha portato al microfono e abbiamo dato comunicazione: “Io, Tizio e Caio, nome e cognome, abitante a Cuneo in via Fossano 30, comunico ai miei familiari che sto bene e ci rivedremo presto”, tutto lì.

Mio fratello, che quel giorno lì era a Torino, combinazione un amico, un certo Pompilio ha sentito per radio e si è ricordato: “Mario, mamma mia”. Glielo ha comunicato a mio fratello: “Guarda che tuo fratello ha dato comunicazione al campo di Mauthausen così e così”.

“Ma no, mio fratello, ma scherziamo, chissà che fine ha fatto mio fratello”. Poi quando sono arrivato immaginiamo la festa, anche mio fratello. Poi ho dato comunicazione a lui. Pesavo 34 chili e 400 grammi.

D: Quando sei tornato? E avevi quanti anni?

R: Avevo ventidue anni, giovane.

Esposito Eugenio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Eugenio, quando sei stato arrestato te?

R: Il 31 luglio del 1944.

D: E sei stato arrestato a casa tua, assieme a chi?

R: A casa mia, assieme a mio padre.

D: Chi è che ti ha arrestato?

R: L’UPI, Ufficio Politico Investigativo.

D: Perché, l’accusa qual era?

R: Partigiani, antifascisti.

D: Tu facevi parte di una brigata partigiana?

R: Sì, della 113° brigata GAP.

D: E dopo ti hanno arrestato. Era mattino quando ti hanno arrestato?

R: Al mattino, intorno alle 8.

D: Del mattino.

R: Del mattino, sì.

D: Sono venuti in casa …

R: Sono venuti in casa. Uno è venuto in casa a farmi credere che si doveva partire per l’Oltre Po Pavese. Mi ha messo fretta. Ha preso la scusa col dire “Dopo cambiano il posto di blocco a Pavia e non conosco le sentinelle che ci sono. Invece queste le conosciamo, ci lasciano passare”. E c’era tutto un trucco per far sembrare la cosa vera. E quando siamo scesi in macchina, e siamo scesi in strada, la macchina l’avevano parcheggiata dietro la casa dove abitavo io, e quando stavo per salire sulla macchina e salutare mio padre, che hanno detto di accompagnarmi, per non destar sospetti, quando stavo per salire in macchina e stavo per salutare mio padre, sono saltati fuori altri due con le rivoltelle, e su tutti sulla macchina.

D: Anche tuo padre?

R: Anche mio padre.

D: Tu avevi quanti anni?

R: Avevo 18 anni.

D: E tuo padre, invece?

R: 46.

D: Da lì, dove vi hanno portato?

R: In via Copernico, a fianco alla Stazione Centrale, all’Ufficio della UPI.

D: E lì hai subito i primi interrogatori.

R: Lì c’è stato il primo interrogatorio.

D: Cosa ti chiedevano?

R: Volevano sapere di mio fratello, e volevano sapere dei partigiani che c’erano nei pompieri.

D: Perché tu eri un pompiere, allora?

R: Ero un pompiere, sì.

D: E volevano sapere di tuo fratello perché? Tuo fratello dov’era?

R: Mio fratello doveva essere militare nei Paracadutisti della Folgore, invece era in montagna con i partigiani.

D: L’interrogatorio è durato fino a quando?

R: E’ durato fino al tardo pomeriggio. Dopo ci hanno messo in cella, che c’erano le celle giù al piano terreno. E verso mezzanotte è arrivata la macchina, ci hanno caricati, e ci hanno portati a San Vittore.

D: E ti hanno messo dove?

R: Alla cella 87, credo, del 6° raggio.

D: Sempre te e tuo padre assieme?

R: Assieme.

D: E lì sei rimasto quanto tempo, a San Vittore?

R: Sono rimasto dalla notte del 31 luglio al 1 agosto, fino al 16 agosto. Credo che sia il 16 o 17, che siamo partiti per Bolzano.

D: Però, alcuni giorni prima, ti hanno separato da tuo padre.

R: Due giorni prima ci hanno spostato di cella e cambiato il raggio. Ci avevano portato subito al 5° raggio, dopo qualche giorno al 6°. Ci hanno portato al 5° raggio, che è il raggio dei politici, e all’8 ci hanno separati. Lo hanno portato in un’altra cella e io sono rimasto lì.

D: A San Vittore non hai subito più interrogatori?

R: Nessun interrogatorio.

D: Nessuno ti ha chiesto niente?

R: Niente, più nessuno. Non ho visto più nessuno io.

D: Dopo, al 17 di agosto …

R: Il 17 di agosto.

D: Ti hanno chiamato.

R: Ci hanno chiamato la sera, forse il 17 o il 16. Hanno aperto tutte le celle e giù tutti nei corridoi del piano terreno. Eravamo lì tutti. Hanno vuotato il carcere quasi. C’era la partenza, dicevano, per Bolzano. Si doveva andare tutti a Bolzano.

D: Avevi un numero di matricola a San Vittore?

R: L’avevo, ma l’ho perso. Non l’ho più. Non so neanche che numero era. Ho fatto la richiesta. Sono andato là e me lo hanno dato. Mi hanno dato anche il certificato, che sono stato a San Vittore come detenuto politico, però non lo trovo più.

D: Poi siete partiti. Siete partiti con i camion con carri, con cosa?

R: Siamo partiti con i pullman della … di Milano. Forse c’era qualche pullman dell’Azienda Tranviaria. Comunque, erano tutti pullman con i finestrini sigillati e non si potevano aprire. Hanno tolto le maniglie, la maniglia per tirare giù i vetri dei finestrini.

D: Assieme a te, sul pullman, c’era qualche altra persona che conoscevi?

R: Quasi tutti. C’era un certo Bellamio, che dopo in Germania faceva da interprete. C’era Gibillini sul mio pullman. Eravamo in quattro o cinque, adesso non me li ricordo bene. C’era Giovanni Ferrario, che è morto a Dachau, che era uno degli ostaggi come me.

D: Ascolta. Il viaggio lo avete fatto passando da Verona, o passando dal Garda?

R: Da Verona.

D: Da Verona?

R: Da Verona, sì.

D: Poi siete andati a Bolzano. Voi non sapevate dove eravate diretti?

R: No, non si sapeva.

D: Siete arrivati a Bolzano e vi hanno messo nel Lager di Bolzano.

R: Sì, nel campo di concentramento di Gries. Ho visto che c’era scritto Gries. Abbiamo passato un ponte, un ponte sul fiume. Io a Bolzano non c’ero mai stato, non sapevo neanche com’era come città, insomma. So che abbiamo passato un ponte, e al di là del ponte abbiamo camminato un po’ e ci siamo trovati in un campo di concentramento.

D: Lì, ti ricordi in quale baracca ti hanno messo?

R: Era la seconda o la terza baracca di destra, era la B. Per me era la baracca B, che mi ricordo.

D: Ti hanno dato un numero qui a Bolzano?

R: Anche a Bolzano mi hanno dato un numero, ma non me lo ricordo.

D: Ti hanno lasciato i tuoi vestiti o hai dovuto spogliarti?

R: No, a Bolzano mi hanno lasciato i miei vestiti. Com’ero vestito, sono rimasto.

D: Lì, nel campo di Bolzano, sei stato addetto a fare dei lavori?

R: No, niente. Solo una volta, o due, siamo usciti un po’ a gruppi a lavorare nei frutteti, ma non mi ricordo neanche il lavoro. So che era un lavoro inutile, che si poteva anche farne a meno. Forse l’hanno fatto per farci fare una passeggiata.

D: A proposito di frutteti ecc, c’era un tuo compagno di deportazione, lì a Bolzano, che distribuiva a voi deportati delle mele. Ti ricordi chi era questo qua?

R: Sì. A me, che dava le mele, era Gianotta. E una volta me le ha date anche Olivelli.

D: Tu, soldi, non ne avevi?

R: Se avevo, avevo 5 lire.

D: E invece, questi due deportati distribuivano …

R: Non so. Gianotta i soldi li aveva, qualcosa aveva. Olivelli, non so, penso anche lui, o ha trovato un sistema di avere le mele. Non so come facevano. So che avevano le mele e le distribuivano.

D: Ti ricordi se nel campo, quando tu eri qui nel campo a Bolzano, hai avuto modo di vedere se c’erano dei bambini dentro nel campo?

R: Quelli, non li ho mai visti.

D: Non li hai visti. E le donne invece?

R: Le donne sì. Perché il blocco prima del mio era tutto di donne. Nel mio gruppo c’era un certo Lupo Dorino, che cantava bene, e la sera cantava. E le donne gridavano “Bis”. Volevano risentire ancora le canzoni.

D: Ascolta, ti ricordi se c’erano dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Con me c’era proprio Padre Agosti Gianantonio, un frate. Ha detto che era il frate che c’era nella Chiesa dei Cappuccini di viale Piave a Milano. Tant’è che, finita la guerra, sono andato a trovarlo lì. Dopo la Liberazione siamo andati a trovarlo in quella Chiesa lì.

D: Lui era stato arrestato e deportato perché?

R: Perché aiutava gli ebrei, nascondeva gli ebrei. Li nascondeva in Duomo, credo. Perché lui tutte le domeniche mattina, alle 10, faceva la messa in Duomo.

D: Nel Duomo di Milano?

R: Nel Duomo di Milano, sì.

D: E l’hanno arrestato …

R: E’ stato arrestato e portato a San Vittore. Lo ricordo ancora, un bonaccione, Padre Gianego, Agosti Gianantonio da Romallo. Era un trentino. Romallo è lì in Trentino.

D: Ed era nel tuo stesso blocco a Bolzano?

R: Nello stesso blocco.

D: Sai se celebrava messa?

R: No, non si poteva. Dopo, in Germania, veniva a benedire i morti che si trovavano nel gabinetto.

D: Ascolta, ti ricordi qui a Bolzano, tu sei rimasto pochi giorni qui a Bolzano …

R: Penso una ventina di giorni.

D: Ti ricordi se c’era un blocco celle a Bolzano?

R: Mi hanno detto che c’erano le celle, però non le ho mai viste.

D: Tu non le hai mai viste?

R: Mai viste.

D: E qui a Bolzano, sempre quando eri qui a Bolzano, hai assistito a episodi di violenza?

R: No, non posso dire di averne visti. Non ne ho visti.

D: Poi un giorno vi hanno chiamato, qui a Bolzano.

R: Sì, per una spedizione. Hanno detto che si andava in Germania.

D: Non hanno detto dove?

R: Niente, non hanno detto niente. Ci siamo accorti che siamo arrivati a Flossenbürg, perché c’era sempre uno che spiava attraverso il finestrino in alto del vagone bestiame e ha visto la scritta Flossenbürg. E dopo un po’ si è fermato il treno.

D: Dal campo di via Resia, dov’è che vi hanno caricato sui vagoni?

R: So che c’era un binario, che sembrava un binario morto. Non era in stazione. Sulla destra c’era un muro, come un muro di cinta di uno stabilimento, o un palazzo alto. Era di notte, non si poteva vedere di preciso dov’ero. So che non era in stazione.

D: E lì, vi hanno caricato sui vagoni?

R: Caricati su dei vagoni, piombati. Ci hanno messo su una cassa di mele per vagone. Non era roba tedesca. Era qualche comitato, qualche clandestino, che le ha messe su, non da parte dei nazisti, quello no.

D: Acqua?

R: Niente acqua.

D: Mangiare?

R: Mangiare, niente.

D: Solamente quelle mele lì?

R: Solo quelle mele lì.

D: In quanti eravate, più o meno, sul vagone?

R: Cinquanta per vagone.

D: Chiuso, sigillato …

R: Chiuso e piombato dall’esterno.

D: E via partenza.

R: Senza la possibilità di un posto dove fare i nostri bisogni, niente. E siamo partiti. Era notte.

D: Più o meno ti ricordi quanto è durato il viaggio?

R: Adesso non mi ricordo di preciso se erano due notti e tre giorni, o tre giorni e due notti. So che è stato abbastanza lungo.

D: Sete, fame?

R: Più che la fame, era la sete. Perché era da poco che era estate, ed eravamo ancora in carne. La fame è venuta dopo.

D: Dopo, dicevi, quando si è fermato il treno, eravate a Flossenbürg.

R: A Flossenbürg.

D: Scesi dal treno, che cosa è successo?

R: Scesi dal treno, incolonnati e contati. In marcia, e siamo andati nel campo di concentramento. Ma non è proprio vicino alla ferrovia il campo, perché abbiamo camminato un bel po’.

D: L’ingresso nel campo come te lo ricordi?

R: Mi ricordo un cancello e tutte le guardie fuori.

D: C’era una scritta da qualche parte?

R: Credo che c’era scritta quella famosa frase “Arbeit macht frei”. Olivelli e Bellamio, che erano i due interpreti, hanno detto che voleva dire “Il lavoro rende liberi”.

D: Dopo, dicevi, vi hanno messo in un capannone.

R: Non era un capannone chiuso. Era un posto, dove ogni tanto facevano gli spettacoli. Perché, per burlarsi di noi, ogni tanto la domenica facevano i concerti. Sembra un paradosso, ma la prima canzone che suonavano era sempre “Tornerai”. Quella faceva piangere tutti.

D: Ma l’orchestra era composta, da chi?

R: Da prigionieri.

D: Da deportati?

R: Da deportati. C’erano dei veri professori di musica.

D: E in questo posto qui, cosa avete dovuto lasciare voi?

R: Noi abbiamo lasciato tutto quello che avevamo. Messo tutto nei sacchi col nome, perché dicevano che a guerra finita ce li davano indietro.

D: Cioè, tutti i vostri vestiti …

R: I vestiti, gli oggetti. E hanno detto “Non abbiate paura, se avete oro mettete qua, che qua è sicuro”.

D: Quindi vi siete denudati.

R: Denudati completamente.

D: E poi?

R: Poi siamo andati alle docce. C’era una scala, che andava giù. Siamo entrati in quel gran locale, con tutti gli spruzzatori sul plafone e abbiamo capito che erano docce. Quando era ben saturo l’ambiente, quando eravamo dentro tutti, hanno aperto i rubinetti dell’acqua bollente, non dico calda ma bollente, che a tanti sono venute le piaghe. Quelli che sono capitati proprio sotto il getto, avevano le piaghe sulle spalle. E dopo, a furia di grida e urla, chiusa l’acqua bollente hanno aperto l’acqua gelata. E lì altre urla, perché l’acqua era troppo fredda. Dopo, spenta l’acqua, per farci asciugare, era un sogno un asciugamano, hanno aperto le finestre, hanno fatto aria corrente e ci siamo asciugati con l’aria corrente.

D: Ascolta, se uno non capiva gli ordini, che erano dati in tedesco, cosa succedeva?

R: Erano bastonate o calci, mai con le mani. Non toccavano con le mani, o con il bastone o con i piedi.

D: E con te c’era sempre Padre Gianantonio?

R: Era sempre stato con noi. Lo ricordo nudo, davanti a me, quando si andava giù alla scala per le docce.

D: Dopo, la rasatura.

R: Dopo c’è stata la rasatura.

D: La rasatura in tutte le parti del corpo?

R: La rasatura in tutte le parti del corpo. Dalla testa, fino sotto le ascelle, chi aveva il pelo sullo stomaco. Padre Gianantonio con la barba, tagliata. Abbiamo chiesto pietà per lui, perché la barba è simbolo dei frati, ma non c’è stato niente da fare.

D: Non ti ricordi se per caso, questo particolare della barba, non gli è stata tagliata a Bolzano a Padre Gianantonio?

R: Non credo che l’hanno tagliata a Bolzano.

D: Gliela hanno tagliata a Flossenbürg?

R: Credo che gliela abbiano tagliata proprio a Flossenbürg.

D: Quindi, depilazione, rasatura. Poi?

R: In tutte le parti del corpo. Poi ci hanno portato alla vestizione. Tutti nudi, attraversare il piazzale dell’appello, c’erano i magazzini, si camminava in fila indiana. Lì c’erano dei prigionieri che ti buttavano, chi la giacca, chi la camicia, chi i pantaloni e gli zoccoli, e basta. Senza fermarsi. Dovevi prendere tutto al volo, tutto di corsa, al volo, perché eravamo in tanti da vestire. Era già sera.

D: Ascolta, biancheria intima?

R: Mai vista, né calze, né mutande.

D: Una maglietta?

R: Chi aveva la maglietta, non aveva la camicia. Il capo era uno.

D: Poi, il blocco di quarantena.

R: Dopo, incolonnati verso il blocco di quarantena. L’abbiamo saputo dopo che era un blocco di quarantena. Il 23 era il blocco più terribile di Flossenbürg.

D: Perché?

R: Chi è stato a Flossenbürg, tutti sanno che cos’era il blocco 23 perché lì la morte era giornaliera, bastonate, tutto. Era il blocco più terribile. Quarantena non per le malattie, io penso per selezionare ancora il personale. Chi resisteva lì, poteva continuare a fare il prigioniero. Infatti, non sono passati dieci, quindici giorni, che sono andato al gabinetto, chiamiamolo gabinetto, perché era uno schifo, e ho visto un cadavere sotto i lavandini. Al ritorno sono andato da Padre Gianantonio e gli ho detto “Padre c’è un cadavere al gabinetto”. Sarà morto lì, ma è nudo. E’ andato là e l’ha benedetto. Dopo un po’ qualcuno è voluto andare a vedere anche lui. E’ tornato e fa “Guarda che ce ne sono due, tre o quattro di cadaveri”. Dopo abbiamo capito. Tempo di sera, i due, tre cadaveri, diventavano catasta perché portavano anche quelli del blocco 22.

D: Quindi, quando uno moriva, veniva portato …

R: Quando uno moriva, veniva spogliato, bagnato con il getto di acqua fredda, per bagnare la pelle per poter scrivere il numero di matricola sulla pelle del morto. La matita copiativa, si usa se è bagnata. E per non star lì a bagnarla ogni volta, bagnavano il cadavere e scrivevano il numero di matricola, che dopo veniva registrato e depennato come deceduto.

D: Vicino alla tua baracca, vicino al blocco 23, cosa c’era?

R: C’era il forno crematorio, però non lo vedevamo. L’abbiamo saputo, che era il forno crematorio, perché vedevamo sempre il carro passare. Al mattino passava il carro pieno di cadaveri, e vedevamo il fumo che usciva. Dopo ci hanno detto, gli anziani del campo, che lì c’era il forno crematorio. Di fronte c’era una garitta, una garitta con su le sentinelle, le mitraglie. Era un posto bello però, malgrado la garitta e il forno crematorio, perché più di una volta abbiamo visto i caprioli passare sotto le garitte. Era qualcosa di anormale vedere un capriolo in libertà.

D: Ascolta. Il tempo che sei rimasto lì a Flossenbürg, hai avuto modo di vedere se lì sono state consumate delle violenze?

R: Ma lì erano all’ordine del giorno le violenze. Tutti i giorni era violenza lì. Le 25 bastonate con un tubo di gomma. Basta pensare che il capo blocco era un assassino, un delinquente comune, e il capo campo un pluriassassino. Quelli lì ci comandavano. Il vice capo blocco era un polacco, più delinquente ancora del tedesco. Perché non sembra, qua si parla sempre di tedeschi, ma i polacchi ci hanno fatto piangere e ci hanno bastonato tanto. Non era solo quello lì polacco, tanti capi blocco e vice capi blocco erano polacchi.

D: Tanti Kapò.

R: Tanti kapò.

D: Ascolta, mi sono dimenticato di chiederti una cosa. Lì hai avuto anche l’immatricolazione?

R: Lì mi hanno immatricolato, sì.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 21.587.

D: Quindi, dovevi rispondere, ogni volta che ti chiamavano?

R: E’ un numero che non sono riuscito ad impararlo in tedesco. Ancora oggi, non sono riuscito ad impararlo. Se non si rispondeva, venivano a prenderti ed erano bastonate. Per fortuna che io ero molto amico di Bellamio, che faceva da interprete, e lui si intrufolava in mezzo e me lo spiegava in tedesco. E all’attimo capivo e rispondevo, qualche volta. Qualche volta andava male.

D: Com’era il gabinetto di Flossenbürg?

R: Il gabinetto di Flossenbürg, metta di vedere una grande fossa, profonda tre o quattro metri, lunga sei, sette, otto metri, larga tre, quattro, cinque metri. Sui bordi c’era una trave. In mezzo c’era un divisorio perché serviva anche per il blocco 22. Ai lati c’era una trave di legno, sia di qua che di là, nelle due parti, e ci si doveva sedere su quella trave lì per i bisogni.

D: Ma non era pericoloso, instabile?

R: Per uno sano non era pericoloso, ma tanti morivano al momento, o erano deboli e cadevano dentro la buca, e stavano dentro. Morivano dentro, seppelliti dagli escrementi di tutti quelli che andavano al gabinetto. Una volta ogni tanto, penso che lo vuotavano e tiravano fuori i cadaveri. Siccome i capi blocco, che mangiavano le patate e la frutta, la pelle non la davano a noi ma la buttavano dentro quel gabinetto lì, in quella buca, ho visto prigionieri russi andare giù, farsi da scala e andar giù a prendere quelle pelli lì e mangiarle. Io speravo di morire prima di arrivare a quel punto lì.

D: Durante la quarantena tu sei uscito anche dal campo per lavorare?

R: Lì, andavamo alla cava di pietra. Non tutti, facevano due o tre squadre. E si andava alla cava di pietra, che distava due o tre chilometri. Di notte brillavano le mine e spaccavano la montagna, e noi di giorno si andava a caricare le pietre. Pretendevano che erano cubi, come se la dinamite, quando scoppia, fa i cubi perfetti. E si stava lì anche a picchiarsi, l’uno con l’altro, tra noi, perché uno vedeva il cubo che andava bene e cercava di portarlo via, e l’altro voleva fregarlo. Perché era importante perché dopo c’era il controllo, c’era la sentinella che controllava. Se la pietra era troppo piccola o non era fatta bene, erano bastonate. Non c’era pietà lì.

D: Le pietre le prendevate lì dalla cava, e dove dovevi portarle?

R: Si ritornava al campo, ma non si rientrava nel campo. C’erano delle costruzioni su una strada, che anche la strada era nuova, che stavano facendo, e si depositavano lì, ai margini di quella strada, dove c’erano delle costruzioni che dicevano essere delle villette per le SS.

D: E poi ritornavate …

R: E poi si ritornava alla cava. Si facevano tre, quattro viaggi al giorno, andata e ritorno.

D: Ritornando al campo, ti ricordi se nel campo di Flossenbürg hai visto delle donne?

R: C’erano le donne. E per la verità c’era anche il bordello.

D: Dentro il campo?

R: Dentro il campo. Era dietro l’infermeria.

D: Ma chi ci andava?

R: I capi e anche qualche lavoratore, perché davano i buoni per potere andare. Quelli che lavoravano già negli stabilimenti, penso che avevano quei buoni lì.

D: Gli altri deportati del campo uscivano anche loro a lavorare?

R: Sì, tanti uscivano, ma non la maggioranza però. Sì rimaneva ad oziare tutto il giorno. Pochi uscivano. Si vede che non c’erano grandi industrie in giro lì. Chi usciva, dicevano che andavano fuori a fare le strade, a fare quella famosa strada lì, dove portavamo noi le pietre. Ma non era come negli altri campi, dove sono stato dopo, che c’erano proprio gli stabilimenti, lì grandi industrie, non ne ho viste io.

D: Lì sei rimasto un mese.

R: Un mese circa, sì.

D: Poi, che cosa è successo?

R: Siamo partiti ancora con il treno, anche lì, il viaggio abbastanza lungo, due giorni e due notti. Abbiamo visto Kempten, che c’è la stazione. Siamo scesi dal treno, e ci hanno incolonnato fino a Kottern, si vedeva il cartello, e lì c’era un campo di concentramento e siamo entrati lì. Come siamo entrati, il capo campo ha fatto il discorso, il discorso burla “State puliti. Non tentate di fuggire. Non rompete i vetri”. Non so, come se fossimo dei giocatori di calcio, a giocare lì in mezzo alle case. Ci ha proprio detto di non rompere i vetri, se no ci avrebbero punito. La prima zuppa che ci hanno dato però, era già più sostanziosa di quella che si mangiava a Flossenbürg. Era più spessa. Abbiamo detto “Qua stiamo bene”, ma purtroppo è durata poco lì.

D: Ascolta, ma a Flossenbürg non avete mai avuto contatti con la popolazione, o visto abitanti?

R: Mai visto un abitante di Flossenbürg, mai. Sembrava un posto fuori dal mondo.

D: Neanche quando siete arrivati …

R: Neanche quando siamo arrivati.

D: … che avete attraversato il paese?

R: Niente. Abbiamo attraversato il paese, ma era notte, era sera, c’era buio. So che siamo passati vicino ad una segheria, credo che c’era una segheria sulla destra, ma non abbiamo visto nessuno, come se ci fosse il coprifuoco. C’erano delle case, però mai visto una persona camminare in strada, nessuno. Sembrava un posto fuori dal mondo.

D: In questo campo qui nuovo, non a Flossenbürg, quello in cui sei arrivato

R: A Kottern

D: A Kottern ti hanno immatricolato di nuovo?

R: Lì, hanno cambiato numero di matricola. Era 116.355.

D: E questo era un sottocampo di Dachau.

R: Era un sottocampo di Dachau. Tant’è vero che, lì, non c’era il crematorio. Quelli che ammazzavano, o morivano, c’era il camion il mattino che li portava a Dachau a bruciare.

D: Perché eravate lì, voi deportati? Cosa facevate in questo campo?

R: Dopo due o tre giorni, ci hanno fatto a squadre e ci hanno divisi. Si partiva al mattino alle 6, e si facevano tre chilometri a piedi su una stradina che costeggiava il paese. Lì, si vedeva qualche abitante, ma quando passavamo noi le donne, nelle case, chiudevano le finestre. Non so perché, facevamo orrore, non lo so. E c’erano due stabilimenti, che dicono che erano due tessiture modernissime della Germania, che però sono state bombardate perché le hanno fatte diventare due stabilimenti.

D: Cioè, costruivate parti …

R: Parti di quei missili, diciamo.

D: E la ditta?

R: Io non so che ditta era quella lì. Per me, era un’azienda militare. Non lo so. Non c’era scritto niente fuori. So che costeggiavamo un fiume. C’era un ponticello da attraversare, e si entrava in quel cancello lì. Sempre scortati, e si facevano dodici ore di giorno per una settimana e l’altra settimana dodici ore di notte.

D: Questo nome qui ti dice qualcosa? “Messerschmitt”.

R: Sì. Ah ecco, era proprio la Messerschmitt

D: Avevate dei capi civili anche?

R: C’erano dei civili, ma i capi erano solo tedeschi militari.

Tanti civili, ma come maggioranza erano militari dell’Aviazione Tedesca. Dicono che erano tutti feriti che rientravano dal fronte e venivano lì in convalescenza, ma dovevano lavorare. Ci facevano vedere il lavoro che dovevamo fare noi.

D: Ah ecco, vi spiegavano che tipo di lavoro dovevate fare?

R: Sì.

D: Ascolta. Uno invece, non è che ti ha spiegato un lavoro, aveva chiesto se tu gli facevi un particolare oggetto in cambio …

R: Ho fatto i bocchini per le sigarette, e poi ho fatto anche degli accendisigari e porta sigarette. Tant’è vero che, uno di quelli lì, l’ho fatto io, e Castelli, che adesso è morto, l’ha inciso con il disegno che ci ha dato uno del campo, che era un capo della Mercedes. Era un prigioniero politico tedesco. Era all’ufficio di quello che teneva la registrazione del campo. E quello lì, a me e a Castelli, ogni volta che ci portava a far vedere il lavoro, tutte le sere, ci dava una mezza gamella di zuppa.

D: Ma un altro, invece, che era una SS …

R: Non era una SS. Me ne ha ordinato uno per lui ed uno per la fidanzata. Ne ho fatto uno prima di quelli lì. E quel militare lì, che era dell’aviazione, mi ha dato una fetta di pane. Sarà stato un etto e mezzo, due etti. E’ tanta manna. E’ il lavoro di più di una settimana. Facevo tutto di nascosto, perché se mi prendevano era sabotaggio, era impiccagione. Lì non si scappava. E quello lì ha fatto vedere ad un altro dell’aviazione, che lavorava lì anche lui, sempre in divisa, erano in due, e quando l’ha visto mi ha chiamato e mi ha detto che lo voleva anche lui, uno per lui e uno per la fidanzata. Allora a racimolare il materiale, che non era roba facile. Dovevo andare di notte, scardinare la porta, già scardinata per i bombardamenti, e i piani superiori bombardati, cercare gli interruttori di bachelite, portare via i pezzi. Io facevo quei bocchini lì delle sigarette e porta sigarette, che erano una meraviglia. Sono usciti dei gioielli. Neanche io credevo di essere capace di fare delle cose così belle. Il tempo l’avevo, ma sempre di nascosto però. Avevamo fatto il contratto che doveva darmi del pane. E quando sono andato a consegnarli, ero tutto contento. Ho detto “Stasera mangio”, e invece mi sono preso due calci nel sedere che mi hanno alzato da terra. Quello è stato il pagamento. E non era una SS, era dell’aviazione. Era rosso di capelli.

D: Lì, sei rimasto per quanto tempo?

R: Fino al 22 o 23 aprile del 1945. Purtroppo, tre o quattro giorni prima della Liberazione, diciamo, ci hanno caricato tutti su i camion ma è suonato un allarme ed è iniziato un bombardamento terrificante. Lì, ci siamo guardati un po’ ed ho deciso di scappare. Ci siamo trovati in cinque. C’ero io, c’era Gibillini Venanzio, c’era Selmi Umbro, c’era Nicolini e c’era …, un triestino, un istriano. Abbiamo fatto molta strada a piedi. Il pericolo era che si camminava vestiti da prigionieri. Allora abbiamo deciso di camminare a metà costa, sulle colline, tra una pianta e l’altra, per non farci vedere perché la strada era tutta piena di militari tedeschi che ritornavano sconfitti dal fronte, tutti feriti. E’ stata proprio una disfatta. Ho visto proprio la disfatta dell’esercito tedesco lì. Nel camminare, abbiamo trovato una donna che ci ha salutato. Noi abbiamo risposto al saluto e siamo arrivati ad un boschetto. Un boschetto, ma saranno state cinque o sei piante in fiore. Non posso dire se erano meli o se erano ciliegi, quel boschetto lì. Dopo 5 minuti che eravamo lì, è arrivata gente. Si sono presentati. Erano operai francesi, che lavoravano alla BMW. Ci hanno chiesto chi eravamo, e noi glielo abbiamo detto. E hanno detto “Non state in giro vestiti in quella maniera lì”, in francese, qualche parola si capiva, “perché vestiti a zebra, se vi vedono, vi pescano subito. Aspettate qua un’oretta, che andiamo dove lavoravamo, perché oramai lo stabilimento è distrutto, bombardato, cerchiamo dei vestiti borghesi e ve li portiamo”. Difatti, dopo un’oretta, sono arrivati con due sacchi pieni di vestiti. Ci hanno messo lì i vestiti, ci hanno dato una sigaretta per uno, cinque sigarette, e se ne sono andati. E noi ci siamo cambiati i vestiti. Nell’attimo di buttar via, anche i berretti ci hanno portato, cinque berretti, nell’attimo di buttar via i vestiti a zebra, abbiamo visto due canne di mitra e sentito delle grida. Ci siamo guardati in giro, ed erano due Sergenti delle SS del campo. Lì abbiamo capito che quella donna là ci ha indirizzato quella gente lì. Perché quelli ci hanno inseguito subito da come siamo scappati, però non ci vedevano. Si vede che hanno chiesto informazioni e qualcuno ci ha visto. Di sicuro quella donna là, è una che ha fatto la spia. E lì, avevano un bastone per uno, hanno passato il mitra nella mano sinistra e con la destra, con quel bastone lì, fino a che non hanno avuto in mano più niente, si sono sfogati su di noi. Tant’è vero che le ultime bastonate le ha prese il Gibillini Venanzio, che è caduto in un fosso, una pozza d’acqua, ma profonda 60, 70 centimetri. E ho detto “Quello lì annega”. E allora mi sono messo in ginocchio e con la poca forza che mi è rimasta l’ho tirato fuori. Il tedesco, quando ha visto così, si è sfogato ancora su di me e mi ha conciato proprio per le feste, però ho salvato Gibillini. Dopo, la strada che abbiamo fatto a fuggire, l’abbiamo fatta a tornare. Però hanno voluto che ci vestivamo ancora da zebra. Hanno voluto che ci vestivamo ancora da zebra. Noi, quando ci hanno detto di spogliarci e chi eravamo, abbiamo detto “Civili francesi”. E quelli hanno detto “Togli il berretto”, e voleva dire essere scoperti, perché noi avevamo la Strasse. Come italiani e russi, oltre ad essere rapati a zero, avevamo la Strasse per riconoscerci, perché se ci hanno bastonato da dar via, era nostra e per i russi. Loro erano i nemici e noi eravamo i traditori. Abbiamo fatto tutta quella strada, che avevamo fatto durante la fuga, ma siamo tornati indietro. Siamo passati da una cascina, e abbiamo capito che quella era la donna di uno dei Sergenti che ci ha preso. Ci ha dato un carrello a mano, una carretta, e ci ha accompagnato in un magazzino bombardato. Ci ha fatto caricare margarina, salami, wurstel e bottiglie di grappa, e ce li ha fatti portare alla cascina e dare a quella donna là. Dopo che loro hanno mangiato, noi si guardava, non si sono degnati neanche di passarci un pezzetto di pane, allora siamo tornati al campo, quasi tutto di corsa per arrivare in tempo. Siamo arrivati al campo che era l’una di notte, circa.

D: Però non siete entrati nel campo?

R: No, ci hanno lascito fuori. Uno è entrato, ha chiamato sei SS, sono usciti con il moschetto e hanno formato il plotone di esecuzione. Ho detto “Ormai ci fucilano”. E dopo hanno litigato i due Sergenti. Quello che ci ha preso per primo ha detto “Li fuciliamo subito”. L’altro ha detto “No, aspettiamo domani mattina, che arriva il turno di notte, che ora sono fuori a lavorare, e passano in rivista”. “Passare in rivista” per dire “Chiunque tenterà la fuga, farà la fine di questi e li fuciliamo davanti a tutti”. Il Comandante, sentendo quella discussione, ha preso la motocicletta ed è andato al Comando Superiore. E’ rientrato dopo un’ora e mezza, sentivo la motocicletta nella notte che si avvicinava. Nella fuga, che abbiamo fatto noi cinque, si sono aggiunti due tedeschi politici, che anche loro hanno tentato la fuga ma sono stati presi come noi. Quando è rientrato il Comandante con la motocicletta, ha bisbigliato qualche parola, e poi ho visto i due tedeschi che si sono messi in ginocchio per baciare la mano a questo SS. Allora ho detto “Allora siamo salvi”. Però ho detto “E se è solo per quelli lì, che sono tedeschi?”. Dopo, invece, ha mandato via il plotone di esecuzione e ci ha detto di rientrare tutti in campo. Ci ha messo in un Bunker, che sarà stato lungo tre metri per due metri, senza finestre, con una porta stagna, con dentro circa mezzo metro d’acqua. E siamo stati lì fino a circa le 11 del giorno dopo. Non ci si poteva coricare, stanchi com’eravamo, se no si annegava, e ci siamo messi a coppie, in modo da poter star seduti uno sul ginocchio dell’altro e viceversa. Ci hanno tirato fuori alle 11 del giorno dopo. Era una giornata splendida, bruciavano gli occhi per il sole, con tutto il buio che avevamo sofferto. Il primo sole a momenti ci brucia gli occhi. Ci hanno dato una fetta di pane e ci hanno detto “State in campo”. A lavorare non si andava più, perché ormai la guerra era alla fine. Dopo due giorni, ancora incolonnati, rimangono quelli dell’infermeria, che sono quelli che non possono camminare, ci hanno contato, plotoni di cinquanta per volta e file di cinque. Noi cinque, che abbiamo tentato la fuga, ci siamo messi tutti vicini. Abbiamo fatto una fila. E come ci hanno visto uscire, hanno detto “No, tu qua, tu là” e ci hanno separato, ma dopo un po’ ci siamo riuniti ancora. E lì si è vuotato tutto il campo. Era la marcia di eliminazione. L’abbiamo capito dopo, perché chi cadeva veniva ucciso. Chi tentava di fingersi morto, quando si ripartiva dopo i 10 minuti di riposo, veniva ucciso anche lui con un colpo alla nuca. Era una prova che volevo fare anche io, ma mi sono guardato bene di farla perché avevo visto l’esito. E abbiamo capito che si girava sempre in giro ad una collina. Era sempre quello il panorama. Fino a che, verso le 5 di sera, tutto il cielo è diventato rosso, e ci siamo chiesti “Che cosa vuole dire? Cos’è questa roba qua?”. C’erano degli ufficiali con noi, prigionieri, che hanno detto “Nell’esercito, quando ci sono questi razzi, vuole dire di evacuare la città dalle Forze Armate”. Ci siamo guardati in giro, e non c’era più una SS. E’ finito. Ho messo le mani in tasca, che era proibito farlo, finalmente dopo dieci mesi mi sono messo le mani in tasca, e siamo rimasti liberi. Tanti sono ritornati al campo, alcuni si sono fermati lì, ed io, in tre, ci siamo diretti verso le prime abitazioni. Abbiamo trovato una cascina e ci siamo accampati fuori dalla cascina, sotto i portici, a dormire. Prima, però, ho trovato un tedesco, che anche lui mi ha messo in mano un carretto e mi ha detto di andare ad un magazzino alimentare, mi ha accompagnato lui, e mi ha fatto caricare dei viveri. Mi mandavano a rubare. Ho caricato dei viveri e li ho portati nella sua villa, anche quello lì se mi avesse detto “Grazie”, neanche un pezzo di pane. Il giorno dopo, quando ci siamo svegliati, siamo andati noi a saccheggiare qualche negozio e abbiamo mangiato. Il mattino dopo, un gran rumore sulle strade ci ha svegliato. Ho guardato fuori, proprio per primo, e ho detto “Ci sono i carri armati”. E il Gibillini mi fa “Ma che distintivo c’è su? C’è su una stella? Allora sono americani.” Infatti, siamo usciti e come ci hanno visti, eravamo vestiti a zebra, hanno fermato tutta la colonna e sono scesi a prendere informazioni. Parlavano tutti il napoletano, quei militari lì. Devo dire che ci hanno trattato proprio bene.

D: E lì sei rimasto fino a quando?

R: La nostra intenzione era quella di seguire il fronte. I militari americani ci portavano da mangiare tutti i giorni, mattina mezzogiorno e sera. Arrivavano due uomini con la pignatta e ci davano da mangiare. Posto, loro, non ne avevano. Erano accampati anche loro. Ci davano da mangiare loro. E quando si spostava il fronte, noi li seguivamo perché l’intenzione era di seguire il fronte per arrivare a casa prima. “Perché questi vanno verso l’Italia” pensavo io “Vanno verso l’Italia, li seguiamo, e ci troviamo là”. Invece, ci hanno portato in un altro paese. Lì ci hanno fermati, perché il paese era un po’ più grande, non mi ricordo che paese era, e ci hanno messo in un asilo a mangiare e a dormire. Lì, con i medici, ci hanno visitato, e ci hanno tolto tutti i pidocchi con il DDT. Ci hanno spruzzato con una pompa, ci spruzzavano sotto i vestiti, e di pidocchi non ce ne erano più. Siamo stati lì qualche giorno. Dopo, sono arrivati dei camion americani, ci hanno caricato e ci hanno portato a Bolzano.

D: A Bolzano ti ricordi dove ti hanno portato?

R: A Bolzano ci hanno portato in una caserma. Tant’è vero che, meraviglia, a Bolzano giravano ancora i militari tedeschi armati, cosa incredibile. Era già finita la guerra.

D: Quanto tempo sei rimasto a Bolzano?

R: Poco, lo stesso giorno siamo ripartiti. Siamo ripartiti. Sono venuti i pullman. Ogni città mandava i suoi pullman. Milano ha mandato i pullman, Torino, Genova. Tutte le regioni mandavano i pullman, perché sapevano che c’era il rientro, e ogni comitato mandava i pullman. Io ne ho preso uno di Cernusco sul Naviglio, che ci ha portato fino alla Stazione Centrale di Milano. Abbiamo fatto una sosta a Trento. Un posto di preti ci ha dato da bere roba calda, e ci hanno dato un panino, credo. Poi siamo ripartiti subito, e siamo arrivati alla Stazione Centrale di Milano che era l’alba del giorno dopo.

D: E alla Stazione Centrale che cosa hai fatto?

R: Alla Stazione Centrale hanno fatto l’appello di quelli che eravamo. Quando sentivano il mio nome, tutti mi correvano incontro a guardarmi in faccia, ma nessuno parlava. “Sei Esposito Eugenio?”, “Sì”. “E allora vai a casa adesso?”, “Sì”. Allora mi hanno fatto un documento, un foglio di carta prestampato già. Hanno messo su il nome, la provenienza del campo, e mi hanno detto di andare a casa. Io esco dalla Stazione, dall’atrio, e sono rimasto imbambolato perché non sapevo dove abitavo. Non so che cosa mi è successo. Sarà stata l’emozione, perché non sapevo dove abitavo proprio. Dopo un po’ mi è venuto in mente che avevo dei parenti in quella zona lì. Pensa, pensa, e gironzolavo da solo, come una trottola. Penso e ho detto “Ma io, in viale Monza, avevo degli zii e dei cugini”. Allora ho chiesto dov’era viale Monza. Mi hanno indirizzato e sono arrivato in viale Monza. Ho bussato a tutte le porte dei palazzi, fino a che al 36 mi hanno detto “Sì, abitano qua”. Mi hanno detto il piano e sono andato su. Ho suonato il campanello, è uscita mia cugina e mi ha abbracciato. Mi ha detto “Sai di tuo padre?”, “Che cosa c’è?”, “Tuo papà è stato fucilato, qua in Piazzale Loreto”. Ecco, io l’ho saputo lì.

D: Poi ti ha accompagnato a casa?

R: Poi mi ha accompagnato. Prima di passare da casa, mi ha portato in Piazzale Loreto. Ho detto “Fammi vedere dove”. E quando sono arrivato lì, in Piazzale Loreto, c’era una catasta di fiori, corone e fiori. C’era il drappello dei Vigili Urbani in onore. Quando hanno saputo chi ero, si sono messi tutti sull’attenti. Dopo ho preso un taxi, che mi ha portato a casa. Mi ha detto “Non salire. Stai in strada, che vado su io”. Infatti, dopo 10 minuti è venuta giù a prendermi e ho trovato mia madre. Anche lei mi ha detto “Hai sentito del papà”, “Sì, ho sentito”.

D: A proposito del papà, il papà, che era stato arrestato con te, poi vi hanno diviso l’8 di agosto del 1944 nelle celle, il papà è stato fucilato?

R: Sì, in Piazzale Loreto.

D: Perché? Il motivo? Si dice che è stato per rappresaglia …

R: Rappresaglia di una bomba, che dicono che hanno messo le Gap in viale Abruzzi sotto un camion tedesco, dove sono morti nove tedeschi. Invece non era vero, perché nessuno può dire che erano morti dei tedeschi. Perché, né il rapporto della polizia, né i rapporti dell’ospedale, né la Prefettura, neanche i Comandi fascisti, neanche loro, lo hanno dichiarato, sono morti solo civili, non sono morti dei militari tedeschi. L’unico militare tedesco era l’autista, che ha avuto solo un graffio, qua sulla guancia, e basta. L’hanno medicato all’ospedale e l’hanno mandato fuori subito. Altri, in ospedale, hanno dichiarato che erano solo morti e feriti civili.

D: Dovevano essere ventisei ad essere fucilati.

R: Sì, nella lista erano ventisei.

D: Ricordi il primo di questa lista chi era?

R: Il primo ero io, il secondo mio padre, e poi avanti. E l’ultima ,era una donna, una certa Mozzolon Giuditta. Non se ne è più parlato. Abbiamo scoperto da poco che è morta a Sesto qualche anno fa. E’ stata insignita di medaglia d’argento. E’ morta che aveva quasi 90 anni.

D: Da ventisei…

R: Da ventisei, in undici siamo stati graziati. Dicono “graziati”, da pena di morte all’ergastolo, però ergastolo sempre come ostaggi. Eravamo sempre ostaggi. Per il primo fatto che succedeva, eravamo noi undici ad essere fucilati.

D: E poi, non tanto ergastolo quanto deportazione.

R: L’ergastolo voleva dire la deportazione nei campi di eliminazione, dove sono andato a finire.

D: In una parola, in due parole, l’esperienza dei Lager, che tu hai vissuto, cosa è stata?

R: E’ un’esperienza che non si augura a nessuno, neanche al peggior nemico. E’ un’esperienza che si può augurare solo a quelli che l’hanno fatta a noi.

D: Perché?

R: Perché è una cosa incredibile. Uno che non ha provato, non può credere. Si possono raccontare dei fatti, delle storie, ma uno che non l’ha provato ha il diritto di non credere. Io l’ho sempre pensata così e sempre la penserò così.

D: Per le cose che hai visto?

R: Per le cose orribili che succedevano in quei campi lì, la vigliaccheria, la brutalità, cose mai viste, mai sentite, mai scritte da nessuno.

D: Però ci sono state delle cose, chiamiamole così, belle tra di voi.

R: A beh, qualche atto di solidarietà c’era. Ho portato solidarietà sempre al mio carissimo amico Gibillini. A lui avevano rubato il pullover e soffriva molto il freddo. Io, a mia volta, in un …, che era la doccia per il controllo dei pidocchi, dopo ci davano un po’ di biancheria pulita in cambio di quella sporca, una volta o due è successo, sono riuscito a recuperare una camicia di tela, tutta ricamata però, bella, e la tenevo sotto il maglione. E quando Gibillini si lamentava che gli avevano rubato il pullover e aveva solo la giacca, era freddo, era quasi primavera ma era ancora la fine dell’inverno, l’ho chiamato da parte e gli ho detto “Senza farti vedere, adesso ti passo una camicia, che l’ho sotto nascosta”. Di fatti, ho tolto il pullover, ho tolto la camicia, e gli ho dato la camicia. Mi sono tenuto io il pullover di lana. A momenti mi bacia i piedi per quel favore che gli ho fatto, per quel regalo che gli ho dato, perché realmente c’era freddo e ne aveva bisogno. E poi l’altro fatto, quando gli ho salvato la vita, quando stava per annegare nel fosso, nel fossato, lì, mentre ci bastonavano.

D: Ci sono stati altri deportati ad avere fatto gesti di solidarietà?

R: Pochissimi, tant’è vero che non li ricordo. Pochissimi ce n’erano. Lì, si pensava magari anche a rubarci uno con l’altro un pezzetto di pane.

D: Dicevi, che un giorno avevi quasi perso la voglia di resistere.

R: Chi mi ha salvato, è stato un ingegnere. Mi stavo per buttare sui reticolati della corrente elettrica a 12.000/13.000 volt. Mi è corso dietro l’ingegnere, adesso è morto anche lui, poverino, e mi ha strappato via, prima di toccare i reticolati. Io mi volevo buttare contro, almeno era finita, mi risparmiavo sei, sette mesi di sofferenze.

D: Ascolta Eugenio. Secondo te, è importante che i giovani di oggi conoscano questo aspetto della storia, questi fatti della storia?

R: Non dico che è importante, dico che è obbligatorio. Per il semplice fatto, che da che c’è mondo, c’è mondo, la storia si ripete. Io sono convintissimo che questi fatti si ripeteranno. Se li dimentichiamo, questi fatti si ripeteranno. E’ una mia convinzione. Spero di sbagliarmi, ma io sono convinto che si ripeteranno.

D: E’ importante, secondo te, che gli studenti, i giovani, vadano, per esempio, nei Lager?

R: Devono andare nei Lager, devono visitarli, ma devono sapere tutto dei Lager e tutto di chi ha vissuto nei Lager. Devono sapere tutta la storia dei Lager e quello che hanno sofferto tutti quelli che entravano in qui Lager lì, perché erano tutti innocenti, quelli che entravano in quei Lager. Solo perché si pensava diversamente da un altro, che la pensava male.

D: Ascolta. Dopo il tuo ritorno a casa, in questi cinquantaquattro anni, le istituzioni, lo Stato, la Regione, i Comuni, qualsiasi istituzione, secondo te, si sono impegnati, hanno fatto qualcosa, rispetto ai deportati, rispetto alla deportazione?

R: Pochissimo. Quel poco che è stato fatto, e dovuto alle richieste fatte dai nostri dirigenti, delle nostre Associazioni, perché, liberamente, nessuna autorità ha fatto niente per noi.

D: Quanto ti è pesato il dopo Lager?

R: E’ pesato tanto. Mi ha pesato l’insonnia perpetua. La notte, per me, quando dura tre ore, dura troppo. Non riesco più a dormire.

D: Tu pensi che sia per questo?

R: E’ da allora, perché io da giovane dormivo. Da allora io non riesco più a dormire. Non so che cosa sia, ma è così. Io, quando sono gli orari stabiliti che avevo là in Germania, mi alzo. Mi alzo alle 3,30 o 4,30, e non vado più a letto. Giro per casa come un fantasma, ma non vado più a letto.

D: E i sogni?

R: I sogni, i primi tempi, erano duri. Gridavo di notte. C’era mia moglie che ogni tanto si spaventava. Me lo diceva “Stanotte hai parlato, hai gridato”, “Io?”, eppure era così.

D: Nel campo non sognavi?

R: Niente. Nel campo l’unico pensiero era qualche volta della famiglia. L’unico pensiero era quello di portare a casa la pelle.

D: Del tuo trasporto, che ti ricordi, in quanti siete ritornati?

R: Io penso il 30%, 35% su 500. Adesso siamo rimasti il 2% o il 3%. Sono tornati in pochi.

D: Appunto. Quella lì che zebrata è?

R: E’ la giacca che avevo io in Germania, nei campi di eliminazione. Adesso non c’è più, ma qua c’era il numero di matricola con il triangolo rosso e la scritta “I”. E questa mi ha scaldato fino oltre i 20 sottozero, questa, una maglia e un paio di pantaloni. Io non ho mai posseduto il cappotto. Tanti avevano il cappotto, in tanti campi, anche nei campi dove sono stato io, ma mai io ho avuto la fortuna di averlo. Sono venuto a casa, vestito così. Avevo anche i pantaloni, ma erano tanto schifosi e laceri che li ho buttati via.

D: Poi lì c’è un pentolino?

R: Questo non è un pentolino, questa è la mia gamella. Io qua ci ho mangiato dieci mesi, dal caffè, se si può chiamare caffè quella brodaglia che ci davano il mattino, acqua calda sporca, alla zuppa del mezzogiorno, perché la sera era sempre secco il mangime. Era una fetta di pane e un pezzettino di margarina, un etto di pane. Negli ultimi mesi poi, la razione è arrivata a meno di un etto di pane. Perché era un bastone in undici, un bastone pesa un chilo, una forma di quel pane lì tedesco rettangolare. Gli ultimi mesi, perché c’era un po’ di carestia anche per loro, ci davano un bastone in undici prigionieri, che vuole dire meno di un etto, con un pezzetto di margarina. E come si teneva da conto, non si mangiava subito. Durava una mezzora quella fetta di pane lì, però sempre vigilata. Perché, se camminavi con il pane in mano, te lo fregavano subito, non durava, lo curavi più della tua vita stessa. Non si poteva girare con un pezzo di pane così. Se era roba da mangiare, te la rubavano. Come io lo rubavo ad un altro. La legge era quella. La fame è fame.

D: Morte tua, vita mia.

R: Morte tua, vita mia. La fame non guarda in faccia nessuno.

D: Il numero di data, non l’hai detto. Caso mai, ripeti il numero di data.

R: Sì. Qua c’era anche il mio numero di matricola. Era tanto lacero, che l’ho buttato via. Era 116.355 con la “I”, che vuole dire italiano. Gli jugoslavi avevano la “J”, il Belgio aveva il “B”, la Spagna aveva la “S”. Ogni nazione aveva la sua sigla. E i triangoli, i colori dei triangoli distinguevano la categoria del deportato.

D: Eugenio, questa qui che cosa è?

R: Questa è una fotografia, che ho fatto dopo cinque o sei mesi. Ci siamo trovati, tre o quattro, “Dai, andiamo a fare una fotografia”. Io ci ho messo la giacca, ed un altro ci ha messo il berretto. E’ venuto a casa con il berretto. E abbiamo fatto questa fotografia qua, vestiti da zebra. Qua ero già ingrassato. Comunque non è che io ero magro. Ero gonfio. Il peso non c’era, però ero gonfio. Con un po’ di cure, che mi ha dato il dottore, è calato. Ha detto che era nefrite. Qua sono ancora un po’ gonfio, perché non ero così dopo cinque mesi, ero un po’ più magro ancora.

D: ….

R: Non so che materiale era, comunque erano bottoni normali. Su quella strada lì, quando seguivamo il fronte, abbiamo visto un posticino dove c’erano dei cadaveri di militari. Erano tutti feriti, ad uno mancava la gamba destra, ad uno mancava la gamba sinistra, e ho preso una scarpa di uno ed una scarpa dell’altro. Avevo un 42 e un 43. Sono venuto a casa con quelle scarpe lì.

D: Te le sei fatte andare bene lo stesso.

R: Le ho fatte andare bene. Meglio degli zoccoli.

D: Va bene.