Caloisi Alfredo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

La trascrizione inizia in uno scambio di conversazione avviato.

D: Non è che sono morti sul lavoro, Alfredo.

R: Ma no, son morti sparando, certo.

D: Perché voi, quanti anni avevate?

R: Vent’an, vintidü, vinti… [20, 21, 2..]

D: E avete fatto la scelta della libertà.

R: Non una scelta… non tanto per la libertà, tanto perché non ci piacevano i soprusi, non ci piacevano… pur nessuno che ci ha invitato a capire, nessuno ci ha consigliato a fare disfare, eccetera eccetera, a fare i confronti. Saran stati gli studi, sarà stato tutto, però abbiamo condotto con noi anche i cosiddetti operai che si sono aggregati, insomma.

D: Tu a quel tempo abitavi a Rho?

R: Io a quel tempo abitavo a… no, io ero in Marina io, eh! Sono stato anche marinario, tra parentesi.

D: Ah, e quindi quando sei tornato.

R: Sono tornato dall’8 settembre [1943].

D: Ma abitavi a Rho però.

R: Sì sì sì, Rho.

D: Quindi è lì che con i compagni di Rho avete maturato questa scelta?

R: Ma, insomma, i compagni di Rho… più che altro è stata la zona di Lesa, vicino al Don Faix, Lesa, Stresa, Laveno, quella zona lì. Poi dopo c’è stato la Valtoce [formazione partigiana, ndr], lì, la prima Valtoce. Capisci?

D: Tu ti sei… quando sei rientrato dalla Marina…

R: Adess m’è scapà ‘l mument [non ricordo il momento]. […] i tedeschi dietro che ti rincorrevano su là.

D: Ecco, ma perché sei andato su da quelle parti lì, verso Laveno? C’è un motivo ben preciso?

R: Ma no, c’è un signore lì, un ragazzo anche lui, insomma, che conosceva la zona, e conosceva il gruppo della Valtoce; che allora non si chiamava Valtoce, si chiamava ‘gruppo sbandati’, che ne so io come si chiamava insomma… Allora ci ha portato su lì. Allora lì ho cominciato a entrare dentro in circolo…

D: Nella formazione?

R: Nella formazione, ovvero la prima vera Valtoce, insomma, che c’era il Tom Mix, il Velli… che poi c’era Edo. Poi Edo è passato con i garibaldini, con i comunisti; poi dopo noi lo abbiamo abbandonato perché coi comunisti non ci trovavamo, coi commissari del popolo, quelli erano delle carogne. E allora… noi gruppo, diciamo, benpensante, gruppo moderato, ecco: gruppo moderato, giusto, è la parola esatta, gruppo moderato insomma. Ossia, l’assolutismo non c’è mai andato a genio.

E di conseguenza noi… m’hanno accompagnato su lì, gruppo moderato, e c’era Edo, che poi dopo è passato, ripeto, ai comunisti, e ha fatto fortuna lì, insomma. Invece noi siamo andati avanti con il famoso professor Boeri di Milano, il ‘Renatino’, il professor Boeri del Besta di Milano. Abbiamo fatto appunto… un po’ di bagarre con lui, e abbiamo costituito appunto la Valtoce, la Beltrami, e tutte le varie suddivisioni e roba del genere insomma.

D: Ecco, lì che periodo era quello lì?

R: eh, quel lì l’era… nel quaranta… quarantaquater insomma al sarà sta’.

D: Il ’44.

R: Il ’44. L’8 settembre cos’è che è venuto, nel ’43?

D: Nel ’43.

R: ’44, sì.

D: E avevate tutti più o meno quell’età lì?

R: Ma sì, eravamo dei ragazzini, insomma ecco, dei… non dico le parolacce, degli stronzettini che facevamo baccano, e l’unico scopo, che di fatto anche il professor Renato Boeri, amico mio… e tenevamo impegnato appunto un paio di battaglioni di SS, un po’ di camicie nere, dei famosi, famigerati rastrellamenti insomma. Che rastrellamenti… è stata una cosa ridicola per loro, perché venivan su e avevan più paura di noi, perché noi conoscevamo i posti, di sera si andava dentro, si passava in mezzo, ma loro invece avevano una paura matta. Poi veramente, insomma… E di conseguenza… Tante volte mi facevano anche pena loro eh, intendiamoci bene, perché erano dei ragazzi anche loro, insomma, che han scelto… han scelto, non lo so, perché li pagavano bene anche, invece mi […] pö, pagavan nient … [a me non pagavano niente], e in maniera tale che…

Noi eravamo i padroni della zona, gran padroni di tutto: perché la popolazione ci ha aiutato, non per altro. I contadini, i mattai, mattai in dialetto locale, mattai vuol dire ragazzi, questi qua, ragazzi… così, ecco. Insomma, sai, sono momenti che adesso, ritornando dopo cinquant’anni uno diventa, diciamo un po’… non dico commosso perché non bisogna mai commuoversi, però… però fa senso, ecco, dà fastidio. Tu sei contrario perché dici che bisogna sempre ricordare, io invece dico che bisogna sempre dimenticare, perdonare, dimenticare, perdonare fino ad un certo punto, però intendiamoci… dimenticare tutto, cancellare tutto dalla memoria, tutte le memorie negative che abbiamo, e tenere quei pochi elementi positivi che ci sono rimasti.

D: Ecco Alfredo, ascolta, lì nella formazione voi cosa facevate? Quali erano le vostre azioni?

R: Le nostre azioni erano queste: bisognava andare intanto a pigliare qualcuno per liberare quell’altro. Non so se sono stato un po’ troppo conciso. Bisognava andare a fare ostaggi per liberare i nostri che avevano catturato. Allora scendevamo a valle, a Baveno, a Stresa, a Lesa, e prendevamo qualche fascista o qualche… sì, un paio di tedeschi gli abbiamo presi anche loro, e facciamo i baratti. Si facevano solitamente nella zona di Omegna, che era una città libera, una cittadina libera, zona libera, ecco, si calcolava. E lì… allora era ridicolo anche quello, perché c’erano tutti i partigiani, scalcinati, svestiti, tutto quanto, da una parte, i fascisti e i tedeschi dall’altra, e non ci si sparava perché eravamo in zona libera. E lì si facevano gli scambi. Poi ogni tanto insomma c’era qualche treno da fermare perché ci segnalavano che c’era su X che c’era su Y, e allora bisognava per forza per fermarli insomma. E allora… sì ma degli incoscienti però, eh!

D: E le armi? Avevate armi?

R: Molto poco, molto molto poco. E io ero uno dei fortunati che aveva una pistola, un’Astra, me ricordi sempre. Non dovrei dirlo ma dev’essere ancora in giro da qualche parte che adesso non so, non mi ricordo più dove sia, insomma. E poi qualcuno aveva… No, finalmente c’è stato un lancio, nel ‘Lagun’ sopra Massino, nel ‘Lagun’ c’è stato un lancio, allora sono arrivati con degli Sten e il mitra, c’era qualcuno con il mitra italiano, abbiamo preso, poi con quello si andava nelle caserme e si metteva la gente al muro, senza accopparli, perché non si accoppavano, e allora si pigliava un po’ d’armi insomma. E ciao così ci siamo armati, oh Dio mica tante pallottole, poca roba! Si risparmia anche sulle pallottole perché non ne avevamo tante, insomma.

D: E dicevi prima che la gente vi aiutava però.

R: La gente più che aiutarci ci ha assistito, non c’ha fatto rimpiangere la famiglia lontana, ecco. Questa è stata una cosa… una cosa… Le ragazze facevano a gara per volerci bene, per cucire, per legar un butun [attaccare un bottone], tutte quelle robe lì insomma. Ed era una cosa commovente.

D: Da mangiare anche?

R: Ah, beh beh, sì sì. Ma però… io c’ho due amici, Finotti Leonida e Finotti Walter, che son di Rho ferrarese, perchè io ero di Rho milanese, loro erano di Ro ferrarese, ed erano buoni a cucinare. Ciao, noi le donne cuoche non le abbiamo mai avute, abbiamo avuto… ci siamo arrangiati da noi insomma. L’unica cosa positiva ecco che… che a noi arrivavano i quattrini, ecco.

D: E da chi?

R: Dal CLN Milano [Sezione milanese del Comitato di liberazione nazionale, ndr]. Difatti noi quando pigliavamo un vitello, pigliavamo una vacca, una mucca, un toro, una […], una capra, si pagava sempre.

D: Ai contadini?

R: Ai contadini.

D: Quindi i partigiani mica è vero che andavano, facevano razzie?

R: Noi no. Da altre parti onestamente devo dire che… specialmente i garibaldini. […]

D: Della tua formazione?

R: No no, la mia formazione… quella parte lì non era… era benvoluta, era conosciutissima e benvoluta insomma.

D: Quanti eravate?

R: Ma nün [noi]… Ma nün s’era stati, al massimo, al tempo di… in piena estate, eravamo in 40-50 insomma, ma dislocati a destra e a sinistra che sembravamo chissà quanti. Poi dopo durante l’inverno, c’era anche il famoso editto di… cus’è l’é… Alexander[Harold Alexander, comandante supremo delle forze alleate in Italia, ndr], che ha detto “andate a casa, non state qui a pigliare freddo”. Poi dopo siamo rimasti su in 20-25 insomma. Poi, i nostri amici sono andati a ballare al Mottarone. Lì c’è stata la solita spia, la solita ragazza, che li ha segnalati, li han presi quasi tutti. Allora dopo noi siamo andati a Ornavasso per fare appunto gli ostaggi, per liberare quei cretini che sono andati a ballare. Difatti a Ornavasso…

D: Era la fine dell’anno no?

R: Esatto. E a Ornavasso siamo arrivati là il 5 di gennaio [1945]; al 6 gennaio stavamo facendo, mi ricordo, il risotto, con la stufa… arrivano dentro due tre raffiche dalla finestra, padelle e riso dappertutto, tim tum tam, ci siamo buttati per terra. E lì era scappata una spia, tenente… un certo tenente Gallina, non so se è ancora vivo, ‘sto cretino, che non ci aveva avvertito che gli era scappata la spia. E quelli ci han proprio presi con le mani nel sacco insomma. E lì mi abbiamo avuto… mi pare solo un morto. Per forza! Intontiti dalle bombe a mano che tiravano sotto la cascina, tu saltavi per aria con la stufa che l’andava… riso da tutte le parti. E poi ciò, ci siamo arresi insomma. Noi ci siamo arresi, ci han messo al muro e han detto “no no, vi fucileremo dopo”, “boh, ormai siamo in mano vostra”. Invece poi a Ornavasso… perché non ci han portato a Domodossola, ci han portato in regione di Ornavasso. A Ornavasso eravamo dentro sempre in tredici in quella benedetta cella. E io mi ricordo sempre un particolare, stupido ma… però sempre sintomatico. Io li contavo, e siccome partivo da quello vicino a me, ero sempre il tredicesimo, “porca miseria che menagram della miseria del sacripante”. E invece no, m’ha portato fortuna! Perché sono entrati dentro e ne han presi cinque o sei, a pedate nel sedere li hanno portati fuori e li hanno accoppati. Non so dove, sopra le montagne non so… dalla parte di là del Lago Maggiore. Li han fucilati insomma. E noi ci siamo…

D: Subito?

R: Non so, subito… io non credo, grazie a dio. Quelli che han preso li hanno fucilati e noi ci siam salvati perché ci han portati a San Vittore.

D: Ecco ma, scusa, prima era già successo però l’eccidio di Fondotoce […]

R: No, non era ancora successo quello…

D: Non era ancora successo quello?

R: O sì? Ecco, adesso mi prendi in contropiede… No ma mi ricordo, perché c’è una foto con su una ragazza, in stato interessante anche, che porta… quand’è che è stato… non me lo ricordo, mi dispiace…

D: Allora dopo da lì ti han portato a San Vittore…

R: San Vittore, tutti e sei-sette rimasti insomma. Era San Vittore, era quinto e sesto raggio, difatti io ho chiesto anche le carte di Milano San Vittore… di… un certificato di detenzione in questo – difatti le ho qui – in questo carcere. Perciò dalle carceri di Domodossola siam partiti il 10 gennaio del ’45 e siamo arrivati a San Vittore. Non è vero, vedi qua? Non avevano nemmeno la carta da rispondere, no. Allora m’han dato un’altra matricola che era uno tre sei sette [1.367, ndr], dal 19 gennaio al 14 febbraio ’45, poi sono partito per Bolzano.

D: E beh ma lì a San Vittore però cos’è successo? Perché la mamma tua nel frattempo…

R: E, nel frattempo poi si sono mossi tutti quanti, no, perché avevo potuto avvertire i miei, la mia mamma, eccetera. E un bel giorno uno chiama me, chiama con il mio nome. Perché poi tante volte si dava il nome… io davo il nome di Biffi perché era il nome della mamma, e Caloisi che è il nome del papà. E allora […] invece qui a San Vittore davo Caloisi. Mi chiama… e lì pien de pagüra ho dì [pieno di paura ho detto] “Cristiani, è arrivato il mio turno!” e ho salutato tutti, perché naturalmente in quei casi lì ci si saluta, con una certa freddezza, tanto per mantenere un certo contegno. Un contegno del cavolo! Gh’avevi ‘na pagüra de la madòi [avevo una paura della madonna].

Mi hanno portato dentro tutti i corridoi, dentro in di qui [in quelle] tende, erano… lo chiamavano lo scopino, non il carcere, o scopino no. Tim, tum, tam, m’han portato avanti, c’era una suora, e altri due o tre, ho cominciato a stare sul chi va à. E quelli han cominciato l’interrogatorio da terzo grado: poverina, è stata brava, aveva uno sguardo veramente… brava, veramente santa si può dire. E allora “come ti chiami? Di dove sei?”, eccetera, “la tua mamma, sa la fa [cosa fa]?” e tüt chi rop lì, e io… “cosa faccio con questa qui? Cus’a l’è, l’è ‘na falsa suora, l’è una spia, l’è una madonna di quelle lì che stanno torturando la gente?”. E invece no, e invece dopo alla fine ho detto “senti, io tanto ormai qui sono… perso per perso, insomma se la parla più, se la parla”. […] tutta la rava e la rava della mia famiglia, insomma di dov’ero, di Rho, la Piazza San Vittore, la drogheria, la mia mamma, eccetera eccetera… Eh, quell’incosciente di mia mamma, ma roba, son qua che pensi, ancora adesso la pelle d’oca.

D: Perché incosciente?

R: Ma perché la mia mamma è sempre stata una… una donna abbastanza sfegatata perché aveva il negozio in piazza, però parteggiava naturalmente per la mia corrente insomma, no. Lei era distributrice dello zucchero, per chi aveva la tessera, tüt in mezz ai sac, gh’era là i mitra, gh’eran là i rob, i bumb a man [in mezzo ai sacchi c’erano i mitra e le bombe a mano].

D: Questo in piazza San Vittore…

R: In piazza San Vittore a Rho.

D: Aveva il…

R: Sì, sì, era il negozio, sì. E allora, ritornando alla suora, mi dice “e allora tu sei l’Alfredo?”, io ho detto “ma nessuno mi chiama Alfredo”.

D: Che nome di battaglia avevi?

R: Era il Dino. “Tu sei il Dino!” E allora ho detto “vabbè, questa qui, se pö fidass di quéla dona” [ci si può fidare di quella donna]. E insomma m’ha imbottito di marmellatine, di pacchettini, pacchettoni, tim tum tam, denta de chì, föra de là [dentro qui, fuori di là], con tutti ‘sti camiciotti: fatto sta che sarò aumentato di 30 o 40 chili, insomma, con tutte ‘ste robe qua, no! E poi dopo, il brutto era tornare indietro. Per tornare indietro al povero scopino a momenti gli viene un infarto, perché abbiamo incontrato il famigerato Franz, figlio d’un cane lì [Franz Staltmayern, SS-Rottenführer, carceriere di San Vittore, ndr]. E allora quando si incontrano quelli lì ci si mette sull’attenti. Siamo sull’attenti, ma m’è venuta una pancia che non la finiva più, e invece lui era con ‘sto cane, con ‘sto maledetto cane, un bellissimo cane, quello lo devo dire, eccetera… Insomma, è andato. Sono andato in camera, mi sono saltati addosso tutti, tim tum tam, infatti…

D: In cella sei andato…

R: Come?

R: In cella, non in camera.

R: Sì, in camera, pardon, in cella. Sì, scusa, sono andato in cella… Lì han tirato fuori loro, naturalmente ho diviso quello che c’era, si divide e non se ne parla più. Allora uno accende ‘sta sigaretta, non tira, “o porca miseria, cos’è? che sigarette mi ha dato la mia mammina?”. E invece no, erano tutti bigliettini dentro! Difatti io ne conservo ancora qualcuno, difatti, dov’è che è, dovrebbe essere qui dentro… perché il bigliettino è quello che ha scritto mia mamma e mia sorella, eccetera eccetera. Poi, siccome arrivava il cagnolino… eccolo qua! Io ero molto magro no, con le gambette: “Caro bambino… gambino, io sto bene, il latte e miele anche, Enrico pure, stiamo facendo un mese di campagna, bacioni tua sirocchialina”, mia sorella questa qui; invece la mia mamma “tanti bacioni grossi, grossi, anche dal micino e da Jolie”, che l’era il micio del micio, Jolie era il cagnö [cagnolino], difatti mi ha messo le impronte del gatto e del cane.

D. Sul biglietto.

R: Sul bigliettino, un pezzo di carta…

D: … che aveva nascosto dentro nel pacchetto.

R: Nel pacchetto delle sigarette, insomma… Questo… E ci han detto appunto – non li trovo tutti, chissà dove sono messi gli altri [bigliettini] – e ci han detto nel trasferimento di scappare. Perché tanti scappavano, [nei] trasferimenti da Milano a Bolzano, in pullman, riuscivano a scappare. Di tentare di scappare che “ti presenti”, m’han fatto dire anche che “ti presenti dalla zia”, che c’era lì per andare a Lainate, che “qui in piazza non farti vedere però, perché, insomma…” E invece no! E invece, quando c’han portato via, c’han portato via… io non so… io sono convinto che ci abbiano un po’… non dico drogato, però ci han dato un sacco di calmante: che ci siamo non addormentati, però eravamo in uno stato di ebbrezza, uno stato di relax ecco, diciamo. E siamo arrivati a Bolzano.

D: Questo era? Te lo ricordi quando?

R: Eh sì. Me l’han detto il San Vittore, il carcere di San Vittore, figurano dagli archivi del carcere di San Vittore. L’ho legiü chì [l’ho letto qui]…

D: Poi la tua accusa: tu eri stato accusato di cosa?

R: Dal 19 gennaio al 14 febbraio. 14, 15 febbraio del ’45. Son partiti per Bolzano, insomma.

D: Con altri?

R: Erano sette o otto pullman.

D: Ah, in pullman, in corriera.

R: Pullman, corriera, corriera. Difatti noi siamo [a] pensare “adesso qui tu lo prendi, lo blocchi, noi saltiamo giù dal pullman, tu vai di là, vai di qua” e invece eravamo rimbambiti, ci han dato del tè. Io non so che cristiani c’han dato bere. E non abbiamo fatto niente.

D: Così siete arrivati a Bolzano.

R: Siamo arrivati a Bolzano.

D: E lì a Bolzano, come sei entrato…

R: Eh, Bolzano lì cominciamo con la storia della croce in testa, la croce sul vestito, la croce sulla tuta, tutte ‘ste robe qua che… che quello che ha talmente, diciamo, impressionato noi, e dopo anche adesso impressiona solo a pensarci, è il fatto che devi metterti sull’attenti quando passava un tedesco. E c’era quella… – non dico le parolacce perché non si possono dire le parolacce – c’era quella fanciulla delle SS che era la più cattiva: era una donna, più sé cattiva. Ecco, da lei ho fatto a tempo a prendermi 3 o 4 nerbate perché non l’ho vista, la veniva dé dré [da dietro], e allora le ho prese. Ma il resto me la sono cavata bene, insomma.

D: Le hai prese ma non avevi fatto nulla.

R: No, non ho fatto niente, però se non ero sull’attenti quando passava lei… perché stavo, non so, parlando con qualcuno, e non ero sull’attenti. Allora, non essendo sull’attenti, quella si è permessa… si è permessa, si è sentita in dovere di… di darmi un paio di nerbate. Sì perché il terribile, lì a Bolzano, non è tanto il fatto di essere dentro – va beh, di esser dentro, mangi poco, diventi magro – il fatto di non entrare dentro in quelle famose carceri, diciamo.

D: Nelle celle.

R: Nelle celle. Perché quando entri dentro lì c’erano gli ucraini mi pare – ecco, vedi che ricordo bene – c’erano gli ucraini che davano botte della madonna, dell’accidente insomma. Chi entrava lì pigliava una batosta dopo, una legnata di quelle, difatti ogni tanto vedevamo le casse da morto che uscivano insomma. Arrivava un bolzanino diciamo, cul caretìn e la cassa da morto… È il novantasette sessantuno, triangolo rosso.

D: Perché avevi il triangolo rosso?

R: Perché il rosso erano i famosi politici, erano i famosi partigiani politici, quelli presi con… si può dire con le armi. Perché il giallo erano gli ebrei. Che anche lì, va beh, ‘sti ebrei, son brava gente, intendiamoci, però loro avevano il pane e noi non l’avevamo. Questo che non riuscivo…

D: Lì a Bolzano?

R: Anche a Bolzano. Loro viaggiavano con le pagnotte lunghe, loro riuscivano ad averle insomma, erano organizzatissimi. Difatti è un popolo abituato a lottare, abituato a dar da mangiare, ad arrangiarsi insomma. E loro… ogni tanto qualcuno si muoveva a pietà e me ne dava un boccone.

D: Ascolta, il blocco non te lo ricordi?

R: Eh no caro, no no. Io mi ricordo solo, io non so nemmeno se sono sicuro se ero dentro o fuori, se ero lì vicino… il fil di ferro, c’era del fil di ferro lì, dei recinti, adesso non so se ero dentro, non mi ricordo più se ero dentro o fuori insomma. Fatto sta che per poter avere il pane lì, cambiando discorso, bisognava andare alla stazione, a cercare le bombe. Ci incolonnavano, ci portavano là, bisognava pulire dove avevano bombardato i cosiddetti alleati insomma. Allora ciao, lì un po’ di pane te lo davano insomma. Sì, però rare volte m’è capitato. Delle volte… perché poi ti danno ‘sta tuta, la tuta con la bella croce rossa sulla schiena, caro mio: non te podet scapà lì [non puoi scappare lì], sei subito individuato.

D: Eri un bersaglio…

R: Ma sì, ma anche quei ragazzi tedeschi lì che – non so se erano tedeschi o se altoatesini – non erano delle carogne onestamente, non c’hanno mai maltrattato, salvo le nervate che davano quando… la SS non ti mettevi sull’attenti. Ma tutto sommato tranquillo lì. Anzi me ne ricordo uno che… Una volta siamo andati verso le Gallerie di… [suggeriscono Vipiteno, ndr] Vipiteno, che c’era da spostare dei torni. ‘Ste gallerie erano piene di ogni ben di dio, torni, miga torni, frese, macchine, utensili vari, roba del genere insomma, perché loro spostavano per portarle in Germania. Là c’era uno che veniva dalla Russia, aveva perso un occhio, e appoggiava lì il mitra e se ne andava per i fatti suoi. Il mitra senza caricatore, eh! Difatti noi si pigliava in mano ‘sto robo – non il mitra, loro avevano il Maschinenpistole – si pigliava in mano ‘sto Maschinenpistole, tant gh’era lì nient, gh’era nün [non c’era lì nessuno, c’eravamo solo noi], perciò si guardava come era fatto, eccetera eccetera; poi si metteva lì e si andava avanti a pulire la sterpaglia lì, cosa diavolo ci portavano a pulire insomma. Ma maltrattamenti no, salvo appunto le legnate come si era detto.

D: Ecco però tu hai visto all’interno del campo delle violenze?

R: Eh sì, per forza, insomma, quello sì. Specialmente c’era uno… mi ricordo di uno che rientrava da Mauthausen, era uno scambio, ed era pelle e ossa. Nonostante fosse quello lo picchiavano a tutto andare, ‘sto povero cristo, non so nemmeno io, è successo verso il mese di… sarà stato aprile, così, aprile-maggio. Non so perché lo picchiavano, dovevano fare il cambio, l’han portato, è stato uno scambio di prigionieri come al solito. E invece… E poi dopo no, ogni tanto quando ci mettevano sull’attenti se non eri allineato, t’arrivavano dietro. Io non le ho mai prese grazie a dio, perché allora ero giovane, allora avevo l’occhio clinico, a stare in marina mi avevano abituato a stare in fila. Invece qualcuno magari, poveretto aveva una certa età, allora lì sì poveretti, li pigliavano e non potevi nemmeno aiutarli ad alzarsi perché altrimenti le pigliavi anche tu. Allora dovevano stare in terra, poi si tiravano su e si mettevano lì. Il famoso ‘appello’ lo chiamavano loro. Appello, sì. Quello era l’appello della morte.

Poi invece, io sono dovuto andare in infermeria perché… ce l’ho anche adesso una punta di pleure. Mi ricordo il nome Ferrari – non so se era un infermiere, se un professore, se è un medico che era lì – ecco, m’ha dato delle pastigliette, aspirine probabilmente erano, “cerca di stare lì sdraiato, non muoverti, in branda, è l’unica cosa”. Difatti anche adesso, quando vado dal dottore “ma lei qui deve fare delle analisi”, “no non no, non faccia nessuna indagine perché io so, la punta [di pleurite] ho avuto, eccetera” e allora c’era ancora l’acqua, sentono [espressione onomatopeica] i dottori […]

D: Ascolta, ti ricordi se c’erano anche delle donne lì nel campo?

R: Sì, c’erano le donne. Anzi le donne erano… Quando c’è stata la cosiddetta liberazione, mi pare in maggio, le donne… mi sembra d’aver sentito che le donne sono riuscite a mettere le mani addosso alla SS femminile insomma, la ‘Tigre’ sì [Hildegard Martha Luisa Lächert, anche Hilde Lächert), ndr], e l’abbiano fatta fuori, però non sono sicuro di questo qua perché l’ho sentito dire, perché noi eravamo fuori, per lavoro.

Allora una bella mattina siamo tornati indietro – ripeto, era maggio – siamo tornati indietro nel campo, abbiamo visto tutto un caos, roba tutta per aria, e tutto quanto, gente che si dava da fare, gente che scappava di qua, gente che andava di là, “i tedeschi?”, “eh, i tedeschi non ci sono più”, “porca miseria!”. Allora mi ricordo che c’è stato uno che, un bolzanino, il quale si avvicinava e diceva: “sentite, voi siete giovani, siete partigiani col coso rosso lì, il triangolo rosso, venite su in montagna con noi.” Al che, gentilmente, gli ho fatto il gesto dell’ombrello, perché ho detto, ho salvato la pelle fino ad adesso, non vorrai mica che venga su in montagna a crepare proprio qui a Bolzano!” Perché normalmente, essendo un estraneo del luogo, questi nelle faccende pericolose mandavano avanti te, che non sai chi è, che non ti conoscono. Difatti ho detto “no guarda, ti ringrazio, dobbiamo rientrare in famiglia noi, ne abbiamo sufficienza di armi, di partigiani”.

D: Nel periodo in cui sei rimasto a Bolzano la tua mamma non ti ha più contattato?

R: No. Eh no, non poteva.

D: Quindi non facevi…

R: No, la mamma aveva tentato onestamente… aveva tentato di mandarmi su un tedesco con il sidecar, quelle macchine che avevano loro. Mi ricordo che aveva detto che ‘sto tedesco doveva avvicinarmi nel campo, mi prendeva, mi sdraiava nel sidecar e mi portava a Milano, sdraiato nel sidecar, figurati che viaggio avrei fatto! Però poi non l’ho più visto. Si capisce che l’hanno ammazzato loro o… si capisce che lo faceva per affari, per soldi. Però non l’ho mai visto, insomma.

D: Quindi ti faceva fuggire, in poche parole.

R: In poche parole ha tentato di farmi fuggire da Bolzano.

D: Ecco, che tu ricordi, da Bolzano qualcuno è riuscito a scappare?

R: Sì sì sì. C’era un francese che è scappato tre volte. Non so come faceva. Era un ragazzotto anche lui eh, avrà avuto diciotto, vent’anni, ventitré. Tre volte l’è scapà, tre volte l’han sempre ciapà e l’han purtà indré [è scappato, l’hanno preso e portato indietro]. E noi una volta abbiamo tentato di muoverci, ci siamo trovati in mezzo a un’antiaerea, [vocabolo tedesco incomprensibile, ndr]. Perché si sentiva nell’aria che c’era già un rilassamento, che c’era già una certa… non c’era più quella disciplina ferrea dei primi mesi di febbraio, così… gennaio, ormai lasciavano un po’ correre. E allora anche noi non si rischiava più, era inutile rischiare: se resisti, se non crepi di fame prima, non devi rischiare. E difatti noi tre, che stavamo sempre uniti, quelli là di Ferrara e io, quei due là e io eravamo sempre assieme ma… La cosa buffa è stata quando siam tornati. Quando siam scappati noi anche noi perché… scapan tüt scapam anca nün, sem miga stüpid del tüt, insomma [scappano tutti scappiamo anche noi, non siamo del tutto stupidi]. E allora quando si incontravano le colonne dei tedeschi si aveva paura, perché quelli lì mi pigliano e mi sparano alla schiena per vendetta. Allora era un via vai continuo, tra la strada, la stradina […] e la campagna, che si vedeva una fila di tedeschi: bom, scapa denta a nasconderti perché avevi paura, insomma, abbiamo salvato la pelle fino adesso, adesso dobbiamo… forse qualche esaltato che spara. Siamo arrivati al lago di Garda.

D: Sempre a piedi.

R: Ah beh naturale. Al Lago di Garda incontriamo il primo negro, americano, un bel negrotto, bel rotondo, bel… Allora cominciamo a parlare un po’ in italiano, tutto quanto, e mi ricordo che dice “voi Germania, dalla Germania?”, “sì dalla Germania, vado a Milano”, e l’altro “io vado a Ferrara”, “e allora venite con me”, “va beh, d’accordo”. E ci ha portato su questo carro armato. Ve beh. “sedetevi, sit down”, “va beh, setas giö” [siediti giù]. Questo qua si muove, [pensiamo]“forse abbiam trovato un mezzo di trasporto”. ‘Sto carro armato si avvicina e va verso il lago. Cominciamo a guardarci in faccia noi no, “oh, verso il lago, ma questo qui cosa fa? Ci vuole far annegare tutti quanti?” Si avvicina e non si ferma! Insomma, fatto sta che abbiamo fatto ridere quegli americani là, perché noi, 21-22 anni, mai visto un mezzo anfibio, e di quelle dimensioni poi, no. Invece lui tranquillo è entrato in acqua, toc-toc-toc, è andato e ci ha portati dall’altra parte. Ecco, una cosa ridicola che mi ricordo molto bene nel rientro è stato quello lì, insomma. E ci hanno ringraziati loro, ci han dato… solita storia, un po’ di cioccolato, qualche sigaretta, eccetera eccetera, “ah, tu non lavoratore?”, “no, io no”, “toh, cioccolatino, teh!”, e ciao insomma. Brava gente questi americani.

D: E poi sei arrivato a Rho?

R: Siamo arrivati a Milano. A Milano ho trovato i miei, i miei della Valtoce. Il professor Boeri l’ho trovato a Milano, il Renatino, e difatti “menomale che sei qui…”, tim tum tam e dopo sono andato a Rho. Lì, con la mia mamma che mandava il fidanzato di mia sorella con le macchine che c’eran lì, con il biroccio – c’era il biroccio – col cavallo, verso Milano, per tentare di trovarmi. Invece io, non lo so come ho fatto, sono arrivato a casa. Lì dopo, sono stato intervistato anche lì, nella mia Rho. Sai, ero diventato un po’ un eroe nazionale. Adesso però mi viene da ridere a pensarci.

D: Come, ti viene da ridere?

R: Mi viene da ridere a pensarci perché per me son tutte – ripeto, tu sei contrario – tutte cose da dimenticare, da non ricordare più… perché quando le vedi ti manca un po’ il fiato, ti manca la parola, non va bene. Non va bene, non è giusto, non è giusto, io la vedo così, non dobbiamo rivangare sempre, se no la finissum più de [non finiamo più]: noi odiamo loro, loro odiano noi, basta. Io non sono un cristiano al cento percento, cattolico praticante. No, sono un cattolico, normale, però, per questa cosa qui invece… perché dimenticare non puoi, insomma ecco, non puoi dimenticare.

D: E perdonare?

R: Ma io non perdono, è un fatto mio personale, capisci, è una sensazione psicologica che tu c’hai dentro nell’animo e te la devi tenere. Ed è un diritto il fatto di trasmettere questo tuo odio interno sugli altri affinché odino questi? No, basta, se no la storia non è mai finita, santo cielo, insomma, mai mai… Anche lì, quando son tornato, sono andato lì a Baveno, nella nostra sede. Ho fatto un mese d’ospedale no, per rimettermi un po’ in sesto tra la pleurite, la rogna, la scabbia, tüt qui rob lì che g’evi doss [tutte quelle cose che avevo addosso]. E anche lì “dovete odiarli!”, “no, non odiamo nessuno, abbiamo salvato la pelle, state buoni, non vale la pena diventar scemi, per che cosa dobbiamo odiare? non odiamo più, basta, non parliamone più”. E invece tu mi fai parlare, e ciao, adesso io stupidamente ho parlato.

D: Quanto pesavi, ti ricordi?

R: Sui quarantasett’, quarantott’ chili, insomma. Eh beh, sum màgher [sono magro] di costituzione. Ah, la mia mamma… magro di costituzione, questa croce qui in testa, màgher cum’è un picasch [molto magro], come si dice dalle nostre parti. La mamma diceva: “Madonna fiö, cum’è te sé mai brüt, cum’è te sé mai brüt” [figlio, come sei brutto]. Mia mamma me lo diceva, ogni tanto me lo diceva, poverina. Santa donna.

D: E i tuoi amici invece? Non gli amici della formazione, non i compagni… ma gli amici di Rho.

R: Eh, gli amici di Rho ogni tanto li trovo qualcuno. “Oh sai dov’era questo?”, “sì, dove?”, “nella Decima Mas”, “ah, figlio di un cane!”. Però basta insomma, se no…

D: No, dico, quando sei tornato, i tuoi amici, il lavoro, hai trovato…

R: Eh no, mi son messo a studiare. Ho voluto fare il furbo, mi son messo a studiare. Anche qualche esame l’ho fatto bene. Dopo ho voluto esagerare, preparare 5, 6, 4, 3-4 esami alla volta, difatti poi dopo è stato un esaurimento nervoso dopo l’altro insomma. Io ho dovuto anche… all’università ho dovuto anche… non dico che ero uno studente modello, intendiamoci. Sì, un po’ un lazarun [lazzarone] insomma. Però tra tutti ‘sti esaurimenti, e tutte queste… abbattimenti che avevo, basta, sono andato a lavorare. U truvaà lì el me amis Peppino, un altro lui buono, come partigiano, come… Pino Restelli, e m’ha messo dentro alla Snam, che allora c’era un certo rispetto, insomma…

D: Nei vostri confronti?

R: Sì sì sì, un certo rispetto. Però ripeto, io non sono… Mi ricordo che… adesso mi vien da ridere, pensando che i comunisti ci chiamavano l’Opera pia. Perché noi avevamo il fazzoletto azzurro no, la Valtoce, fazzoletto azzurro “ehi, Opera Pia!”, “ué, tass lì, delinquent d’un Stalin” [taci delinquente], ed è risolto il problema. Ci scambiavamo così, ecco. Sì, perché loro erano dei mostri. Quando c’è stato il lancio nel lago di Lesa loro tentavano di rubarci le armi, abbiamo dovuto difendere le armi con le armi, insomma, perché altrimenti erano… Avevano… Loro organizzatissimi, più di noi. Avevano i commissari loro. Ammazzavano quello, un colpo, tac, l’ammazzavano come niente. Perciò non era un assolutismo che andava bene a tutti. Ma anche non solamente a chi aveva studiato, anche a quegli altri ragazzi. Infatti con noi avevamo, mi ricordo, questi due ragazzi qui, di Ferrara, questo qua di Milano, il ‘Mentino’, il panettiere, e poi il Patissi di Varese, di Stresa, eccetera, e anche a loro non andavano questi metodi da… Però i comunisti […] avevano messo tutti dentro nelle bande garibaldine, insomma, loro dovevano tenere per forza questa disciplina ferrea. Infatti… i garibaldini bisogna levare tanto di cappello anche a loro, intendiamoci bene. I garibaldini han combattuto bene anche.

D: Han dato un grosso contributo anche loro…

R: Sì sì, no… ci mancherebbe altro, per forza. Però non devono egemonizzare, non devono “che siamo stati solamente noi garibaldini, noi…” comunisti, o che diavolo sian. No no no, questo… Tutti abbiamo fatto la nostra parte. Basta, insomma…

D: Ecco, ascolta, questa tua scelta poi, sia di partigiano, l’esperienza di S. Vittore, l’esperienza del lager su a Bolzano, t’ha pesato poi nella vita, dopo?

R: Cosa vuoi che ha pesato, insomma, devi solo pensare di reagire. Ecco qui… io mi sono salvato perché ho sempre reagito in modo positivo, no! Ho sempre combattuto l’abbattimento. Quando ti passava ‘sto […], ti mettevi sull’attenti, guarda che quello distrugge la psiche dell’individuo, la personalità dell’individuo, rovinarlo, renderlo… abbrutirlo – tipo gli ebrei che erano nei campi di sterminio – abbrutirlo, renderli proprio degli esseri amorfi. […] magari con parolacce eccetera, però bisognava per forza reagire, se no ti lasciavi andare ed eri finito.

D: Ecco, cos’è che ti teneva, avevi un progetto speranza, un ideale, dei valori che ti caricavano?

R: Ma no, no, non andate nel difficile con tutte ‘ste belle domande. Non c’era né speranza né… gh’era dumà [c’era solo] la volontà de tornare a casa e di resistere fin quando l’era possibile ecco, di ritornare sano e salvo a casa, di portare a casa la pelle, ecco, come volgarmente si dice. Salvà la pèl [salvare la pelle] e nient’altro. Che ideali! La patria! Ormai, dopo, la patria, di fronte ai mitra e ai tedeschi la patria la va un po’ nel limbo, insomma. Tu ti devi per forza rinchiudere un po’ in te stesso e pensare di salvare le apparenze, di salvare la tua pelle, in poche parole, capisci? Tutti questi ideali scompaiono di fronte… in quei momenti, quando sei preso e messo al muro non ti vengono mica in mente gli ideali. La pagura de scapà [paura di scappare]. È tutto lì il pasticcio. Capisci?

D: Ecco, e lì hai raccolto in questi anni…

R: Eh, queste qua sono cose che…

D: … non tutto, però parte di questa tua storia, di questa tua esperienza. I documenti…

R: Sì, i documenti della divisione Valtoce, della divisione… no, questo qui è di quando ero in Marina, no, non si vede, non era qui. Forse questo invece, quello dove si vede la croce in testa insomma. Poi dopo qui sono tutti i miei documenti, tutto quanto, che m’ha scritto appunto la commissione… il comandante Brigata il Mottarone. Ah già, perché pö gh’era anca il Giulio, il Tom Mix, il mio capo diretto allora, quando eravamo ancora nella cosa… Poi dopo c’era Commissione qualifiche partigiani, boh… Alla fine dopo si è inflazionato anche ‘ste storie qua insomma. Son lì, i primi che ho raccolto e me li son tenuti. Poi vediamo qua, divisione Valtoce, brigata Mottarone Abrami Franco, “La mia vita per l’Italia”. Sì, son tutte belle cose, che ci vogliono intendiamoci […] questa lettera che ho scritto io … carcere di San Vittore in Milano, sottoscritto eccetera eccetera, quando m’han detto che… Il tuchett’ de carta qui, che la fanciulla la conosce.

D: Cos’è quel pezzo di carta lì?

R: Ah, me lo son fatto tradurre. È stato rilasciato dal lager di passaggio Bolzano. Perché Bolzano forse per loro era un lager di passaggio, perché da lì poi dovevi andare a… noi eravamo destinati a Mauthausen, o a Mauthausen o a tanti altri campi che voi conoscete, insomma. Dice qua “quando è arrivato a destinazione, rendere noto e firmare. Il Comandante del lager”, toh l’umbrèla! [gesto dell’ombrello], e così sono venuto a Milano [ride]. Eh sì, mi vien da sorridere, se no caro mio la vita è triste, osti, dai su. I più bei pezzi di carta che ho qui sono questi qua della mia mamma che l’aveva mandà cun sü i sciampin del gatt e del can [con su le zampe del gatto e del cane]. La mia mama l’è propri ‘na bella sagoma, anche lei. I scampin del gatt e del can. Ve beh, questa l’è propri la fantasia di una donna, una Biffi di… milanese proprio.

Marchetilli Francesco

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Marchetilli Francesco, nato a Roma il 12/8/[1]926. Incomincio adesso a dire…? Allora, 7 febbraio 1944, Piazza… vicino Piazza Venezia… Non mi ricordo più il nome della piazza, guarda un po’, me mancano le parole. Come se fa?

D: Dopo ti verrà in mente dai.

R: Mannaggia la miseria…

D: Vicino a Piazza Venezia cosa è successo?

R: È successo che… ma tu guarda te… La piazza… la piazza era occupata da tutte le macchine tedesche, dalla armata tedesca, tra cui c’era un camion e io, insieme con un altro compagno, eravamo… andavamo a caccia per portarselo via, insomma. Non ci è riuscita, la macchina non è partita, i tedeschi ci hanno corso appresso, ci hanno sparato e ci hanno portato a via Tasso. A via Tasso sono stato 14 giorni. Da quel momento, dal momento che sono stato arrestato, non ho conosciuto altro che botte da tutte le parti.

D: In via Tasso vi hanno messo in una cella?

R: In una cella che era una stanza con la finestra murata senza mobili, con una pedana, solo che faceva da sedia, da urino, da letto, e ogni volta che entrava il tedesco mi dovevo alzare appena sentivo aprire la porta, dovevo stare in piedi sull’attenti. E la prima volta me l’ha fatto capire a forza, a suon di calci in pancia, in testa, da tutte le parti. Poi mi hanno messo in cella insieme a me della gente che non era… che il mio sesto… sesto… come si chiama? sesto senso mi ha avvertito che erano spie, che volevano solo sapere: parlavano troppo, io non parlavo per niente, loro volevano sapere, volevano sapere, e poi li hanno levati. Poi un giorno mi hanno fatto uscire dalla cella…

D: Ecco, scusa un attimo Francesco, perché ti hanno arrestato?

R: Perché… perché ci stavamo portando via una macchina, tipo camion, quelle militari cariche di armi e di munizioni, che non è partita.

D: Ma tu e chi?

R: Io e un altro compagno.

D: Ma eravate in un gruppo partigiano?

R: In due, in due. Eravamo in due.

D: Facevate parte di una formazione partigiana?

R: No. No no.

D: Poi dopo via Tasso una mattina ti hanno…

R: A via Tasso… Poi, un giorno, la sentinella mi ha fatto uscire dalla cella, mi ha fatto fare dei piani. In uno di questi corridoi mi sono incontrato con un prigioniero come me che era portato a braccia da queste SS, era tutto sanguinante sul volto, era tutto pieno di sangue ed era privo di sensi. Lo portavano via, lo strusciavano. Poi mi hanno aperto una porta, mi hanno scaraventato dentro e dentro c’era un campione di lotta libera, un pugile, coi pantaloni di cuoio, con la canottiera a torso nudo che mi ha fatto poggiare le mani sopra una sedia e io mi sono risvegliato nella cella, mi sono preso un gran colpo sulla… qui, sulle spalle. Poi mi sono risvegliato nella cella, stavo sdraiato per terra che non mi potevo muovere dal gran dolore che avevo in tutte le parti. Ero a pezzi.

Dopodiché, dopo altri giorni mi hanno fatto rialzare, mi hanno portato in una stanza normale, tutta piena di poltrone, di macchine da scrivere, liquori, sigarette. Una stanza normale. C’era un interprete, c’era la macchina da scrivere, c’erano gli ufficiali tedeschi che mi hanno interrogato su fatti accaduti, su sabotaggi che erano stati fatti in tutta la città prima e dopo. Al che io non sapevo niente e dopo ho fatto una deposizione, nel senso che Radio Londra diceva che a ognuno che se portava via un camion, una macchina lì ai… ai tedeschi, rimaneva di loro proprietà. Tutto lì, è finito così. Mi hanno fatto firmare e m’hanno mandato via. Mi hanno portato a via Lucullo, al Tribunale militare tedesco. E lì c’era un grande salone, un grande tavolone ovale, con la bandiera tedesca sopra il tavolo, e… la fotografia di Hitler. È stato un processo regolare, e sono stato condannato a due anni insieme a quell’amico mio. Mi hanno chiesto se invece di passarli in campo di concentramento, se li avrei voluti passare lavorando in Germania, cosa che ci siamo guardati e abbiamo detto di no. Preferivamo il campo di concentramento. Siamo ritornati al terzo braccio, a Regina Coeli. Sono passato indenne dalle Fosse Ardeatine, e alla fine di aprile siamo stati chiamati, io e 80, 70-80, insieme ad altre donne, che erano ventina. A piano terra c’era una… un’interprete polacca chiamata Elisabette, che ci ha detto che eravamo stati tutti condannati e dovevamo scontare la condanna in campo di concentramento in Germania, in campo di concentramento in Germania. Dovevamo essere quelli che eravamo lì, ci dovevamo contare perché se ne mancava uno, dieci li avrebbero fucilati.

Siamo stati portati fuori da Regina Coeli, fuori c’erano dei camion. Ai bordi della strada c’era mia madre, mi ha chiamato, e gli ho fatto un salto per andarle incontro, e qui c’ho una cicatrice, non so co’ che m’è stata fatta, insomma… da un soldato tedesco che stava lì, e mi sono svegliato sul camion di notte che stava in marcia diretto a Firenze. A Firenze, a Campo di […] alla stazione, ci hanno portato sopra i vagoni ferroviari. I vagoni ferroviari… Era un treno che andava pianissimo, che uno poteva saltare giù, si poteva buttare, e nessuno si è mosso. Si fermava alle stazioni, noi scendavamo, andavamo al bagno e rientravamo. Ad ogni stazione agganciavano vagoni, vagoni di roba. Noi speravamo in un bombardamento, i Partigiani, per una fuga in massa, cosa che non è avvenuta. All’ultima stazione abbiamo lasciato gli indirizzi a un ferroviere che ha spedito una cartolina a casa, l’ultima… l’ultima notizia di noi, insomma, che stavamo per passare la frontiera. Arrivati a Bolzano era notte. Era tutta bombardata, era tutta a ferro e fuoco. Ci hanno portato nel campo di concentramento, e la mattina sulla piazza del campo di concentramento ci hanno ordinato di spogliarci tutti nudi. Cosa che noi ci siamo guardati… e lì c’era l’interprete e diceva: “nudi, tutti nudi, tutti nudi”. Abbiamo cominciato a spogliarci “Nudi, nudi!”, proprio nudi nudi. Spogliati tutti, i detenuti come noi, i detenuti insomma, già lì del campo, hanno preso tutto.

D: Scusa Francesco, dicevi il campo di?

R: Dachau.

D: Ah no, perché avevi detto Bolzano…

R: Ho detto Bolzano? Dachau.

D: Quindi a Dachau.

R: Dachau. Dachau. Roma – Dachau tutto dritto. Ci hanno tosato, una squadra di tosatori ci hanno tolto tutti i peli del corpo, tutti i capelli, poi una squadra con dei pennelloni con disinfettanti che un bruciore… che ci ha fatto rotolare per terra dal gran bruciore. Poi di corsa dentro al bagno dalla doccia che l’acqua ci ha lavato, ci hanno passato una divisa e il numero. E lì siamo andati nella baracca.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: Sì. Sessantasettemila duecentotrentasei [67.236].

D: Assieme al numero ti hanno dato anche qualche altra cosa?

R: Mi hanno dato… Me l’hanno scritto loro il numero, scritto… perché prima ci siamo scambiati… perché a me la giacca era lunga, l’ho data a uno che me l’ha data più corta, i pantaloni abbiamo fatto un cambio, fino che tutta la roba che ci hanno dato ci siamo vestiti. Poi c’è stata una persona che ci ha cucito sopra la giacca il numero e il triangolo rosso con la I, Italia, anche sui pantaloni, anche qui sui pantaloni. No, numeri… numeri niente. I numeri… [indica l’avambraccio, ndr], i ta…

D: Cioè non ti hanno dato un braccialetto?

R: No, no, no. Tatuaggi… niente.

D: Dicevo, un braccialetto di metallo con il numero tuo? No?

R: No. No.

D: E poi ti hanno messo nella baracca di quarantena?

R: Tipo di quarantena, perché il martedì e il venerdì il nostro gruppo sparivano due, tre, due, tre, due, tre, alla fine che… poi sono stato chiamato io e m’hanno portato a lavorare al Kabel zelegum [Kabelzerlegung, ndr].

D: Il numero della baracca di quarantena… della tua baracca te lo ricordi?

R: Non me lo ricordo. Io penso che ero in quarantena, non lo so.

D: Ti ricordi il numero della baracca?

R: Quella nostra italiana era… 25.

D: Di Dachau?

R: Di Dachau, sì.

D: Ecco, poi dicevi che lì sei stato chiamato per il lavoro.

R: Ho cominciato a lavorare, m’hanno mandato a Kabel… era chiamato Kabel Zelegum, Zelegum, e con me avevo… ho trovato il nome lì e adesso non mi ricordo… Mario…

D: Ed era un altro italiano?

R: Un altro italiano. Abbiamo lavorato insieme, facevamo dei lavori sopra il ferro lì, un freddo che non finiva mai.

D: Ma dov’era il posto di lavoro, nel campo o fuori?

R: Era… era… non mi ricordo, o fuori, proprio al limitare, o dentro. Una fabbrica che stava proprio lì attaccata, proprio vicino. Kabel Zelegum.

D: E cosa facevate voi?

R: Eh, il lavoro sul ferro, su dei cavi di ferro… di… di togliergli l’involucro, di tirare fuori il metallo da questi ferri, da questi tubi che erano.

D: E questo fino a quando?

R: Eh, non me lo ricordo quanto tempo ci sono stato lì. Poi sono… m’hanno mandato alla Messerschmitt. Alla Messerschmitt che era dentro al campo, era proprio dalla cucina, quando incomincia il viale che c’erano tutte le baracche, a sinistra, o primo o secondo, o secondo… era il Messerschmitt. E lì lavoravamo, facevamo dei lavori per questo aeroplano, che poi venivano controllati da un Obermeister privato, non era del campo di concentramento. Poi lui li sigillava, e poi c’è stato quel… quell’ufficiale russo che aveva trovato il sistema, dopo che l’Obermeister l’aveva sigillati, li manometteva, aveva fatto il sabotaggio. Scoperto, è stato impiccato davanti a noi. Di notte c’hanno svegliato e abbiamo trovato la forca già preparata. Abbiamo assistito a questa impiccagione.

D: Lì in questa fabbrica qui della Messerschmitt c’erano altri italiani con te?

R: Ma non mi ricordo perché… non era facile… non mi ricordo adesso.

D: Ascolta, e quante ore lavoravate al giorno?

R: Eh… non me lo ricordo. Chi ci sta a pensà alle ore? Non me lo ricordo.

D: E lì sei rimasto fino a quando a questo lavoro della Messerschmitt?

R: Eh, non me ricordo il tempo pure lì. E dopo so’ passato in cucina. Alla Kische. Kische [prob. Küche], Kartoffelschäler. E lì c’era da scaricare i carri di rape, di patate, poi c’era da lavarle nei vasconi, e poi c’era da sbucciarle, da sbucciarle. Tutto questo lavoro è durato quasi fino alla fine, fino alla Liberazione.

D: Ecco, proprio fuori dal campo…

R: Mai uscito. Mai.

D: Ascolta una cosa, ti ricordi quando tu eri deportato a Dachau, se hai visto anche delle donne…

R: No.

D: …nel campo?

R: No.

D: Quelle donne che son partite con voi…

R: Non l’ho viste più. Non l’ho viste più. So che c’era il Burdel [Bordell]. C’era il Burdel che era per le SS e era per i Blockältester, per tutti quelli che sostituivano la SS nel campo di concentramento, che erano peggio d’a SS.

D: E tu sei rimasto sempre nella baracca 25?

R: Sempre. Sì, io penso di sì.

D: Ascolta, ti ricordi se hai visto dei religiosi?

R: Ho visto…?

D: Dei religiosi, dei sacerdoti.

R: Sì, come no! Eh! Sono stati loro che ci hanno – una volta per uno, a turno – ci hanno permesso di proseguire nella vita. Tra cui don Giovanni Fortin, che la sera passeggiavamo lungo il viale lì del campo e ce faceva la comunione, ce confessava, e ce diceva delle belle parole per sopravvivere. Qualche volta ce portava pure qualche pacchetto de roba da mangiare, le patate, e compagnia bella.

D: Anche lui deportato.

R: anche lui, sì. Lui lavorava al Plantage[n]. Al Plantage, Plantage, insomma nelle piantagioni, in campagna.

D: Ci puoi descrivere il tuo lavoro nella cucina?

R: La cucina, c’era da uscire fuori, dal caldo della cucina al freddo, c’era la neve, c’erano i carri da scaricare e da portare dentro alla cucina. Poi, una volta dentro, c’era da… queste rape, carote o patate che erano portate dal campo piene di terra, venivano messe dentro dei vasconi grandissimi, poi in piedi, in piedi, sopra il bordo del vascone, con delle pale li giravamo fino a che non si levava tutta la terra. Poi dal primo vascone passavano al secondo. Al secondo vascone era più pulito fino a che venivano al terzo, insomma, che erano pronte per essere cucinate. Poi c’era il Kartoffelschäler, c’era da ripulirle, decaparle, e poi venivano portate lì alla… marmittona grande dove le cucinavano. Quando stavo sopra in piedi sui vasconi, dal finestrone vedevo il bunker… il bunker dove vedevo passeggiare dei prigionieri che non facevano parte di noi insomma, tra cui c’era un pope, un prete che non era italiano, e mi dicevano pure che c’era Léon Blum… un francese. Léon Blum, ecco.

D: La cucina, quella dove tu lavoravi no, rispetto alle baracche, dov’era?

R: Dunque, quando dall’entrata principale del campo de concentramento, che ancora esiste l’entrata principale, sulla destra, è dove adesso c’è la mostra fotografica, c’è il cinema, lì era la cucina, e là fuori avveniva lo scarico e il carico. Tanto è vero che una volta, era d’inverno, era pieno di neve, mentre noi stavamo dentro a lavorare, è entrato un nugolo di SS, di pezzi grossi della SS e portavano un detenuto, detenuto come noi, era un albanese. Dopo abbiamo saputo che… non so che aveva fatto, o stava a rovistare in mezzo alla neve, a trovare se erano cadute delle carote, delle patate per mangiare o qualche altra cosa. Fatto sta che a due di noi gli hanno imposto di prenderlo, e di affogarlo dentro la vasca delle… dove lavoravamo le patate con le carote. Questi qua si sono rifiutati, sono rimasti interdetti nel fare una cosa del genere, allora hanno tirato fuori le pistole, capito, e hanno dovuto prendere per il collo, uno da una parte e uno dall’altra, questo albanese e metterlo dentro il vascone ed affogarlo.

Quando sono ritornato in campo di concentramento ho visto la mostra fotografica che c’era lì, ho riconosciuto in mezzo a quella gente Himmler. Allora ho ricollegato che era l’unica volta che io m’ero trovato, che c’era stata una… un’ispezione nel campo, e ho riconosciuto Himmler in mezzo a tutte quelle persone che avevano fatto quella ispezione nel campo.

D: Lì, alla cucina quante ore lavoravate al giorno, non ti ricordi?

R: Eh… entravamo la mattina e uscivamo la sera.

D: Ma quella era la cucina per preparare, chiamiamolo vitto per i deportati?

R: Sì, per tutti, per i deportati.

D: E tu lì ci sei rimasto fino a quando?

R: Fino alla fine.

D: Fino al giorno della Liberazione?

R: Fino al giorno della Liberazione.

D: C’era qualcuno che comandava in cucina?

R: Sì, era un tedesco. Era uno dei primi tedeschi internati da quando era stato costruito il campo di concentramento, perché aveva il numero 70, qui su [indica il lato sinistro del petto, ndr] 70, aveva il [triangolo] rosso, e lo chiamavano tutti Otto, “Otto, Otto, Otto…” Era una persona gentilissima, garbatissima, sempre sorridente, sempre… non è stato mai cattivo, non ha mai infierito sopra di noi.

D: Franco, anche voi partecipavate all’appello?

R: Come no! L’appello era l’Austen [pronuncia del testimone di: Ausgehen]. La mattina, coi fischietti [mima il fischio], “Austen!”, ti dovevi alzare di corsa, eravamo già tutti vestiti, una sciacquata al viso lì… e di corsa dovevamo andare tutti sul piazzale del campo de concentramento. Lì facevano la conta, quelli che eravamo lì e quelli che erano rimasti morti sopra i letti. E dovevamo fare mitze ab, mitze ab… [Mützen ab, Mützen auf] e poi dopo “rompete le righe” e ognuno andava a lavorare. Io mi ricordo che noi italiani e i russi avevamo, oltre ai capelli tagliati a zero, una ‘Straβe’, una striscia, una striscia in mezzo, per riconoscimento che eravamo o italiani o russi, non me ricordo perché, per quale motivo. C’era… una ragione c’era, che non me la ricordo.

D: Ascolta, ti ricordi attorno al campo se c’erano delle torrette, delle garrite?

R: Sì, c’erano delle garrite, che c’era il faro… c’era il faro, c’era la mitragliatrice, e c’era tutto il reticolato con la corrente ad alta tensione e la notte era illuminato. C’era un fosso con l’acqua e la notte era illuminato, poi di colpo ad un certo momento non lo hanno più acceso, perché? Perché illuminato di notte faceva da riferimento agli aerei che indicavano che a un passo c’era Monaco di Baviera. Abbiamo subito anche dei bombardamenti.

D: Al campo?

R: Dentro al campo, sì.

D: Questo non ti ricordi più o meno quando?

R: Eh no, magari! Oggi come oggi mi sarei… chi pensava di uscire vivo, chi pensava lì…

D: Franco, nel blocco con te c’erano altri italiani?

R: Sì.

D: Ti ricordi qualcuno di questi italiani?

R: Ma, oltre a italiani c’erano anche altri di altre razze. E il posto, quando uno andava a dormire, dove trovavi dormivi, non è che ognuno aveva un posto suo assegnato, al punto che se la notte t’alzavi per andare al bagno, quando ritornavi, il posto non lo trovavi più. Allora ti dovevi fare largo a forza di bracciate, de spinte.

D: La baracca 25 è quasi alla fine del campo di concentramento.

R: Sulla destra. Sulla destra.

D: Poco più in là, al di fuori dal primo recinto, dal primo reticolato, cosa c’era, te lo ricordi?

R: Io so che ci doveva essere il Burdel sulla destra, e sulla sinistra c’era il campo… c’era il forno crematorio. Sapevamo che era forno crematorio perché c’era la ciminiera che ha fumato ininterrottamente! Tutto il periodo che sono stato ha sempre fumato. Era una ciminiera normale di un’industria, come di uno stabilimento, de un cantiere.

D: Franco, le baracche avevano tutte un numero?

R: No, c’era il numero 1, numero 2, numero 3, erano 30.

D: Ed erano tutte numerate.

R: Sì, sì, erano numerate.

D: Ascolta, tra una baracca e l’altra, c’era dello spazio libero o c’erano dei reticolati?

R: No, c’era dello spazio libero che era quello che noi usavamo perché una volta, usciti la mattina dalla baracca dopo l’appello, non potevi più rientrare in baracca. Pioveva, nevicava: tu dovevi stare tra una baracca e l’altra e lì stavamo tutti uniti, attaccati, tutti fradici, tutti… così, se non c’avevi il lavoro. Se c’avevi il lavoro invece andavamo alla cucina, o alla Messerschmitt, o alla [Kabelzerlegung] dove ho lavorato io, come chi lavorava su Schneiderei [sartoria], lì. Insomma, è tutta la vita del campo de concentramento era mandata avanti da noi. La SS stava tutta su ai bordi del campo. Chi comandava era dentro, erano i Blockältester che erano detenuti come noi, e c’era il capo dei Blockältester che era un armeno, un armeno che conosceva tutte le lingue, sapeva tutte le lingue. Quando dal comando della SS chiamavano “Blockältester” di un blocco, con l’altoparlante chiamavano “Blockältester, fünfundzwanzig!”, poi la voce si ripercuoteva dai Lagerpolizei che chiamavano, e quegli altri che rispondevano, come il tam-tam dell’Africa. Quello era il telefono.

D: Ascolta, lungo il viale dove sono allineate le baracche, ecco, lì c’erano dei reticolati, c’erano dei cancelli?

R: Non mi ricordo se qualche baracca era verso… so che la Revier, la Revier era… non se sapeva mai quello che … se entravi dentro non uscivi più. Guai ammalarsi. Io per fortuna non ho avuto mai nessuna malattia, per fortuna. Ma si sapeva che entrando là dentro, non uscivi più.

D: All’interno del campo, ti ricordi se c’erano dei cartelli, delle scritte?

R: Sì sì sì.

D: Cosa dicevano, te lo ricordi?

R: Sì: “Sauberkeit und Ordnung” [ordine e pulizia], poi c’era scritto “Es gibt einen Weg zur Freiheit”, cioè una strada verso la libertà. Tutte scritte di questo genere. Noi la strada sapevamo qual era, quella del forno crematorio. Quella era la strada. Uscivamo da lì.

D: Il giorno della Liberazione, come te lo ricordi te?

R: Me lo ricordo benissimo perché il giorno prima c’era stata un’evacuazione di sei mila di noi, gli hanno dato una coperta, una fetta di pane ed erano usciti. La domenica mattina – già si sentiva i cannoni, si sentiva sparare, era allentata la vigilanza – la domenica mattina altri sei mila di noi ci hanno dato una coperta, tra cui c’ero pure io. Ad un certo momento è venuto un grande… un nubifragio, si è fatto tutto nero, vento, vento, acqua a catinelle: c’è stato un fuggi, fuggi generale nelle baracche. Intanto si sentiva sparare, si sentiva sparare. Ad un certo momento, nel pomeriggio, una voce: “americani, americani, americani!” Allora dalle baracche tutti di corsa siamo usciti sul vialone, da tutte le uscite, e andavamo verso la porta centrale per gli americani. Gli americani c’erano davvero, sulle jeep, sulle jeep in piedi, c’era pure una ragazza con una macchina da ripresa. Però nello stesso momento da sopra, dalle torrette sparavano contro di noi. C’è gente che è morta l’ultimo giorno. Morti accatastati uno sopra l’altro e io stavo in mezzo a quelli là. Poi gli americani hanno preso prigionieri, quelli che erano rimasti vivi dalle torrette, gli hanno chiesto se erano della SS. Loro dicevano che non erano della SS, poi gli hanno strappato le camicie e hanno trovato che erano… il tatuaggio delle SS, ce li hanno dati a noi. E lì so’ stati subito, al momento, ipso fatto, sono stati linciati, botte… io mi ricordo con gli zoccoli di legno in piedi a saltarci sopra. Poi so’ stati presi, so’ stati buttati nell’acqua, gli americani gli hanno sparato e le teste saltavano per aria. Perché per loro la SS era… la Wermacht era… come se dice, militari, [per] la SS non c’era pietà.

D: Ecco, e dopo la Liberazione che è avvenuta quando, te lo ricordi?

R: No, non me lo ricordo, però dai dati so che è stato il 29.

D: Aprile?

R: Aprile, sì.

D: Ecco, dopo cosa è successo a voi?

R: Dopo è successo che gli americani hanno circondato il campo de concentramento, c’è stato chi è scappato subito, chi so’ usciti fori. Ci sono stati dei russi che hanno fatto giustizia subito, so’ usciti fuori, hanno ammazzato, hanno fatto quello che hanno fatto, cosa che noi avevamo detto che avremmo fatto, invece poi non abbiamo fatto. Poi gli americani ci hanno dato dei pacchi da mangiare, sono entrate le autoambulanze a passo d’uomo, piano piano, hanno preso tutti i feriti, quelli che erano rimasti per terra, che erano malati. Hanno cominciato a farci delle iniezioni, a curarci, ecco. E il [campo di] concentramento era di nuovo in quarantena, dapprima dai tedeschi, invece dentro c’erano tutti americani. Sono stati puniti i capi baracche di tutte le nazionalità, francesi, slavi, tutti hanno avuto i loro collaboratori dei tedeschi: il campo di concentramento veniva mandato avanti da noi, la SS stava a guardare dal di fuori.

D: E tu sei rimasto lì a Dachau liberato fino a quando?

R: Fino ad una ventina giorni stavo dentro. Io stavo bene, mi sentivo bene, c’avevo la smania de venì a casa. Me so’ messo a un angolo del campo di concentramento fino a che un americano m’ha fatto passare, e me so’ trovato libero. Me so’ trovato a Dachau, poi dopo, piano piano, a piedi, in bicicletta, con tutti i mezzi, sono arrivato fino al Brennero, al confine, dove gli americani mi hanno arrestato, mi hanno portato in una caserma e lì c’erano ancora altre centinaia e centinaia di gente che voleva passare il confine, ma non erano italiani, erano di tutte le razze. Arrivati a un numero considerevole di italiani, accertato che eravamo italiani, c’era una commissione che con i camion ci hanno portato in Italia.

D: In Italia dove?

R: Lì… eh, io penso che era il Brennero. Al Brennero.

D: E poi?

R: Al confine di Stato, poi… ce l’ho quel foglio a casa… non so se era a Pavia. Mi ricordo Pavia, Pavia, Pavia – Voghera, Voghera – Genova. Genova, poi… a Genova c’erano dei treni che funzionavano con delle motrici americane, e ci hanno portato a Roma.

D: Ecco, quando sei rientrato a Roma?

R: Il giorno di Santa Rita. Mi ricordo che era di Santa Rita perché sulla piazza dove abito io c’era la chiesa di Santa Rita, e c’era la festa.

D: Ascolta, Ti ricordi quando tu eri a Dachau se per caso hai visto tra i deportati anche dei ragazzini?

R: Uh! Tanti. I ruschetti li chiamavamo, non i russi, i ruschetti, i ruschetti, proprio ragazzini, erano russi, e ogni capobaracca ce ne aveva nella sua Stube, nella stanza, cinque, sei, sette, otto, dieci. I ruschetti li chiamavamo.

D: Ah, non c’era una baracca solo per i ragazzini?

R: No, no. Che io abbia saputo no, perché con tutto che noi stavamo là dentro, mica sapevamo tutto.

D: Ti ricordi se a Dachau c’era una baracca dove si poteva comperare delle cose, degli oggetti?

R: No. Io mi ricordo che nella Stube, ogni baracca, c’era un barilotto di birra dove i collaboratori della SS del campo de concentramento avevano dei buoni, non erano soldi, erano dei buoni che avevano diritto per prendere un bicchiere di birra, per andare al bordello.

D: Ma tutti i deportati o solo i collaboratori?

R: Io parlo di deportati.

D: Sì, ma anche tu potevi prendere…

R: No, magari! [ride, ndr] Solo loro, i Blockältester. Quelli stavano bene, quelli non gli mancava niente. Come vestiario mica andavano vestiti a righe, loro erano vestiti con abiti civili, però abiti civili che c’avevano dei buchi sulle spalle, qua dietro, e dei buchi ai pantaloni. In più avevano delle strisce, delle strisce fatte con la stoffa a righe, e quello significava che era un deportato.

D: Ti ricordi se all’interno del campo c’erano dei deportati con delle fasce al braccio?

R: Sì, erano quelli che facevano la Polizia del campo. Perché noi in più di tre, in più di tre non potevamo stare. Allora loro erano la Polizia del campo, e cioè se commettevi… a secondo di quelli che facevi c’era la punizione. Allora loro erano… c’erano le ‘Fünfundzwanzig’, le 25 nervate al sedere, o 50. Con le 25 te potevi salvà, coi 50 andava il sedere in cancrena. Chi fuggiva, e veniva ripreso, regolarmente ripreso perché lì la popolazione non t’aiutava, anzi, te faceva subito riprendere, veniva tenuto per un giorno intero – pioveva, nevicava, faceva di… – davanti alla porta del campo de concentramento dell’entrata, con un cartello, un cartello dove c’era scritto: “Ich bin wieder dà” Io sono nuovamente qui. E poi c’erano le ‘Fünfundzwanzig’, non lo so, c’era il bunker, dice che c’era un armadio dove tu entravi dentro e rimanevi dritto per un giorno, due, non te potevi muovere. E in più questi che fuggivano, dopo avevano sulla giacca un cerchio, un cerchio bianco e rosso mi ricordo, e stavano tutti in una baracca che la chiamavano il Fluchpoint [Fluchtpunkt], non mi ricordo adesso se la pronuncio bene questa parola, Fluchpoint.

D: Ti ricordi dei tentativi di fuga dal campo? Cioè, deportati che hanno tentato di fuggire?

R: Sì, sì, ma erano più che altro… perché dentro il campo di concentramento, oltre ai politici, per dire, c’erano anche delinquenti, e questi erano classificati col disco verde. Il disco verde erano criminali. E quelli, conoscendo la lingua, conoscendo… trovavano la maniera di scappare però che regolarmente venivano ripresi e…

D: Franco, tu quando sei stato deportato, non hai potuto scrivere a casa, comunicare?

R: Mai! Mai! Noi… Tutti quanti ricevevano i pacchi della Croce Rossa, tutte le nazionalità. Noi vedevamo loro con questi pacchetti dalla Croce Rossa Internazionale, scrivevano e ricevevano lettere. Noi niente. Dalla Croce Rossa non abbiamo mai avuto niente, mai potuto scrivere, e a casa mia hanno saputo che ero vivo dalla fine della guerra, quando gli è arrivato dalla Croce Rossa Internazionale un telegramma dove c’era scritto: Franco Marchetilli sta bene, campo Dachau, invia saluti, firmato don… come se chiama là? Era… di Milano… Monsignor Montini! Monsignor Montini che poi è diventato papa era vescovo di Milano. Ci è venuto a trovare, ha preso l’indirizzo di tutti noi, e a tutte le famiglie ha dato… io ce l’ho ancora a casa questo… questo telegramma.

D: Ascolta Franco, quando tu dici ‘noi non ricevevamo i pacchi’, intendi …

R: Gli italiani.

D: Mentre invece le altre nazionalità…

R: Sì sì, ricevevano dalla Croce Rossa i pacchi.

D: E anche la corrispondenza?

R: Anche la corrispondenza. Per quello che mi è riuscito di vedere. Noi no, noi niente.

Martini Nando

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Dunque, mi chiamo Martini Nando, nato il 28/2/1926. Il 28/2/1926.

D: Dove?

R: A Noceto.

D: Allora, adesso ci racconti un attimo quando sei stato arrestato e perché?

R: Sì, va bene.

D: Prego.

R: Ecco. Sono andato dai partigiani, bene, in aprile, nel ‘44, mi sa che sem ‘ndà lì [siamo andati lì, ndr], più o meno. Poi nell’inverno sono tornato a casa perché avevo il papà all’ospedale. Quella notte lì è venuta molta neve. Abitavo in un paese fuori la città, abitavo a Eia, in un paese che loro sanno [ex deportati presenti all’intervista, ndr], e mi son preso su dei panni puliti da portare al papà, la mamma m’aveva dato… Sono andato all’ospedale, a Parma. Quando sono stato all’ospedale, avevo i panni sporchi, li portavo a mia zia in via Cavour, qui a Parma, gli sporchi per averli puliti.

Quando sono stato davanti a UPIM, in via Mazzini, loro sanno dov’è, sa dov’è UPIM? Va bene. Davanti a questo grande negozio UPIM, ho trovato uno… ho visto uno della Brigata Nera, vestito… Via delle Rose… vedo che era il mio amico, che era nei partigiani con me, che lui “sono qui, sono là…” Io credevo che lui fosse stato giù in missione da partigiano, e invece no, era in missione da Brigata Nera! Ha capito? E allora io cercavo… quando ha capito che volevo scappare, lui m’ha preso perché era più forte, m’ha preso, tira fuori la rivoltella e dice: “Dove vai? Vieni con me”.

Mi porta dentro in via Cavestro, dove c’era la Brigata Nera e c’erano anche i tedeschi, le SS. M’ha messo lì e lì m’ha interrogato un ufficiale tedesco. Proprio così come eravamo adesso. Molto gentile, era lì: “Zigarette?”, il tedesco eh. Non fumavo […]. E questo qui non l’ho più visto [l’amico, ndr]. Questo ufficiale vuole sapere i miei amici chi erano, dove abitavano, eccetera. Non ci ho mai parlato. Allora fa: “Io essere capace a parlare…”, farmi parlare me. Ha aperto un armadio,ha tirato fuori una… un affare di cuoio, al ‘m’ha dà tant [strenghi?]! [mi ha dato tante botte, ndr]! M’ha dato ‘na dose… Poi mi ha portato in cantina dove c’erano degli altri, pieno, un odore della Maremma perché…. puoi immaginare! Sono stato lì una quindicina di giorni. E poi di lì per andare a San Francesco, che sarà, al su mia, un chilometro sì e no… l’è mia [non è, ndr] un chilometro, beh fa nient’, vedo una ragazza che volevo che mi vedesse per dire ai miei genitori che m’avevano preso, ha capito? Non mi guarda! Non mi guarda perché… chissà, poverina… non mi guarda.

M’han portato in San Francesco, di lì mi han preso in San Francesco. Di San Francesco… ah no, prima, un momento, ho detto quel che m’ha preso eh… sì vabbè […] Di San Francesco una notte ci han portato via con le corriere, sempre in corriera, a Verona. A Verona. Ho preso tanti bott lì perché mi hanno interrogato, volevano sapere anche loro… Mai parlato. M’han dà una botta con il legno in testa… ho perso… ho perso la parola, mi son trovato in campo di concentramento a Bolzano e mai più parlè. Son stato lì che dopo è finita la guerra e [sono] tornato a casa.

Quando son venuto a casa, mica vero che ho incontrato quel tizio lì? Era nei partigiani di San Pancrazio, in un paese. Lui passa in bicicletta, e allora c’era il brigadiere dei Carabinieri dei partigiani, c’ho detto: “Quello là è quello che mi ha preso”. Lui: “Davvero?” Ci sono corsi indietro, lo han preso e portato indietro. L’han portato in caserma, c’erano i Carabinieri. Ero così, così, magro, c’ho detto: “Guarda in che condizioni…” Beh, gli han dato un sacco di botte e poi l’han mandato in campo di concentramento a Mantova, a Mantova. A Mantova e… […] Quella è la mia vita.   

D: Nando, sì ho capito. Tu l’hai fatta a tuo modo, l’hai fatta… bello ristretto il succo…

R: Sì, ristretto, perché cosa devo dire, il campo di concentramento è stato…

D: Ascolta una cosa…

R: Dica.

D: Quando tu eri dentro nel campo di Bolzano, cosa ti ricordi tu del campo? Il tuo blocco te lo ricordi?

R: Il D.

D: Il numero te lo ricordi?
R: Sì, novemila… novemila e quattrocento ventisei [9426]. Ci han vestito… sì, come ha detto Cantoni, con quel camicione bianco e la striscia rossa di dietro lì. Il numero qua [segna il suo petto a sinistra, ndr], novemila e quattrocento ventisei, quello era il numero di matricola.

D: Nel tuo periodo nel campo di Bolzano sei stato impiegato in qualche lavoro? 
R: Ecco, quando sono venuti a vedere, chi dice “il falegname, il fabbro”, eccetera, “il falegname?”, e ho detto di sì, ma non savevi mia… non sapevo neanche com’era fatto il martello. M’avevan messo dalle donne a aggiustare i castelli, sa dove si dormiva sopra? Ecco, lì.

Quella era la nostra vita, però non eravamo liberi come diceva Cantoni. Io, sempre dentro.    

D: Cioè?
R: Sì perché a far quel lavoro lì dentro, nel blocco.

D: Ah quel lavoro lì lo facevate nel blocco?

R: Nel blocco, sì, e basta. Non è che andavamo fuori.

D: Cioè, tu non sei mai uscito?

R: No, mai uscito dal campo di concentramento. No.

D: Ti ricordi quando… nel periodo che cui tu sei stato dentro a Bolzano, se hai visto delle donne?

R: Oh, ce n’erano delle donne! È ben lì che avevamo… andavo ad aggiustare i castelli delle donne, capito? A mettere i chiodi […]

D: Ti ricordi di aver visto dei bambini?

R: Oh, c’erano dei bambini, poverini, ma piccoli! Ho visto anche quando han portato via i bambini dalle mamme. Che era venuta una corriera che voleva i bambini, e c’era la Croce Rossa, dicevano che la Croce Rossa svizzera che li portava via… Ci mettevano medaglie al collo, […], un dispiaser compagn mai visto al mondo [un dispiacere simile non l’ho mai visto al mondo, ndr].

D: Ti ricordi se hai visto dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, ce n’era uno. Dentro in campo ce n’era uno. Ce n’era uno, c’era, sì sì. Era un frate, era un prete, era qualcosa del genar [genere, ndr].

D: Ti ricordi il nome?

R: No, guarda, no. Non mi ricordo niente. Ho perso la memoria, ma molto anche. Molto, eh…

D: Ascolta, e ti ricordi, di quando tu sei rimasto nel campo di Bolzano, se hai visto o hai subito azioni violente?

R: Sì, chi c’era? Sacchetti, quel del Guzzi di Parma. Il rappresentante della Guzzi, di Parma, si chiamava Sacchetti. [scambio con un ex deportato presente, ndr]. Ah, un’altra cosa. Dentro il campo io…

D: Cosa ha fatto questo qua?   

R: Ecco, io l’ho visto che aveva rubato un orologio a un tedesco […], i g’han dà tanti bott’ della madosca. L’avevano legato al palo […]. Ma stavo dicendo prima un’altra roba. Uno che m’ha portato via il pane a me… Sa che davan’ quel pane… Pane … l’era […], l’avevo nascosto sotto al pagliericcio che l’era pien de pioch [dove era pieno di pidocchi, ndr] e lui poverino me l’ha rubato e l’ha mangiato. Il tedesco ha saputo […] che lui m’ha portato via il pane: g’ha piantè ‘n pugn’ [gli ha dato un pugno!, ndr], e poi un secchio d’acqua fredda addosso, che l’era un frèd de la madòna… Non l’ho più visto. Non ho più saputo che vita l’ha fat’.  

Un’altra roba ricordo, che forse loro… ce n’era uno cieco, te lo ricordi quel cieco? Quello vorrei vederlo, poverino. [suggeriscono i presenti, ndr]) Morello, de La Spezia, era cieco poverino. Vorrei vederlo ancora.

D: Cosa ti ricordi di lui?

R: Di quello lì? Che gli è venuta la vista, [interviene un ex deportato, ndr], non che ci vedeva bene, l’ombra… però l’ombra…  Che bei ricordi.

D: Ah, erano bei ricordi?

R: Sì.  

D: Ascolta, tu nel periodo che sei rimasto lì, a Bolzano, hai potuto scrivere a casa?

R: No, ma neanca [neanche, ndr] Scrivere a casa? [ride, ndr], no […] Mai usciti, mai usciti, mai. A scrivere, ìn g’avem’ neanca […] la penna, allora! [non avevamo nemmeno una penna, ndr]. Niente, noi eravamo lì i più terribili, perché eravamo prigionieri politici, i partigiani g’avemo [condanna] a morte. Avevamo il triangolo rosso, e giallo gli ebrei, eh? Erano lì vicino.

D: Come ti ricordi la liberazione di Bolzano?

R: La liberazione di Bolzano? Niente, noi siamo andati a Trento, dove eravamo?

D: Una bella mattina cosa ti hanno detto? Voi siete liberi?

R: Mah “voi siete liberi, se fòra” [si rivolge ai presenti, ndr]

D: Non te lo ricordi?

R: So che son stato a dormire in un casolare, cos’era? Ah, non era mica un casolare, l’era un casott, l’era, che poi c’erano i tedeschi che ci [volevano] ammazzèr, nella notte. Pensa, ci siamo incontrati, loro erano armati e ci volevano uccidere. […] Eh, va bene.

D: La formazione partigiana tua come si chiamava?

R: Trent… Garibaldi. [poi suggeriscono, ndr] Trentunesima Garibaldi.

D: E come zona di operazioni quale era?

R: A Varsi. Varsi, Bardi, da quelle parti lì.       

Miola Elidio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mio nome è Miola Elidio, sono nato a Torino il 14/3 del 1924. Ero dipendente della Fiat dal 1942. Nel ’45…nel ’44, ’43-’44, mi hanno chiamato di leva, per la chiama di leva. Io mi son presentato, mi han destinato alla fanteria di Marina, e poi dopo ho continuato a lavorare. Dall’azienda, dato che non ero ancora operaio specializzato, non mi hanno trattenuto. E allora ho dovuto andar fuori, e andar fuori era andare a militare, e allora andare a militare lo sapevo dov’è che andavo a finire in Germania per l’istruzione. E allora mi sono… andato nei partigiani della zona, dalla parte di… della Valle di Lanzo, su vicino a Chialamberto, e han fatto quel famoso rastrellamento che io sono potuto fuggire e ho passato nell’altra vallata, nella Valle Locana. E dopo di lì non potevo più stare a casa, stare a Torino, perché da una parte ero renitente, dall’altra parte non potevo più lavorare, e sono andato nella zona lì di Trieste, che erano altri militari anche che erano lì. E abbiamo deciso… ci siamo trovati circondati dalle SS, perché qualcuno ha fatto la spia che c’era un gruppo di militari. E ci han portati nella Risiera di San Sabba. Dopo ci hanno chiusi nel secondo… al secondo piano.

D: Ecco, scusa, ti ricordi quando ti hanno arrestato e dove eravate?

R: Eravamo nella zona vicino a Redipuglia.

D: E quando più o meno te lo ricordi, quando ti hanno arrestato?

R: Ma, il giorno preciso non lo ricordo, so che era verso la fine di maggio i primi di giugno.

D: Di che anno? 

R: Del ’44.

D: Dicevi che ti hanno portato in Risiera.

R: In Risiera, tutti quelli che han preso lì li han portati in Risiera, e ci hanno rinchiusi sopra al secondo piano della Risiera, e poi ogni tanto veniva delle SS a prendere qualcuno per far fare dei lavori lì intorno. Poi è venuto il colonnello delle SS, quello che comandava lì, e allora lui, questo qui ha chiamato se si voleva collaborare con loro o essere fucilati o morire da partigiani, in parole povere è così. Eh, si capisce che a 20 anni nessuno ha voglia di morire, allora abbiamo deciso parlando tra di noi – che è ritornato poi una seconda volta con l’interprete – che si collaborava, tanto per avere un po’ di vita un po’ più lunga, per vedere. E poi un bel giorno chiamano 55-60 nomi, adesso non mi ricordo più quanti erano di preciso, e ci fanno andare nel cortile, e ci danno una pagnotta di pane e han detto che ci mandavano a lavorare in Germania. Si è sollevato quasi il cuore, perché abbiamo detto: meno male, piuttosto che combattere per loro, arruolarsi con loro, andare a lavorare in Germania sarà un lavoro ma il lavoro almeno non ti ammazza, non è lì a ammazzare nessuno. E così ci han portati, avessero ben detto che ci portavano a Dachau: nessuno sapeva cosa voleva dire Dachau eh, per me era un nome qualunque. Difatti siamo partiti da Trieste, insomma, in vagone dei carri bestiame, eravamo 50-55 per vagone, con la consegna che se scappava qualcuno ne avrebbero ammazzati altri dieci. E allora ci sorvegliavamo a vicenda. Comunque siamo arrivati a Dachau nella notte.

D: Ecco, dalla Risiera, dove vi hanno portati per mettervi sui carri?

R: Ci han portati alla stazione di Trieste.

D: Ti ricordi quand’era più o meno?

R: So che era verso l’8 o il 10 di giugno, io penso quell’epoca lì, perché a giugno eravamo già a Dachau, dopo [eravamo] arrivati a Dachau nel mese di giugno.

D: Ecco, scusa Miola, in Risiera ti hanno immatricolato?

R: No no no in risiera niente. No.

D: E anche i tuoi vestiti, t’han lasciato i tuoi abiti?

R: Ci han lasciato i vestiti che avevamo indosso.

D: Ti ricordi se hai visto delle donne in Risiera?

R: Io donne non ne ho viste in Risiera, perché… magari erano chiuse in altri, perché c’erano tre piani, cioè il primo il secondo e il terzo piano, io non so sopra. Ho capito che sopra c’erano degli ebrei, perché Milani, non so se l’hai intervistato, era anche lui in Risiera, lui lo prendevano sempre per fare dei lavori sotto, e aveva visto un po’ di più. Noi si sentiva sempre della musica forte o dei rumori di camion, così, e sentivo a volte anche un odore acre che non capivamo cosa fosse. E poi abbiamo poi saputo che…

D: Ascolta, e dalla Risiera per fare dei lavori non siete mai usciti?

R: No no.

D: Cioè, i lavori li facevate ma solamente lì.

R: No lì eravamo in attesa di destinazione, noi non si sapeva noi… cosa avrebbero fatto di noi, in parole povere.

D: Ecco, poi ti hanno portato alla stazione di Trieste.

R: Trieste, un bel giorno, dopo che ci han chiusi, isolati dagli altri, e ci han caricati su questi carri bestiame, han fatto una tradotta che siamo partiti per Dachau. Adesso non so se sono scesi tutti a Dachau o no. Noi, perché nel nostro vagone di sicuro, ma il treno è arrivato a Dachau.

D: E lì a Dachau cosa è successo?

R: Lì siamo arrivati… no alla stazione, perché a Dachau non c’era una stazione, c’era un binario che portava vicino al campo, so che c’era come una riva, il treno era […] dentro, ci facevano uscire di lì, e ci siam trovati circondati dalle SS coi riflettori, i cani lupo, e siamo rimasti lì perché non sapevamo cosa significasse. Allora gridavano 5 …, 5 per 5 e ci han fatto mettere in colonna, e siamo arrivati che era di notte, era verso mezzanotte. E ci han portati dentro il Lager, non ho neanche capito bene da dove siam passati o non passati. Ho visto poi che al mattino, quando ci han messo dentro il camerone, dove adesso c’è il museo, lì c’era i posti che ci spogliavano, prendevano la roba, ti immatricolavano, ti depilavano, ti disinfettavano, ti tagliavano i capelli, facevano tutte quelle cose lì. E siamo stati lì dentro fino all’alba. Quando è venuto chiaro io sono andato a vedere dalla finestra, sono stato il primo a vedere, saran stati anche altri. Ho visto uno vestito a righe, e ho detto “ehi ragazzi c’è uno che gira in pigiama lì fuori”. Non era una battuta, è capitato proprio così. E poi difatti il pigiama ce l’hanno dato anche a noi. Ci han tagliati e rasati con la creolina, e poi ci hanno dato il numero, 69.786, il triangolo rosso, e ci han mandato al blocco numero 15. E io sono rimasto lì al blocco numero 15 per la quarantena. Io di Dachau ho sempre visto la Stube dove ero io dentro, il di dietro della baracca che c’era davanti, e da dove siamo entrati c’era il portone di legno tra una baracca e l’altra. E l’appello lo facevano lì, sul posto, non siamo mai andati sulla piazza dell’appello. Poi dopo un certo periodo che non mi ricordo bene, sarà stato poi fine di giugno, i primi di luglio, un giorno ci fanno andare nudi dietro in un’altra baracca, in mezzo a due baracche, eran tutti nudi, c’era un tavolo con un SS che non so più, non so che grado avesse allora, e ci faceva passare uno per volta davanti a lui: ti guardava in bocca, ti guardava, poi… da una parte, l’altro dall’altra, e ci han mandati a Allach. E a Allach siamo andati, io sempre… chiedevano che mestiere uno faceva, io ho sempre detto [che] io ero lavoratore specialista della Fiat, ma non era vero, era solo per poter lavorare al coperto, perché ho fatto dei lavori lì a Allach, che han fatto un campo per gli ebrei lì vicino a Allach, di smistamento per gli ebrei, ci hanno fatto lavorare a picco e pala, scavare buche, spingere i vagoni di terra sulle rotaie, ed era un lavoro mica tanto piacevole. Allora io partivo sempre con la storia che io ero uno specialista, ero specialista, finché un giorno mi hanno poi mandato a Blaichach, un altro sottocampo, ma prima che succedesse quello io ho avuto un’infezione nel pollice del piede. Lì marciva no, allora sono andato all’infermeria. All’infermeria mi hanno strappato via la pelle, il marciume così, e han preso un pezzo di carta igienica, me l’hanno medicato così, mi han dato un giorno di riposo. In quel giorno di riposo, neanche fosse stato tutto combinato, tutti quelli che erano con me sono partiti in trasporti e non li ho più visti. Ero solo in mezzo a francesi, russi, polacchi, non capivo più una parola da nessuno. Mi son trovato perso, son sincero, in quel momento lì me la sono vista brutta perché non avevo più dialogo con nessuno, ero un po’ abbattuto. E ho trovato un francese, che parlava un po’ di Patois piemontese, allora io con lui ho poi dialogato. È lui che mi ha scrollato, mi ha detto “ehi ragazzo, se sei qua, se non vuoi lasciarci la pelle, non pensare agli altri, né ai tuoi, né alla famiglia, pensa a vivere da un giorno all’altro!”, era già più tempo che era lì. E allora mi ha scosso un po’, e dopo ho fatto diversi lavori del campo, sono andato anche a pelar patate, spaccare legna, finché battevo sempre il mio mestiere: “meccanico, meccanico”. Allora mi hanno poi, dopo un paio di mesi, mandato in quel sottocampo di Blaichach… no prima – un momento – prima ad Allach ho lavorato alla BMW, dove facevano i motori d’aerei, i motori stellari d’aerei, e poi han bombardato la fabbrica. È quando han bombardato la fabbrica che io ho avuto quella storia lì: gli altri sono partiti e io rimasto lì, non lavoravo più in fabbrica, e ho sempre detto che io ero meccanico. E [mi] hanno poi spedito a Blaichach, che abbiamo attraversato Monaco che era tutta bombardata la stazione, dicevo: “qua porca miseria c’era solo pipinare, non c’era più niente altro”.

E ci hanno portato a quel sottocampo. Quel sottocampo lì di italiani eravamo un 25 massimo, erano tutti russi, polacchi e francesi, ma la gran maggioranza erano francesi. Lì andavo di nuovo a lavorare a un reparto sfollato della BMW, perché si faceva sempre le bielle piccole e la biella madre dei motori stellari. E lì lavoravo… mi avevano messo addetto ad una stabilizzazione delle bielle. Difatti si prendevano ‘ste bielle e si mettevano in un forno che le portava a 500-600 gradi, dopodiché li prendevi con dei ganci così e li mettevi dentro i sali fusi a 900 gradi, e si schiacciava una lampadina. Schiacciando ‘sta lampadina dopo, quando si accendeva di nuovo, era rossa, si accendeva il verde e li tiravi su e li mettevi nell’olio, e poi li passavano nei forni, li pulivano, era la stabilizzazione. Un giorno, queste bielle si deformavano. Allora sono venuti lì tutti i dirigenti, le SS, e come dire che noi si dormiva, non si faceva il lavoro bene, che se era qualcosa che era colpa nostra ci avrebbero ammazzati tutti, “Alles kaputt”. E allora noi abbiamo detto “provate, fate la prova!”. Allora abbiamo fatto di nuovo la prova, messe prese, messe lì, messe là, si è accesa la luce e poi dopo si è di nuovo acceso il verde, le abbiamo tirate fuori, messe nell’olio, poi le han controllate e si deformavano lo stesso. Allora non era più colpa nostra, abbiamo già tirato un po’ il fiato. Poi era quella lampadina che era un relè: invece di durare un minuto durava un minuto e 15 secondi, bastavano quei 15 secondi in più che si deformava. E lì l’abbiamo messa bene così. Poi ho lavorato un po’ ad un tornio, prima, adesso ricapitolo a Allach. A Allach alla BMW, mi avevano messo a un tornio, perché io ero un tornitore no, e c’era un cecoslovacco che mi preparava la macchina, e mi diceva sempre “mi raccomandato fai attenzione” mi faceva “guarda bene” e mi diceva “guarda dentro il cassetto dei ferri, ma occhio, guarda in giro prima di…”, e mi metteva sempre una fettina di pane in mezzo ai ferri… io si capisce bene, che io dovevo guardare bene, in un boccone la mangiavo e via. E questo cecoslovacco era un lavoratore libero là, praticamente. E lì un giorno siamo ritornati al campo di Allach e c’era la forca, pronta, “adesso qui marca male”. E allora ci han fatto… c’era l’appello prima no, ci han messo tutti squadrati per dice, tutte le file, ogni baracca per baracca, blocco per blocco, e poi chiamano un russo, e lo fanno andare fuori, leggono la sentenza in tedesco, che io non ho capito niente. Comunque, poi l’hanno impiccato e noi si doveva stare tutti a guardarlo impiccare, non voltarti perché i capò giravano, se giravi la testa ti picchiavano. Poi, ho poi saputo che questo russo lo hanno impiccato per sabotaggio. Sabotaggio che faceva ridere perché quando ho saputo che aveva sabotato un bel niente… praticamente aveva preso un prezzo di cinghia, buttata via insieme al pattume, aveva gli zoccoli e camminava storto, l’aveva messa sotto, potuta inchiodarla sotto, non so come, e han detto che aveva fatto sabotaggio, ha portato via un pezzo di cuoio, e lo hanno impiccato per quello.

Ritornando poi a Blaichach, lì abbiamo sempre lavorato, in quella fabbrica si faceva il turno, 12 ore di notte e 12 ore di giorno, da 6 a 6 della sera e da 6 a 6 al mattino, e alla domenica qualche volta si andava anche a lavorare la domenica. Però la vita era un po’ migliore che a Allach e che a Dachau, perché il campo non era grande, era un sottocampo, eravamo 1.500-2000 persone al massimo, e si faceva i due turni, dalle 6 del mattino alle 6 di sera di giorno, come ho detto prima. Quando si faceva la notte si smontava al sabato sera no, alla domenica invece non ti davano più il mangiare a mezzogiorno, te lo davano alle 4, perché poi ti facevano andare a lavorare la notte, ti facevano partire alla sera alla notte della domenica andar a lavorare. E il mangiare della sera te lo davano a mezzanotte, facevano il giro così. Ma lì insomma, era dura, perché era dura, 12 ore erano dure, ma eri al coperto, il campo dalla fabbrica c’erano sì e no 400-500 metri, non di più, però faceva un freddo cane perché la sera andava fino a 20 sottozero. E noi avevamo solo e sempre la solita camicia, la solita giacca di tela, avevo una giacca un po’ pesante, non l’avevo mai cambiata per quello, pieni di pidocchi, perché poi avevi i pidocchi non contiamo più i pidocchi, si ammazzavano i più grossi.

Si cercava di tirare avanti così. Una volta ho provato, mentre ero lì che facevo la tempra delle bielle, che sgrassavano le bielle dall’olio no, abbiamo detto “proviamo a mettere la camicia per ammazzare i pidocchi”, e l’abbiamo messa. Poi l’ho tirata fuori quasi quasi si smontava tutta, ho detto “porca miseria guarda che rimaniamo senza camicia, teniamo i pidocchi che è meglio”. È andata un po’ avanti così la storia, finché un giorno – mi ricordo era verso il Natale, Capodanno tra il ‘44 e il ’45 – il comandante che comandava quel campo lì era poi un maresciallo maggiore delle SS, viene su e mi ricordo sempre che ha fatto un discorso che io sono rimasto un po’ lì, ha detto che sperava che il prossimo anno ognuno passasse il Natale a casa sua. Porca miseria sentir dire quelle parole lì da un comandante del campo, qui le cose vanno male, perché se viene a fare un discorso così si vede che cerca di riabilitarsi da solo. E difatti poi a Natale avevano fatto un po’ da mangiare, avevano fatto un po’ di pasta, con il sugo, una roba, loro lo chiamavano il gulasch, un po’ di carne dentro perché avevano ammazzato diversi cavalli, che bombardavano nella zona. Ha suonato l’allarme che era quando è ora di mangiare, abbiamo mangiato ‘sta pasta che era verso le cinque così, comunque era pasta, abbiamo mangiato quel pasto lì, il pasto più buono che ho mangiato.

Dopo bombardavano sempre, e siamo arrivati fra bombardamenti e una cosa e l’altra fino ad aprile. Ad aprile dovevano portarci via, difatti una sera ci hanno incolonnati tutti, cercavano di portarci a Mauthausen. E abbiamo camminato due giorni e due notti, ci facevano dormire nelle campagne, dentro quelle baracche per gli attrezzi, per roba di campagna. E poi arrivati ad un bel punto sentivo, abbiamo visto che discutevano fra di loro, che non potevano più andare avanti perché c’erano gli americani che arrivavano di là, e da dove eravamo noi arrivavano i francesi. Allora ci han fatti a marce forzate a tornare indietro, e ci han di nuovo chiusi nel campo, ci han bloccati, chiusi dentro; poi han detto così, che chi metteva il naso fuori gli avrebbero sparato, avrebbero sparato contro. E allora siamo stati un po’, poi la curiosità era grande, e abbiamo guardato, uno fa “non ci sono più le sentinelle”. Quando abbiamo sentito così abbiamo sfondato la porta, siamo usciti fuori, e abbiamo visto che non c’erano più sentinelle. E poi abbiamo visto arrivare una camionetta, con dei marocchini sopra vestiti da militare, “la guerra è finita! meno male arrivano questi qua”. Poi sono andati via. Dopo è arrivato un carro armato. Qualcuno dal paese, si vede di questi fissati, han sparato qualche colpo no, l’avesse mai più fatto, questo qui ha sparato una cannonata, ha messo tutto a tacere e il campo è stato liberato così. E poi siamo rimasti, era verso la fine di aprile, mi ricordo che dopo qualche giorno i francesi hanno celebrato il primo maggio, e abbiamo cantato la Marsigliese quando ci hanno liberato perché ci hanno liberato i francesi, e la maggioranza che erano lì erano francesi. Allora cosa è successo? I primi a rimpatriare son partiti i francesi, poi ci sono rimasti i russi che sono andati via anche loro, i polacchi sono andati, e sono rimasti solo gli italiani, nessuno si interessava di noi. Solo che avevano dato ordine, quelli che erano i militari che avevano occupato il paese, di farci da mangiare, di portarci il mangiare tutti i giorni. E poi un bel giorno noi abbiamo deciso, “ma dobbiamo stare qua fino a quando? nessuno si interessa di noi”. E allora abbiamo poi deciso di partire a nostra volta, tanti sono andati via per conto, e noi in 4 o 5 abbiamo preso un carrettino con un po’ di provviste, ci avevano detto che a 60 km, o 80 che fosse, c’era il presidio americano, che gli americani rimpatriavano. E allora noi siamo – perché i francesi, quando avevano occupato prima, ci han fatto un documento a tutti che eravamo nel campo di concentramento, ce l’ho ancora qua – siam partiti a piedi, si dormiva dove si poteva, andava bene che per la strada, dopo era già finita la guerra e tutto, mettevano il latte nei bidoni che passavano a caricare, noi si riempiva le borracce, almeno c’era da bere. E siamo poi arrivati in zona americana in quella maniera lì. Zona americana, siamo rimasti due o tre giorni lì, poi coi camion ci han portati a Innsbruck. A Innsbruck, sempre con carri bestiame perché vagoni non ce n’erano ancora, ci han portati a Bolzano. A Bolzano ci han dato qualcosa da mangiare, poca… un po’ di frutta, qualche cosa così, e chiedevano che paese uno era, fa[ccio] “io sono di Torino”, “beh, se volete partire, domani c’è dei camion che vanno a Milano, vi avvicinate già un po’”. Allora abbiamo preso questi camion, io e i due o tre degli altri, e siamo venuti a Milano. A Milano poi gli altri sono andati per altre destinazioni, io mi han detto che c’era un camion che faceva da Milano a Torino, un camion che viaggiava ancora a gasogeno, con quel legno che faceva… e ci ha messo 12 ore da Milano arrivare a Torino. E sono arrivato a Torino, aspettavo il tram a Porta Palazzo, il 14, perché prima di andare via c’era il tram numero 14. Il tram numero 14 non arrivava mai, allora chiedo “ma non c’è il 14 oggi? come mai?”, “eh non c’è più, adesso è il 17, non c’è più”, no il 17 aveva un altro numero, non ricordo più neanche il numero, ma avevano cambiato il numero al tram, però faceva lo stesso tragitto. Allora ho preso questo tram.

Quando arrivo nella mia zona… perché sono venuto a casa con i pantaloni a righe, li avevo portati a casa, poi mia sorella, Dio bono, li ha buttati via, volevo tenerli per ricordo. Comunque, prendo ‘sto tram e vado a casa. Il primo che incontro per la strada prima di arrivare a casa, trovo mio cugino, che era stato nei partigiani, allora gli dico “guarda, dimmi subito com’è la situazione a casa che… tanto sono abituato a sentirne di tutti i colori”. Lui mi disse: guarda tua mamma è all’ospedale, tuo fratello l’hanno ammazzato. Mio fratello era andato nei partigiani, avevano fatto la spia uno vicino e l’hanno ammazzato – mio fratello era nei partigiani, aveva fatto la spia uno vicino e l’anno ammazzato – e poi l’altro fratello è ancora prigioniero degli inglesi, non è ancora venuto a casa”, “beh, meno male io son già arrivato il primo allora”. Sono arrivato a casa, io avevo preso tutta la roba che avevo indosso, mia cognata ha fatto bollire tutto, perché mia mamma era all’ospedale, sono andato il giorno dopo a trovarla, e aveva una forte depressione, era qui proprio in questo ospedale qua, perché qua era l’ospedale psichiatrico femminile. Era sotto al pian terreno dove adesso c’è l’anagrafe. E sono andato vicino, l’ho salutata “mamma, non ti ricordi di me?”, e lei mi ha guardato bene e fa “sei Mario?”, “no non sono Mario, Mario è morto, sono Elidio! sono Elidio!”. E si è messa a piangere, poi non ha più parlato, non so se mi ha riconosciuto. Quindici giorni dopo è morta. Sei mesi dopo è morto mio padre di tumore, e sono rimasto quattro anni a casa di un fratello finché mi sono poi sposato.  E mio fratello figurati che l’hanno ammazzato per 5 mila lire, che uno ha fatto la spia, per prendere 5 mila lire lo ha fatto ammazzare. E l’altro fratello che era prigioniero è ritornato poi a casa nel ’46.

D: Ascolta Miola, tuo fratello che hanno ammazzato, dov’è che l’hanno ammazzato?

R: Proprio vicino a casa, perché era nei partigiani della… Lui era militare no, doveva andare militare sul fronte, quando è stato lo sfacelo che la Francia è caduta, lui era militare: non è più andato militare, allora è andato nei partigiani della zona di Casellette, da quelle parti lì, a quel tempo lui era più anziano di me, era del ’14. Eran venuti a Torino che gli avevano detto che alla [Michelin] davano dei copertoni dei camion che avevano perso; arrivando lì in via Terni, si chiamava la via, e c’era un’osteria che noi conoscevamo, come il padrone il mio papà lo conosceva bene. In questa osteria – erano lì che mangiavano no – qualcuno li ha visti che conosceva per prendere ‘sti soldi, che abitava mica tanto lontano, a cento metri da noi, gli ha fatto la spia: si son presentati i repubblichini, no. E l’osteria aveva l’ingresso verso la strada e uno dal cortile, sono entrati due dall’ingresso principale, lui si è alzato, il primo, e ha cominciato a sparare lui, ha sparato a ‘sti repubblichini. L’altro che era vicino a lui si è messo da parte, quelli che erano vicino a mio fratello sono scappati, gli altri tre, e mio fratello, sono entrati gli altri di dietro, gli hanno sparato dietro, lo han preso nella schiena e nella testa, lui è rimasto lì. E’ morto così. Difatti, sempre proseguendo la storia di mio fratello, quando è finita la guerra, quello che ha ucciso mio fratello, i tre che erano insieme, han saputo… son venuti a sapere chi era, sono andati a prelevarlo e l’han fucilato poi lì davanti a quell’osteria, lì. E mi ricordo di un vecchietto che mi diceva quando sono ritornato “le vedi queste scarpe qua? le ho preso io perché avevo bisogno di scarpe, sono di quello che aveva fatto ammazzare tuo fratello”. Se volete riepilogare qualcosa che… se mi viene in mente, se perdo il filo dopo…

D: Miola, ti ricordi se a Dachau, ad Allach, oppure nell’altro sottocampo, hai visto anche delle donne?

R: A Dachau no. A Allach nemmeno. A Blaichach ho visto quelli che lavoravano in fabbrica, a Allach nella fabbrica, nell’infermeria, in quei posti lì. No, nel campo non ho mai visto donne io, mai.

D: E dei religiosi, ti ricordi se c’erano dei sacerdoti?

R: No, con me no. Non mi ricordo. O perlomeno nessuno si è mai dichiarato tale, no.

D: Qualche nome di qualche tuo compagno te lo ricordi?

R: Sì, Milani, questo qui mi ricordo bene, poi c’era uno che si chiamava Todeschini, poi un altro che è morto adesso, non mi viene più in mente il nome, perché è difficile tenere in mente i nomi. Invece Moretti ha una memoria! Lo invidio per quello.

D: Elidio, da Allach quando siete partiti per Blaichach, più o meno?

R: Quando siamo partiti? Dopo la quarantena a Dachau, che quarantena si fa per dire, poteva essere venti, trenta giorni, quindici.

D: Poi siete andati a Allach.  

R: Poi siamo andati a Allach.

D: Però da Allach verso Blaichach, quando?

R: Dopo un paio di mesi, circa, più o meno, per preciso le date, non avevamo neanche da segnare, non potevi…

D: E come siete andati? Perché ho visto che Blaichach è abbastanza lontano.

R: Sì sì siamo andati in treno. Ci han portati alla stazione di Monaco, adesso non so che stazione fosse, e ci hanno messo in un vagone con le sentinelle, isolato, noi eravamo lì dentro. Eravamo mica tanti, eravamo dieci o dodici.

D: Però quando sei arrivato lì, il campo era già in funzione?

R: Il campo sì sì, il campo era già in funzione, certo.

D: Ecco, ascolta, invece Allach, il campo era grande?

R: Sì, a Allach c’erano… saranno state almeno 10 mila persone io credo, era grande il sottocampo di Allach. Difatti c’è un libro che si vede la liberazione di Allach.

D: E vicino lì ad Allach, al campo, c’era il paese, c’era qualcosa?

R: No il paese no, era abbastanza… non si vedeva il paese da vicino, il campo era isolato dal paese. Invece a Blaichach era nel paese, a Blaichach il campo era dentro un… come si dice, uno stabilimento che sopra i primi due piani, quelli che lavorano sopra entravano da un’altra parte che noi non sapevamo dove entravano, noi si entrava di fianco, avevano fatto una scala, si andava su per due piani, si era isolati. Dove c’erano le finestre che davano dalla nostra parte erano tutte bloccate, gli altri due piani sopra, e noi eravamo in quei due piani lì. Lì dietro, io mi ricordo sempre che c’era il reticolato, il cortile dell’appello e delle case… delle villette più avanti sulla… perché era fatto un po’ in salita così, e noi siamo rimasti sempre lì dentro. E mi sono accorto, perché da una parte fa ridere perché lì a Blaichach ero a dormire… eravamo in un castello che erano undici russi e io solo italiano, che dormivo con undici russi. Ho poi visto ‘sti russi che prendevano dei biglietti, non so come li facevano passare, c’erano tutte ragazze che lavoravano sopra, erano tutte russe, e allora si passavano dei biglietti così. Poi mi sono accorto per caso perché ho visto una volta che mi sono svegliato, ho visto che era chiaro, che prendevano ‘sti biglietti.

D: Miola scusa, ritornando indietro a San Sabba, tu sei riuscito a comunicare a casa tua?

R: No no no, niente, niente. Nessuno ha più saputo niente… Ah, adesso ti faccio sapere una cosa che mi è scappata, adesso parlando di quello mi è venuta in mente. Nell’ultimo sottocampo lì di Blaichach, dopo un periodo che lavoravo lì – lavoravo io dove temperavano ‘ste bielle, e c’era anche dei torni lì vicino – degli altri che lavoravano nella meccanica mi ha detto uno “te sei di Torino, c’è un torinese che lavora là dentro, civile, c’è un civile che lavora lì”, uno che abitava a Torino, abitava vicino alla Fiat Lingotto. Allora io ho detto “porca miseria, ma com’è? dov’è?” gli ho detto, “ma, è lui che lavora alla pulitrice, che lucidava ‘ste bielle; proprio vicino ai gabinetti, ci sono due linee, lui è lì in mezzo, te vai al gabinetto vedi che lo incontri”. Mi han dato tutte… E io di notte sono andato, perché di giorno non parliamone perché di solito c’è troppa gente, di notte c’era solo il turno di notte, e c’era meno sorveglianza. Comunque vado di notte al gabinetto, e vado lì vicino a questo qui, lui era lì vicino alla pulitrice che fregava ‘ste bielle, che puliva ‘ste bielle, e vado vicino e faccio in piemontese “l’è vera che […] de Turin?”, lui fa “sì, e chi te l’ha detto?”, “me l’han detto dei compagni, così – fa[ccio] – avrei bisogno di un favore grande da lei”, gli ho detto sempre in piemontese eh , “ho bisogno di un favore grande da lei: che mi mandasse a dire a casa solo che sono vivo, solo quello”. E lui fa “ma, adesso vedrò”, io gli ho dato l’indirizzo, lui l’ha tenuto a mente, e ha detto così “però non ti dico che te lo mando subito o come, perché io ho solo due cartoline da spedire al mese, e devo passare alla censura, devo fare in maniera che non dia nell’occhio”. E difatti poi ha mandato ‘sta cartolina, l’ha mandato, e ha detto ai miei che ero vivo. E i miei a casa, quando sono arrivato, credevano che fossi mutilato perché ho fatto scrivere da un altro, pensavano che io fossi mal messo.

Ricapitolando mi è venuta in mente quella cosa lì. E difatti dopo liberato, che sono poi tornato a casa e tutto, sono andato a cercarlo, e lui era ancora lì che abitava, dice che poi stava per partire per andare nel Veneto, lui era di origine veneta, E andava a lavorare laggiù. Io gli ho detto “vieni a casa nostra almeno a passare una giornata con me che mi hai aiutato”, perché mi aveva portato anche delle patate questo qui, mi faceva bollire delle patate allora, sempre di notte le prendevo no, perché poi le mettevo dentro alla camicia, e mi mangiavo ‘ste due o tre patate, tutto serviva. Mi è venuto a trovare, ha fatto tutta la giornata con me, ha fatto il pranzo dai miei, ha conosciuto mio padre perché mia madre era già morta. E poi è partito e non ho più saputo niente. L’unica cosa positiva di tutto, quella cartolina che aveva mandato. Peccato che non l’han tenuta.

D: Sempre alla Risiera in quanti più o meno eravate su al secondo piano?

R: Là dentro penso fossimo stati almeno un 150, 180 persone.

D: Italiani, solo italiani? 

R: Erano solo italiani.

D: Tutti militari?

R: Eh, quasi tutti militari. Poi c’era già un mucchio di scritte sopra, tante cose sui muri, io non ho scritto niente.

LA REGISTRAZIONE FINISCE QUI. SEGUE TRASCRIZIONE DELL’ULTIMA PARTE D’INTERVISTA NON RIPORTATA IN AUDIO.

Non ho scritto niente perché non avevo anche niente da scrivere, non avevo neanche una matita.

D: E quand’è che sei arrivato a casa?

R: Sono arrivato a casa il 15 giugno del ‘45.

D: Da solo. 

R: Da solo.

D: E a Bolzano dicevi che ti sei fermato?

R: Mi son fermato fino al mattino che è partito quel camion.

D: Sì ma in stazione in un edificio?

R: A dire il vero eravamo in un ristoro, che davano del ristoro a quelli che ritornavano. 

D: Vicino alla stazione?

R: Vicino alla stazione, davano qualcosa da mangiare. Mi ricordo che c’erano diversi che chiamavano “di dove siete? siete di qua? siete di là? Noi cerchiamo quelli di questo paese, di quell’altro paese, di quella città”.

D: Ti ricordi se era la Croce Rossa che faceva questo?

R: C’era la Croce però han dato poco lì, c’era poca roba da…

D: E questo Milani chi è?

R: Milani è uno che è stato con me, prigioniero lì a Dachau, che poi è partito. Lui è di quelli che erano partiti da Allach, che quando siamo ritornati mi ha detto così “te hai avuto un coso così per andare a finire lì, di non venire con noi”: sono andati a finire nell’Alsazia, lavoravano in galleria, sempre in galleria, e io l’ho schivata perché, praticamente un male mi ha portato del bene.

D: Si chiama come, Milani? 

R: Milani Gottardo

D: Era di Milano?

R: Sì, c’è nel libro qua, no non c’è, ‘La vita offesa’ c’è.

D: Era di Torino?

R: Sì sì di Torino. Lui aveva anche il padre in Germania, non solo lui

D: Cioè, tutti e due insieme?

R: No non erano insieme, però era andato a finire in Germania anche lui.

D: Ma è vivo ancora questo Milani?

R: Sì sì, adesso ha il cuore un po’ a pezzi ma vive ancora.

D: E questo Todeschini è vivo ancora?

R: Non lo so, non l’ho mai più sentito, ma deve essere ancora… adesso chiedo poi se è ancora scritto. Se guarda ne ‘La vita offesa’ c’è tutta la biografia, ognuno scrive la…

D: Non so se ho capito bene, la fabbrica di Blaichach era su più piani?

R: No non era la fabbrica, era dove c’era il campo che c’era due piani che faceva campo di concentramento. C’eravamo noi dentro, e sopra lavoravano dei civili, delle donne russe…

D: Tu non sei mai stato intervistato?

R: Sì sì, due o tre volte, da uno e dall’altro, solo che la memoria ogni tanto vengono delle cose a rate.

D: Sei bravissimo, ti ricordi tutto...

R: Ma proprio tutto, a volte quando vado via “porca miseria mi sono dimenticato”.

D: […]

R: Sì sì una volta sola, 69.786 a Dachau. E ho sempre tenuto quel numero lì perché erano tutti sottocampi di Dachau.

D: … sentivate rumori, musiche

R: Sì perché, quando volevano bastonare, torturare qualcuno allora facevano dei rumori, sentivi quei rumori, con quei rumori coprivano tutto, dalla musica al rumore dei camion.

D: Ascolta, tu ad Allach sei più ritornato?

R: Ad Allach non c’è più niente, sono andato una vola ma non c’era più niente.

D: Sai che hanno messo due targhe?

R: No.

D: Non lo sai? I francesi e i tedeschi.

R: Perché erano tanti francesi anche lì, bisogna che vada a vedere poi una volta, che fanno un viaggio che è da dirlo, perché adesso magari vai lì non ti orizzonti più.

D: No, adesso ci sono tutte le casette.

R: E’ come la prima volta che sono andato a Dachau, non si entra dall’ingresso del portone da dove sono entrato io, quando sono entrato lì sono rimasto, poi ho visto il fabbricato, che quello lì c’era già allora, fatto così.

Todros Carlo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Carlo Todros, sono nato il 23 marzo del 1923 a Pantelleria, provincia di Trapani. E però posso dire di essere piemontese perché a Pantelleria sono solo nato, e poi mi sono trasferito a Torino, perché mio padre era torinese, mia mamma invece era nativa di Pantelleria e a suo tempo, in quei tempi si usava che la mamma quando aspetta famiglia andava dai genitori, e quindi io e mio fratello siamo nati tutti e due a Pantelleria, però effettivamente siamo torinesi. I nonni erano torinesi, una famiglia ebrea di Torino, molto importante, avevano una posizione molto rilevante in Piemonte, e quindi poi noi ci siamo – dopo un periodo di permanenza in Liguria – ci siamo trasferiti a Torino.  La permanenza in Liguria era derivata dal fatto che scoppiata la guerra, i bombardamenti a Torino erano molto pesanti, e allora mia madre, preoccupata, ci siamo trasferiti in Liguria a Imperia dove da giovani, da piccoli, avevamo fatto una parte delle elementari delle medie e una parte delle superiori, almeno mio fratello, e avevamo certamente delle conoscenze e il posto era molto più tranquillo, chiaramente.

Ci siamo trovati bene fino ad un certo momento, quando nel 1938 il governo italiano guidato da Mussolini, il fascismo, emette le prime leggi razziali, le prime leggi razziali che prevedevano l’espulsione dalle scuole statali del regno degli studenti italiani, ma di religione ebraica. Noi sino a quel periodo eravamo considerati ebrei, come in effetti risulta dai documenti a Torino, e quindi siamo stati espulsi dalla scuola pubblica; e abbiamo avuto la possibilità, chiamiamola possibilità e fortuna, di poter continuare a studiare, perché come sempre in Italia le leggi prevedono sempre delle scappatoie: la legge diceva che i cesarini italiani,  per quanto si riferiva agli studenti di religione ebraica, dovevano essere espulsi da  tutte le scuole statali del regno, quella parola ‘statali’ ci ha consentito di essere accolti da un istituto privato di sacerdoti, i Fratelli delle scuole cristiane, che ci hanno accolti, e quindi abbiamo potuto continuare a studiare. Chiaramente però, il fatto di aver subito questo affronto – che noi consideravamo un affronto non essere più uguali agli altri ragazzi e agli amici che avevamo – ha iniziato una contestazione. Una contestazione che non va intesa una contestazione come può avvenire oggi, con manifestazioni con… diciamo, sollevazioni o altro, era una contestazione basata su incontri che noi avevamo tra noi giovani, ebrei chiaramente, che erano stati espulsi, e quindi valutavamo la situazione. Non potevamo essere favorevoli, chiaramente, ad un regime che ci considerava diversi dagli altri e quindi in un periodo di dittatura, perché in quel periodo in Italia vigeva la dittatura fascista, siamo stati subito segnalati, registrati, controllati, e quindi abbiamo subito poi tutta la deportazione proprio a seguito di questa segnalazione. 

Noi come ho detto prima eravamo sfollati in Liguria, a Imperia, avevamo formato questo gruppo, piccolo gruppo di amici che si riunivano per valutare la situazione in cui ci si trovava; e sino al momento in cui, dopo l’8 settembre del ’43 – quando ritenevamo che tutto fosse finito, e invece è iniziato allora il nostro calvario – dopo l’8 settembre del ’43, con l’invasione tedesca dell’Italia settentrionale, chiaramente sono iniziate le persecuzioni perché i tedeschi usano dei sistemi diversi dagli italiani e appena arrivati in Italia, occupate le varie zone, si sono fatti segnalare le persone pericolose, o gli ebrei, o le persone che avevano avuto delle restrizioni della libertà prima. E quindi immediatamente dopo… dunque, l’8 settembre del ’43 l’Italia chiede l’armistizio… dopo quindici giorni i tedeschi invadono l’Italia settentrionale; a fine settembre del ’43 incomincia il nostro calvario perché arrivano i tedeschi a Imperia e su segnalazione veniamo immediatamente arrestati. Veniamo arrestati sia io che mio fratello, assieme a altre persone, e veniamo trasferiti nel carcere di Imperia per un primo interrogatorio, poi è durato…

D: Scusa Carlo, quando vi hanno arrestato?

R: Dunque, verso fino settembre del ’43, pochi giorni dopo l’occupazione nazista dell’Italia settentrionale. Veniamo trasferiti a Imperia, nel carcere di Imperia, dopo un sommario interrogatorio; veniamo trasferiti a Savona, nel carcere di Savona. I sistemi dei tedeschi sono diversi dai sistemi italiani, hanno una procedura che deve seguire un iter stabilito, dobbiamo seguire delle tappe, delle varie tappe, sino poi alla conclusione che è la deportazione.

D: Scusa, Carlo, vi hanno arrestato dove?

R: A Imperia, a Porto Maurizio, verso la fine di settembre del 1943. Veniamo trattenuti pochi giorni nel carcere di Imperia, poi veniamo trasferiti nel carcere di Savona. Dopo qualche giorno ancora del carcere di Savona, senza essere interrogati, veniamo trasferiti nel carcere di Marassi a Genova. E qui inizia il periodo tragico, perché siamo sotto la protezione delle SS tedesche. A Marassi veniamo trattenuti e ci fermiamo circa un mese, a Marassi in una cella eravamo in sette, io e mio fratello, Raimondo Ricci, Enrico Nicola Serra, Nino Esposito, e un altro che poi… quattro sono stati liberati e io e mio fratello e Raimondo Ricci e il Serra siamo stati deportati. Restiamo in cella un mese a Marassi senza interrogatorio, iniziano le prime… ci rendiamo conto subito che le cose sono cambiate perché siamo in mano alle SS. Sino al giorno in cui veniamo chiamati e trasferiti su un camion e portati… da Marassi veniamo trasferiti alla stazione, alla stazione ci caricano su un treno e veniamo trasferiti in un luogo che noi non conoscevamo, che è Carpi, Fossoli. Veniamo portati in un campo di concentramento, questo è un campo di concentramento certo, un campo di raccolta. Il campo di Fossoli si può dire ha raccolto il 90% dei deportati italiani, Bolzano è venuto dopo nel senso che dopo la liberazione, dopo diciamo… lo smaltimento del campo di Fossoli, i prigionieri sono stati portati a Bolzano. A Fossoli il 90% dei deportati sono dei prigionieri, poi sono stati deportati. Come ho detto prima, era un campo di raccolta: man mano che dalla Germania arrivavano richieste di lavoratori, chiamiamoli lavoratori, prelevavano dal campo di Fossoli la manodopera e la trasferivano in Germania. Eravamo divisi dagli ebrei, in questo campo c’era anche Primo Levi – che non conoscevamo ancora, lo abbiamo conosciuto dopo la liberazione – e una parte di questi ebrei sono partiti quasi tutti prima di noi e sicuramente sono andati ad Auschwitz. Noi, dopo tre mesi circa di permanenza a Fossoli, abbiamo… una mattina veniamo svegliati, veniamo raggruppati nella piazza dell’appello, vengono chiamati i nominativi, i nomi di quelli che devono partire, e partiamo per una destinazione ignota. E veniamo trasferiti su camion alla stazione di Carpi – noi eravamo a Fossoli, che sono cinque chilometri da Carpi, dove c’era la stazione – e qui inizia il viaggio verso la… verso l’ignoto perché noi non sappiamo assolutamente dove veniamo trasferiti.

D: Scusa Carlo, a Fossoli vi hanno immatricolato?

R: Sì, a Fossoli avevamo un numero. Questo numero non me lo ricordo perché non avevamo ancora bene la percezione di cosa volesse dire perdere il nome. Avevamo una vita abbastanza facile a Fossoli, certo, però non mi ricordo il numero di Fossoli.

D: Ecco, ti ricordi nel periodo che tu eri deportato a Fossoli, se c’erano anche dei religiosi?

R: Beh sì, molti religiosi c’erano. Adesso i nomi non me li ricordo, però dalla prigione a Mauth… al campo di sterminio i sacerdoti hanno sempre prevalso su tutti gli altri. Gaggero, Don Gaggero – adesso non ricordo se era a Fossoli, ma sicuramente era a Fossoli, io poi l’ho conosciuto a Mauthausen – era un uomo eccezionale come tutti i sacerdoti, perché i sacerdoti erano quelli che avevano pagato perché avevano dato aiuto o ai partigiani o agli ebrei, quindi erano moltissimi i sacerdoti nei campi di sterminio.

Quindi quella mattina partiamo per destinazione ignota. Qui un particolare va ricordato, perché mia madre… non perché è mia madre, ma mia madre ha sofferto come abbiamo sofferto noi, soprattutto perché aveva due figli. Io mio padre non l’avevo più, non l’ho conosciuto, è morto quando io avevo pochi anni, e mia madre ci ha sempre seguiti in tutte le traversie di questa nostra avventura; e nel periodo in cui noi eravamo a Fossoli lei si era trasferita a Carpi, si era trasferita a Carpi e ci portava aiuto, per quanto era possibile, in viveri, in abbigliamento, e quindi anche lei ha sofferto, forse più di noi, la nostra deportazione. Quella mattina, su informazione di una signora che ci ha aiutato parecchio quando eravamo a Fossoli, ha saputo che noi partivamo e quindi ce la siamo trovata di fronte alla stazione di Carpi, noi eravamo già sul carro bestiame, era ancora aperto. E poi siamo partiti, siamo partiti per una destinazione ignota, e non sapevamo dove si andava. Inizialmente avevamo capito dove eravamo perché chiaramente il carro bestiame aveva una feritoia da cui vedevamo fuori, e sino a Bolzano avevamo capito che eravamo in Italia. Poi dopo Bolzano non c’è stata più possibilità di sapere dove fossimo diretti.

D: Eravate in tanti sul tuo Transport?

R: Nel vagone eravamo una cinquantina. Una cinquantina di prigionieri che hanno provocato delle difficoltà non indifferenti perché intanto eravamo carichi di bagagli, questo era un nostro desiderio, portarci il più possibile roba, se avessimo saputo la fine che avremmo fatto non avremmo subito… sopportato quel sacrificio per portarci via la roba. Noi avevamo talmente tanti bagagli che non potevamo distenderci, dovevamo stare in piedi, e abbiamo fatto tre giorni di viaggio, tre giorni e tre notti sempre in piedi, perché pensavamo che quel bagaglio costituisse poi la nostra salvezza; invece non è servito a niente perché come siamo arrivati ce lo hanno portato via.

D: Ecco, in che periodo è avvenuto questo Transport?

R: Dunque, siamo partiti a fine… il 10 di maggio del ‘44. Il viaggio è durato tre giorni e tre notti; e all’interno del vagone sono successe scene indescrivibili perché chiaramente i giovani hanno subito maturato l’idea di tentare la fuga, però dentro al vagone c’erano delle persone anziane, dei vecchi, dei bambini, e i tedeschi prima di partire ci avevano dato la solit[a] informazione: ognuno di voi che scappa fuciliamo dieci prigionieri. E allora abbiamo ritenuto di non sottoporre a questo rischio delle persone che non avrebbero potuto scappare con noi e quindi abbiamo desistito, anche perché come ho detto prima, ritenevamo di arrivare in un paese che non sapevamo quale per lavorare. Eravamo giovani, robusti e forti ancora – io in quel periodo pesavano quasi novanta chili – e pensavamo di superare quel periodo, e quindi abbiamo proseguito il nostro viaggio, tre giorni e tre notti.

Arriviamo di notte, perché poi una delle caratteristiche dei tedeschi era quella di non creare curiosità, o sollevare delle indagini da parte di nessuno, si arrivava sempre di notte. Siamo arrivati di notte in un luogo, ci fanno scendere dal carro bestiame, noi siamo scesi abbastanza sollevati pensando di aver terminato il nostro calvario. Siamo arrivati alla stazione di Mauthausen e la prima cosa che leggiamo appunto, Mauthausen, per noi un nome assolutamente sconosciuto, non sapevamo dove si trovasse questo paesino che oggi sappiamo bene dove si trova. Scendiamo dal treno e ci incolonnano con tutti i bagagli. Per andare al campo esisteva una strada, ma noi non facciamo la strada, ci fanno iniziare a conoscere il nuovo sistema a cui saremmo stati poi sottoposti, e ci fanno fare tutto il tragitto dalla stazione al campo, che sono quasi cinque chilometri, attraverso i campi in salita, attorniati da due file di SS, da dei cani lupo ammaestrati per quel compito in modo egregio, e soprattutto carichi di bagagli. Eravamo in cinque: io, mio fratello, Raimondo Ricci, Enrico e Nicola Serra; e Nicola era malato, era il più anziano di noi, e non riusciva a portare su i bagagli. Perché poi oltre a tutto il trasferimento non è avvenuto in forma normale ma abbastanza velocemente, di corsa, bastonati dalle SS quindi dovevamo fare doppia fatica. Il terrore nostro è che Nicola, non potendo trasportare i bagagli, li lasciasse, li perdesse, e allora ce li siamo caricati noi; oltre a quello che avevamo già ci siamo caricati i suoi bagagli. Abbiamo faticato. Chiaramente abbiamo faticato, però, a un certo momento, siamo arrivati in un piazzale, e qui è iniziato l’incubo. Perché di notte il campo di Mauthausen era al buio, esistevano solo due luci, uno sulla sinistra e uno sulla destra. La luce sulla sinistra era… proveniva da una baracca, era la baracca numero uno che era la lavanderia, l’abbiamo visto dopo, e sulla destra invece abbiamo notato una cosa per la quale noi non eravamo preparati: un’immensa ciminiera che fumava e che ogni tanto lanciava delle fiamme, e con un odore che dava fastidio, e non sapevamo che quello era il crematorio. Non conoscevamo ancora niente, assolutamente niente dei campi di sterminio, appena entrati nel campo poi le informazioni erano immediate, eravamo a conoscenza di tutto. Il crematorio fumava giorno e notte, certo. La baracca di sinistra sotto la quale siamo stati trasferiti era la baracca delle lavanderie, non era una lavanderia tradizionale certamente. Arrivati sotto questa baracca ci fanno spogliare, denudarsi completamente, e ci fanno lasciare tutto quello che avevamo portato davanti a noi. In quel momento arrivano dei prigionieri, con delle portantine, delle specie di carrelli, buttano dentro tutta la nostra roba: anelli, orologi, catenine, fotografie, tutto quello che avevamo viene portato via. La biancheria viene portata in questa baracca che era la baracca numero 1, dove veniva ripristinata.

Ecco, questa è un’altra cosa che va tenuta presente. Il sistema tedesco era arrivato a organizzare una cosa che nessuno forse avrebbe potuto pensare. In un periodo di guerra, dove l’industria era adibita alla produzione di armi, non avevano più tempo a produrre abbigliamento o cose di genere voluttuario, chiamiamolo così, e quindi se noi pensiamo che dodici milioni di persone sono entrate nei campi di sterminio con un bagaglio immenso di roba che si sono portati su, pensate che cosa abbiamo contribuito noi a fornire alla Germania. Loro non avevano più neanche bisogno di fare abbigliamento perché tutto quello che noi avevamo lo hanno distribuito poi alla popolazione. Veniva lavato, ordinato e messo in ordine in questa baracca numero 1, e poi distribuito alla popolazione. Nudi come vermi, e anche qui va fatto presente il fatto della nudità. Parliamo di 53, 54 anni fa, certamente le cose sono cambiate, ma il fatto di trovarti nudo in mezzo a delle persone, anche se uomini, a parte che c’erano delle donne, quindi quando parlo di queste cose, soprattutto quando parlo nelle scuole, dico: certo che noi abbiamo sofferto, però se consideriamo la nostra sofferenza in rapporto a quello delle donne, le donne hanno sofferto veramente! la donna nuda, in mezzo a degli uomini, trattata allo stesso modo nostro, perché quando si entrava in un campo di sterminio erano due le possibilità: lavorare, essere sfruttato o morire subito. Se eri nella possibilità di essere sfruttato, non esistevano più sesso, niente, tutti uguali, eravamo tutti dei numeri, vestiti tutti allo stesso modo, trattati tutti allo stesso modo. Quindi immaginate che cosa quella notte devono aver subito, sopportato quelle povere donne in mezzo a degli uomini nudi. Noi eravamo anche nudi ma eravamo anche in difficoltà noi.

Passa la notte con un freddo che non vi dico, poi il sistema nervoso cominciava a ceder. Alla mattina sentiamo suonare una sirena, anche qui il sistema tedesco. Vedete, noi siamo arrivati a Mauthausen e non siamo entrati subito nel campo, perché avremmo disturbato la vita normale del campo. Il campo riposava, lavoravano i lavoratori, i turni di lavoro a Mauthausen erano di dodici ore, dalle sei del mattino alle sei di sera, poi uscivano quelli delle sei di sera, [e tornavano] alle sei del mattino dopo. Il campo quel momento riposava, quindi noi non potevamo entrare a disturbare la vita del campo.  Alla mattina a una certa ora abbiamo sentito suonare una sirena, poi abbiamo sentito delle urla, dei conteggi, delle grida, solite scene allucinanti. Poi abbiamo sentito un rumore strano di zoccoli che uscivano, erano i lavoratori del mattino. Ecco, in quel momento allora, noi abbiamo la possibilità di entrare nel campo. Entriamo nel campo, eravamo all’esterno sempre del campo ma dietro la baracca della lavanderia, veniamo portati sotto la baracca della lavanderia dove c’è una doccia. Questa era una doccia, certamente noi non sapevamo ancora che due baracche, tre baracche dopo esistevano delle docce che erano delle docce finte che erano la camera a gas. E qui ci fanno fare una doccia che per quanto fredda o tiepida non ha importanza, ci ha dato sollievo perché dopo una notte di quel genere ci ha dato del sollievo. Abbiamo fatto la doccia e poi seconda fase dell’annullamento della personalità. Arrivano dei barbieri, dei prigionieri, come noi, come tutti, perché nei campi di sterminio tutto era in mano ai prigionieri, ad eccezione della camera a gas che veniva fatta funzionare dalle SS tutto il resto era in mano ai prigionieri. Arrivano dei barbieri, ‘Friseur’, che in genere erano spagnoli. Gli spagnoli erano quelli che erano arrivati prima e che quindi avevano occupato i posti diciamo migliori: barbieri, cucine, lavanderia eccetera. E quindi arrivano questi signori, e inizia la seconda fase dell’annullamento della personalità. Nudi – pensiamo sempre alle donne, assieme a noi – veniamo depilati completamente, rasati a zero, e depilati in tutto il corpo, quindi immaginiamo quello che devono aver subito quelle povere donne. Dopo veniamo… dopo questo trattamento che ci ha lasciati scioccati, perché non eravamo abituati, a gruppi di cinque veniamo portati sopra all’interno del campo dove ci sono dei tavolini, con delle SS sedute dietro, e vicino alle SS c’è un prigioniero italiano che conosce il tedesco. E qui ecco, io mi riferisco sempre alla scena del film ‘La vita è bella’ di Benigni, che… quel punto è un capolavoro, perché quando lui entra nel campo che arriva le SS, e chiede se c’è qualcuno che sa il tedesco, perché deve dare delle informazioni, lui che non sa una parola di tedesco, dice “ci sono io” perché c’ha il bambino vicino. E quindi traduce quello che ha detto il tedesco in un modo eccezionale eh, veramente un’opera d’arte quel punto. Invece noi che siamo già più grandi, abbiamo… dobbiamo sapere dove siamo arrivati, e allora vicino alle SS c’è un prigioniero italiano che traduce quello che dice il tedesco, nome cognome professionale, tutte stupidaggini perché avevano già tutti gli elenchi. E poi le solite frasi che iniziano a lasciarci scioccati perché la prima frase che ti dice, dice “tu di qua non uscirai più vivo, uscirai di là”, e allora ti faceva vedere quel famoso camino che la notte avevamo visto fumare. “Da questo momento tu non sei più un uomo, ma sei un numero, il tuo nome non esisterà più, il tuo numero è…”, e ognuno aveva il suo numero, io avevo il numero 76.604, che poi in tedesco, per uno che non sa il tedesco, non è semplice. E poi ti informava che se non rispondevi a una chiamata di quel numero eri passibile di morte, quindi noi i primi giorni eravamo tutti tesi a cercare di ricordare ‘sechsundsiebzig sechshundertvier’ [76 604]: non è semplice per uno che non sa il tedesco. Lo abbiamo imparato poi a nostre spese. “Dunque tu da questo momento non sei più un uomo ma sei un numero”, e poi la frase, ecco, questa è quella frase che noi ricordiamo, sempre la ricordiamo perché dimostra come si è trattato di una categoria di uomini, di un popolo, perché i tedeschi sono così sempre, ancora oggi sono di una precisione, sono, sono… stabiliscono una cosa e la fanno, non c’è niente da dire, non sono come noi che le leggi le facciamo e poi le variamo. Comunque, la frase che loro ti hanno detto in quel momento, dopo, quando siamo tornati a casa, ci siamo accorti di quale… di quale previsione erano riusciti a creare un sistema del genere, “nessuno di voi tornerà a casa, però può essere che qualcuno sopravviva. E quando tornerà a casa e racconterà quello che ha visto e che ha subito, non sarà mai creduto.”  Ecco vedete, proprio quello che si è verificato. E dirlo in quel periodo non era facile per vedere quello, invece si è verificato proprio quello, “nessuno di voi sarà creduto”. E in effetti quando siamo tornati, che abbiamo cercato di raccontare, ricordando quel periodo, ma anche gli stessi familiari, non erano in grado di poter recepire quello che noi dicevamo, e molto spesso preponevano ai nostri discorsi le loro sofferenze certo, la fame, i bombardamenti, il periodo di guerra che per noi erano cose ridicole. E quindi abbiamo deciso per un certo periodo di non parlare più, e non abbiamo più parlato, sino al momento in cui, per fortuna, è sorto dal nulla Primo Levi e ha iniziato a scrivere i suoi libri, ‘Se questo è un uomo’, ‘La tregua’, ‘I sommersi e i salvati’, che hanno fatto conoscere questo problema in modo più importante. E allora sulla sua scia abbiamo iniziato a testimoniare, sempre però su richiesta: noi non ci imponiamo mai, noi soprattutto nelle scuole, andiamo quando ci chiamano e ci pregano di raccontare la nostra esperienza.

Dopo questo primo contatto con le SS veniamo trasferiti in un blocco di quarantena. Questo si chiamava quarantena perché per loro era un blocco dove iniziava la prima selezione. I più robusti sopravvivevano, quelli che erano già deboli non gli servivano e quindi dovevano morire. Quaranta giorni in un blocco dove a malapena si stava in 200 persone – eravamo in 500 – dormivamo in terra, senza possibilità di avere materassi e niente, e stavamo tutto il giorno fuori, pioggia sole non ha importanza, sporchi come non vi dico. Io ricordo sempre, quando si arrivava alla sera che si doveva andare a dormire… dormire? no, si andava nella baracca, si dormiva in 500 in un luogo dove a malapena ci stavano 200 persone, allora si dormiva come le sardine testa e piedi, testa e piedi, no? Io ricordo che alla sera, quando si avvicinava il momento, ci avvicinavamo io e mio fratello, e stavamo vicini, perché perlomeno dicevamo “almeno dormiamo, so che dormo con i piedi di mio fratello, invece di dormire con i piedi di uno che non conosco”.

E quindi la notte passava, poi passava il giorno dopo e a questo ritmo su circa 500 siamo sopravvissuti in 250, 250 che erano quelli validi per poter essere sfruttati per il lavoro. E allora si usciva da questo blocco di quarantena e si veniva trasferiti nelle baracche, o trasferiti nei sottocampi, perché Mauthausen è il campo centrale, però Mauthausen aveva 52 sottocampi e quindi a seconda delle necessità… Perché loro avevano trovato anche un altro sistema, che era quello di evitare il trasferimento di persone avanti e indietro, nei luoghi dove esisteva un posto di lavoro una fabbrica o un  qualcosa creavano un piccolo campo, che era sempre soggetto alle angherie dei Kapò, i famosi Kapò che poi senza controllo si comportavano in un modo spaventoso. E qui va fatto presente – io lo dico sempre non ho vergogna, sono stato anche in Polonia, e lo dico anche a loro – i peggiori carnefici nei campi di sterminio sono stati le SS sì, però seguiti a ruota dai polacchi. Non c’è niente da fare, io capisco che per salvare la loro vita hanno dovuto comportarsi in un certo modo, però noi italiani queste cose non le avremmo fatte sicuro. Soprattutto nel campo, nell’infermeria di Mauthausen, che era in mano ai polacchi, i Kapò erano polacchi, “tanto eran gente che doveva morire”, quando arrivava l’ora della zuppa, o del pane, se lo tenevano loro, e facevano morire i prigionieri. Comunque, queste sono altre considerazioni.

Veniamo trasferiti nei blocchi… all’interno del campo e qui avviene il primo trauma, cioè il secondo trauma, il primo trauma come ho già detto è stato quello quando ci hanno tagliato i capelli a zero, che io non ero abituato e ho pianto la prima volta. La seconda volta invece, in quel momento i prigionieri dovevano essere distribuiti per i vari lavori, e fanno l’appello e chiamano me, e non chiamano mio fratello. Ecco, allora in quel momento mi sono sentito perso, perché dividermi da mio fratello ritenevo fosse una cosa molto pericolosa, e in effetti sarebbe stato pericoloso. Mio fratello allora con un atto di incoscienza, perché si può solo dire incoscienza, e senza sapere delle conseguenze a cui sarebbe stato assoggettato, vista… – anche a lui spiaceva dividersi da me – ha avuto un atto di incoscienza. È andato dal capoblocco che era un triangolo nero, un criminale, mio fratello un po’ di tedesco lo parlava, e ha avuto il coraggio di chiedere a questo Kapò se era possibile tutti e due fuori o tutti e due dentro. E questo qui non so neanche come mai, preso alla sprovvista, ma poi lui non gliene fregava niente, però il solo fatto di aver chiesto un qualcosa a uno di questi Kapò costituiva già una grave colpa; invece questo qui forse quella mattina era in buone condizioni, ha guardato mio fratello e gli ha detto “va beh, tutt’e due dentro”. E siamo rimasti tutti e due a Mauthausen per un anno. 

Un anno intero a Mauthausen… E poi anche questo è un fatto che va, e qui è sicuramente, io lo dico spesso, è sicuramente un miracolo che è derivato dalle preghiere di mia madre, perché non è possibile che tutto quello che è avvenuto, in contrasto con le regole di Mauthausen, sia avvenuto nei confronti miei e di mio fratello. Nei blocchi in cui noi dovevamo essere rinchiusi, non erano mai composti da prigionieri della stessa nazionalità, ed era un sistema che loro avevano trovato giusto: non creare solidarietà ma creare rivalità, anche nei blocchi; quindi, in un blocco non esistevano mai due della stessa nazionalità. Io e mio fratello siamo vissuti un anno assieme, nello stesso blocco, e dormivamo assieme io e mio fratello. È un miracolo che non ci sappiamo giustificare. Dormivamo in un castello di legno, dove a malapena ci stava una persona dormivamo in due. E dato che non dormivamo supini, ma dormivamo di fianco, perché non ci si stava, avevamo una coperta in due solo, e dormivamo avvolti in questa coperta. I blocchi erano costituiti da… tutto in legno, dalle finestre, che poi alla notte venivano tolte, perché loro dicevano che l’igiene era la prima regola [ride, ndr], pensate al freddo d’inverno in Austria. Eppure, con quella coperta e con il calore del nostro corpo io non ricordo mai di aver avuto freddo, non mi ricordo di aver mai avuto un raffreddore, e non ricordo di essermi mai ammalato. Questo è stato molto importante perché ammalarsi in un campo di sterminio voleva dire morire; quindi, è stata una condizione di favore, favorevole, molto favorevole. Mio fratello che, come ho detto, sapeva un po’ di tedesco, ha avuto la fortuna… mio fratello era ingegnere, si era dichiarato ingegnere, anche se non lo era ancora, ma lo era quasi. Ecco, qui un altro miracolo si è verificato. Nella nostra baracca c’era un austriaco che era il comandante del Baukommando che era il comando costruzioni. Perché Mauthausen aveva i vari comandi, il comando costruzioni serviva per dare schiavi nelle varie zone vicino a Mauthausen, per costruire qualcosa. E questo qua poi del Baukommando era un triangolo nero, cioè un criminale, che non sapeva neanche cosa volesse dire scrivere o fare un progetto. Quando ha sentito che mio fratello era ingegnere, gli ha chiesto se andava a lavorare da lui. E questo è stato effettivamente una fortuna enorme per mio fratello perché lavorava in una baracca al coperto, faceva progetti, progetti relativi alla costruzione di qualcosa. E ha avuto poi la possibilità di aiutare anche me perché mi aveva… mi distribuiva nei posti meno faticosi, e con me anche Raimondo, Raimondo Ricci che era con noi. I due Serra, invece, purtroppo sono stati trasferiti subito dopo il blocco di quarantena e non ne abbiamo più saputo niente, sino a qualche giorno prima della liberazione che io ho rivisto Enrico, Nicola era già morto. Appena dopo pochi giorni della deportazione quello era già andato perché era molto malato e debole, era morto subito. Enrico invece l’ho rivisto, pensate, l’ho rivisto qualche giorno prima della liberazione del campo.

Io lavoravo a costruire il rifugio antiaereo del comandante del campo, il colonnello Ziereis. Loro pensavano di vincere la guerra quindi i campi avrebbero dovuto essere mantenuti in efficienza ancora, quindi aveva bisogno di un rifugio antiaereo, e avevano chiesto degli scalpellini di professione; ed io, quando chiedevano… davano qualche incarico ero sempre il primo che alzavo la mano. Io ero scalpellino di professione, mai visto uno scalpello, mai vista una pietra; e quella notte mi sono accorto che forse avevo trovato il lavoro ultimo, perché il capo del blocco diceva “dovrai lavorare delle pietre, però se rompi la pietra sei considerato un sabotatore e quindi vai…”, quindi, ecco, ho trovato il lavoro finale.  Per fortuna invece ho trovato vicino a me Andrea, che era uno scalpellino di professione, che faceva la sua pietra e poi faceva la mia anche.

A mezzanotte avevamo mezz’ora di riposo, avevamo un bidone di acqua e rape in più degli altri, perché lavoravamo per il comandante. A mezzanotte avevamo mezz’ora di riposo, io ricordo che eravamo a fine aprile, e in occasione di quella mezz’ora di riposo uscivo dal bunker dove lavoravo per andare a pigliare una boccata d’aria fuori. Mi trovavo nel campo, ma fuori da questo bunker sotterraneo, e vedevo continuamente arrivare delle colonne di scheletri umani che li portavano nel campo 3 dove li raccoglievano per poi eliminarli. Io ero appoggiato alla baracca che mi riposavo, pigliavo una boccata d’aria fresca e passano queste colonne di scheletri, nudi, tutti nudi… [breve interruzione, ndr] E dopo quel periodo di lavoro in questo bunker sotterraneo, quella notte esco fuori a prendere una boccata d’aria e sono appoggiato alla baracca e vedo arrivare, passare, che passavano continuamente queste colonne di scheletri che andavano al campo 3 per poi essere eliminati. In un attimo mi sento chiamare “Uccio”. Io mi chiamo Carlo, Carluccio, in Liguria a Imperia, se voi andate a Imperia chiedete Todros non lo sa nessuno, ‘Uccio’ mi conoscono tutti, ero ‘Uccio’ io. Allora mi guardo, non riconosco, non lo riconosco, perché erano scheletri, tutti uguali, non facevi… facevi fatica a riconoscere una persona. “Sono Enrico, ho fame!”. Ecco, non mi ha detto niente, “ho fame”. Allora io dico “Enrico, un attimo!” Mi precipito nel bunker sotto, raccolgo un secchio di quelli della calce sporco, non ha importanza, lo infilo nel bidone della zuppa, lo porto su, e mi avvicino alla colonna che stava proseguendo, in fondo c’era le SS, gli dò questo secchio di zuppa, non so quanti litri contenga, 6, 5-6 litri: tutto d’un fiato se lo è bevuto, tutto d’un fiato. In quel momento arriva la fine della colonna, arriva la SS, mi chiama, e mi… Come succedeva sempre era obbligatorio, ti dovevi avvicinare, metterti sull’attenti, mützen ab, giù il cappello. Come mi tolgo il cappello mi arriva una sventola a questo orecchio di una potenza tale che sono rimasto intronato per qualche giorno. E poi mi dice [ripete il gesto della SS col braccio teso a ordinare il riposizionamento, ndr]: dovevo anche io andare insieme agli altri. E allora in quel periodo, sapevo parlare il tedesco, gli ho detto che io stavo lavorando per il colonnello Ziereis, per fare un lavoro speciale, allora lui sentendo parlare di Ziereis, mi dice “Raus”. Ma questo schiaffo lo ricordo per un motivo, perché dopo qualche giorno certamente lo avevo già dimenticato, però quando sono tornato a casa dopo la Liberazione, andavo d’estate al mare in Liguria come sempre – non nuotavo più come una volta a livello professionistico, ma a livello amatoriale – come entravo in acqua mi restava l’acqua nell’orecchio, e non usciva più. Una volta quando nuotavo entrava l’acqua ma poi facevi così e usciva, in quel periodo non mi usciva più. È arrivato un certo momento che mi ha formato del pus e mi portava infezione. Allora mia madre si è accorta che io non rispondevo più bene, che non sentivo bene allora mi ha portato da uno specialista a Imperia, il quale è rimasto meravigliato, dice “ma signora, suo figlio ha un timpano spostato”. Con quello schiaffo mi aveva spostato il timpano. Me l’ha messo a posto subito.  Quindi questa è la… diciamo, la nostra avventura. Tornati a casa abbiamo ripreso, per quanto possibile, dopo un periodo di ricostituzione fisica, perché non eravamo in condizioni…

D: Ecco, scusa un attimo

R: Prego.

D: Allora, la liberazione, come te la ricordi tu?

R: Beh, la liberazione me la ricordo in modo molto molto chiaro. Non sapevamo che era il 5 maggio chiaro, non avevamo né orologi né calendari, sapevamo solo che la mattina alle cinque suonava la sirena. Avevamo già delle sensazioni, perché vedevamo l’SS più umana, meno crudele, più che di umano meno crudele, non ci trasferivano a lavorare fuori lontano dal campo, vedevamo aerei in continuazione che passavano e bombardavano, quindi avevamo la percezione che qualcosa stesse succedendo. Quella mattina alle cinque non suona la sirena. Non suona la sirena allora scendiamo ugualmente, perché noi ci si svegliava sempre a quell’ora, scendiamo e arriviamo nella piazza dell’appello e Mauthausen, pur essendo costruita tutta in pietra – aveva sopra queste mura dei reticolati di filo spinato attraversati dalla corrente, le garitte delle sentinelle sempre con le mitragliatrici puntate dentro – quella mattina non c’era più nessuno. Allora, meravigliati, non avevamo capito bene cosa stesse succedendo, dopo qualche momento, un’ora non so quanto, si apre il portone principale del campo ed entrano i primi carri armati americani. Ecco allora in quel momento qualcuno dice “vi siete accorti di essere liberi?” “No, noi no non ci siamo accorti di essere liberi, ci siamo accorti di essere vivi”. E quindi in quel momento sono avvenute scene non di gioia, di esultanza: eravamo apatici eravamo scheletri umani, chiaro? Io in quel periodo non so quanto pesassi, ma dopo che mi han portato in quelle tende che gli americani avevano costruito al di fuori del campo – cercavano di darci un po’ di sollievo e di aiuto, e il medico che ci pesava – io pesavo 38 chili, un metro e ottantadue, 38 chili, si faceva fatica a stare in piedi. Però eravamo… eravamo vivi, ecco, eravamo liberi non ce ne siamo ancora accorti, perché non avevamo ancora ben capito… avevamo perso proprio il senso della libertà.

E questo, come aneddoto finale, va raccontato che dopo un certo periodo di permanenza ancora dentro al campo, perché non avevamo neanche la forza di camminare, gli americani avevano messo a controllare… non erano controlli erano persone, non so neanche chi fossero, erano dei militari, delle persone anziane, con delle divise azzurre, scure, erano lì solo per controllare che non succedessero fatti strani. Io quella mattina con un io amico sono uscito dal campo per andare a vedere cosa c’era fuori. Arriviamo davanti al portone del campo – questo per dire che non avevamo capito bene ancora che cosa volesse dire essere liberi – e mi presento davanti a questo signore, mi metto sull’attenti, mi tolgo il cappello, gli dico “76604, vorrei uscire dal [campo]” e lui mi guarda e mi dice “nein” “come – dico – no? e allora siamo prigionieri come prima”. E lui ha capito il mio stupore, e mi dice “no 76604, eine Mann, un uomo, prego”. Ecco, in quel momento abbiamo capito che eravamo tornati uomini liberi perché fino a quel momento avevamo solo capito di essere vivi, ecco, e nient’altro.

Usciamo dal campo, facciamo pochi metri, c’è un carro armato americano, e come al solito gli americani… c’era questo soldato ufficiale non so chi fosse, sulla torretta del carro armato che fuma. Ecco, in quel momento mi sono ricordato che io prima fumavo, e allora gli ho chiesto [Todros mima il gesto con cui chiese al soldato americano una sigaretta, ndr]. E scende sotto nel carrarmato, esce fuori, mi ricordo una stecca di Lucky Strike, una stecca di Lucky Strike, ce l’ha tirata. Abbiamo acceso la sigaretta. La prima, non ti dico… dopo due boccate eravamo dist… siamo, non so quante ore rimasti distesi.

Comunque, dopo questo periodo, il campo si stava svuotando, ogni nazione veniva a prelevare i superstiti, noi italiani… saremmo ancora là oggi, sicuramente saremmo ancora là oggi se non interveniva la Croce Rossa svizzera. Eravamo gli unici abitanti del campo di Mauthausen. Stavamo bene, perché avevamo una baracca dove avevamo tutto, io dormivo su tre materassi di lana che ero andato a rubare nelle ville delle SS e… però volevamo tornare a casa. E allora il comandante americano dice “io non posso perché noi siamo ancora in guerra ancora, non abbiamo terminato – dice – l’unica…”. Insomma, passano… passano circa tre mesi, e dopo dice “facciamo un ultimo tentativo, telefoniamo alla Croce Rossa svizzera e vediamo se possono darci una mano”. Per fortuna, dopo quindici giorni, sono arrivate cinquanta camionette, e hanno caricato i pochi superstiti. Eravamo 250, su 5.750.

E di lì è iniziato il viaggio di ritorno, che è stato faticoso, lungo, però un viaggio organizzato bene, infermieri, ci facevano fermare ogni tanto, ci visitavano. E quindi siamo tornati finalmente a casa. Mia madre…

D: Ecco, scusa Carlo…

R: Dimmi.

D: Quando, e le tappe di questo viaggio di ritorno, se te le ricordi.

R: Beh, le tappe, dunque il via… il quando è, dunque, 5 maggio a metà luglio, metà luglio del ’45. Le tappe… so che abbiamo attraversato delle… non so dirti che città abbiamo attraversato. Abbiamo fatto sicuramente la Germania, abbiamo visto delle distruzioni che non avevamo mai immaginato, città rase al suolo completamente. E poi siamo arrivati al confine svizzero. Qui, e questo lo ricordo sempre perché quando siamo arrivati al confine svizzero non c’hanno fatto entrare. Pensate che hanno dubitato della nostra condizione. Loro hanno giustificato dicendo “noi non sappiamo chi sono, non vogliamo che entrino persone che non siano gradite…”. Ma se veniamo da Mauthausen, chi possiamo essere? Niente, non ci hanno fatto entrare. Abbiamo dovuto girare, fare tutto un giro, siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano siamo andati dai preti, come sempre ci hanno dato un po’ di aiuto. Poi abbiamo trovato – eravamo io e mio fratello Raimondo Ricci – abbiamo trovato un camion che caricava della merce e la portava a Milano, ci siamo saliti sopra, dietro, e ci siamo portati verso Milano. Arriviamo a Milano, figuriamoci, i treni in quel periodo non esistevano, rari… niente. Siamo rimasti alla stazione per un certo periodo, poi abbiamo trovato un treno che andava verso Genova.

Marinari Giuseppe

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Sono Marinari Giuseppe, nato a Firenze, il 3/2/1921.

D: Quando ti hanno arrestato, Giuseppe?

R: Mi hanno arrestato l’8 marzo 1944.

D: Dove?

R: A Firenze, nel Rione di San Frediano.

D: Ecco, chi ti ha arrestato?

R: Erano militari… fascisti insomma, ecco.

D: E perché ti hanno arrestato?

R: C’era degli scioperi alla Tabacchi, ma noi non è che si fosse… Io ero lì, si era usciti di casa per andare dal parrucchiere, e ci presero, e ci arrestarono.

D: Ecco, ma ti hanno arrestato per strada?

R: Per strada, per strada, come un rastrellamento. Durante un rastrellamento.     

D: Cioè, voi uscivate dalla fabbrica?

R: No no no. Noi durante un rastrellamento. Durante un rastrellamento.  

D: Ed eri assieme ad altre persone?

R: No no. Io… dopo lì ci presero in questo rastrellamento, ci presero altri miei amici che erano lì, nella piazza, o per la strada eh.

D: Ecco, ma era durante il giorno, questo?

R: Sì sì, durante il giorno, la mattina.

D: Erano italiani quindi?

R: Italiani, quelli che ci arrestarono erano italiani. Italiani.

D: E poi, Giuseppe, dove ti hanno portato?

R: Alle Scuole Leopoldine. Alle Scuole Leopoldine

D: Cosa c’era alle Scuole Leopoldine?

R: Niente, era lì, ci portarono tutti lì, e cominciarono lì a beffeggiarci, a tirarci qualche scapaccione ma…

D: Hanno preso i tuoi dati?

R: No no no, non hanno preso niente. Non c’hanno preso niente.

D: E ti ricordi se eravate in tanti lì alle Scuole?

R: Tanti tanti tanti tanti. Eravamo… ora non mi rammento di preciso ma eravamo parecchi già, perché ci fu un rastrellamento in tutta Firenze, e nei comuni limitrofi.

D: Giuseppe, ma ti è stato detto perché sei stato arrestato?

R: No, niente, niente.

D: E tu cosa pensavi?

R: Beh, non si pensava niente perché non si sapeva nemmeno dove ci avrebbero portato perché altrimenti… si era dei ragazzacci eh, non si era mica della gente che si dormiva. Non so mica se si sarebbe arrivati a Mauthausen, magari… La speranza, si diceva: “e intanto ci porteranno a lavorare”. Nessuno sapeva indove, indove…

D: Ecco, e lì, alle Scuole Leopoldine, fino a quando siete rimasti?

R: La mattina e nel pomeriggio con dei camion ci portarono alla stazione di Santa Maria Novella.  

D: Ah, con dei camion!

R: Con dei camion della SS… dei fascisti, della Banda Carità, insomma, ecco… della Banda Carità, fascisti insomma.

D: E vi hanno portato…

R: Alla stazione Santa Maria Novella. Era lì vicinissimo, però coi camion, sopra a dei camion. E poi ci misero in dei vagoni merci.

D: Scusa Giuseppe, tu sei riuscito a comunicare con i tuoi familiari?

R: No no no no. C’era mio fratello lì nella piazza mentre mi portavano via, ma non si rendeva mica conto della situazione.

D: Quindi vi hanno messo sui Transport.

R: Sì, sui Transport e ci hanno portato direttamente a Mauthausen.

D: Ecco, ma proprio dalla stazione siete partiti?

R: Dalla stazione siamo partiti.

D: Quindi le persone potevano vedervi?

R: No, no perché avevano chiuso tutto. E c’era un binario, un primo binario, e sopra questo [binario] c’era tanti vagoni merci, e lì c’erano tutti sopra. E via, partenza.

D: Nessuno v’ha detto dove vi portavano?

R: No, no. Niente niente niente niente.

D: E anche qui, che ora era più o meno?

R: Che era, pomeriggio eh? Pomeriggio, vero? [Marinari si rivolge a Piccioli, compagno di deportazione presente durante l’intervista]. Pomeriggio verso le 2, le 3, anche le 4.

D: Ascolta, c’erano delle guardie?

R: Sì. Dopo da… subentrò l’SS. L’SS, sì.

D: Quanto tempo è durato il viaggio, te lo ricordi?

R: Io non me lo ricordo… Tre giorni, tre giorni, sì. [suggerito da Piccioli]

D: E non si è mai fermato il treno?

R: A qualche stazione ma… mangiare non s’è visto nulla. La prima [sosta] a Vienna, io me lo rammento. Di notte, ci dettero della minestra nelle mani. Era calda, sicchè andava tutta via. Ecco il Monti, viene anche il Monti [compagno di deportazione presente durante l’intervista].

D: Allora, tre giorni e due notti. Tu eri nel tuo Transport, nel tuo vagone, eri su con altri amici?

R: Tutti, s’era tutti insieme: lui, lui [indica probabilmente Piccioli e Monti], io, Enzo Peri, un altro che è morto. Tutti insieme eravamo.

D: Dopodiché siete arrivati a Mauthausen.

R: A Mauthausen.

D: Che tu non conoscevi, non sapevi…

R: No. Durante il viaggio però furono… arrivati a Fossombrone… vero? Mi pare… indove? No, in un campo… [dove] arrivarono tante persone da militare. Ci si fermò, e tra queste persone nel nostro vagone io mi rammento, entrò uno, e disse “Mamma mia, Mauthausen!”, appena si arrivò. Era stato prigioniero di guerra, in questa fortezza, sì sì.

[Voce fuori campo:] ’15-’18.

D: Ascolta, quando il treno è arrivato in stazione a Mauthausen, si è fermato…

R: Si è fermato e poi a piedi siamo andati al campo.

D: Ti ricordi più o meno: la strada era in mezzo al paese di Mauthausen?

R: [Interviene Piccioli:] Non ci siamo fermati alla stazione. Si stava proprio su un binario, quello che si attraversa ora e che si porta su, per andare a Mauthausen.

[Riprende Marinari:] Ecco, e ci portarono su a Mauthausen. Appena s’arrivò lì si apre subito lì indo’ s’era. C’era un gruppo di prigionieri russi subito dietro la porta, d’entrata no? Tutti… tutti poveracci, tutti messi lì… Poi ci fecero ignudare, tutti ignudi lì. Quanto ci tennero?

[Piccioli:] quattro o cinque ore.

[Riprende Marinari:] quattro o cinque ore. Era già freschino. Era freddo là, eh. Tutti ignudi. E poi ci portarono giù, e ci rasarono tutti, di dietro, davanti, dappertutto, dappertutto. E poi il bagno. E poi io avevo delle bollicine, mi mandarono in infermeria. Ecco, e forse lì fu la mia salvezza.

D: L’infermeria quella giù?

R: Sì. Ero scalzo, m’avevano dato un paio di zoccoli, c’ho il 42, m’avevan dato il 38, sicché con le gambe non c’entravo dentro. E c’era la neve alta. Tutta a piedi, sino all’infermeria. Poi arrivai lì… mamma mia! C’era… nei letti dove misero a me c’era altri tre: due di qui e due di là, in infermeria. Chi c’aveva la scabbia, chi c’aveva … tutte queste malattie.

D: Quindi scusami, tu la quarantena non l’hai fatta su al campo?

R: No, l’ho fatta lì. Tant’e vero che loro partirono, e io seppi che erano andati a Ebensee. Quando ci fu un trasporto che andava a Ebensee io mi misi in fila, per andare a Ebensee a trovarli, che…  Uno spagnolo – che poi era italiano, diceva che era spagnolo ma non era vero, era italiano, aveva combattuto contro Franco no, in quei campi lì – e mi tirò addietro, mi disse “Brutto” [Marinari indica no con la mano], tanto è vero che mi disse questo: “il peggio campo che ci sia di tutti i campi che erano nei dintorni”. Poi è venuta un’altra chiamata, quella per il lavoro, a Wiener Neudorf. Si mise lui e [disse] “mettiti anche te dietro a me”. Ci andai, e arrivai a Wiener Neudorf.

D: Ecco, in tutto il tuo periodo di Mauthausen tu sei rimasto giù al Revier?

R: Sì sì sempre al Revier, sempre.

D: Come te lo ricordi il Revier? Ti ricordi in che baracca eri?

R: Era il 5, baracca 5, malattie infette.

D: Ti ricordi se c’era qualche medico italiano?

R: Sì, sì. Eh, mi ricordo, lì c’era un capoblocco tedesco che aveva fatto la boxe. E mi rammento sempre, “chi ha fatto…?”. Io un pochino in palestra ero sempre avanti, ma poca roba. Uno studente di Milano. Me lo rammento come se fosse ora, io che ho fatto: presi certe botte e stetti giorni senza mangiare. Poi sempre lì in infermeria ho conosciuto uno di Milano che si distingueva perché aveva un naso… si chiamava Nicola, Nicola. E poi c’era un altro, che poi ho saputo che era al tram, era al tram A… cominciava con A. Era una persona grande, di Milano, sempre di Milano. Poi niente, ho conosciuto il senatore Caleffi, il senatore Albertini, Giuliano Pajetta, il […], l’altro, oppure poi chi c’era… Ce n’era di gente altolocata, insomma, ecco.                                     

D: Beppe Calore te lo ricordi?

R: No, non me lo ricordo. Ho conosciuto ‘sta gente perché stavo… E poi andetti [andai] a Wiener Neudorf.   

D: Scusa, quando ti hanno immatricolato a Mauthausen, il tuo numero?

R: Cinquantasette due quattro sei, o due quattro cinque [57246 o 245], di preciso non lo so, insomma l’è questo eh.

D: E ti hanno dato anche la zebrata?

R: Sì, la zebrata, subito.

D: Quando da Mauthausen ti hanno mandato nel campo dipendente di Vienna, con cosa vi hanno portato?   

R: Sempre co’ camion. Camion e via.

D: Ah, in camion.

R: Camion, camion, sì, sì, camion.

D: E lì, vi hanno portato in questo campo dipendente…

R: In questo campo che era vicinissimo a una fabbrica di di… la fabbrica di… madonna, me lo rammento sempre… Le pinne, le pinne, le pinne! Le pinne per il mare, per il mare, sì. A Wiener Neudorf.

D: E lì ti hanno immatricolato ancora o no?

R: No, no, no, sempre perché… dipendevamo sempre da Mauthausen. Eran campi chiamiamoli di lavoro lì eh.

[voce fuori campo:] di smistamento.

D: Ecco, cos’è che facevi tutto il giorno lì in quel campo?

R: Tutto il giorno? No al campo non si stava mai, [solo] a dormire. Noi s’andava via alle 7, all’8 s’era… a un quarto alle 8 s’era in fabbrica, e ci smistavano nei vari posti per lavorare. La maggior parte era… Io, per esempio, ero a portare i ferri. C’erano delle seghe, no? Allora si portava dei ferri perché c’era… e si portavano direttamente lì sopra, sopra insomma alla via, per farli segare.

D: C’erano anche dei civili in questa fabbrica?

R: Sì, uh… mamma mia! I civili eran peggio di quegli altri. Sì, sì, c’era anche dei civili.

D: Ecco, e oltre agli italiani c’erano altri deportati?

R: Sì, c’erano polacchi, c’era qualche spagnolo, russi, polacchi. I russi da ultimo da noi vennero, tutta gente giovane.

D: Ti ricordi il nome della ditta?

R: No, non me lo rammento. C’è anche sul libricino ma ora non me lo rammento. [voce fuori campo. Marinari si rivolge un ex deportato]. Perché l’ho visto lì nel libro… quel campo lavorava solamente per quella ditta.

D: Ecco ascolta, e poi ritornavate nel campo.

R: Sì… No, nel campo lì eh! No a Mauthausen. Lì. Sì, sì, lì.

D: Lavoravate solo di giorno o avevate anche dei turni di notte?

R: No, no. Noi si lavorava sempre, sempre di continuo, mentre gli altri [i civili] andavano a mangiare. A noi davano il mangiare che l’era il mangiare lì su, ci davano da mangiare anche lì. E poi si lavorava 12 o 13 ore. Ma insomma non era come loro a Ebensee, ecco [fa cenno al compagno deportato Piccioli presente]. L’era dura però non era…

D: E lì Beppe, lì sei rimasto fino a quando?

R: Sono rimasto per 10, 12, 11 mesi… 12. Perché dopo siamo dovuti rientrare a Mauthausen, perché avanzava le truppe, da una parte russi e dall’altra … facevano picca a chi arrivava prima e loro ci portarono via. Si fece una marcia, si partì in circa 600. S’arrivò 150, così.

D: Ecco tu dicevi, scusa, ritornando lì alla fabbrica, tu facevi solamente quel lavoro lì, il fatto di trasportare questi ferri?

R: No, a volte, a secondo di quando c’era bisogno. Si è fatto anche la prova dei famosi… Quando venivano gli aeroplani, con la contraerea, han fatto un rifugio e gli han fatto delle fondamenta co’… non so, con qualche cosa. Insomma, ce lo facevano provare a noi, quel giorno. Saranno stati cento aeroplani americani, pareva un terremoto. Da tutte le parti s’andava, in questo casermone no, però non andava giù. Ce lo facevano fare a noi. […]

D: Ascolta, e poi stavi accennando alla marcia di trasferimento.

R: La marcia di trasferimento: ci portarono via, a piedi, di lì a Mauthausen. Capitò acqua, vento, capitò ogni ben di Dio. Si dormiva proprio in terra. Mangiare nulla: ortica o lumache, quel che si trovava.

D: E chi vi faceva da guardia?

R: Oh, la SS.

D: E siete arrivati a Mauthausen.

R: Sì, siamo arrivati a Mauthausen però non c’era posto. Allora s’è dovuto aspettare. Ma siamo arrivati in pochi eh, un centinaio […]. Eh sì, quando si fermavano pum, […] e l’ammazzavano. E arrivati su ci misero in una quarantena, però si vedeva che era la fine, insomma.

D: Più o meno ti ricordi in che periodo sei arrivato lì a Mauthausen?

R: Io sono arrivato, sono ritornato a Mauthausen nel mese di aprile, ma ai primi eh … gli ultimi di marzo, gli ultimi di marzo.

D: E vi hanno portato dentro nel campo?

R: Prima ci hanno fatto aspettare fuori perché non c‘era posto, e poi arrivarono a liberare il posto e ci hanno portato su.

D: E lì sei rimasto fino a quando?

R: Fino alla liberazione.

D: Come te la ricordi la liberazione?

R: Eh. [Al]la liberazione morì tanta gente, perché la gente non faceva che mangiare. Gli americani ci portava… il mangiare l’era… si buttava via, allora [al]la gente ce lo diceva: “Non mangiate, state attenti a mangiare perché può essere pericoloso”. Invece mangiavano e li trovavi morti la mattina.

D: Ti ricordi in che baracca eri tu?

R: Baracca 4, tutti italiani; perché dopo ci divisero, fecero tutti italiani e tutti… ci divisero no, ognuno il suo blocco. Era proprio lì all’entratura, dopo un 100 metri dall’entratura, tutte baracche, a sinistra.

D: Ecco, e lì sei rimasto fino a quando?

R: Fino alla liberazione, fino a maggio.

D: Ecco, ma dopo la liberazione del 5 maggio tu sei rimasto lì?

R: Eh sì eh, noi si aspettava sempre di… Ogni tanto partiva una delegazione però non ritornava mai indietro e si rimaneva lì.   

D: E fino a quando sei rimasto lì?

R: Sino alla liberazione, sino al 12… mi pare il 15 o il 12 di maggio.

D: E poi cosa è successo?

R: Nulla, che è successo… è successo tante cose dentro. Aguzzini ammazzati, SS, e il capo del campo lapidato, proprio messo ‘ndo c’era le fosse biologiche, dentro e tirato su, dentro e tirato su. Ma noi… io in quel momento non ero in condizioni tanto… ma dopo un po’, insomma, si sortì fuori anche noi.

D: Ecco, e quando è iniziato il tuo viaggio di ritorno?

R: Alla fine di maggio, ai primi di giugno.

D: E dove ti hanno portato?

R: Noi si è fatto la Svizzera. Noi ci hanno fatto passare dalla Svizzera, di molti in ambulanza, e di molti con dei camion coperti, insomma dei pullman, ecco.

D: Ma in Svizzera vi hanno fatto entrare?

R: Sì sì, sì sì sì. Ci hanno fatto anche un’accoglienza, ci hanno fatto, eh… bene, siamo stati lì tre giorni lì. E poi di lì siamo entrati in Italia. In Italia però non c’era nulla, bisognava arrangiarsi per arrivare a casa.

D: In Italia dove siete entrati?

R: A Bolzano. Di lì ci hanno fatto fare un giro, rientrare a Bolzano. Sono stato all’ospedale di Bolzano perché a quell’epoca avevo la pleurite. Ecco, all’ospedale della Svizzera non ci hanno fatto… non m’hanno fatto passare, no, tanto è vero che tanti si è dovuto andare dalla Svizzera a Bolzano, qualche ricoverato. 

D: Ti ricordi con chi eri?

R: Ero con Vittorio Baldini, famoso combattente di Spagna, poi ero … eh ma ce n’era: Caleffi, Albertini. Poi c’era… c’era tanta gente ma… insomma, avevamo 20 anni, noi ci si conosceva così.

D: Ascolta, ti ricordi se c’era la Pontificia Opera a darvi una mano?

R: No no no, non s’è visto nessuno.

D: Quindi sei arrivato a Bolzano, ti hanno messo in ospedale…

R: In ospedale, e poi son ripartito, son partito col treno e… due settimane tre per arrivare a casa.

D: Ascolta Giuseppe, dici “attraverso la Svizzera con dei camion”, ma li guidavate voi?

R: No no no.

D: Che organizzazione c’era?

R: L’organizzazione della Croce Rossa insomma. Coloro che stavano bene erano questa specie di […], coloro invece che non potevano, che non potevano… erano nella misericordia. 

D: Beppe, tu non sei più ritornato a Mauthausen?

R: Una volta solo. Una volta, poi non son più ritornato, perché la prima volta non feci che piangere, dissi: “Beh, non ci torno più”.

D: Quanti anni fa sei ritornato?

R: [Marinari si rivolge a un presente:] Il primo o il secondo?

[Intervento esterno:]’77, ‘76.

[Marinari:] Il primo o il secondo, via.

D: Poi basta, non sei più ritornato?

R: No no no no no.

D: E nel campo dipendente lì di Wiener Neustadt non se più tornato?

R: No, non c’è più niente. Dice chi c’è stato che non c’è più niente. Niente niente, proprio niente. Perché eran baracche di legno: finito tutto via via, aria.       

D: Cosa ti è rimasto come oggetti, come documenti, se ne hai portati a casa?

R: Nulla, nulla nulla. Io non c’ho nulla di documenti. La Croce Rossa Internazionale… Ora i documenti che ci hanno fatto ora del KZ, dopo la pensione, poi altri documenti io proprio…

Levrieri Vessillo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Dunque, io mi chiamo Levrieri Vessillo, sono nato a Poviglio di Reggio Emilia l’1/10/’22.

D: Vessillo, quando ti hanno arrestato?

R: Eh… nel ’45… ’44, nel ’44. Però i giorni…. non so il mese.

D: Non te lo ricordi il mese?

R: No. So che sono andato a casa perché è finita la guerra. Nel ’44… eh, ci sono stato un po’, ma non so quanto tempo.

D: Ma ascolta Vessillo, e chi ti ha arrestato?

R: Eh sono venuti i cosi… i fascisti, ma non mi ricordo, sa c’ho la memoria… Sono venuti… saranno stati i fascisti.

D: E dove sono venuti?

R: Eh, abitavo a Sorbolo Levante…

D: E son venuti in casa?

R: Eh, mi hanno suonato, non mi ricordo…stavo… parliamo di tanti anni eh!

D: Ma son venuti in casa a prenderti, ad arrestarti?

R: Eh, non mi ricordo. Non so se mi han suonato o se sono andato giù, ma chi è che lo sa di preciso.

D: Ecco, ma perché ti hanno arrestato?

R: Eh, perché ero partigiano. Allora c’erano dei fascisti. Io come partigiano erano contro… i fascisti contro di me. E allora hanno saputo che ero partigiano, e che ero contro di loro… eh, per questo.

D: Ma tu facevi il partigiano in che zona?

R: Beh, lì a Sorbolo. Io abitavo a Sorbolo Levante, a Sorbolo insomma, in paese.

D: Come azioni partigiane cosa facevi, cosa facevate?

R: Cosa vuole, non potevamo fare… Tra noi ci parlavamo, così, eravamo contro… però sa, noi non pensavamo che mi arrestavano. Si vede che hanno saputo tutte quelle cose lì e…

D: Ma tu lavoravi?

R: Beh, nel ’45 dunque, beh… non mi ricordo se avevo già cominciato a lavorare. Ho fatto dei lavori ma, cosa vuole, sono anni… tanti anni. E poi, la memoria…  ho perso un po’ la memoria eh.

D: Ascolta, dopo che ti hanno arrestato dove ti hanno portato? Nelle carceri?

R: Eh sì eh!

D: Di dove?

R: Dunque, non mi ricordo se è stato a Parma, ma… So che mi hanno arrestato… o Sorbolo, ci sono le carceri a Sorbolo? Non mi ricordo, parliamo di… No, mi hanno portato a Parma, nelle carceri.

D: A San Francesco?

R: Eh, guardi, non posso dire certe cose perché son passati troppi anni.

D: Capito. E dopo San Francesco ti hanno portato al campo di concentramento?

R: Eh sì.

D: Dove?

R: A Bolzano.

D: A Bolzano. Eh ma con cosa t’hanno portato su?

R: E chi è che lo sa. Eh, sarò venuto col pullmino o con qualcosa.  

D: Ma eri da solo o c’erano altre persone con te?

R: Ma non mi ricordo.

D: Non ti ricordi…

R: Eh, ma guardi, son passati troppi anni. E poi l’età, ho tanti anni, e poi c’ho… ho un po’ la memoria un po’… che mi è andata un po’.

D: Però del campo di Bolzano ti ricordi qualcosa?

R: Cosa vuole, andavamo là, ci facevano lavorare di qua, ci facevano fare dei lavoretti, quando avevano bisogno di fare qualcosa ci facevano lavorare.

D: Ma dentro nel campo o fuori?

R: Beh dove c’era da andare, dipende.

D: Ecco, ma lì cosa avevi su, i tuoi vestiti o ti hanno dato una tuta?

R: Beh, non mi ricordo, su. Io ero vestito però non so se mi hanno fatto cambiare. È inutile, guardi, sono passati troppi anni eh. 1944, adesso siamo nel 2003…  

D: Eh ma vedi che ti ricordi allora…

R: Cosa?

D: Che quando ti hanno portato su al campo era… il ’44 o il ’45?

R: Beh, sarà stata lì verso il ’44, la fine del ’44, pressappoco. Non mi ricordo. 

D: Ascolta, ti ricordi se avevi un numero su al campo di Bolzano?
R: Ah no. Ma senz’altro ce l’avevo, non mi ricordo ma senz’altro avevamo i numeri.

D: Avevi il numero?

R: Ma senz’altro. No, ho detto che son passati troppi anni, quelle cose lì non le posso ricordare. Adesso, delle volte, mi scappa la memoria adesso di certe cose, sa, allora… però sto abbastanza bene, insomma.

D: Ecco ma ti ricordi che lì al campo lavoravi?

R: Eh sì lavoravo, di qua di là, andavamo di qua di là, dove c’era bisogno di andare.

D: E c’era da mangiare?

R: Beh, mangiare, insomma, si mangiava. Adesso, cosa vuole.

D: Ma vi picchiavano anche?

R: Beh, insomma, picchiare no. Qualcuno… se uno faceva delle cose sbagliate sì, però insomma… Dovevamo stare attenti eh, di non andare, di non fare dei lavori che non andavano bene eh.

D: E tu sei rimasto lì fino a quando lì, a Bolzano?

R: Eh… fine del ’44… alla fine, pressappoco, perché finita la guerra sono venuto a casa, dunque.

D: Nel ’45.

R: Eh son venuto a casa nel ’45. È finita la guerra, e allora ci hanno mandato a casa.

D: Vi hanno liberati.

R: Ci hanno liberati.

D: Ascolta, qui di Parma e provincia eri solamente te o c’erano altri…?

R: Quello lì non lo posso dire, non mi ricordo. Eravamo qualcuno là, ci conoscevamo così…  ci siam conosciuti là, pressappoco. Dei miei amici non ce ne avevo insomma… della gente che conoscevo. Cosa vuole, sono tutte cose di troppo tempo fa eh.  

D: È passato troppo tempo.

R: Eh mi dispiace, è che non posso rispondere a certe domande perché è inutile, troppi anni.

D: Ascolta, ti ricordi quando sei tornato a casa, se sei tornato a casa in treno, in pullman?

R: No, non mi ricordo. Sarò venuto a casa con un pullmino, senz’altro.

D: E il nome della brigata partigiana dove operava a Sorbolo?

R: La Brigata Garibaldi. La Garibaldi.

D: E lì eravate in tanti, che vi trovavate?

R: Sì, giravamo, insomma, un po’.

D: Ma ragazzi giovani però.

R: Eh, pressappoco la mia età, pressappoco eh.

Castellani Roberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Si segnala la presenza di espressioni verbali riconducibili al dialetto toscano, anche in forme arcaiche. Tra le più ricorrenti ‘andette’ (andò), ‘s’eramo’ (si era/eravamo), ‘vense’ (venne).

Io mi chiamo Castellani Roberto. Sono nato a Prato, e tutt’ora vivo a Prato. Sono nato il 23 del 7 del 1926, da una famiglia d’operai, e qui a Prato sono stato arrestato dai fascisti per lo sciopero del 1944, che fu dichiarato qui in Toscana il 4 di marzo del 1944. Invece nel resto dell’Italia era stato dichiarato nel 1944 lo stesso, e di marzo, però il primo di marzo, qui in Toscana per ragioni di organizzazione fu fatto il 4. Riuscì in pieno. E qui in Toscana si è fatto il 4 di marzo per ragioni organizzative. Lo sciopero è riuscito in pieno. C’è una cosa da dire però, che mi preme farlo sapere a tutti perché è ben che sia, perché è la verità: anche gli stessi industriali hanno collaborato allo sciopero. Perché? Perché c’era un interesse anche suo. Perché lo sciopero, come era stato dichiarato in Toscana, credo in tutta l’Italia occupata dai nazisti, diceva: questo sciopero è per la fine della guerra, per avere più pane, e perché i fascisti e i nazisti non portassero via i nostri macchinari all’estero. Allora anche gli stessi industriali avevano un interesse che questo sciopero riuscisse in pieno. Effettivamente riuscì in pieno. In tutte le industrie pratesi riuscì completamente. Però è successo la fine dello sciopero, il 7… il 6 maggio finisce lo sciopero. Finisce lo sciopero…

D: Scusa Roberto non il 6 maggio.

R: Sì scusa, dio bono, il 6 marzo. Il 6 marzo finisce lo sciopero e si deve ritornare a lavorare. E praticamente noi si torna a lavorare. Però a Prato succede una cosa straordinaria: un grande bombardamento, la mattina del 7 marzo. Ci fu un grande bombardamento delle industrie pratesi. In via Bologna fu distrutto tutto, in via Bologna tutte le fabbriche, e io con altri ragazzi, finito il bombardamento – sapevo che il lanificio dove lavoravo io era stato bombardato – gli chiesi: “Posso andare a vedere la fabbrica indove lavoro io? M’hanno detto che l’è stata bombardata, è distrutta si vede”. Dice: “Sì”. E in quattro ragazzi da via del Purgatorio si partì e si andette al lanificio di San Martino. Il lanificio di San Martino, il proprietario era un ebreo, Bemporad, una fabbrica [dove] si stava di molto bene, perché si stava meglio delle altre fabbriche, però il proprietario non c’era, perché si sa, con le leggi razziali non aveva diritto a nulla. Il direttore faceva da direttore più da proprietario.

Io arrivo alla fabbrica, trovo il direttore, si chiamava Bruno, mi fa “Roberto, l’ha vista la nostra fabbrica come è ridotta?”, “davvero! – dissi – quando si ritorna a lavorare?”. Dice “vai a casa ora perché tra un po’ c’è il coprifuoco, ti si avvisa noi quando sarà il momento di tornare a lavorare”. “Va bene”, e io parto con quegli altri quattro ragazzi e si passa dal centro. Arrivai in centro, gli erano le 5, alle 6 c’è il coprifuoco. Arrivo in piazza delle Carceri, e ci sono dei repubblichini e dei carabinieri. Avevano un gruppetto di persone lì, e io… non fo il nome di quello che m’ha arrestato perché non mi piace, perché c’è ancora dei viventi in Prato, e mi fa “hei, vieni qua!”, e io di corsa corro da questa persona. Perché di corsa? Perché io lo conoscevo. Sapevo chi era. Era colui che mi faceva gli esami, marciare, insomma gli era il nostro capo manipolo, si diceva allora. Io mi metto sull’attenti, gli dico che vuole, e mi fa “dammi la carta d’identità”, e io subito prendo la carta d’identità e gliela do, perché non avevo nessuna paura, avevo 17 anni. Prende la carta d’identità, mia e di un altro, un certo Cherubini Bruno, che è stato arrestato anche lui, poi c’è morto a Ebensee. E fa… Gli altri due invece avevano 12 anni, gli fa “voi andate a casa”, e difatti quei ragazzi andettero a casa e noi si restò lì. E le carte d’identità le dette al carabiniere, il carabiniere le guarda e fa “guarda – dice – questi sono ragazzi, mandiamoli a casa, non hanno neanche 18 anni”, e lui gli disse “zitto”, questo lo sentii io, ai carabinieri disse “zitto, se no tu ci vai a finire anche te indo’ vanno loro”. Ma noi non si capiva che volevano dire queste parole. E il carabiniere si strinse le spalle come per dire “non posso far nulla”. Ci prese e ci mise… c’era un bar di fronte a ‘ndo c’è ora una fontana, la chiamavan il Bar La Rosa, e c’erano già una cinquantina di persone, tutti arrestati da queste persone. Siamo lì e si discute del più e del meno, siamo tutti ragazzi giovani, meno giovani, di tutte fesserie: indove ci porteranno? ci porteranno a smassare, è stato bombardato lì, ci porteranno a fare questi lavori. Gli arrivano due ragazzi, due repubblichini dalla fortezza, ci mettono in fila. Ben premesso: noi si poteva benissimo scappare, però nessuno tentò di scappare, perché non si sapeva mica che ci facevano. Ci portano in fortezza. Si arriva in fortezza: ce n’è tanti pratesi, tanti già arrestati. E arrivano i pullman da Firenze, e ci mettono in pullman, 50, 60 in massimo ogni pullman. Anche lì, come dico, si poteva benissimo scappare. C’erano i ragazzetti più giovani di me che erano sui pullman, gli bastava avergli fatto “bo” e gli scappavano, ma nessuno s’azzardò a fa’ questo, e si arrivò a Piazza Santa Maria Novella, alle scuole Leopoldine. Ci scaricarono e ci mandarono su. Arrivati su nelle aule, si cominciò a trovare altri pratesi. Ecco quelli erano veramente gli antifascisti, che conoscevano e li avevano arrestati prima, tra cui c’era il Pitigliani, c’era il Franchi, ce n’era tanti, altri che conoscevo- Pitigliani specialmente conoscevo bene, perché lavorava dalla Gronda con il mio babbo. E gli fo “signor Alessandro, c’è anche lei?”, dice “davvero” – tra l’altro è un ebreo lui – dice “davvero Roberto, ma sta tranquillo non ci fanno nulla, non c’è problema, ora ci porteranno a fare qualche lavoro e poi ci rimandano a casa”. Va bene. E così io presi e andai a raccontarlo a altri, che c’erano lì tutti pensierosi, gli feci “ragazzi stiamo tranquilli, perché mi ha detto il Pitigliani che non c’è nulla di pericolo. Sapete, gli è un uomo intelligente, perché sa leggere e scrivere, e in più sa scrivere a macchina, è impiegato dalla Gronda, pensateci bene, è veramente un uomo da credere”. E tutti ci si mise… il morale si rialzò. Arriva, ci fanno una specie di interrogatorio con un ufficiale delle SS, dei repubblichini, e l’interprete, e ci domandano “te hai fatto sciopero?” e io francamente “sì ho fatto sciopero”. Dice “che lavori tu fai?”, “sono alle filandre”, disse “va bene” e segnano, e mi mandano via. E così.

E la mattina cominciò ad arrivare tante altre persone, tanti tanti tanti. Di pratesi si suppone che ne abbiano arrestati su 7-800. Però hanno fatto poi una selezione, una selezione fatta proprio alla nazista, non era una selezione mirata, era una selezione fasulla, te qui te là ci mandavano. E fecero due squadre, ma nessuno sapeva l’una ‘ndove l’andeva l’altra. Il fatto sta che tanti che erano dall’altra parte vensero con la nostra, e tanti dalla nostra andettero di là, senza sapere il che poteva succedere. E lì, poi presero una squadra, la portarono da un’altra parte, e un’altra squadra a un’altra. A noi ci presero, ci portarono subito alla stazione. Alla stazione di Santa Maria Novella c’era una tradotta lunghissima, indove c’era scritto sui vagoni, sulle porte “operai volontari per la Germania”, con un gesso bianco.

Noi si guardava questa scritta, ma non ci si rendeva conto. Io quanti si eramo nel vagone lo posso dire chiaro e tondo in verità, perché cominciarono a contare “uno, due, tre…”: arrivarono a ottanta. Allora, finito di contare, l’SS con gli interpreti chiese “chi è il più vecchio?”. Se ne presentò tre, pensando questi, dice “ci rimandano a casa”. Invece no, gli disse poi “io, io, son io, son io”. La carta d’identità non ce l’aveva più nessuno, bisogna credere la fisionomia. Lui fa “si va beh tu sei te – dice – allora te tu sei responsabile di questo vagone, se quando si arriva a destinazione manca uno tu sarai fucilato”, allora questo avviò a dire “ma io non sono il più vecchio”. “No no – disse – tu sei te”.

Allora però noi s’eramo stati arrestati la sera del 7 marzo. Era l’8 marzo, la sera delle cinque, le sei, che s’eramo nel vagone, e nel vagone c’era tanto pane, tanto tanto, e tanta pasta d’acciughe. La fame era tanta, si cominciò tutti a mangiare, però c’era per tutti il pane, anzi ce n’era anche troppo. Io presi un pane, l’aprii, messi tanta pasta d’acciughe – ero un po’ golone anche di certe leccornie per noi, perché non sapeva mai, la pasta d’acciughe non sapevamo neanche che voleva dire – ce ne messi di più che non si doveva mettere. Però fu un danno, perché mancava l’acqua. Quando ci si accorse che veniva la sete, dice “ma l’acqua?”, “eh, l’hanno messa”, e invece non ce l’avevano messa. Noi da quel momento si incominciò a entrare nei KZ, nei campi di concentramento di sterminio, senza saperlo, senza le SS fare nulla. Le SS da Firenze a Mauthausen, con quattordici SS ha scortato 1.600 persone, lassù, senza avere una minima sorpresa, perché noi si pensava solamente alla sete. Guardate, KZ, i triangoli rossi, i triangoli neri, come uno vuole, triangoli gialli, si è sofferta tanta fame, io penso non ci sia persona nel mondo che ha sofferto la fame quanto queste persone, quanto noi. Però la sete l’è più brutta. Noi si è fatto tre giorni di viaggio e quattro notti, si è patito la sete, che è una cosa da nemmeno paragonarla a nulla! Né alla fame, né a nulla! È una tortura tremenda. Noi non si pensava a scappare, si pensava solamente all’acqua. Quando si passava sui binari, sui ponti, e sotto si sentiva scorrere l’acqua, li sentivano il profumo, bensì che l’acqua non ha profumo, ma noi si sentiva addirittura il profumo, e si gridava “mamma, mamma, portami acqua, dammi l’acqua mamma”, così, tutti. E come si poteva fare a pensare a scappare, perché c’era la possibilità di scappare. Non si poteva scappare perché il nostro desiderio era solo uno: quello dell’acqua.

Passato, finito questo viaggio tremendo – guardate, io non voglio stare a dire il dormire, i nostri bisogni, la popò, la pipì di fronte a tutti, no – si arriva a Mauthausen, la mattina. Si arriva la mattina, ci aprono i vagoni, e ebbi una grossa sorpresa, sembrò la manna dal cielo: era nevicato da allora, c’era la neve fresca. Allora quando ci davano l’ordine solamente di scendere per pigliare la neve e calmarci la sete, si scende, si prende la neve e ci si calma la sete. Calmandoci la sete si comincia a discutere tra di noi. Si fa: “o’ ndo’ siamo?” “boh, Mauthausen, ma ‘ndo gli è?” E c’è un signore di Prato, un certo Bertazzi Ruggero, prigioniero con noi, e fa “io lo so”, “eh – fanno lui lo sa! lui è gigolò, gira il mondo lui”. Per allora, sa, il mondo si gira… Dice “guardate io l’ho girato ma per tutte disgrazie – dice – perché io sono stato prigioniero alla guerra ‘15-’18 qui, a Mauthausen. E guardate, sono stato tanto male, e ho patito tanta fame”. Allora io gli fo “si starà anche male, non ci sarà neanche da mangiare, però gli è la mattina presto e si sente che fanno la carne arrosto, o di pollo o di maiale o di vitello”, dice “t’hai ragione, sì”, invece gli era il forno crematorio, che non si sapeva neanche che esistesse queste cose. E ci fa… mi fa “t’hai ragione Castellani, davvero, e speriamo che sbagli io”. Ci mettono tutti in fila e si parte per su. E c’è… dalla stazione arrivare a Mauthausen c’è 8 chilometri. Si cammina, cammina, cammina, si arriva. Perché c’erano quelli presi nelle fabbriche, c’erano due fabbri presi dai Campolmi e dai Lucchesi a Prato, che aveva ripreso il lavoro perché non raggiungevano il numero la mattina dell’8 che fresano in fabbrica, che erano vestiti come si stava a lavorare, scalzi, con le camicie tutte rotte, non è come ora, eh. E mi ricordo c’era babbo e figliolo che lavorano dai Lucchesi, si chiamano Ciabatti, e mi fa Maggiorano il figliolo – aveva un anno meno di me – mi fa “vedi Roberto, te tu sei vestito benino, t’hai le scarpe, tu hai pantaloni alla zuava, t’hai tutto la tua camicina, il tuo blusettino, invece io va: tutta la camicia di lavoro, pantaloni non si sa che colore gli erano dalle toppe che c’ha, una rossa, una verde, una gialla, non si sapeva che erano, la camicia lo stesso, fa un freddo boia, sono scalzo, ho gli zoccoli, sulla neve così..”. E si cammina e si trova, e si vede apparirci una grande fortezza, ed era Mauthausen. La faceva paura, e la fa paura ancora, uno deve pensare allora.

Si arriva lì, e ti vedo ‘sta fortezza brutta. Si cammina ancora un altro po’, ci sono due case – quelle case lì innanzi arrivare al campo di Mauthausen, c’erano anche allora – e c’è il filo spinato che traversa […] C’è tutto il filo spinato percorso a corrente elettrica, e c’è un grosso cancello, lo aprono, e si entra all’interno. Si entra all’interno noi, e si comincia a trovare gli abitatori del campo di concentramento, questi vestiti a strisce, celesti e bianche, col numero. E noi si guarda, “ma guarda come sono brutti” si faceva, “guarda come sono secchi. Che v’han fatto? Oh ‘ndove sei stato? Oh che siete, scheletri beduini?” E questi non ci rispondevano perché non capivano la nostra lingua. Si va un altro po’ avanti, si trova un altro gruppo. E gli si fa il solito discorso, questi ci rispondono, e mi fa “tu te ne accorgerai tra tre giorni” ma non in italiano, in ispagnolo. “Beh, ma che vuol dire questa parola?” E “sotto c’è un altro e mi fa “io posso ringraziare le camicie nere italiane, e l’è andata poco bene”. “Questi che vol dire? Che vol dire?”, poi l’ho capito dopo che vol dire: gli erano spagnoli arrestati dalle nostre camicie nere. E si arriva a Mauthausen, apre un portone, il portone nero lì. Entro dentro. Sono tra i primi io, son lì davanti…

D: Scusa un attimo Roberto, c’erano delle donne con voi?

R: No.

D: E ti ricordi se c’erano dei religiosi, dei sacerdoti?

R: No, con noi no. Lo posso dire ora? No, con noi non c’era né donne e né religiosi, in quel trasporto.

E arrivo qui di fronte al portone e l’aprono. Io sono proprio in prima fila e sulla sinistra… sulla destra. E c’era stato l’appello da allora, si sa che all’appello si deve portare i morti, io lo seppi dopo, prima non lo sapevo. Arrivo lì, [si vede] una sfilata di morti. Quando mi vense la visione… io quando dettero l’ordine di partire non mi mossi, dalla paura. Dissi “ma qui ‘ndo siamo? o sono morto, dormo, sogno?” perché mi vense una visione, e a me mi vense subito la visione di un disegno che avevo visto sulla Divina Commedia di quando Dante è all’inferno. Dissi “no sono morto, perché una visione così…”, tutta una sfilata di morti, ma non morti normali, morti tutti… lo scheletro ricoperto di pelle. Ecco, questo gli era il discorso.

E mi riebbi subito, perché sarà stato questo discorso che mi feci io nel mio cervello di 3-4 se… macché secondi, una frazione di secondo. C’era una SS, mi lasciò andare una pedata e dissi “ma allora son vivo, e vivo bene, sveglio anche!”, e mi portarono di fronte al muro del pianto. Ci portarono tutti. Vense il comandante Zeus… Zeric  [forse Franz Ziereis, ndr], vense lì, cominciò a parlare. La prima parola fu questa: “Signori deportati, qui siete in un campo di concentramento di rieducazione dei nemici del terzo Reich. Se darete retta ci sarà anche la possibilità di tornare a casa. La fuga non è ammessa. Chi tenta di scappare se è ripreso viene o fucilato o impiccato. Perciò pensateci bene. Questo gli è il muro di 3 metri, c’è un metro e mezzo di filo spinato percorso a corrente elettrica che rientra all’interno, ogni 20 metri c’è una SS, di guardia, perciò la fuga non è ammessa. Ma se uno tentasse di scappare, se riesce o viene – ve l’ho detto prima – o impiccato o [fucilato]. Ora andate tutti a fare il bagno.” Ci portarono giù nel sottosuolo. Ci dettano un sacchetto di carta con un lapis e un fogliolino. E dissero “mettete tutta la vostra biancheria dentro, ci scrivete il nome e cognome, poi ognuno riprende la sua biancheria.” Allora tutti contenti si fece “guarda come sono organizzati questi tedeschi”, si diceva. Ora, finito il bagno, si ripiglia ognuno la nostra roba, pensando. Fatto questo ci sono dei parrucchieri, che danno dei rasoi, ci tagliano il pelo – io non ce ne avevo, per fortuna, qui allo stomaco – ci levano tutto il pelo ‘ndo s’ha, ci fanno la rapa e più la strada del paradiso. Poi fatto tutto questo ci mandano in un’altra stanzina, e ci sono due inservienti spagnoli, ed hanno dei pennelli da imbianchino, lo infilavano in un liquido e ce lo davano addosso, e bruciava talmente, e gli dissi “ohi, che voi ci fare?”, e fece uno “ora vi si incaffina – così disse lui, mi ricordo come fosse ora – e poi vi si dà fuoco.” E io avviai a piangere. […] Allora disse l’altro spagnolo “no no, lui gli è un burlone, questo gli è un disinfettante”. E basta. Fatto questo ci mandarono a far la doccia. Si va a far la doccia, e s’eramo tanti, tutti non si poteva entrare, però sintanto si potette entrare s’eramo pressati. S’eramo completamente pressati, c’è sempre il più forte e il più prepotente che si mette proprio sotto ‘ndo casca l’acqua, e noi che s’eramo più deboli stavamo ai margini. Mandano l’acqua, regolare, 27-30 così, che ci stavano lì tranquilli sotto, e invece a noi ci venivano tutti gli spruzzi marginali. Tutto a un tratto smette e viene sottozero. Allora volevamo scappare, ma non c’era più verso. A noi ci venivano degli spruzzi, ma erano marginali. Poi smette anche quella, dopo due minuti, e viene a 80 gradi sopra zero, vedi la […] faceva delle bolle così: gli urli, i cazzotti tiravano ma non c’era verso di scappare. Ecco, questa, non dolce ma… l’era la presentazione dei KZ. Finito qui, ci dicono di prendere degli zoccoli olandesi in un mucchio. Sicché ognuno cerca di prendere lo… suo, i numeri. Ma noi non si sapeva che voleva dire capò allora, c’erano i capò non volevano, botte ti davano, legnate, si diceva “oh dio boia, e che s’è fatto? ora ci dite di prendere gli zoccoli dopo ci tirate le legnate?”, e loro botte tiravano, ma tiravano! Allora si capì, bisognava piglià du zoccoli e scappare. Io ne presi due, me li misi sotto bracci, e tutti nudi in quella maniera si andò nel blocco della quarantena. Nel blocco della quarantena ci siamo stati quindici giorni noi.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco di quarantena?

R: Il blocco della quarantena no, non me lo ricordo, ma gli erano i blocchi indove c’erano i capò russi, era lì, quello sì, ma il blocco, il numero non me lo ricordo. E non c’è nella baracca nessun mobilio. E ci misero 800 per Stube. A dormire ci mettevano a giacere un capo un capo un piede, per fianco, stretti, talmente stretti che quando uno si rizzava per andare al gabinetto non poteva più rientrare. E durante la notte – si rientrava la sera alle sette e sino alle sette della mattina a fare una doccia… a fare, a dormire in quella maniera – era un patire, succede di bocciare, “oh sta attento tu mi metti il piede in bocca”, “oh sta attento tu mi fa lì”, “con questo gomito tu mi dai noia”, e via. Allora che succede? Succede che i capò capivano questo, gli era [quello] che cercavano loro, per arrivare lì per divertirsi: invece che passare in mezzo, c’era un viottolino, montavano sopra, indove mettevano piede gli spezzavano l’ossa, e ci aprivano le finestre, perché noi siamo arrivati era freddo, e pigliavano gli idranti e ci bagnavano. Ecco la nostra… E dopo ci dettano una camicia e un paio di mutande. Poi dopo un altro colpo… fu mortale fu, quando mi dettano il numero. Ci chiamavano uno per uno, mi chiamano e fanno “Castellani Roberto?”, “sì”, “te non sei più Castellani Roberto ma sei cinquantasette mila zero ventisette [57.027], il tuo numero”. Perciò, quando si chiama, sarà chiamato solamente in una lingua, se il capò gli è russo lo chiama in russo, se gli è tedesco tedesco, se è francese francese, se gli è polacco polacco. Sicché uno lo deve capire. Se ti richiama la seconda volta sette legnate, la terza quattordici, se ti chiamano ancora ventuno, se son sette [volte], se poi sono dieci aumentano sempre uguale. Questo gli era un po’ il regolamento che ci dissero allora. Finito la quarantena ci…

D: Ecco, scusa, quando è avvenuta l’immatricolazione, vi hanno anche fotografati?

R: Aspetta… No, lì no. Ci hanno fotografato dopo.

E lì ci hanno fatto tutto questo. Finito i giorni [di quarantena] ci danno il vestito, a strisce, gli zoccoli, la camicia, le mutande, il cappello, e tutto.  A noi ci dicono sempre, tutte le volte che noi si vede transitare di fronte a noi una SS o un capò bisogna levarsi il cappello, mettere sull’attenti. Questo gli era il regolamento. Noi ci inquadrarono tutti, ci portarono a Ebensee, a costruire le fabbriche sotterranee dove dovevano costruire i famosi missili. I missili – si è saputo successivamente che noi si faceva le fabbriche per i missili, appena si arrivò, no – sono missili, i V2, i V4, e i V9, il missile intercontinentale. Arrivati a Ebensee, era un campo nuovo…

D: Da Mauthausen a Ebensee come vi hanno portati?

R: Da Mauthausen a Ebensee ci hanno portato coi vagoni civili – noi, io ragiono di noi – con gli scompartimenti, ci misero una ventina ogni scompartimento, s’eramo stretti ma si vedeva però, c’erano i vetri. Ecco, noi da Mauthausen a Ebensee siamo arrivati con gli scompartimenti. Tanto vero che quando si passava dalle città, da quei piccoli paesi, quando si arrivò vicino a Ebensee non si sapeva che si andava a Ebensee. Si vide questo bel lago, questo bel paesino, tutti a dire “ma se ci fermano qui – il treno rallentava – se ci si ferman qui, guarda che bello! guarda che paradiso! Oh la domenica quando si fa festa si va a pescare”, tutti discorsi così si faceva. Difatti quando si arriva a Ebensee ci portano, non alla stazione prima lì di Ebensee, alla seconda stazione, sul piano caricatore, ci fanno scendere, i civili li mandano tutti via, ci resta solamente dei giovani, dei ragazzi. Questi ragazzi – c’era la neve – avevano fatto tante palle di neve, ce le tiravano dietro, ma forte, ci facevano anche male. E tutti ce la si pigliava con questi ragazzi. Io, essendo 17 anni, avendo fatto la scuola sotto il fascismo, capivo il perché quei ragazzi ci tiravano le palle. Perché gli dissi “ma sapete, io ho fatto la scuola sotto il fascismo, io [quando] m’hanno arrestato non ero mica antifascista, non ero mica contro nazisti né contro fascisti, perché io ero avanguardista, perché la dittatura la m’aveva insegnato che non c’era altra libertà che quella fascista, perché noi s’eramo superuomini, sapevamo che si doveva dominare il mondo, e questi ragazzi io li capisco.” Dice “ma tirano”, “eh tirano… tirano perché loro credono che noi si sia suoi nemici”, ecco.

E ci inquadrarono e ci portarono a Ebensee. A Ebensee ci dettano ognuno il nostro letto. Dapprima, in un primo tempo, si dormiva uno per letto; dopo neanche quindici giorni due, poi tre, quattro, cinque: siamo arrivati a sei, in un letto da 80 centimetri per un metro e ottanta. Il mangiare, gli ultimi cinque mesi, un chilo di pane ogni 15 giorni, un cucchiaio di marmellata in mese, un cucchiaio di formaggio in mese, 4 grammi di margarina in mese, un cucchiaio di carne in scatola in mese, e mezzo di litro di zuppa tutti i giorni. Quando l’era bona c’erano delle bucce di patate, qualche altra robuccia, se no c’era tutta erbaccia, tutta robaccia. Ecco, rapportato in caloria, giornalmente, il nostro gli era dalle 700 alle 750 calorie al giorno.  Lavorare 12 ore il giorno nelle fabbriche, sottoterra, come uno poteva fare a vivere? S’aveva un giorno di riposo il mese, l’ultima domenica del mese la si aveva di riposo. Io, il vestito che mi dettano a Mauthausen, me lo sono tolto il 6 maggio del 1945, il giorno della liberazione degli americani. Ecco, questo gli era Ebensee. Ebensee non è tanto piccolo, era piccolo in partenza, però è venuto grande nel passare il tempo. Siamo arrivati ad essere alla liberazione 18 mila prigionieri in un campo di concentramento che ne poteva contenere 7-8 mila. Ecco, uno si può immaginare già la tragedia che c’era all’interno di questi campi.

Poi, un’altra tragedia, grossa, era per noi italiani, era che noi non s’eramo visti bene. Perché noi s’era fatto, dire o non dire, la guerra a tutti. C’erano jugoslavi, “a me m’hanno preso gli italiani, mi hanno le camicie nere, i carabinieri, quelli con tante penne”; poi c’era i greci, “a me m’hanno preso gli italiani”; gli albanesi “a me mi ha arrestato la polizia italiana, eh sai – dice – te tu sei italiano e qualche schiaffo bisogna te lo lasci andare”. Non era giusto, però lo facevano. C’erano gli spagnoli, e gli spagnoli ce l’avevano, forse qualcheduno più che di altri, perché dicevano “noi, se si può ringraziare l’avvento di Franco si può ringraziare gli italiani, se non c’erano loro si vinceva”. E allora ce l’avevano di molto con noi. Non avevano ancora capito che noi s’aveva la solita disgrazia. Io non glielo potevo spiegare, non ci si capiva. Ma c’era alcuni che dei russi parlavano l’italiano, qualcheduno parlavano il tedesco, c’erano francesi, c’erano jugoslavi, chi parlava un po’ la nostra lingua, gli si spiegava, e lo capivano, dice “ma come si fa a spiegarlo a tutti? – dice – io lo so che ora voi siete il mirino di tutti, delle SS, dei capò, e nostra”. C’era Bartan, il cecoslovacco, gli era uno scrivano di blocco, gli era lì con me, me lo spiegò tante volte, dice “oh, pazienza, bisogna fargli dare un punto che loro tocchino con mano la vostra presenza, che è qui come la nostra, che voi fate parte integrante del comitato di resistenza. Bisogna trovare il sistema.”

Per la fotografia, ecco, me… non credo a tutti, ma a me mi fu fatta la fotografia proprio lì a Ebensee. Fui chiamato ad andare a fare la fotografia. Io me lo ricordo, non mi ricordo il giorno ma mi ricordo perché, disgraziatamente, feci tardi, tornai dal lavoro, mi disse lo scrivano “vai a farti la fotografia” e andai. C’era una fila enorme. Mi fecero la fotografia con il numero, di fianco, profilo e di presente… e di faccia. E poi tornai al blocco, tornai tardi, non lo so che ora gli era perché non c’avevo orologi ma io penso vicino a mezzanotte. C’è lo scrivano, mi fa “oh indove tu sei stato?”, “non m’avete mandato a fare la fotografia?”, e mi dette il pezzetto di pane, e mi dettano… mi ricordo c’era la margarina, e mi dette un pezzettino di margarina e la mangiai. “Sai – dice – guarda ti chiamavo per andare a monda’ patate, perché tu sei giovane, non t’ho trovato, ho mandato un altro” e io avviai a piangere, “come come?”, “no ma t’ho trovato un posto buono, ti mando a fare il giardino alle SS”. Perché a andare a mondare le patate bisogna andare la mattina alle quattro, presto, bisogna partire, invece al giardino delle SS tu parti quando tutti gli altri […] “Ti mando te e un certo Nanni, di Prato, Mario”, “oh, bene, dorme insieme a me” gli ho detto. Il che mi disse il Nanni “O Roberto, domani mattina si va a fare il giardino alle SS”, “sì”. E difatti la mattina si parte, si va a fare il giardino alle SS. Vo a fare il giardino alle SS e c’è… e siamo un comando di trenta, quasi tutti polacchi e qualche russo, perché il capo, non il capò, il capo gli era un polacco. E siamo lì, e dissi “lascia fare Mario, un po’ d’erba la si mangia qui”. Ma gli era pochino però che s’eramo prigionieri eh, sarà stato neanche dieci giorni, ma neanche. E lì si lavora. Alle 11 spariscono a tutti. “O ndo’ gli è andati Mario? O ndo’ gli è andati? Non saranno mica andati via e ci hanno lasciato?”, ho detto “ma, vedi che succede ora”. E noi si guardava ma non si vedeva nessuno. Dopo un quarto d’ora, non lo so preciso, ma venti minuti, e arrivano tutti e ricominciano a lavorare, e ci fanno a noi [espressione gestuale che indica l’azione di mangiare, ndr], e noi “ora si va, a mezzogiorno si va a piglià ‘na zuppa”, no, mi facevano [gesto come prima]: mi volevano dire loro, che loro gli eran stati a pigliare da mangiare ai cani. E ci dicevano a noi di andare anche noi perché ce n’è tanto, e non capivo. Allora viene questo… specie di capo, parlava un po’ di spagnolo, un po’ di… e ci dice che “domani, quando si va noi, venite anche voi; e lì c’è i cani gli portano da mangiare, e non lo mangiano: c’hanno riso cotto nel latte, carne, pane, c’hanno di ogni ben di Dio, non la mangiano, si mangia noi!”; “oh, hai sentito che han detto, Mario? domani si va”, “sì”. Difatti il giorno dopo, io stia attento, appena li vedo sparire lascio la carretta e corro con loro. E lì c’è tutti cani, gli erano lì a dormire tranquilli. E lì gli pigliavano la sua ciotolona e se lo mangiavano, e io lo stesso, me e Mario lo stesso, si mangia tutta ‘sta roba, e poi dopo si piglia la nostra gavetta, la si riempie con questa scodella, la si riempie di roba soda, e ci si mette sotto la giacchetta per portarla nel campo. A mezzogiorno ci portano nel campo, i nostri amici, italiani o altri, gli si dà da mangiare, si piglia la nostra zuppa e gli si dà ad un altro: s’era mangiato troppo noi.

E ci si stette lì un po’ di tempo, ma pochino perché, per l’appunto, Mario, si ritorna da lavorare, una sera mi fa “Roberto ho la febbre”, “va a passar visita – dissi – però sta attento Danilo… Mario, perché ci vuole che tu abbia superiore a 39, se no tu non sei riconosciuto”, dice “ma ne ho tanta, bisogna che andìa”. E va. Torna alla sera, gli fo “allora Mario?”, dice “sì, m’hanno dato un bigliettino e tre giorni di permesso”, “il bigliettino? fammi vedere”, dice “c’ho una sigla ma io non la so, c’è scritto ‘tbc’, ma io non so che vuol dire”, “sarà una sigla che hanno dato loro – non lo sapevo nemmeno io – va bene va’, si dorme ora.” La mattina si fa l’appello e poi ci dan tutti, a te e a tutti ognuno ha il suo lavoro no, e ognuno si doveva andare al nostro comando. Mi fa “Roberto non mi lasciar solo, se tu mi lascio solo oggi quando torni non mi ritrovi, che io solo non posso stare”. “Mario – ho detto – ma io non ho il permesso, tu lo sai se mi trovano come va a finire. E bisogna che andia al lavoro, poi dopo il lavoro ti porto da mangiare anche a te, a perdere un comando in quella maniera non è possibile”. Allora appena ci danno l’ordine proprio di andare al comando mi piglia per la mano, mi tira. Io non ebbi il coraggio di lasciarlo. E dissi “sarà quel che Dio vorrà”, e stetti con lui. Stetti con lui, si girava per il campo, perché per il campo s’eramo liberi, c’era tutte strade, però ci sta la polizia nel campo [Castellani indica l’avambraccio, ndr], lì c’è scritto ‘Polizei lager’. Ci trovano e ci fermano. S’eramo a braccetto, e s’aveva un bastone. Arriva Mario e gli dà il bigliettino, loro appena pigliano questo bigliettino s’allontanano da lui, e lo buttano in terra e lo lasciano stare. E mi chiamano a me, mi fanno a me, io non avevo nulla, mi frugava, c’erano due tasche sole in quelle giacchette, mi frugavo mille volte ma non l’avevo. Non ti dicono mica nulla, mi pigliano il numero qui e il blocco, era il blocco 18. Intanto a desinare ci vengano. A mezzogiorno vo a prendere la zuppa, chiamano il mio numero, lo capii subito perché tanto lo sapevo, “oh dice – mi fa l’interprete – perché tu non sei andato a lavorare”, “mi sento male”, “se ti senti male dobbiamo andare a passare la visita, ora tu lo sai che succede. T’hai risposto subito però le sono sette bastonate.” Mi metto a diacere, senza buttarmi giù i pantaloni e cominciano a dare, e c’ho quella specie di catenella sul culo, la ta sona… Madonna non l’avessi fatto, “giù pantaloni” […] Mi butto giù i pantaloni, invece che sette me ne dà quindici. Io stetti una settimana senza mettermi a sede, e la sera stessa mi mandarono a lavorare in galleria. E io sono entrato in galleria allora e sono riuscito fuori nel ’45, il 5 di maggio. Insomma, ho sempre lavorato nel sottoterra. E Mario ritornò a passare la visita, gli dettero altri giorni, poi ritornò a passare la visita e non tornò più. Io ho saputo, quando sono tornato, che è morto a Mauthausen il 5 di maggio del 1945.

E ero a dormire con un altro italiano, un ragazzo straordinario. Un ragazzo che non c’è n’è punti nel mondo: Danilo Veronesi. Ha una storia bellissima, perché lui non voleva pensare solamente per sé, voleva pensare anche per gli altri. Disse a me: “Roberto bisogna fare qualche cosa”. “Ma che bisogna fare Danilo? Tu lo vedi, qui ci fanno ammazzare per nulla, la gente non capisce più nulla, per una cicchina di tabacco s’ammazzano!” Dissi “vedi Danilo, per fa’ codesto ci vorrebbe tanto pane e tanta carne”, “no, bisogna fare qualche cos’altro.” Lui inventò questo. Dice “quando si torna da lavorare…”, ma già era un pezzo di giovane, aveva anni avanti a me, ma alto, forte, grosso, e aveva forza. Dice “quando si torna dal campo, dal lavoro, tu lo sai, gli ultimi che restano dietro sono i più malati, le SS e i capò non gli aspettano altro che caschino in terra per finirli”, “allora che tu faresti?”, “appena cascano me lo carico sulle spalle e lo porto nel campo, almeno uno si salva.” Dissi “io Danilo, non me lo chiedere, io non ce la fo”, “ma io sì, tu mi dai una mano a caricarmelo”, “sì – dissi – questo sì, ma io sai, a mettermi ultimo mi garba poco, dato che noi si ha la possibilità di sta’ da primi, ma per codesto ci sto.” E difatti noi si stava sempre gli ultimi quando si tornava da lavorare, appena cascava uno non guardava lui se l’era un polacco, un russo, un ebreo, no no, se lo caricava sulle spalle e lo portava nel campo. Io mi ricordo sempre d’uno, d’un polacco, un polacco ebreo, lo messe in terra, e lo guardò questo ragazzo. Non parlava la nostra lingua e né noi si parlava la sua, però io capii tutto che gli volse dire, con gli occhi lui lo guardava e gli diceva “non è vero che tutti gli uomini sono diventate delle bestie, questo ragazzo ha dimostrato di essere un vero cristiano, lui non ha guardato nulla quando sono cascato in terra, m’ha caricato sulle spalle a rischio della sua vita e m’ha portato qui. Sintanto ci sarà di questa gente c’è speranza che il mondo ritorni veramente in pace.” Queste sono le parole che ha detto questo ragazzo.

E poi Danilo… l’è una cosa lunga da parlarne di Danilo, ci vorrebbe tanto tempo, però in poco tempo cerco di fare alla svelta. Io mi ricordo c’era da scappare due, e volevano far scappare un russo e un polacco. Il cecoslovacco Bartan decise di far scappare due italiani, perché noi s’eramo nel suo blocco. Disse: “io c’ho due italiani in gamba, per fa’ dimostrare che gli italiani fanno parte integrante del comitato di resistenza di Ebensee, e che non sian più discriminati dalle altre razze.” Dice: “va bene, allora va bene.” E chi è? E vense da noi e disse “siete disposti a scappare?”, “io no – dissi – Danilo sì”, “però – dice – bisogna essere in due”, “via – mi disse – Roberto, tanto qui si muore, o morire per morire si tenta e non se ne parla più. Io se sto qui piglio un SS per il collo e lo strozzo, sicché è meglio scappare”. “Va bene”, allora accettai. Ci dettano un foglio, bianco, indove era scritto dove noi si doveva firmare, Salisburgo, tutti i posti, e indove si doveva andare nelle case. Poi ci dettano marchi civili, e poi ci dovevano dare il vestito, ci doveva essere, i vestiti da civili. Succede così: che nel campo gli era da costruire ancora, e dovevano costruire una baracca, allora per andare a portare questa baracca indove volevano costruire non c’era strada, allora bisognava tagliare i fili spinati, levare la corrente elettrica, prendere gli alberi e portarli fori, prendere le baracche e montarla lì. Questi sono comandi fittizi, si dice, non ci si conosce l’un con l’altro, c’è un capò quaggiù che ti para, un capò qua, una SS qui e una SS qui, e basta. C’è la possibilità di scappare e ci dicono dove hanno messo – se si va a Ebensee lo fo vedere, i cespugli non c’erano più eh, ci sono le case ora – il cespuglio indove hanno messo gli abiti. Io non so se sono stati civili di Ebensee o altre persone, so solamente che ci dovevano essere i vestiti, e c’erano. Ci doveva essere per due. Noi si doveva scappare il 9 di maggio, invece il 9 di maggio, invece che tutti e due scappò uno solo, perché c’era vestiti per uno solo. Danilo si raccomandò di scappar lui, dissi “va bene scappa te”. E difatti…

D: Scusa il 9 di maggio?

R: Sì, di maggio del ‘44.

D: Ah, ecco, del ’44.

R: Ora scusami, non ho detto… del ’44. Il 9 di maggio del ’44. E difatti la mattina io dissi “io vo a lavorare…”, no ero di notte, s’eramo di notte, io ero di notte, s’eramo di notte. E lui disse “io mi fo assumere a questo comando” perché questi comandi li facevano fittizi, pigliavano gente e s’eramo a dormire, e lui si fa proprio prendere. Dice “se a mezzogiorno non ci sono a prendere la zuppa io sono scappato”. Difatti a mezzogiorno vo a prendere la zuppa, guardo e non c’è. “Ah, Danilo è scappato. Stasera all’appello il minimo gli ha 7-8 ore di vantaggio, non lo ritrovan più, non lo beccan più!”, dissi io. Eh, s’arrivò all’appello, e come venne l’SS, si portano morti come sa, come di regola, e fa, e conta, e conta, conta… e “manca uno!” C’era il capò che non capiva più nulla, lo scrivano lo stesso, se c’erano cento morti non era nulla di male, purché torni il numero, ma se ne manca uno gli era un guaio. E non capivano più nulla loro. Io dicevo “speriamo che non mi faccia piglià dall’emozione e faccia capire che è un italiano”. Allora prendono a tutti i cartellini e cominciano a leggere. E arrivano a “Veronesi Danilo”, non risponde. “Veronesi Danilo italiano”, non risponde. E allora l’allarme subito. Dice “gli è scappato un italiano”, e io c’avevo lì d’intorno a me russi, polacchi, jugoslavi. Il polacco mi fa “[…] italiasco”, il russo lo stesso m’abbracciò “bravi”, i francesi, “bien bien”, gli spagnoli “dobra, dobra”; un po’ di dobra, un po’ di quello un po’ dell’altro, insomma ci si intendeva, e tutti dicevano “bravi, bravi”. Ecco da quel momento, la nostra situazione all’interno del campo la cambiò da… da tutta. Tutti ci consideravano come loro, perché gli era scappato. Dettero l’allarme, portarono i cani, io la mia paura dissi “allora tu m’ha dire”, s’eramo io e un polacco, si dormiva in tre, dissi “tu m’ha dire”, il numero 31, l’hai visto [Castellani si rivolge all’intervistatore, ndr], “tu m’ha dire ‘ndo gli arriva…” e i cani sentono l’odore vengono subito da me. Io sai, al polacco non gli dicevo nulla, io tremavo dalla paura. Gli vanno a lasciare andare i cani, corrono, e infatti dopo du secondi gli eran lì da me, gli avevano una bocca grande così. Ecco io devo dire la verità, mi si fermò a due metri, non mi fece nulla, nemmeno toccato! Pareva ci fosse un vetro di fronte a me! Vense l’SS, perché c’ha il numero del letto, io c’ho il numero del letto, sapevano chi ci dormiva, mi venne lì e mi fa, con l’interprete, “che sai qualcosa te?”, “io no nulla, nulla nulla” e mi dette du schiaffi. Disse “domani”, lui disse “morgen” ma l’interprete dice “allora domani ti fanno un interrogatorio”. “Oh tu m’ha dire, speriamo non parli, io non credo di non resistere, e parlerò e dirò anche quel che non dovrei dire”, la mia paura l’era quella, e che anche il polacco lo stesso, che s’eramo sette a lavorare, io avevo il pensiero solamente della mattina.

Arrivo la mattina all’appello, dice [dico, ndr] “ora mi chiamano, tu m’ha dire che mi fanno”. Dico la verità: nessuno m’ha trovato, nessuno m’ha chiamato e nessuno m’ha detto nulla, per fortuna. Passa tre giorni e non sapevo nulla, passa tre giorni e viene ripreso Danilo. Viene ripreso in una baracca perché lo trova un guardiacaccia. Lui gli era entrato dentro di questa di baracca perché c’erano delle mele, per mangiare. Lui lo vede, non disse nulla, dietro c’era una pala, gli tirò una palata nel capo e lo fece svenire. Chiamò le SS, vensero a prenderlo, lo riportarono nel campo, la sera, portato nel campo la sera il comandante gli era al cine con la ragazza, a Ebensee, andettano giù a chiamarlo con la motocicletta, “si è ripreso l’uccello che ha tentato la fuga”, dice “davvero?”, “sì”, “e allora vengo subito su” e lasciò. Gli arrivo lì, io… parole dette da uno che è stato presente all’interrogatorio, questo Bartan, e gli disse il comandante “te tu volevi correre? Ora ti fo correre io. Io ero al cinema con la mia ragazza, stevo bene, per colpa tua mi toccò lasciarla e non vedere un bel film, e venir qui per interroga’ te, e te non vuoi di’ nulla. Non importa. Ma ora te tu volevi correre? ti fo correre io”, e gli aizzò il cane e lo fece sbranare dal cane […], e lo fece morire. Ecco, Danilo morì così.

D: Roberto, scusa, tu sei andato a lavorare nelle gallerie di Ebensee. In cosa consisteva il tuo lavoro?

R: Il mio lavoro gli era… C’ho dei plastici… Quello della galleria noi si parte, la prima è una squadra e si fa 4 metri per 4, siamo una squadra di quindici; poi un’altra squadra di quindici dopo 10 metri nostra, partono e fanno 8 per 8; poi dopo ancora 10 metri parte un’altra squadra e fa 15 per 12. Ecco, era un lavoro a catena, e s’andava avanti così.

D: E come perforavate la montagna? Che strumenti usavate?

R: Noi, gli strumenti che si aveva noi e avevano loro erano tutti strumenti modernissimi, non si faceva con le mani, e né con il picco, ma tutti mezzi moderni, tutta aria compressa. Però bisognava sapere adoperarli, io non le ho mai viste queste macchine. Insomma, me la imparai, s’aveva le […], si metteva lo scalpello che fora il centro e si faceva fori, fori di un metro e mezzo, poi mettevano la dinamite e facevano saltare per l’aria. Fatto saltare per l’aria, poi prendevano sempre una specie di gru piccolina e caricava i vagoncini. Noi s’eramo dietro, si spingeva via questi carrelli e si mandavano via, e li portavan fuori, il materiale fuori. Ecco, il lavoro si svolgeva così, 12 ore il giorno.

D: Dentro nelle gallerie, umidità…

R: Umidità… Per esempio, si va avanti, si trova una vena d’acqua: bisogna star lì. Si smette e si trova invece asciutto, tutta polvere. Poi si ritrova l’acqua, e bisogna stare lì sotto. Il peggio era quando si trovava l’acqua no a scrocio, l’acqua a gocciola, ci cascava sulla testa ed era un disagio e non ci si poteva muovere eh. E tutti molli in quella maniera, con tutta la polvere, s’eramo […], non ci si conosceva l’un l’altri.

D: E tu quanto hai fatto in galleria?

R: Io in galleria ho fatto dal maggio, dai primi di maggio, alla fine. Un anno. Io sono stato 15 mesi nel campo di concentramento di Ebensee: non ho mai avuto una linea di febbre, non ho mai avuto un colpo di tosse. Solamente, quando mi hanno liberato, ero 28 chili, ecco, questo sì. Però camminavo.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: Eh, la liberazione me la ricordo bene io, ero fuori, non ero in infermeria come tanti. Perché a mezzogiorno – io penso sia stato mezzogiorno – a mezzogiorno c’era… vense una camionetta americana, sembrava. Dice “ci sono gli americani! ci sono gli americani!”, poi sparirono. Invece alle 14 e 45 t’arrivarono tre autoblindo americani, entrarono nel campo. Ecco, noi siamo stati liberati alle 14 e 45. E lì gli entravano gli americani, con queste autoblinde, e s’eramo, io dico, un diecimila fuori ancora dai campi, e gli altri erano a giacere, a dormire, e aspettavano la morte. Stesso eravamo applauditi tutti, gli americani quando sortirono… gli aprirono la… il carro-armato, che l’era l’autoblinda, sortirono fuori: restarono imbambolati, non impauriti, ma non si aspettavano… A noi non ci faceva nulla, perché ci eravamo abituati a vede’ tutti secchi, ma loro restarono lì impietriti, però capirono subito che bisognava che ci dessero da mangiare. Loro gli avevano gli zainetti, c’avevano da mangiare per tre giorni a quanto sembra. Cominciarono a distribuire a tutti, ma s’eramo tanti, non c’era verso, non toccò a nessuno si può dire. Allora io poi dopo andei – non c’avevano più nulla – io vo da uno di ‘sti americani, coi pantaloni, lo prendo dal carro e lo tiro, e mi fa quello “eh”, gli fo “oh tu nun c’hai nulla per me?”, “italiano!” dice, “sì”, “io paesano, siciliano, io americano ma siciliano! Mi dispiace” ed avviò a piangere, “io non c’ho nulla, non c’ho nulla. ‘petta però…”. C’aveva un pacchettino – io non sapevo neanche che l’erano – di gomme no, ora lo so, ma allora non lo sapevo: sentivo il profumo buono, me l’aprì, me la messe in bocca, e io la mangiai, non la ciucciai mica, e mi faceva lui, sai “no no no no”, “ma che no, bischettò!”, e la mangiai. Ecco, lui m’abbracciò, questo dice “non ce n’ho più, aspetta, ora vo a vede’ se trovo…”, e ma non trovò nulla. Insomma, ma poi dopo da mangiare, anzi…

D: Che giorno era la liberazione?

R: Gli era la domenica, il 6 maggio. Il 6 maggio. E gli americani… ce n’era anche troppo da mangiare, e purtroppo fu quello il guaio, perché di molti morirono perché troppo da mangiare.

D: Quando sei rientrato in Italia tu, Roberto?

R: Io sono rientrato il 19 di giugno del 1945, perché vensi via a piedi. Si scappò, si scappò… si vense via dopo 3 o 4 giorni, si disse “che si fa? si va a casa, si va a casa”. E i tre pratesi, io Gino e Vincenzo. Si traversò l’Alpe, a rischio anche di morire, scemi, però si tornò a casa.

D: A piedi.

R: A piedi. A piedi sino a… a piedi, stiamo bene attenti…

D: Nessuno è venuto a prendervi?

R: No, per dire la verità noi si è avuto di molta fortuna perché… un colonnello americano ci dette un permesso in tre lingue, russo, tedesco e inglese. Questo lasciapassare ci permetteva di fermarsi a tutti gli accampamenti militari e ci dovevano dare tutti da… l’assistenza, e accompagnarci.

D: Ma dico, dall’Italia, non è venuto su nessuno a prendervi?

R: No, io dall’Italia, quando sono arrivato in Italia, io sono passato da Bolzano. Per esempio, Bolzano, per dire la verità io ho attraversato le Alpi e da, mi pare si chiami San Martino, dall’Austria, gli è un passo, e poi si è trovato la divisione Folgore, italiana. E questa divisione Folgore ci prese lei, ci portarono sempre con le jeep, e ci portarono a Cortina d’Ampezzo. Poi da Cortina d’Ampezzo a Bolzano. A Bolzano ci misero in un ospedale, e i dottori ci dicevano “non andate via, non andate via! su, siete sani, ma non andate via! ora vi si rimette un po’, tanto si dà alla radio tutto il nome, i vostri familiari lo sanno poi”, “no no noi si vuole andare”, “allora se volete andare a casa domattina c’è un trasporto che parte da Bolzano e va a Verona, poi da Verona a Modena”. A Modena ci si stette 7-8 giorni, all’Accademia di Modena, poi da Modena ci portarono coi camion a Bologna. A Bologna con una tradotta ci portarono a Firenze.

D: Roberto scusa, delle 700-800 che sono state arrestate a Prato e provincia, quante sono state deportate?

R: Ecco. Noi si suppone che siano stati dai 700 a 800 persone arrestate, in provincia di Prato. Dopo la selezione… perché i nazisti volevano 500 persone, 500 persone da porta’ via, e tanto è vero che ne fu portati via 480. Di 480 siamo tornati solamente 17. Perché poi si fu divisi: più di 300 si andette a Ebensee, alcuni andettano a Melk, alcuni andettano a Gusen, e altri gli andettano anche a coso… a… Steyr, e così. E ora siamo solamente vivi in tre.

Ansaldi Mattia Alberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Mattia Alberto Ansaldi. Sono nato a Torino il 12 marzo 1927. Sono stato preso prigioniero a 16 anni, il 20 settembre 1943, da polizia politica fascista. Motivo. Il 10 settembre del ‘43 ci avevano comunicato… avevano parlato con i miei genitori soldati che erano scappati dalle caserme l’8 settembre a Cuneo, pregando di portare loro roba, vestiti, perché volevano ritirarsi sulle montagne e non andare coi tedeschi. Ragion per cui avevano bisogno di tutto. Entusiasta, sedicenne, per me una grande avventura, sono partito, ho portato su della roba a loro. Arrivato, mi chiedono per favore se posso trovare altre persone che vogliono andare a far resistenza sui monti con loro, di mandargliele. Dico “beh, volentieri”. Ritorno – perché in quel periodo noi eravamo sfollati nella città di Alba – ritorno a casa, spargo la voce, e diverse persone rispondono a questo. Gli indirizzo dove c’era questa riunione di soldati che erano scappati dalle caserme, dopodiché parto con loro, ancora un’altra volta, a portare altra roba, eccetera. Ritorno indietro. Il giorno seguente, che era il giorno 20, al mattino – stavo parlando con mia madre perché noi avevamo un negozio alimentari – una persona entra e mi chiede “tu sei Ansaldi?”. Io vedo che questa persona tira fuori una pistola di tasca, scappo dalla parte opposta, cerco di scappare. Dalla parte opposta c’era già un’altra persona, un altro giovane che mi aspettava, quindi perciò erano molto informati, informati benissimo dell’ubicazione in casa mia.

In seguito, tanto tempo dopo, ho saputo il motivo di questa cosa: una delazione involontaria di una persona che proprio non mi era nemica per niente. Trasportato prima a Savona, alla Casa dello Studente, dopodiché immediatamente portato la notte stessa a Marassi, nell’ultima sezione in alto. Là sono stato, diciamo, in isolamento dal 20 di settembre ai primi di gennaio. Il giorno esatto che mi hanno fatto uscire non lo so, perché non lo ricordo assolutamente, sono ricordi che sono rimasti confusi. Non so se fosse il 2, il 3, il 5 o il 6.

D: Ecco, scusa Mattia, dove ti hanno arrestato?

R: Ad Alba. Alba. Gliel’avevo già detto prima, avevo accennato che io abitavo ad Alba.

Allora, si mettono con altre due persone, altre due o tre persone lì – non so, forse di Genova o che, abbiamo parlato molto poco – ci mettono in vagone e ci spediscono. Arriviamo dopo quasi un giorno e mezzo di viaggio – c’è una notte [di mezzo] – in un campo di concentramento, perché praticamente erano tutte baracche: non so quale fosse, ma penso fosse Dachau. Di buon conto, ci fanno passare lì un due o tre giorni, dopodiché ripartiamo, io e i due uomini, le donne non le ho più viste. Però, a un certo punto, loro sono spariti, sono rimasto solo, e mi trovavo – ho saputo dopo – nel bacino della Ruhr, dove non m’hanno dato nessun numero ancora, mi hanno soltanto tolto i vestiti civili e m’han dato dei… ma non degli abiti… un paio di pantaloni neri e una giacca nera. Dopodiché m’han fatto lavorare vicino alle grandi industrie lì, nel bacino della Ruhr. Dopo diversi altri bombardamenti che c’hanno preso, distrutto le baracche, sono stato mandato… almeno, penso che fosse il campo di Neuengamme. Però non sono stato immatricolato in Neuengamme, sono tornato direttamente – questo sempre nel… diciamo, tarda primavera del ’44 – verso la frontiera tedesca, e danese, a costruire le fosse anticarro, unico italiano fra tremila e più russi e polacchi. Questa è stata una cosa molto interessante perché praticamente durante tutto il periodo della mia prigionia ho incontrato soltanto un italiano: meglio che non l’avessi incontrato, che poi tra parentesi non era prigioniero, l’ho incontrato a Mauthausen, questo più in avanti.

Dopodiché dopo un po’ di tempo veniamo trasportati – finito di fare queste fosse – ci mandano a Sachsenhausen. Arriviamo a Sachsenhausen il 15 settembre del ‘43, qui adesso ho la documentazione […] posso dirlo in tranquillità, dove mi hanno dato il numero cento tremila sei otto sei, seicento ottantasei, centotre seicento ottantasei [103.686, ndr]. Durante il periodo di permanenza nel campo di Sachsenhausen sono stato addetto al ‘Bombe commando, ovverosia una squadra, una piccola équipe di 5-6 persone. Lì ho avuto una grande fortuna, ho incontrato moltissimi belgi, specialmente, diversi belgi, che parlando francese ci siamo potuti capire, è stato il primo momento perché il mio tedesco era molto molto molto scolastico e lo sapevo molto poco; perciò, me la sono cavata sempre discretamente parlando un paio di lingue. Ragion per cui… parlando… questo è un eufemismo, ma non importa… sbrigandomi in questo modo. Durante il periodo del Bombe commando posso dire che è stato forse il periodo migliore, per il semplice motivo che vivendo praticamente nella città di Berlino, avevo la possibilità di racimolare qualcosa da mangiare in più, cosa che nel campo non succedeva. E nel contempo però venivamo sempre decimati, perché ogni tanto una squadra saltava in aria, e per fortuna mia sono rimasto, sono ancora qui tuttora, perciò mi è andata sempre bene.

D: Ecco, scusami Mattia, la vostra mansione in questo commando qui qual era?

R: La mia mansione in questo commando era il galoppino, essendo l’unico, come dico, che parlava un po’ di francese e un po’ di tedesco, logicamente venivo mandato da una squadra all’altra per fare cose…  per i collegamenti. Per mia fortuna, perché anche quando sono successe le cose, tutte queste cose, praticamente io ho avuto la fortuna di salvarmi perché non era il momento giusto nel posto sbagliato. Perciò, diciamo semplicemente che la fortuna mi ha seguito, tutt’ora sono qui, perciò è logico questo. Fatto sta che dopo un certo periodo di tempo che eravamo su…

D: Voi dovevate recuperare gli ordigni inesplosi?

R: No, dovevamo disinnescare gli ordigni inesplosi più che altro, il recupero non era compito nostro, noi il disinnescamento della spoletta. Infatti siamo andati avanti per un bel periodo di tempo, per diversi mesi. Dopodiché, passato il… cominciato il ‘45, siamo rimasti un po’ nel campo. C’è stato un po’ di maretta perché praticamente stavano arrivando le truppe alleate. Cosa succede? Succede semplicemente che noi siamo trasferiti con trasporto di tremila e cinquecento persone e più da Sachsenhausen a Mauthausen, in Austria.

Ho avuto piacere di sapere questo: io di questo trasporto mi ricordavo quasi vagamente, era una cosa per me quasi inconsistente, una nebulosa. Ho avuto la fortuna di incontrare durante il recupero mio in Germania amici conosciuti tedeschi, danesi eccetera, che erano partiti con me da Sachsenhausen, sullo stesso trasporto, a distanza, poi sempre a distanza perché il loro numero era di poco inferiore e un altro poco superiore del mio, e questo mi ha dato una grande gioia perché ho detto “ci siamo trovati fratelli, uniti anche se forse di diverse nazionalità, non importa”. La cosa più interessante di tutte quando siamo arrivati a Mauthausen, ci fanno fare la scalinata. Noi era tre giorni che non si mangiava e non si beveva, su quella scalinata non so quanti sono rimasti, […] tanti.

Siamo arrivati, ci hanno passati alla doccia, spogliati, dopodiché non ci han dato nessun vestito perché non c’era niente da mettere addosso, ci han mandati nel sotterraneo che c’è all’ultimo edificio in fondo, c’era allora a destra, dove per fortuna nostra c’era del sale, rosso, in sacchi. Questo cloruro di sodio ci ha salvato la vita, perché succhiando quello siamo riusciti a produrre un po’ di liquido per il nostro corpo. Dopodiché ci hanno vestito, ci han dato qualcosa addosso, e siamo scesi al San Valentin [Sankt Valentin, ndr], alla miniera, alla mina, ci han mandati a lavorare, per un periodo di tempo abbastanza breve perché siamo stati sì e no un 20-25 giorni lì.

D: Ti hanno immatricolato di nuovo?

R: Certo immatricolato di nuovo, il mio numero di Mauthausen è centotrenta duecentotrenta [130.230, ndr]. E, come dicevo siamo scesi, dopo una ventina di giorni che facevamo la spola fra San Valentin e Mauthausen, ci hanno bloccato e ci han mandati alla stazione ferroviaria e ci han spedito ad Amstetten. Ho sempre creduto fosse Ebensee, poi finalmente sono riuscito ad appurare che era Amstetten dove c’han mandato. E lì nello stesso… in questa cittadina di Amstetten siamo andati a riparare la cosa… la stazione ferroviaria che veniva bombardata lì di notte, noi di giorno la riparavamo. Abbiamo continuato fino alla fine del conflitto. Ecco, questo è praticamente, diciamo, è il nesso di quello che è stata la mia deportazione.

D: La liberazione, il momento della liberazione?

R: La liberazione, 6 maggio 1945 alle 14 del pomeriggio, un carro armato statunitense abbatte la porta, abbatte il portale d’ingresso e si ritira. Non viene dentro.

D: Il portale d’ingresso…

R: Il portale d’ingresso del campo.

D: Di Mauthausen?

R: No, non di Mauthausen, di Amstetten, di Amstetten. Dopodiché si ritira. Noi usciamo, facciamo per andare fuori, ma eravamo talmente… siccome gli ultimi giorni del conflitto, gli ultimi giorni [in cui] eravamo rimasti le SS erano sparite tutte, era rimasto soltanto qualche vecchio soldato che poi tra parentesi anche quello all’ultimo momento era sparito, il vitto non c’era più, siamo rimasti a terra, quindi praticamente eravamo degli zombi diciamo.

Abbiamo cercato di uscire, di andare da qualche parte. Io ho avuto la fortuna di uscire, e andare verso… verso il dove non so. Mi sono trovato vicino a una fattoria, un casolare: sono entrato, vedo una donna che commossa mi dà una ciotola, dentro c’era della verdura, l’ho mangiato con avidità perché ovviamente avevo fame, poi sono uscito. Nell’uscire, diciamo, nel buio di quella grande camera dove… dello stanzone dove ero, ho visto delle divise: erano soldati tedeschi, anche loro tornavano a casa, più o meno facevano come noi. Dopodiché sono andato a… ho proseguito la strada, mi sono trovato in una piccola cittadina di Bad Ischl. A Bad Ischl ho incontrato, il comando di… il comando inglese, delle truppe inglesi. Sono stato portato al… diciamo, all’infermeria, dove mi hanno disinfettato, e mi hanno messo in infermeria; soltanto che non mi davano da mangiare, io avevo una fame tremenda, e logicamente mi sono alzato, ho preso qualcosa, me la sono messo addosso, sono andato fuori. Ho avuto la fortuna di trovare un altro, un italiano, un militare italiano, che mi ha aiutato ad andare sia verso il Municipio dove ci davano degli indumenti da metterci addosso, poi siamo riusciti ad avere anche qualcosa da mangiare. Dopodiché abbiamo peregrinato per un po’ di tempo, fino a che non siamo riusciti a trovare un mezzo che ci ha portati fino a Innsbruck. A Innsbruck ci siamo fermati perché tutte le macchine che c’erano a Innsbruck sono state sequestrate perché c’era la colonna del Vaticano che partiva da Innsbruck per portare giù in Italia. Però partiva diversi giorni dopo, e allora noi dovevamo arrangiarci anche per i viveri su a Innsbruck. Così abbiamo fatto, in qualche modo abbiamo vissuto, dopodiché siamo rientrati in Italia.

Io sono arrivato fino ad Alessandria, noi allora si abitava ancora… almeno, speravo che si abitasse ancora ad Alba, perché durante tutto il periodo della prigionia io non ho mai potuto né scrivere né ricevere, quindi praticamente ero all’oscuro di tutto, non sapevo se i miei genitori fossero ancora vivi o meno. Ho avuto la fortuna di arrivare fino ad Alessandria, dopodiché a piedi, fino ad Alba, perché da allora non c’erano né mezzi di comunicazione né niente, quindi praticamente l’unica strada era Cava di San Francesco, e siamo arrivati fino a… sono arrivato fino a casa. Certo, quella sera devo descriverla? No, è meglio di no. Devo descriverla?

Durante il periodo del ’45, come allora, praticamente la vita era ancora molto patriarcale, la televisione non esisteva, la radio era molto…

D: Ecco, scusa un attimo Mattia, allora la liberazione al 6 maggio del ’45, tu sei arrivato a casa ad Alba quando?

R:Era il 20 maggio, 20 maggio del ’45. Ovviamente io arrivo alla sera, era tardi, era verso le otto di sera, e c’era ancora un po’ di luce. Allora le persone, dato come dicevo, non c’era né televisione né niente, si radunavano in crocchio. Noi, essendo proprietari di un negozio alimentari, ci si metteva lì sotto un porticato a chiacchierare tra varie persone. Il mio papà seduto su una sedia, col sigaro toscano in mano, il fiammifero dall’altra, si volta e mi guarda. Però non ci crede ai suoi occhi, strofina il sigaro contro il muro e si mette il fiammifero in bocca. Dico: “Papà guarda che il sigaro è quello”. Butta via tutto, mi abbraccia, e poi… stop. Soprassediamo al resto.

D: Ascolta Mattia, facendo dei salti indietro adesso…

R: Sì, prego.

D: Hai subito degli interrogatori tu?

R: Interrogatori sì, ne ho subiti ma… Gli interrogatori per me erano una cosa… non c’entravo… Io praticamente, la mia giovane età, l’unica cosa che a me è stato chiesto tutte le volte che entravo in un campo, in qualsiasi posto arrivavo: “sei ebreo?”. Perché essendo molto giovane la prima cosa che ti domandavano era “sei ebreo?”. Ovviamente era quella. Io ho sempre risposto no. E poi, c’è una cosa molto lampante, che gli ebrei praticamente hanno il prepuzio del pene che è scoperto, mentre invece io non l’avevo scoperto, perciò praticamente sapevano che non ero ebreo. Ma la prima cosa che mi chiedevano per la giovane età era quella. Interrogatori veri e propri… non ne ho subiti interrogatori, nel senso… perché cosa potevo dire io? Assolutamente nulla.

D: Anche quando ti hanno arrestato?

R: Io sono stato arrestato dalla Polizia politica fascista come un grande traditore, perché avevo aiutato i ribelli. Ma io non ne sapevo assolutamente nulla di queste cose. Scusa, a un certo punto… Devo continuare o no?

D: Sì sì sì.

R: A sedici anni nel 1943 si era semplicemente dei ragazzi, io ero studente durante il periodo, diciamo, di vacanza: non si sapeva assolutamente nulla. Essendo cresciuti sotto il regime fascista, quando in casa non si poteva parlare di politica, anzi, poi a noi non interessava assolutamente, che cosa potevo sapere io? Io mi sono trovato a fare il saluto fascista davanti ai tedeschi e prendere un grande ceffone perché m’hanno detto che ero un traditore. È ovvio che… Io non sapevo cosa avevo tradito, eppure avevo tradito. Ovviamente poi in seguito ho capito tutto il perché. Io, non politico, sono stato politicizzato, e molto, di modo che alla fine se forse avevo delle certe idee ho dovuto cambiare completamente. Tutto lì. Domanda.

D: Ci parli del campo di Sachsenhausen?

R: Certo.

D: Come te lo ricordi?

R: In che senso?

D: Come era   il campo.

R: Il campo era organizzato molto bene, c’era, diciamo, il Lagerältester, che praticamente… un Lagerältester che francamente parlando è stato uno dei migliori Lagerältester che ci fossero, che siano stati al campo di Sachsenhausen, uno degli ultimi che è stato. Era un criminale tedesco, però un criminale tutto particolare. Io non so cosa fosse o che, so soltanto che tutti i miei compagni di Sachsenhausen quando c’è stata la liberazione – io non ero in Sachsenhausen – loro l’hanno protetto, perché praticamente han detto che aveva fatto più lui di bene che tutti gli altri, io questo però non… queste sono le cose sentite dire poi in seguito.

Perché tu devi capire che le cose che in questo momento io sto dicendo, una gran parte io le ho riscontrate ripensando e parlando con i miei ex compagni. Perché la prima intervista che ho rilasciato tanti anni fa, o quasi venti anni fa, per me è piena di lacune perché avevo proprio la mente vuota. Sia forse perché ero rimasto per più di trent’anni che non ho più parlato di questo, dato che come sono arrivato, la prima cosa che m’han detto, quando ho raccontato a tre persone abbastanza importanti quello che m’era successo m’han detto: “impossibile!”. Questa parola ‘impossibile’ era rimasta fissa in me, io perciò avevo messo tutto in disparte, tutto, non ho più voluto parlare con nessuno, assolutamente di questo. Infatti, quando io per la prima volta mi sono trovato a Torino con uno dei nostri vicepresidenti, Dario Segre, a una manifestazione di deportati, mi fa: “E tu cosa fai qui?”. Dico: “Io sono deportato.” “Sì, ma son tanti anni che ti conosco, mai saputo!” E io dico: “E perché devo dirlo? Mai nessuno me lo ha chiesto.” Era diventata quasi una vergogna essere deportati, ragion per cui non si diceva più in giro, assolutamente.

D: Ecco, nel campo di Sachsenhausen erano molte baracche?

R: Sì, di baracche ce n’erano tantissime, ovviamente erano ripartite in vari settori. Io praticamente dovessi dirti quante baracche ci fossero non lo so, non l’ho mai saputo, non mi sono mai interessato al numero delle baracche. Io so soltanto che noi eravamo assegnati a quella baracca, la baracca numero 15, e sono stato lì per un certo qual periodo. Poi sono stato trasferito in un’altra baracca, però non ricordo il numero di questa baracca quale fosse, perché francamente parlando, il numero si ricordava soltanto per quando eri sotto, eri su all’appello per andare al tuo posto di dormire, cioè la tua cuccetta.

Ma… Il campo di Sachsenhausen era molto… era organizzato non solo militarmente, era organizzato, diciamo, con un criterio particolare, perché siccome il comando delle SS, la famosa Villa Eicke – quella che ora chiamiamo Villa Eicke, dove c’era il comando tattico delle SS, praticamente quelli che sovrintendevano a tutti i campi di concentramento – era proprio vicino a noi, quindi praticamente noi eravamo il campo scuola per loro, ragion per cui tutto doveva filare alla perfezione.

D: Ecco, un altro campo, che è Amstetten, era vicino al centro abitato oppure era distante dal centro abitato?

R: Il campo di Amstetten era semplicemente un grandissimo… era una… diciamo, una vecchia struttura austriaca, dove c’era un grande maneggio; noi eravamo ospitati… noi si dormiva tutti per terra sul terreno nudo in quel che era stato il campo del… la sala di maneggio, cioè una sala lunga, non so, un 350-400 metri, non so quanto fosse in larghezza, ad ogni modo noi si dormiva tutti lì. E il campo, il pezzo di campo, era recintato, dove c’era soltanto due baracche, dove ci davano la sbobba e il pane, tutto lì. Ecco, nient’altro. Il campo di Amstetten era… io quel che ricordo, perché francamente parlando non ricordo altro.

D: Ti ricordi, a Dachau hai detto, Sachsenhausen, e poi Mauthausen, e poi Amstetten, di aver visto delle donne?

R: Donne… A Mauthausen ho visto delle donne, ma le ho viste soltanto dietro una finestra. Aspetta… sì, a Dachau sì. Dachau… poi, non lo so, io ho detto Dachau però non ne sono certo di questo, perché sono passato da un campo che non conoscevo, quindi ragion per cui non posso dire con precisione che campo fosse. Penso fosse Dachau perché ci hanno detto che eravamo vicino a Monaco, quindi l’unico campo era Dachau. Io di donne ne ho viste semplicemente quelle che… le donne che erano con noi, quelle due donne che sono partite da Genova con noi. E poi altre donne, ci saran state ma non lo so.

A Neuengamme, di donne – quando son passato a Neuengamme – di donne non ne ho viste in assoluto. Alla frontiera danese, quando ho fatto le fosse anticarro – insomma, son stato per diversi per diversi mesi a far le fosse anticarro – non ho visto donne assolutamente.

Ecco, alla frontiera danese devo dire un piccolo particolare. I danesi sono stati molto molto molto gentili con noi, gentili in tutti i sensi. In questo senso. Noi si lavorava e si passava incolonnati, partendo da dove si dormiva per andare a questi campi di lavoro. Tantissime volte queste donne vedevano passare questa gente che aveva dei… era smunta, malandata, eccetera; eran piccole cose, ma tante volte si trovava sul lato della strada un pezzo di carta con dentro un pezzetto di pane, pane e margarina, per noi era come se fosse uno dei più grandi dolci, una torta o qualcosa di simile. Siamo stati… Un convoglio di rifornimenti è stato bombardato: eh beh, loro ci hanno aiutato, anche se magari avevano razziato già tutto i tedeschi, non importa, ci hanno aiutato con un po’ di patate e barbabietole e compagnia bella. Non saprei cosa dire. Infatti ho ringraziato, ho mandato al nostro compagno rappresentante di Sachsenhausen, danese, il dottor Petersen Skovgaard [probabilmente Inge Petersen Skovgaard, storico danese coinvolto nel salvataggio e trasporto di deportati negli ‘autobus bianchi’], che lui praticamente è il responsabile della deportazione di Copenaghen, una lettera dove ho ringraziato… ho voluto far ringraziare gli abitanti del paese della cittadina di Husum, perché avevano fatto a noi questa cosa, e ho avuto anche una risposta molto simpatica, e concreta.

D: Religiosi, ti ricordi di aver incontrato tra i deportati dei religiosi?

R: Religiosi in senso religiosi cattolici, no. Bibelforscher sì, Testimoni di Geova. Due. Che però, francamente parlando, l’ho saputo solo dopo che erano Testimoni di Geova, ed erano gli ultimi rimasti nel campo di Sachsenhausen, dove sono passati circa quattrocento e più testimoni di Geova. Sono gli unici religiosi con i quali ho parlato. Di religiosi della religione cattolica non ne ho incontrati assolutamente, come neppure di altre religioni perché, francamente, non li ho molto cercati. È questo.

D: E ragazzi più giovani di te?

R: Mai incontrati. Mai incontrati ragazzi più giovani di me. Io sono stato uno dei ragazzi più giovani che fosse nei campi, in quel periodo; almeno, nessuno che mi abbia detto che… e poi, io ero imberbe, ancora.

D: Ebrei ce n’erano nei campi?

R: Sì, ebrei ce n’erano. Ecco, ebrei ne ho incontrati un po’ da tutte le parti. Gli ebrei che ho incontrato più che altro gli ho incontrati nel campo di Sachsenhausen. Non molti, perché nel campo di Sachsenhausen ce ne sono stati pochissimi. Però loro erano, diciamo, una razza a parte, nel senso che loro facevano clan, erano sempre tutti uniti; mentre io, come italiano, essendo solo non avevo nessuno, non potevo [essere] seguito con nessuno. Ecco, l’unica cosa che mi ha colpito moltissimo è stato questo, che erano sempre molto uniti, molto vicini l’uno all’altro.

D: Tu non sei mai stato ricoverato nel Revier?

R: No nel Revier, ma… ci sono stato una volta per una… semplicemente per un… diciamo, una piccola ferita superficiale, sono stato disinfettato soltanto e basta. Come ricoverato mai.

D: Quindi non hai avuto quell’esperienza lì del Revier.

R: No no, io non ho avuto l’esperienza ma ho avuto… ho una tara mia personale che purtroppo mi porto dietro dal 1944, quando sono arrivato a Sachsenhausen, che ci hanno lasciato fuori nel cortile, all’Appellplatz, per quasi 47 o 48 ore, nudi completamente, perché non c’era… non so se non ci fosse posto nelle baracche o cosa, ma noi ci hanno fatto stare fuori, perciò… Quella [volta] lì ho preso una terribile pleurite che mi segue tuttora, e i miei bronchi sono quelli che sono. E ora ho i miei ricordi che purtroppo me li porto sempre con me. Stop.

D: Io volevo chiederle se ricorda qualche nome di qualcuno dei suoi compagni che sono partiti da Genova con lei.

R: Sì, ricordo un solo nome, Gino, è l’unico che ricordo, ma però il cognome non lo ricordo.

LA REGISTRAZIONE FINISCE QUI. SEGUE TRASCRIZIONE DELL’ULTIMA PARTE D’INTERVISTA NON RIPORTATA IN AUDIO.

D: E altri nomi di compagni di deportazione te ne ricordi?

R: No, perché praticamente devi capire una cosa: io di italiani non ne ho incontrati mai, e allora non posso sapere i nomi degli altri; praticamente con gli altri non ho mai avuto un rapporto vero e proprio. Ho avuto un rapporto con questi tecnici belgi che sono stati con me al Bombe commando di Berlino, però rapporti con… uno si chiama Charles, un altro si chiamava… mi sembra che fosse Jan o un nome simile. Altre persone non posso dire perché non ho mai incontrato un italiano. L’unico italiano che ho incontrato è un civile che non ha niente a che fare con la deportazione.

D: Un civile che hai trovato nel campo?

R: No, l’ho trovato nella galleria di San Valentin che lavorava. Il motivo è semplicissimo. Nel campo l’unica parola che campeggiava sempre era la parola ‘fame’. Io avevo trovato… anzi avevo trovato il mio vicino di castello, perché si dormiva in due sopra lo stesso… erano i castelli da tre piani ed eravamo in sei persone, cioè due due due. Al mattino mi sono svegliato ed era defunto. Aveva un maglione addosso, gliel’ho tolto, e ovviamente me lo sono messo. Nel contempo ho preso anche la sua razione di pane che davano al mattino, non dichiarandolo morto, perché la fame, come dico, era la prima cosa. Nella galleria di San Valentin, questo italiano mi vede questo maglione addosso e mi dice: “se mi dai quel maglione, io te lo vendo [compro, ndr] e ti dò tre filoni di pane.” Puoi capire! Accetto al volo. “Però mi devi dare il maglione adesso perché io devo portarlo fuori e poi ti porto il pane.” Devo ancora vederlo adesso.

D: Ascolta, in queste gallerie che cosa facevano?

R: Noi trasportavamo dei carrelli di pietrisco, di materiale, e basta. Io non ho mai scavato, ho sempre e solo spinto questi carrelli di materiale. Stop.

D: Ma stavano allestendo delle fabbriche?

R: Domanda alla quale non posso rispondere perché non ero all’altezza di capire quello che facevano, assolutamente.

D: Ma San Valentin, ha dormito a San Valentin?

R: Tutte le mattine si prendevano e si andava in cava, alla sera si ritornava su dalla cava. A Mauthausen. Al mattino si scendeva e alla sera si saliva.

D: Ti portavano giù con il camion?

R: No, no con le gambe, a piedi. Dalla cava a Mauthausen. Io dico San Valentin ma era sotto, la cava delle SS. Ci portavano giù a lavorare poi ritornavamo su alla sera.

PAUSA

R: Non è un trasporto il mio, noi siamo stati trasferiti da Genova. Praticamente il nostro non è stato un trasporto, noi eravamo cinque persone. Cinque persone, non apposta per noi, voi forse non avete presente i vecchi scompartimenti che c’erano nel periodo allora. [In] uno scompartimento c’erano quelle famose serrande di legno che bloccavano tutto: noi siamo partiti in quello scompartimento da soli, noi soli, noi cinque soli.

D: E chi vi faceva la guardia?

R: Di fuori c’era una guardia sulla porta.

D: Italiano?

R: Certo italiano, ovvio, fino alla frontiera. Alla frontiera ci hanno… non so cosa fosse, quando siamo arrivati erano tedeschi e ci hanno fatto scendere.

D: Ma tutto il resto del convoglio erano civili?

R: Il convoglio… il treno era un treno civile, normale, è quello. Eh, sì.

D: E perché Mario Miroglio?

R: Mi suonava un nome che avevo sentito da qualche parte, ma ovviamente della deportazione si possono trovare dei nomi, poi e…

D: Quindi tu non sei partito con un transport?

R: No, assolutamente no, era un trasporto particolare quello.

D: Per voi e basta?

R: Per noi e basta.

D: E non avete scambiato delle parole, voi all’interno di questo.

R: Ma a distanza di 56 anni io quando dico, sinceramente, se anche avessimo scambiato delle parole proprio non le ricordo in assoluto. Anche se avessi avuto una conversazione, la conversazione sarebbe stata dove andiamo, dove ci mandano o cosa, non saprei altro. Non sarebbe esistita una conversazione in questo campo.

Pierini Pietro

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Pierini Pietro. Sono nato il 6/5/1928 a Pietrasanta, provincia di Lucca. In quel periodo, dalle nostre parti, era fermo il fronte tedesco e americano. Di là dall’Arno di Pisa c’erano gli americani, di qua dall’Arno c’erano i tedeschi. Nella vallata della Versilia – Versilia, Ca’ Majore, Pietrasanta, Forte dei Marmi, le zone della vallata della Versilia – c’era il forte di tutta la truppa tedesca. I tedeschi fecero sfollare Pietrasanta perché doveva passare il fronte, e fecero mandare tutte le popolazioni verso la montagna. Su, nelle colline, nelle alte colline, c’era il paese di Sant’Anna, di Val di Castello, di Mauthau… di Monteggiori, e mio padre, che aveva cinque figli, era un uomo povero, non aveva soldi d’andare a rifinire dentro un caseggiato, ci portò in una baracca nell’uliveto della Versilia. La zona si chiama La Rocca.

Il 12 di agosto, all’improvviso, arrivò la famosa… sterminio di Sant’Anna: arrivarono i tedeschi all’improvviso, e casolare per casolare, distrussero tutto Sant’Anna. Nel ritornare indietro da questo eccidio passarono dalla parte dell’uliveto dove noi eravamo nascosti. Mio padre, mio nonno e altre persone erano nascosti in punti dove non potevano essere trovati dai tedeschi; noi che eravamo dei bambini, perché io avevo 16 anni, mio fratello appena 17 e qualche mese – che ci corrono 16 mesi da me a lui – entrarono in questa baracca, e ci videro, e ci presero dalle braccia di mia madre, e ci portarono, non dico il carcere di Pietrasanta, ma nel salone al carcere di Pietrasanta. Assieme a noialtri portarono anche dei partigiani che avevano preso durante il rastrellamento; che questi poveri ragazzi venivano torturati per sapere, perché da noi nella nostra zona c’era una zona chiamata ‘Casa Bianca’, che è tutt’ora nella vallata di Strettoia, Vallecchia, e Capriglia, c’è una zona chiamata Casa Bianca. Pare che a quell’epoca la storia della Casa Bianca, che fosse un nome convenzionato dei partigiani dove fosse il comando, il rifugio. Allora i tedeschi chiedevano di dove sei, dove abiti; se disgraziatamente una persona diceva “vengo dalla Casa Bianca” o “abito alla Casa Bianca”, quello era un uomo morto perché volevano sapere e veniva torturato.

A Pietrasanta, in questo casermone, questo stanzone, radunarono parecchi rastrellati di queste zone, di Sant’Anna e tutte queste zone. A un certo punto, fatta la colonna di un circa due o trecento persone, ci incollarono da Pietrasanta a Lucca a piedi…

D: Scusa Pietro c’erano anche delle donne?

R: No, donne non ce n’era, erano tutti uomini. Arrivati a un certo punto, vennero i tedeschi e ci incolonnarono, era di mattino, e ci portarono verso Lucca. Strada facendo, io dico nella zona del camposanto di Pietrasanta, vidi mia mamma e i miei due fratelli, con una scatola di scarpe, non riesco a parlare… con una scatola di scarpe che era piena di patate e polenta fritta, che ce la allungò, e io e mio fratello quel giorno mangiammo. Facemmo 32 chilometri a piedi. Ci fermammo al castello di Monsummano, dove anche lì c’erano altri partigiani presi nel rastrellamento che fecero durante i rastrellamenti che facevano in quel periodo nelle zone di Pietrasanta, Ca’ Majore. Da lì poi ci presero e ci portarono alla Casa Pia di Lucca.

D: Ecco, ti ricordi quando era questo?

R: Sì, mi ricordo il periodo, i giorni: io penso che fosse stato dal 12, dunque dopo siamo stati verso il 13, 14 di agosto; sì, dopo quattro giorni dal rastrellamento.

D: Del ’44?

R: Del ’44, del ’44. A Lucca ci fu una selezione di tutte queste persone: i vecchi che avevano preso li scartavano, i ragazzi li avrebbero scartati, ma siccome io, essendo già un ragazzo abbastanza ben messo, purtroppo non sapevamo di andare a finire in Germania, ci dicevano che ci avrebbero portato a fare le trincee lungo Pisa, nelle retrovie di Pisa. Invece un bel giorno, non so, verso il 24, 25 – che ci abbiamo passato un po’ di giorni tra Monsummano, tra il castello e tra la Casa Pia – ci presero, ci caricarono sopra dei mezzi, dei camion, e ci portarono a Bologna. Partimmo di notte. Però non sapevamo dove andavamo.

Arrivammo a Bologna e arrivammo qui alle Casermette Rosse di Bologna. Alle Casermette Rosse di Bologna io credo che ci sarò arrivato verso il 24, così, ma ancora non sapevamo di essere andati in Germania; infatti, io dico sono stato portato in Germania il 26, ma io sono stato preso ben molti giorni prima della deportazione. Qui alle Casermette Rosse di Bologna fecero una selezione: numero 1 per la Germania, numero 2 lavoravano in Italia, numero 3 erano quelli senza un occhio, senza un braccio, presi durante altri rastrellamenti. Fui preso e trasportato… ossia, mi dissero che mi avrebbero portato in Germania, deportato per la Germania. E da quel momento, non potendo dare comunicazioni ai miei genitori, incominciai a scrivere nei muri, qui delle Casermette Rosse, “Pierini Pietro e Pierini Franco deportati in Germania”. Che poi dirò il perché di questo scritto. Da Pietrasanta…

D: Qui a Bologna, le Casermette Rosse dove si trovano? Cosa sono, in periferia?

R: Sì, sono qui in periferia, qui verso la parte di San Donato, nella zona qui della Bologna bassa, adesso io come bolognese… come toscano non gli so spiegare le zone buone di Bologna, ma…

D: Pietro, perché si chiamano Casermette Rosse?

R: Perché dicono che erano le caserme dei soldati, erano di mattone chiamate Caserme Rosse.

D: E quando tu sei stato portato lì alla carcerazione, chi c’era a fare le guardie, italiani o germanici?

R: No, eran tutti tedeschi. Tutti tedeschi. C’erano medici tedeschi che facevano la visita a coloro che venivano, e infatti ci facevano andare a petto nudo, e sopra il petto scrivevano: numero 1 Germania, numero 2 lavorare in Italia, numero 3 erano quelli che venivano scartati. Dopo due o tre giorni che eravamo lì in attesa di dove ci avrebbero mandati, mi… arrivò un ordine di caricarci sopra dei pullman e ci portarono al campo di concentramento di Fossoli. Io a Fossoli, assieme a mio fratello, siamo stati a Fossoli due o tre giorni, adesso non ricordo preciso se sono stati due giorni o due notti, non mi ricordo con esattezza, ma non più di tre giorni. Da lì a un certo punto arrivò un ufficiale che caricò dei pullman, e ci portarono verso le parti di Peschiera… di Verona! Preciso, di Verona.

D: Ecco, scusa Pietro, scusa se ti faccio queste domande ma è importante. Nel trasferimento dalle Casermette Rosse a Fossoli, c’erano solamente germanici, o come quando ti hanno arrestato…

R: No, solo tedeschi.

D: Solo tedeschi?

R: Solo tedeschi.  

D: Non come quando ti hanno arrestato, che oltre ai tedeschi c’erano anche…

R: C’erano anche le MM. No, io…

D: Cioè, degli italiani erano…

R: Italiani. Gli italiani li ho visti solamente nel rastrellamento, a Lucca e basta. Ma a Bologna, a Fossoli, e tutto il tragitto, eravamo con la SS.

Dunque, posso proseguire. Allora, portati a Fossoli arrivò un ordine, ci caricarono sopra dei pullman, e per sfortuna mio fratello rimase a Fossoli. A me mi presero e mi portarono a Verona. Verona in un salone. In questo salone dopo otto giorni arrivò mio fratello. Sentii della confusione e ritrovai mio fratello, mi ricongiunsi con mio fratello. Da quel momento sapemmo che noi si doveva essere portati in Germania, ed era più o meno il 26 di agosto. Da quel giorno io ho detto: il 26 di agosto sono stato deportato in Germania, perché prima parlavano di lavorare in Italia.

D: A Verona dicevi in un salone. Ma dove, in una caserma?

R: In una caserma. In una caserma. Che anzi, io dico ‘il carcere di Peschiera’ ma non credo che fosse il carcere di Peschiera, perché ho notato che il carcere di Peschiera è un po’ più lontano da Verona, ecco, ma più o meno, come si dice… tutto il concentramento era a Verona. Poi a sua volta un giorno, una mattina, ci riunirono tutti in un piazzale, e cominciarono a fare l’appello, a chiamare a nomi per rifare un’altra volta la colonna, per portare la deportazione in Germania. Certamente, io essendo arrivato un po’ prima fui chiamato Pierini Pietro, ma d’accordo con mio fratello dissi “ci hanno diviso a Fossoli, non vogliamo più essere divisi, perciò come ci chiamano Pierini Pietro, Pierini mi chiamo io, Pierini ti chiami te, facciamo i finti tonti e andiamo assieme.” E andammo assieme sul carro bestiame. Sul carro bestiame, eravamo circa una quarantina dentro il carro bestiame.

D: Ma alla stazione di Verona?

R: Di Verona. Da Verona a sua volta ci portarono a Innsbruck. A Innsbruck ci rifermarono, ci riportarono dentro un’altra volta dei saloni, non so che saloni erano, se erano caserme o che non glielo so dire, e di lì ricominciarono a richiedere chi era meccanico, chi era… Ah no, torno indietro, scusate mi sono confuso. Ci portarono… da Verona ci portarono a Bolzano. A Bolzano ci portarono in una caserma, un campo, non lo so, perché siamo stati un giorno e una notte. A mio fratello gli chiesero… Siccome sui documenti che ci presero, che avevamo in tasca, mio fratello era allievo fochista delle ferrovie, e gli fecero la proposta di fare il ferroviere insieme ai tedeschi. Allora lui gli disse: “Io accetto di fare il ferroviere pensando di andare in Germania, ma se fate stare con me anche mio fratello.” Loro gli dissero: “Il ferroviere sei tu non tuo fratello, in Germania ci va tuo fratello e tu stai in Italia.” Allora mio fratello disse: “No, io seguo mio fratello, e vado in Germania con mio fratello Pietro”.

Arrivati a Innsbruck. A Innsbruck purtroppo si riebbe un’altra volta la divisione fra fratelli, perché a me, sul mio foglio, sulla mia carta d’identità, c’era scritto apprendista meccanico, mio fratello c’era scritto allievo fochista. Lui era messo da una parte, perché lì facevano dei gruppi: dodici imbianchini, dodici contadini, facevano gruppi a seconda dove loro avevano bisogno di portare a lavorare. Però ci portarono di nuovo e rifecero, riformarono un’altra volta la tradotta. Mentre che eravamo alla stazione di Innsbruck rincontrai mio fratello, per puro caso, e ritornammo sopra il carro bestiame assieme, solamente che invece di essere quaranta praticamente eravamo in quarantuno, perché loro quando è… insomma, eravamo con una persona in più. Da Innsbruck a Berlino noi siamo stati sempre rinchiusi in questa tradotta, e lì è stato l’inferno che io ho potuto passare nel tragitto tra Innsbruck e Berlino. Ho subito un bombardamento nelle retrovie di… no, lo spezzonamento nelle retrovie di Monaco, poi il treno… la tradotta proseguì la corsa; a Norimberga ci riportarono su uno scartamento ridotto, sempre rinchiusi dentro: fame, sete, ogni tanto ci passavano con dei bicchierini di cartoncino della sbobba, una specie di riso bianco, non so cos’era, e ogni tanto qualche goccia d’acqua ci davano, ma comunque eravamo come bestie. E da lì risubimmo un’altra volta un altro bombardamento. Ma a Monaco spezzonavano e non cadevano gli apparecchi, ma a Innsbruck cadevano anche gli apparecchi, perché il cielo sembrava come gli storni di aeroplani, e cadevano bombe a tutto spiano.

D: Dopo Monaco questo?

R: A Norimberga, a Norimberga. Finito il bombardamento riparte la tradotta e arrivammo notte tempo a Berlino. Non so come si chiama la zona di Berlino perché Berlino ha molte zone, non so, ma comunque era un grandissimo campo anche a Berlino. E noi dicevamo sempre che arrivavano i compratori di bestie, perché venivano queste persone che avevano bisogno di 10, 20, 30, manodopera, braccia da lavorare, e compravano a noialtri, perché noi ci eravamo bestie, perché ci trattavano come bestie, dentro i vagoni, come le bestie. A sua volta, da Berlino, si venne a sapere che ci avrebbero portato, ossia ci fecero un gran numero di deportati, però non sapevamo noi dove dovevamo… la nostra destinazione. Però le voci, si svociferava “ci portano in un campo triste, in un brutto campo, che dice che di là dentro non si ritorna fuori, non si ritorna vivi”. Queste erano le chiacchiere che svociferavano nel momento della preparazione della traduzione. Arrivammo a Nordhausen, arrivammo…

D: Ecco, scusa, il campo di Berlino non te lo ricordi?

R: No, non mi ricordo il campo di Berlino.

D: Ti hanno immatricolato lì?

R: No.

D: Ah, niente?

R: A Nordhausen. Arrivati a Nordhausen ci buttarono dentro una caserma, non so se era una caserma, perché era roba in muratura. Da Nordhausen ci dettero una tuta, una tuta blu, in più ci dettero un numero, questo numero il mio era venticinquemila duecento sessantacinque [25.265]. Assieme a mio fratello ci portarono in una vallata – io sono venuto a sapere che adesso si chiama la Vallata della Dora, ma a quell’epoca, ragazzo com’ero o che, io non pensavo a questa Vallata Dora – e ci portarono in una baracca. Se dovessi dire il numero della baracca non la ricordo. Ricordo solo che alla mattina alle 5 arrivavano i tedeschi e cominciavano a dire “Italiener, raus für Arbeit”, e a piedi si percorreva una strada innevata, perché c’era già la neve; dovevamo passare due posti di blocco, che erano due cancelli, e fra questi cancelli c’erano i tedeschi con dei… non so se era chiamata la gendarmeria, avevano come dei medaglioni di traverso, e si arrivava all’imbocco della V2, della galleria, all’imbocco della galleria. Spiego l’imbocco della galleria.

L’imbocco della galleria era, come si vede nelle gallerie dei treni, c’erano due panzer all’ingresso della galleria, due tedeschi, come ripeto, con questi medaglioni, e noi passavamo tutta la colonna perché nella colonna dove eravamo noialtri di questa tradotta che durante il… veniva insomma caricata… la colonna dei deportati veniva aumentata da altre baracche, c’erano anche delle donne, polacche, che poi queste polacche dove andavano a finire non lo so. Comunque, si percorreva la galleria della famosa V2, il tunnel, e noi italiani andavamo oltre il ventesimo reparto. Io ero addetto a una fresa, a fresare un blocco di… non so se era un motore della V2 o di che cosa era. Questo blocco, io facevo con la fresa due piani, fresavo due piani di questo blocco, però il capò, il comandante, che ci dava questi ordini, mi spiegava come dovevo lavorare la fresa, ma io non capivo la lingua, non sapevo come adoperarla: tutte le volte che il mio blocco che andava al collaudo era sbagliato, perché ci mancava un millesimo da sbassare, e quando lui ritornava gomitate, gomitate, e io piangevo e non capivo, e lui mi diceva che io dovevo… ma non capivo niente. Finché ci fu una brava persona, una donna che teneva dietro alle donne polacche – perché c’erano alcune donne polacche che loro pulivano la fresa, pulivano il reparto, levavano i trucioli – mi disse che gli assomigliavo ad un suo fratello “tal egal mein Bruder” [così riporta il testimone, ndr], un affare del genere. Poi mi disse in parola tedesca “leise”, insomma “piano”, che mi fece capire che la fresa io la dovevo girare una manopola in più, che allora si alzava il piano, la fresa si abbassava e avrei corretto quello sbaglio che io facevo. Era una cosa semplice, che se questo capò me lo spiegava con delicatezza io può darsi che lo capivo e non prendevo botte. Questo capò lo chiamavamo ‘scimpanzé’, perché sembrava una scimmia, tutto peloso. Infatti mio fratello doveva prendere questo blocco come io prendevo, che lo fresavo orizzontale, mio fratello lo doveva fresare verticalmente. Se non lo bloccava bene veniva sbagliato. Infatti, a volte non lo bloccava bene, al collaudo era sbagliato, lui tornava là e lo menava, lo picchiava. E infatti a suon di calci e pugni gli fece andare quasi in cancrena una gamba, che poi gli americani, dopo, con le cure, gliela guarirono.

Io ci ho passato in questa galleria 12 ore di lavoro di notte, 12 ore di lavoro di giorno, una settimana di notte e una settimana di giorno. Una zuppa di carote e rape quando si lavorava, e una zuppa di carote e rape o quel che poteva essere quando si rientrava. Si dormiva in castelli di legno, io assieme a mio fratello, lui da piedi io da capo, quando eravamo in tanti. Quando eravamo in pochi…

D: Ma fuori dalla galleria dormivate, no?

R: Fuori dalla galleria.

D: Nel campo?

R: Nel campo fuori dalla galleria. Non ricordo la zona. Io ricordo la vallata della Dora, perché era una grandissima montagna fatta a ferro di cavallo, dalla parte diciamo sinistra c’erano tutte le baracche, mentre nel giro della collina sulla parte destra c’era l’imbocco della V2, della fabbrica.

D: Ecco, ma c’erano dei deportati che dormivano dentro nella galleria?

R: Ecco, noi sapevamo che oltre il ventesimo reparto c’erano deportati militari o tedeschi, o… che dormivano là dentro e che noi si diceva che erano… c’erano tedeschi giurati perché lì c’era l’assemblaggio del V2. Nei due ingressi della galleria, perché la galleria era formata da due ingressi con binari, entravano i vagoni del treno, uscivano anche i vagoni del treno coperti, e all’interno del vagone del treno sapevamo che dentro c’era – si svociferava perché non si poteva andare a scuriosare perché se no erano botte – dice che c’erano le famose V2 che uscivano. Subimmo – il secondo giorno di Pasqua in quel periodo – subimmo un bombardamento, che venne il lunedì di Pasqua. Questo bombardamento… Venne un bombardamento la sera alle 6, e ruppe i reticolati dove noi eravamo, e riuscimmo a scappare. Però mio fratello non era con me, era ancora… perché ci divisero, dal giorno che fu picchiato lo divisero, ci divisero, lui faceva la notte io facevo il giorno, ma eravamo quasi all’ultimo. Alla mattina alle 9 io ritrovai mio fratello, perché sfollai su per la collina, e ritrovai mio fratello nella confusione dello sbandamento. Poi cosa successe? Che quando mio fratello ci siamo ritrovati, alla mattina alle 6 ritornò un secondo bombardamento. Il secondo bombardamento che tornò la mattina fu più pesante di quello della sera alle 6. Incominciarono a venire gli apparecchi dalla parte, posso dire, opposta dalla collina, che andavano verso Berlino, per dire adesso la posizione, mettiamo da sud a nord. Noi spaventati già dalla sera cercavamo di scappare, vedevamo gli apparecchi lì, cercavamo di scappare. Invece ci fu – anzi questo particolare lo dico perché l’ho sempre tenuto in mente – un militare che ci chiamò e disse: “No, andiamogli incontro agli apparecchi, che andandogli incontro agli apparecchi può darsi che nel cadere le bombe noi ci possiamo salvare”. E infatti fu così, che mentre si sentiva il fischio delle bombe che cadevano, questo militare ci dava – lui era più pratico per l’aver fatto il militare – ci dava praticamente gli ordini, di fare come si poteva fare: “buttatevi a terra, perché se state in piedi lo spostamento d’aria vi può sfondare lo stomaco”. E infatti arrivò il primo fischio delle bombe che cadevano. Arrivò il primo fischio delle bombe che cadevano. Quando cadevano queste bombe lui: “buttatevi a terra, buttatevi a terra”; noi ci buttammo a terra, poi dopo ci buttammo dentro un buco di bomba, esplosa pochi attimi prima. Dopo, dentro questo buco di bomba, passammo tutto il periodo… perché finito il bombardamento c’era il mitragliamento degli apparecchi, perché c’era uno sbandamento, persone che andavano a destra, persone che andavano a sinistra.

Dopo il bombardamento c’era i tedeschi che sparavano a chi scappava. Allora ci disse questo soldato: “stiamo fermi, aspettiamo che si calmi, facciamo imbrunire, venire verso sera, facendo finta di esser morti, e poi cerchiamo di scappare”. E così facemmo. Cercammo di scappare e andammo a rifinire su per delle colline, e giravamo per queste colline, il giorno si stava rinchiusi in un fiume e la sera si girava verso l’Italia. A un certo punto avevamo fame, dalla fame cosa si fece? Si raccolse della roba che trovavamo, rape, barbabietole, qualche cosa: il fumo fece scoprire dove eravamo. Arrivarono dei ragazzi vestiti, li chiamavano ragazzi della Todt, vestiti con vestiti della Todt, e ci presero e ci portarono dal borgomastro del paesino. Borgomastro del paesino – ormai la guerra stava per finire – ci disse: “noialtri non vi possiamo dare manforte o aiuto, queste sono delle patate lesse, lì c’è la ferrovia, andate via perché se sanno la SS che noi vi abbiamo dato un aiuto fanno lo sterminio anche su di noi”. Infatti salimmo sopra un carro bestiame, un carro di carbone. Questo carro di carbone, questo treno di carbone, arrivò ad Halle. Ad Halle ci fu un bombardamento. La tradotta, il treno si fermò e ci ripresero di nuovo, ma però ci prese la Wermacht. Non ci prese la SS, ci prese la Wermacht che ci portò dentro un altro campo di concentramento, ma non era più un campo di concentramento come quello dove io… era un campo di concentramento dove si lavorava… dove lavoravano otto ore, era una raffineria di benzina, dove lavoravano otto ore, dove davano da mangiare due volte al giorno. Infatti noi quando arrivammo, che eravamo pieni di pidocchi, e avevamo la scabbia frammezzo alle dita, mal vestiti come eravamo, con qualche straccio levato ai morti, quando ci fu il bombardamento: perché noi buttammo via ciò che avevamo addosso, perché prima di tutto era tutto sporco, pieno di morca, poi pidocchi che ne avevamo a volontà, e prendevamo i vestiti che trovavamo ai morti.  Arrivati a questo campo ci fecero la disinfezione e poi ci dettero la possibilità di andare a un’infermeria a curarci i nostri guai.

Una sera, verso le sette, venne un allarme. I tedeschi ancora lavoravano, e noi si diceva: “ma come fanno ancora a lavorare, che sentiamo i carri armati che sono qui a pochi chilometri e ancora lavorano”. Alla sera andammo a rifinire dentro un bungalow insieme ai tedeschi, alla mattina alle cinque arrivò la liberazione degli americani, e ci liberarono gli americani. E io credo che fosse stato dopo Pasqua, non ricordo però, è sempre in aprile, ma i giorni non me li ricordo.

La grande confusione dello sbandamento, l’arrivo degli americani, c’era… Io, non era il mio campo, non avevo odio con nessuno di lì perché non erano i tedeschi che mi avevano tenuto prigioniero nella zona della Dora, ma quelle persone che stavano lì da mesi, c’erano anche i militari, si buttarono a cercare i loro comandanti per cercare di menarli, di picchiarli. Invece io e mio fratello andammo a rifinire in un magazzino dove c’era ogni ben di Dio, e io riuscii a raspare e prendermi una bracciata di salami, che dalla voglia di mangiare ne mangiai uno, che mi bloccò l’intestino che poi gli americani – mi vennero dei dolori atroci di stomaco, di pancia – mi fecero una specie di lavaggio, mi svuotarono, e riuscii a liberarmi. Lì sono stato… siamo stati in una baracca per venticinque italiani, fra cui una ragazza, Despina, una certa Despina, greca, che era sposata a un toscano, un alpino, e questa ragazza – tutt’ora vive in Toscana – questa ragazza aveva perso, nel campo di Buchenwald, aveva perso il babbo e la mamma, ed era orfana. Allora questo soldato poveretto l’ha… ne ebbe compassione e la sposò per procura. Lì passammo parecchi mesi. Passò maggio, aprile, marzo, maggio, giugno, però arrivò che gli americani non ci rimpatriavano, poi gli americani ci lasciarono, se ne andarono perché fu divisa la Germania, e vennero i russi. Con i russi, a sua volta, decidemmo di ripartire, perché coi russi non è che ci dassero da mangiare come ci davano gli americani. Il capo baracca decise di poter rientrare.

Scappammo, da soli, insomma, sempre con questi mezzi, col treno, e arrivammo a Zuf, un paesino chiamato Zuf, che era al confino fra russi e americani. Solo che i russi non ci facevano passare, e si stette lì altri due o tre giorni in attesa di poter passare il confino. Finché un bel giorno ci fu un’anima buona, ci fece passare e rimanemmo tra il tratto neutro tra i russi e gli americani. Lì c’era seminato il segale, non è un grano ma ha la spiga come il grano. La fame, noi mangiavamo il segale strogolato così perché era nel periodo di giugno, finché uno dei più anziani del nostro gruppo si avvicinò ai confini degli americani e lì c’era un paisà, un americano che disse: “io non vi posso far passare dal posto di blocco ma passate dalle retrovie, che io farò finta di sparare per aria ma voialtri continuate”. Infatti noi riuscimmo a passare, oltrepassammo il confino degli americani e andammo nella zona degli americani. Ci presero di nuovo gli americani, la Croce Rossa, ci dettero da mangiare, una carta annonaria che aveva valore di 24 ore, poi ci avevano detto: “lì c’è una tradotta pronta, prendete la tradotta e uscite da Zuf”. Noi prendemmo questa tradotta e arrivammo a Norimberga.

Arrivati a Norimberga la tradotta si fermò, solamente che c’era una truppa negra, i negri, gli americani neri, e c’era la storia della quarantena. Noi la quarantena non la volevamo fare, e allora si diceva: “ragazzi, qui se ci fanno fare altri quaranta giorni quando ritorniamo a casa?” E cercammo di andare per conto nostro. Trovammo un treno che andava verso l’Italia, salimmo su questo treno, ma per disgrazia ci riportò di nuovo a Zuf. Ritornammo indietro, con fame, un’altra volta con la fame, sete, trovavamo quel che trovavamo da poter mangiare. A sua volta decidemmo, si disse “beh, a questo punto qui è meglio decidere, faremo la quarantena ma ritorniamo dove vogliono”, e ritornammo a Norimberga. A Norimberga, convinti che ci riprendessero, che ci portassero a fare la quarantena, invece arrivammo ad Innsbruck. Arrivati ad Innsbruck ci fecero una disinfezione, fecero la disinfezione con ddt sotto le ascelle, fra le gambe. Poi ci inquadrarono, ci ricaricarono sopra una tradotta, e riuscimmo a passare il Brennero.

Passati il Brennero ci prese in consegna la Croce Rossa. Dal Brennero arrivammo – strada facendo – arrivammo a Bologna, ma non più coi vagoni chiusi, ma bensì coi vagoni aperti, con le gambe di fuori a sedere, e arrivammo a Bologna. Da Bologna proseguì il treno per Ancona, noi toscani proseguimmo per Pietrasanta. Proseguendo per Pietrasanta passammo da Porretta, perché la direttissima era stata buttata giù, non c’era più la galleria, non c’era la possibilità Bologna-Firenze da passare. Arrivammo a Pisa, con il treno. Da Pisa a La Spezia tutta la ferrovia fu saltata da pezzi, pezzetti, da… ogni quattro metri facevano saltare. Si venne a sapere che a Pietrasanta c’era stato fermo sette mesi il fronte, e si disse “va a finire che se siamo noialtri salvi e troviamo a Pietrasanta come abbiamo lasciato, tutti morti”.

Arrivammo a Pietrasanta, arrivammo in un posto chiamato Ponte della Madonnina, e c’era un casolare che era chiamato il Carraio, che era un signore che faceva i carri. Arrivammo, eravamo in sette pietrasantini – io, mio fratello, la Despina e altri pietrasantini – arrivammo in questo casolare, gli si dice: “guardi siamo dei deportati, siamo i figlioli del Pierini, chissà se…”; e ci fu una ragazza, dice: “guarda il tuo nonno è passato stamattina col carretto, e lui è vivo, e tutti vivi, i tuoi genitori sono tutti vivi”. Ma siccome noi a Bologna, qui, si vide un esempio che fu brutto, perché una mamma con la fotografia girava vagone per vagone per vedere se avevano trovato o se avevano visto il fratello, vi incontrò il figlio, e l’impatto con il figlio si venne a sapere che a lei gli venne male. Allora con quell’esempio lì, noi si disse a questa gente: “volete andare sotto casa ad avvertire i nostri genitori, a dirgli insomma ‘ci sembra di aver visto… mi sembra di aver visto, andate a vedere’…”. Infatti mio padre non c’era, c’era mia madre. Mandò i miei fratelli, Davide e Bruno, a vedere se effettivamente c’erano Pietro e Franco. Infatti io vidi scendere da questa salita della Madonnina Davide e Bruno, che… anche loro un po’ sbandati, perché eravamo vestiti male, magri, con dei vestiti con delle stoffe tedesche, una giacchetta tedesca, un paio di pantaloni tedeschi. Allora questi ragazzi, che fra i sei, quattro, sette prigionieri che eravamo lì, guardavano: “O Davide”, “o Bruno”, “son Franco”, “son Pietro”. E ci siamo rincontrati coi fratelli: “come sta la mamma?”, “la mamma è nella contratoia”, la contratoia sarebbe una traversa di strada. Andammo coi miei fratelli, e lei si può immaginare, dopo un anno non aver visto la mamma, a rivedere questa faccia di questa povera donna… non riesco a parlare.

D: Pietro, che mese era?

R: D’agosto.

D: Del ’45?

R: Del ‘45. E rividi l’immagine di mia mamma che ci venne incontro a braccia aperte: “Sono ritornati i miei figli, son tornati i miei figli. Il babbo è in piazza, adesso lo andiamo a chiamare”. Ci riunimmo in casa, e fra me e mio fratello ci abbracciammo. Siccome c’era un detto in Germania, dai vecchi, che dicevano “cerchiamo di arrivare a stasera, cerchiamo di arrivare a domani mattina, cerchiamo di portare il telaio a casa”, e io mi abbracciai con mio fratello Franco, e gli dissi: “O Franco, abbiamo riportato il telaio a casa, cerchiamo di riempirlo”. E abbracciai mia madre. Dopo venne mio padre, e assieme papà disse: “Finalmente sono arrivati i miei figli”. Però io chiesi a mia mamma, e mia mamma disse: “Abbiamo saputo che siete andati a rifinire in Germania da quando sono cominciati a rientrare alcuni prigionieri, perché vi hanno letto, che noi chiedevamo ‘avete visto i miei figli? Dice, ‘io non ho visto i vostri figli, però ho visto scritto sia a Bologna, nei muri di Bologna, Pierini Pietro e Pierini Franco deportati in Germania, l’ho visto scritto a Bologna e l’ho visto scritto a Verona’…” – o questo carcere, non so se era Verona o se era quello di Peschiera, io dico sempre Peschiera ma era Verona, la zona di Verona. Da quel momento siamo stati riuniti con la famiglia e questa è un po’ la mia storia. Ci sarebbe tante cose da dire, se ho tempo da dirle, se mi fate asciugare un po’…

D: Scusa un attimo Pietro, quando sei arrivato a Nordhausen, che vi hanno immatricolato, vi hanno dato anche il triangolo?

R: Sì ci han dato il triangolino rosso, che tenevamo sopra la… come si dice… tuta.

D: I campi che tu hai fatto in Italia sono stati: Fossoli…

R: Fossoli.

D: e Bolzano.

R: Bolzano.

D: Poi invece dall’altra parte, in Germania cosa hai fatto?

R: Berlino, da Berlino a Nordhausen, da Nordhausen in una baracca nella vallata dicono della Dora, non so se era quella della Dora o… perché lì c’erano tante baracche, non lo so. Comunque so che ero sotto Buchenwald.

D: E dopo hai fatto un altro campo?

R: Dopo il bombardamento sono andato a rifinire in un altro campo ad Halle, però non lo so come si chiama, non so se è quello che si dice che si chiama ‘Scopau’ [dizione corretta: Schkopau, ndr] o si chiama non lo so. C’era una raffineria di benzina. Io, vorrei saperlo anch’io cos’è questo campo, perché io ho fatto le ricerche, ossia anche mio padre. E io ho un documento a casa, che adesso oggi non l’ho portato convinto che andasse bene questo, della ricerca dei miei genitori, che c’è scritto che Pierini Pietro è stato a Scopau. Ma questo Scopau io non lo so cos’è, se è ad Halle, se è a Nordhausen, o se è dopo il bombardamento, i campi che noi abbiamo trovato dopo il bombardamento.

D: Pietro, scusa, ti ricordi… già hai detto che le donne le hai trovate durante la deportazione.

R: Sì, sì. Polacche erano.

D: Durante la deportazione ti ricordi se c’erano tra i deportati anche dei religiosi?

R: C’era un prete. C’era un prete, che era di Trieste, però non è che lui facesse… so che c’era un professore. Era gente di Trieste, che noi eravamo in mezzo a parecchi polacchi. Nella baracca dove eravamo noialtri c’erano pochi italiani, ma quei pochi che c’erano c’era un professore, un religioso – se era poi prete – a Nordhausen, insomma nella zona di Nordhausen, sempre dalla parte dove lavoravamo, della galleria.

D: Pietro…

R: Dimmi.

D: Oltre alle violenze che tu hai subito, le botte dei capò e anche tuo fratello che dicevi della gamba eccetera, tu sei stato testimone di altre violenze all’interno dei lager?

R: Vedevo picchiare altre persone, ma c’era poco da muoversi perché tu non ti dovevi muovere dalla tua macchina, dovevi solamente stare lì a … e vedevi, ma non ti dovevi interessare di quel che facevano gli altri… che facevano agli altri.

D: E atti di solidarietà, te ne ricordi?

R: No, non mi ricordo, perché io pensavo solamente a poter mangiare, quel che potevo trovare e basta. Ero un ragazzo, non avevo la furbizia che poteva avere un militare, avere una persona anziana.

Io volevo dire più o meno come facevamo ad arrangiarsi in questo campo. Porto un esempio, non so, per i vestiti, perché nessuno ci aveva dato dei vestiti da poterci cambiare, avevamo dei pidocchi addosso…

D: Ma in quale campo?

R: Nel campo sempre quando lavoravo dentro il tunnel della V2. Siccome lì passavano dei pezzi di stoffa da pulir la macchina, da poter pulire le frese, noi prendevamo questi pezzi di stoffa, ce li mettevamo come pezze da piedi. Oppure prendevamo della stoffa, ne mettevamo un pezzo davanti, un pezzo di dietro, una cordella di traverso; per metterli assieme quando si rompeva una cinghia della macchina prendevamo i filini della cinghia, e con un ago rudimentale che avevano fatto i vecchi mettevamo assieme ‘sto corpetto. E assieme a questo corpetto noi lo chiamavamo lo ‘spidocchiatoio’ perché ci andavano a finire i pidocchi, perché pidocchi ne avevamo a volontà. Eravamo rapati a zero, perciò in testa non ne avevamo, ma ne avevamo parecchi addosso.

Come pure… come si dice… l’arrangiamento per poter mangiare non so, una patata o una carota che potevi trovare nella spazzatura, nell’immondizia che andavi a raspare, che trovavi anche con quelle persone quando tu rientravi nelle baracche che lavoravano all’esterno, se gli portavi un pezzetto di stoffa loro ti davano il pezzetto di patata; c’era lo scambio per avere ‘sto pezzetto di stoffa per mettere dentro gli scarponi, che erano scarponi di legno con sopra… non erano di cuoio ma erano di tela, che erano chiamati volgarmente gli ‘sgroi’, alla toscana, non so se voi conoscete… noi si diceva gli ‘sgroi’, che è un legno ricoperto sopra con della tela. Allora c’era questo piccolo scambio, e allora si vedeva chi aveva, lo vedevamo e lo facevamo, bucce di patate, pezzetti, dito di carota. I vecchi avevano fatto un lambicco di ferro, un bussolotto che mettevano un filo attaccato al recipiente e un filo nell’acqua, attaccavano dietro la macchina della fresa, bolliva l’acqua e bolliva dentro quel pezzetto di carota o quella rapa che ognuno riusciva a trovare. Questo era un po’ il sopravvivere, oltre alla sbroscia che ci davano in questa gamella. E quando distribuivano il pane – questo ci tengo a dirlo – quando ci distribuivano il pezzetto del pane che era fatto a cassetta, che era pieno con la muffa sopra, un pane grigio, scuro, di segale, ne davano mettiamo, non so, a seconda la giornata, a seconda anche quanto loro ne avevano per distribuire, ne davano un pezzo e dicevano “questo è per quattro, o per cinque, o per dieci persone”, allora venivano fatti i pezzettini precisi e poi facevamo girare una persona e si diceva “a chi lo diamo questo pezzetto? a tizio, un pezzetto a caio, quest’altro a caio”. Invece c’erano alcune baracche che avevano i vecchi, polacchi o ucraini – perché con noi c’erano anche gente ucraina – avevano fatto una specie di bilancino con due affarini, quattro fili e due piattini di legno che bilanciava, mettevano un peso specifico da una parte, dall’altra doveva essere pari, quella era la razione da dividere. E quello era il nostro, più o meno, modo di vivere.

Poi c’era alla sera quando, la sera o la mattina, quando si rientrava dal lavoro, che ci mettevamo a sedere sopra ‘sto benedetto letto, e cercavamo di toglierci questi animali da dosso, che eravamo pieni di pidocchi o semi di pidocchi, che stavano in mezzo alle cuciture. E questa era un po’ la vita del campo.

D: Pietro, tu non sei mai stato intervistato in questi 55 anni?

R: No, mai stato intervistato.

D: È la prima volta?

R: È la prima volta che mi hanno intervistato. Perché io poi, essendo militare non ne potevo nemmeno parlare, perché una volta mi sono azzardato – e questo lo voglio dire con orgoglio – mi sono azzardato che sono stato prigioniero in Germania, mi sono sentito dire “tu in Germania sei stato a rubare”, perché nessuno ci credeva che a 16 anni un ragazzo fosse stato prigioniero in Germania. Siccome io ho vissuto da 50 qui a Bologna, e qui i bolognesi son bolognesi, si conoscono tutti, io sono una pecora bianca a Bologna come deportato, io sono conosciuto più come deportato in Toscana, in Versilia. Poi per disgrazia è morto anche mio fratello, nell’83, perciò non posso neanche dire mio fratello…. Sì, poter far parlare anche mio fratello.

LA REGISTRAZIONE FINISCE QUI. SEGUE TRASCRIZIONE DELL’ULTIMA PARTE D’INTERVISTA NON RIPORTATA IN AUDIO.

D: E in famiglia non hai mai raccontato della tua deportazione?

R: Nella mia famiglia da ragazzo se ne parlava. Da ragazzo se ne parlava, ma si parlava del più o del meno così, non è come adesso che viene più richiesto, vengano più fatte le domande, perché a quell’epoca, quando siamo ritornati dalla prigionia, chi comandava lì era chi era rimasto a casa, chi era stato prigioniero… Io perché sono stato nell’arma dei carabinieri? Sono stato nell’arma dei carabinieri perché quando sono tornato a casa – lo devo dire con orgoglio – aver fatto la prigionia della Germania se ne son fregati tutti, tutti. E dovevo andare a lavorare o in Belgio o andare in Canada o andare altrove, e io per poter sbarcare il lunario imparai a suonare la musica nel paese di Pietrasanta. Feci domanda come arma dei carabinieri. Quando sono stato a Roma sono stato a cavallo, nella fanfara a cavallo; quando sono tornato a Bologna ho chiesto che ero stato nell’arma dei carabinieri, nessuno ci credeva, ossia che sono stato prigioniero in Germania, nessuno ci credeva. [Finché] feci la richiesta a mio padre se mi mandava questo documento che io ho… che c’è scritto che sono stato prigioniero. Infatti, il mio foglio matricolare fu riconosciuto che io avevo fatto la deportazione in Germania, che mi fu dato un anno di anzianità nell’arma dei carabinieri come deportato in Germania. Ma di Germania ne parlavamo poco. Io ho cominciato a parlare di Germania da quando ho cominciato a conoscere l’… di Bologna, perché qua c’è un po’ più libertà di parlare, mentre fuori molti ci credono e molti non ci credono.

D: Tu hai figli?

R: Ne ho tre di figli

D: Lo sanno?

R: Io ho scritto un diario per i miei figli, una bella mattina mi misi a letto e dissi su una cassetta: voglio scrivere un ricordo, voglio lasciare un ricordo ai miei figli. E c’ho tutta la mia tragedia della Germania dal giorno che mi hanno preso al giorno che sono rientrato, sono 21 pagine. E c’è tutta la mia storia. Adesso io questa storia che ho raccontato qui a voi l’ho raccontata in breve perché avete il tempo che ci date, ma se dovessi raccontare… poi, raccontandola così, sotto queste luci e compagnia bella ci si confonde anche un po’. Poi ci si commuove.

Il Dado ce l’ha un libro che c’è il mio racconto quando sono arrivato in Germania.

È intitolato ‘Il viaggio’. Ce l’ha il Dado, dal giorno che mi hanno preso al giorno che sono entrato nel campo. Han fatto solamente quel pezzo lì, poi quello che ho passato nel campo non c’è scritto, però io ce l’ho scritto a casa.