Nota sulla trascrizione della testimonianza:
La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.
La trascrizione inizia in uno scambio di conversazione avviato.
D: Non è che sono morti sul lavoro, Alfredo.
R: Ma no, son morti sparando, certo.
D: Perché voi, quanti anni avevate?
R: Vent’an, vintidü, vinti… [20, 21, 2..]
D: E avete fatto la scelta della libertà.
R: Non una scelta… non tanto per la libertà, tanto perché non ci piacevano i soprusi, non ci piacevano… pur nessuno che ci ha invitato a capire, nessuno ci ha consigliato a fare disfare, eccetera eccetera, a fare i confronti. Saran stati gli studi, sarà stato tutto, però abbiamo condotto con noi anche i cosiddetti operai che si sono aggregati, insomma.
D: Tu a quel tempo abitavi a Rho?
R: Io a quel tempo abitavo a… no, io ero in Marina io, eh! Sono stato anche marinario, tra parentesi.
D: Ah, e quindi quando sei tornato.
R: Sono tornato dall’8 settembre [1943].
D: Ma abitavi a Rho però.
R: Sì sì sì, Rho.
D: Quindi è lì che con i compagni di Rho avete maturato questa scelta?
R: Ma, insomma, i compagni di Rho… più che altro è stata la zona di Lesa, vicino al Don Faix, Lesa, Stresa, Laveno, quella zona lì. Poi dopo c’è stato la Valtoce [formazione partigiana, ndr], lì, la prima Valtoce. Capisci?
D: Tu ti sei… quando sei rientrato dalla Marina…
R: Adess m’è scapà ‘l mument [non ricordo il momento]. […] i tedeschi dietro che ti rincorrevano su là.
D: Ecco, ma perché sei andato su da quelle parti lì, verso Laveno? C’è un motivo ben preciso?
R: Ma no, c’è un signore lì, un ragazzo anche lui, insomma, che conosceva la zona, e conosceva il gruppo della Valtoce; che allora non si chiamava Valtoce, si chiamava ‘gruppo sbandati’, che ne so io come si chiamava insomma… Allora ci ha portato su lì. Allora lì ho cominciato a entrare dentro in circolo…
D: Nella formazione?
R: Nella formazione, ovvero la prima vera Valtoce, insomma, che c’era il Tom Mix, il Velli… che poi c’era Edo. Poi Edo è passato con i garibaldini, con i comunisti; poi dopo noi lo abbiamo abbandonato perché coi comunisti non ci trovavamo, coi commissari del popolo, quelli erano delle carogne. E allora… noi gruppo, diciamo, benpensante, gruppo moderato, ecco: gruppo moderato, giusto, è la parola esatta, gruppo moderato insomma. Ossia, l’assolutismo non c’è mai andato a genio.
E di conseguenza noi… m’hanno accompagnato su lì, gruppo moderato, e c’era Edo, che poi dopo è passato, ripeto, ai comunisti, e ha fatto fortuna lì, insomma. Invece noi siamo andati avanti con il famoso professor Boeri di Milano, il ‘Renatino’, il professor Boeri del Besta di Milano. Abbiamo fatto appunto… un po’ di bagarre con lui, e abbiamo costituito appunto la Valtoce, la Beltrami, e tutte le varie suddivisioni e roba del genere insomma.
D: Ecco, lì che periodo era quello lì?
R: eh, quel lì l’era… nel quaranta… quarantaquater insomma al sarà sta’.
D: Il ’44.
R: Il ’44. L’8 settembre cos’è che è venuto, nel ’43?
D: Nel ’43.
R: ’44, sì.
D: E avevate tutti più o meno quell’età lì?
R: Ma sì, eravamo dei ragazzini, insomma ecco, dei… non dico le parolacce, degli stronzettini che facevamo baccano, e l’unico scopo, che di fatto anche il professor Renato Boeri, amico mio… e tenevamo impegnato appunto un paio di battaglioni di SS, un po’ di camicie nere, dei famosi, famigerati rastrellamenti insomma. Che rastrellamenti… è stata una cosa ridicola per loro, perché venivan su e avevan più paura di noi, perché noi conoscevamo i posti, di sera si andava dentro, si passava in mezzo, ma loro invece avevano una paura matta. Poi veramente, insomma… E di conseguenza… Tante volte mi facevano anche pena loro eh, intendiamoci bene, perché erano dei ragazzi anche loro, insomma, che han scelto… han scelto, non lo so, perché li pagavano bene anche, invece mi […] pö, pagavan nient … [a me non pagavano niente], e in maniera tale che…
Noi eravamo i padroni della zona, gran padroni di tutto: perché la popolazione ci ha aiutato, non per altro. I contadini, i mattai, mattai in dialetto locale, mattai vuol dire ragazzi, questi qua, ragazzi… così, ecco. Insomma, sai, sono momenti che adesso, ritornando dopo cinquant’anni uno diventa, diciamo un po’… non dico commosso perché non bisogna mai commuoversi, però… però fa senso, ecco, dà fastidio. Tu sei contrario perché dici che bisogna sempre ricordare, io invece dico che bisogna sempre dimenticare, perdonare, dimenticare, perdonare fino ad un certo punto, però intendiamoci… dimenticare tutto, cancellare tutto dalla memoria, tutte le memorie negative che abbiamo, e tenere quei pochi elementi positivi che ci sono rimasti.
D: Ecco Alfredo, ascolta, lì nella formazione voi cosa facevate? Quali erano le vostre azioni?
R: Le nostre azioni erano queste: bisognava andare intanto a pigliare qualcuno per liberare quell’altro. Non so se sono stato un po’ troppo conciso. Bisognava andare a fare ostaggi per liberare i nostri che avevano catturato. Allora scendevamo a valle, a Baveno, a Stresa, a Lesa, e prendevamo qualche fascista o qualche… sì, un paio di tedeschi gli abbiamo presi anche loro, e facciamo i baratti. Si facevano solitamente nella zona di Omegna, che era una città libera, una cittadina libera, zona libera, ecco, si calcolava. E lì… allora era ridicolo anche quello, perché c’erano tutti i partigiani, scalcinati, svestiti, tutto quanto, da una parte, i fascisti e i tedeschi dall’altra, e non ci si sparava perché eravamo in zona libera. E lì si facevano gli scambi. Poi ogni tanto insomma c’era qualche treno da fermare perché ci segnalavano che c’era su X che c’era su Y, e allora bisognava per forza per fermarli insomma. E allora… sì ma degli incoscienti però, eh!
D: E le armi? Avevate armi?
R: Molto poco, molto molto poco. E io ero uno dei fortunati che aveva una pistola, un’Astra, me ricordi sempre. Non dovrei dirlo ma dev’essere ancora in giro da qualche parte che adesso non so, non mi ricordo più dove sia, insomma. E poi qualcuno aveva… No, finalmente c’è stato un lancio, nel ‘Lagun’ sopra Massino, nel ‘Lagun’ c’è stato un lancio, allora sono arrivati con degli Sten e il mitra, c’era qualcuno con il mitra italiano, abbiamo preso, poi con quello si andava nelle caserme e si metteva la gente al muro, senza accopparli, perché non si accoppavano, e allora si pigliava un po’ d’armi insomma. E ciao così ci siamo armati, oh Dio mica tante pallottole, poca roba! Si risparmia anche sulle pallottole perché non ne avevamo tante, insomma.
D: E dicevi prima che la gente vi aiutava però.
R: La gente più che aiutarci ci ha assistito, non c’ha fatto rimpiangere la famiglia lontana, ecco. Questa è stata una cosa… una cosa… Le ragazze facevano a gara per volerci bene, per cucire, per legar un butun [attaccare un bottone], tutte quelle robe lì insomma. Ed era una cosa commovente.
D: Da mangiare anche?
R: Ah, beh beh, sì sì. Ma però… io c’ho due amici, Finotti Leonida e Finotti Walter, che son di Rho ferrarese, perchè io ero di Rho milanese, loro erano di Ro ferrarese, ed erano buoni a cucinare. Ciao, noi le donne cuoche non le abbiamo mai avute, abbiamo avuto… ci siamo arrangiati da noi insomma. L’unica cosa positiva ecco che… che a noi arrivavano i quattrini, ecco.
D: E da chi?
R: Dal CLN Milano [Sezione milanese del Comitato di liberazione nazionale, ndr]. Difatti noi quando pigliavamo un vitello, pigliavamo una vacca, una mucca, un toro, una […], una capra, si pagava sempre.
D: Ai contadini?
R: Ai contadini.
D: Quindi i partigiani mica è vero che andavano, facevano razzie?
R: Noi no. Da altre parti onestamente devo dire che… specialmente i garibaldini. […]
D: Della tua formazione?
R: No no, la mia formazione… quella parte lì non era… era benvoluta, era conosciutissima e benvoluta insomma.
D: Quanti eravate?
R: Ma nün [noi]… Ma nün s’era stati, al massimo, al tempo di… in piena estate, eravamo in 40-50 insomma, ma dislocati a destra e a sinistra che sembravamo chissà quanti. Poi dopo durante l’inverno, c’era anche il famoso editto di… cus’è l’é… Alexander[Harold Alexander, comandante supremo delle forze alleate in Italia, ndr], che ha detto “andate a casa, non state qui a pigliare freddo”. Poi dopo siamo rimasti su in 20-25 insomma. Poi, i nostri amici sono andati a ballare al Mottarone. Lì c’è stata la solita spia, la solita ragazza, che li ha segnalati, li han presi quasi tutti. Allora dopo noi siamo andati a Ornavasso per fare appunto gli ostaggi, per liberare quei cretini che sono andati a ballare. Difatti a Ornavasso…
D: Era la fine dell’anno no?
R: Esatto. E a Ornavasso siamo arrivati là il 5 di gennaio [1945]; al 6 gennaio stavamo facendo, mi ricordo, il risotto, con la stufa… arrivano dentro due tre raffiche dalla finestra, padelle e riso dappertutto, tim tum tam, ci siamo buttati per terra. E lì era scappata una spia, tenente… un certo tenente Gallina, non so se è ancora vivo, ‘sto cretino, che non ci aveva avvertito che gli era scappata la spia. E quelli ci han proprio presi con le mani nel sacco insomma. E lì mi abbiamo avuto… mi pare solo un morto. Per forza! Intontiti dalle bombe a mano che tiravano sotto la cascina, tu saltavi per aria con la stufa che l’andava… riso da tutte le parti. E poi ciò, ci siamo arresi insomma. Noi ci siamo arresi, ci han messo al muro e han detto “no no, vi fucileremo dopo”, “boh, ormai siamo in mano vostra”. Invece poi a Ornavasso… perché non ci han portato a Domodossola, ci han portato in regione di Ornavasso. A Ornavasso eravamo dentro sempre in tredici in quella benedetta cella. E io mi ricordo sempre un particolare, stupido ma… però sempre sintomatico. Io li contavo, e siccome partivo da quello vicino a me, ero sempre il tredicesimo, “porca miseria che menagram della miseria del sacripante”. E invece no, m’ha portato fortuna! Perché sono entrati dentro e ne han presi cinque o sei, a pedate nel sedere li hanno portati fuori e li hanno accoppati. Non so dove, sopra le montagne non so… dalla parte di là del Lago Maggiore. Li han fucilati insomma. E noi ci siamo…
D: Subito?
R: Non so, subito… io non credo, grazie a dio. Quelli che han preso li hanno fucilati e noi ci siam salvati perché ci han portati a San Vittore.
D: Ecco ma, scusa, prima era già successo però l’eccidio di Fondotoce […]
R: No, non era ancora successo quello…
D: Non era ancora successo quello?
R: O sì? Ecco, adesso mi prendi in contropiede… No ma mi ricordo, perché c’è una foto con su una ragazza, in stato interessante anche, che porta… quand’è che è stato… non me lo ricordo, mi dispiace…
D: Allora dopo da lì ti han portato a San Vittore…
R: San Vittore, tutti e sei-sette rimasti insomma. Era San Vittore, era quinto e sesto raggio, difatti io ho chiesto anche le carte di Milano San Vittore… di… un certificato di detenzione in questo – difatti le ho qui – in questo carcere. Perciò dalle carceri di Domodossola siam partiti il 10 gennaio del ’45 e siamo arrivati a San Vittore. Non è vero, vedi qua? Non avevano nemmeno la carta da rispondere, no. Allora m’han dato un’altra matricola che era uno tre sei sette [1.367, ndr], dal 19 gennaio al 14 febbraio ’45, poi sono partito per Bolzano.
D: E beh ma lì a San Vittore però cos’è successo? Perché la mamma tua nel frattempo…
R: E, nel frattempo poi si sono mossi tutti quanti, no, perché avevo potuto avvertire i miei, la mia mamma, eccetera. E un bel giorno uno chiama me, chiama con il mio nome. Perché poi tante volte si dava il nome… io davo il nome di Biffi perché era il nome della mamma, e Caloisi che è il nome del papà. E allora […] invece qui a San Vittore davo Caloisi. Mi chiama… e lì pien de pagüra ho dì [pieno di paura ho detto] “Cristiani, è arrivato il mio turno!” e ho salutato tutti, perché naturalmente in quei casi lì ci si saluta, con una certa freddezza, tanto per mantenere un certo contegno. Un contegno del cavolo! Gh’avevi ‘na pagüra de la madòi [avevo una paura della madonna].
Mi hanno portato dentro tutti i corridoi, dentro in di qui [in quelle] tende, erano… lo chiamavano lo scopino, non il carcere, o scopino no. Tim, tum, tam, m’han portato avanti, c’era una suora, e altri due o tre, ho cominciato a stare sul chi va à. E quelli han cominciato l’interrogatorio da terzo grado: poverina, è stata brava, aveva uno sguardo veramente… brava, veramente santa si può dire. E allora “come ti chiami? Di dove sei?”, eccetera, “la tua mamma, sa la fa [cosa fa]?” e tüt chi rop lì, e io… “cosa faccio con questa qui? Cus’a l’è, l’è ‘na falsa suora, l’è una spia, l’è una madonna di quelle lì che stanno torturando la gente?”. E invece no, e invece dopo alla fine ho detto “senti, io tanto ormai qui sono… perso per perso, insomma se la parla più, se la parla”. […] tutta la rava e la rava della mia famiglia, insomma di dov’ero, di Rho, la Piazza San Vittore, la drogheria, la mia mamma, eccetera eccetera… Eh, quell’incosciente di mia mamma, ma roba, son qua che pensi, ancora adesso la pelle d’oca.
D: Perché incosciente?
R: Ma perché la mia mamma è sempre stata una… una donna abbastanza sfegatata perché aveva il negozio in piazza, però parteggiava naturalmente per la mia corrente insomma, no. Lei era distributrice dello zucchero, per chi aveva la tessera, tüt in mezz ai sac, gh’era là i mitra, gh’eran là i rob, i bumb a man [in mezzo ai sacchi c’erano i mitra e le bombe a mano].
D: Questo in piazza San Vittore…
R: In piazza San Vittore a Rho.
D: Aveva il…
R: Sì, sì, era il negozio, sì. E allora, ritornando alla suora, mi dice “e allora tu sei l’Alfredo?”, io ho detto “ma nessuno mi chiama Alfredo”.
D: Che nome di battaglia avevi?
R: Era il Dino. “Tu sei il Dino!” E allora ho detto “vabbè, questa qui, se pö fidass di quéla dona” [ci si può fidare di quella donna]. E insomma m’ha imbottito di marmellatine, di pacchettini, pacchettoni, tim tum tam, denta de chì, föra de là [dentro qui, fuori di là], con tutti ‘sti camiciotti: fatto sta che sarò aumentato di 30 o 40 chili, insomma, con tutte ‘ste robe qua, no! E poi dopo, il brutto era tornare indietro. Per tornare indietro al povero scopino a momenti gli viene un infarto, perché abbiamo incontrato il famigerato Franz, figlio d’un cane lì [Franz Staltmayern, SS-Rottenführer, carceriere di San Vittore, ndr]. E allora quando si incontrano quelli lì ci si mette sull’attenti. Siamo sull’attenti, ma m’è venuta una pancia che non la finiva più, e invece lui era con ‘sto cane, con ‘sto maledetto cane, un bellissimo cane, quello lo devo dire, eccetera… Insomma, è andato. Sono andato in camera, mi sono saltati addosso tutti, tim tum tam, infatti…
D: In cella sei andato…
R: Come?
R: In cella, non in camera.
R: Sì, in camera, pardon, in cella. Sì, scusa, sono andato in cella… Lì han tirato fuori loro, naturalmente ho diviso quello che c’era, si divide e non se ne parla più. Allora uno accende ‘sta sigaretta, non tira, “o porca miseria, cos’è? che sigarette mi ha dato la mia mammina?”. E invece no, erano tutti bigliettini dentro! Difatti io ne conservo ancora qualcuno, difatti, dov’è che è, dovrebbe essere qui dentro… perché il bigliettino è quello che ha scritto mia mamma e mia sorella, eccetera eccetera. Poi, siccome arrivava il cagnolino… eccolo qua! Io ero molto magro no, con le gambette: “Caro bambino… gambino, io sto bene, il latte e miele anche, Enrico pure, stiamo facendo un mese di campagna, bacioni tua sirocchialina”, mia sorella questa qui; invece la mia mamma “tanti bacioni grossi, grossi, anche dal micino e da Jolie”, che l’era il micio del micio, Jolie era il cagnö [cagnolino], difatti mi ha messo le impronte del gatto e del cane.
D. Sul biglietto.
R: Sul bigliettino, un pezzo di carta…
D: … che aveva nascosto dentro nel pacchetto.
R: Nel pacchetto delle sigarette, insomma… Questo… E ci han detto appunto – non li trovo tutti, chissà dove sono messi gli altri [bigliettini] – e ci han detto nel trasferimento di scappare. Perché tanti scappavano, [nei] trasferimenti da Milano a Bolzano, in pullman, riuscivano a scappare. Di tentare di scappare che “ti presenti”, m’han fatto dire anche che “ti presenti dalla zia”, che c’era lì per andare a Lainate, che “qui in piazza non farti vedere però, perché, insomma…” E invece no! E invece, quando c’han portato via, c’han portato via… io non so… io sono convinto che ci abbiano un po’… non dico drogato, però ci han dato un sacco di calmante: che ci siamo non addormentati, però eravamo in uno stato di ebbrezza, uno stato di relax ecco, diciamo. E siamo arrivati a Bolzano.
D: Questo era? Te lo ricordi quando?
R: Eh sì. Me l’han detto il San Vittore, il carcere di San Vittore, figurano dagli archivi del carcere di San Vittore. L’ho legiü chì [l’ho letto qui]…
D: Poi la tua accusa: tu eri stato accusato di cosa?
R: Dal 19 gennaio al 14 febbraio. 14, 15 febbraio del ’45. Son partiti per Bolzano, insomma.
D: Con altri?
R: Erano sette o otto pullman.
D: Ah, in pullman, in corriera.
R: Pullman, corriera, corriera. Difatti noi siamo [a] pensare “adesso qui tu lo prendi, lo blocchi, noi saltiamo giù dal pullman, tu vai di là, vai di qua” e invece eravamo rimbambiti, ci han dato del tè. Io non so che cristiani c’han dato bere. E non abbiamo fatto niente.
D: Così siete arrivati a Bolzano.
R: Siamo arrivati a Bolzano.
D: E lì a Bolzano, come sei entrato…
R: Eh, Bolzano lì cominciamo con la storia della croce in testa, la croce sul vestito, la croce sulla tuta, tutte ‘ste robe qua che… che quello che ha talmente, diciamo, impressionato noi, e dopo anche adesso impressiona solo a pensarci, è il fatto che devi metterti sull’attenti quando passava un tedesco. E c’era quella… – non dico le parolacce perché non si possono dire le parolacce – c’era quella fanciulla delle SS che era la più cattiva: era una donna, più sé cattiva. Ecco, da lei ho fatto a tempo a prendermi 3 o 4 nerbate perché non l’ho vista, la veniva dé dré [da dietro], e allora le ho prese. Ma il resto me la sono cavata bene, insomma.
D: Le hai prese ma non avevi fatto nulla.
R: No, non ho fatto niente, però se non ero sull’attenti quando passava lei… perché stavo, non so, parlando con qualcuno, e non ero sull’attenti. Allora, non essendo sull’attenti, quella si è permessa… si è permessa, si è sentita in dovere di… di darmi un paio di nerbate. Sì perché il terribile, lì a Bolzano, non è tanto il fatto di essere dentro – va beh, di esser dentro, mangi poco, diventi magro – il fatto di non entrare dentro in quelle famose carceri, diciamo.
D: Nelle celle.
R: Nelle celle. Perché quando entri dentro lì c’erano gli ucraini mi pare – ecco, vedi che ricordo bene – c’erano gli ucraini che davano botte della madonna, dell’accidente insomma. Chi entrava lì pigliava una batosta dopo, una legnata di quelle, difatti ogni tanto vedevamo le casse da morto che uscivano insomma. Arrivava un bolzanino diciamo, cul caretìn e la cassa da morto… È il novantasette sessantuno, triangolo rosso.
D: Perché avevi il triangolo rosso?
R: Perché il rosso erano i famosi politici, erano i famosi partigiani politici, quelli presi con… si può dire con le armi. Perché il giallo erano gli ebrei. Che anche lì, va beh, ‘sti ebrei, son brava gente, intendiamoci, però loro avevano il pane e noi non l’avevamo. Questo che non riuscivo…
D: Lì a Bolzano?
R: Anche a Bolzano. Loro viaggiavano con le pagnotte lunghe, loro riuscivano ad averle insomma, erano organizzatissimi. Difatti è un popolo abituato a lottare, abituato a dar da mangiare, ad arrangiarsi insomma. E loro… ogni tanto qualcuno si muoveva a pietà e me ne dava un boccone.
D: Ascolta, il blocco non te lo ricordi?
R: Eh no caro, no no. Io mi ricordo solo, io non so nemmeno se sono sicuro se ero dentro o fuori, se ero lì vicino… il fil di ferro, c’era del fil di ferro lì, dei recinti, adesso non so se ero dentro, non mi ricordo più se ero dentro o fuori insomma. Fatto sta che per poter avere il pane lì, cambiando discorso, bisognava andare alla stazione, a cercare le bombe. Ci incolonnavano, ci portavano là, bisognava pulire dove avevano bombardato i cosiddetti alleati insomma. Allora ciao, lì un po’ di pane te lo davano insomma. Sì, però rare volte m’è capitato. Delle volte… perché poi ti danno ‘sta tuta, la tuta con la bella croce rossa sulla schiena, caro mio: non te podet scapà lì [non puoi scappare lì], sei subito individuato.
D: Eri un bersaglio…
R: Ma sì, ma anche quei ragazzi tedeschi lì che – non so se erano tedeschi o se altoatesini – non erano delle carogne onestamente, non c’hanno mai maltrattato, salvo le nervate che davano quando… la SS non ti mettevi sull’attenti. Ma tutto sommato tranquillo lì. Anzi me ne ricordo uno che… Una volta siamo andati verso le Gallerie di… [suggeriscono Vipiteno, ndr] Vipiteno, che c’era da spostare dei torni. ‘Ste gallerie erano piene di ogni ben di dio, torni, miga torni, frese, macchine, utensili vari, roba del genere insomma, perché loro spostavano per portarle in Germania. Là c’era uno che veniva dalla Russia, aveva perso un occhio, e appoggiava lì il mitra e se ne andava per i fatti suoi. Il mitra senza caricatore, eh! Difatti noi si pigliava in mano ‘sto robo – non il mitra, loro avevano il Maschinenpistole – si pigliava in mano ‘sto Maschinenpistole, tant gh’era lì nient, gh’era nün [non c’era lì nessuno, c’eravamo solo noi], perciò si guardava come era fatto, eccetera eccetera; poi si metteva lì e si andava avanti a pulire la sterpaglia lì, cosa diavolo ci portavano a pulire insomma. Ma maltrattamenti no, salvo appunto le legnate come si era detto.
D: Ecco però tu hai visto all’interno del campo delle violenze?
R: Eh sì, per forza, insomma, quello sì. Specialmente c’era uno… mi ricordo di uno che rientrava da Mauthausen, era uno scambio, ed era pelle e ossa. Nonostante fosse quello lo picchiavano a tutto andare, ‘sto povero cristo, non so nemmeno io, è successo verso il mese di… sarà stato aprile, così, aprile-maggio. Non so perché lo picchiavano, dovevano fare il cambio, l’han portato, è stato uno scambio di prigionieri come al solito. E invece… E poi dopo no, ogni tanto quando ci mettevano sull’attenti se non eri allineato, t’arrivavano dietro. Io non le ho mai prese grazie a dio, perché allora ero giovane, allora avevo l’occhio clinico, a stare in marina mi avevano abituato a stare in fila. Invece qualcuno magari, poveretto aveva una certa età, allora lì sì poveretti, li pigliavano e non potevi nemmeno aiutarli ad alzarsi perché altrimenti le pigliavi anche tu. Allora dovevano stare in terra, poi si tiravano su e si mettevano lì. Il famoso ‘appello’ lo chiamavano loro. Appello, sì. Quello era l’appello della morte.
Poi invece, io sono dovuto andare in infermeria perché… ce l’ho anche adesso una punta di pleure. Mi ricordo il nome Ferrari – non so se era un infermiere, se un professore, se è un medico che era lì – ecco, m’ha dato delle pastigliette, aspirine probabilmente erano, “cerca di stare lì sdraiato, non muoverti, in branda, è l’unica cosa”. Difatti anche adesso, quando vado dal dottore “ma lei qui deve fare delle analisi”, “no non no, non faccia nessuna indagine perché io so, la punta [di pleurite] ho avuto, eccetera” e allora c’era ancora l’acqua, sentono [espressione onomatopeica] i dottori […]
D: Ascolta, ti ricordi se c’erano anche delle donne lì nel campo?
R: Sì, c’erano le donne. Anzi le donne erano… Quando c’è stata la cosiddetta liberazione, mi pare in maggio, le donne… mi sembra d’aver sentito che le donne sono riuscite a mettere le mani addosso alla SS femminile insomma, la ‘Tigre’ sì [Hildegard Martha Luisa Lächert, anche Hilde Lächert), ndr], e l’abbiano fatta fuori, però non sono sicuro di questo qua perché l’ho sentito dire, perché noi eravamo fuori, per lavoro.
Allora una bella mattina siamo tornati indietro – ripeto, era maggio – siamo tornati indietro nel campo, abbiamo visto tutto un caos, roba tutta per aria, e tutto quanto, gente che si dava da fare, gente che scappava di qua, gente che andava di là, “i tedeschi?”, “eh, i tedeschi non ci sono più”, “porca miseria!”. Allora mi ricordo che c’è stato uno che, un bolzanino, il quale si avvicinava e diceva: “sentite, voi siete giovani, siete partigiani col coso rosso lì, il triangolo rosso, venite su in montagna con noi.” Al che, gentilmente, gli ho fatto il gesto dell’ombrello, perché ho detto, ho salvato la pelle fino ad adesso, non vorrai mica che venga su in montagna a crepare proprio qui a Bolzano!” Perché normalmente, essendo un estraneo del luogo, questi nelle faccende pericolose mandavano avanti te, che non sai chi è, che non ti conoscono. Difatti ho detto “no guarda, ti ringrazio, dobbiamo rientrare in famiglia noi, ne abbiamo sufficienza di armi, di partigiani”.
D: Nel periodo in cui sei rimasto a Bolzano la tua mamma non ti ha più contattato?
R: No. Eh no, non poteva.
D: Quindi non facevi…
R: No, la mamma aveva tentato onestamente… aveva tentato di mandarmi su un tedesco con il sidecar, quelle macchine che avevano loro. Mi ricordo che aveva detto che ‘sto tedesco doveva avvicinarmi nel campo, mi prendeva, mi sdraiava nel sidecar e mi portava a Milano, sdraiato nel sidecar, figurati che viaggio avrei fatto! Però poi non l’ho più visto. Si capisce che l’hanno ammazzato loro o… si capisce che lo faceva per affari, per soldi. Però non l’ho mai visto, insomma.
D: Quindi ti faceva fuggire, in poche parole.
R: In poche parole ha tentato di farmi fuggire da Bolzano.
D: Ecco, che tu ricordi, da Bolzano qualcuno è riuscito a scappare?
R: Sì sì sì. C’era un francese che è scappato tre volte. Non so come faceva. Era un ragazzotto anche lui eh, avrà avuto diciotto, vent’anni, ventitré. Tre volte l’è scapà, tre volte l’han sempre ciapà e l’han purtà indré [è scappato, l’hanno preso e portato indietro]. E noi una volta abbiamo tentato di muoverci, ci siamo trovati in mezzo a un’antiaerea, [vocabolo tedesco incomprensibile, ndr]. Perché si sentiva nell’aria che c’era già un rilassamento, che c’era già una certa… non c’era più quella disciplina ferrea dei primi mesi di febbraio, così… gennaio, ormai lasciavano un po’ correre. E allora anche noi non si rischiava più, era inutile rischiare: se resisti, se non crepi di fame prima, non devi rischiare. E difatti noi tre, che stavamo sempre uniti, quelli là di Ferrara e io, quei due là e io eravamo sempre assieme ma… La cosa buffa è stata quando siam tornati. Quando siam scappati noi anche noi perché… scapan tüt scapam anca nün, sem miga stüpid del tüt, insomma [scappano tutti scappiamo anche noi, non siamo del tutto stupidi]. E allora quando si incontravano le colonne dei tedeschi si aveva paura, perché quelli lì mi pigliano e mi sparano alla schiena per vendetta. Allora era un via vai continuo, tra la strada, la stradina […] e la campagna, che si vedeva una fila di tedeschi: bom, scapa denta a nasconderti perché avevi paura, insomma, abbiamo salvato la pelle fino adesso, adesso dobbiamo… forse qualche esaltato che spara. Siamo arrivati al lago di Garda.
D: Sempre a piedi.
R: Ah beh naturale. Al Lago di Garda incontriamo il primo negro, americano, un bel negrotto, bel rotondo, bel… Allora cominciamo a parlare un po’ in italiano, tutto quanto, e mi ricordo che dice “voi Germania, dalla Germania?”, “sì dalla Germania, vado a Milano”, e l’altro “io vado a Ferrara”, “e allora venite con me”, “va beh, d’accordo”. E ci ha portato su questo carro armato. Ve beh. “sedetevi, sit down”, “va beh, setas giö” [siediti giù]. Questo qua si muove, [pensiamo]“forse abbiam trovato un mezzo di trasporto”. ‘Sto carro armato si avvicina e va verso il lago. Cominciamo a guardarci in faccia noi no, “oh, verso il lago, ma questo qui cosa fa? Ci vuole far annegare tutti quanti?” Si avvicina e non si ferma! Insomma, fatto sta che abbiamo fatto ridere quegli americani là, perché noi, 21-22 anni, mai visto un mezzo anfibio, e di quelle dimensioni poi, no. Invece lui tranquillo è entrato in acqua, toc-toc-toc, è andato e ci ha portati dall’altra parte. Ecco, una cosa ridicola che mi ricordo molto bene nel rientro è stato quello lì, insomma. E ci hanno ringraziati loro, ci han dato… solita storia, un po’ di cioccolato, qualche sigaretta, eccetera eccetera, “ah, tu non lavoratore?”, “no, io no”, “toh, cioccolatino, teh!”, e ciao insomma. Brava gente questi americani.
D: E poi sei arrivato a Rho?
R: Siamo arrivati a Milano. A Milano ho trovato i miei, i miei della Valtoce. Il professor Boeri l’ho trovato a Milano, il Renatino, e difatti “menomale che sei qui…”, tim tum tam e dopo sono andato a Rho. Lì, con la mia mamma che mandava il fidanzato di mia sorella con le macchine che c’eran lì, con il biroccio – c’era il biroccio – col cavallo, verso Milano, per tentare di trovarmi. Invece io, non lo so come ho fatto, sono arrivato a casa. Lì dopo, sono stato intervistato anche lì, nella mia Rho. Sai, ero diventato un po’ un eroe nazionale. Adesso però mi viene da ridere a pensarci.
D: Come, ti viene da ridere?
R: Mi viene da ridere a pensarci perché per me son tutte – ripeto, tu sei contrario – tutte cose da dimenticare, da non ricordare più… perché quando le vedi ti manca un po’ il fiato, ti manca la parola, non va bene. Non va bene, non è giusto, non è giusto, io la vedo così, non dobbiamo rivangare sempre, se no la finissum più de [non finiamo più]: noi odiamo loro, loro odiano noi, basta. Io non sono un cristiano al cento percento, cattolico praticante. No, sono un cattolico, normale, però, per questa cosa qui invece… perché dimenticare non puoi, insomma ecco, non puoi dimenticare.
D: E perdonare?
R: Ma io non perdono, è un fatto mio personale, capisci, è una sensazione psicologica che tu c’hai dentro nell’animo e te la devi tenere. Ed è un diritto il fatto di trasmettere questo tuo odio interno sugli altri affinché odino questi? No, basta, se no la storia non è mai finita, santo cielo, insomma, mai mai… Anche lì, quando son tornato, sono andato lì a Baveno, nella nostra sede. Ho fatto un mese d’ospedale no, per rimettermi un po’ in sesto tra la pleurite, la rogna, la scabbia, tüt qui rob lì che g’evi doss [tutte quelle cose che avevo addosso]. E anche lì “dovete odiarli!”, “no, non odiamo nessuno, abbiamo salvato la pelle, state buoni, non vale la pena diventar scemi, per che cosa dobbiamo odiare? non odiamo più, basta, non parliamone più”. E invece tu mi fai parlare, e ciao, adesso io stupidamente ho parlato.
D: Quanto pesavi, ti ricordi?
R: Sui quarantasett’, quarantott’ chili, insomma. Eh beh, sum màgher [sono magro] di costituzione. Ah, la mia mamma… magro di costituzione, questa croce qui in testa, màgher cum’è un picasch [molto magro], come si dice dalle nostre parti. La mamma diceva: “Madonna fiö, cum’è te sé mai brüt, cum’è te sé mai brüt” [figlio, come sei brutto]. Mia mamma me lo diceva, ogni tanto me lo diceva, poverina. Santa donna.
D: E i tuoi amici invece? Non gli amici della formazione, non i compagni… ma gli amici di Rho.
R: Eh, gli amici di Rho ogni tanto li trovo qualcuno. “Oh sai dov’era questo?”, “sì, dove?”, “nella Decima Mas”, “ah, figlio di un cane!”. Però basta insomma, se no…
D: No, dico, quando sei tornato, i tuoi amici, il lavoro, hai trovato…
R: Eh no, mi son messo a studiare. Ho voluto fare il furbo, mi son messo a studiare. Anche qualche esame l’ho fatto bene. Dopo ho voluto esagerare, preparare 5, 6, 4, 3-4 esami alla volta, difatti poi dopo è stato un esaurimento nervoso dopo l’altro insomma. Io ho dovuto anche… all’università ho dovuto anche… non dico che ero uno studente modello, intendiamoci. Sì, un po’ un lazarun [lazzarone] insomma. Però tra tutti ‘sti esaurimenti, e tutte queste… abbattimenti che avevo, basta, sono andato a lavorare. U truvaà lì el me amis Peppino, un altro lui buono, come partigiano, come… Pino Restelli, e m’ha messo dentro alla Snam, che allora c’era un certo rispetto, insomma…
D: Nei vostri confronti?
R: Sì sì sì, un certo rispetto. Però ripeto, io non sono… Mi ricordo che… adesso mi vien da ridere, pensando che i comunisti ci chiamavano l’Opera pia. Perché noi avevamo il fazzoletto azzurro no, la Valtoce, fazzoletto azzurro “ehi, Opera Pia!”, “ué, tass lì, delinquent d’un Stalin” [taci delinquente], ed è risolto il problema. Ci scambiavamo così, ecco. Sì, perché loro erano dei mostri. Quando c’è stato il lancio nel lago di Lesa loro tentavano di rubarci le armi, abbiamo dovuto difendere le armi con le armi, insomma, perché altrimenti erano… Avevano… Loro organizzatissimi, più di noi. Avevano i commissari loro. Ammazzavano quello, un colpo, tac, l’ammazzavano come niente. Perciò non era un assolutismo che andava bene a tutti. Ma anche non solamente a chi aveva studiato, anche a quegli altri ragazzi. Infatti con noi avevamo, mi ricordo, questi due ragazzi qui, di Ferrara, questo qua di Milano, il ‘Mentino’, il panettiere, e poi il Patissi di Varese, di Stresa, eccetera, e anche a loro non andavano questi metodi da… Però i comunisti […] avevano messo tutti dentro nelle bande garibaldine, insomma, loro dovevano tenere per forza questa disciplina ferrea. Infatti… i garibaldini bisogna levare tanto di cappello anche a loro, intendiamoci bene. I garibaldini han combattuto bene anche.
D: Han dato un grosso contributo anche loro…
R: Sì sì, no… ci mancherebbe altro, per forza. Però non devono egemonizzare, non devono “che siamo stati solamente noi garibaldini, noi…” comunisti, o che diavolo sian. No no no, questo… Tutti abbiamo fatto la nostra parte. Basta, insomma…
D: Ecco, ascolta, questa tua scelta poi, sia di partigiano, l’esperienza di S. Vittore, l’esperienza del lager su a Bolzano, t’ha pesato poi nella vita, dopo?
R: Cosa vuoi che ha pesato, insomma, devi solo pensare di reagire. Ecco qui… io mi sono salvato perché ho sempre reagito in modo positivo, no! Ho sempre combattuto l’abbattimento. Quando ti passava ‘sto […], ti mettevi sull’attenti, guarda che quello distrugge la psiche dell’individuo, la personalità dell’individuo, rovinarlo, renderlo… abbrutirlo – tipo gli ebrei che erano nei campi di sterminio – abbrutirlo, renderli proprio degli esseri amorfi. […] magari con parolacce eccetera, però bisognava per forza reagire, se no ti lasciavi andare ed eri finito.
D: Ecco, cos’è che ti teneva, avevi un progetto speranza, un ideale, dei valori che ti caricavano?
R: Ma no, no, non andate nel difficile con tutte ‘ste belle domande. Non c’era né speranza né… gh’era dumà [c’era solo] la volontà de tornare a casa e di resistere fin quando l’era possibile ecco, di ritornare sano e salvo a casa, di portare a casa la pelle, ecco, come volgarmente si dice. Salvà la pèl [salvare la pelle] e nient’altro. Che ideali! La patria! Ormai, dopo, la patria, di fronte ai mitra e ai tedeschi la patria la va un po’ nel limbo, insomma. Tu ti devi per forza rinchiudere un po’ in te stesso e pensare di salvare le apparenze, di salvare la tua pelle, in poche parole, capisci? Tutti questi ideali scompaiono di fronte… in quei momenti, quando sei preso e messo al muro non ti vengono mica in mente gli ideali. La pagura de scapà [paura di scappare]. È tutto lì il pasticcio. Capisci?
D: Ecco, e lì hai raccolto in questi anni…
R: Eh, queste qua sono cose che…
D: … non tutto, però parte di questa tua storia, di questa tua esperienza. I documenti…
R: Sì, i documenti della divisione Valtoce, della divisione… no, questo qui è di quando ero in Marina, no, non si vede, non era qui. Forse questo invece, quello dove si vede la croce in testa insomma. Poi dopo qui sono tutti i miei documenti, tutto quanto, che m’ha scritto appunto la commissione… il comandante Brigata il Mottarone. Ah già, perché pö gh’era anca il Giulio, il Tom Mix, il mio capo diretto allora, quando eravamo ancora nella cosa… Poi dopo c’era Commissione qualifiche partigiani, boh… Alla fine dopo si è inflazionato anche ‘ste storie qua insomma. Son lì, i primi che ho raccolto e me li son tenuti. Poi vediamo qua, divisione Valtoce, brigata Mottarone Abrami Franco, “La mia vita per l’Italia”. Sì, son tutte belle cose, che ci vogliono intendiamoci […] questa lettera che ho scritto io … carcere di San Vittore in Milano, sottoscritto eccetera eccetera, quando m’han detto che… Il tuchett’ de carta qui, che la fanciulla la conosce.
D: Cos’è quel pezzo di carta lì?
R: Ah, me lo son fatto tradurre. È stato rilasciato dal lager di passaggio Bolzano. Perché Bolzano forse per loro era un lager di passaggio, perché da lì poi dovevi andare a… noi eravamo destinati a Mauthausen, o a Mauthausen o a tanti altri campi che voi conoscete, insomma. Dice qua “quando è arrivato a destinazione, rendere noto e firmare. Il Comandante del lager”, toh l’umbrèla! [gesto dell’ombrello], e così sono venuto a Milano [ride]. Eh sì, mi vien da sorridere, se no caro mio la vita è triste, osti, dai su. I più bei pezzi di carta che ho qui sono questi qua della mia mamma che l’aveva mandà cun sü i sciampin del gatt e del can [con su le zampe del gatto e del cane]. La mia mama l’è propri ‘na bella sagoma, anche lei. I scampin del gatt e del can. Ve beh, questa l’è propri la fantasia di una donna, una Biffi di… milanese proprio.
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