Marinari Giuseppe

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Sono Marinari Giuseppe, nato a Firenze, il 3/2/1921.

D: Quando ti hanno arrestato, Giuseppe?

R: Mi hanno arrestato l’8 marzo 1944.

D: Dove?

R: A Firenze, nel Rione di San Frediano.

D: Ecco, chi ti ha arrestato?

R: Erano militari… fascisti insomma, ecco.

D: E perché ti hanno arrestato?

R: C’era degli scioperi alla Tabacchi, ma noi non è che si fosse… Io ero lì, si era usciti di casa per andare dal parrucchiere, e ci presero, e ci arrestarono.

D: Ecco, ma ti hanno arrestato per strada?

R: Per strada, per strada, come un rastrellamento. Durante un rastrellamento.     

D: Cioè, voi uscivate dalla fabbrica?

R: No no no. Noi durante un rastrellamento. Durante un rastrellamento.  

D: Ed eri assieme ad altre persone?

R: No no. Io… dopo lì ci presero in questo rastrellamento, ci presero altri miei amici che erano lì, nella piazza, o per la strada eh.

D: Ecco, ma era durante il giorno, questo?

R: Sì sì, durante il giorno, la mattina.

D: Erano italiani quindi?

R: Italiani, quelli che ci arrestarono erano italiani. Italiani.

D: E poi, Giuseppe, dove ti hanno portato?

R: Alle Scuole Leopoldine. Alle Scuole Leopoldine

D: Cosa c’era alle Scuole Leopoldine?

R: Niente, era lì, ci portarono tutti lì, e cominciarono lì a beffeggiarci, a tirarci qualche scapaccione ma…

D: Hanno preso i tuoi dati?

R: No no no, non hanno preso niente. Non c’hanno preso niente.

D: E ti ricordi se eravate in tanti lì alle Scuole?

R: Tanti tanti tanti tanti. Eravamo… ora non mi rammento di preciso ma eravamo parecchi già, perché ci fu un rastrellamento in tutta Firenze, e nei comuni limitrofi.

D: Giuseppe, ma ti è stato detto perché sei stato arrestato?

R: No, niente, niente.

D: E tu cosa pensavi?

R: Beh, non si pensava niente perché non si sapeva nemmeno dove ci avrebbero portato perché altrimenti… si era dei ragazzacci eh, non si era mica della gente che si dormiva. Non so mica se si sarebbe arrivati a Mauthausen, magari… La speranza, si diceva: “e intanto ci porteranno a lavorare”. Nessuno sapeva indove, indove…

D: Ecco, e lì, alle Scuole Leopoldine, fino a quando siete rimasti?

R: La mattina e nel pomeriggio con dei camion ci portarono alla stazione di Santa Maria Novella.  

D: Ah, con dei camion!

R: Con dei camion della SS… dei fascisti, della Banda Carità, insomma, ecco… della Banda Carità, fascisti insomma.

D: E vi hanno portato…

R: Alla stazione Santa Maria Novella. Era lì vicinissimo, però coi camion, sopra a dei camion. E poi ci misero in dei vagoni merci.

D: Scusa Giuseppe, tu sei riuscito a comunicare con i tuoi familiari?

R: No no no no. C’era mio fratello lì nella piazza mentre mi portavano via, ma non si rendeva mica conto della situazione.

D: Quindi vi hanno messo sui Transport.

R: Sì, sui Transport e ci hanno portato direttamente a Mauthausen.

D: Ecco, ma proprio dalla stazione siete partiti?

R: Dalla stazione siamo partiti.

D: Quindi le persone potevano vedervi?

R: No, no perché avevano chiuso tutto. E c’era un binario, un primo binario, e sopra questo [binario] c’era tanti vagoni merci, e lì c’erano tutti sopra. E via, partenza.

D: Nessuno v’ha detto dove vi portavano?

R: No, no. Niente niente niente niente.

D: E anche qui, che ora era più o meno?

R: Che era, pomeriggio eh? Pomeriggio, vero? [Marinari si rivolge a Piccioli, compagno di deportazione presente durante l’intervista]. Pomeriggio verso le 2, le 3, anche le 4.

D: Ascolta, c’erano delle guardie?

R: Sì. Dopo da… subentrò l’SS. L’SS, sì.

D: Quanto tempo è durato il viaggio, te lo ricordi?

R: Io non me lo ricordo… Tre giorni, tre giorni, sì. [suggerito da Piccioli]

D: E non si è mai fermato il treno?

R: A qualche stazione ma… mangiare non s’è visto nulla. La prima [sosta] a Vienna, io me lo rammento. Di notte, ci dettero della minestra nelle mani. Era calda, sicchè andava tutta via. Ecco il Monti, viene anche il Monti [compagno di deportazione presente durante l’intervista].

D: Allora, tre giorni e due notti. Tu eri nel tuo Transport, nel tuo vagone, eri su con altri amici?

R: Tutti, s’era tutti insieme: lui, lui [indica probabilmente Piccioli e Monti], io, Enzo Peri, un altro che è morto. Tutti insieme eravamo.

D: Dopodiché siete arrivati a Mauthausen.

R: A Mauthausen.

D: Che tu non conoscevi, non sapevi…

R: No. Durante il viaggio però furono… arrivati a Fossombrone… vero? Mi pare… indove? No, in un campo… [dove] arrivarono tante persone da militare. Ci si fermò, e tra queste persone nel nostro vagone io mi rammento, entrò uno, e disse “Mamma mia, Mauthausen!”, appena si arrivò. Era stato prigioniero di guerra, in questa fortezza, sì sì.

[Voce fuori campo:] ’15-’18.

D: Ascolta, quando il treno è arrivato in stazione a Mauthausen, si è fermato…

R: Si è fermato e poi a piedi siamo andati al campo.

D: Ti ricordi più o meno: la strada era in mezzo al paese di Mauthausen?

R: [Interviene Piccioli:] Non ci siamo fermati alla stazione. Si stava proprio su un binario, quello che si attraversa ora e che si porta su, per andare a Mauthausen.

[Riprende Marinari:] Ecco, e ci portarono su a Mauthausen. Appena s’arrivò lì si apre subito lì indo’ s’era. C’era un gruppo di prigionieri russi subito dietro la porta, d’entrata no? Tutti… tutti poveracci, tutti messi lì… Poi ci fecero ignudare, tutti ignudi lì. Quanto ci tennero?

[Piccioli:] quattro o cinque ore.

[Riprende Marinari:] quattro o cinque ore. Era già freschino. Era freddo là, eh. Tutti ignudi. E poi ci portarono giù, e ci rasarono tutti, di dietro, davanti, dappertutto, dappertutto. E poi il bagno. E poi io avevo delle bollicine, mi mandarono in infermeria. Ecco, e forse lì fu la mia salvezza.

D: L’infermeria quella giù?

R: Sì. Ero scalzo, m’avevano dato un paio di zoccoli, c’ho il 42, m’avevan dato il 38, sicché con le gambe non c’entravo dentro. E c’era la neve alta. Tutta a piedi, sino all’infermeria. Poi arrivai lì… mamma mia! C’era… nei letti dove misero a me c’era altri tre: due di qui e due di là, in infermeria. Chi c’aveva la scabbia, chi c’aveva … tutte queste malattie.

D: Quindi scusami, tu la quarantena non l’hai fatta su al campo?

R: No, l’ho fatta lì. Tant’e vero che loro partirono, e io seppi che erano andati a Ebensee. Quando ci fu un trasporto che andava a Ebensee io mi misi in fila, per andare a Ebensee a trovarli, che…  Uno spagnolo – che poi era italiano, diceva che era spagnolo ma non era vero, era italiano, aveva combattuto contro Franco no, in quei campi lì – e mi tirò addietro, mi disse “Brutto” [Marinari indica no con la mano], tanto è vero che mi disse questo: “il peggio campo che ci sia di tutti i campi che erano nei dintorni”. Poi è venuta un’altra chiamata, quella per il lavoro, a Wiener Neudorf. Si mise lui e [disse] “mettiti anche te dietro a me”. Ci andai, e arrivai a Wiener Neudorf.

D: Ecco, in tutto il tuo periodo di Mauthausen tu sei rimasto giù al Revier?

R: Sì sì sempre al Revier, sempre.

D: Come te lo ricordi il Revier? Ti ricordi in che baracca eri?

R: Era il 5, baracca 5, malattie infette.

D: Ti ricordi se c’era qualche medico italiano?

R: Sì, sì. Eh, mi ricordo, lì c’era un capoblocco tedesco che aveva fatto la boxe. E mi rammento sempre, “chi ha fatto…?”. Io un pochino in palestra ero sempre avanti, ma poca roba. Uno studente di Milano. Me lo rammento come se fosse ora, io che ho fatto: presi certe botte e stetti giorni senza mangiare. Poi sempre lì in infermeria ho conosciuto uno di Milano che si distingueva perché aveva un naso… si chiamava Nicola, Nicola. E poi c’era un altro, che poi ho saputo che era al tram, era al tram A… cominciava con A. Era una persona grande, di Milano, sempre di Milano. Poi niente, ho conosciuto il senatore Caleffi, il senatore Albertini, Giuliano Pajetta, il […], l’altro, oppure poi chi c’era… Ce n’era di gente altolocata, insomma, ecco.                                     

D: Beppe Calore te lo ricordi?

R: No, non me lo ricordo. Ho conosciuto ‘sta gente perché stavo… E poi andetti [andai] a Wiener Neudorf.   

D: Scusa, quando ti hanno immatricolato a Mauthausen, il tuo numero?

R: Cinquantasette due quattro sei, o due quattro cinque [57246 o 245], di preciso non lo so, insomma l’è questo eh.

D: E ti hanno dato anche la zebrata?

R: Sì, la zebrata, subito.

D: Quando da Mauthausen ti hanno mandato nel campo dipendente di Vienna, con cosa vi hanno portato?   

R: Sempre co’ camion. Camion e via.

D: Ah, in camion.

R: Camion, camion, sì, sì, camion.

D: E lì, vi hanno portato in questo campo dipendente…

R: In questo campo che era vicinissimo a una fabbrica di di… la fabbrica di… madonna, me lo rammento sempre… Le pinne, le pinne, le pinne! Le pinne per il mare, per il mare, sì. A Wiener Neudorf.

D: E lì ti hanno immatricolato ancora o no?

R: No, no, no, sempre perché… dipendevamo sempre da Mauthausen. Eran campi chiamiamoli di lavoro lì eh.

[voce fuori campo:] di smistamento.

D: Ecco, cos’è che facevi tutto il giorno lì in quel campo?

R: Tutto il giorno? No al campo non si stava mai, [solo] a dormire. Noi s’andava via alle 7, all’8 s’era… a un quarto alle 8 s’era in fabbrica, e ci smistavano nei vari posti per lavorare. La maggior parte era… Io, per esempio, ero a portare i ferri. C’erano delle seghe, no? Allora si portava dei ferri perché c’era… e si portavano direttamente lì sopra, sopra insomma alla via, per farli segare.

D: C’erano anche dei civili in questa fabbrica?

R: Sì, uh… mamma mia! I civili eran peggio di quegli altri. Sì, sì, c’era anche dei civili.

D: Ecco, e oltre agli italiani c’erano altri deportati?

R: Sì, c’erano polacchi, c’era qualche spagnolo, russi, polacchi. I russi da ultimo da noi vennero, tutta gente giovane.

D: Ti ricordi il nome della ditta?

R: No, non me lo rammento. C’è anche sul libricino ma ora non me lo rammento. [voce fuori campo. Marinari si rivolge un ex deportato]. Perché l’ho visto lì nel libro… quel campo lavorava solamente per quella ditta.

D: Ecco ascolta, e poi ritornavate nel campo.

R: Sì… No, nel campo lì eh! No a Mauthausen. Lì. Sì, sì, lì.

D: Lavoravate solo di giorno o avevate anche dei turni di notte?

R: No, no. Noi si lavorava sempre, sempre di continuo, mentre gli altri [i civili] andavano a mangiare. A noi davano il mangiare che l’era il mangiare lì su, ci davano da mangiare anche lì. E poi si lavorava 12 o 13 ore. Ma insomma non era come loro a Ebensee, ecco [fa cenno al compagno deportato Piccioli presente]. L’era dura però non era…

D: E lì Beppe, lì sei rimasto fino a quando?

R: Sono rimasto per 10, 12, 11 mesi… 12. Perché dopo siamo dovuti rientrare a Mauthausen, perché avanzava le truppe, da una parte russi e dall’altra … facevano picca a chi arrivava prima e loro ci portarono via. Si fece una marcia, si partì in circa 600. S’arrivò 150, così.

D: Ecco tu dicevi, scusa, ritornando lì alla fabbrica, tu facevi solamente quel lavoro lì, il fatto di trasportare questi ferri?

R: No, a volte, a secondo di quando c’era bisogno. Si è fatto anche la prova dei famosi… Quando venivano gli aeroplani, con la contraerea, han fatto un rifugio e gli han fatto delle fondamenta co’… non so, con qualche cosa. Insomma, ce lo facevano provare a noi, quel giorno. Saranno stati cento aeroplani americani, pareva un terremoto. Da tutte le parti s’andava, in questo casermone no, però non andava giù. Ce lo facevano fare a noi. […]

D: Ascolta, e poi stavi accennando alla marcia di trasferimento.

R: La marcia di trasferimento: ci portarono via, a piedi, di lì a Mauthausen. Capitò acqua, vento, capitò ogni ben di Dio. Si dormiva proprio in terra. Mangiare nulla: ortica o lumache, quel che si trovava.

D: E chi vi faceva da guardia?

R: Oh, la SS.

D: E siete arrivati a Mauthausen.

R: Sì, siamo arrivati a Mauthausen però non c’era posto. Allora s’è dovuto aspettare. Ma siamo arrivati in pochi eh, un centinaio […]. Eh sì, quando si fermavano pum, […] e l’ammazzavano. E arrivati su ci misero in una quarantena, però si vedeva che era la fine, insomma.

D: Più o meno ti ricordi in che periodo sei arrivato lì a Mauthausen?

R: Io sono arrivato, sono ritornato a Mauthausen nel mese di aprile, ma ai primi eh … gli ultimi di marzo, gli ultimi di marzo.

D: E vi hanno portato dentro nel campo?

R: Prima ci hanno fatto aspettare fuori perché non c‘era posto, e poi arrivarono a liberare il posto e ci hanno portato su.

D: E lì sei rimasto fino a quando?

R: Fino alla liberazione.

D: Come te la ricordi la liberazione?

R: Eh. [Al]la liberazione morì tanta gente, perché la gente non faceva che mangiare. Gli americani ci portava… il mangiare l’era… si buttava via, allora [al]la gente ce lo diceva: “Non mangiate, state attenti a mangiare perché può essere pericoloso”. Invece mangiavano e li trovavi morti la mattina.

D: Ti ricordi in che baracca eri tu?

R: Baracca 4, tutti italiani; perché dopo ci divisero, fecero tutti italiani e tutti… ci divisero no, ognuno il suo blocco. Era proprio lì all’entratura, dopo un 100 metri dall’entratura, tutte baracche, a sinistra.

D: Ecco, e lì sei rimasto fino a quando?

R: Fino alla liberazione, fino a maggio.

D: Ecco, ma dopo la liberazione del 5 maggio tu sei rimasto lì?

R: Eh sì eh, noi si aspettava sempre di… Ogni tanto partiva una delegazione però non ritornava mai indietro e si rimaneva lì.   

D: E fino a quando sei rimasto lì?

R: Sino alla liberazione, sino al 12… mi pare il 15 o il 12 di maggio.

D: E poi cosa è successo?

R: Nulla, che è successo… è successo tante cose dentro. Aguzzini ammazzati, SS, e il capo del campo lapidato, proprio messo ‘ndo c’era le fosse biologiche, dentro e tirato su, dentro e tirato su. Ma noi… io in quel momento non ero in condizioni tanto… ma dopo un po’, insomma, si sortì fuori anche noi.

D: Ecco, e quando è iniziato il tuo viaggio di ritorno?

R: Alla fine di maggio, ai primi di giugno.

D: E dove ti hanno portato?

R: Noi si è fatto la Svizzera. Noi ci hanno fatto passare dalla Svizzera, di molti in ambulanza, e di molti con dei camion coperti, insomma dei pullman, ecco.

D: Ma in Svizzera vi hanno fatto entrare?

R: Sì sì, sì sì sì. Ci hanno fatto anche un’accoglienza, ci hanno fatto, eh… bene, siamo stati lì tre giorni lì. E poi di lì siamo entrati in Italia. In Italia però non c’era nulla, bisognava arrangiarsi per arrivare a casa.

D: In Italia dove siete entrati?

R: A Bolzano. Di lì ci hanno fatto fare un giro, rientrare a Bolzano. Sono stato all’ospedale di Bolzano perché a quell’epoca avevo la pleurite. Ecco, all’ospedale della Svizzera non ci hanno fatto… non m’hanno fatto passare, no, tanto è vero che tanti si è dovuto andare dalla Svizzera a Bolzano, qualche ricoverato. 

D: Ti ricordi con chi eri?

R: Ero con Vittorio Baldini, famoso combattente di Spagna, poi ero … eh ma ce n’era: Caleffi, Albertini. Poi c’era… c’era tanta gente ma… insomma, avevamo 20 anni, noi ci si conosceva così.

D: Ascolta, ti ricordi se c’era la Pontificia Opera a darvi una mano?

R: No no no, non s’è visto nessuno.

D: Quindi sei arrivato a Bolzano, ti hanno messo in ospedale…

R: In ospedale, e poi son ripartito, son partito col treno e… due settimane tre per arrivare a casa.

D: Ascolta Giuseppe, dici “attraverso la Svizzera con dei camion”, ma li guidavate voi?

R: No no no.

D: Che organizzazione c’era?

R: L’organizzazione della Croce Rossa insomma. Coloro che stavano bene erano questa specie di […], coloro invece che non potevano, che non potevano… erano nella misericordia. 

D: Beppe, tu non sei più ritornato a Mauthausen?

R: Una volta solo. Una volta, poi non son più ritornato, perché la prima volta non feci che piangere, dissi: “Beh, non ci torno più”.

D: Quanti anni fa sei ritornato?

R: [Marinari si rivolge a un presente:] Il primo o il secondo?

[Intervento esterno:]’77, ‘76.

[Marinari:] Il primo o il secondo, via.

D: Poi basta, non sei più ritornato?

R: No no no no no.

D: E nel campo dipendente lì di Wiener Neustadt non se più tornato?

R: No, non c’è più niente. Dice chi c’è stato che non c’è più niente. Niente niente, proprio niente. Perché eran baracche di legno: finito tutto via via, aria.       

D: Cosa ti è rimasto come oggetti, come documenti, se ne hai portati a casa?

R: Nulla, nulla nulla. Io non c’ho nulla di documenti. La Croce Rossa Internazionale… Ora i documenti che ci hanno fatto ora del KZ, dopo la pensione, poi altri documenti io proprio…

Levrieri Vessillo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Dunque, io mi chiamo Levrieri Vessillo, sono nato a Poviglio di Reggio Emilia l’1/10/’22.

D: Vessillo, quando ti hanno arrestato?

R: Eh… nel ’45… ’44, nel ’44. Però i giorni…. non so il mese.

D: Non te lo ricordi il mese?

R: No. So che sono andato a casa perché è finita la guerra. Nel ’44… eh, ci sono stato un po’, ma non so quanto tempo.

D: Ma ascolta Vessillo, e chi ti ha arrestato?

R: Eh sono venuti i cosi… i fascisti, ma non mi ricordo, sa c’ho la memoria… Sono venuti… saranno stati i fascisti.

D: E dove sono venuti?

R: Eh, abitavo a Sorbolo Levante…

D: E son venuti in casa?

R: Eh, mi hanno suonato, non mi ricordo…stavo… parliamo di tanti anni eh!

D: Ma son venuti in casa a prenderti, ad arrestarti?

R: Eh, non mi ricordo. Non so se mi han suonato o se sono andato giù, ma chi è che lo sa di preciso.

D: Ecco, ma perché ti hanno arrestato?

R: Eh, perché ero partigiano. Allora c’erano dei fascisti. Io come partigiano erano contro… i fascisti contro di me. E allora hanno saputo che ero partigiano, e che ero contro di loro… eh, per questo.

D: Ma tu facevi il partigiano in che zona?

R: Beh, lì a Sorbolo. Io abitavo a Sorbolo Levante, a Sorbolo insomma, in paese.

D: Come azioni partigiane cosa facevi, cosa facevate?

R: Cosa vuole, non potevamo fare… Tra noi ci parlavamo, così, eravamo contro… però sa, noi non pensavamo che mi arrestavano. Si vede che hanno saputo tutte quelle cose lì e…

D: Ma tu lavoravi?

R: Beh, nel ’45 dunque, beh… non mi ricordo se avevo già cominciato a lavorare. Ho fatto dei lavori ma, cosa vuole, sono anni… tanti anni. E poi, la memoria…  ho perso un po’ la memoria eh.

D: Ascolta, dopo che ti hanno arrestato dove ti hanno portato? Nelle carceri?

R: Eh sì eh!

D: Di dove?

R: Dunque, non mi ricordo se è stato a Parma, ma… So che mi hanno arrestato… o Sorbolo, ci sono le carceri a Sorbolo? Non mi ricordo, parliamo di… No, mi hanno portato a Parma, nelle carceri.

D: A San Francesco?

R: Eh, guardi, non posso dire certe cose perché son passati troppi anni.

D: Capito. E dopo San Francesco ti hanno portato al campo di concentramento?

R: Eh sì.

D: Dove?

R: A Bolzano.

D: A Bolzano. Eh ma con cosa t’hanno portato su?

R: E chi è che lo sa. Eh, sarò venuto col pullmino o con qualcosa.  

D: Ma eri da solo o c’erano altre persone con te?

R: Ma non mi ricordo.

D: Non ti ricordi…

R: Eh, ma guardi, son passati troppi anni. E poi l’età, ho tanti anni, e poi c’ho… ho un po’ la memoria un po’… che mi è andata un po’.

D: Però del campo di Bolzano ti ricordi qualcosa?

R: Cosa vuole, andavamo là, ci facevano lavorare di qua, ci facevano fare dei lavoretti, quando avevano bisogno di fare qualcosa ci facevano lavorare.

D: Ma dentro nel campo o fuori?

R: Beh dove c’era da andare, dipende.

D: Ecco, ma lì cosa avevi su, i tuoi vestiti o ti hanno dato una tuta?

R: Beh, non mi ricordo, su. Io ero vestito però non so se mi hanno fatto cambiare. È inutile, guardi, sono passati troppi anni eh. 1944, adesso siamo nel 2003…  

D: Eh ma vedi che ti ricordi allora…

R: Cosa?

D: Che quando ti hanno portato su al campo era… il ’44 o il ’45?

R: Beh, sarà stata lì verso il ’44, la fine del ’44, pressappoco. Non mi ricordo. 

D: Ascolta, ti ricordi se avevi un numero su al campo di Bolzano?
R: Ah no. Ma senz’altro ce l’avevo, non mi ricordo ma senz’altro avevamo i numeri.

D: Avevi il numero?

R: Ma senz’altro. No, ho detto che son passati troppi anni, quelle cose lì non le posso ricordare. Adesso, delle volte, mi scappa la memoria adesso di certe cose, sa, allora… però sto abbastanza bene, insomma.

D: Ecco ma ti ricordi che lì al campo lavoravi?

R: Eh sì lavoravo, di qua di là, andavamo di qua di là, dove c’era bisogno di andare.

D: E c’era da mangiare?

R: Beh, mangiare, insomma, si mangiava. Adesso, cosa vuole.

D: Ma vi picchiavano anche?

R: Beh, insomma, picchiare no. Qualcuno… se uno faceva delle cose sbagliate sì, però insomma… Dovevamo stare attenti eh, di non andare, di non fare dei lavori che non andavano bene eh.

D: E tu sei rimasto lì fino a quando lì, a Bolzano?

R: Eh… fine del ’44… alla fine, pressappoco, perché finita la guerra sono venuto a casa, dunque.

D: Nel ’45.

R: Eh son venuto a casa nel ’45. È finita la guerra, e allora ci hanno mandato a casa.

D: Vi hanno liberati.

R: Ci hanno liberati.

D: Ascolta, qui di Parma e provincia eri solamente te o c’erano altri…?

R: Quello lì non lo posso dire, non mi ricordo. Eravamo qualcuno là, ci conoscevamo così…  ci siam conosciuti là, pressappoco. Dei miei amici non ce ne avevo insomma… della gente che conoscevo. Cosa vuole, sono tutte cose di troppo tempo fa eh.  

D: È passato troppo tempo.

R: Eh mi dispiace, è che non posso rispondere a certe domande perché è inutile, troppi anni.

D: Ascolta, ti ricordi quando sei tornato a casa, se sei tornato a casa in treno, in pullman?

R: No, non mi ricordo. Sarò venuto a casa con un pullmino, senz’altro.

D: E il nome della brigata partigiana dove operava a Sorbolo?

R: La Brigata Garibaldi. La Garibaldi.

D: E lì eravate in tanti, che vi trovavate?

R: Sì, giravamo, insomma, un po’.

D: Ma ragazzi giovani però.

R: Eh, pressappoco la mia età, pressappoco eh.

Castellani Roberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Si segnala la presenza di espressioni verbali riconducibili al dialetto toscano, anche in forme arcaiche. Tra le più ricorrenti ‘andette’ (andò), ‘s’eramo’ (si era/eravamo), ‘vense’ (venne).

Io mi chiamo Castellani Roberto. Sono nato a Prato, e tutt’ora vivo a Prato. Sono nato il 23 del 7 del 1926, da una famiglia d’operai, e qui a Prato sono stato arrestato dai fascisti per lo sciopero del 1944, che fu dichiarato qui in Toscana il 4 di marzo del 1944. Invece nel resto dell’Italia era stato dichiarato nel 1944 lo stesso, e di marzo, però il primo di marzo, qui in Toscana per ragioni di organizzazione fu fatto il 4. Riuscì in pieno. E qui in Toscana si è fatto il 4 di marzo per ragioni organizzative. Lo sciopero è riuscito in pieno. C’è una cosa da dire però, che mi preme farlo sapere a tutti perché è ben che sia, perché è la verità: anche gli stessi industriali hanno collaborato allo sciopero. Perché? Perché c’era un interesse anche suo. Perché lo sciopero, come era stato dichiarato in Toscana, credo in tutta l’Italia occupata dai nazisti, diceva: questo sciopero è per la fine della guerra, per avere più pane, e perché i fascisti e i nazisti non portassero via i nostri macchinari all’estero. Allora anche gli stessi industriali avevano un interesse che questo sciopero riuscisse in pieno. Effettivamente riuscì in pieno. In tutte le industrie pratesi riuscì completamente. Però è successo la fine dello sciopero, il 7… il 6 maggio finisce lo sciopero. Finisce lo sciopero…

D: Scusa Roberto non il 6 maggio.

R: Sì scusa, dio bono, il 6 marzo. Il 6 marzo finisce lo sciopero e si deve ritornare a lavorare. E praticamente noi si torna a lavorare. Però a Prato succede una cosa straordinaria: un grande bombardamento, la mattina del 7 marzo. Ci fu un grande bombardamento delle industrie pratesi. In via Bologna fu distrutto tutto, in via Bologna tutte le fabbriche, e io con altri ragazzi, finito il bombardamento – sapevo che il lanificio dove lavoravo io era stato bombardato – gli chiesi: “Posso andare a vedere la fabbrica indove lavoro io? M’hanno detto che l’è stata bombardata, è distrutta si vede”. Dice: “Sì”. E in quattro ragazzi da via del Purgatorio si partì e si andette al lanificio di San Martino. Il lanificio di San Martino, il proprietario era un ebreo, Bemporad, una fabbrica [dove] si stava di molto bene, perché si stava meglio delle altre fabbriche, però il proprietario non c’era, perché si sa, con le leggi razziali non aveva diritto a nulla. Il direttore faceva da direttore più da proprietario.

Io arrivo alla fabbrica, trovo il direttore, si chiamava Bruno, mi fa “Roberto, l’ha vista la nostra fabbrica come è ridotta?”, “davvero! – dissi – quando si ritorna a lavorare?”. Dice “vai a casa ora perché tra un po’ c’è il coprifuoco, ti si avvisa noi quando sarà il momento di tornare a lavorare”. “Va bene”, e io parto con quegli altri quattro ragazzi e si passa dal centro. Arrivai in centro, gli erano le 5, alle 6 c’è il coprifuoco. Arrivo in piazza delle Carceri, e ci sono dei repubblichini e dei carabinieri. Avevano un gruppetto di persone lì, e io… non fo il nome di quello che m’ha arrestato perché non mi piace, perché c’è ancora dei viventi in Prato, e mi fa “hei, vieni qua!”, e io di corsa corro da questa persona. Perché di corsa? Perché io lo conoscevo. Sapevo chi era. Era colui che mi faceva gli esami, marciare, insomma gli era il nostro capo manipolo, si diceva allora. Io mi metto sull’attenti, gli dico che vuole, e mi fa “dammi la carta d’identità”, e io subito prendo la carta d’identità e gliela do, perché non avevo nessuna paura, avevo 17 anni. Prende la carta d’identità, mia e di un altro, un certo Cherubini Bruno, che è stato arrestato anche lui, poi c’è morto a Ebensee. E fa… Gli altri due invece avevano 12 anni, gli fa “voi andate a casa”, e difatti quei ragazzi andettero a casa e noi si restò lì. E le carte d’identità le dette al carabiniere, il carabiniere le guarda e fa “guarda – dice – questi sono ragazzi, mandiamoli a casa, non hanno neanche 18 anni”, e lui gli disse “zitto”, questo lo sentii io, ai carabinieri disse “zitto, se no tu ci vai a finire anche te indo’ vanno loro”. Ma noi non si capiva che volevano dire queste parole. E il carabiniere si strinse le spalle come per dire “non posso far nulla”. Ci prese e ci mise… c’era un bar di fronte a ‘ndo c’è ora una fontana, la chiamavan il Bar La Rosa, e c’erano già una cinquantina di persone, tutti arrestati da queste persone. Siamo lì e si discute del più e del meno, siamo tutti ragazzi giovani, meno giovani, di tutte fesserie: indove ci porteranno? ci porteranno a smassare, è stato bombardato lì, ci porteranno a fare questi lavori. Gli arrivano due ragazzi, due repubblichini dalla fortezza, ci mettono in fila. Ben premesso: noi si poteva benissimo scappare, però nessuno tentò di scappare, perché non si sapeva mica che ci facevano. Ci portano in fortezza. Si arriva in fortezza: ce n’è tanti pratesi, tanti già arrestati. E arrivano i pullman da Firenze, e ci mettono in pullman, 50, 60 in massimo ogni pullman. Anche lì, come dico, si poteva benissimo scappare. C’erano i ragazzetti più giovani di me che erano sui pullman, gli bastava avergli fatto “bo” e gli scappavano, ma nessuno s’azzardò a fa’ questo, e si arrivò a Piazza Santa Maria Novella, alle scuole Leopoldine. Ci scaricarono e ci mandarono su. Arrivati su nelle aule, si cominciò a trovare altri pratesi. Ecco quelli erano veramente gli antifascisti, che conoscevano e li avevano arrestati prima, tra cui c’era il Pitigliani, c’era il Franchi, ce n’era tanti, altri che conoscevo- Pitigliani specialmente conoscevo bene, perché lavorava dalla Gronda con il mio babbo. E gli fo “signor Alessandro, c’è anche lei?”, dice “davvero” – tra l’altro è un ebreo lui – dice “davvero Roberto, ma sta tranquillo non ci fanno nulla, non c’è problema, ora ci porteranno a fare qualche lavoro e poi ci rimandano a casa”. Va bene. E così io presi e andai a raccontarlo a altri, che c’erano lì tutti pensierosi, gli feci “ragazzi stiamo tranquilli, perché mi ha detto il Pitigliani che non c’è nulla di pericolo. Sapete, gli è un uomo intelligente, perché sa leggere e scrivere, e in più sa scrivere a macchina, è impiegato dalla Gronda, pensateci bene, è veramente un uomo da credere”. E tutti ci si mise… il morale si rialzò. Arriva, ci fanno una specie di interrogatorio con un ufficiale delle SS, dei repubblichini, e l’interprete, e ci domandano “te hai fatto sciopero?” e io francamente “sì ho fatto sciopero”. Dice “che lavori tu fai?”, “sono alle filandre”, disse “va bene” e segnano, e mi mandano via. E così.

E la mattina cominciò ad arrivare tante altre persone, tanti tanti tanti. Di pratesi si suppone che ne abbiano arrestati su 7-800. Però hanno fatto poi una selezione, una selezione fatta proprio alla nazista, non era una selezione mirata, era una selezione fasulla, te qui te là ci mandavano. E fecero due squadre, ma nessuno sapeva l’una ‘ndove l’andeva l’altra. Il fatto sta che tanti che erano dall’altra parte vensero con la nostra, e tanti dalla nostra andettero di là, senza sapere il che poteva succedere. E lì, poi presero una squadra, la portarono da un’altra parte, e un’altra squadra a un’altra. A noi ci presero, ci portarono subito alla stazione. Alla stazione di Santa Maria Novella c’era una tradotta lunghissima, indove c’era scritto sui vagoni, sulle porte “operai volontari per la Germania”, con un gesso bianco.

Noi si guardava questa scritta, ma non ci si rendeva conto. Io quanti si eramo nel vagone lo posso dire chiaro e tondo in verità, perché cominciarono a contare “uno, due, tre…”: arrivarono a ottanta. Allora, finito di contare, l’SS con gli interpreti chiese “chi è il più vecchio?”. Se ne presentò tre, pensando questi, dice “ci rimandano a casa”. Invece no, gli disse poi “io, io, son io, son io”. La carta d’identità non ce l’aveva più nessuno, bisogna credere la fisionomia. Lui fa “si va beh tu sei te – dice – allora te tu sei responsabile di questo vagone, se quando si arriva a destinazione manca uno tu sarai fucilato”, allora questo avviò a dire “ma io non sono il più vecchio”. “No no – disse – tu sei te”.

Allora però noi s’eramo stati arrestati la sera del 7 marzo. Era l’8 marzo, la sera delle cinque, le sei, che s’eramo nel vagone, e nel vagone c’era tanto pane, tanto tanto, e tanta pasta d’acciughe. La fame era tanta, si cominciò tutti a mangiare, però c’era per tutti il pane, anzi ce n’era anche troppo. Io presi un pane, l’aprii, messi tanta pasta d’acciughe – ero un po’ golone anche di certe leccornie per noi, perché non sapeva mai, la pasta d’acciughe non sapevamo neanche che voleva dire – ce ne messi di più che non si doveva mettere. Però fu un danno, perché mancava l’acqua. Quando ci si accorse che veniva la sete, dice “ma l’acqua?”, “eh, l’hanno messa”, e invece non ce l’avevano messa. Noi da quel momento si incominciò a entrare nei KZ, nei campi di concentramento di sterminio, senza saperlo, senza le SS fare nulla. Le SS da Firenze a Mauthausen, con quattordici SS ha scortato 1.600 persone, lassù, senza avere una minima sorpresa, perché noi si pensava solamente alla sete. Guardate, KZ, i triangoli rossi, i triangoli neri, come uno vuole, triangoli gialli, si è sofferta tanta fame, io penso non ci sia persona nel mondo che ha sofferto la fame quanto queste persone, quanto noi. Però la sete l’è più brutta. Noi si è fatto tre giorni di viaggio e quattro notti, si è patito la sete, che è una cosa da nemmeno paragonarla a nulla! Né alla fame, né a nulla! È una tortura tremenda. Noi non si pensava a scappare, si pensava solamente all’acqua. Quando si passava sui binari, sui ponti, e sotto si sentiva scorrere l’acqua, li sentivano il profumo, bensì che l’acqua non ha profumo, ma noi si sentiva addirittura il profumo, e si gridava “mamma, mamma, portami acqua, dammi l’acqua mamma”, così, tutti. E come si poteva fare a pensare a scappare, perché c’era la possibilità di scappare. Non si poteva scappare perché il nostro desiderio era solo uno: quello dell’acqua.

Passato, finito questo viaggio tremendo – guardate, io non voglio stare a dire il dormire, i nostri bisogni, la popò, la pipì di fronte a tutti, no – si arriva a Mauthausen, la mattina. Si arriva la mattina, ci aprono i vagoni, e ebbi una grossa sorpresa, sembrò la manna dal cielo: era nevicato da allora, c’era la neve fresca. Allora quando ci davano l’ordine solamente di scendere per pigliare la neve e calmarci la sete, si scende, si prende la neve e ci si calma la sete. Calmandoci la sete si comincia a discutere tra di noi. Si fa: “o’ ndo’ siamo?” “boh, Mauthausen, ma ‘ndo gli è?” E c’è un signore di Prato, un certo Bertazzi Ruggero, prigioniero con noi, e fa “io lo so”, “eh – fanno lui lo sa! lui è gigolò, gira il mondo lui”. Per allora, sa, il mondo si gira… Dice “guardate io l’ho girato ma per tutte disgrazie – dice – perché io sono stato prigioniero alla guerra ‘15-’18 qui, a Mauthausen. E guardate, sono stato tanto male, e ho patito tanta fame”. Allora io gli fo “si starà anche male, non ci sarà neanche da mangiare, però gli è la mattina presto e si sente che fanno la carne arrosto, o di pollo o di maiale o di vitello”, dice “t’hai ragione, sì”, invece gli era il forno crematorio, che non si sapeva neanche che esistesse queste cose. E ci fa… mi fa “t’hai ragione Castellani, davvero, e speriamo che sbagli io”. Ci mettono tutti in fila e si parte per su. E c’è… dalla stazione arrivare a Mauthausen c’è 8 chilometri. Si cammina, cammina, cammina, si arriva. Perché c’erano quelli presi nelle fabbriche, c’erano due fabbri presi dai Campolmi e dai Lucchesi a Prato, che aveva ripreso il lavoro perché non raggiungevano il numero la mattina dell’8 che fresano in fabbrica, che erano vestiti come si stava a lavorare, scalzi, con le camicie tutte rotte, non è come ora, eh. E mi ricordo c’era babbo e figliolo che lavorano dai Lucchesi, si chiamano Ciabatti, e mi fa Maggiorano il figliolo – aveva un anno meno di me – mi fa “vedi Roberto, te tu sei vestito benino, t’hai le scarpe, tu hai pantaloni alla zuava, t’hai tutto la tua camicina, il tuo blusettino, invece io va: tutta la camicia di lavoro, pantaloni non si sa che colore gli erano dalle toppe che c’ha, una rossa, una verde, una gialla, non si sapeva che erano, la camicia lo stesso, fa un freddo boia, sono scalzo, ho gli zoccoli, sulla neve così..”. E si cammina e si trova, e si vede apparirci una grande fortezza, ed era Mauthausen. La faceva paura, e la fa paura ancora, uno deve pensare allora.

Si arriva lì, e ti vedo ‘sta fortezza brutta. Si cammina ancora un altro po’, ci sono due case – quelle case lì innanzi arrivare al campo di Mauthausen, c’erano anche allora – e c’è il filo spinato che traversa […] C’è tutto il filo spinato percorso a corrente elettrica, e c’è un grosso cancello, lo aprono, e si entra all’interno. Si entra all’interno noi, e si comincia a trovare gli abitatori del campo di concentramento, questi vestiti a strisce, celesti e bianche, col numero. E noi si guarda, “ma guarda come sono brutti” si faceva, “guarda come sono secchi. Che v’han fatto? Oh ‘ndove sei stato? Oh che siete, scheletri beduini?” E questi non ci rispondevano perché non capivano la nostra lingua. Si va un altro po’ avanti, si trova un altro gruppo. E gli si fa il solito discorso, questi ci rispondono, e mi fa “tu te ne accorgerai tra tre giorni” ma non in italiano, in ispagnolo. “Beh, ma che vuol dire questa parola?” E “sotto c’è un altro e mi fa “io posso ringraziare le camicie nere italiane, e l’è andata poco bene”. “Questi che vol dire? Che vol dire?”, poi l’ho capito dopo che vol dire: gli erano spagnoli arrestati dalle nostre camicie nere. E si arriva a Mauthausen, apre un portone, il portone nero lì. Entro dentro. Sono tra i primi io, son lì davanti…

D: Scusa un attimo Roberto, c’erano delle donne con voi?

R: No.

D: E ti ricordi se c’erano dei religiosi, dei sacerdoti?

R: No, con noi no. Lo posso dire ora? No, con noi non c’era né donne e né religiosi, in quel trasporto.

E arrivo qui di fronte al portone e l’aprono. Io sono proprio in prima fila e sulla sinistra… sulla destra. E c’era stato l’appello da allora, si sa che all’appello si deve portare i morti, io lo seppi dopo, prima non lo sapevo. Arrivo lì, [si vede] una sfilata di morti. Quando mi vense la visione… io quando dettero l’ordine di partire non mi mossi, dalla paura. Dissi “ma qui ‘ndo siamo? o sono morto, dormo, sogno?” perché mi vense una visione, e a me mi vense subito la visione di un disegno che avevo visto sulla Divina Commedia di quando Dante è all’inferno. Dissi “no sono morto, perché una visione così…”, tutta una sfilata di morti, ma non morti normali, morti tutti… lo scheletro ricoperto di pelle. Ecco, questo gli era il discorso.

E mi riebbi subito, perché sarà stato questo discorso che mi feci io nel mio cervello di 3-4 se… macché secondi, una frazione di secondo. C’era una SS, mi lasciò andare una pedata e dissi “ma allora son vivo, e vivo bene, sveglio anche!”, e mi portarono di fronte al muro del pianto. Ci portarono tutti. Vense il comandante Zeus… Zeric  [forse Franz Ziereis, ndr], vense lì, cominciò a parlare. La prima parola fu questa: “Signori deportati, qui siete in un campo di concentramento di rieducazione dei nemici del terzo Reich. Se darete retta ci sarà anche la possibilità di tornare a casa. La fuga non è ammessa. Chi tenta di scappare se è ripreso viene o fucilato o impiccato. Perciò pensateci bene. Questo gli è il muro di 3 metri, c’è un metro e mezzo di filo spinato percorso a corrente elettrica che rientra all’interno, ogni 20 metri c’è una SS, di guardia, perciò la fuga non è ammessa. Ma se uno tentasse di scappare, se riesce o viene – ve l’ho detto prima – o impiccato o [fucilato]. Ora andate tutti a fare il bagno.” Ci portarono giù nel sottosuolo. Ci dettano un sacchetto di carta con un lapis e un fogliolino. E dissero “mettete tutta la vostra biancheria dentro, ci scrivete il nome e cognome, poi ognuno riprende la sua biancheria.” Allora tutti contenti si fece “guarda come sono organizzati questi tedeschi”, si diceva. Ora, finito il bagno, si ripiglia ognuno la nostra roba, pensando. Fatto questo ci sono dei parrucchieri, che danno dei rasoi, ci tagliano il pelo – io non ce ne avevo, per fortuna, qui allo stomaco – ci levano tutto il pelo ‘ndo s’ha, ci fanno la rapa e più la strada del paradiso. Poi fatto tutto questo ci mandano in un’altra stanzina, e ci sono due inservienti spagnoli, ed hanno dei pennelli da imbianchino, lo infilavano in un liquido e ce lo davano addosso, e bruciava talmente, e gli dissi “ohi, che voi ci fare?”, e fece uno “ora vi si incaffina – così disse lui, mi ricordo come fosse ora – e poi vi si dà fuoco.” E io avviai a piangere. […] Allora disse l’altro spagnolo “no no, lui gli è un burlone, questo gli è un disinfettante”. E basta. Fatto questo ci mandarono a far la doccia. Si va a far la doccia, e s’eramo tanti, tutti non si poteva entrare, però sintanto si potette entrare s’eramo pressati. S’eramo completamente pressati, c’è sempre il più forte e il più prepotente che si mette proprio sotto ‘ndo casca l’acqua, e noi che s’eramo più deboli stavamo ai margini. Mandano l’acqua, regolare, 27-30 così, che ci stavano lì tranquilli sotto, e invece a noi ci venivano tutti gli spruzzi marginali. Tutto a un tratto smette e viene sottozero. Allora volevamo scappare, ma non c’era più verso. A noi ci venivano degli spruzzi, ma erano marginali. Poi smette anche quella, dopo due minuti, e viene a 80 gradi sopra zero, vedi la […] faceva delle bolle così: gli urli, i cazzotti tiravano ma non c’era verso di scappare. Ecco, questa, non dolce ma… l’era la presentazione dei KZ. Finito qui, ci dicono di prendere degli zoccoli olandesi in un mucchio. Sicché ognuno cerca di prendere lo… suo, i numeri. Ma noi non si sapeva che voleva dire capò allora, c’erano i capò non volevano, botte ti davano, legnate, si diceva “oh dio boia, e che s’è fatto? ora ci dite di prendere gli zoccoli dopo ci tirate le legnate?”, e loro botte tiravano, ma tiravano! Allora si capì, bisognava piglià du zoccoli e scappare. Io ne presi due, me li misi sotto bracci, e tutti nudi in quella maniera si andò nel blocco della quarantena. Nel blocco della quarantena ci siamo stati quindici giorni noi.

D: Ti ricordi il numero del tuo blocco di quarantena?

R: Il blocco della quarantena no, non me lo ricordo, ma gli erano i blocchi indove c’erano i capò russi, era lì, quello sì, ma il blocco, il numero non me lo ricordo. E non c’è nella baracca nessun mobilio. E ci misero 800 per Stube. A dormire ci mettevano a giacere un capo un capo un piede, per fianco, stretti, talmente stretti che quando uno si rizzava per andare al gabinetto non poteva più rientrare. E durante la notte – si rientrava la sera alle sette e sino alle sette della mattina a fare una doccia… a fare, a dormire in quella maniera – era un patire, succede di bocciare, “oh sta attento tu mi metti il piede in bocca”, “oh sta attento tu mi fa lì”, “con questo gomito tu mi dai noia”, e via. Allora che succede? Succede che i capò capivano questo, gli era [quello] che cercavano loro, per arrivare lì per divertirsi: invece che passare in mezzo, c’era un viottolino, montavano sopra, indove mettevano piede gli spezzavano l’ossa, e ci aprivano le finestre, perché noi siamo arrivati era freddo, e pigliavano gli idranti e ci bagnavano. Ecco la nostra… E dopo ci dettano una camicia e un paio di mutande. Poi dopo un altro colpo… fu mortale fu, quando mi dettano il numero. Ci chiamavano uno per uno, mi chiamano e fanno “Castellani Roberto?”, “sì”, “te non sei più Castellani Roberto ma sei cinquantasette mila zero ventisette [57.027], il tuo numero”. Perciò, quando si chiama, sarà chiamato solamente in una lingua, se il capò gli è russo lo chiama in russo, se gli è tedesco tedesco, se è francese francese, se gli è polacco polacco. Sicché uno lo deve capire. Se ti richiama la seconda volta sette legnate, la terza quattordici, se ti chiamano ancora ventuno, se son sette [volte], se poi sono dieci aumentano sempre uguale. Questo gli era un po’ il regolamento che ci dissero allora. Finito la quarantena ci…

D: Ecco, scusa, quando è avvenuta l’immatricolazione, vi hanno anche fotografati?

R: Aspetta… No, lì no. Ci hanno fotografato dopo.

E lì ci hanno fatto tutto questo. Finito i giorni [di quarantena] ci danno il vestito, a strisce, gli zoccoli, la camicia, le mutande, il cappello, e tutto.  A noi ci dicono sempre, tutte le volte che noi si vede transitare di fronte a noi una SS o un capò bisogna levarsi il cappello, mettere sull’attenti. Questo gli era il regolamento. Noi ci inquadrarono tutti, ci portarono a Ebensee, a costruire le fabbriche sotterranee dove dovevano costruire i famosi missili. I missili – si è saputo successivamente che noi si faceva le fabbriche per i missili, appena si arrivò, no – sono missili, i V2, i V4, e i V9, il missile intercontinentale. Arrivati a Ebensee, era un campo nuovo…

D: Da Mauthausen a Ebensee come vi hanno portati?

R: Da Mauthausen a Ebensee ci hanno portato coi vagoni civili – noi, io ragiono di noi – con gli scompartimenti, ci misero una ventina ogni scompartimento, s’eramo stretti ma si vedeva però, c’erano i vetri. Ecco, noi da Mauthausen a Ebensee siamo arrivati con gli scompartimenti. Tanto vero che quando si passava dalle città, da quei piccoli paesi, quando si arrivò vicino a Ebensee non si sapeva che si andava a Ebensee. Si vide questo bel lago, questo bel paesino, tutti a dire “ma se ci fermano qui – il treno rallentava – se ci si ferman qui, guarda che bello! guarda che paradiso! Oh la domenica quando si fa festa si va a pescare”, tutti discorsi così si faceva. Difatti quando si arriva a Ebensee ci portano, non alla stazione prima lì di Ebensee, alla seconda stazione, sul piano caricatore, ci fanno scendere, i civili li mandano tutti via, ci resta solamente dei giovani, dei ragazzi. Questi ragazzi – c’era la neve – avevano fatto tante palle di neve, ce le tiravano dietro, ma forte, ci facevano anche male. E tutti ce la si pigliava con questi ragazzi. Io, essendo 17 anni, avendo fatto la scuola sotto il fascismo, capivo il perché quei ragazzi ci tiravano le palle. Perché gli dissi “ma sapete, io ho fatto la scuola sotto il fascismo, io [quando] m’hanno arrestato non ero mica antifascista, non ero mica contro nazisti né contro fascisti, perché io ero avanguardista, perché la dittatura la m’aveva insegnato che non c’era altra libertà che quella fascista, perché noi s’eramo superuomini, sapevamo che si doveva dominare il mondo, e questi ragazzi io li capisco.” Dice “ma tirano”, “eh tirano… tirano perché loro credono che noi si sia suoi nemici”, ecco.

E ci inquadrarono e ci portarono a Ebensee. A Ebensee ci dettano ognuno il nostro letto. Dapprima, in un primo tempo, si dormiva uno per letto; dopo neanche quindici giorni due, poi tre, quattro, cinque: siamo arrivati a sei, in un letto da 80 centimetri per un metro e ottanta. Il mangiare, gli ultimi cinque mesi, un chilo di pane ogni 15 giorni, un cucchiaio di marmellata in mese, un cucchiaio di formaggio in mese, 4 grammi di margarina in mese, un cucchiaio di carne in scatola in mese, e mezzo di litro di zuppa tutti i giorni. Quando l’era bona c’erano delle bucce di patate, qualche altra robuccia, se no c’era tutta erbaccia, tutta robaccia. Ecco, rapportato in caloria, giornalmente, il nostro gli era dalle 700 alle 750 calorie al giorno.  Lavorare 12 ore il giorno nelle fabbriche, sottoterra, come uno poteva fare a vivere? S’aveva un giorno di riposo il mese, l’ultima domenica del mese la si aveva di riposo. Io, il vestito che mi dettano a Mauthausen, me lo sono tolto il 6 maggio del 1945, il giorno della liberazione degli americani. Ecco, questo gli era Ebensee. Ebensee non è tanto piccolo, era piccolo in partenza, però è venuto grande nel passare il tempo. Siamo arrivati ad essere alla liberazione 18 mila prigionieri in un campo di concentramento che ne poteva contenere 7-8 mila. Ecco, uno si può immaginare già la tragedia che c’era all’interno di questi campi.

Poi, un’altra tragedia, grossa, era per noi italiani, era che noi non s’eramo visti bene. Perché noi s’era fatto, dire o non dire, la guerra a tutti. C’erano jugoslavi, “a me m’hanno preso gli italiani, mi hanno le camicie nere, i carabinieri, quelli con tante penne”; poi c’era i greci, “a me m’hanno preso gli italiani”; gli albanesi “a me mi ha arrestato la polizia italiana, eh sai – dice – te tu sei italiano e qualche schiaffo bisogna te lo lasci andare”. Non era giusto, però lo facevano. C’erano gli spagnoli, e gli spagnoli ce l’avevano, forse qualcheduno più che di altri, perché dicevano “noi, se si può ringraziare l’avvento di Franco si può ringraziare gli italiani, se non c’erano loro si vinceva”. E allora ce l’avevano di molto con noi. Non avevano ancora capito che noi s’aveva la solita disgrazia. Io non glielo potevo spiegare, non ci si capiva. Ma c’era alcuni che dei russi parlavano l’italiano, qualcheduno parlavano il tedesco, c’erano francesi, c’erano jugoslavi, chi parlava un po’ la nostra lingua, gli si spiegava, e lo capivano, dice “ma come si fa a spiegarlo a tutti? – dice – io lo so che ora voi siete il mirino di tutti, delle SS, dei capò, e nostra”. C’era Bartan, il cecoslovacco, gli era uno scrivano di blocco, gli era lì con me, me lo spiegò tante volte, dice “oh, pazienza, bisogna fargli dare un punto che loro tocchino con mano la vostra presenza, che è qui come la nostra, che voi fate parte integrante del comitato di resistenza. Bisogna trovare il sistema.”

Per la fotografia, ecco, me… non credo a tutti, ma a me mi fu fatta la fotografia proprio lì a Ebensee. Fui chiamato ad andare a fare la fotografia. Io me lo ricordo, non mi ricordo il giorno ma mi ricordo perché, disgraziatamente, feci tardi, tornai dal lavoro, mi disse lo scrivano “vai a farti la fotografia” e andai. C’era una fila enorme. Mi fecero la fotografia con il numero, di fianco, profilo e di presente… e di faccia. E poi tornai al blocco, tornai tardi, non lo so che ora gli era perché non c’avevo orologi ma io penso vicino a mezzanotte. C’è lo scrivano, mi fa “oh indove tu sei stato?”, “non m’avete mandato a fare la fotografia?”, e mi dette il pezzetto di pane, e mi dettano… mi ricordo c’era la margarina, e mi dette un pezzettino di margarina e la mangiai. “Sai – dice – guarda ti chiamavo per andare a monda’ patate, perché tu sei giovane, non t’ho trovato, ho mandato un altro” e io avviai a piangere, “come come?”, “no ma t’ho trovato un posto buono, ti mando a fare il giardino alle SS”. Perché a andare a mondare le patate bisogna andare la mattina alle quattro, presto, bisogna partire, invece al giardino delle SS tu parti quando tutti gli altri […] “Ti mando te e un certo Nanni, di Prato, Mario”, “oh, bene, dorme insieme a me” gli ho detto. Il che mi disse il Nanni “O Roberto, domani mattina si va a fare il giardino alle SS”, “sì”. E difatti la mattina si parte, si va a fare il giardino alle SS. Vo a fare il giardino alle SS e c’è… e siamo un comando di trenta, quasi tutti polacchi e qualche russo, perché il capo, non il capò, il capo gli era un polacco. E siamo lì, e dissi “lascia fare Mario, un po’ d’erba la si mangia qui”. Ma gli era pochino però che s’eramo prigionieri eh, sarà stato neanche dieci giorni, ma neanche. E lì si lavora. Alle 11 spariscono a tutti. “O ndo’ gli è andati Mario? O ndo’ gli è andati? Non saranno mica andati via e ci hanno lasciato?”, ho detto “ma, vedi che succede ora”. E noi si guardava ma non si vedeva nessuno. Dopo un quarto d’ora, non lo so preciso, ma venti minuti, e arrivano tutti e ricominciano a lavorare, e ci fanno a noi [espressione gestuale che indica l’azione di mangiare, ndr], e noi “ora si va, a mezzogiorno si va a piglià ‘na zuppa”, no, mi facevano [gesto come prima]: mi volevano dire loro, che loro gli eran stati a pigliare da mangiare ai cani. E ci dicevano a noi di andare anche noi perché ce n’è tanto, e non capivo. Allora viene questo… specie di capo, parlava un po’ di spagnolo, un po’ di… e ci dice che “domani, quando si va noi, venite anche voi; e lì c’è i cani gli portano da mangiare, e non lo mangiano: c’hanno riso cotto nel latte, carne, pane, c’hanno di ogni ben di Dio, non la mangiano, si mangia noi!”; “oh, hai sentito che han detto, Mario? domani si va”, “sì”. Difatti il giorno dopo, io stia attento, appena li vedo sparire lascio la carretta e corro con loro. E lì c’è tutti cani, gli erano lì a dormire tranquilli. E lì gli pigliavano la sua ciotolona e se lo mangiavano, e io lo stesso, me e Mario lo stesso, si mangia tutta ‘sta roba, e poi dopo si piglia la nostra gavetta, la si riempie con questa scodella, la si riempie di roba soda, e ci si mette sotto la giacchetta per portarla nel campo. A mezzogiorno ci portano nel campo, i nostri amici, italiani o altri, gli si dà da mangiare, si piglia la nostra zuppa e gli si dà ad un altro: s’era mangiato troppo noi.

E ci si stette lì un po’ di tempo, ma pochino perché, per l’appunto, Mario, si ritorna da lavorare, una sera mi fa “Roberto ho la febbre”, “va a passar visita – dissi – però sta attento Danilo… Mario, perché ci vuole che tu abbia superiore a 39, se no tu non sei riconosciuto”, dice “ma ne ho tanta, bisogna che andìa”. E va. Torna alla sera, gli fo “allora Mario?”, dice “sì, m’hanno dato un bigliettino e tre giorni di permesso”, “il bigliettino? fammi vedere”, dice “c’ho una sigla ma io non la so, c’è scritto ‘tbc’, ma io non so che vuol dire”, “sarà una sigla che hanno dato loro – non lo sapevo nemmeno io – va bene va’, si dorme ora.” La mattina si fa l’appello e poi ci dan tutti, a te e a tutti ognuno ha il suo lavoro no, e ognuno si doveva andare al nostro comando. Mi fa “Roberto non mi lasciar solo, se tu mi lascio solo oggi quando torni non mi ritrovi, che io solo non posso stare”. “Mario – ho detto – ma io non ho il permesso, tu lo sai se mi trovano come va a finire. E bisogna che andia al lavoro, poi dopo il lavoro ti porto da mangiare anche a te, a perdere un comando in quella maniera non è possibile”. Allora appena ci danno l’ordine proprio di andare al comando mi piglia per la mano, mi tira. Io non ebbi il coraggio di lasciarlo. E dissi “sarà quel che Dio vorrà”, e stetti con lui. Stetti con lui, si girava per il campo, perché per il campo s’eramo liberi, c’era tutte strade, però ci sta la polizia nel campo [Castellani indica l’avambraccio, ndr], lì c’è scritto ‘Polizei lager’. Ci trovano e ci fermano. S’eramo a braccetto, e s’aveva un bastone. Arriva Mario e gli dà il bigliettino, loro appena pigliano questo bigliettino s’allontanano da lui, e lo buttano in terra e lo lasciano stare. E mi chiamano a me, mi fanno a me, io non avevo nulla, mi frugava, c’erano due tasche sole in quelle giacchette, mi frugavo mille volte ma non l’avevo. Non ti dicono mica nulla, mi pigliano il numero qui e il blocco, era il blocco 18. Intanto a desinare ci vengano. A mezzogiorno vo a prendere la zuppa, chiamano il mio numero, lo capii subito perché tanto lo sapevo, “oh dice – mi fa l’interprete – perché tu non sei andato a lavorare”, “mi sento male”, “se ti senti male dobbiamo andare a passare la visita, ora tu lo sai che succede. T’hai risposto subito però le sono sette bastonate.” Mi metto a diacere, senza buttarmi giù i pantaloni e cominciano a dare, e c’ho quella specie di catenella sul culo, la ta sona… Madonna non l’avessi fatto, “giù pantaloni” […] Mi butto giù i pantaloni, invece che sette me ne dà quindici. Io stetti una settimana senza mettermi a sede, e la sera stessa mi mandarono a lavorare in galleria. E io sono entrato in galleria allora e sono riuscito fuori nel ’45, il 5 di maggio. Insomma, ho sempre lavorato nel sottoterra. E Mario ritornò a passare la visita, gli dettero altri giorni, poi ritornò a passare la visita e non tornò più. Io ho saputo, quando sono tornato, che è morto a Mauthausen il 5 di maggio del 1945.

E ero a dormire con un altro italiano, un ragazzo straordinario. Un ragazzo che non c’è n’è punti nel mondo: Danilo Veronesi. Ha una storia bellissima, perché lui non voleva pensare solamente per sé, voleva pensare anche per gli altri. Disse a me: “Roberto bisogna fare qualche cosa”. “Ma che bisogna fare Danilo? Tu lo vedi, qui ci fanno ammazzare per nulla, la gente non capisce più nulla, per una cicchina di tabacco s’ammazzano!” Dissi “vedi Danilo, per fa’ codesto ci vorrebbe tanto pane e tanta carne”, “no, bisogna fare qualche cos’altro.” Lui inventò questo. Dice “quando si torna da lavorare…”, ma già era un pezzo di giovane, aveva anni avanti a me, ma alto, forte, grosso, e aveva forza. Dice “quando si torna dal campo, dal lavoro, tu lo sai, gli ultimi che restano dietro sono i più malati, le SS e i capò non gli aspettano altro che caschino in terra per finirli”, “allora che tu faresti?”, “appena cascano me lo carico sulle spalle e lo porto nel campo, almeno uno si salva.” Dissi “io Danilo, non me lo chiedere, io non ce la fo”, “ma io sì, tu mi dai una mano a caricarmelo”, “sì – dissi – questo sì, ma io sai, a mettermi ultimo mi garba poco, dato che noi si ha la possibilità di sta’ da primi, ma per codesto ci sto.” E difatti noi si stava sempre gli ultimi quando si tornava da lavorare, appena cascava uno non guardava lui se l’era un polacco, un russo, un ebreo, no no, se lo caricava sulle spalle e lo portava nel campo. Io mi ricordo sempre d’uno, d’un polacco, un polacco ebreo, lo messe in terra, e lo guardò questo ragazzo. Non parlava la nostra lingua e né noi si parlava la sua, però io capii tutto che gli volse dire, con gli occhi lui lo guardava e gli diceva “non è vero che tutti gli uomini sono diventate delle bestie, questo ragazzo ha dimostrato di essere un vero cristiano, lui non ha guardato nulla quando sono cascato in terra, m’ha caricato sulle spalle a rischio della sua vita e m’ha portato qui. Sintanto ci sarà di questa gente c’è speranza che il mondo ritorni veramente in pace.” Queste sono le parole che ha detto questo ragazzo.

E poi Danilo… l’è una cosa lunga da parlarne di Danilo, ci vorrebbe tanto tempo, però in poco tempo cerco di fare alla svelta. Io mi ricordo c’era da scappare due, e volevano far scappare un russo e un polacco. Il cecoslovacco Bartan decise di far scappare due italiani, perché noi s’eramo nel suo blocco. Disse: “io c’ho due italiani in gamba, per fa’ dimostrare che gli italiani fanno parte integrante del comitato di resistenza di Ebensee, e che non sian più discriminati dalle altre razze.” Dice: “va bene, allora va bene.” E chi è? E vense da noi e disse “siete disposti a scappare?”, “io no – dissi – Danilo sì”, “però – dice – bisogna essere in due”, “via – mi disse – Roberto, tanto qui si muore, o morire per morire si tenta e non se ne parla più. Io se sto qui piglio un SS per il collo e lo strozzo, sicché è meglio scappare”. “Va bene”, allora accettai. Ci dettano un foglio, bianco, indove era scritto dove noi si doveva firmare, Salisburgo, tutti i posti, e indove si doveva andare nelle case. Poi ci dettano marchi civili, e poi ci dovevano dare il vestito, ci doveva essere, i vestiti da civili. Succede così: che nel campo gli era da costruire ancora, e dovevano costruire una baracca, allora per andare a portare questa baracca indove volevano costruire non c’era strada, allora bisognava tagliare i fili spinati, levare la corrente elettrica, prendere gli alberi e portarli fori, prendere le baracche e montarla lì. Questi sono comandi fittizi, si dice, non ci si conosce l’un con l’altro, c’è un capò quaggiù che ti para, un capò qua, una SS qui e una SS qui, e basta. C’è la possibilità di scappare e ci dicono dove hanno messo – se si va a Ebensee lo fo vedere, i cespugli non c’erano più eh, ci sono le case ora – il cespuglio indove hanno messo gli abiti. Io non so se sono stati civili di Ebensee o altre persone, so solamente che ci dovevano essere i vestiti, e c’erano. Ci doveva essere per due. Noi si doveva scappare il 9 di maggio, invece il 9 di maggio, invece che tutti e due scappò uno solo, perché c’era vestiti per uno solo. Danilo si raccomandò di scappar lui, dissi “va bene scappa te”. E difatti…

D: Scusa il 9 di maggio?

R: Sì, di maggio del ‘44.

D: Ah, ecco, del ’44.

R: Ora scusami, non ho detto… del ’44. Il 9 di maggio del ’44. E difatti la mattina io dissi “io vo a lavorare…”, no ero di notte, s’eramo di notte, io ero di notte, s’eramo di notte. E lui disse “io mi fo assumere a questo comando” perché questi comandi li facevano fittizi, pigliavano gente e s’eramo a dormire, e lui si fa proprio prendere. Dice “se a mezzogiorno non ci sono a prendere la zuppa io sono scappato”. Difatti a mezzogiorno vo a prendere la zuppa, guardo e non c’è. “Ah, Danilo è scappato. Stasera all’appello il minimo gli ha 7-8 ore di vantaggio, non lo ritrovan più, non lo beccan più!”, dissi io. Eh, s’arrivò all’appello, e come venne l’SS, si portano morti come sa, come di regola, e fa, e conta, e conta, conta… e “manca uno!” C’era il capò che non capiva più nulla, lo scrivano lo stesso, se c’erano cento morti non era nulla di male, purché torni il numero, ma se ne manca uno gli era un guaio. E non capivano più nulla loro. Io dicevo “speriamo che non mi faccia piglià dall’emozione e faccia capire che è un italiano”. Allora prendono a tutti i cartellini e cominciano a leggere. E arrivano a “Veronesi Danilo”, non risponde. “Veronesi Danilo italiano”, non risponde. E allora l’allarme subito. Dice “gli è scappato un italiano”, e io c’avevo lì d’intorno a me russi, polacchi, jugoslavi. Il polacco mi fa “[…] italiasco”, il russo lo stesso m’abbracciò “bravi”, i francesi, “bien bien”, gli spagnoli “dobra, dobra”; un po’ di dobra, un po’ di quello un po’ dell’altro, insomma ci si intendeva, e tutti dicevano “bravi, bravi”. Ecco da quel momento, la nostra situazione all’interno del campo la cambiò da… da tutta. Tutti ci consideravano come loro, perché gli era scappato. Dettero l’allarme, portarono i cani, io la mia paura dissi “allora tu m’ha dire”, s’eramo io e un polacco, si dormiva in tre, dissi “tu m’ha dire”, il numero 31, l’hai visto [Castellani si rivolge all’intervistatore, ndr], “tu m’ha dire ‘ndo gli arriva…” e i cani sentono l’odore vengono subito da me. Io sai, al polacco non gli dicevo nulla, io tremavo dalla paura. Gli vanno a lasciare andare i cani, corrono, e infatti dopo du secondi gli eran lì da me, gli avevano una bocca grande così. Ecco io devo dire la verità, mi si fermò a due metri, non mi fece nulla, nemmeno toccato! Pareva ci fosse un vetro di fronte a me! Vense l’SS, perché c’ha il numero del letto, io c’ho il numero del letto, sapevano chi ci dormiva, mi venne lì e mi fa, con l’interprete, “che sai qualcosa te?”, “io no nulla, nulla nulla” e mi dette du schiaffi. Disse “domani”, lui disse “morgen” ma l’interprete dice “allora domani ti fanno un interrogatorio”. “Oh tu m’ha dire, speriamo non parli, io non credo di non resistere, e parlerò e dirò anche quel che non dovrei dire”, la mia paura l’era quella, e che anche il polacco lo stesso, che s’eramo sette a lavorare, io avevo il pensiero solamente della mattina.

Arrivo la mattina all’appello, dice [dico, ndr] “ora mi chiamano, tu m’ha dire che mi fanno”. Dico la verità: nessuno m’ha trovato, nessuno m’ha chiamato e nessuno m’ha detto nulla, per fortuna. Passa tre giorni e non sapevo nulla, passa tre giorni e viene ripreso Danilo. Viene ripreso in una baracca perché lo trova un guardiacaccia. Lui gli era entrato dentro di questa di baracca perché c’erano delle mele, per mangiare. Lui lo vede, non disse nulla, dietro c’era una pala, gli tirò una palata nel capo e lo fece svenire. Chiamò le SS, vensero a prenderlo, lo riportarono nel campo, la sera, portato nel campo la sera il comandante gli era al cine con la ragazza, a Ebensee, andettano giù a chiamarlo con la motocicletta, “si è ripreso l’uccello che ha tentato la fuga”, dice “davvero?”, “sì”, “e allora vengo subito su” e lasciò. Gli arrivo lì, io… parole dette da uno che è stato presente all’interrogatorio, questo Bartan, e gli disse il comandante “te tu volevi correre? Ora ti fo correre io. Io ero al cinema con la mia ragazza, stevo bene, per colpa tua mi toccò lasciarla e non vedere un bel film, e venir qui per interroga’ te, e te non vuoi di’ nulla. Non importa. Ma ora te tu volevi correre? ti fo correre io”, e gli aizzò il cane e lo fece sbranare dal cane […], e lo fece morire. Ecco, Danilo morì così.

D: Roberto, scusa, tu sei andato a lavorare nelle gallerie di Ebensee. In cosa consisteva il tuo lavoro?

R: Il mio lavoro gli era… C’ho dei plastici… Quello della galleria noi si parte, la prima è una squadra e si fa 4 metri per 4, siamo una squadra di quindici; poi un’altra squadra di quindici dopo 10 metri nostra, partono e fanno 8 per 8; poi dopo ancora 10 metri parte un’altra squadra e fa 15 per 12. Ecco, era un lavoro a catena, e s’andava avanti così.

D: E come perforavate la montagna? Che strumenti usavate?

R: Noi, gli strumenti che si aveva noi e avevano loro erano tutti strumenti modernissimi, non si faceva con le mani, e né con il picco, ma tutti mezzi moderni, tutta aria compressa. Però bisognava sapere adoperarli, io non le ho mai viste queste macchine. Insomma, me la imparai, s’aveva le […], si metteva lo scalpello che fora il centro e si faceva fori, fori di un metro e mezzo, poi mettevano la dinamite e facevano saltare per l’aria. Fatto saltare per l’aria, poi prendevano sempre una specie di gru piccolina e caricava i vagoncini. Noi s’eramo dietro, si spingeva via questi carrelli e si mandavano via, e li portavan fuori, il materiale fuori. Ecco, il lavoro si svolgeva così, 12 ore il giorno.

D: Dentro nelle gallerie, umidità…

R: Umidità… Per esempio, si va avanti, si trova una vena d’acqua: bisogna star lì. Si smette e si trova invece asciutto, tutta polvere. Poi si ritrova l’acqua, e bisogna stare lì sotto. Il peggio era quando si trovava l’acqua no a scrocio, l’acqua a gocciola, ci cascava sulla testa ed era un disagio e non ci si poteva muovere eh. E tutti molli in quella maniera, con tutta la polvere, s’eramo […], non ci si conosceva l’un l’altri.

D: E tu quanto hai fatto in galleria?

R: Io in galleria ho fatto dal maggio, dai primi di maggio, alla fine. Un anno. Io sono stato 15 mesi nel campo di concentramento di Ebensee: non ho mai avuto una linea di febbre, non ho mai avuto un colpo di tosse. Solamente, quando mi hanno liberato, ero 28 chili, ecco, questo sì. Però camminavo.

D: Come ti ricordi la liberazione?

R: Eh, la liberazione me la ricordo bene io, ero fuori, non ero in infermeria come tanti. Perché a mezzogiorno – io penso sia stato mezzogiorno – a mezzogiorno c’era… vense una camionetta americana, sembrava. Dice “ci sono gli americani! ci sono gli americani!”, poi sparirono. Invece alle 14 e 45 t’arrivarono tre autoblindo americani, entrarono nel campo. Ecco, noi siamo stati liberati alle 14 e 45. E lì gli entravano gli americani, con queste autoblinde, e s’eramo, io dico, un diecimila fuori ancora dai campi, e gli altri erano a giacere, a dormire, e aspettavano la morte. Stesso eravamo applauditi tutti, gli americani quando sortirono… gli aprirono la… il carro-armato, che l’era l’autoblinda, sortirono fuori: restarono imbambolati, non impauriti, ma non si aspettavano… A noi non ci faceva nulla, perché ci eravamo abituati a vede’ tutti secchi, ma loro restarono lì impietriti, però capirono subito che bisognava che ci dessero da mangiare. Loro gli avevano gli zainetti, c’avevano da mangiare per tre giorni a quanto sembra. Cominciarono a distribuire a tutti, ma s’eramo tanti, non c’era verso, non toccò a nessuno si può dire. Allora io poi dopo andei – non c’avevano più nulla – io vo da uno di ‘sti americani, coi pantaloni, lo prendo dal carro e lo tiro, e mi fa quello “eh”, gli fo “oh tu nun c’hai nulla per me?”, “italiano!” dice, “sì”, “io paesano, siciliano, io americano ma siciliano! Mi dispiace” ed avviò a piangere, “io non c’ho nulla, non c’ho nulla. ‘petta però…”. C’aveva un pacchettino – io non sapevo neanche che l’erano – di gomme no, ora lo so, ma allora non lo sapevo: sentivo il profumo buono, me l’aprì, me la messe in bocca, e io la mangiai, non la ciucciai mica, e mi faceva lui, sai “no no no no”, “ma che no, bischettò!”, e la mangiai. Ecco, lui m’abbracciò, questo dice “non ce n’ho più, aspetta, ora vo a vede’ se trovo…”, e ma non trovò nulla. Insomma, ma poi dopo da mangiare, anzi…

D: Che giorno era la liberazione?

R: Gli era la domenica, il 6 maggio. Il 6 maggio. E gli americani… ce n’era anche troppo da mangiare, e purtroppo fu quello il guaio, perché di molti morirono perché troppo da mangiare.

D: Quando sei rientrato in Italia tu, Roberto?

R: Io sono rientrato il 19 di giugno del 1945, perché vensi via a piedi. Si scappò, si scappò… si vense via dopo 3 o 4 giorni, si disse “che si fa? si va a casa, si va a casa”. E i tre pratesi, io Gino e Vincenzo. Si traversò l’Alpe, a rischio anche di morire, scemi, però si tornò a casa.

D: A piedi.

R: A piedi. A piedi sino a… a piedi, stiamo bene attenti…

D: Nessuno è venuto a prendervi?

R: No, per dire la verità noi si è avuto di molta fortuna perché… un colonnello americano ci dette un permesso in tre lingue, russo, tedesco e inglese. Questo lasciapassare ci permetteva di fermarsi a tutti gli accampamenti militari e ci dovevano dare tutti da… l’assistenza, e accompagnarci.

D: Ma dico, dall’Italia, non è venuto su nessuno a prendervi?

R: No, io dall’Italia, quando sono arrivato in Italia, io sono passato da Bolzano. Per esempio, Bolzano, per dire la verità io ho attraversato le Alpi e da, mi pare si chiami San Martino, dall’Austria, gli è un passo, e poi si è trovato la divisione Folgore, italiana. E questa divisione Folgore ci prese lei, ci portarono sempre con le jeep, e ci portarono a Cortina d’Ampezzo. Poi da Cortina d’Ampezzo a Bolzano. A Bolzano ci misero in un ospedale, e i dottori ci dicevano “non andate via, non andate via! su, siete sani, ma non andate via! ora vi si rimette un po’, tanto si dà alla radio tutto il nome, i vostri familiari lo sanno poi”, “no no noi si vuole andare”, “allora se volete andare a casa domattina c’è un trasporto che parte da Bolzano e va a Verona, poi da Verona a Modena”. A Modena ci si stette 7-8 giorni, all’Accademia di Modena, poi da Modena ci portarono coi camion a Bologna. A Bologna con una tradotta ci portarono a Firenze.

D: Roberto scusa, delle 700-800 che sono state arrestate a Prato e provincia, quante sono state deportate?

R: Ecco. Noi si suppone che siano stati dai 700 a 800 persone arrestate, in provincia di Prato. Dopo la selezione… perché i nazisti volevano 500 persone, 500 persone da porta’ via, e tanto è vero che ne fu portati via 480. Di 480 siamo tornati solamente 17. Perché poi si fu divisi: più di 300 si andette a Ebensee, alcuni andettano a Melk, alcuni andettano a Gusen, e altri gli andettano anche a coso… a… Steyr, e così. E ora siamo solamente vivi in tre.

Ansaldi Mattia Alberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Mattia Alberto Ansaldi. Sono nato a Torino il 12 marzo 1927. Sono stato preso prigioniero a 16 anni, il 20 settembre 1943, da polizia politica fascista. Motivo. Il 10 settembre del ‘43 ci avevano comunicato… avevano parlato con i miei genitori soldati che erano scappati dalle caserme l’8 settembre a Cuneo, pregando di portare loro roba, vestiti, perché volevano ritirarsi sulle montagne e non andare coi tedeschi. Ragion per cui avevano bisogno di tutto. Entusiasta, sedicenne, per me una grande avventura, sono partito, ho portato su della roba a loro. Arrivato, mi chiedono per favore se posso trovare altre persone che vogliono andare a far resistenza sui monti con loro, di mandargliele. Dico “beh, volentieri”. Ritorno – perché in quel periodo noi eravamo sfollati nella città di Alba – ritorno a casa, spargo la voce, e diverse persone rispondono a questo. Gli indirizzo dove c’era questa riunione di soldati che erano scappati dalle caserme, dopodiché parto con loro, ancora un’altra volta, a portare altra roba, eccetera. Ritorno indietro. Il giorno seguente, che era il giorno 20, al mattino – stavo parlando con mia madre perché noi avevamo un negozio alimentari – una persona entra e mi chiede “tu sei Ansaldi?”. Io vedo che questa persona tira fuori una pistola di tasca, scappo dalla parte opposta, cerco di scappare. Dalla parte opposta c’era già un’altra persona, un altro giovane che mi aspettava, quindi perciò erano molto informati, informati benissimo dell’ubicazione in casa mia.

In seguito, tanto tempo dopo, ho saputo il motivo di questa cosa: una delazione involontaria di una persona che proprio non mi era nemica per niente. Trasportato prima a Savona, alla Casa dello Studente, dopodiché immediatamente portato la notte stessa a Marassi, nell’ultima sezione in alto. Là sono stato, diciamo, in isolamento dal 20 di settembre ai primi di gennaio. Il giorno esatto che mi hanno fatto uscire non lo so, perché non lo ricordo assolutamente, sono ricordi che sono rimasti confusi. Non so se fosse il 2, il 3, il 5 o il 6.

D: Ecco, scusa Mattia, dove ti hanno arrestato?

R: Ad Alba. Alba. Gliel’avevo già detto prima, avevo accennato che io abitavo ad Alba.

Allora, si mettono con altre due persone, altre due o tre persone lì – non so, forse di Genova o che, abbiamo parlato molto poco – ci mettono in vagone e ci spediscono. Arriviamo dopo quasi un giorno e mezzo di viaggio – c’è una notte [di mezzo] – in un campo di concentramento, perché praticamente erano tutte baracche: non so quale fosse, ma penso fosse Dachau. Di buon conto, ci fanno passare lì un due o tre giorni, dopodiché ripartiamo, io e i due uomini, le donne non le ho più viste. Però, a un certo punto, loro sono spariti, sono rimasto solo, e mi trovavo – ho saputo dopo – nel bacino della Ruhr, dove non m’hanno dato nessun numero ancora, mi hanno soltanto tolto i vestiti civili e m’han dato dei… ma non degli abiti… un paio di pantaloni neri e una giacca nera. Dopodiché m’han fatto lavorare vicino alle grandi industrie lì, nel bacino della Ruhr. Dopo diversi altri bombardamenti che c’hanno preso, distrutto le baracche, sono stato mandato… almeno, penso che fosse il campo di Neuengamme. Però non sono stato immatricolato in Neuengamme, sono tornato direttamente – questo sempre nel… diciamo, tarda primavera del ’44 – verso la frontiera tedesca, e danese, a costruire le fosse anticarro, unico italiano fra tremila e più russi e polacchi. Questa è stata una cosa molto interessante perché praticamente durante tutto il periodo della mia prigionia ho incontrato soltanto un italiano: meglio che non l’avessi incontrato, che poi tra parentesi non era prigioniero, l’ho incontrato a Mauthausen, questo più in avanti.

Dopodiché dopo un po’ di tempo veniamo trasportati – finito di fare queste fosse – ci mandano a Sachsenhausen. Arriviamo a Sachsenhausen il 15 settembre del ‘43, qui adesso ho la documentazione […] posso dirlo in tranquillità, dove mi hanno dato il numero cento tremila sei otto sei, seicento ottantasei, centotre seicento ottantasei [103.686, ndr]. Durante il periodo di permanenza nel campo di Sachsenhausen sono stato addetto al ‘Bombe commando, ovverosia una squadra, una piccola équipe di 5-6 persone. Lì ho avuto una grande fortuna, ho incontrato moltissimi belgi, specialmente, diversi belgi, che parlando francese ci siamo potuti capire, è stato il primo momento perché il mio tedesco era molto molto molto scolastico e lo sapevo molto poco; perciò, me la sono cavata sempre discretamente parlando un paio di lingue. Ragion per cui… parlando… questo è un eufemismo, ma non importa… sbrigandomi in questo modo. Durante il periodo del Bombe commando posso dire che è stato forse il periodo migliore, per il semplice motivo che vivendo praticamente nella città di Berlino, avevo la possibilità di racimolare qualcosa da mangiare in più, cosa che nel campo non succedeva. E nel contempo però venivamo sempre decimati, perché ogni tanto una squadra saltava in aria, e per fortuna mia sono rimasto, sono ancora qui tuttora, perciò mi è andata sempre bene.

D: Ecco, scusami Mattia, la vostra mansione in questo commando qui qual era?

R: La mia mansione in questo commando era il galoppino, essendo l’unico, come dico, che parlava un po’ di francese e un po’ di tedesco, logicamente venivo mandato da una squadra all’altra per fare cose…  per i collegamenti. Per mia fortuna, perché anche quando sono successe le cose, tutte queste cose, praticamente io ho avuto la fortuna di salvarmi perché non era il momento giusto nel posto sbagliato. Perciò, diciamo semplicemente che la fortuna mi ha seguito, tutt’ora sono qui, perciò è logico questo. Fatto sta che dopo un certo periodo di tempo che eravamo su…

D: Voi dovevate recuperare gli ordigni inesplosi?

R: No, dovevamo disinnescare gli ordigni inesplosi più che altro, il recupero non era compito nostro, noi il disinnescamento della spoletta. Infatti siamo andati avanti per un bel periodo di tempo, per diversi mesi. Dopodiché, passato il… cominciato il ‘45, siamo rimasti un po’ nel campo. C’è stato un po’ di maretta perché praticamente stavano arrivando le truppe alleate. Cosa succede? Succede semplicemente che noi siamo trasferiti con trasporto di tremila e cinquecento persone e più da Sachsenhausen a Mauthausen, in Austria.

Ho avuto piacere di sapere questo: io di questo trasporto mi ricordavo quasi vagamente, era una cosa per me quasi inconsistente, una nebulosa. Ho avuto la fortuna di incontrare durante il recupero mio in Germania amici conosciuti tedeschi, danesi eccetera, che erano partiti con me da Sachsenhausen, sullo stesso trasporto, a distanza, poi sempre a distanza perché il loro numero era di poco inferiore e un altro poco superiore del mio, e questo mi ha dato una grande gioia perché ho detto “ci siamo trovati fratelli, uniti anche se forse di diverse nazionalità, non importa”. La cosa più interessante di tutte quando siamo arrivati a Mauthausen, ci fanno fare la scalinata. Noi era tre giorni che non si mangiava e non si beveva, su quella scalinata non so quanti sono rimasti, […] tanti.

Siamo arrivati, ci hanno passati alla doccia, spogliati, dopodiché non ci han dato nessun vestito perché non c’era niente da mettere addosso, ci han mandati nel sotterraneo che c’è all’ultimo edificio in fondo, c’era allora a destra, dove per fortuna nostra c’era del sale, rosso, in sacchi. Questo cloruro di sodio ci ha salvato la vita, perché succhiando quello siamo riusciti a produrre un po’ di liquido per il nostro corpo. Dopodiché ci hanno vestito, ci han dato qualcosa addosso, e siamo scesi al San Valentin [Sankt Valentin, ndr], alla miniera, alla mina, ci han mandati a lavorare, per un periodo di tempo abbastanza breve perché siamo stati sì e no un 20-25 giorni lì.

D: Ti hanno immatricolato di nuovo?

R: Certo immatricolato di nuovo, il mio numero di Mauthausen è centotrenta duecentotrenta [130.230, ndr]. E, come dicevo siamo scesi, dopo una ventina di giorni che facevamo la spola fra San Valentin e Mauthausen, ci hanno bloccato e ci han mandati alla stazione ferroviaria e ci han spedito ad Amstetten. Ho sempre creduto fosse Ebensee, poi finalmente sono riuscito ad appurare che era Amstetten dove c’han mandato. E lì nello stesso… in questa cittadina di Amstetten siamo andati a riparare la cosa… la stazione ferroviaria che veniva bombardata lì di notte, noi di giorno la riparavamo. Abbiamo continuato fino alla fine del conflitto. Ecco, questo è praticamente, diciamo, è il nesso di quello che è stata la mia deportazione.

D: La liberazione, il momento della liberazione?

R: La liberazione, 6 maggio 1945 alle 14 del pomeriggio, un carro armato statunitense abbatte la porta, abbatte il portale d’ingresso e si ritira. Non viene dentro.

D: Il portale d’ingresso…

R: Il portale d’ingresso del campo.

D: Di Mauthausen?

R: No, non di Mauthausen, di Amstetten, di Amstetten. Dopodiché si ritira. Noi usciamo, facciamo per andare fuori, ma eravamo talmente… siccome gli ultimi giorni del conflitto, gli ultimi giorni [in cui] eravamo rimasti le SS erano sparite tutte, era rimasto soltanto qualche vecchio soldato che poi tra parentesi anche quello all’ultimo momento era sparito, il vitto non c’era più, siamo rimasti a terra, quindi praticamente eravamo degli zombi diciamo.

Abbiamo cercato di uscire, di andare da qualche parte. Io ho avuto la fortuna di uscire, e andare verso… verso il dove non so. Mi sono trovato vicino a una fattoria, un casolare: sono entrato, vedo una donna che commossa mi dà una ciotola, dentro c’era della verdura, l’ho mangiato con avidità perché ovviamente avevo fame, poi sono uscito. Nell’uscire, diciamo, nel buio di quella grande camera dove… dello stanzone dove ero, ho visto delle divise: erano soldati tedeschi, anche loro tornavano a casa, più o meno facevano come noi. Dopodiché sono andato a… ho proseguito la strada, mi sono trovato in una piccola cittadina di Bad Ischl. A Bad Ischl ho incontrato, il comando di… il comando inglese, delle truppe inglesi. Sono stato portato al… diciamo, all’infermeria, dove mi hanno disinfettato, e mi hanno messo in infermeria; soltanto che non mi davano da mangiare, io avevo una fame tremenda, e logicamente mi sono alzato, ho preso qualcosa, me la sono messo addosso, sono andato fuori. Ho avuto la fortuna di trovare un altro, un italiano, un militare italiano, che mi ha aiutato ad andare sia verso il Municipio dove ci davano degli indumenti da metterci addosso, poi siamo riusciti ad avere anche qualcosa da mangiare. Dopodiché abbiamo peregrinato per un po’ di tempo, fino a che non siamo riusciti a trovare un mezzo che ci ha portati fino a Innsbruck. A Innsbruck ci siamo fermati perché tutte le macchine che c’erano a Innsbruck sono state sequestrate perché c’era la colonna del Vaticano che partiva da Innsbruck per portare giù in Italia. Però partiva diversi giorni dopo, e allora noi dovevamo arrangiarci anche per i viveri su a Innsbruck. Così abbiamo fatto, in qualche modo abbiamo vissuto, dopodiché siamo rientrati in Italia.

Io sono arrivato fino ad Alessandria, noi allora si abitava ancora… almeno, speravo che si abitasse ancora ad Alba, perché durante tutto il periodo della prigionia io non ho mai potuto né scrivere né ricevere, quindi praticamente ero all’oscuro di tutto, non sapevo se i miei genitori fossero ancora vivi o meno. Ho avuto la fortuna di arrivare fino ad Alessandria, dopodiché a piedi, fino ad Alba, perché da allora non c’erano né mezzi di comunicazione né niente, quindi praticamente l’unica strada era Cava di San Francesco, e siamo arrivati fino a… sono arrivato fino a casa. Certo, quella sera devo descriverla? No, è meglio di no. Devo descriverla?

Durante il periodo del ’45, come allora, praticamente la vita era ancora molto patriarcale, la televisione non esisteva, la radio era molto…

D: Ecco, scusa un attimo Mattia, allora la liberazione al 6 maggio del ’45, tu sei arrivato a casa ad Alba quando?

R:Era il 20 maggio, 20 maggio del ’45. Ovviamente io arrivo alla sera, era tardi, era verso le otto di sera, e c’era ancora un po’ di luce. Allora le persone, dato come dicevo, non c’era né televisione né niente, si radunavano in crocchio. Noi, essendo proprietari di un negozio alimentari, ci si metteva lì sotto un porticato a chiacchierare tra varie persone. Il mio papà seduto su una sedia, col sigaro toscano in mano, il fiammifero dall’altra, si volta e mi guarda. Però non ci crede ai suoi occhi, strofina il sigaro contro il muro e si mette il fiammifero in bocca. Dico: “Papà guarda che il sigaro è quello”. Butta via tutto, mi abbraccia, e poi… stop. Soprassediamo al resto.

D: Ascolta Mattia, facendo dei salti indietro adesso…

R: Sì, prego.

D: Hai subito degli interrogatori tu?

R: Interrogatori sì, ne ho subiti ma… Gli interrogatori per me erano una cosa… non c’entravo… Io praticamente, la mia giovane età, l’unica cosa che a me è stato chiesto tutte le volte che entravo in un campo, in qualsiasi posto arrivavo: “sei ebreo?”. Perché essendo molto giovane la prima cosa che ti domandavano era “sei ebreo?”. Ovviamente era quella. Io ho sempre risposto no. E poi, c’è una cosa molto lampante, che gli ebrei praticamente hanno il prepuzio del pene che è scoperto, mentre invece io non l’avevo scoperto, perciò praticamente sapevano che non ero ebreo. Ma la prima cosa che mi chiedevano per la giovane età era quella. Interrogatori veri e propri… non ne ho subiti interrogatori, nel senso… perché cosa potevo dire io? Assolutamente nulla.

D: Anche quando ti hanno arrestato?

R: Io sono stato arrestato dalla Polizia politica fascista come un grande traditore, perché avevo aiutato i ribelli. Ma io non ne sapevo assolutamente nulla di queste cose. Scusa, a un certo punto… Devo continuare o no?

D: Sì sì sì.

R: A sedici anni nel 1943 si era semplicemente dei ragazzi, io ero studente durante il periodo, diciamo, di vacanza: non si sapeva assolutamente nulla. Essendo cresciuti sotto il regime fascista, quando in casa non si poteva parlare di politica, anzi, poi a noi non interessava assolutamente, che cosa potevo sapere io? Io mi sono trovato a fare il saluto fascista davanti ai tedeschi e prendere un grande ceffone perché m’hanno detto che ero un traditore. È ovvio che… Io non sapevo cosa avevo tradito, eppure avevo tradito. Ovviamente poi in seguito ho capito tutto il perché. Io, non politico, sono stato politicizzato, e molto, di modo che alla fine se forse avevo delle certe idee ho dovuto cambiare completamente. Tutto lì. Domanda.

D: Ci parli del campo di Sachsenhausen?

R: Certo.

D: Come te lo ricordi?

R: In che senso?

D: Come era   il campo.

R: Il campo era organizzato molto bene, c’era, diciamo, il Lagerältester, che praticamente… un Lagerältester che francamente parlando è stato uno dei migliori Lagerältester che ci fossero, che siano stati al campo di Sachsenhausen, uno degli ultimi che è stato. Era un criminale tedesco, però un criminale tutto particolare. Io non so cosa fosse o che, so soltanto che tutti i miei compagni di Sachsenhausen quando c’è stata la liberazione – io non ero in Sachsenhausen – loro l’hanno protetto, perché praticamente han detto che aveva fatto più lui di bene che tutti gli altri, io questo però non… queste sono le cose sentite dire poi in seguito.

Perché tu devi capire che le cose che in questo momento io sto dicendo, una gran parte io le ho riscontrate ripensando e parlando con i miei ex compagni. Perché la prima intervista che ho rilasciato tanti anni fa, o quasi venti anni fa, per me è piena di lacune perché avevo proprio la mente vuota. Sia forse perché ero rimasto per più di trent’anni che non ho più parlato di questo, dato che come sono arrivato, la prima cosa che m’han detto, quando ho raccontato a tre persone abbastanza importanti quello che m’era successo m’han detto: “impossibile!”. Questa parola ‘impossibile’ era rimasta fissa in me, io perciò avevo messo tutto in disparte, tutto, non ho più voluto parlare con nessuno, assolutamente di questo. Infatti, quando io per la prima volta mi sono trovato a Torino con uno dei nostri vicepresidenti, Dario Segre, a una manifestazione di deportati, mi fa: “E tu cosa fai qui?”. Dico: “Io sono deportato.” “Sì, ma son tanti anni che ti conosco, mai saputo!” E io dico: “E perché devo dirlo? Mai nessuno me lo ha chiesto.” Era diventata quasi una vergogna essere deportati, ragion per cui non si diceva più in giro, assolutamente.

D: Ecco, nel campo di Sachsenhausen erano molte baracche?

R: Sì, di baracche ce n’erano tantissime, ovviamente erano ripartite in vari settori. Io praticamente dovessi dirti quante baracche ci fossero non lo so, non l’ho mai saputo, non mi sono mai interessato al numero delle baracche. Io so soltanto che noi eravamo assegnati a quella baracca, la baracca numero 15, e sono stato lì per un certo qual periodo. Poi sono stato trasferito in un’altra baracca, però non ricordo il numero di questa baracca quale fosse, perché francamente parlando, il numero si ricordava soltanto per quando eri sotto, eri su all’appello per andare al tuo posto di dormire, cioè la tua cuccetta.

Ma… Il campo di Sachsenhausen era molto… era organizzato non solo militarmente, era organizzato, diciamo, con un criterio particolare, perché siccome il comando delle SS, la famosa Villa Eicke – quella che ora chiamiamo Villa Eicke, dove c’era il comando tattico delle SS, praticamente quelli che sovrintendevano a tutti i campi di concentramento – era proprio vicino a noi, quindi praticamente noi eravamo il campo scuola per loro, ragion per cui tutto doveva filare alla perfezione.

D: Ecco, un altro campo, che è Amstetten, era vicino al centro abitato oppure era distante dal centro abitato?

R: Il campo di Amstetten era semplicemente un grandissimo… era una… diciamo, una vecchia struttura austriaca, dove c’era un grande maneggio; noi eravamo ospitati… noi si dormiva tutti per terra sul terreno nudo in quel che era stato il campo del… la sala di maneggio, cioè una sala lunga, non so, un 350-400 metri, non so quanto fosse in larghezza, ad ogni modo noi si dormiva tutti lì. E il campo, il pezzo di campo, era recintato, dove c’era soltanto due baracche, dove ci davano la sbobba e il pane, tutto lì. Ecco, nient’altro. Il campo di Amstetten era… io quel che ricordo, perché francamente parlando non ricordo altro.

D: Ti ricordi, a Dachau hai detto, Sachsenhausen, e poi Mauthausen, e poi Amstetten, di aver visto delle donne?

R: Donne… A Mauthausen ho visto delle donne, ma le ho viste soltanto dietro una finestra. Aspetta… sì, a Dachau sì. Dachau… poi, non lo so, io ho detto Dachau però non ne sono certo di questo, perché sono passato da un campo che non conoscevo, quindi ragion per cui non posso dire con precisione che campo fosse. Penso fosse Dachau perché ci hanno detto che eravamo vicino a Monaco, quindi l’unico campo era Dachau. Io di donne ne ho viste semplicemente quelle che… le donne che erano con noi, quelle due donne che sono partite da Genova con noi. E poi altre donne, ci saran state ma non lo so.

A Neuengamme, di donne – quando son passato a Neuengamme – di donne non ne ho viste in assoluto. Alla frontiera danese, quando ho fatto le fosse anticarro – insomma, son stato per diversi per diversi mesi a far le fosse anticarro – non ho visto donne assolutamente.

Ecco, alla frontiera danese devo dire un piccolo particolare. I danesi sono stati molto molto molto gentili con noi, gentili in tutti i sensi. In questo senso. Noi si lavorava e si passava incolonnati, partendo da dove si dormiva per andare a questi campi di lavoro. Tantissime volte queste donne vedevano passare questa gente che aveva dei… era smunta, malandata, eccetera; eran piccole cose, ma tante volte si trovava sul lato della strada un pezzo di carta con dentro un pezzetto di pane, pane e margarina, per noi era come se fosse uno dei più grandi dolci, una torta o qualcosa di simile. Siamo stati… Un convoglio di rifornimenti è stato bombardato: eh beh, loro ci hanno aiutato, anche se magari avevano razziato già tutto i tedeschi, non importa, ci hanno aiutato con un po’ di patate e barbabietole e compagnia bella. Non saprei cosa dire. Infatti ho ringraziato, ho mandato al nostro compagno rappresentante di Sachsenhausen, danese, il dottor Petersen Skovgaard [probabilmente Inge Petersen Skovgaard, storico danese coinvolto nel salvataggio e trasporto di deportati negli ‘autobus bianchi’], che lui praticamente è il responsabile della deportazione di Copenaghen, una lettera dove ho ringraziato… ho voluto far ringraziare gli abitanti del paese della cittadina di Husum, perché avevano fatto a noi questa cosa, e ho avuto anche una risposta molto simpatica, e concreta.

D: Religiosi, ti ricordi di aver incontrato tra i deportati dei religiosi?

R: Religiosi in senso religiosi cattolici, no. Bibelforscher sì, Testimoni di Geova. Due. Che però, francamente parlando, l’ho saputo solo dopo che erano Testimoni di Geova, ed erano gli ultimi rimasti nel campo di Sachsenhausen, dove sono passati circa quattrocento e più testimoni di Geova. Sono gli unici religiosi con i quali ho parlato. Di religiosi della religione cattolica non ne ho incontrati assolutamente, come neppure di altre religioni perché, francamente, non li ho molto cercati. È questo.

D: E ragazzi più giovani di te?

R: Mai incontrati. Mai incontrati ragazzi più giovani di me. Io sono stato uno dei ragazzi più giovani che fosse nei campi, in quel periodo; almeno, nessuno che mi abbia detto che… e poi, io ero imberbe, ancora.

D: Ebrei ce n’erano nei campi?

R: Sì, ebrei ce n’erano. Ecco, ebrei ne ho incontrati un po’ da tutte le parti. Gli ebrei che ho incontrato più che altro gli ho incontrati nel campo di Sachsenhausen. Non molti, perché nel campo di Sachsenhausen ce ne sono stati pochissimi. Però loro erano, diciamo, una razza a parte, nel senso che loro facevano clan, erano sempre tutti uniti; mentre io, come italiano, essendo solo non avevo nessuno, non potevo [essere] seguito con nessuno. Ecco, l’unica cosa che mi ha colpito moltissimo è stato questo, che erano sempre molto uniti, molto vicini l’uno all’altro.

D: Tu non sei mai stato ricoverato nel Revier?

R: No nel Revier, ma… ci sono stato una volta per una… semplicemente per un… diciamo, una piccola ferita superficiale, sono stato disinfettato soltanto e basta. Come ricoverato mai.

D: Quindi non hai avuto quell’esperienza lì del Revier.

R: No no, io non ho avuto l’esperienza ma ho avuto… ho una tara mia personale che purtroppo mi porto dietro dal 1944, quando sono arrivato a Sachsenhausen, che ci hanno lasciato fuori nel cortile, all’Appellplatz, per quasi 47 o 48 ore, nudi completamente, perché non c’era… non so se non ci fosse posto nelle baracche o cosa, ma noi ci hanno fatto stare fuori, perciò… Quella [volta] lì ho preso una terribile pleurite che mi segue tuttora, e i miei bronchi sono quelli che sono. E ora ho i miei ricordi che purtroppo me li porto sempre con me. Stop.

D: Io volevo chiederle se ricorda qualche nome di qualcuno dei suoi compagni che sono partiti da Genova con lei.

R: Sì, ricordo un solo nome, Gino, è l’unico che ricordo, ma però il cognome non lo ricordo.

LA REGISTRAZIONE FINISCE QUI. SEGUE TRASCRIZIONE DELL’ULTIMA PARTE D’INTERVISTA NON RIPORTATA IN AUDIO.

D: E altri nomi di compagni di deportazione te ne ricordi?

R: No, perché praticamente devi capire una cosa: io di italiani non ne ho incontrati mai, e allora non posso sapere i nomi degli altri; praticamente con gli altri non ho mai avuto un rapporto vero e proprio. Ho avuto un rapporto con questi tecnici belgi che sono stati con me al Bombe commando di Berlino, però rapporti con… uno si chiama Charles, un altro si chiamava… mi sembra che fosse Jan o un nome simile. Altre persone non posso dire perché non ho mai incontrato un italiano. L’unico italiano che ho incontrato è un civile che non ha niente a che fare con la deportazione.

D: Un civile che hai trovato nel campo?

R: No, l’ho trovato nella galleria di San Valentin che lavorava. Il motivo è semplicissimo. Nel campo l’unica parola che campeggiava sempre era la parola ‘fame’. Io avevo trovato… anzi avevo trovato il mio vicino di castello, perché si dormiva in due sopra lo stesso… erano i castelli da tre piani ed eravamo in sei persone, cioè due due due. Al mattino mi sono svegliato ed era defunto. Aveva un maglione addosso, gliel’ho tolto, e ovviamente me lo sono messo. Nel contempo ho preso anche la sua razione di pane che davano al mattino, non dichiarandolo morto, perché la fame, come dico, era la prima cosa. Nella galleria di San Valentin, questo italiano mi vede questo maglione addosso e mi dice: “se mi dai quel maglione, io te lo vendo [compro, ndr] e ti dò tre filoni di pane.” Puoi capire! Accetto al volo. “Però mi devi dare il maglione adesso perché io devo portarlo fuori e poi ti porto il pane.” Devo ancora vederlo adesso.

D: Ascolta, in queste gallerie che cosa facevano?

R: Noi trasportavamo dei carrelli di pietrisco, di materiale, e basta. Io non ho mai scavato, ho sempre e solo spinto questi carrelli di materiale. Stop.

D: Ma stavano allestendo delle fabbriche?

R: Domanda alla quale non posso rispondere perché non ero all’altezza di capire quello che facevano, assolutamente.

D: Ma San Valentin, ha dormito a San Valentin?

R: Tutte le mattine si prendevano e si andava in cava, alla sera si ritornava su dalla cava. A Mauthausen. Al mattino si scendeva e alla sera si saliva.

D: Ti portavano giù con il camion?

R: No, no con le gambe, a piedi. Dalla cava a Mauthausen. Io dico San Valentin ma era sotto, la cava delle SS. Ci portavano giù a lavorare poi ritornavamo su alla sera.

PAUSA

R: Non è un trasporto il mio, noi siamo stati trasferiti da Genova. Praticamente il nostro non è stato un trasporto, noi eravamo cinque persone. Cinque persone, non apposta per noi, voi forse non avete presente i vecchi scompartimenti che c’erano nel periodo allora. [In] uno scompartimento c’erano quelle famose serrande di legno che bloccavano tutto: noi siamo partiti in quello scompartimento da soli, noi soli, noi cinque soli.

D: E chi vi faceva la guardia?

R: Di fuori c’era una guardia sulla porta.

D: Italiano?

R: Certo italiano, ovvio, fino alla frontiera. Alla frontiera ci hanno… non so cosa fosse, quando siamo arrivati erano tedeschi e ci hanno fatto scendere.

D: Ma tutto il resto del convoglio erano civili?

R: Il convoglio… il treno era un treno civile, normale, è quello. Eh, sì.

D: E perché Mario Miroglio?

R: Mi suonava un nome che avevo sentito da qualche parte, ma ovviamente della deportazione si possono trovare dei nomi, poi e…

D: Quindi tu non sei partito con un transport?

R: No, assolutamente no, era un trasporto particolare quello.

D: Per voi e basta?

R: Per noi e basta.

D: E non avete scambiato delle parole, voi all’interno di questo.

R: Ma a distanza di 56 anni io quando dico, sinceramente, se anche avessimo scambiato delle parole proprio non le ricordo in assoluto. Anche se avessi avuto una conversazione, la conversazione sarebbe stata dove andiamo, dove ci mandano o cosa, non saprei altro. Non sarebbe esistita una conversazione in questo campo.

Pierini Pietro

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Pierini Pietro. Sono nato il 6/5/1928 a Pietrasanta, provincia di Lucca. In quel periodo, dalle nostre parti, era fermo il fronte tedesco e americano. Di là dall’Arno di Pisa c’erano gli americani, di qua dall’Arno c’erano i tedeschi. Nella vallata della Versilia – Versilia, Ca’ Majore, Pietrasanta, Forte dei Marmi, le zone della vallata della Versilia – c’era il forte di tutta la truppa tedesca. I tedeschi fecero sfollare Pietrasanta perché doveva passare il fronte, e fecero mandare tutte le popolazioni verso la montagna. Su, nelle colline, nelle alte colline, c’era il paese di Sant’Anna, di Val di Castello, di Mauthau… di Monteggiori, e mio padre, che aveva cinque figli, era un uomo povero, non aveva soldi d’andare a rifinire dentro un caseggiato, ci portò in una baracca nell’uliveto della Versilia. La zona si chiama La Rocca.

Il 12 di agosto, all’improvviso, arrivò la famosa… sterminio di Sant’Anna: arrivarono i tedeschi all’improvviso, e casolare per casolare, distrussero tutto Sant’Anna. Nel ritornare indietro da questo eccidio passarono dalla parte dell’uliveto dove noi eravamo nascosti. Mio padre, mio nonno e altre persone erano nascosti in punti dove non potevano essere trovati dai tedeschi; noi che eravamo dei bambini, perché io avevo 16 anni, mio fratello appena 17 e qualche mese – che ci corrono 16 mesi da me a lui – entrarono in questa baracca, e ci videro, e ci presero dalle braccia di mia madre, e ci portarono, non dico il carcere di Pietrasanta, ma nel salone al carcere di Pietrasanta. Assieme a noialtri portarono anche dei partigiani che avevano preso durante il rastrellamento; che questi poveri ragazzi venivano torturati per sapere, perché da noi nella nostra zona c’era una zona chiamata ‘Casa Bianca’, che è tutt’ora nella vallata di Strettoia, Vallecchia, e Capriglia, c’è una zona chiamata Casa Bianca. Pare che a quell’epoca la storia della Casa Bianca, che fosse un nome convenzionato dei partigiani dove fosse il comando, il rifugio. Allora i tedeschi chiedevano di dove sei, dove abiti; se disgraziatamente una persona diceva “vengo dalla Casa Bianca” o “abito alla Casa Bianca”, quello era un uomo morto perché volevano sapere e veniva torturato.

A Pietrasanta, in questo casermone, questo stanzone, radunarono parecchi rastrellati di queste zone, di Sant’Anna e tutte queste zone. A un certo punto, fatta la colonna di un circa due o trecento persone, ci incollarono da Pietrasanta a Lucca a piedi…

D: Scusa Pietro c’erano anche delle donne?

R: No, donne non ce n’era, erano tutti uomini. Arrivati a un certo punto, vennero i tedeschi e ci incolonnarono, era di mattino, e ci portarono verso Lucca. Strada facendo, io dico nella zona del camposanto di Pietrasanta, vidi mia mamma e i miei due fratelli, con una scatola di scarpe, non riesco a parlare… con una scatola di scarpe che era piena di patate e polenta fritta, che ce la allungò, e io e mio fratello quel giorno mangiammo. Facemmo 32 chilometri a piedi. Ci fermammo al castello di Monsummano, dove anche lì c’erano altri partigiani presi nel rastrellamento che fecero durante i rastrellamenti che facevano in quel periodo nelle zone di Pietrasanta, Ca’ Majore. Da lì poi ci presero e ci portarono alla Casa Pia di Lucca.

D: Ecco, ti ricordi quando era questo?

R: Sì, mi ricordo il periodo, i giorni: io penso che fosse stato dal 12, dunque dopo siamo stati verso il 13, 14 di agosto; sì, dopo quattro giorni dal rastrellamento.

D: Del ’44?

R: Del ’44, del ’44. A Lucca ci fu una selezione di tutte queste persone: i vecchi che avevano preso li scartavano, i ragazzi li avrebbero scartati, ma siccome io, essendo già un ragazzo abbastanza ben messo, purtroppo non sapevamo di andare a finire in Germania, ci dicevano che ci avrebbero portato a fare le trincee lungo Pisa, nelle retrovie di Pisa. Invece un bel giorno, non so, verso il 24, 25 – che ci abbiamo passato un po’ di giorni tra Monsummano, tra il castello e tra la Casa Pia – ci presero, ci caricarono sopra dei mezzi, dei camion, e ci portarono a Bologna. Partimmo di notte. Però non sapevamo dove andavamo.

Arrivammo a Bologna e arrivammo qui alle Casermette Rosse di Bologna. Alle Casermette Rosse di Bologna io credo che ci sarò arrivato verso il 24, così, ma ancora non sapevamo di essere andati in Germania; infatti, io dico sono stato portato in Germania il 26, ma io sono stato preso ben molti giorni prima della deportazione. Qui alle Casermette Rosse di Bologna fecero una selezione: numero 1 per la Germania, numero 2 lavoravano in Italia, numero 3 erano quelli senza un occhio, senza un braccio, presi durante altri rastrellamenti. Fui preso e trasportato… ossia, mi dissero che mi avrebbero portato in Germania, deportato per la Germania. E da quel momento, non potendo dare comunicazioni ai miei genitori, incominciai a scrivere nei muri, qui delle Casermette Rosse, “Pierini Pietro e Pierini Franco deportati in Germania”. Che poi dirò il perché di questo scritto. Da Pietrasanta…

D: Qui a Bologna, le Casermette Rosse dove si trovano? Cosa sono, in periferia?

R: Sì, sono qui in periferia, qui verso la parte di San Donato, nella zona qui della Bologna bassa, adesso io come bolognese… come toscano non gli so spiegare le zone buone di Bologna, ma…

D: Pietro, perché si chiamano Casermette Rosse?

R: Perché dicono che erano le caserme dei soldati, erano di mattone chiamate Caserme Rosse.

D: E quando tu sei stato portato lì alla carcerazione, chi c’era a fare le guardie, italiani o germanici?

R: No, eran tutti tedeschi. Tutti tedeschi. C’erano medici tedeschi che facevano la visita a coloro che venivano, e infatti ci facevano andare a petto nudo, e sopra il petto scrivevano: numero 1 Germania, numero 2 lavorare in Italia, numero 3 erano quelli che venivano scartati. Dopo due o tre giorni che eravamo lì in attesa di dove ci avrebbero mandati, mi… arrivò un ordine di caricarci sopra dei pullman e ci portarono al campo di concentramento di Fossoli. Io a Fossoli, assieme a mio fratello, siamo stati a Fossoli due o tre giorni, adesso non ricordo preciso se sono stati due giorni o due notti, non mi ricordo con esattezza, ma non più di tre giorni. Da lì a un certo punto arrivò un ufficiale che caricò dei pullman, e ci portarono verso le parti di Peschiera… di Verona! Preciso, di Verona.

D: Ecco, scusa Pietro, scusa se ti faccio queste domande ma è importante. Nel trasferimento dalle Casermette Rosse a Fossoli, c’erano solamente germanici, o come quando ti hanno arrestato…

R: No, solo tedeschi.

D: Solo tedeschi?

R: Solo tedeschi.  

D: Non come quando ti hanno arrestato, che oltre ai tedeschi c’erano anche…

R: C’erano anche le MM. No, io…

D: Cioè, degli italiani erano…

R: Italiani. Gli italiani li ho visti solamente nel rastrellamento, a Lucca e basta. Ma a Bologna, a Fossoli, e tutto il tragitto, eravamo con la SS.

Dunque, posso proseguire. Allora, portati a Fossoli arrivò un ordine, ci caricarono sopra dei pullman, e per sfortuna mio fratello rimase a Fossoli. A me mi presero e mi portarono a Verona. Verona in un salone. In questo salone dopo otto giorni arrivò mio fratello. Sentii della confusione e ritrovai mio fratello, mi ricongiunsi con mio fratello. Da quel momento sapemmo che noi si doveva essere portati in Germania, ed era più o meno il 26 di agosto. Da quel giorno io ho detto: il 26 di agosto sono stato deportato in Germania, perché prima parlavano di lavorare in Italia.

D: A Verona dicevi in un salone. Ma dove, in una caserma?

R: In una caserma. In una caserma. Che anzi, io dico ‘il carcere di Peschiera’ ma non credo che fosse il carcere di Peschiera, perché ho notato che il carcere di Peschiera è un po’ più lontano da Verona, ecco, ma più o meno, come si dice… tutto il concentramento era a Verona. Poi a sua volta un giorno, una mattina, ci riunirono tutti in un piazzale, e cominciarono a fare l’appello, a chiamare a nomi per rifare un’altra volta la colonna, per portare la deportazione in Germania. Certamente, io essendo arrivato un po’ prima fui chiamato Pierini Pietro, ma d’accordo con mio fratello dissi “ci hanno diviso a Fossoli, non vogliamo più essere divisi, perciò come ci chiamano Pierini Pietro, Pierini mi chiamo io, Pierini ti chiami te, facciamo i finti tonti e andiamo assieme.” E andammo assieme sul carro bestiame. Sul carro bestiame, eravamo circa una quarantina dentro il carro bestiame.

D: Ma alla stazione di Verona?

R: Di Verona. Da Verona a sua volta ci portarono a Innsbruck. A Innsbruck ci rifermarono, ci riportarono dentro un’altra volta dei saloni, non so che saloni erano, se erano caserme o che non glielo so dire, e di lì ricominciarono a richiedere chi era meccanico, chi era… Ah no, torno indietro, scusate mi sono confuso. Ci portarono… da Verona ci portarono a Bolzano. A Bolzano ci portarono in una caserma, un campo, non lo so, perché siamo stati un giorno e una notte. A mio fratello gli chiesero… Siccome sui documenti che ci presero, che avevamo in tasca, mio fratello era allievo fochista delle ferrovie, e gli fecero la proposta di fare il ferroviere insieme ai tedeschi. Allora lui gli disse: “Io accetto di fare il ferroviere pensando di andare in Germania, ma se fate stare con me anche mio fratello.” Loro gli dissero: “Il ferroviere sei tu non tuo fratello, in Germania ci va tuo fratello e tu stai in Italia.” Allora mio fratello disse: “No, io seguo mio fratello, e vado in Germania con mio fratello Pietro”.

Arrivati a Innsbruck. A Innsbruck purtroppo si riebbe un’altra volta la divisione fra fratelli, perché a me, sul mio foglio, sulla mia carta d’identità, c’era scritto apprendista meccanico, mio fratello c’era scritto allievo fochista. Lui era messo da una parte, perché lì facevano dei gruppi: dodici imbianchini, dodici contadini, facevano gruppi a seconda dove loro avevano bisogno di portare a lavorare. Però ci portarono di nuovo e rifecero, riformarono un’altra volta la tradotta. Mentre che eravamo alla stazione di Innsbruck rincontrai mio fratello, per puro caso, e ritornammo sopra il carro bestiame assieme, solamente che invece di essere quaranta praticamente eravamo in quarantuno, perché loro quando è… insomma, eravamo con una persona in più. Da Innsbruck a Berlino noi siamo stati sempre rinchiusi in questa tradotta, e lì è stato l’inferno che io ho potuto passare nel tragitto tra Innsbruck e Berlino. Ho subito un bombardamento nelle retrovie di… no, lo spezzonamento nelle retrovie di Monaco, poi il treno… la tradotta proseguì la corsa; a Norimberga ci riportarono su uno scartamento ridotto, sempre rinchiusi dentro: fame, sete, ogni tanto ci passavano con dei bicchierini di cartoncino della sbobba, una specie di riso bianco, non so cos’era, e ogni tanto qualche goccia d’acqua ci davano, ma comunque eravamo come bestie. E da lì risubimmo un’altra volta un altro bombardamento. Ma a Monaco spezzonavano e non cadevano gli apparecchi, ma a Innsbruck cadevano anche gli apparecchi, perché il cielo sembrava come gli storni di aeroplani, e cadevano bombe a tutto spiano.

D: Dopo Monaco questo?

R: A Norimberga, a Norimberga. Finito il bombardamento riparte la tradotta e arrivammo notte tempo a Berlino. Non so come si chiama la zona di Berlino perché Berlino ha molte zone, non so, ma comunque era un grandissimo campo anche a Berlino. E noi dicevamo sempre che arrivavano i compratori di bestie, perché venivano queste persone che avevano bisogno di 10, 20, 30, manodopera, braccia da lavorare, e compravano a noialtri, perché noi ci eravamo bestie, perché ci trattavano come bestie, dentro i vagoni, come le bestie. A sua volta, da Berlino, si venne a sapere che ci avrebbero portato, ossia ci fecero un gran numero di deportati, però non sapevamo noi dove dovevamo… la nostra destinazione. Però le voci, si svociferava “ci portano in un campo triste, in un brutto campo, che dice che di là dentro non si ritorna fuori, non si ritorna vivi”. Queste erano le chiacchiere che svociferavano nel momento della preparazione della traduzione. Arrivammo a Nordhausen, arrivammo…

D: Ecco, scusa, il campo di Berlino non te lo ricordi?

R: No, non mi ricordo il campo di Berlino.

D: Ti hanno immatricolato lì?

R: No.

D: Ah, niente?

R: A Nordhausen. Arrivati a Nordhausen ci buttarono dentro una caserma, non so se era una caserma, perché era roba in muratura. Da Nordhausen ci dettero una tuta, una tuta blu, in più ci dettero un numero, questo numero il mio era venticinquemila duecento sessantacinque [25.265]. Assieme a mio fratello ci portarono in una vallata – io sono venuto a sapere che adesso si chiama la Vallata della Dora, ma a quell’epoca, ragazzo com’ero o che, io non pensavo a questa Vallata Dora – e ci portarono in una baracca. Se dovessi dire il numero della baracca non la ricordo. Ricordo solo che alla mattina alle 5 arrivavano i tedeschi e cominciavano a dire “Italiener, raus für Arbeit”, e a piedi si percorreva una strada innevata, perché c’era già la neve; dovevamo passare due posti di blocco, che erano due cancelli, e fra questi cancelli c’erano i tedeschi con dei… non so se era chiamata la gendarmeria, avevano come dei medaglioni di traverso, e si arrivava all’imbocco della V2, della galleria, all’imbocco della galleria. Spiego l’imbocco della galleria.

L’imbocco della galleria era, come si vede nelle gallerie dei treni, c’erano due panzer all’ingresso della galleria, due tedeschi, come ripeto, con questi medaglioni, e noi passavamo tutta la colonna perché nella colonna dove eravamo noialtri di questa tradotta che durante il… veniva insomma caricata… la colonna dei deportati veniva aumentata da altre baracche, c’erano anche delle donne, polacche, che poi queste polacche dove andavano a finire non lo so. Comunque, si percorreva la galleria della famosa V2, il tunnel, e noi italiani andavamo oltre il ventesimo reparto. Io ero addetto a una fresa, a fresare un blocco di… non so se era un motore della V2 o di che cosa era. Questo blocco, io facevo con la fresa due piani, fresavo due piani di questo blocco, però il capò, il comandante, che ci dava questi ordini, mi spiegava come dovevo lavorare la fresa, ma io non capivo la lingua, non sapevo come adoperarla: tutte le volte che il mio blocco che andava al collaudo era sbagliato, perché ci mancava un millesimo da sbassare, e quando lui ritornava gomitate, gomitate, e io piangevo e non capivo, e lui mi diceva che io dovevo… ma non capivo niente. Finché ci fu una brava persona, una donna che teneva dietro alle donne polacche – perché c’erano alcune donne polacche che loro pulivano la fresa, pulivano il reparto, levavano i trucioli – mi disse che gli assomigliavo ad un suo fratello “tal egal mein Bruder” [così riporta il testimone, ndr], un affare del genere. Poi mi disse in parola tedesca “leise”, insomma “piano”, che mi fece capire che la fresa io la dovevo girare una manopola in più, che allora si alzava il piano, la fresa si abbassava e avrei corretto quello sbaglio che io facevo. Era una cosa semplice, che se questo capò me lo spiegava con delicatezza io può darsi che lo capivo e non prendevo botte. Questo capò lo chiamavamo ‘scimpanzé’, perché sembrava una scimmia, tutto peloso. Infatti mio fratello doveva prendere questo blocco come io prendevo, che lo fresavo orizzontale, mio fratello lo doveva fresare verticalmente. Se non lo bloccava bene veniva sbagliato. Infatti, a volte non lo bloccava bene, al collaudo era sbagliato, lui tornava là e lo menava, lo picchiava. E infatti a suon di calci e pugni gli fece andare quasi in cancrena una gamba, che poi gli americani, dopo, con le cure, gliela guarirono.

Io ci ho passato in questa galleria 12 ore di lavoro di notte, 12 ore di lavoro di giorno, una settimana di notte e una settimana di giorno. Una zuppa di carote e rape quando si lavorava, e una zuppa di carote e rape o quel che poteva essere quando si rientrava. Si dormiva in castelli di legno, io assieme a mio fratello, lui da piedi io da capo, quando eravamo in tanti. Quando eravamo in pochi…

D: Ma fuori dalla galleria dormivate, no?

R: Fuori dalla galleria.

D: Nel campo?

R: Nel campo fuori dalla galleria. Non ricordo la zona. Io ricordo la vallata della Dora, perché era una grandissima montagna fatta a ferro di cavallo, dalla parte diciamo sinistra c’erano tutte le baracche, mentre nel giro della collina sulla parte destra c’era l’imbocco della V2, della fabbrica.

D: Ecco, ma c’erano dei deportati che dormivano dentro nella galleria?

R: Ecco, noi sapevamo che oltre il ventesimo reparto c’erano deportati militari o tedeschi, o… che dormivano là dentro e che noi si diceva che erano… c’erano tedeschi giurati perché lì c’era l’assemblaggio del V2. Nei due ingressi della galleria, perché la galleria era formata da due ingressi con binari, entravano i vagoni del treno, uscivano anche i vagoni del treno coperti, e all’interno del vagone del treno sapevamo che dentro c’era – si svociferava perché non si poteva andare a scuriosare perché se no erano botte – dice che c’erano le famose V2 che uscivano. Subimmo – il secondo giorno di Pasqua in quel periodo – subimmo un bombardamento, che venne il lunedì di Pasqua. Questo bombardamento… Venne un bombardamento la sera alle 6, e ruppe i reticolati dove noi eravamo, e riuscimmo a scappare. Però mio fratello non era con me, era ancora… perché ci divisero, dal giorno che fu picchiato lo divisero, ci divisero, lui faceva la notte io facevo il giorno, ma eravamo quasi all’ultimo. Alla mattina alle 9 io ritrovai mio fratello, perché sfollai su per la collina, e ritrovai mio fratello nella confusione dello sbandamento. Poi cosa successe? Che quando mio fratello ci siamo ritrovati, alla mattina alle 6 ritornò un secondo bombardamento. Il secondo bombardamento che tornò la mattina fu più pesante di quello della sera alle 6. Incominciarono a venire gli apparecchi dalla parte, posso dire, opposta dalla collina, che andavano verso Berlino, per dire adesso la posizione, mettiamo da sud a nord. Noi spaventati già dalla sera cercavamo di scappare, vedevamo gli apparecchi lì, cercavamo di scappare. Invece ci fu – anzi questo particolare lo dico perché l’ho sempre tenuto in mente – un militare che ci chiamò e disse: “No, andiamogli incontro agli apparecchi, che andandogli incontro agli apparecchi può darsi che nel cadere le bombe noi ci possiamo salvare”. E infatti fu così, che mentre si sentiva il fischio delle bombe che cadevano, questo militare ci dava – lui era più pratico per l’aver fatto il militare – ci dava praticamente gli ordini, di fare come si poteva fare: “buttatevi a terra, perché se state in piedi lo spostamento d’aria vi può sfondare lo stomaco”. E infatti arrivò il primo fischio delle bombe che cadevano. Arrivò il primo fischio delle bombe che cadevano. Quando cadevano queste bombe lui: “buttatevi a terra, buttatevi a terra”; noi ci buttammo a terra, poi dopo ci buttammo dentro un buco di bomba, esplosa pochi attimi prima. Dopo, dentro questo buco di bomba, passammo tutto il periodo… perché finito il bombardamento c’era il mitragliamento degli apparecchi, perché c’era uno sbandamento, persone che andavano a destra, persone che andavano a sinistra.

Dopo il bombardamento c’era i tedeschi che sparavano a chi scappava. Allora ci disse questo soldato: “stiamo fermi, aspettiamo che si calmi, facciamo imbrunire, venire verso sera, facendo finta di esser morti, e poi cerchiamo di scappare”. E così facemmo. Cercammo di scappare e andammo a rifinire su per delle colline, e giravamo per queste colline, il giorno si stava rinchiusi in un fiume e la sera si girava verso l’Italia. A un certo punto avevamo fame, dalla fame cosa si fece? Si raccolse della roba che trovavamo, rape, barbabietole, qualche cosa: il fumo fece scoprire dove eravamo. Arrivarono dei ragazzi vestiti, li chiamavano ragazzi della Todt, vestiti con vestiti della Todt, e ci presero e ci portarono dal borgomastro del paesino. Borgomastro del paesino – ormai la guerra stava per finire – ci disse: “noialtri non vi possiamo dare manforte o aiuto, queste sono delle patate lesse, lì c’è la ferrovia, andate via perché se sanno la SS che noi vi abbiamo dato un aiuto fanno lo sterminio anche su di noi”. Infatti salimmo sopra un carro bestiame, un carro di carbone. Questo carro di carbone, questo treno di carbone, arrivò ad Halle. Ad Halle ci fu un bombardamento. La tradotta, il treno si fermò e ci ripresero di nuovo, ma però ci prese la Wermacht. Non ci prese la SS, ci prese la Wermacht che ci portò dentro un altro campo di concentramento, ma non era più un campo di concentramento come quello dove io… era un campo di concentramento dove si lavorava… dove lavoravano otto ore, era una raffineria di benzina, dove lavoravano otto ore, dove davano da mangiare due volte al giorno. Infatti noi quando arrivammo, che eravamo pieni di pidocchi, e avevamo la scabbia frammezzo alle dita, mal vestiti come eravamo, con qualche straccio levato ai morti, quando ci fu il bombardamento: perché noi buttammo via ciò che avevamo addosso, perché prima di tutto era tutto sporco, pieno di morca, poi pidocchi che ne avevamo a volontà, e prendevamo i vestiti che trovavamo ai morti.  Arrivati a questo campo ci fecero la disinfezione e poi ci dettero la possibilità di andare a un’infermeria a curarci i nostri guai.

Una sera, verso le sette, venne un allarme. I tedeschi ancora lavoravano, e noi si diceva: “ma come fanno ancora a lavorare, che sentiamo i carri armati che sono qui a pochi chilometri e ancora lavorano”. Alla sera andammo a rifinire dentro un bungalow insieme ai tedeschi, alla mattina alle cinque arrivò la liberazione degli americani, e ci liberarono gli americani. E io credo che fosse stato dopo Pasqua, non ricordo però, è sempre in aprile, ma i giorni non me li ricordo.

La grande confusione dello sbandamento, l’arrivo degli americani, c’era… Io, non era il mio campo, non avevo odio con nessuno di lì perché non erano i tedeschi che mi avevano tenuto prigioniero nella zona della Dora, ma quelle persone che stavano lì da mesi, c’erano anche i militari, si buttarono a cercare i loro comandanti per cercare di menarli, di picchiarli. Invece io e mio fratello andammo a rifinire in un magazzino dove c’era ogni ben di Dio, e io riuscii a raspare e prendermi una bracciata di salami, che dalla voglia di mangiare ne mangiai uno, che mi bloccò l’intestino che poi gli americani – mi vennero dei dolori atroci di stomaco, di pancia – mi fecero una specie di lavaggio, mi svuotarono, e riuscii a liberarmi. Lì sono stato… siamo stati in una baracca per venticinque italiani, fra cui una ragazza, Despina, una certa Despina, greca, che era sposata a un toscano, un alpino, e questa ragazza – tutt’ora vive in Toscana – questa ragazza aveva perso, nel campo di Buchenwald, aveva perso il babbo e la mamma, ed era orfana. Allora questo soldato poveretto l’ha… ne ebbe compassione e la sposò per procura. Lì passammo parecchi mesi. Passò maggio, aprile, marzo, maggio, giugno, però arrivò che gli americani non ci rimpatriavano, poi gli americani ci lasciarono, se ne andarono perché fu divisa la Germania, e vennero i russi. Con i russi, a sua volta, decidemmo di ripartire, perché coi russi non è che ci dassero da mangiare come ci davano gli americani. Il capo baracca decise di poter rientrare.

Scappammo, da soli, insomma, sempre con questi mezzi, col treno, e arrivammo a Zuf, un paesino chiamato Zuf, che era al confino fra russi e americani. Solo che i russi non ci facevano passare, e si stette lì altri due o tre giorni in attesa di poter passare il confino. Finché un bel giorno ci fu un’anima buona, ci fece passare e rimanemmo tra il tratto neutro tra i russi e gli americani. Lì c’era seminato il segale, non è un grano ma ha la spiga come il grano. La fame, noi mangiavamo il segale strogolato così perché era nel periodo di giugno, finché uno dei più anziani del nostro gruppo si avvicinò ai confini degli americani e lì c’era un paisà, un americano che disse: “io non vi posso far passare dal posto di blocco ma passate dalle retrovie, che io farò finta di sparare per aria ma voialtri continuate”. Infatti noi riuscimmo a passare, oltrepassammo il confino degli americani e andammo nella zona degli americani. Ci presero di nuovo gli americani, la Croce Rossa, ci dettero da mangiare, una carta annonaria che aveva valore di 24 ore, poi ci avevano detto: “lì c’è una tradotta pronta, prendete la tradotta e uscite da Zuf”. Noi prendemmo questa tradotta e arrivammo a Norimberga.

Arrivati a Norimberga la tradotta si fermò, solamente che c’era una truppa negra, i negri, gli americani neri, e c’era la storia della quarantena. Noi la quarantena non la volevamo fare, e allora si diceva: “ragazzi, qui se ci fanno fare altri quaranta giorni quando ritorniamo a casa?” E cercammo di andare per conto nostro. Trovammo un treno che andava verso l’Italia, salimmo su questo treno, ma per disgrazia ci riportò di nuovo a Zuf. Ritornammo indietro, con fame, un’altra volta con la fame, sete, trovavamo quel che trovavamo da poter mangiare. A sua volta decidemmo, si disse “beh, a questo punto qui è meglio decidere, faremo la quarantena ma ritorniamo dove vogliono”, e ritornammo a Norimberga. A Norimberga, convinti che ci riprendessero, che ci portassero a fare la quarantena, invece arrivammo ad Innsbruck. Arrivati ad Innsbruck ci fecero una disinfezione, fecero la disinfezione con ddt sotto le ascelle, fra le gambe. Poi ci inquadrarono, ci ricaricarono sopra una tradotta, e riuscimmo a passare il Brennero.

Passati il Brennero ci prese in consegna la Croce Rossa. Dal Brennero arrivammo – strada facendo – arrivammo a Bologna, ma non più coi vagoni chiusi, ma bensì coi vagoni aperti, con le gambe di fuori a sedere, e arrivammo a Bologna. Da Bologna proseguì il treno per Ancona, noi toscani proseguimmo per Pietrasanta. Proseguendo per Pietrasanta passammo da Porretta, perché la direttissima era stata buttata giù, non c’era più la galleria, non c’era la possibilità Bologna-Firenze da passare. Arrivammo a Pisa, con il treno. Da Pisa a La Spezia tutta la ferrovia fu saltata da pezzi, pezzetti, da… ogni quattro metri facevano saltare. Si venne a sapere che a Pietrasanta c’era stato fermo sette mesi il fronte, e si disse “va a finire che se siamo noialtri salvi e troviamo a Pietrasanta come abbiamo lasciato, tutti morti”.

Arrivammo a Pietrasanta, arrivammo in un posto chiamato Ponte della Madonnina, e c’era un casolare che era chiamato il Carraio, che era un signore che faceva i carri. Arrivammo, eravamo in sette pietrasantini – io, mio fratello, la Despina e altri pietrasantini – arrivammo in questo casolare, gli si dice: “guardi siamo dei deportati, siamo i figlioli del Pierini, chissà se…”; e ci fu una ragazza, dice: “guarda il tuo nonno è passato stamattina col carretto, e lui è vivo, e tutti vivi, i tuoi genitori sono tutti vivi”. Ma siccome noi a Bologna, qui, si vide un esempio che fu brutto, perché una mamma con la fotografia girava vagone per vagone per vedere se avevano trovato o se avevano visto il fratello, vi incontrò il figlio, e l’impatto con il figlio si venne a sapere che a lei gli venne male. Allora con quell’esempio lì, noi si disse a questa gente: “volete andare sotto casa ad avvertire i nostri genitori, a dirgli insomma ‘ci sembra di aver visto… mi sembra di aver visto, andate a vedere’…”. Infatti mio padre non c’era, c’era mia madre. Mandò i miei fratelli, Davide e Bruno, a vedere se effettivamente c’erano Pietro e Franco. Infatti io vidi scendere da questa salita della Madonnina Davide e Bruno, che… anche loro un po’ sbandati, perché eravamo vestiti male, magri, con dei vestiti con delle stoffe tedesche, una giacchetta tedesca, un paio di pantaloni tedeschi. Allora questi ragazzi, che fra i sei, quattro, sette prigionieri che eravamo lì, guardavano: “O Davide”, “o Bruno”, “son Franco”, “son Pietro”. E ci siamo rincontrati coi fratelli: “come sta la mamma?”, “la mamma è nella contratoia”, la contratoia sarebbe una traversa di strada. Andammo coi miei fratelli, e lei si può immaginare, dopo un anno non aver visto la mamma, a rivedere questa faccia di questa povera donna… non riesco a parlare.

D: Pietro, che mese era?

R: D’agosto.

D: Del ’45?

R: Del ‘45. E rividi l’immagine di mia mamma che ci venne incontro a braccia aperte: “Sono ritornati i miei figli, son tornati i miei figli. Il babbo è in piazza, adesso lo andiamo a chiamare”. Ci riunimmo in casa, e fra me e mio fratello ci abbracciammo. Siccome c’era un detto in Germania, dai vecchi, che dicevano “cerchiamo di arrivare a stasera, cerchiamo di arrivare a domani mattina, cerchiamo di portare il telaio a casa”, e io mi abbracciai con mio fratello Franco, e gli dissi: “O Franco, abbiamo riportato il telaio a casa, cerchiamo di riempirlo”. E abbracciai mia madre. Dopo venne mio padre, e assieme papà disse: “Finalmente sono arrivati i miei figli”. Però io chiesi a mia mamma, e mia mamma disse: “Abbiamo saputo che siete andati a rifinire in Germania da quando sono cominciati a rientrare alcuni prigionieri, perché vi hanno letto, che noi chiedevamo ‘avete visto i miei figli? Dice, ‘io non ho visto i vostri figli, però ho visto scritto sia a Bologna, nei muri di Bologna, Pierini Pietro e Pierini Franco deportati in Germania, l’ho visto scritto a Bologna e l’ho visto scritto a Verona’…” – o questo carcere, non so se era Verona o se era quello di Peschiera, io dico sempre Peschiera ma era Verona, la zona di Verona. Da quel momento siamo stati riuniti con la famiglia e questa è un po’ la mia storia. Ci sarebbe tante cose da dire, se ho tempo da dirle, se mi fate asciugare un po’…

D: Scusa un attimo Pietro, quando sei arrivato a Nordhausen, che vi hanno immatricolato, vi hanno dato anche il triangolo?

R: Sì ci han dato il triangolino rosso, che tenevamo sopra la… come si dice… tuta.

D: I campi che tu hai fatto in Italia sono stati: Fossoli…

R: Fossoli.

D: e Bolzano.

R: Bolzano.

D: Poi invece dall’altra parte, in Germania cosa hai fatto?

R: Berlino, da Berlino a Nordhausen, da Nordhausen in una baracca nella vallata dicono della Dora, non so se era quella della Dora o… perché lì c’erano tante baracche, non lo so. Comunque so che ero sotto Buchenwald.

D: E dopo hai fatto un altro campo?

R: Dopo il bombardamento sono andato a rifinire in un altro campo ad Halle, però non lo so come si chiama, non so se è quello che si dice che si chiama ‘Scopau’ [dizione corretta: Schkopau, ndr] o si chiama non lo so. C’era una raffineria di benzina. Io, vorrei saperlo anch’io cos’è questo campo, perché io ho fatto le ricerche, ossia anche mio padre. E io ho un documento a casa, che adesso oggi non l’ho portato convinto che andasse bene questo, della ricerca dei miei genitori, che c’è scritto che Pierini Pietro è stato a Scopau. Ma questo Scopau io non lo so cos’è, se è ad Halle, se è a Nordhausen, o se è dopo il bombardamento, i campi che noi abbiamo trovato dopo il bombardamento.

D: Pietro, scusa, ti ricordi… già hai detto che le donne le hai trovate durante la deportazione.

R: Sì, sì. Polacche erano.

D: Durante la deportazione ti ricordi se c’erano tra i deportati anche dei religiosi?

R: C’era un prete. C’era un prete, che era di Trieste, però non è che lui facesse… so che c’era un professore. Era gente di Trieste, che noi eravamo in mezzo a parecchi polacchi. Nella baracca dove eravamo noialtri c’erano pochi italiani, ma quei pochi che c’erano c’era un professore, un religioso – se era poi prete – a Nordhausen, insomma nella zona di Nordhausen, sempre dalla parte dove lavoravamo, della galleria.

D: Pietro…

R: Dimmi.

D: Oltre alle violenze che tu hai subito, le botte dei capò e anche tuo fratello che dicevi della gamba eccetera, tu sei stato testimone di altre violenze all’interno dei lager?

R: Vedevo picchiare altre persone, ma c’era poco da muoversi perché tu non ti dovevi muovere dalla tua macchina, dovevi solamente stare lì a … e vedevi, ma non ti dovevi interessare di quel che facevano gli altri… che facevano agli altri.

D: E atti di solidarietà, te ne ricordi?

R: No, non mi ricordo, perché io pensavo solamente a poter mangiare, quel che potevo trovare e basta. Ero un ragazzo, non avevo la furbizia che poteva avere un militare, avere una persona anziana.

Io volevo dire più o meno come facevamo ad arrangiarsi in questo campo. Porto un esempio, non so, per i vestiti, perché nessuno ci aveva dato dei vestiti da poterci cambiare, avevamo dei pidocchi addosso…

D: Ma in quale campo?

R: Nel campo sempre quando lavoravo dentro il tunnel della V2. Siccome lì passavano dei pezzi di stoffa da pulir la macchina, da poter pulire le frese, noi prendevamo questi pezzi di stoffa, ce li mettevamo come pezze da piedi. Oppure prendevamo della stoffa, ne mettevamo un pezzo davanti, un pezzo di dietro, una cordella di traverso; per metterli assieme quando si rompeva una cinghia della macchina prendevamo i filini della cinghia, e con un ago rudimentale che avevano fatto i vecchi mettevamo assieme ‘sto corpetto. E assieme a questo corpetto noi lo chiamavamo lo ‘spidocchiatoio’ perché ci andavano a finire i pidocchi, perché pidocchi ne avevamo a volontà. Eravamo rapati a zero, perciò in testa non ne avevamo, ma ne avevamo parecchi addosso.

Come pure… come si dice… l’arrangiamento per poter mangiare non so, una patata o una carota che potevi trovare nella spazzatura, nell’immondizia che andavi a raspare, che trovavi anche con quelle persone quando tu rientravi nelle baracche che lavoravano all’esterno, se gli portavi un pezzetto di stoffa loro ti davano il pezzetto di patata; c’era lo scambio per avere ‘sto pezzetto di stoffa per mettere dentro gli scarponi, che erano scarponi di legno con sopra… non erano di cuoio ma erano di tela, che erano chiamati volgarmente gli ‘sgroi’, alla toscana, non so se voi conoscete… noi si diceva gli ‘sgroi’, che è un legno ricoperto sopra con della tela. Allora c’era questo piccolo scambio, e allora si vedeva chi aveva, lo vedevamo e lo facevamo, bucce di patate, pezzetti, dito di carota. I vecchi avevano fatto un lambicco di ferro, un bussolotto che mettevano un filo attaccato al recipiente e un filo nell’acqua, attaccavano dietro la macchina della fresa, bolliva l’acqua e bolliva dentro quel pezzetto di carota o quella rapa che ognuno riusciva a trovare. Questo era un po’ il sopravvivere, oltre alla sbroscia che ci davano in questa gamella. E quando distribuivano il pane – questo ci tengo a dirlo – quando ci distribuivano il pezzetto del pane che era fatto a cassetta, che era pieno con la muffa sopra, un pane grigio, scuro, di segale, ne davano mettiamo, non so, a seconda la giornata, a seconda anche quanto loro ne avevano per distribuire, ne davano un pezzo e dicevano “questo è per quattro, o per cinque, o per dieci persone”, allora venivano fatti i pezzettini precisi e poi facevamo girare una persona e si diceva “a chi lo diamo questo pezzetto? a tizio, un pezzetto a caio, quest’altro a caio”. Invece c’erano alcune baracche che avevano i vecchi, polacchi o ucraini – perché con noi c’erano anche gente ucraina – avevano fatto una specie di bilancino con due affarini, quattro fili e due piattini di legno che bilanciava, mettevano un peso specifico da una parte, dall’altra doveva essere pari, quella era la razione da dividere. E quello era il nostro, più o meno, modo di vivere.

Poi c’era alla sera quando, la sera o la mattina, quando si rientrava dal lavoro, che ci mettevamo a sedere sopra ‘sto benedetto letto, e cercavamo di toglierci questi animali da dosso, che eravamo pieni di pidocchi o semi di pidocchi, che stavano in mezzo alle cuciture. E questa era un po’ la vita del campo.

D: Pietro, tu non sei mai stato intervistato in questi 55 anni?

R: No, mai stato intervistato.

D: È la prima volta?

R: È la prima volta che mi hanno intervistato. Perché io poi, essendo militare non ne potevo nemmeno parlare, perché una volta mi sono azzardato – e questo lo voglio dire con orgoglio – mi sono azzardato che sono stato prigioniero in Germania, mi sono sentito dire “tu in Germania sei stato a rubare”, perché nessuno ci credeva che a 16 anni un ragazzo fosse stato prigioniero in Germania. Siccome io ho vissuto da 50 qui a Bologna, e qui i bolognesi son bolognesi, si conoscono tutti, io sono una pecora bianca a Bologna come deportato, io sono conosciuto più come deportato in Toscana, in Versilia. Poi per disgrazia è morto anche mio fratello, nell’83, perciò non posso neanche dire mio fratello…. Sì, poter far parlare anche mio fratello.

LA REGISTRAZIONE FINISCE QUI. SEGUE TRASCRIZIONE DELL’ULTIMA PARTE D’INTERVISTA NON RIPORTATA IN AUDIO.

D: E in famiglia non hai mai raccontato della tua deportazione?

R: Nella mia famiglia da ragazzo se ne parlava. Da ragazzo se ne parlava, ma si parlava del più o del meno così, non è come adesso che viene più richiesto, vengano più fatte le domande, perché a quell’epoca, quando siamo ritornati dalla prigionia, chi comandava lì era chi era rimasto a casa, chi era stato prigioniero… Io perché sono stato nell’arma dei carabinieri? Sono stato nell’arma dei carabinieri perché quando sono tornato a casa – lo devo dire con orgoglio – aver fatto la prigionia della Germania se ne son fregati tutti, tutti. E dovevo andare a lavorare o in Belgio o andare in Canada o andare altrove, e io per poter sbarcare il lunario imparai a suonare la musica nel paese di Pietrasanta. Feci domanda come arma dei carabinieri. Quando sono stato a Roma sono stato a cavallo, nella fanfara a cavallo; quando sono tornato a Bologna ho chiesto che ero stato nell’arma dei carabinieri, nessuno ci credeva, ossia che sono stato prigioniero in Germania, nessuno ci credeva. [Finché] feci la richiesta a mio padre se mi mandava questo documento che io ho… che c’è scritto che sono stato prigioniero. Infatti, il mio foglio matricolare fu riconosciuto che io avevo fatto la deportazione in Germania, che mi fu dato un anno di anzianità nell’arma dei carabinieri come deportato in Germania. Ma di Germania ne parlavamo poco. Io ho cominciato a parlare di Germania da quando ho cominciato a conoscere l’… di Bologna, perché qua c’è un po’ più libertà di parlare, mentre fuori molti ci credono e molti non ci credono.

D: Tu hai figli?

R: Ne ho tre di figli

D: Lo sanno?

R: Io ho scritto un diario per i miei figli, una bella mattina mi misi a letto e dissi su una cassetta: voglio scrivere un ricordo, voglio lasciare un ricordo ai miei figli. E c’ho tutta la mia tragedia della Germania dal giorno che mi hanno preso al giorno che sono rientrato, sono 21 pagine. E c’è tutta la mia storia. Adesso io questa storia che ho raccontato qui a voi l’ho raccontata in breve perché avete il tempo che ci date, ma se dovessi raccontare… poi, raccontandola così, sotto queste luci e compagnia bella ci si confonde anche un po’. Poi ci si commuove.

Il Dado ce l’ha un libro che c’è il mio racconto quando sono arrivato in Germania.

È intitolato ‘Il viaggio’. Ce l’ha il Dado, dal giorno che mi hanno preso al giorno che sono entrato nel campo. Han fatto solamente quel pezzo lì, poi quello che ho passato nel campo non c’è scritto, però io ce l’ho scritto a casa.

Pavarotti Romolo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Romolo Pavarotti. Sono nato il 24.10.1925 a Milano.

Per gli spagnoli ero Ramon… [per i] deportati, spagnoli deportati, ero Ramon. Sono stato arrestato nel febbraio del ‘44 dall’Upi, l’Ufficio politico investigativo di Milano, che aveva sede in via Schiapparelli. Lì mi hanno trattenuto per otto giorni, interrogato sulle vicende dei fratelli caduti sul San Martino di Varese. Ovviamente sono stato seviziato, dopodiché, dopo otto giorni mi han portato a San Vittore.

D: Scusa Ramon, ti hanno arrestato dove?

R: In casa.

D: A Milano?

R: No, io ero andato di sfuggita in casa. Cioè, io ero latitante, facevo… sempre vicino a Varese ho portato ebrei in Isvizzera [Svizzera, con ‘I’ prostetica, ndr], facevo volantinaggio, portavo le armi, facevo tutto quel lavoro lì. Quando mi hanno arrestato è perché qualcuno mi ha visto, che io – erano case popolari – sono entrato di notte, verso le 2 le 3. Alle 5 erano già lì a prendermi.

D: A Milano questo.

R: Ero clandestinamente in casa, qualcuno si vede che ha…

D: Tu facevi parte di qualche organizzazione?

R: No, perché prima erano gruppi paramilitari, non esisteva ancora il partigiano. […] Ecco, facevo parte di gruppi paramilitari, che in un primo tempo, già nel settembre, dopo l’8 settembre, attraverso segnalazioni dei carabinieri, coi due fratelli e lo zio materno siamo andati sui monti di Tirano. Dopodiché, cacciati dai tedeschi, abbiamo riparato sulla Bergamasca, a Zambla. Anche lì erano i primi tempi di queste formazioni militari. Abbiamo dovuto anche lì fuggire da lì e siamo andati tutti sul San Martino di Varese, dove il colonnello Croce, comandante del Savoia Cavalleria, aveva costituito un gruppo paramilitare della Resistenza. Quando siamo arrivati al San Martino i miei due fratelli e lo zio sono rimasti sul monte, io invece sono stato aggregato a dei gruppi che portavano ebrei in Isvizzera. Dopodiché la fornitura di armi, volantinaggio, fare dell’antifascismo, in latitanza ovviamente.

Sono stato arrestato perché di notte ho voluto andare a trovare i miei genitori, e dopo un paio d’ore l’Upi mi ha arrestato. Mi ha appunto portato dove avevano la sede, in via Schiapparelli a Milano, seviziato per otto giorni. Dopodiché sono finito a San Vittore, e ci sono rimasto una notte, e siamo partiti per Mauthausen.

D: Ti ricordi quando siete partiti per Mauthausen?

R: Lì c’è quel libro di… che lo dice, lui mi pare che dica… perché non siamo partiti [subito] per Mauthausen, però noi ci siamo fermati otto giorni a Innsbruck, a Reichenau, dopodiché siamo andati a Mauthausen. Forse era i primi di marzo, cosa vuoi che dica… i primi di marzo…

D: Ti ricordi, da San Vittore ti hanno portato alla Stazione Centrale a Milano?

R: No, sotto la stazione.

D: E vi hanno portato come?

R: Con camion, con camion. […] Come dicevo sono rimasto una notte, con altri prigionieri politici, un centinaio. Con i camion ci han portati sotto le gallerie della stazione, caricati su due carri merci, carri bestiame lo chiamavamo noi, diretti verso Mauthausen. Però abbiamo avuto una sosta a Reichenau, Innsbruck, in Germania, Austria… in Germania a quell’epoca, e lì siamo rimasti altri otto giorni. Dopodiché, denudati di tutto, ci hanno portato a Mauthausen. Siamo arrivati…

D: Di Reichenau, di questo campo di Reichenau, di Innsbruck, cosa ti ricordi? Ti hanno immatricolato lì?

R: No. No.

D: E stavate tutto il giorno dentro nel campo?

R: Dentro in una baracca.

D: C’erano molte baracche che tu ricordi?

R: Sì, c’erano delle altre baracche, non molte però, altre baracche. Poi è diventato un campo di concentramento di transito.

D: Dopo otto giorni vi hanno ricaricati di nuovo…

R: E portati a Mauthausen.

D: Sempre lì a Reichenau, c’erano molti italiani? Solo italiani o anche altri?

R: Sì, sì, sì, italiani. Era una baracca di soli italiani.

D: L’arrivo a Mauthausen come te lo ricordi?

R: Da Reichenau, dopo otto giorni, ci hanno trasferiti, sempre su carri bestiame, a Mauthausen. Siamo scesi alla stazione e subito abbiamo avuto delle brutte sensazioni, tutti, perché c’erano le SS, coi cani che abbaiavano, loro gridavano, non si capiva nulla. Dopodiché siamo marciati verso Mauthausen, che è sulla collina dell’entroterra di Mauthausen. Dico un particolare, che, diciottenne come me, passando per il centro di notte, ho visto che c’è un cinema, e al mio compagno vicino ho detto: “Probabilmente domani veniamo a vedere un bel film!” Purtroppo, quando siamo arrivati sulla cima a Mauthausen, all’entrata di Mauthausen, la sensazione era proprio di terrore totale, perché tutta la coreografia era proprio di terrore. Gridavano, gridavano, gridavano. Dopodiché siamo finiti all’interno del campo, e tutti siamo andati alla doccia, al Waschraum, lo chiamavano loro. Dopo la doccia ricordo che, seminudi – ci hanno rasato il pelo da tutte le parti – e seminudi, con la neve che era nella piazza, era caduta, a piedi nudi siamo corsi al blocco. E lì al blocco numero 16, che era il primo blocco di quarantena, in quei pochi giorni che io sono rimasto, le sensazioni erano veramente brutte, bruttissime. I kapò cominciavano a pestare, cominciavano a esserci le punizioni, e quant’altro. Io però, dopo tre o quattro giorni è venuto un SS con un kapò, han chiesto di un elettricista, di un muratore, di un idraulico e di un falegname, e io ho alzato la mano dicendo che ero elettricista. Allora sono uscito fuori con gli altri tre, e il giorno seguente siamo partiti per un campo dipendente da Mauthausen, a Sankt Lambrecht, che è nella Carinzia.

D: Scusa Ramon, eri già stato immatricolato?

R: Sì, alla baracca ci hanno immatricolato.

D: E il tuo numero te lo ricordi?

R: Certo. Prima di partire in Mauthausen sono stato immatricolato col numero cinquantasette seicento dodici [57.612], che in tedesco voleva dire Siebenundfünfzigtausend sechshundertzwölf.

D: Oltre al numero, ti hanno dato anche qualcos’altro?

R: Sì, mi hanno dato una fascetta di metallo da mettere attorno al braccio… al polso. E invece la scritta su del panno bianco, col triangolo rosso con l’ ‘i ti’ [‘IT’] me l’hanno messa sulla giacca e poi al fianco del pantalone destro.

D: Quindi in un gruppetto di deportati siete state portati in uno dei sottocampi. Il viaggio come l’avete fatto da Mauthausen a questo sottocampo, a Sankt Lambrecht? Com’è che lo avete fatto?

R: Il viaggio da Mauthausen a Sankt Lambrecht, pare assurdo, ma l’abbiamo fatto su un treno normale, in mezzo alla altra gente, un po’ separati ma c’era altra gente. Ovviamente eravamo tutti ammanettati. Quando siamo scesi in questo paese, anch’esso bellino, ci hanno portato in un castello, il castello principale di questo paese, e lì, al primo piano di un’ala del castello, c’era questo piccolo lager che era un commando di ottanta uomini e dieci donne. Dopodiché mi hanno assegnato un lavoro su in montagna, a tagliare pini, portarli a valle, caricarli sui camion, portarli alla stazione e caricarli sui vagoni. E questo lavoro l’ho fatto per due o tre mesi, dopodiché c’è stato un avvenimento che stava per cambiare letteralmente la mia vita. Cioè, un deportato di nome Meda, che io ho conosciuto solo lì, che era nel mio gruppo di dieci che s’andava con un commando a lavorare su nei boschi. Dopo un po’ di tempo questo Meda… Era abitudine, quando si aveva dei bisogni, di chiedere alle SS “Commando Führer… Abort”, cioè dovevo fare i miei bisogni. Il Commando Führer ti lasciava andare nel bosco, il bosco era grande, e la sicurezza era piuttosto allentata perché, oltre al comandante, c’erano quattro delle SS. Un bel giorno questo Meda non rientra dai suoi bisogni e il Commando führer mi chiama “Italienisch, komm[st] Hier”, vieni da me, “Wohin [Wo ist] der andere Italienisch?”, dov’è l’altro italiano? Io ho risposto “Commando Führer, weiß Ich nicht, weiß Ich nicht”, io non lo so, “[…]”, cioè “cercalo, cercalo, cercalo!”. E io ho incominciato a chiamare “Meda, Meda, Meda”. Purtroppo il Meda oramai se ne era andato. Immediatamente siamo rientrati al campo, subito dopo mi han dato la punizione, che loro chiamavano minima, di 25 nerbate sulla schiena. Ad esempio… degli altri sapevano la punizione che aspettavano. Oltretutto io ero anche indiziato come collaboratore della fuga del Meda, ma che non era vero, era la deduzione che hanno fatto loro, quelli della SS.

Otto giorni solo al campo, al lager, questo piccolo lager, in attesa del mio destino. Nel contempo però avevo gli spagnoli. Ero giovanissimo, mi volevano molto bene, in particolare Agapito, che mi faceva da papà, da fratello, da amico, che mi reggeva. Mi diceva: “Ramon, devi avere fiducia, non perderti d’animo, io farò di tutto perché tu possa non andare alla Straf compagnia, dove la morte era certa rientrando a Mauthausen. E Agapito, che era lì dal 1940, quindi eran già quattro anni circa che era lì, e che già conosceva il tedesco, e che lavorava nella vaccheria del colonnello della SS, che era padrone di quei terreni, mi portava da mangiare di nascosto. Lui aveva accesso alla villa del colonnello, perché oramai sapendo bene il tedesco avevano fiducia in lui, andava anche a fare lavori in casa nella villa del colonnello della SS. In quell’occasione, un giorno, prima che prendessero il Meda, il colonnello disse – lui sentiva perché era in casa – “I due italiani li fucileremo non appena preso il Meda, perché deve essere d’esempio a tutti gli altri deportati che fuggire vuol dire morte.” Sentendo questo, Agapito si rivolge al colonnello della SS, e come diceva lui “ho detto una mentida, una grande”. Ha detto al colonnello della SS: “Ma Ramon no es… non è un italiano, es un Espanyol!” Il colonnello l’ha presa per buona, quindi la fucilazione non c’è stata, c’è stato il rientro al campo. Prima di partire però Agapito mi ha detto: “No te preocupe, non ti preoccupare che come arrivi vedrai che ti viene a prendere uno spagnolo e ti porta al blocco degli spagnoli.” Perché questa era una delle assurdità dei campi di sterminio insomma. E così abbiamo fatto il viaggio.

Il Meda l’hanno preso, l’hanno conciatissimo, perché l’ha preso la Gestapo. Lui commise l’errore dopo otto giorni di andare a chiedere da mangiare a due vecchi in montagna; loro gli han detto “sì però devi lavorare”, e nel contempo uno dei due vecchi è andato al paese ad avvisare la Gestapo che poi l’ha preso. E insomma, quando è arrivato a Sankt Lambrecht, nel campo, era conciato da buttar via. E lì c’è un episodio che segue, perché il comandante della SS ancora ha voluto che io, che non ero… non avevo colpa per la sua fuga, dovessi restituire il ‘Fünfundzwanzig’ che io ho preso. Così è stato. Mi han dato questo nerbo… mi han dato questo nerbo, io l’ho preso in mano, picchiavo, ma dato che non picchiavo forte, loro mi dicevano “zu schwer, zu schwer, più forte, più forte, si fa così, si fa così!” E alla fine, povero Meda insomma, ne ha prese tantissime altre, conciato com’era. In attesa di rientrare al campo, mentre tutto il commando andava a lavorare, io avevo cura di lui, diciamo così, tra parentesi, anche con una rabbia incredibile, però cercavo di curarlo, di dargli da mangiare per quel poco che c’era, e di parlare [del] perché è fuggito. La verità è che lui, d’accordo col […] master, che era il maestro del taglio, facendogli un’offerta… a furia di insistere su un’offerta di un mucchio di dollari che avrebbe lasciato su una banca di Lugano, è arrivato il giorno che questo gli ha preparato il sacco della fuga con dentro vestiti e da mangiare. Dopodiché è successo che lui non è riuscito a arrivare in Italia e si è fermato da quei due vecchi, e poi è rientrato.

D: Ecco, lì da Sankt Lambrecht poi tu sei rientrato a Mauthausen.

R: Sì, da Sankt Lambrecht appunto siamo rientrati a Mauthausen, e la bella… Con tutte le preoccupazioni che avevo io, ma non più di tanto, perché credevo ciecamente al compañero Agapito, quando sono arrivato lì, siamo stati lì la notte. Ovviamente, nella notte, sia SS che kapò, ubriachi dello Snaps. Lo Snaps era… prendevano la benzina e la filtravano e facevano questo Snaps che era 70-80 gradi. Si ubriacavano, e ogni volta che passavano via – noi eravamo legati a degli anelli di ferro, con una catena – si divertivano a… perseguitarci, insomma. Però alla mattina, all’alba, viene un SS con un kapò, prendono il Meda, e va. Non so dove può essere andato, sicuramente alla Straf compagnia. Viene un altro SS, con un Español, che mi prende in consegna, mi porta giù al Waschraum a lavarmi, mi dà dei vestiti, e poi mi porta al blocco 16, che era il blocco degli spagnoli… al blocco 12, che era il blocco degli spagnoli. E lì mi volevano tutti bene perché tutti sapevano la mia storia, tant’è che, avendo la mia qualifica di elettricista, sono riusciti ad inserirmi nel Commando Elettric. Il Commando Elettric era molto vicino al Krematorium. Il mio compito era, con la borsa delle lampadine, girare attorno al campo e cambiare le lampadine bruciate. Ovviamente questo lavoro mi consentiva di vedere tutto ciò che succedeva e sentire tutto ciò che dicevano. E quindi vedere anche gli orrori che succedevano, le fucilazioni che facevano contro il muro del Krematorium. E poi, un’altra scena che era normale tutti i giorni, è che quando ti alzavi e giravi il campo vedevi i reticolati dove passava un’elettricità a 5000 volt, c’erano sempre deportati che si aggrappavano per morire, per finire la loro vita, tremenda vita. Andavo pure a cambiare lampadine al Politische Abteilung, che era la baracca dell’Ufficio politico, e andare lì, sentire le grida degli interrogatori che le SS facevano era una cosa che… Ma oramai per me era diventata, diciamo così, una normalità. Facevo finta di non vedere, di non ascoltare. Però poi, considerato che eravamo al Commando Elettric, quando aggiustavano le radio delle SS, avevo la possibilità di sentire Radio Londra: quando gli altri deportati giravano la manovella delle radio, ad aggiustare, e sentivo anche le notizie com’erano, che poi io riferivo a un gruppo di antifascisti – c’era un gruppo, Pajetta e tanti altri, internazionale, nazionale e internazionale – e riferivo quello che sentivo alla radio, certamente con molta discrezione perché…

D: Ramon, ti ricordi quando sei tornato da Sankt Lambrecht a Mauthausen? Che periodo era più o meno, te lo ricordi?

R: Aspetta, fammi pensare. Era… Dunque, io sono andato a marzo, sono stato lì tre o quattro mesi – aprile, maggio – a giugno inoltrato sono rientrato.

D: Sei sempre rimasto poi a Mauthausen?

R: No! Io sono rimasto a Mauthausen altri dieci mesi, sempre lavorando nel Commando Elettric, dopodiché per un… Debbo dire che la SS che comandava il Commando Elettric era un SS di Merano, parlava un veneto bastardo, e per il primo mese mi perseguitava, “tu fascista, tu Badoglio, tu partisan, tu qui tu là”, e io negavo in assoluto, che non era vero, che ero in un cinema e che mi hanno preso in questo cinema. Dopo un mese di torture psicologiche, un giorno lui mi dice “guarda che se il kapò ti fa qualcosa di male me lo vieni a dire che io lo metto a posto.” Io ho sofferto le attenzioni del kapò per dieci mesi, specialmente quando andavo a lavare la centrale elettrica, mi disgustava quello che faceva, anche se non mi ha mai messo mani addosso. E un bel giorno, così, il Comando Führer mi dice “come va col kapò?”, e allora io dissi “quello fa sempre il cretino di fronte a me…” Non l’avessi mai detto. Il giorno dopo, due giorni dopo, mi hanno trasferito a Schlier, un altro campo dove ne sono uscito 42 chili, con la tbc, la flebite, la laringite, la faringite, la bronchite, insomma, sono uscito distrutto da questo campo. Lì noi operavamo in gallerie e si trapanavano le pareti delle gallerie, dove avrebbero messo la dinamite per far saltare tutto, perché in quelle gallerie veniva prodotto il propellente delle V1 e V2. Erano dei grandissimi serbatoi che venivano collocati su dei binari, tipo tram e treni, con direzione… in quel periodo si diceva ‘Inghilterra’. Quando questi serbatoi qui erano pieni di carburante, diciamo così, alla testa del serbatoio mettevano un’ogiva, che era una specie di bomba atomica, che poi veniva lanciato a Londra, Coventry, eccetera.

Senonché lì i tempi stringevano, da mangiare non ce n’era più. Oramai si sentivano bombardieri, i bombardamenti degli americani, dei russi, delle truppe alleate, diciamo così, e quindi la fine era vicina, tant’è che a fine febbraio… no, a fine aprile, si è incominciato ad evacuare il campo. Dei gruppi che ormai non si sostenevano più in piedi venivano caricati sul camion e portati al crematorio di Ebensee, gli altri invece che ancora potevano camminare come me, abbiamo fatto la marcia della morte. In questa marcia della morte, senza mangiare, camminare tanto, i bombardamenti continuavano, ci abbiamo impiegato sei o sette giorni a fare 80-100 chilometri per arrivare a Ebensee. Adesso non mi ricordo, il quinto o sesto giorno, noi vedavamo che tante SS di notte scappavano, rimanevano i più criminali. E di questo ci si accorgeva, quindi, specialmente gli spagnoli che erano ancora in sesto, erano molto attenti: “se arriva un qualche cosa particolare ci difendiamo.” Siamo arrivati dopo cinque giorni, siamo arrivati a un bivio di una salita – cinque o sei giorni – un bivio di una salita che conduceva poi a Ebensee. E lì, già prima di iniziare questa salita, ci han fatto riposare un attimo. Nel frattempo, noi abbiamo – guardando alto – abbiamo visto un grosso carro armato che si affacciava alla discesa, e a fianco con due jeeps, abbiamo capito che stavano per arrivare gli americani. Quel tempo per gli americani di arrivare dove eravamo è stato sufficiente perché le SS han cominciato a dire “Ich gut, Ich gut, Ich gut, noi non siamo stati cattivi con voi e quindi ditelo agli americani”, ma nel frattempo alcuni deportati hanno ucciso un gruppo di SS. Quando sono arrivati gli americani, che filmavano tutto, ci han lasciato altro tempo libero, dopodiché finito “ora vi portiamo in un campo di quarantena.” In quel frattempo, pur conciato da buttar via, ho avuto – dato che eravamo a ridosso di una via principale – ho avuto la grande gioia di vedere una macchina militare con su una bandiera italiana. E allora, con vicino me un altro italiano – che poveretto aveva 16 anni, aveva due anni meno di me – ho visto questa macchina, ho detto “qui, se andiamo in quarantena…” Allora ho chiamato “italiano, italiano, italiano, italiano”, e questi qui si sono fermati, ci hanno caricato, e poi ho detto “adesso portate via tutto quello che c’è da portar via”, dai carri, dove c’era ogni ben di Dio, si sono riforniti di ogni ben di Dio. Nel frattempo io, avendo ancora il terrore che potesse succedere qualcosa, mi ricordo che ho preso una tuta di una SS, verdastra, sgualcia, sporca, e mi sono levato subito il mio vestito a righe, per dire “se mi fermano ancora sono…” Così ho fatto, però quel vestito lì me lo son tenuto, mi sentivo più libero. Con questo gruppo di italiani…

D: Scusa un attimo Ramon, quando sei stato liberato, ti ricordi la data più o meno?

R: Sì, sì. Ovviamente sono stato liberato alle 6 di sera, alle 18 di sera, del 5 di maggio, che è stata contemporaneamente anche la liberazione di Mauthausen. Quindi c’è stata una coincidenza: si vede che le truppe in quel momento lì non trovavano resistenza, e quindi…

D: Un’altra cosa, in quest’altro sottocampo dipendente da Mauthausen, che si chiama dicevi?

R: Schlier.

D: Ecco, lì ti hanno immatricolato ancora?

R: No.

D: Eravate tanti italiani in questo sottocampo qui?

R: No. In quest’ultimo campo di Schlier la prevalenza erano francesi. Gli italiani erano pochissimi, veramente pochi, e quindi il dialogo era quasi sempre coi francesi, coi kapò, eccetera eccetera. Quindi questi francesi qui io li ho poi trovati, tant’è che mi sono iscritto anche all’Amicale de Mauthausen, perché loro volevano che mi iscrivessi, e sono iscritto tutt’oggi, e quindi partecipo anche ai loro incontri internazionali. Sono cose belle, però…

D: Ramon, ritornando allora alla macchina, quando tu hai fermato la macchina…

R: Con questa macchina, con questi militari italiani, abbiamo girovagato otto giorni, però col pericolo che i posti di blocco americani ci requisivano la macchina. E questo è successo più volte, almeno tre volte o quattro. Però, essendoci dei meccanici dentro, si andava in un campo dove c’era le macchine parcheggiate, mettevano in moto un’altra macchina, abbiamo continuato e siamo arrivati a Bregenz, sul lago dei tre Cantoni, Svizzera, Germania, Austria. E lì c’era un comando americano in un albergo. Questo comando prendeva metà di questo albergo. La proprietaria era una spagnola, e avendo vissuto tanto con gli spagnoli conoscevo abbastanza bene lo spagnolo, son andato a parlare a nome degli altri al titolare di questo albergo, gli dissi “fermi qui una notte, domani andiamo in Svizzera, passiamo il confine e andiamo in Svizzera.” Così è stata. Abbiamo passato una notte lì, ci han rifocillato, e all’indomani siamo partiti per il confine svizzero. Purtroppo lì non facevano passare nessuno, ci hanno ritornati indietro. Abbiamo dovuto ritornare a Innsbruck nel campo di Reichenau dove all’inizio c’ero già stato; e lì c’era un grosso concentramento di italiani che dovevano rientrare […] per Bolzano, dove c’era un campo di raccolta di tutti questi deportati, anche degli ospedali attrezzati per poterli… Anche lì ci siam fermati alcuni giorni, dopodiché è arrivata una colonna della Pontificia Commissione di Assistenza, han formato questo gruppo. Col mio amico ci siam dati da fare per rubare, tra virgolette, un camion, che sarebbe rimasto poi di nostra proprietà. Questo camion si è unito alla colonna della Pontificia Commissione Assistenza, e poi, quando siamo arrivati a Bolzano, lì c’era un altoparlante, con tanta gente, familiari che attendevano di vedere se i loro familiari si erano salvati o meno. E lì, come sono arrivato io, ma tanti altri, subito hanno fatto il mio nome, “Pavarotti Ramon, Romolo”, e la cosa è stata subito recepita dai pompieri della Pirelli, che era la ditta in cui lavorava mio padre, ha lavorato cinquant’anni. Quando han sentito… quando han sentito “Romolo Pavarotti” son venuti a prendermi subito, mi han caricato sulla Croce Rossa e mi han portato a Milano. A Milano c’è un centro di raccolta all’Alfa Romeo, sono arrivato lì – oramai il mio papà lo sapeva, gli amici lo sapevano – sono arrivato come se fossi un eroe. Dopodiché mi han portato a casa perché vedessi i miei genitori, e subito dopo mi han portato all’Ospedale Maggiore di Milano, dove ci sono stato per circa due mesi. Poi sono uscito, sono andato in convalescenziale, sono andato in sanatorio, e dopo dieci anni ho avuto anche una brutta ricaduta, dalla quale mi sono rimesso.

Dopodiché le cose da un certo punto di vista economiche sono andate un po’ meglio, mentre purtroppo ho avuto anche la disgrazia di perdere due figli, e forse quello è stato il dolore più grande, ma non solo quello. Ho saputo – in effetti l’abbiamo saputo dieci anni dopo – perché i fratelli e lo zio sono stati letteralmente fucilati e trucidati sul San Martino di Varese dalle SS, dai fascisti, messi in fosse comuni. E dopo dieci anni c’è stata la riesumazione, con il riconoscimento della morte presunta, e tutti quei ragazzi, trentasette ragazzi, che sono finiti in quelle fosse, sono stati tutti collocati nell’ossario del Monte San Martino, dove è stato eretto un grosso monumento. Debbo dire che quei dieci anni, particolarmente per i miei genitori… ma io già l’avevo dato [per scontato], conoscendo più le cose, addentrandomi nelle cose, che non sarebbero più tornati, e invece i miei genitori speravano sempre che loro fossero riparati in Isvizzera, alla fine della battaglia, come tanti altri paramilitari del San Martino, e che fossero da lì andati in Russia perché avevano dei grandi ideali. La mia famiglia ha sempre avuto dei grandi ideali. E dopo c’è stato questo riconoscimento di morti presunti, i cadaveri non sono stati riconosciuti, e appunto sono finiti tutti nell’ossario.

D: Ramon, chi ti ricordi dei tuoi compagni di deportazione? Oltre al Meda che dicevi che è scappato, chi altri ti ricordi?

R: Ricordo quelli del mio gruppo, che siamo arrivati, e che quindi c’era un rapporto di amicizia, di stima, di condivisione, dei perché siamo stati arrestati, per difendere, diciamo così, la democrazia, dal fascismo.

D: Qualche nome Ramon, qualche nome…

R: Eh di nomi, beh… c’era Ratti, c’era… Marostica, e poi… e tanti altri, in questo momento non mi ricordo proprio il nome. Ma l’amico più grande, il mio ‘Number one’, il mio numero uno, è stato Agapito, perché con quello che ha fatto, con la ‘mentira’ al colonnello della SS, che capiva che aveva detto una grossa bugia ma che ha voluto accettarla per buona, è stato possibile salvarmi la vita. Agapito era un Españolo che a 16 anni ha combattuto la Guerra civile di Spagna. Si è poi rifugiato in Francia, dopodiché è andato nella legione straniera, e dopodiché è andato nell’esercito francese, e purtroppo, raggirando la Maginot i tedeschi… loro erano nei campi vicino alla linea della Maginot, sono stati tutti presi, letteralmente portati a Mauthausen, e i nove decimi sono stati in breve tempo – lavoravano la cava della morte, la ‘Straf compagnia’ si chiamava – sono quasi tutti deceduti perché il lavoro della cava, della ‘Carriera’, come la chiamavano gli spagnoli, era durissimo. Grazie a Dio, appunto, invece il mio amico Agapito si era salvato, e ha salvato anche me, e gli debbo la mia vita. Pensare che lui, non avendo il mio… non avendo io il suo indirizzo, perché rientrando se si fosse salvato non poteva andare in Spagna, lui mi ha… io ho dato a lui il mio indirizzo, “se ti salvi scrivimi!” Il destino ha voluto che invece, purtroppo, per un cambio di indirizzo mio, ci siamo visti dopo 44 anni a Padova. Una cosa stupenda, meravigliosa, eccezionale. Poi io sono andato a trovarlo a Carcassonne, dove abitava, con la moglie, i figli, un paio di volte. Sono andato a un congresso di Perpignan, e l’ho trovato anche lì. Dopodiché lui, venendo via da Padova e trasferendomi a San Remo, è pure venuto a trovarmi a San Remo, e dopodiché non l’ho più visto. Ultimamente gli mandavo sempre lettere, avevamo un rapporto epistolare molto stretto, molto bello. Lui aveva incominciato a scrivere anche un libro, che io tengo, che è scritto in Españolo, ma realizzato in Spagna a Soneja, che era la sua città di nascita, dove era considerato un eroe, ma lui ha voluto tornare ancora in Francia, a Carcassonne. E in quest’ultimo periodo lui è stato poco bene, è stato all’ospedale cinque mesi, io non avevo più sue notizie. Finalmente – sia telefonare… non riuscivo più a comunicare – finalmente mi ha mandato una lettera, con un libro, scritto da lui “Sobrevivir a Mauthausen” [Agapito Martín Romaní, Sobrevivir a Mauthaussen, Segorbe (Castellón), Edición propia, 1997]. È l’ultimo messaggio… l’ultimo messaggio che mi ha lasciato, perché quindici giorni or sono è morto, e non posso più rivederlo. Ma non lo dimenticherò mai. Mai.

Fiorentino Leone

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

PRIMA PARTE

Io mi chiamo Fiorentino Leone, sono nato il 7 settembre 1923 a Roma.

Voglio dire che le mie vicissitudini sono iniziate con la emanazione delle leggi razziali nel 1938. Migliaia di cittadini italiani di religione ebraica furono messi in condizioni di non poter più lavorare, di non poter più esercitare la propria attività, e anche io, al pari dei miei corregionali della mia stessa età, o giù di lì, fui espulso da tutte le scuole del regno. A mio padre, per esempio, che era un modesto venditore ambulante che operava nel mercato di Piazza Vittorio Emanuele all’Esquilino, fu tolta, fu ritirata d’autorità la licenza di vendita, e dovette arrabattarsi, dovette incominciare a fare degli umilissimi lavori per potere mantenere la famiglia. Io cominciai a fare il ragazzetto di bottega. Più tardi, alcuni anni dopo, fui precettato ai lavori obbligatori lungo le rive del Tevere, lavori di sterro primariamente. Ma istintivamente questo lavoro non lo accettavo, proprio perché era imposto, e anche perché la paga oraria [era] di una lira e ottanta centesimi, in virtù del fatto che ero un minore della maggiore età, mentre gli altri operai in genere lavorando dieci ore al giorno – perché la giornata lavorativa era stabilita in dieci ore – guadagnavano tre lire e sessanta centesimi. Questa disparità mi inaspriva maggiormente, non tanto nei confronti della ditta per la quale ero obbligato a lavorare, ma mal sopportavo la imposizione da parte del regime fascista. Non che sapessi esattamente quello che facevo, ma era un modo mio di agire, come dire, spontaneo. Questo mio atteggiamento nei confronti della ditta appaltatrice e anche del regime mi costava notti da trascorrere in guardina. L’indomani mattina venivo accompagnato da un agente di pubblica sicurezza sul posto di lavoro e poi finivo per essere piantonato per tutto il giorno lavorativo.

In seguito fui arrestato e condannato a sei mesi di carcere, che scontai interamente nel carcere di Frosinone ove ero stato trasferito subito dopo la condanna. Gli articoli del Codice penale che mi erano stati affibbiati erano tre, e ognuno di questi articoli mi comportava una pena da un minimo di sei mesi a tre anni di reclusione l’uno. L’imputazione era questa: vendita abusiva di generi di vestiario, che erano allora tesserati, così come erano tesserati gli articoli che riguardavano i generi alimentari, e per propaganda antifascista. A Frosinone fui costretto a lavorare nel locale fornace, che era situata ai piedi della cittadina, al pari di altri detenuti che con me erano arrivati da Roma a Frosinone, in sostituzione di tutti quegli operai della ditta della fornace che erano stati richiamati alle armi. Qui…

D: Scusa Leone, quando questo? In che anni?

R: Nel 1943. Nel 1943. Quindi la paga, così come era stato stabilito attraverso un accordo tra la direzione del carcere e la direzione della fornace, riconosceva per dieci ore lavorative a ogni detenuto che prestava la sua opera nella fornace una paga di 15 lire il giorno. Però di queste 15 lire la direzione del carcere se ne appropriava letteralmente, sottraendole a quanti effettivamente spettavano. E venivano riconosciute ad ogni detenuto soltanto le 5 lire rimanenti. Era un grosso vantaggio economico, sia per la direzione della fornace che risparmiava un sacco di soldi perché la giornata lavorativa di un operaio era di 36 lire per dieci ore lavorative, e le altre 10 lire venivano sottratte illegalmente dalla Direzione che se le pigliava totalmente. E questo sistema sempre istintivamente non lo accettavo, e quindi lavoravo anche qui molto molto svogliatamente, creando non pochi guai. Raccoglievo i blocchi di fango semisolido che uscivano da una taglierina… da una impastatrice, che dall’alto, attraverso un canale di legno, arrivava davanti a un operaio, che con una taglierina a compasso, con molta maestria bisogna dire la verità, tagliava in tre pezzi. Bisognava raccogliere questi tre pezzi così tagliati e metterli su un carrello che poi si spingeva fino a un capannone dove si doveva mettere ad essiccare prima che fossero messi nella fornace. Bene, da parte mia questi tre pezzi immediatamente ritornavano ad essere unici, un pezzo unico, e questo, anche qui, mi costava decurtazioni di paga e nello stesso tempo camere di punizione. Finalmente la direzione del carcere della fornace si decise a liberarsi di me, e quindi incominciai a trascorrere le mie giornate in camerata insieme ad altri detenuti. Ogni camerata aveva grosso modo dai venti ai ventidue ai ventitré prigionieri.

Cade il fascismo il 25 luglio, le carceri si stanno vuotando. Credo di poter essere liberato, ma non c’è una disposizione nei miei confronti, perché quanto serve alla direzione per poter mandarmi via è qualcosa che deve arrivare dalla centrale di polizia di Roma, che allora era a Piazza del Collegio Romano. Ma questo documento non poteva certo giungere perché attraverso i bombardamenti le linee di comunicazione erano totalmente rovinate.

Il 25 luglio cade appunto il fascismo. Si fanno congetture tra detenuti, si pensa che la guerra ormai sia finita e che si comincerà a vivere in maniera diversa. Ma non è così. I bombardamenti continuano e comunque, per non sottostare al pericolo incombente, poiché i bombardamenti avvenivano quasi tutte le notti in maniera massiccia, alcuni detenuti – intanto erano passate delle settimane, erano passati dei mesi – alcuni detenuti presero contatti con la direzione del carcere perché facesse scendere i detenuti durante le incursioni aeree giù in basso. Ma l’ottusità del direttore non lo permise e si decise di tentare una evasione in massa, quando uno dei continui bombardamenti più forte degli altri in questo caso lo avesse permesso. Capita questo bombardamento, e i detenuti scagliano le brande sulle serrature delle porte, e la nostra porta, quella della nostra camerata, è la prima a saltare. A un malcapitato secondino gli prendono le chiavi, qualcuno si incarica di aprire tutte le porte del piano e si scende durante il bombardamento intenso le scale che portano giù in basso, come bestie feroci terrorizzate. Ma un comando di carabinieri che facevano parte della caserma dirimpettaia – diciamo – del carcere, dopo aver sparato alcuni colpi in aria per intimorirci, ci sospinse ancora sul piano da dove eravamo discesi. E quindi trascorremmo tutta la notte con la faccia rivolta verso il muro e le braccia alzate, i moschetti con la baionetta innestata, puntata alla schiena. L’indomani mattina veniamo trasferiti giù in basso nelle celle di punizione, e siamo in molti ad attendere l’interrogatorio di ognuno perché si potesse valutare la colpevolezza di ognuno di noi. Ma intanto un reparto di soldati tedeschi, al comando di un loro ufficiale e da un tenente dell’esercito italiano che funge da interprete, invade tutto il piano terra. Un breve discorso dell’ufficiale tedesco e si riesce a capire che – perché tradotto appunto dall’ufficiale italiano – che il comando tedesco di stanza a Frosinone non vuole assumersi la responsabilità di tenere esposti ai bombardamenti gli unici civili quali i prigionieri sono, e quindi mette in libertà tutti coloro che hanno una pena da scontare non superiore ai cinque anni. Gli altri saranno trasferiti in altre carceri. Vanno via i tedeschi, e quelli che hanno maggiori anni da scontare rinchiudono gli esterrefatti secondini nelle celle di punizione e si danno alla fuga.

Esco dal carcere insieme ad alcuni altri compagni di sventura e ci dicono… riusciamo a sapere che alla stazione dovrebbe transitare una tradotta militare che dovrebbe andare verso Roma. Dopo molte ore arriva carica di soldati stracciati, affaticati, moralmente soprattutto. Dicono che per loro ormai la guerra è finita, e nella maggior parte dei casi sono stati abbandonati dai loro comandanti e quindi ora sono diretti verso le loro case. Dopo molte ore di viaggio si arriva a Roma. Esco, prendo un mezzo pubblico che va verso il quartiere dove abito, il quartiere Testaccio, ma non so rendermi conto perché piccoli e grossi mezzi militari tedeschi carichi di soldati armati di tutto punto transitano per Roma. Roma che era stata dichiarata mesi addietro Città aperta, quindi mi dicevo che doveva sicuramente essere accaduto qualcosa perché tutto si fosse in una qualche misura rivoltato. Alla stazione, o meglio, alla Piramide, in prossimità appunto di Porta San Paolo, c’erano i segni di violenti combattimenti e quindi una desolazione. Scendo dal mezzo appunto e poiché abitavo poco distante da lì, a piedi raggiungo la mia abitazione. I miei genitori… Quindi, una volta arrivato a casa, i miei genitori mi dicono delle tremende giornate trascorse, la combattività dei granatieri italiani e popolani romani malissimo armati contro il potente contingente corazzato tedesco che riesce a penetrare in città e a presidiarla. In un secondo tempo io seppi che in quei giorni di battaglia i morti furono 146, di cui 27 donne. Devo presentarmi alla centrale di polizia a piazza del Collegio Romano per convalidare la mia uscita dal carcere. Però la polizia non si sapeva bene da che parte stesse; le bande fasciste, sotto il controllo relativo dei tedeschi, si erano formate di nuovo e comunque i tedeschi, benché glielo avessero permesso di ricostituirsi, non si fidavano di loro, e perciò decisi di non presentarmi. Però sapevo di essere ricercato e quindi, malgrado tutti gli accorgimenti, fui catturato dalla polizia fascista il 3 dicembre 1943.

D: Dove? A casa tua?

R: A casa mia. Ma la casa era disabitata, perché le mie sorelle erano presso amici di famiglia e altrettanti amici di famiglia, che abitavano accanto al nostro appartamento rimasto vuoto, erano… ospitavano me e ospitavano mio padre e mia madre. Quindi fu un caso… C’era il coprifuoco, era tardi, e quindi dissi a mia madre: “Bene, se devo andare in quel posto, presso altri amici, per ripararmi dalle insidie, voglio andare a prendere qualche libro per leggere.” Infatti entro dentro casa, ma non appena entro sento lo squillo del telefono e penso che sia mio padre che vuole mettermi fretta. Invece erano tre agenti di pubblica sicurezza in borghese, che dopo avermi domandato dove fossero i miei, dissi che non potevo saperlo poiché da pochissimo ero uscito dal carcere e quindi non potevo dare altre spiegazioni. Ma perché vennero a ritirarmi… ad arrestarmi in quel frangente a casa? Perché avevo girato tutto il giorno, poiché mi sentivo seguito, per allontanare da me i due agenti di pubblica sicurezza in borghese che mi seguivano. Quindi prendo il tram, faccio poche fermate, scendo a Porta Castello perché stavo lì a Viale Giulio Cesare; a Porta Castello mi inoltro in quelle viuzze scure e strette, e lì giro attorno per molte ore, sperando di avere fatto perdere le tracce a questi poliziotti. Quindi molto tardi arrivo a casa, tanto è vero che mi trovo all’altezza di Ponte Vittorio – perché Borgo Pio si trova proprio sul Lungotevere all’altezza di Ponte Vittorio – attraverso il ponte, e qui mi pare che sono un po’… come dire, non più seguo un certo discorso: attraverso il ponte, prendo a Corso Vittorio il primo mezzo, il primo autobus che capita, e che va verso Piazza Venezia. Però mi pento. Mi pento perché dico, a Piazza Venezia? Piazza Venezia è piena di fascisti e di polizia! Ma ancor prima non posso scendere perché all’altezza della Cancelleria c’è il Palazzo Braschi dove c’è la banda Pollastrini, Bardi e Pollastrini. E quindi, una volta a Piazza Venezia, decido di proseguire e scendo a Via Nazionale – a metà di Via Nazionale – percorro poi tutta via dei Serpenti, arrivo a Via Cavour. Là prendo un’altra circolare che mi porta al Colosseo, e di lì la circolare rossa che mi porta a Testaccio. Quindi io ho capovolto la situazione. Vengo arrestato a casa perché quei due che mi avevano seguito mi avevano ben individuato e quindi avevano potuto comunicare ai loro colleghi che mi trovavo in quella situazione.

Dopo moltissime settimane nel carcere di Regina Coeli, e altrettante settimane nel penitenziario di Castelfranco di Modena, [arriva] quindi il trasporto su pullman nel campo di Fossoli, vicino Carpi.

D: Scusa Leone, quando ti hanno arrestato a casa tua, ti hanno portato subito in quale carcere?

R: Non in carcere, in camera di sicurezza.            

D: Dove?

R: Nella camera di sicurezza del commissariato di Testaccio.

D: E ti hanno rivolto qualche imputazione?

R: No.

D: Ti hanno interrogato?

R: No.

D: Solo ti hanno arrestato?

R: Solo.

D: Lì sei rimasto quanto tempo?

R: Tutta la notte. L’indomani mattina fui… con un furgone carcerario fui trasferito nel carcere di Regina Coeli.

D: Sei stato interrogato lì?

R: No.

D: Ti hanno messo in cella isolato o con altri?

R: Con altri delinquenti comuni.

D: Questo è accaduto quando? Te lo ricordi?

R: Eh sì. Dunque… subito dopo il 3 dicembre del ‘43.

D: E poi tu dicevi che ti hanno trasferito ancora?

R: Sì.

D: Da Regina Coeli…

R: Da Regina Coeli nel penitenziario – non direttamente però – dal penitenziario di Castelfranco di Modena. Da lì poi…

D: Non direttamente in che senso?

R: Perché tentarono, i militi della Decima Mas, tentarono di… – me e altri due prigionieri che si trovavano, civili naturalmente, che si trovavano sul pulmino – di farci pernottare, perché anche loro volevano pernottare, nel carcere di Firenze. Però il direttore si impose, disse che non c’erano documenti necessari perché noi potessimo… essere, si fa per dire, ricoverati… fossimo rinchiusi lì. E quindi a malincuore questi militi ripartirono. Cioè, si ripartì tutti quanti verso Bologna, perché si percorse tutta la montagna pistoiese fino a Torretta Terme, e poi ancora giù fino a Bologna. A Bologna invece non ci fermammo, ma il pulmino si fermò a Castelfranco di Modena.

D: Lì sei rimasto anche lì nelle carceri a Castelfranco?

 R: Sì.

D: Una notte o più giorni?

R: Più giorni.

D: Sei stato interrogato?

R: No. No.  Quindi ci fu il caso che di lì a pochi giorni un altro gruppo abbastanza folto di ebrei romani – donne, uomini, bambini – giungesse appunto da Roma. Dopo pochi giorni tutti quanti – fui aggregato a quel gruppo – e tutti quanti fummo portati nel campo di Fossoli, vicino Carpi, in provincia di Modena.

D: Quando sei entrato nel campo di Fossoli ti hanno immatricolato?

R: No. No, assolutamente no.

D: E in che blocco ti hanno messo?

R: In che blocco io sinceramente non te lo posso dire. Comunque noi uomini, di quel gruppo, fummo tutti messi in una baracca, in un blocco, che era semivuota, poiché alcuni giorni prima c’erano state delle partenze, e quindi noi eravamo andati a rimpiazzare, si fa per dire, quelli che erano partiti.

D: Cos’era… dicembre, quando sei arrivato a Fossoli?

R: No, dopo, perché io ho fatto molti mesi di carcere. Tra carcere Regina Coeli, tra Castelfranco di Modena, erano passati dei mesi.

D: Sei arrivato quindi a Fossoli quando più o meno?

R: Verso, grossomodo… verso la prima quindicina di maggio, se non vado errato. Sì.

D: Nel ‘44?

R: Nel ‘44 certo, nel ‘44. Ormai il ‘43 era passato.

D: E lì a Fossoli sei rimasto quanto?

R: A Fossoli pochissimo. Pochissimi giorni, e quindi la partenza su carri bestiame per la Germania, per Auschwitz, Auschwitz Birkenau. Settanta o ottanta persone di ambo i sessi e senza nessuna distinzione di età per ogni carro. Tra i lamenti dei più deboli, tra i pianti atterriti dei bambini, soprattutto i lamenti strazianti delle donne e anche delle persone anziane. Il viaggio durò sette interminabili giorni. Ricordo questo: quando si arrivò ad Auschwitz – dopo lo sapemmo che si trattava di Auschwitz – mentre si scendeva sotto i colpi di bastone sferrati con forza su ogni dove, una donna mi è sempre rimasta impressa, una donna ancora giovane, in preda sicuramente a una crisi isterica, disse più volte: “Ma non sentite che puzzo di bruciato c’è nell’aria?” Però nessuno gli dette retta. Effettivamente il cielo era cupo, sembrava una cappa di piombo, e il puzzo di bruciato c’era.

D: Scusa Leone, quando tu dici Auschwitz, intendi Auschwitz I o Birkenau?

R: Lo stavo dicendo. Quindi ci trovavamo appunto ad Auschwitz, Birkenau. Auschwitz era una vasta zona di oltre 40 chilometri quadrati, fitta di campi e sottocampi, con altre denominazioni, ma tutti facenti capo a Birkenau, che era il vero centro dello sterminio.

D: Scusami ancora Leone, quando il tuo transport è arrivato a Birkenau, il treno è entrato dentro nel campo o fuori si è fermato? Se ti ricordi.

R: Il treno si è fermato sulla rampa, che era – diciamo, si può dire – dentro questo grande complesso di campi. Lì ci fu la prima selezione, le donne con le donne, gli uomini con gli uomini. Ma soprattutto c’erano le suddivisioni ulteriori che riguardavano grossomodo l’età delle persone e, a detta o a parere, diciamo, dei tedeschi, delle SS, e anche dei capi, che poi erano anch’essi prigionieri, quelli che avevano il bastone in mano come segno di riconoscimento, come segno di potere, e a loro volta comandavano un infinito numero di altri prigionieri vestiti con la casacca e i pantaloni a righe, che si muovevano con sveltezza, quasi correndo, per non subire le sollecitazioni a suon di bastonate di questi che erano considerati i capi. Erano i veri e propri capi, perché poi la organizzazione interna del campo era in mano ai triangoli verdi, che erano delinquenti comuni, e ai triangoli neri, quelli che venivano definiti asociali, ma che poi, nella mentalità tutta teutonica, erano quelli che non avevano diritto di vivere, ma comunque erano stati delegati a comandare, erano stati delegati a sancire condanne anche di morte senza dovere poi risponderne ad alcuno.

D: Tu arrivi a Birkenau che è quando?

R: Attorno alla prima metà di maggio. Infatti, il numero che ho corrisponde grossomodo a quella data. Dopo un brevissimo periodo di quarantena

D: Dopo la selezione sulla rampa cosa è successo?

R: È successo che fummo spogliati completamente di tutti i nostri vestiti, fummo rapati, tosati sulla testa, sotto le ascelle, attorno il pene, e quindi, dopo una doccia freddissima – si diceva di disinfestazione [disinfezione, ndr] – il vestito a righe di tela, casacca e pantaloni e un berretto della stessa stoffa a forma di basco. Ai piedi soltanto zoccoli di legno.

Fui assegnato al commando, al Wasserkommando, al commando acqua, uno dei Kommandos più cattivi, così si diceva in campo, poiché la mortalità dei suoi componenti era altissima. Si dovevano percorrere circa 9 chilometri di strada fangosa, per arrivare poi alla zona paludosa, dove dovevamo entrare nell’acqua stagnante per tagliare dell’erba acquatica. Un lavoro inutile, un lavoro che non serviva a niente, ma che serviva, nelle intenzioni delle SS, a far sì che si morisse di fatica, se non direttamente con un colpo di pistola, o magari attraverso una delle selezioni. Le selezioni avvenivano all’improvviso. Si doveva passare tutti nudi davanti un ufficiale tedesco che non sempre era medico, ma indossava un camice bianco, e senza tenere conto delle effettive condizioni del prigioniero che gli passava davanti, ne decretava la morte: o vai a destra o vai a sinistra. Molto spesso capitava di dover andare a morire anche [a] quei prigionieri che ancora potevano essere, diciamo così, valide forze, potevano ancora essere… usati come manovali, come uomini di fatica, come uomini…

D: L’immatricolazione, come ve l’hanno fatta? Come te l’hanno fatta?

R: L’immatricolazione avvenne prima, subito dopo l’arrivo ad Auschwitz, o meglio, a Birkenau. Subito dopo, diciamo, la vestizione. Il tatuaggio fu fatto con un ago bagnato di un certo liquido, da gente, prigionieri naturalmente, che si ingegnavano di scrivere nel migliore dei modi, facendo una serie di punture. Comunque, salvo casi eccezionali, non è che questo desse motivo di febbre o altro. E quindi ci fu l’assegnazione al posto di lavoro, al commando di lavoro, e ripeto, io fui assegnato al Wasserkommando che operava nella zona paludosa.

D: Leone, siccome a Birkenau l’immatricolazione avveniva in modo molto particolare rispetto agli altri campi – perché il numero vi veniva anche tatuato, dicevi – com’è che avveniva? Eravate in piedi, tutti in fila?

R: In piedi tutti in fila, chiamati per ordine alfabetico, chiamati per ordine alfabetico. E quindi con questo ago una serie di punture, tanto da disegnare il numero… da trascrivere il numero che si voleva, ma che era seguente al primo e via dicendo.

D: Il tuo numero?

R: Il mio numero è: A 5399.

D: E poi oltre al numero che vi hanno tatuato sul braccio vi hanno dato anche il numero di stoffa?

R: Sì, unitamente ad un numero di stoffa e davanti il numero corrispondente a quello tatuato sul braccio, un triangolo giallo, e così anche un altro secondo talloncino di stoffa, con le stesse caratteristiche, da appiccicare, da cucire sul pantalone sulla gamba sinistra.

D: Il blocco di Birkenau te lo ricordi?

R: Sì, il blocco numero 8. Il blocco numero 8, uno dei peggiori. Io ero un Häftling, un prigioniero che stava all’ultimo gradino della scala sociale del campo, erano quelli che dovevano morire prima, erano quelli che facevano i lavori più bassi, più pesanti. E quindi in questo lavoro, in questo commando, ci ho trascorso oltre sei mesi.

Voglio dire che il campo… nel campo c’era la pulizia massima, ma fuori delle baracche però. Davanti ad ogni baracca, davanti l’entrata di ogni baracca, c’era una grossa aiola ben fiorita, ben tenuta, la Lagerstrasse, la strada in terra battuta che tagliava il campo in senso verticale, e nel suo insieme dava l’aspetto… il tutto aveva l’aspetto di un piccolo paese di campagna pulito ed accogliente. Dentro le baracche, invece, oltre mille uomini, asserragliati dentro le buche dei castelli di legno, in dieci o dodici persone per ogni buca – i posti erano per due praticamente persone – in un groviglio di ossa, di maledizioni, di bestemmie in tutte le lingue, come in una nuova torre di Babele. Si tiravano calci, con quelle poche forze che si avevano, per cercare di sistemare meglio le proprie ossa. E poi c’erano i Mussulman. I Mussulman erano quelli che orinavano dappertutto, soprattutto la notte, bagnando non solo di urina ma anche di liquido diarrotico [per diarroico] i cuscini e dava un odore insopportabile. I ‘mussulmani’, quelli che venivano chiamati Mussulman, non erano altro che povere persone, poveri esseri umani che di umano effettivamente non avevano più niente. Scalzi, imbrattati di sangue, pieni di croste, girovagavano per il campo in cerca impossibile di qualcosa da mettere in bocca. Però bisogna dire che le loro condizioni facevano pensare che avessero perso il senso del ragionamento. Aspettavano così, incoscientemente, la morte.

Si lavorava non certo per produrre. Si lavorava per morire, perché il lavoro che si faceva – sotto le continue bastonature, sotto le continue angherie, le vessazioni e poi il lavoro per se stesso duro così com’era – ci faceva vivere nel terrore continuo di essere ammazzati, o di morire di stenti.

D: Leone, nel Block con te c’erano altri italiani?

R: Nel mio commando c’erano soltanto tre italiani, e guarda caso tutti e tre romani. Nelle baracche vicino c’erano qualche altro italiano, e non a caso, così come facevano del resto tutti: i francesi con i francesi, i milanesi cercavano il compagno milanese perché potesse scambiare, non dico qualche impressione, ma perché potessero magari ricordare quanto era rimasto in loro come ricordo della vita passata.

Comunque, eravamo dei condannati a morte, perché nel momento in cui si metteva il piede dentro il campo si era destinati a morire. Non a caso le SS, quando arrivavano nuovi prigionieri, venivano accolti grossomodo con una frase di questo tipo: “Voi siete in un campo di sterminio” – o meglio, in un campo di concentramento, non parlavano di sterminio – “un campo di concentramento tedesco da dove non si esce se non per il camino.” E questo era tutto.

C’era l’orchestra, che allietava le ore lunghissime dell’appello, sia all’alba, sia alla sera quando si rientrava dai vari posti di lavoro. Chiunque, chiunque avrebbe potuto pensare appunto che si trattasse di un paesino pulito e accogliente. Mentre l’orchestra suonava dolci melodie, fuori del lager passavano colonne interminabili di uomini, di donne e di bambini, che andavano inconsapevolmente a morire in una delle camere a gas. Molto spesso, prima che suonasse la sveglia, quindi prima dell’alba, si era costretti, cinquanta uomini per volta, di uscire completamente nudi dalla baracca e lì sulla neve o nel fango, o nella terra polverosa, ci si doveva distendere per terra, e poi sotto il fioccare delle bastonate, o comunque di altri corpi contundenti, ci si doveva arrotolare prima da una parte, poi dall’altra, quindi tirarsi immediatamente su e poi subito giù di nuovo, e questo per circa mezz’ora o forse di più. Questo era considerato un saggio ginnico, come mezzo di allenamento vero e proprio che ci portasse a riscaldare i muscoli per il lavoro poi che più tardi, poco più tardi, si sarebbe andati a fare. Molto spesso quattro o cinque persone rimanevano sul posto, morte. E non sempre erano i più malati o i più vecchi.

D: Leone, scusa, sempre quell’immagine del paesino lindo e pulito, il Waschraum com’era?

R: Il Waschraum era il blocco dei lavatoi. Ma ancor prima del Waschraum c’era il Block delle latrine. Dunque, lungo tutta la loro lunghezza, c’erano tre muretti di cemento, in senso verticale naturalmente, costellati di fori su cui bisognava… si doveva necessariamente sederci. Ma per pochi istanti soltanto però, perché davanti a ognuno di quelli che ci erano seduti sopra, lunghissime file di prigionieri con i pantaloni per un po’ calati, pronti per essere tirati definitivamente giù, sostavano in attesa. Ma ripeto, quelli che ci stavano seduti sopra a questi fori [rimanevano] solo per pochi istanti, perché venivano strattonati via, venivano malmenati da quelli che ritenevano di essere più in forza, da quelli che erano capi, quelli che erano i sottocapi, quelli che erano i servi dei capi. E poi si passava al Waschraum. Il Waschraum anche aveva tre – sempre in senso verticale – tre canali di cemento dove sgorgavano dai piccoli tubi dell’acqua puzzolente. Là ci si doveva in qualche maniera tentare di bagnarsi, non dico di lavarsi. Ma anche qui si subivano le angherie più feroci, perché c’erano quelli che erano definiti i capi, oppure i Prominenten, quelli che avevano certi incarichi e quindi erano abbastanza floridi, poi avevano la possibilità di organizzarsi, di cambiare facendo magari piccoli favori in cambio di saponette o di asciugamani, o di spazzolini dei denti: questi con tracotanza non volevano nessuno accanto a loro, e picchiavano maledettamente con quanta forza avevano per punire chi magari soltanto casualmente era passato loro accanto.

D: Scusa Leone, il tuo commando di lavoro dicevi era il commando dell’acqua.

R: Il Wasserkommando.

D: Tagliare queste canne di palude…

R: Sì, più che canne erano erbacce, erbe, molto folte, molto…

D: Quante ore voi dovevate lavorare?

R: Noi, salvo la quasi ora di riposo per mangiare quel po’ di zuppa che ci veniva distribuita – fredda oltretutto, perché veniva dal campo – dieci ore, all’incirca. Quindi, si dovevano percorrere i 9 chilometri per arrivare alla zona paludosa. Si lavorava pressoché nudi, perché altrimenti si sarebbe costretti poi a rimettersi la divisa bagnata. Quindi c’era quell’ora di riposo, si fa per dire, per mangiare quel po’ di brodaglia. Era circa un litro di acqua e cavoli, più acqua che cavoli in verità… Perché anche lì c’era un’angheria, perché quando ci si metteva in fila per passare davanti al Vorarbeiter – che era quello che col mestolo in mano travasava la zuppa in quella specie di scodella di metallo che ci portavamo sempre appresso – bene: non girava, non mescolava quanto c’era dentro, e quindi le foglie di cavolo, i crauti andavano a fondo, andavano a fondo e gli altri pigliavano soltanto un litraccio di acqua puzzolente. Ma quello che rimaneva a fondo serviva al Vorarbeiter e al sottocapo, di organizzarsi ancor meglio facendo… ricevendo poi dei favori più grandi, certo.

D: E non c’era giorno di sosta, diciamo la domenica?

R: La domenica. In genere la domenica non si lavorava, però si era obbligati. D’altra parte era anche necessario rivolgersi al Rasier della baracca. I Rasier erano piccoli capetti che avevano avuto la mansione di possedere un rasoio e un pennello da barba, e quindi radevano tutti coloro che dovevano necessariamente radersi, perché sarebbe stato oltremodo pericoloso non radersi, o comunque non farsi radere. Però per ingraziarseli, questi Rasier, bisognava portare loro una mezza razione di pane, o magari quel pezzettino di margarina che una volta ogni tanto ci passavano, allora uno la teneva da parte per poi darla a questo Rasier. E questi, senza scrupoli, si atteggiavano a capi, e quindi facevano il bello e brutto tempo. Se quanto il prigioniero, una volta davanti a lui, mostrava soltanto la mezza razione di pane, e non era gradita da lui, erano botte, oppure, con cattiveria, il sapone che era rimasto sulla lama del rasoio, te lo pulivano addosso alla casacca. Se reagivi prendevi botte da lui: non solo, ma diventavi il peggior nemico di tutti quei prigionieri che ti venivano appresso, che stavano appresso a te, perché dicevano che tu con quell’atteggiamento avevi creato che il Rasier si innervosisse e se la prendesse quindi con tutti. Quindi i tuoi stessi compagni erano diventati nemici.

D: E tu sei restato in questo commando di lavoro sei mesi?

R: Sei mesi. Poi fui trasferito con tutto il commando di lavoro nel campo di Stutthof, vicino Danzica. Perché il fatto fu piuttosto, come dire… piuttosto importante. Nello stesso tempo però un fatto eccezionale: perché il commando di lavoro che operava nel crematorio, che era nelle immediate vicinanze della zona paludosa, riuscì a far saltare e a distruggere il crematorio stesso. Ma questa fu una operazione andata a male, perché era stata organizzata in un’altra maniera, e quei prigionieri, quei componenti di quel commando non furono… non potettero essere avvisati, perché avrebbero dovuto soprassedere di fare quell’azione. Comunque, oltre cento di quel commando furono trucidati dai tedeschi, e noi del Wasserkommando fummo – nella tarda serata, nel tardo pomeriggio, poi venne la sera – dovemmo raccoglierli tutti e tirarli all’asciutto, tirandoli fuori dal fango dove erano mezzo affossati. Quindi arrivammo in campo, e un ufficiale tedesco ci parlò a lungo. Eravamo l’ultimo commando di lavoro che stava rientrando, perché da ore tutti gli altri comandi, oltre ventimila persone, erano in attesa che il quadro completo dei prigionieri dei comandi di lavoro fosse presente nel piazzale principale. Riuscimmo a capire soltanto che non avremmo dovuto fare parola di quanto avevamo visto e di quanto eravamo stati protagonisti, pena la eliminazione fisica di tutto il commando di lavoro. Quindi ci collocammo nel nostro… nell’assetto generale, quello che era il posto del Wasserkommando, e quando finì l’appello si entrò nella baracca. Ma poi non andammo più al lavoro perché fummo reclusi letteralmente per alcuni giorni, diciamo lontano da tutti, e poi aggregati a un Transport che ci condusse poi a Stutthof.

SECONDA PARTE

R: A Stutthof vi era impiantata una fabbrica per la produzione di sapone. E lì fui impiegato nei vari comandi di lavoro a trasportare pietre, a scaricare sacchi di cemento o a caricarli, a scaricare addirittura ghiaia dai carri ferroviari, in cinque persone, e soltanto con le mani nude perché gli attrezzi necessari non erano numericamente sufficienti. E poi ancora in altri campi, e sottocampi…

D: A Stutthof sei stato nuovamente immatricolato?

R: No.

Quindi, in una lunga serie di campi e sottocampi meno conosciuti, anche dislocati in zone remote e di difficile identificazione, e poi ancora nei campi di Hayingen – più  che campi erano cave di pietra – per oltre 10 ore al giorno; e anche a Natzweiler, per le stesse ragioni e per lo stesso tipo di lavoro, a spingere i carri ferroviari, sì, ma anche carri da miniera carichi inverosimilmente di materiali ferrosi, in cinque persone, perché cinque era per le SS il numero esatto, non si doveva essere più di cinque. E quindi ancora un altro campo, e questo fu Dachau.

A Dachau il numero, oltre il numero tatuato sul braccio sinistro, ne fu dato un altro: il 150.319. Noi siamo arrivati a Dachau in un periodo sotto un certo aspetto fortunato, perché fino a poche settimane prima c’era stata una violenta epidemia di tifo petecchiale, che aveva letteralmente vuotato il campo. Comunque, una volta reso sovraffollato, il campo di Dachau appunto, che era semi circondato in quel periodo preciso – si stava verso la metà dell’aprile del ’45 – il campo superaffollato e semi circondato dalle truppe alleate, venne deciso dalle SS che tutti i prigionieri militari che erano rinchiusi nei campi di concentramento, appunto militari, esistenti nella vasta zona, fossero evacuati da quei campi e portati a Dachau. Però per far posto a loro, gli ebrei via via venivano trasferiti altrove, e non si sa dove. Anch’io fui tra questi.

Dopo alcuni giorni di viaggio in treno – non so se il treno andava soltanto in una direzione o se poi magari lo si faceva tornare indietro – fummo fatti discendere e incominciò una lunghissima marcia così incolonnati. Un tragitto stentato, colpi di arma da fuoco ma soprattutto di mitra colpivano tutti coloro che rimanevano addietrati. E comunque venivano uccisi anche coloro che in un impeto di solidarietà… cosa mai vista prima, la solidarietà, ma in quei frangenti sì, per aiutare il compagno che stentava a seguire il passo. E quindi ci si allontanava il più presto possibile da quel compagno che stava in difficoltà, perché ormai era diventato soltanto un bersaglio da colpire.

Ma intanto attraversiamo una collinetta innevata, e una frase corre tra la lunga colonna: “Ist fertig Krieg”. È finita la guerra. Ma è possibile? Sì, è possibile perché larga parte delle SS di scorta erano fuggite, ma quelli rimasti sparavano colpi di mitra indiscriminatamente su tutti. Alcuni prigionieri li vedo che si gettano a lato di questa collinetta innevata e io, facendo degli sforzi terribili, li seguo: e giù, un ruzzolare continuo sulla neve ghiacciata fino ai piedi di questa modesta altura. Ci ritrovammo, dopo poche centinaia di metri, davanti un cartello che indicava Innsbruck a 30 chilometri distante. I miei compagni erano tutti ungheresi, complessivamente eravamo in sei: cinque ungheresi più il sottoscritto. Con molta difficoltà raggiungemmo Innsbruck e qui qualcuno disse che i russi avevano liberato Vienna. Logicamente questi compagni di sventura andarono in quella direzione. Ed io continuai il viaggio verso il Brennero. Sono tornato a Roma – dopo una ventina di giorni circa nell’ospedale civile di Vipiteno – e sono tornato a Roma, appunto, il 27 maggio 1945. Inutile dire che appresi con gioia che i miei più diretti familiari si erano salvati, sani e salvi. Piuttosto, o meglio, più tardi, appresi dolorosamente che altri sedici nostri parenti, più lontani, erano stati catturati dai fascisti e consegnati ai tedeschi. Purtroppo di loro nessuno è tornato.

Mi ricordo un particolare a Vipiteno, o meglio… sì, a Vipiteno, perché dal Brennero mi fu fatto prendere il treno che non andava oltre Vipiteno. Ero stato indirizzato presso una famiglia che [era] originaria di Trento e che aiutava tutti coloro che rientravano e che avevano bisogno di… in qualche modo, essere aiutati. Mi disse: “Lei” – mi dava del lei – “lei non deve temere più nulla, qui non ci sono più né tedeschi e né fascisti. Vedrà. Lei è ancora giovane, si rimetterà presto. Quanti anni ha? Sessanta?”

D: Leone, allora: Fossoli, Birkenau. Birkenau, ci rimani sei mesi, circa?

R: Sì, oltre sei mesi.

D: Quindi fino al dicembre, gennaio?

R: No, a ottobre, perché a ottobre Birkenau incominciò ad essere in qualche misura evacuata. Poi come si sa fu liberata il 27 gennaio del ‘45 dalle truppe sovietiche. I continui spostamenti nei vari campi, piccoli e grandi, sconosciuti o meno, in una certa maniera, non so se si può valutare più pesante quel periodo di quello trascorso a Birkenau o meno, o viceversa. È stato un continuo temere di morire ammazzati o di morire sfiancati dalla fatica.

D: Ecco, proprio questo. Quindi a ottobre riparti da Birkenau e ti portano?

R: A Stutthof.

D: E lì ci rimani più o meno quanto tempo?

R: Non molto tempo. Non molto tempo perché quando eravamo a Stutthof i sovietici erano, se non vado errato, a una ottantina di chilometri dal campo.

D: Da lì ripartite?

R: Sì, per altri campi, sconosciuti, in zone deserte, di difficile identificazione.

D: Non te ne ricordi?

R: Come? E come è possibile? Uno me ne è rimasto impresso: era un hangar, un vecchio hangar, circondato naturalmente dai reticolati. E in questo hangar, in metà… la metà di questo hangar era occupato dai castelli di legno sovraffollati di prigionieri, l’altra metà invece era adibita a movimenti di camion, di soldati, era la parte dove la mattina, o meglio all’alba, si faceva l’appello e dove poi lo si ripeteva alla sera.

D: Il luogo non te lo ricordi?

R: No.

D: Poi altri campi ancora?

R: Altri campi, sempre in zone desolate e deserte. Desolate… che cosa potevamo, con quali mezzi potevamo dire “ci troviamo in questa zona”? Era assolutamente impossibile.

D: Fino ad arrivare a Dachau.

R: Fino ad arrivare a… Ma prima di Dachau ci fu Natzweiler, e ancor prima Hayingen. Hayingen era poi il campo principale di una zona dove c’erano altri campi di concentramento di cui poi c’era Natzweiler.

D: Tutti questi trasferimenti come li hai fatti?

R: Su carri bestiame.

D: Ed eravate solo uomini?

R: Sì, si era rigorosamente, come dire… si era rigorosamente divisi. Ci si poteva anche incontrare durante il lavoro con altri comandi di lavoro che magari erano composti esclusivamente da donne, ma questo avveniva non molto spesso comunque. Per esempio, questo particolare [lo] voglio dire, che mi sono dimenticato. Nel campo di Auschwitz, o meglio di Birkenau, le categorie da eliminare erano: i politici, gli ebrei, i testimoni di Geova, gli omosessuali, gli zingari, i russi, i triangoli verdi e i triangoli neri. Però non è come si può credere. Ognuna di queste categorie di prigionieri erano contrassegnate da triangoli di colore diverso. Non è come si può credere che si stesse tutti insieme, perché le varie categorie erano suddivise, diciamo, erano rinchiuse in campi diversi: gli omosessuali con gli omosessuali, gli zingari con gli zingari, e via dicendo. Comunque, questi campi, che erano anch’essi circondati da filo spinato con il passaggio della corrente ad alta tensione, erano distanti soltanto poche decine di metri l’uno dall’altro. Era una serie di campi. Solo nel campo principale, che aveva rinchiusi dentro oltre ventimila prigionieri, era costituito da politici, ebrei, triangoli verdi e triangoli neri, e tutti dalla diversa nazionalità. I politici non subivano le selezioni così come avveniva esclusivamente per gli ebrei, però i politici avevano un vantaggio penso su tutti gli altri, perché la loro ideologia politica li teneva, ecco come dici tu, più sostenuti, più sollevati. E comunque avevano una bassissima percentuale di salvezza, perché il duro lavoro lo subivano, le sevizie le subivano, le malattie, il freddo, la diarrea e quanto altro, li colpiva maledettamente. I russi, come contrassegno avevano una ulteriore striscia di rasatura sulla testa che partiva dalla fronte fino alla nuca, e come segno di riconoscimento ulteriore un disco rosso di stoffa appiccicato, o comunque cucito dietro la casacca, che era il simbolo inequivocabile dal significato ‘bersaglio da colpire’. Gli ebrei invece venivano uccisi o per le sevizie o per il lavoro forzato, ma più spesso ancora la selezione e quindi la morte per gasazione.

D: Scusa Leone, Fossoli, Birkenau, Stutthof, e poi tutti gli altri campi che tu hai fatto, durante tutto il tuo periodo di deportazione, non hai mai potuto comunicare con l’esterno del campo? O ricevere…

R: Ma come si poteva? Auschwitz, o comunque Birkenau, poiché era soltanto a 2-3 chilometri, distava dal confine italiano, se non vado errato, qualcosa come 3000 chilometri. Questo poteva succedere con i polacchi, poteva succedere, e sicuramente sarà accaduto con i russi; ma ai francesi, ai turchi – perché c’erano anche turchi – ai greci, agli italiani, ai francesi l’ho detto, e a quante altre nazionalità ci fossero, non era assolutamente possibile avere contatti con altre persone.

D: Durante il tuo periodo di deportazione non sei mai stato ricoverato al Revier?

R: No, mai. La prima cosa che si imparava, poi era difficile metterla in atto, era quella di non presentarsi mai nel cosiddetto ospedale, nel Revier, perché di là non si usciva vivi. E allora se avevi la febbre alta, se avevi il mal di gola, se avevi magari la polmonite, e se ancora avevi un po’ sano il cervello, non ci andavi.

D: Hai mai subito punizioni?

R: Io le punizioni me le sono andate a cercare, ne ho prese quante ne ho volute, ma questo ricevere colpi dappertutto e da tutti, anche dai miei stessi compagni, non italiani, non perché gli altri mi portassero rispetto, ma dava a me la forza di resistere, perché mi dicevo: se io cerco in qualche maniera di non fare questo lavoro o di non farlo comunque come lo si vuole, cercando di non farmi vedere, magari adottando piccolissime astuzie – mi dicevo – è preferibile rischiare di prendere delle bastonate che perdere un etto di ciccia, perché non si rimette più.

D: Quindi hai ricevuto punizioni?

R: Sì, sì. E ne ho fatte anche prendere, incolpevolmente, perché chi lavorava con me era destinato a prenderle anche lui. Erano diventati tutti nemici praticamente.

D: Questo a Birkenau?

R: A Birkenau, sì. A Birkenau.

Io ho avuto un carissimo amico, diventato carissimo amico nella prigionia, e con lui ho trascorso molti mesi di prigionia. Eravamo arrivati a dividerci quanto riuscivamo a racimolare, cambiando la zuppa con altre cose, e poi tornando a cambiare queste cose per il pane e via dicendo. Un lavoro difficoltoso, perché era vietato entrare nelle altre baracche diverse da dove si era alloggiati. E quindi questo rischio lo si correva per cercare di mandare giù nello stomaco qualcosa che ci desse – come potevano essere le bucce di patate – che ci potessero dare una maggiore sensazione di sazietà. Questo caro amico, anche perché lui, anche lui romano, piccolo di statura come me, grossomodo avevamo la stessa età, a volte passavamo… ci scambiavano per fratelli, e noi non avevamo assolutamente niente da dire su questa fratellanza inesistente. Purtroppo lui non ce l’ha fatta. Quanto io ho scritto, quanto ho scritto l’ho dedicato a lui.

D: Che si chiamava?

R: Renato Sonnino.

D: È mancato a Birkenau?

R: No, non l’ho visto. Dopo Birkenau noi abbiamo passato lunghi mesi insieme. Tanto è vero che io, quando mi trasportarono a Natzweiler, credendo che fosse l’ultimo viaggio, sperando che fosse… non sperando, credendo, che si andasse verso il crematorio, poiché avevo avuto l’impressione… Ma poi, fatta ragione che era stata una vera e propria selezione, ci portarono dentro questa grande baracca e prima di essere trasportato comunque, ad un comune amico dissi: “Se… quando torna Renatino, abbi la cortesia di dirgli che se ha la fortuna di tornare a casa dicesse ai miei che sono morto.” Fortunatamente arrivati in quel campo fummo fatti spogliare e una volta denudati fummo fatti entrare dentro questa baracca che era stata una baracca adibita a camera a gas, ma fortunatamente incominciò a uscire dell’acqua, puzzolente, giallastra, ma comunque, comunque acqua.

Martini Marcello

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Marcello Martini. Sono nato a Prato, in Toscana, il 6 febbraio 1930. La mia è stata prettamente una vita di un ragazzo nato e cresciuto sotto il regime fascista, che fin dagli inizi, fin dai 6 anni, uno era iscritto al partito fascista automaticamente, appena si presentava a scuola.

Nel giugno del ‘44 mio padre – saltato tutto il periodo ovviamente… – mio padre era comandante militare della zona di Prato alle dipendenze del CLN pratese. E nell’ambito di questa attività era stata organizzata una radio a Firenze, detta Radio CoRa, il nome in codice, dalla quale venivano trasmesse tutte le informazioni militari relative ai passaggi di truppa, ai depositi di munizioni, alle prime postazioni che venivano costruite sulla linea gotica. E tutte queste informazioni di carattere militare venivano trasmesse a sud tramite questa radio, che era una radio messa su un po’ alla bell’è meglio, da due radiotecnici fiorentini, padre e figlio, Morandi si chiamavano, e trasmetteva un giorno da una parte un giorno da quell’altra, per non essere identificata dai radiogoniometri. Questo servizio funzionava talmente bene che fu deciso, appunto, dal sud, cioè dal primo nucleo del ricostituito esercito italiano, di inviare dei radiotelegrafisti con altrettante radio, più efficienti e più forti di quella, ripeto, messa su alla bell’è meglio. E questi cinque paracadutisti si lanciarono durante la notte del – se ben ricordo – del 2 di giugno del ‘44, lì nella zona di Prato, ricevuti da mio padre, da mio fratello. Il giorno dopo andai anch’io a portare da mangiare, all’epoca avevo 14 anni quindi non potevo sicuramente fare il partigiano. D’altra parte, la zona lì, la campagna intorno a Prato era messa in maniera tale che era impossibile praticamente fare una lotta armata, come è possibile invece fare qui nel nord dove le montagne permettono un rifugio più sicuro: lì sono colline, la più alta di Prato era 900 metri di altitudine, quindi poi due passi più in là uno scendeva in Emilia, quindi non era il caso; e poi le rappresaglie che sono state fatte in Toscana, per azioni appunto di guerriglia, sono state veramente tremende, quindi c’era da mettere a rischio la popolazione civile per magari ammazzare un tedesco e ritrovarsi con un paese bruciato, come è successo purtroppo in tanti paesi, della Toscana in modo particolare. Quindi questo servizio di informazioni era tutto quello che potevamo fare.

Pochi giorni dopo, appunto, questo lancio, purtroppo la radio stava trasmettendo, radio CoRa stava trasmettendo… che ci sia stata una spiata, che sia stata localizzata dai radiogoniometri, fatto sta [che] irruppero nell’appartamento di Piazza Massimo d’Azeglio, sempre lì a Firenze, e trovarono caldi caldi sia il radiotelegrafista, che trasmetteva con la pistola accanto al tasto, e uccise i primi due tedeschi e poi fu a sua volta ucciso. Dicevo appunto il radiotelegrafista, Luigino Morandi, riuscì a sparare prima ai due tedeschi e poi fu fatto fuori. Tra parentesi, questa… come si può dire… questa occupazione, invasione, questo intervento era stato fatto dalla SS italiana e tedesca, c’erano tutte e due. Malauguratamente, non solo c’era nello stesso momento una riunione del CLN fiorentino, ma c’era anche tutto l’archivio delle attività svolte. E praticamente tutti i componenti del CLN furono catturati, arrestati e portati in via Trieste dove c’era la sede della SS, con relative carceri, tremende, o meglio, carceri… erano delle cellette nello scantinato di questa villa [Villa Triste, ndr] che esiste tutt’ora, via Trieste numero 10. Ma dall’archivio, dai documenti che erano ancora lì, fu possibile risalire al fatto che era a Prato che [si] dava la maggior parte delle informazioni. E a Prato c’era questo maggiore Niccolai, che venne identificato come il maggiore Martini [Mario, ndr], maggiore dell’allora esercito, Regio esercito italiano. Morale, qualche giorno dopo – nessuno appunto ci aveva avvisato di questa retata, cioè aveva avvisato il mio babbo il CLN, noi eravamo sfollati in una cascina vicino a Prato, tutta la famiglia – ci siamo ritrovati con la casa circondata, sempre da SS italiana e tedesca, e catturati, praticamente… Mi ricordo, io ero proprio di fronte alla porta che stavo studiando, poi nella stessa posizione in cui sono ora, lì dove c’è la macchina da presa, c’era la porta interna, perché era uno stanzone che occupavamo appunto… sfondò la porta e mi ritrovai la pistola, una pistola sotto il naso da un certo Rabanser, che era un sergente delle SS, era un altoatesino, quindi parlava benissimo l’italiano. Morale, portarono giù nell’aia mia mamma, mia sorella e il sottoscritto, mio babbo, e il quinto paracadutista – gli altri quattro erano già stati catturati a Firenze – il quinto paracadutista che aveva cercato rifugio in casa nostra. Mia mamma, mia sorella e il sottoscritto fummo messi in una parte, mio padre in mezzo a due militi della SS italiana, con tanto di mitra. E giocando il tutto per tutto mio padre si mise a correre in un campo di grano, e cercò appunto di chiudere… no, più che di scappare, di chiudere subito l’argomento, perché ovviamente, siccome riuscivano a far parlare, avrebbe potuto compromettere, appunto, l’organizzazione, anche l’organizzazione pratese. Invece, fortunatamente, nonostante il grano fosse stato falciato da quanto gli hanno sparato dietro, riuscì a cavarsela, riuscì miracolosamente a passare in mezzo alle pallottole.

La sera stessa, mia mamma mia sorella ed io, e questo Franco, il quinto paracadutista, fummo portati appunto alla sede delle SS a Firenze, sempre in via Trieste al numero 10. Lì, una specie di interrogatorio, ma neanche tanto… Ecco, lì ebbi la prima botta, la prima sberla dalla SS. Perché eravamo stati tutto il pomeriggio lì nell’aia di questo contadino guardati a vista, e non si poteva parlare ovviamente, né niente, ero piuttosto stanco, m’appoggiai ad un tavolino lì nell’ufficio e venne, c’era un tedescone: mi lasciò andare la prima sberla che ho ricevuto da prigioniero. La sera stessa poi, nella nottata diciamo, fummo internati, io nelle carceri maschili delle Murate, lì di Firenze, mia mamma e mia sorella in quelle femminili di Santa Verdiana, sempre lì a Firenze ovviamente. Diciamo subito che mamma e sorella furono liberate poi dopo circa due mesi da un colpo di mano del Gap fiorentino, che fece uscire tutte le detenute politiche e razziali dalle carceri, con un colpo di mano, al quale partecipò anche un ex ufficiale tedesco che era passato dalla parte dei partigiani. Il sottoscritto invece, dopo tre giorni neanche – tutto avvenne il 9, sì – nella notte tra l’11 e il 12 di giugno, caricato su un pullman e portato a Fossoli. A Fossoli poi fui… Fossoli vicino a Carpi, in provincia di Modena, dove stetti pochi giorni, ecco… io ricordo il periodo di Fossoli un po’ come un periodo felice, tra virgolette.

D: Marcello, nel campo di Fossoli, ti ricordi se ti hanno immatricolato?

R: Sì, sono stato immatricolato. Non ricordo il numero di matricola preciso, ma mi sembra fosse sull’ordine del duemila, che poi fosse 1.900 o 2.100 questo non lo potrei precisare, perché a Fossoli ci sono stato talmente poco…

D: Un’altra cosa Marcello, ti ricordi se lì a Fossoli con te hai visto anche dei religiosi?

R: No, sinceramente a Fossoli non lo ricordo. Come vi ripeto, io a Fossoli sono stato dal 12 fino al 21 di giugno, quindi è stato un tempo talmente breve… Ho visto diverse persone, ricordo di aver visto diverse persone, ma più che altro mi sono state indicate, ecco, compreso anche Todros, di qui di Torino, e altri… poi ci siamo ritrovati su a Mauthausen. Però appunto, come dicevo, il 21 fui imbarcato: le solite tradotte, vagoni piombati… Il viaggio non fu tanto tremendo per quello che posso ricordare, perché i contadini lì della zona misero nei vagoni, mentre eravamo fermi in attesa di partenza, cassette piene di frutta – eravamo appunto a fine giugno, quindi la campagna era al massimo della produzione – e quindi non soffrimmo sete e neanche fame, perché molti lì a Fossoli potevano ricevere pacchi, vestiti, e quindi erano abbastanza agiati da un punto di vista [di] autonomia mangereccia. E quindi durante il viaggio non mancò… non posso dire fosse un viaggio comodo perché in cinquanta in un vagone con un bugliolo per fare i propri bisogni, ma comunque non fu tremendo. L’unico particolare fu che prima di partire dissero: “Se qualcuno tenta di fuggire facciamo fuori dieci di voi.” Dal mio vagone ne scapparono otto, quindi non saremmo stati neanche sufficienti per fare pari con la cosa. A parte il fatto che almeno a quello che ci dissero, quattro erano morti nel tentativo di fuggire, perché buttarsi dal treno in corsa dall’altezza del finestrino del vagone bestiame non è… è un bel salto, e atterrare sulla massicciata non è sicuramente un materasso. Altri due dei quattro furono ripresi e furono poi mandati a Mauthausen. Però questa minaccia ci pesava, era palese, era stata molto chiara, e quando si imboccò il Brennero, la salita lì del Brennero, e il treno cominciò ad andare a passo d’uomo, tutti quanti eravamo convinti, anche se nessuno diceva nulla all’altro, che nel momento in cui veniva trovato uno spiazzo, un posto, uno slargo per mettere in atto la minaccia, sarebbe stata lì… Ecco, questa paura sinceramente, penso abbia fatto da vaccino, abbia procurato gli anticorpi necessari per superare poi tutto l’anno successivo, un anno di paura completo. Dove anche lì, la paura… Ecco, l’uomo è una bestia strana: si abitua anche alla paura, sa benissimo che da un momento all’altro può essere l’ultimo, [di] questo eravamo tutti quanti coscienti, però nello stesso tempo speravamo di respirare per il minuto successivo. Questa era un po’ la psicosi del lager, o almeno era quello che sentivo io, anche se inconsciamente, perché di tante cose mi sono reso conto dopo ritornando nella vita normale.

Dicevo, il 24 di giugno si arrivò su a Mauthausen, eravamo circa 450, il trasporto mio se ben ricordo. So solo che in base ai conti di Tibaldi nel suo libro, appunto ‘Compagni di viaggio’, la sopravvivenza del mio gruppo è stata del 7,8%. Mauthausen, la solita cerimonia di ingresso, cioè rimanere due giorni lì all’addiaccio nel cortile lì a destra, il discorsino di presentazione del campo “questo è il portone dove siete entrati questo è il camino da cui uscirete”, insomma. E poi la doccia, la depilazione, il taglio dei capelli rasati a zero. Io ero fortunato allora perché avendo solo 14 anni non avevo la barba, e questo era un punto di vantaggio enorme, perché essere massacrati da rasoi maneggiati da mani inesperte, rasoi che non tagliavano, maneggiati poi da persone che per avere un mezzo mestolo di zuppa si professavano anche barbieri, quindi era un macello settimanale. Lì fui fortunato. Dopo il bagno internato nella baracca, se ben ricordo la numero 17, e dove sono stato lì poi fino a tutto luglio, fino al 31 luglio, quando rivestito a festa con la bella divisa a righe – ero immatricolato come 76.430 – quindi con il mio vestitino a righe nuovo di zecca, il cappellino, i ‘mützen’, per carità, necessario per fare l’appello, venni inviato a Wiener Neustadt. Wiener Neustadt era un’officina, era del Reichswerke, apparteneva a uno delle fabbriche di Goebbels, dove – questo ovviamente l’ho saputo dopo – doveva avere delle commesse proprio per costruire V1, V2, e razzi del genere, e poi invece erano state date delle commesse per costruire dei vagoncini porta-carbone, dei tender per le ferrovie, e, almeno la linea dove mi misero a lavorare, dei battelli fluviali a fondo piatto, dei pontoni con motore interamente metallici. Fui messo a chiodare le lamiere che congiungevano il fasciame.

D: Scusa Marcello, queste fabbriche qui dov’erano allestite? All’aperto?

R: Questa era una fabbrica vera e propria, un capannone lunghissimo, sull’ordine dei 200 metri, che era stato bombardato. Il tetto praticamente non esisteva, o meglio, era rimasto riparato su nella parte dove c’erano le macchine utensili. Lì dove veniva fatto l’assemblaggio di questi barconi, di questi pontoni, il tetto praticamente non esisteva, quindi era come lavorare all’aperto, almeno per la pioggia. Per il vento invece avevano un certo riparo, insomma.

D: Siete stati in molti che da Mauthausen siete stati mandati in questo sottocampo?

R: No, non eravamo molti, anzi eravamo abbastanza pochi. Wiener Neustadt… Io ho avuto la fortuna, diciamo, di capitare in due sottocampi, prima Wiener Neustadt, poi Hinterbrühl, due sottocampi abbastanza piccoli, di centinaia di persone, non di migliaia di persone, perché appunto il sottocampo di Ebensee era più, ad esempio, era più popoloso rispetto a Mauthausen stesso. Io invece ho avuto la fortuna di capitare in due campi, non attrezzati, con tanto di camera a gas, forno crematorio ecc., ma proprio dei campi, ora si direbbe in senso eufemistico ‘a dimensione d’uomo’, insomma.

Infatti, nel lavorare, siccome si scaldavano alla forgia dei chiodi, questi chiodi che andavano ribattuti a caldo, uno di questi chiodi mi si infilò nello zoccolo bruciandomi ben bene il piede. Dopo qualche peripezia, quando cioè il piede mi andava in cancrena – bello gonfio, verde, giallo, di tutti i colori, gonfio come un pallone – allora mi ricoverarono in infermeria. E questo perché lì c’era appunto un’infermeria per i casi traumatici più che per le malattie. È stata forse una delle cause della mia sopravvivenza. Perché non solo ho avuto una prova di solidarietà non indifferente, perché l’infermeria era gestita, cioè, comandata, sempre parlando di prigionieri, da un certo Otto, austriaco, meccanico dentista, che curava i denti un po’ anche lì ai soldati delle SS, ai kapò, eccetera eccetera, quindi aveva una certa, non dico autonomia ma insomma… Poi c’erano i due medici francesi, uno di Cherbourg, l’altro delle Antille, e l’infermiere russo. Insomma, com’è come non è, sono riuscito a tenermi per due mesi e passa lì in infermeria, con questo piede che veniva curato con delle spennellature di permanganato e rifasciato con la carta igienica, perché queste erano le uniche cure appunto disponibili. Poi appunto Jack che era il medico Cherbourg, riuscì, non so come, a trovare di quelle matite emostatiche a base di nitrato d’argento, e me la passava su questa bruciatura che era di discrete dimensioni, e me la passava per cercare di farmela cicatrizzare, e ci riuscì poi piano piano a riformarsi una pellicina leggera leggera. Però appunto due mesi stare a riposo, mangiare le stesse cose che mangiavano quelli che lavoravano dodici ore – perché il turno era di dodici ore – al caldo, se non altro al coperto, con una coperta propria, in un letto proprio: insomma è stata per me proprio toccare il cielo con un dito, una manna. E per di più, come dicevo, questi francesi facevano di tutto per rendermi la vita più semplice possibile, rischiando loro di proprio, perché un controllo delle SS, un prigioniero che stava lì due mesi diventava una bocca inutile: se fosse stato probabilmente in un campo più attrezzato sarei stato inviato sicuramente alla selezione. Invece riuscirono a tenermi lì, e poi purtroppo dovettero risbattermi fuori, di domenica, si dice “c’hai un giorno di più”, insomma furono proprio dei fratelli. Io in compenso imparai – siccome c’era un professore della Sorbona lì in infermeria, anche lui ricoverato – imparai a parlare il francese correttamente e correntemente, tanto che spesso venivano a guardarmi il triangolo, perché mi prendevano per francese insomma. Riuscivo a pensare in francese, a quell’epoca ovviamente. Tra parentesi dico, questo tizio, questo francese, questo professore, era arrivato da Parigi in centoventi per vagone, vagoni scoperti, nudi, nudi come vermi, in pieno inverno, e quindi ne erano sopravvissuti pochissimi a questo viaggio, e lui era uno di questi.

Comunque, dicevo, ritornato a lavorare, quando ci fu – io non ero sicuramente uno dei più brillanti chiodatori della storia di Wiener Neustadt perché il martello non lo potevo maneggiare, perché stava fermo il martello e vibravo io, insomma, non avevo sicuramente ‘le phisique du rôle’ per fare il ribattitore, allora – ci fu appunto uno spostamento di prigionieri al campo di Hinterbrühl e fui trasferito là. E passai dalle navi agli aerei. Il trasferimento fu abbastanza, più che pericoloso, pauroso, perché ci caricarono a mezzanotte, dopo aver lavorato tutto il giorno, essere rimasti nell’Appelplatz tutta la notte fino a mezzanotte, sotto la tormenta, senza mangiare assolutamente, neanche la zuppa serale, poi caricati in un camion sulla matrice, sul rimorchio, c’erano un gruppo di soldati con tanto di mitragliatrice puntata contro. Anche lì si pensava: ora si arriva da qualche parte, ci fanno scendere. E invece verso le 4 di mattina si vide le luci di un altro lager che era quello di, allora Mödling, poi diventato Hinterbrühl.

D: Scusa Marcello, ma sei stato selezionato tu per andare in quest’altro sottocampo?

R: Io ho sentito chiamare “sechs­und­siebzig­tausend ­vier­hundert­dreißig”,”jawoll”, sono andato lì, mi hanno detto “mettiti da una parte.” Questo succedeva all’appello delle sei, succedeva all’appello delle sei e fino a mezzanotte siamo rimasti lì sotto la tormenta, che nevicava quanto voleva, lì sull’attenti, immobili, e poi caricati sul camion. Che sia stato richiesto… beh, la mia manodopera non era qualificata. Anche lì c’era stato un altro colpo di fortuna, o di qualcuno magari che mi teneva una mano sulla testa, perché in questo trasporto da Mauthausen a Wiener Neustadt erano stati presi tutti i tecnici, ingegneri, meccanici, un mio amico era meccanico dentista, poi lo misero davanti ad un tornio e gli dissero “lavora qui”, dice “ma io veramente…”, “Sei meccanico quindi devi lavorare.” Io ero l’unico studente, infatti ero l’ultimo, proprio l’ultimo della fila, l’ultimo. Vedevo appunto che chiamavano tutti e a me non mi chiamavano, comunque…

D: Quando è avvenuto questo secondo trasferimento? Te lo ricordi più o meno?

R: Sì, è avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 dicembre del ‘44. Questo me lo ricordo benissimo. Arrivammo poi lì all’altro campo di Hinterbrühl, e solita fortuna, senza aver riposato né il giorno prima né la notte, solo quell’oretta dall’arrivo, ci fecero stare poi tutto il santo giorno in piedi dentro la baracca, per fortuna dentro la baracca, e poi la sera fui mandato a lavorare giù nella galleria. Quindi, stanchi morti. Ah, prima ci fecero fare una mezz’oretta di ginnastica, cioè saltare tutto il circolo dell’Appelplatz come ranocchi, così, per darci un po’ di benvenuto, insomma.

D: In queste gallerie qui cosa realizzavate voi, qual era la produzione?

R: La produzione era, i primi… uno dei primi aerei a reazione dell’Heinkel. Ora non ricordo il numero con precisione, il numero, la sigla dell’aereo, comunque era della fabbrica Heinkel. Veniva prodotta tutta la fusoliera, l’assemblaggio, stampaggio e assemblaggio della fusoliera in duro alluminio, tutto l’equipaggiamento elettrico: cioè l’aereo usciva fuori completo, ad eccezione delle ali, del motore e dei piani di coda. C’erano solo dei simulacri in una parte larga della galleria dove venivano provate l’assemblaggio di queste parti, anche perché c’era un cunicolo molto stretto per l’uscita degli aerei, per cui passava a malapena già solo la carlinga. Però la carlinga usciva completa, anche di armamento, c’erano montate due mitragliere da 20.

D: E il campo era distante molto dall’ingresso di queste gallerie?

R: No, assolutamente, c’era solo da attraversare la strada. Il cancello era prospiciente, si può vedere ancora, appunto, quando vado su, basta vedere il cancello che è di fronte al pozzo; c’è ancora il pozzo, ora è chiuso sopra – tra parentesi è in un giardino privato – si vede la copertura del pozzo e di fronte c’è un cancello. Ora è un cancello di ferro, eccetera eccetera, di una villetta, perché tutto il terreno lì del campo è diventato terreno edificabile. E quindi il campo era un po’ a forma di ‘U’, era rivolto, era su verso la collina, e si usciva dal cancello, inquadrati, contati, numerati, eccetera eccetera, si traversava la strada e poi scendevamo giù dal pozzo, in una scaletta, poco più che una scala a pioli. Bisognava scendere giù di corsa e salire di corsa perché eravamo gentilmente, tra virgolette, accompagnati da colpi di bastone, del tubo di gomma, di scudisci, e quello che c’era da alcuni kapò che si disponevano lungo questa scala e menavano, quindi per attutire il colpo bisognava correre il più possibile. E poi c’era da fare il turno, il cambio di turno, perché lì il lavoro era una settimana di giorno e una settimana di notte, sei la mattina alle sei della sera, dalle sei della sera alle sei della mattina successiva. Anche lì, solito colpo di fortuna, dopo un breve periodo all’aggiustaggio – poi, siccome avevo dei reumatismi tali che non potevo muovermi, io limavo i pezzi tenendo la lima ferma e muovendomi sulle gambe, perché le spalle non le potevo muovere – mi misero invece a lavorare all’impianto elettrico, cioè a montare l’impianto elettrico dell’aereo. C’era una specie di simulacro, bisognava preparare prima tutti i vari… condensatori, non so che cosa, tutti i comandi elettrici, poi assemblarli tutti insieme, e questi pezzi venivano man mano provati [ad] ogni passaggio, insomma. Questo lavoro durò fino… Ah, parentesi, il piede, questo piede bruciato, ricominciò a darmi noia, infatti mi si era formato un flemmone, cioè una raccolta di pus sotto questo leggero tessuto cicatriziale. E quindi dovettero riaprirmelo in infermeria: non avendo né bisturi né niente, con mezza forbice un buco da una parte, un buco dall’altra, infilata la forbice sotto e poi trac, han tirato su. Anche lì erano medici francesi, però fui meno fortunato, lì me la cavai con soli quindici giorni, quindici o sedici giorni. Ricordo che ci passai il compleanno, ecco, il mio compleanno lì dentro. Succedeva nel febbraio, o giù di lì.

Questo lavoro andò avanti fino al primo d’aprile del ’45, quindi ero uscito dall’infermeria poche settimane prima. Il primo d’aprile ci inquadrarono, ci dettero – mi ricordo – una pagnotta a testa. Ci dissero di prendere una coperta, e partenza per ritornare a Mauthausen a piedi, tirando anche una grossa diligenza, altri carretti. La diligenza a cui erano state messe tre lunghe funi, con cinquanta prigionieri per ogni fune, questa diligenza [era] carica di masserizie e di tutta roba della SS, dei kapò. Eravamo scortati di qua e di là da soldati e kapò, che erano stati rivestiti in divisa e armati, e avevano la voglia di adoperare quei fucili. Proprio si vedevano, avevano tanta voglia, e purtroppo li hanno adoperati. Quindi si cominciò a zoccolare per le strade, tutte strade secondarie, salire, scendere, perché le strade principali erano ingolfate dal traffico militare. E infatti le prime notti – chiamiamole notti di riposo – si dormiva in un primo campo, il primo campo aperto che trovavano appena imbruniva, venivano messi i camion a ferro di cavallo con i fari accesi e motori accesi in maniera da illuminare questo prato, ci si buttava lì in mezzo al fango perché piovve per tutta la settimana. Abbiamo dormito solo una volta al coperto, in una casa, non lo so che cosa… in costruzione, poi il resto ho sempre dormito in mezzo ai campi. La mattina, appena faceva un po’ di luce, di nuovo alzarsi, mettersi in fila, l’appello. La sera anche c’era l’appello, prima di potersi buttar giù in mezzo a quest’erba bagnata. E la mattina di nuovo l’appello, la conta – per carità, sempre file tirate come spaghi, perfettamente sincrono il movimento del ‘mützen ab’, sennò appunto… – e poi rincolonnati si partiva. Chi barcollava o chi cadeva veniva giustiziato immediatamente. Io ho vari ricordi di questa marcia, tra cui quello di un russo che s’era appoggiato a me e a un altro e gli hanno sparato nella nuca a una distanza di un venti centimetri dalla mia testa. Insomma, non fa tanto piacere vedere fracassare… comunque. Quello [che] fu più caratteristico, purtroppo, fu il fatto che una mattina – era la quarta o quinta mattina, salvo il vero – l’appello si prolungava: ci avevano contato e ricontato una decina di volte, l’appello seguitava, seguitavamo cioè a rimaner lì. L’appello non terminava. Il gruppo di ufficiali delle SS che era lì si misero a discutere fra di loro, poi finalmente hanno preso la decisione, passò davanti a noi, indicando “te, te, te, te”, ne tirò fuori cinque, li fece mettere a sedere, bontà sua, tirò fuori la pistola, cinque revolverate. Perché sì, praticamente non tornava il conto – s’è saputo dopo – tra quelli uccisi il giorno prima e i presenti, figuravano cinque persone in più. Allora, per semplificare i conti, perché i conti dovevano tornare alla perfezione, furono fucilate, cioè, fucilate… uccise, queste cinque persone.

L’ultima notte poi che fu quella più vicina alla bolgia infernale dantesca, fu quando arrivammo… Appunto, io solite fortune sfacciate che ho avuto. Facevo parte proprio dell’ultima parte della colonna, era già buio quasi. Arrivammo lì, ci dividevano in gruppetti da una decina di persone, poi c’era un ufficialetto della SS, con due bellissimi cani, ai quali allungava il guinzaglio, e nonostante i 50 chilometri o giù di lì fatti, bisognava mettersi a correre. Si vedeva tutti, secondo il solito, tutti i camion a ferro di cavallo, a cerchio, con i fari abbaglianti, quindi uno [rimaneva] abbagliato. Correre, poi ad un certo punto mancava il terreno sotto i piedi, e uno rovinava giù nel buio senza capire più nulla – che fra i rumori del camion, eccetera eccetera, uno non sentiva niente – fino a che rotolando sentiva urlare lamenti, e così via. Comunque, la mattina dopo si scoprì appunto quel che era successo, quello cioè che ci avevano fatto fare: praticamente si trattava di un… in questo campo, in questo prato, c’era un enorme buco, tipo tronco di cono rovesciato, il diametro superiore sarà stato un centinaio di metri, quello inferiore forse 50 o giù di lì; quindi c’era questa ripa scoscesa, e noi senza vedere assolutamente niente, perché fra il buio e essere accecati dai fari, precipitavamo lungo questa… uccidendo praticamente i nostri compagni che erano arrivati prima di noi. Infatti, la mattina dopo quando si ripartì, quelli che erano tutti intorno a questa voragine – a dormire erano arrivati prima, si erano messi giù a dormire – erano quasi tutti morti, o quelli che non erano morti poi si sentì dei colpi di pistola, di arma fuoco, furono fatti fuori. Morale, di quel viaggio lì c’è proprio lì a Mauthausen, al museo, c’è un cartellone “sono morti più di duecento per la strada.”

Mi ero dimenticato di dire una cosa, che prima di partire c’erano in infermeria cinquanta prigionieri che non potevano camminare: questi furono uccisi con una puntura di benzina nel cuore, e lasciati lì. Poi furono sepolti non so dove. Il fatto era che io ero uscito poche settimane prima dall’infermeria, e con un piede appunto malridotto come avevo, se i tempi non coincidevano bene ero il cinquantunesimo. Oggi come oggi, lì dove c’era l’infermeria, è stato costruito… nel prato è stata messa una lapide, comperato questo pezzo di terreno, e realizzato una specie di serraglio di memoria, lì all’aperto. Questo terreno è stato comperato proprio dai cittadini di Hinterbrühl, e ora lì c’è tutti gli anni appunto, quando si va si porta una corona a questa specie di memoria.

D: Questa marcia della morte, Marcello, questa marcia di trasferimento fu una marcia della morte in realtà. Quanto è durata?

R: Sette giorni. Sette giorni per un totale di circa 220, 230 chilometri. Particolare pietoso: nulla da mangiare eh! Niente, assolutamente niente da mangiare, salvo qualche manciata di erba strappata lì dai cigli della strada. Arrivati poi a Mauthausen ci fu lo stesso trattamento di ricevimento, solita doccia e l’internamento nella baracca, mi sembra baracca 24. Ma mentre la prima volta ci hanno dato all’uscita delle docce una camicia e un paio di mutande, la seconda volta non ci dettero niente, assolutamente niente. Quindi rimanemmo per diversi giorni nudi come vermi. Però poi ci dettero qualcosa con cui coprirci, non mi ricordo cosa. Anzi, il problema fu quello di procurarsi la gamella, o qualcosa in cui mangiare.

D: Scusa Marcello, quando tu parlavi durante la marcia della morte di questa buca che siete rotolati giù, ti ricordi più o meno in che zona era?

R: No, sinceramente non… Se la vedessi la riconoscerei ovviamente. Non eravamo tanto lontani da Mauthausen, perché appunto arrivammo o il giorno dopo o due giorni dopo, quindi deve essere nel raggio di massimo di una ottantina di chilometri, o giù di lì, da Mauthausen. Però sinceramente ero troppo impegnato a mettere un piede davanti all’altro più che guardare il panorama. Ricordo, così, dei nomi, di ‘San Georgen’, di ‘Polten’, ma proprio son quei ricordi che non potrei identificare o dire in tribunale, insomma.

D: Arrivato lì a Mauthausen, nel blocco, nella baracca, vi hanno sempre tenuto in baracca poi?

R: Sì, io sono sempre stato nelle baracche di quarantena. Sapete che i campi di quarantena erano un sistema completamente diverso dal cosiddetto campo libero. Lì nelle baracche di quarantena si dormiva in terra, su pagliericci messi appositamente in terra, ci si buttava giù come le sardine, testa e piedi testa e piedi. In una notte su quattro pagliericci dormimmo in ventidue, non c’era la pancia come ora a creare tanto ingombro, ma insomma, in ventidue su quattro pagliericci larghi 70 centimetri, uno può capire quanto fosse gradevole il riposo.

D: Quando siete arrivati lì a Mauthausen, poi vi hanno messo, vi hanno impiegato in altri lavori oppure no?

R: No. Praticamente sia nel primo periodo di Mauthausen sia nel secondo, dalle baracche di quarantena ogni tanto venivano a prendere delle persone. So che alcuni venivano fatti lavorare anche alla cava, però chi era in quarantena normalmente non lavorava, normalmente, perché poi tanto lo facevano lavorare dopo. Lì tutti i blocchi di quarantena erano praticamente il magazzino umano da cui venivano prelevati man mano che c’era bisogno per essere mandati da altra parte, però lì a Mauthausen il personale che lavorava al campo, o nelle officine, o alla cava, o per la manutenzione del campo, erano tutti nel campo libero, sempre definizione eufemistica anche questa.

D: Ecco e lì sei rimasto fino a quando?

R: Sono rimasto fino alla liberazione, fino al 5 maggio. Il cibo era diventato scarsissimo, anzi il pane… Mi ricordo appunto la liberazione, fu il 5 maggio, quindi sarà stato forse il 30 di aprile, o giù di lì, che praticamente non si vide più pane. Tra parentesi, le ultime tre pagnotte erano state divise le ultime due in sedici persone, l’ultima in ventiquattro. Dopodiché sparì, ci davano anche la sera una mezza mestolata di zuppa di rape, quindi nutrientissima. Io ho il ricordo appunto… Siccome mi avevano chiamato per fare lo Stubendienst – cioè rimettere a posto i pagliericci, pulire in terra, grattare tutto il pavimento, grattare con dei pezzi di vetro tutto il pavimento per poi ridargli la cera ex novo, quindi la macchina dell’universo concentrazionario ha funzionato regolarmente fino all’ultimo minuto, praticamente – e quindi ogni tanto riuscivo ad avere qualche stecca, qualche mestolata in più di brodaglia, così era l’unica cosa favorevole.

Poi il 5 di maggio, come ripeto, cioè prima si vide sparire dalle garitte le SS, però per me – ero già in uno stato semi confusionale, o giù di lì – che fossero vigili del fuoco, fossero polizia urbana o che, per me era gente in divisa armata che stava nella garitta, non me ne fregava nulla di sapere che cosa fossero. E poi finalmente si vide venire quelli del gruppo internazionale, e arrivare, questo lo ricordo perfettamente, l’arrivo degli americani su una jeep, un’autoblinda, un qualche cosa del genere, si vede scendere – ero sul tetto della baracca – questi due esseri vestiti di quel giallo, o giù di lì, quel verdolino, che per me potevano essere benissimo marziani perché chi aveva mai visto un americano in vita mia.  Poi ho un periodo invece di totale azzeramento, cioè non ricordo assolutamente più niente per un certo numero di giorni. So solo che ero nella baracca 24. Quando uscii dal campo di quarantena per vedere l’arrivo degli americani, sentii tutto questo clamore e allora andai anch’io a vedere. E poi mi ritrovai, da quando ho il ricordo cosciente, mi ritrovai invece in una baracca insieme a tutti gli italiani. Quindi in quel periodo, in quei giorni – io non posso dire se sono stati tre, quattro, dieci, non lo so – quei giorni per me è un buco nero nella memoria. Ho solo dei flash. Ricordo di uno spagnolo che sgozzò uno dei kapò, di quelli che avevano accompagnato queste marce della morte appunto, e… aspettava dietro un angolo, questo era inseguito da un’orda di gente: no no, questo qui era tranquillo, lì appoggiato dietro l’angolo di una baracca; correva, girò l’angolo e si ritrovò una seconda bocca da orecchio a orecchio, con un gesto talmente veloce, talmente rapido, che quasi quasi uno, se non fosse stato per il sangue, non se ne sarebbe accorto insomma. Ho questo ricordo, e altri così. Ma il ricordo più gradito fu quando ripresi coscienza, e vedere gli amici, appunto, i compagni miei. Erano usciti, avevano rubato un grosso papero, e quindi ci mettemmo a cucinare questo papero con due latte di pomodoro da bere – quelle le avevo rubate io. E questo è stato il primo ricordo cosciente dopo la liberazione.

D: Marcello, il rientro in Italia.

R: Beh, il rientro, è stato un po’ particolare il mio, perché… Dunque, io non sapevo nulla dei miei naturalmente, e neanche i miei amici toscani che erano con me avevano saputo più niente dei loro. Quindi, al rientro a Bolzano, ci dissero che fino a Bologna c’era la possibilità di essere portati a Bologna. Da Bologna in poi non c’erano più comunicazioni sicure. Allora decidemmo di andare a Milano dove c’erano dei parenti di Focacce, di questo mio amico, “se sono ancora vivi si sa qualcosa, se non ci sono più neanche loro tante vale da Milano o da Bolzano la cosa è la stessa.” Invece avemmo notizie, sia i miei sia i parenti dei miei amici avevano superato il passaggio della guerra bene. Insomma erano tutti vivi, tutto a posto. Io avevo lasciato babbo, non sapevo dove, avevano detto che l’avevano ferito. Mio fratello non sapevo assolutamente dove, mamma e sorella in galera. E di me ovviamente non avevano nessuna notizia.

È stato più triste casomai, in un certo senso, il ritorno a scuola. Perché io sono rientrato il primo di luglio e poi, come se nulla fosse, mi sono presentato in ottobre a declinare ‘Rosa, Rosae’, lì al liceo scientifico di Prato, con una grossa incomprensione assoluta proprio sia degli insegnanti, ma anche della popolazione stessa che non si poteva assolutamente render conto del passaggio di quello che era un campo di concentramento. Ricordo appunto, l’ho raccontato tante volte, che il direttore lì del liceo scientifico, dopo aver sentito un po’ da mia mamma, insegnante anche lei, che avevo avuto queste peripezie, per un paio d’anni quindi non avevo frequentato non solo la scuola, ma non sapevo quasi neanche più scrivere. Stette a sentire molto interessato e poi alla fine concluse dicendo “sì, ma se non avrà seguito un corso regolare di studi, qualcosa avrà sicuramente letto nella biblioteca del carcere!” Questo tanto per far capire qual era il livello di conoscenza da parte dell’intelligenza di questa persona, su cui poi avevo dei dubbi già all’inizio, ma furono confermati ‘sti dubbi. Comunque, era una cosa abbastanza comune: cioè nessuno sapeva niente dei lager, quello che era successo, quello che era accaduto. In classe poi mi ritrovai un professore giovane, che aveva insegnato Mistica fascista fino a poco tempo prima, quindi fu una cosa molto… Io posso dire che tutti i miei studi, la mia avventura non mi ha fatto fare un passo avanti, diciamo, assolutamente. È stato solo quando, recuperando un anno, il commissario – che non mi conosceva per niente, però seppe un po’ della mia storia – cercò di aiutarmi perché io mi ero rifiutato… cioè, rifiutato… non avevo preparato due materie del terzo liceo scientifico: feci il salto in quinta, e lui venne lì a insistere perché dessi anche Storia e Scienze, che non avevo preparato. Questo è stato l’unico aiuto, se così si può dire, che ho avuto durante il mio corso di studi insomma.

D: Marcello, tu complessivamente quanti mesi hai fatto nei lager?

R: Dunque, io sono stato arrestato – si fa subito i conti – il 9 giugno del ‘44. Sono arrivato a Mauthausen il 24 giugno, sono stato liberato il 5 di maggio e sono rientrato il primo di luglio. Totale sono tredici mesi, di cui nove tutto di lager.

Zaccherini Vittoriano

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Zaccherini Vittoriano. Sono nato a Dozza, il 28.11.‘26. Son stato arrestato dalle brigate nere il 20 novembre 1944. Arrestato e portato nelle carceri di Imola, che sono dislocate nella Rocca.

D: Ecco, scusa Vittoriano, ma perché tu sei stato arrestato?

R: Sono stato arrestato naturalmente per una spiata perché io era già da cinque mesi che ero su nei partigiani.

D: Dove?

R: Nei partigiani, ero su nel Sap montano, che era un distaccamento della 36ª Brigata Garibaldi che operava nelle colline toscano-romagnole.

D: E sei stato arrestato dove?

R: Sono stato arrestato a Imola. Dopo, naturalmente, essendo stato in brigata, la mia compagnia in un’azione di guerra fu tagliata fuori. Io fui mandato nella Bassa Romagna, dai gappisti. Il 20… il 19 novembre, il Comitato di Liberazione mi ordinò il ritorno a Imola, per potere formare il battaglione di città, cioè, tutti quei partigiani che erano stati in montagna venivano richiamati una parte di loro in città per formare il battaglione per occupare Imola.

Io arrivai a Imola con una staffetta partigiana, con una ragazza che portava, naturalmente le mie armi, in bicicletta. Arrivai a casa la mattina che erano le 6, 6 e mezzo; alle 8 dovevo rientrare a prendere le mie armi da questa ragazza che lavorava in centro a Imola, ma a una spiata le brigate nere sapevano già che io ero arrivato. Come traversavo la piazza mi vidi a 50 metri il gruppo delle brigate nere, che erano in cinque, che mi dissero l’alt, “abbiamo saputo che sei arrivato, ti venivamo a prendere”. La mia fortuna fu che non entrai prima dalla staffetta partigiana che aveva le mie armi, perché in questo caso venivo preso con le armi in mano, e lì c’era praticamente la fucilazione.

D: Con te sono stati arrestati degli altri?

R: Con me sono stati arrestati, non quella mattina ma i giorni susseguenti, altri sette ragazzi imolesi che han fatto il carcere con me a Imola, l’interrogatorio a Bologna e al comando delle SS, e il carcere a San Giovanni in Monte fino alla partenza per la Germania, per Bolzano.

D: A proposito di interrogatori, quando tu eri nelle carceri della Rocca a Imola, sei stato interrogato?

R: Io sono stato interrogato e malmenato parecchie volte, perché, naturalmente, sapevano che io ero nei partigiani; e un mese prima, il comandante delle brigate nere di Imola fu… i gappisti imolesi tentarono di ucciderlo, e lui credeva e pensava che io sapessi chi aveva sparato a lui.

D: Gli interrogatori, chi te li facevano?

R: Gli interrogatori in un primo momento furono fatti dalla brigata nera, che la sera del 28 novembre, il giorno che io compii gli anni, mi misero in una vasca – era un inverno freddissimo – in una vasca ghiacciata, nudo, e col calcio della rivoltella mi picchiavano in testa finché io dovevo stare immerso nell’acqua, che naturalmente non gliela facevo, e botte: fui malmenato parecchie volte in quelle condizioni lì.

D: Oltre le brigate nere ti ha interrogato anche…

R: Dopo mi hanno interrogato le SS. Naturalmente, dopo aver avuto gli interrogatori delle SS, dalle carceri di Imola ci mandarono tutti e otto, io e i miei sette compagni di prigionia, al comando delle SS qui a Bologna, ai Giardini Margherite [Giardini Margherita, ndr]. Di lì, furono anche lì tre o quattro giorni di interrogatori, siamo stati malmenati tutti anche lì e poi dopo portati a San Giovanni in Monte, nelle carceri.

D: Sempre di Bologna.

R: Sempre di Bologna, sì.

D: Vittoriano, il 22 e il 23 dicembre del ’44, cosa è successo a te?

R: La partenza… sì. Dunque, noi partimmo da Bologna in quelle giornate lì. Da Bologna fummo caricati in dei camion, fummo portati naturalmente a Bolzano. Prima della partenza una parte di noi furono chiamati fuori e furono fucilati. Quelli più compromessi, non so… C’erano dei gappisti chiamati Vento, Temporale, gente che erano conosciuti, di Bologna, furono fucilati, mentre noi, il gruppo dei – secondo loro – dei meno coinvolti, oppure anche i più giovani, fummo mandati naturalmente nel campo di smistamento di Bolzano.

D: Quanto sei rimasto a Bolzano?

R: A Bolzano siamo rimasti fino ai primi di gennaio, dove naturalmente partimmo nei carri bestiame per andare verso la Germania, che noi non sapevamo dove andavamo a finire.

D: A Bolzano sei stato immatricolato?

R: Siamo stati tutti immatricolati a Bolzano. Solo che io non mi ricordo il numero di Bolzano, purtroppo… ma non solo io eh, parecchi anche dei miei compagni, non ci siamo mai ricordati il numero di matricola che avevamo a Bolzano.

D: E il blocco te lo ricordi?

R: Nemmeno il blocco. Di Bolzano non ci ricordiamo niente.

D: Ecco, ma cosa facevate tutto il giorno nel campo di Bolzano?

R: Noi, a differenza da altri… perché noi eravamo considerati, naturalmente, non rastrellati. Noi eravamo dei prigionieri politici, noi non andavamo fuori a lavorare come parecchi facevano nel campo di Bolzano: noi eravamo destinati a partire in un tempo breve, per quello che per quei pochi di giorni, una decina di giorni che siamo stati a Bolzano, siamo stati sempre chiusi nelle nostre baracche, senza far niente.

D: Ti ricordi se a Bolzano hai visto anche delle donne deportate?

R: No, no, noi no, non le abbiamo viste.

D: E dei religiosi, te li ricordi?

R: Dei religiosi ce n’era uno nel blocco con noi, nella baracca con noi, che dopo poi venne in Germania, venne a Mauthausen nel nostro convoglio, ecco.

D: Ti ricordi il nome?

R: Era… è stato anche segretario della sezione di Roma… e non me lo ricordo. Non me lo ricordo il nome.

D: Don Gaggero forse?

R: Sì, sì. Don Gaggero. Don Gaggero, sì.

D: E dopo siete stati portati dove?

R: Noi, naturalmente, caricati nei carri bestiame a Bolzano, dopo cinque giorni di viaggio, con una scatoletta e un quarto di pane tedesco, siam partiti verso destinazione. Naturalmente non la sapevamo dove andavano a finire, ci siamo ritrovati dopo cinque giorni alla stazione ferroviaria di Mauthausen, ecco.

D: Dal campo di Bolzano al Transport, con cosa siete andati a Bolzano?

R: A Bolzano ci siamo andati in dei camion tedeschi, sì.

D: E vi hanno inserito nei vagoni dove? Cos’era, alla stazione?

R: Alla stazione di Bolzano, sì. Dal campo, naturalmente ci han mandati in stazione e ci hanno caricati, sempre scortati dalle SS, in questi carri bestiame che ci hanno trasportato verso Mauthausen, ecco.

D: L’arrivo a Mauthausen, come te lo ricordi?

R: L’arrivo a Mauthausen me lo ricordo, naturalmente… Siamo arrivati una mattina all’alba. Me lo ricordo che, come siamo scesi da questa tradotta, c’erano le SS coi cani, come hanno aperto questi vagoni, e ci hanno incolonnato in quattro a quattro, e loro dai fianchi, dai lati. Eravamo circa un settecento, il convoglio che da Bolzano è andato a Mauthausen. E pian piano ci siamo diretti verso la collina, naturalmente ignari di tutto quello che ci poteva aspettare, perché noi non sapevamo dove andavamo, noi pensavamo a un campo di lavoro, ecco. Invece naturalmente strada facendo, sempre con queste SS vicino e coi cani, che non potevamo… cercavamo sempre di stare verso il centro del gruppo perché altrimenti loro, in continuazione alle estremità, ci malmenavo sempre da tutti i lati.

D: E poi l’ingresso a Mauthausen.

R: E poi l’ingresso al campo di Mauthausen. Noi siamo entrati… La prima esperienza è stata positiva, quella di Mauthausen per noi, perché pensate che noi avevamo 17, 18 anni, il più anziano di noi aveva 23 anni. Noi siamo arrivati a Mauthausen non dalla parte… dall’entrata del campo principale, siamo arrivati dal campo dove c’erano i servizi, e lì all’entrata c’era – c’era, che c’è ancora – una piscina che allora era… la usavano. Allora io mi ricordo con i miei compagni, naturalmente alla nostra età particolare, che ci siamo detti “ma guarda in che bel posto veniamo a finire, qui c’è piscina, c’è tutto”. Naturalmente l’esperienza è stata ben diversa, perché come noi siamo entrati dalla parte principale, che ci han messi tutti in fila davanti per andare giù verso le docce, ci siam resi conto tutta questa gente zebrata con i vestiti a righe, del posto che era, naturalmente.

D: Poi la spoliazione.

R: Poi la solita spoliazione. Naturalmente la spoliazione, nudi completamente, tagliati, rasati, dove c’erano peli li levavano da tutte le parti, e in mezzo alla testa ci han fatto una riga larga due dita col rasoio, perché dicevano che in caso di fuga noi ci riconoscevano, naturalmente, che era poi impossibile poter fuggire da quel campo lì. E poi dopo ci han mandato, nudi, con una temperatura – perché pensate che noi siamo arrivati a Mauthausen che erano il 6 o il 7 di gennaio, la temperatura che c’era, dai 10 ai 12 gradi sottozero, nudi completamente – ci hanno mandato nel campo di quarantena, che è il campo là in fondo, in fondo all’Appelplatz insomma. E di lì ci siamo stati una decina di giorni, e poi ci han mandato nelle baracche, una parte di noi. Io ero alla diciottesima baracca. Di lì ci siamo stati una decina di giorni e quasi tutto il nostro convoglio è stato trasferito a Gusen, Gusen I e Gusen II.

D: L’immatricolazione, quando l’hanno fatta?

R: L’immatricolazione l’han fatta su a Mauthausen. Ed io, la prima esperienza che io ho avuto in quei giorni lì a Mauthausen che ero, è stata il mio numero di matricola. Pensate che io avevo il 115.778. È il primo appello che ho avuto, era un russo che faceva l’appello, e naturalmente io non sapevo niente, e non rispondo all’appello, nessuno mi dice niente. La sera, al rientro in blocco, mettono tutto – prima della zuppa, prima della cena – mettono tutto il blocco in fila e mi chiamano, mi chiamano fuori, mi vengono ordinate venti gommate, col Gum[mi]. Ogni baracca lì nel campo, sia a Mauthausen che giù a Gusen, le baracche avevano uno sgabello, lo sgabello delle punizioni, che ti mettevi così a boccone, e c’era uno addetto che ti menava. Naturalmente, dopo tre o quattro uno perdeva i sensi, sveniva, ma però la punizione era di venti, e dovevano continuare a darti le venti, e poi dopo ti buttavano nella tua parte di pagliericcio dove dormivi. Allora, a Mauthausen non c’erano più i castelletti: noi dormivamo in terra, dormivamo in terra in quattro ogni pagliericcio, cioè una metà sull’altro, due di testa e due di piedi. Io dormivo con due slavi e un francese. Naturalmente, quando la mattina di nuovo c’era alle 6 l’appello nell’Appelplatz, chiedo al francese. Perché poi la sera prima mi han spiegato la ragione perché m’han menato: perché non avevo risposto all’appello. E disse: “Sappi che l’appello lo fa un russo, te hai il 115.778, è [numero in lingua russa, ndr]”. Ecco, quella lì è stata la mia prima esperienza avuta nel campo di Mauthausen.

D: Poi ti hanno vestito?

R: Sì. Poi dopo, naturalmente, ci hanno vestito. E poi, dopo una decina di giorni, ci hanno mandato giù a Gusen, a Gusen I. Io lavoravo alla Steyr, che era una fabbrica particolare di mitragliatrici. Io lavoravo in due frese, praticamente si lavorava al coperto, si stava relativamente abbastanza bene. Il problema era che andando al lavoro, anche lì, di qua e di là c’erano le SS coi cani che chi era sempre agli estremi, alla fine, veniva menato in continuazione. C’era sempre quella preoccupazione lì, perché se cadevi in terra naturalmente potevi essere finito con un colpo alla nuca, oppure a menarti finché non gliela facevi più a venire su, ecco.

D: Vittoriano, le officine dove tu lavoravi a Gusen I, erano all’interno o all’esterno?

R: Erano all’interno

D: All’interno del campo?

R: Sì.

D: Quindi tu non uscivi dal campo?

R: No no no, io non uscivo dal campo. Non erano come quelli che erano a Gusen II, che andavano…

[INTERRUZIONE]

D: Le officine erano all’interno o all’esterno?

R: Erano all’interno del campo.

D: Dicevi, non era come a Gusen II…

R: Non era come alla Messerschmitt, che dovevano fare un tragitto per andare sotto le gallerie che avevano scavato, sì.

D: Quante ore lavoravi tu?

R: Dodici ore, dalle 6 alle 6.

D: Giorno e notte?

R: No, io ho sempre fatto la mattina, cioè l’orario continuato dalle 6 alle 6.

D: Il tuo lavoro in cosa consisteva?

R: Consisteva… Io lavoravo lì… Non era un lavoro pesante, lavoravo in due macchine utensili, cioè due frese che facevano i grilletti per le mitragliatrici per le Steyr. La mitragliatrice che era chiamata Steyr, sì.

D: Tu non hai mai avuto contatti con loro, con i civili?

R: No, no. Noi andavamo lì scortati dalle SS. Come entravamo in officina eravamo gestiti da queste persone civili, però noi non avevamo contatti con loro, ecco.

D: Ti ricordi se lì a Gusen I hai visto per caso dei treni?

R: No.

D: Neanche dei Decauville?

R: Io no. Io non è che a Gusen ci sia stato molto eh, ci sono stato poco più di un mese a Gusen io. Poi dopo, non so per quale ragione, io fui rimandato su a Mauthausen, che dopo poi, per mia disgrazia, fui destinato alla cava.

D: E a Mauthausen in che blocco ti hanno messo quando sei ritornato su?

R: Il blocco… io ero al sedicesimo, sì.

D: C’erano altri italiani con te?

R: Con me… Fu una disgrazia anche quella, perché io praticamente mi ritrovai con pochissimi italiani nella mia baracca. Io ero con due torinesi, che morirono quasi subito, poi c’era un genovese e uno giù di Salerno, che anche quelli… Io fui liberato che rimasi con un italiano nella mia baracca, con un genovese.

D: Ma in baracca in quanti eravate più o meno?

R. In baracca… eravamo quasi settecento nella baracca. Perché ultimamente a Mauthausen erano già arrivati i sopravvissuti di Auschwitz, tutti campi già liberati che sono venuti da noi eh.

D: E lì a Mauthausen, lavoravi?

R: Io a Mauthausen ho lavorato quasi un mese giù in cava. E naturalmente lì è stata la mia… come debbo dire, la mia tragedia più grande perché… A parte che giovane com’ero non ero abituato a certi lavori, che io pian piano le forze mi mancavano, che… Per fortuna che io ho conosciuto… Lavoravamo in coppia in cava, io lavoravo con un russo, con un ucraino, un Ivan, che dopo è morto lì, che lui mi disse, come io arrivai giù in cava… Perché praticamente lui era uno che aveva 34 anni: per me era una persona anziana, uno di 17, 18 anni, allora. E mi prese a volermi bene, come debbo dire, cercare di insegnarmi il modo di poter sopravvivere in certi momenti. Mi ricordo che lui mi disse – lì in cava arrivava un convoglio naturalmente, e c’erano delle montagne di antracite, di carbone – e lui mi disse: “Te riesci…”. Mi insegnò che in dei pezzi di antracite c’erano dei pezzi più non lucidi, opachi, e disse: “Te riesci a mangiare tutti i giorni un pezzo di carbone, ti stagni, non ti viene la dissenteria”. Io ho avuto la fortuna… perché non solo io lo sapevo, lo sapevano anche gli altri, ma il 90% c’era il rigetto: quando mangiavi questo pezzo lo rimettevi perciò anche quel po’ che ti davano non riuscivi a tenerlo dentro ed era peggio. Io invece quel periodo, quel mese che ho fatto giù in cava, sono riuscito a sopravvivere mangiando questo pezzo di carbone. Quel po’ che mi davano di cibo io lo tenevo dentro in maniera che io non ho mai avuto dissenteria, non ho mai avuto niente. Perché la mortalità allora del campo, a parte le camere a gas, a parte le impiccagioni, la mortalità enorme era per la dissenteria, che te ne andavi… andavi in infermeria perché non gliela facevi più andando al lavoro. Andando in infermeria, un colpo alla nuca… ti ritrovavi già dalla parte dei forni crematori, già accatastato, ecco.

D: Giù in cava tu cosa facevi?

R: Io in cava aiutavo a caricare i carrelli per trasportarli giù, verso ai posti che dovevano essere caricati, ecco.

D: Ti ricordi come veniva estratta la pietra lì dalla cava?

R: Ma, lì venivano estratti in modo manuale, naturalmente, non… sì, con dei picconi, oppure c’erano degli… come si chiamano quelle… sì, però c’erano quelli addetti, quelli più… che riuscivano a farlo. Io non gliel’avrei fatta.

D: Lavoravate solo durante il giorno in cava?

R: Solo durante il giorno, quel po’ che ci sono stato io lì a Mauthausen.

D: Quindi c’era una squadra addetta all’estrazione dei pezzi.

R: Sì, e una squadra che li portava naturalmente verso i vagoncini, con i carrelli che li portavi verso i vagoni, che venivano poi caricati per mandarli via dalla cava.

D: Cioè, dai Decauville venivano portati su vagoni più grandi?

R: Su vagoni… noi… Lì, naturalmente, i vagoni non entravano lì, nella cava. Noi avevamo quei carrelli che venivano portati ad un certo punto, poi lì venivano caricati per essere portati… Ma noi al di fuori della cava, lì, non andavamo mai, ecco.

D: Dal campo di Mauthausen, per scendere alla cava…

R: Facevi la scala. La famosa scala della morte. Noi la facevamo andando al lavoro, per fortuna. Non la facevamo come naturalmente facevano tanti nostri compagni, oppure principalmente gli ebrei, che gli facevano fare la scala con quel famoso sasso sui 50 chili finché non erano in grado di farla, che poi i primi in cima, quando cadevano, si rotolavano giù tutti gli altri. E le SS lì in cima si divertivano a tirare, a fare il tiro al piccione lo chiamavano.

D: Vittoriano, ti ricordi se giù in cava c’erano delle baracche, dei capannoni, delle officine?

R: C’erano delle baracche giù, ma noi non abbiamo visto cosa c’era dentro, naturalmente, perché noi come arrivavamo lì andavamo… ognuno di noi aveva il suo posto da andare al lavoro, perciò non…

D: Donne non ne hai mai viste tu lì?

R: In cava? No, no, non le abbiamo mai viste donne.

D: E a Mauthausen ne hai mai viste?

R: Io le donne a Mauthausen le ho viste il giorno dopo la liberazione. Nel campo di quarantena c’era una baracca di polacche che venivano… che noi siamo rimasti perché non lo sapevamo naturalmente, che siamo rimasti allibiti a vederle perché erano in condizioni disumane proprio anche loro. Tosate, come noi! Che venivano naturalmente usate, come nei bordelli delle SS. Erano solo in quelle condizioni lì.

D: Come te la ricordi tu la liberazione?

R: La liberazione, vedi, è stata una cosa indescrivibile per me, perché… Pensate che io il 6 maggio, quando gli americani mi svestirono completamente – perché io ero pieno di scabbia, ero nudo completamente – mi misero sulla bilancia: io ero 28 chili. Io a sentire dai medici avevo una settimana da vivere, perciò potete ben immaginare nelle condizioni che ero. Sebbene poi che è stata anche una tragedia, perché quando noi di questi otto amici siamo ritornati in quattro, e praticamente in tre perché uno non è più stato in grado… sì, vegeto, non è che vive, capito. E perciò per me la liberazione è stata realmente una liberazione, però mi è rimasto sempre quel senso di colpa che avevo verso questi miei compagni, capito… che ho lasciato nel campo.

D: Ma tu dov’eri il giorno della liberazione?

R: Io ero proprio lì, nell’Appellplatz di Mauthausen. Quando è arrivata la mattina, la domenica, questa pattuglia americana – che naturalmente poi sulle torrette c’erano ancora le SS, i militari eh – sono entrati, potete bene immaginarvi le condizioni che c’erano, i superstiti… specialmente gli spagnoli, che sono stati quelli poi che sono subito saliti nell’entrata a tirar giù l’aquila imperiale, lo stemma del nazismo. E io, per mia fortuna, non ero in condizioni di potere… Io mi attaccavo già, perché io ero quindici giorni che non andavo più in cava eh, che rimanevo ai servizi generali nel campo, perché in cava non gliel’avrei più fatta. E la mia fortuna è stata che in quel periodo lì, ultimamente le camere a gas e i forni crematori, sì, andavano, ma i morti del campo erano talmente tanti che non riuscivano più a smaltire i cadaveri che c’erano, perciò anche noi, che eravamo alla fine, siamo riusciti a sopravvivere; cosa che, fosse capito un mese, un mese e mezzo prima, saremmo stati eliminati, naturalmente, come tanti altri nostri compagni, ecco.

D: Vittoriano, e dopo la liberazione cosa è successo?

R: Io, come ho detto… siamo stati liberati il 5 maggio. Io ero nelle condizioni che ero, e sono rimasto nel campo fino alla fine di maggio perché non ero in condizioni di affrontare né il viaggio per venire, rientrare in Italia, e né il viaggio per andare in un altro posto. Gli americani mi hanno curato lì, naturalmente, come un neonato, non so… mi hanno riabituato a mangiare, cominciare con delle pappine, con del semolino, hai capito, in modo da poter riprendere la vita. Perché poi parecchi miei compagni son morti, dopo la liberazione del campo, per un errore degli americani che han lasciato andar fuori: hanno mangiato a crepapelle, sono crepati per il troppo mangiare. Se ne sono accorti tanti che dopo poi, nelle sentinelle, invece delle SS c’erano loro, e nessuno poteva uscire dal campo. Io sono stato fino fine maggio dentro il campo di Mauthausen, e poi dopo con un aereo m’han portato a Berlino. Io sono stato a Berlino altri quaranta giorni dopo, in un campo militare, in modo da mettermi nelle condizioni di affrontare il viaggio per il ritorno a casa, ecco.

D: Ma chi ti ha portato a Berlino, gli americani?

R: Gli americani, sì.

D: Solamente te come italiano?

R: No no no, un gruppo di altri deportati lì, di Mauthausen, cioè tutti quelli che non erano in condizioni di poter affrontare il viaggio per rientrare nelle sue patrie. Non so, con me c’erano polacchi, c’erano russi…

D: E a Berlino fino a quando sei rimasto?

R: A Berlino ho fatto tutto il mese di giugno. Tutto il mese di giugno a Berlino, perché io sono rientrato in Italia a luglio.

D: Ecco, il rientro, da Berlino come hai fatto a raggiungere…?

R: Da Berlino avevano fatto delle tradotte militari con delle scritte “i superstiti dei campi di sterminio”, cioè tutte le zone dove c’erano di queste persone venivano portate alle frontiere. Ed io sono… m’han portato a Bolzano, naturalmente. M’avevano vestito a Berlino, m’avevano dato una divisa tedesca coloniale, di quelle che i tedeschi usavano in Africa, color cachi, i calzoni lunghi alla zuava, un paio di scarpe che facevo fatica a tirarmele dietro. Da notare che io quando sono arrivato a casa ero 34 chili eh. Quando sono arrivato a Bolzano, naturalmente siamo scesi, ed ho trovato un parroco di Ravenna, che era alla frontiera per potere recuperare dei suoi parrocchiani, della gente della sua zona. Allora sapendo di Ravenna ho detto “lui passa da San Vitale, è a 15 chilometri da Imola…”, ho chiesto se mi caricava. Lui mi ha portato fino a Sestri Imolese, che è una frazione dell’Imolese. Di lì ho trovato uno con un biroccio che vendeva il carbone, in questo paese, e mi ha caricato che andava a Imola a vendere il carbone, mi ha caricato e mi ha portato a Imola. Come arrivo a Imola, ecco, è cominciata la mia tragedia, perché io… non so, finché ero nel campo, finché ero assieme agli altri non ero conscio delle mie condizioni, com’ero; è stato al ritorno a casa che io ho avuto uno shock, che è stata una tragedia. Pensate che io sono sceso alla periferia di Imola – Imola è una cittadina che ci conosciamo tutti praticamente, specialmente allora – scendo, vado con… Potete bene immaginare come ero ridotto: io non avevo più capelli, non avevo più niente, avevo solo degli occhi là, profondi, e nient’altro. Mi incammino verso il centro, incontro un’amica di mia sorella, una che era sempre in casa mia, Giovanna si chiamava – perché poveretta è morta – la chiamo, “Giovanna!” Lei mi viene [incontro], dice “ma chi sei?”, “sono Vittoriano” […] Si mette a piangere. Da notare che io non erano degli anni che ero via da casa, ero via da maggio, cioè praticamente fra i mesi da partigiano e i mesi della prigionia della Germania non era neanche un anno che ero via da casa. Dico, beh, Giovanna va verso casa mia, va a dire, non so, che hai sentito che ritorno, perché i miei naturalmente non sapevano niente. Non è che io come sono stato liberato potessi scrivere o dire che ero al mondo. Allora non si sapeva niente.

Arrivo in centro a Imola: quello lì forse è stato il momento più brutto della mia vita. Arrivo in centro a Imola: non so se ci siete mai stati, in centro c’è un porticato con un orologio, che è l’orologio del comune. E lì c’era un bar, lì fuori c’era mio padre. Mio padre non mi ha riconosciuto. Voi potete immaginare come sono rimasto io. E naturalmente ho continuato la strada, poi dopo ha detto “ma è Vittoriano”. Sono andato verso casa, nelle condizioni che ero. E come sono arrivato a casa – a parte che mi ci son voluti degli anni per poter rientrare in una certa normalità – è stata la tragedia con le famiglie dei miei compagni morti, quando venivano a casa mia e mi dicevano “Nino” – due ragazzi di 16 anni che erano con me – “Nino, Cleo, com’è che te se qui e loro no?” Che cosa gli potevo dire io, che erano stati gasati, che erano nei forni crematori. Perché poi allora, non è come adesso. Quando noi parlavamo – che io tentavo di parlare di queste cose, anche i miei familiari, i miei compagni – nessuno ti credeva. Ma mi guardavano con degli occhi come per dire “ma questo qui è pazzo”. È per quello che anche noi siamo stati degli anni… siamo stati fermi, siamo stati chiusi nel nostro conscio, perché è stato uno shock per noi anche il ritorno a casa e trovarci in quelle condizioni lì, capito? Di voler dire quello che è successo e nessuno ti credeva, e la gente ti guardava come che uno venisse da un altro pianeta. Non so, per me è stata… Mi ci sono voluti degli anni finché questi genitori sono riusciti a capire le ragioni e il perché io ero ritornato e i loro figli no.

D: Vittoriano, lavorare in cava, a Mauthausen, cosa voleva dire, cosa significava?

R: Voleva dire poter sopravvivere pochissimo. Perché io… è stato un complesso di fortune che io ho avuto, perché ci sono andato verso la fine, ci sono stato in cava solo quindici giorni, e gli altri quindici giorni li ho passati [che erano] gli ultimi, perché naturalmente eravamo già alla fine, che c’era già il sentore che la liberazione era vicina, ecco.

D: Cioè, in cava era un posto della morte…

R: In cava uno… non c’era la possibilità di poter sopravvivere, perché poi eravamo sorvegliati, perché poi, a differenza del campo, non so, di Gusen, che durante il lavoro c’erano dei civili, in cava c’era l’SS eh, che ti sorvegliava coi cani in continuazione. Non è che ti potessi abbandonare, capito… non c’era la possibilità, ecco.

D: Vittoriano, ti ricordi qualche nome di qualcuno che era con te nella deportazione?

R: Ma, io mi ricordo… praticamente io sono stato con dei polacchi, dei russi. Io la mia deportazione, purtroppo, come ho detto, è stata una tragedia perché anche come lingua non potevo… Non so, se ero in una baracca con degli italiani – nella baracca, perché non potevi andare in un’altra – se io sapevo che, non so, alla decima, all’undicesima [baracca] c’erano dei miei compagni, non potevo andare, avere un sollievo, avere qualche cosa, un discorso con loro. Io potevo solo parlare, oppure cercare di capire la sofferenza di un altro. Io avevo due polacchi che ero molto amico con loro, quei pochi momenti di libertà di riposo che avevamo li passavamo insieme. Cosa che non ho potuto dire per dei miei compagni slavi, per i due slavi che dormivano con me, perché quando… A me dispiace dire queste cose, perché io ne ho discusso anche in seno alle nostre associazioni, anche nelle nostre riunioni, quando sentivo parlare da compagni della deportazione della solidarietà fra noi… io non so… io non l’ho trovata. Eh, ma perché io sono arrivato verso la fine. Perché quando un uomo è una bestia, è una larva, fa fatica essere solidale verso un altro, perché è agli stremi della sua vita. Come fai a dare qualche cosa, oppure, fare qualche cosa per uno che non sei in grado di far niente neanche per te? Io mi ricordo – è una esperienza mia – il giorno del compleanno del Führer, che credo sia il 17 o il 18 aprile, verso il 20 aprile, 18… l’unico momento, come debbo dire, di umanità, che hanno avuto verso di noi i nostri aguzzini, c’han dato due sigarette a testa. Io sono uno che non ha mai fumato, però con due sigarette uno riusciva a recuperare da chi stava in cucina una patata o due, che voleva dire molto per noi una patata, con quello che mangiavamo. La sera – io v’ho detto prima che dormivo con due slavi e un francese – la sera, come andiamo nel nostro pagliericcio, ci svegliamo la mattina, questi due – che ci danno le sigarette – questi due slavi cominciano a picchiarmi “[espressione in lingua slava]”, mi dicono, “Tu italiano ci hai rubato la sigarette”. La cosa era ben diversa: loro lo facevano per portarmi via naturalmente le mie due sigarette, e per poter recuperare loro quelle due patate che potevo recuperare io, che per noi voleva dire una giornata stupenda, ecco. Tanto per dirvi…

Zappa Ugo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

La trascrizione è integrale e fedele all’originale. Gli interventi del compilatore sono segnalati da parentesi quadre. Per espressioni di difficile interpretazione si segnala l’omissione con la dicitura […]. Alcune ripetizioni ed elementi intercalari in parte non sono stati riportati.

Mi chiamo Ugo Zappa, nato a Milano il 12.5.’21.

Sono andato militare il 5 gennaio del ‘41 in Guardia frontiera, e m’hanno mandato a Vipiteno. Da Vipiteno ci hanno spostati a Malles. Lì hanno creato una compagnia di Arditi, dove io sono entrato come trombettiere, e ci hanno fatto fare diversi corsi: prima di addestramento alla guerriglia, poi il corso sciatori, poi una specie di corso rocciatori. Poi da lì ci han portati sullo Stelvio. Sullo Stelvio, si diceva, avremmo dovuto attaccare la Svizzera come compagnia di arditi, però ci hanno ripensato probabilmente, e allora ci hanno rimandati a Merano. Dopo qualche mese di Merano c’hanno mandati a Dobiaco. Da Dobiaco a Sestri Pusteria a fare il corso sciatori. Da Sestri Pusteria ci abbiamo – penso – passato un po’ di mesi, ma la compagnia d’assalto Stelvio non funzionava più.

Ci han mandati a Napoli, a Villa Literno. A Villa Literno è stata completamente sciolta: una parte sono andati in Africa, una parte sono andati alle isole. Io, dato che ero un volontario nella compagnia di arditi, m’hanno fatto firmare per fare il volontario anche di guerra. E diciamo che qui ho preso un po’ una fregatura, perché assieme al volontario di guerra avevo fatto la firma anche per fare il corso di caporale, caporal maggiore, sergente. L’unico documento trovato è stato il volontario in guerra, l’altro non s’è più trovato, il fatto mi hanno spedito in Russia, nell’ARMIR, alla Compagnia mortai Ravenna. Lì ho fatto quello che han fatto tutti i militari, cioè la trincea, dove, con grande fortuna, sono riuscito a tornare perché rimbambito da un colpo di katiuscia m’hanno mandato in ospedale, o perlomeno nell’ospedaletto da campo. Intanto che mi trovo in questo ospedaletto, i primi battaglioni dei russi hanno cominciato a sfondare il fronte: è iniziato il ripiegamento. A me è andata bene perché nella trincea penso siano morti tutti, io però essendo in questo campo, in questo ospedaletto, ho fatto in tempo a ripiegare. Quanti giorni non me lo ricordo. So che ho fatto moltissimi giorni, circa una ventina, moltissimi chilometri in mezzo alla neve, in mezzo a tanti cadaveri, e sono arrivato dove non me lo ricordo; o perlomeno, molto è scritto sul diario che io ho scritto, e che ho sempre lasciato in un angolo semplicemente per ricordo.

Dalla Russia m’han fatto rientrare: grandi festeggiamenti. A Ravenna… Dalle caserme di Alessandria ci hanno mandato in Toscana. Dopo diversi mesi è successo l’8 settembre. L’8 settembre sono scappato come tutti; mi sono fatto una quindicina di giorni attraversando le montagne e sono arrivato a Bellano, dove c’era mia zia, una persona con cui ho sempre vissuto, perché ero orfano di genitori. Mi sono adattato a fare un po’ il manovale in ferrovia. Dopo un certo periodo hanno richiamato la mia classe. Io non ho voluto andare nella ‘Repubblichetta’ e sono andato nei partigiani, partigiani a Ca’ Maggiore, nella Compagnia Rosselli. Dopo un mese circa sono arrivati i tedeschi, han fatto un grande rastrellamento, siamo scappati tutti naturalmente, e scendendo nella valle sono arrivato al ponte di Taceno. Probabilmente l’avrei anche fatta franca se non ci fosse un tizio di Bellano, della milizia ferroviaria, che mi ha riconosciuto. Mi ha additato ai tedeschi che non ero un boscaiolo come il gruppo che c’era, e lì mi han fatto i primi interrogamenti, qualche schiaffone, e mi hanno portato nel teatrino di Casargo. Lì ho conosciuto Antonio Scolo, che anche lui era nei partigiani da quelle parti. Da lì ci han portato a Delebio. A Delebio conoscevo gente, ho fatto arrivare mia zia. Finalmente l’ho rivista e naturalmente è stato per l’ultima volta.

D: Delebio dov’è? Sempre lì sul lago?

R: Delebio è dopo Bellano, Dervio, Delebio. Comunque [è sempre lì] ad una quindicina di chilometri.

D: A Delebio dove ti hanno messo?

R: Nella scuola, infatti l’avevo detto, in una scuola.

D: E poi cosa è successo Ugo?

R: Niente, ci hanno caricato sui carri bestiame e ci hanno portati a San Vittore.

D: Ti ricordi in quale raggio di San Vittore ti hanno messo?

R: Quinto raggio. La camera mi pare che era, se non sbaglio, la 221; la cameretta singola, perché eravamo dei prigionieri politici, ribelli, e naturalmente ci tenevano separati.

D: Isolati quindi, nelle celle.

R: Isolati nelle celle.

D: Ecco, lì a Milano in carcere a San Vittore, quanto tempo sei rimasto?

R: Penso che siamo rimasti un paio di mesi, penso. So che abbiamo fatto in tempo a sentire… una notte terribile per tutti, terribile per tutti, perché è stata quella notte che hanno preso i quindici [partigiani] da portare in piazzale Loreto. Infatti eravamo tutti col cuore sospeso perché ogni tanto arrivavano, arrivavano a scegliere. Però non so quanti giorni, ci hanno trasferiti tutti, caricati sempre su dei pullman, e ci hanno portati a Bolzano. Però nei dintorni di Brescia sono riuscito a buttare un biglietto per terra, avvertendo mia zia che stavo andando in Germania.

D: Ecco, scusa Ugo, ti ricordi la data di quando ti hanno arrestato, più o meno?

R: Il 24… eh no, l’è scrit lé, è scritto lì. E adesso… me pare che l’era il ventiquatar de giugni. Eh, guarda, bisogna trovarlo lì.

D: Del ‘44?

R: Del ’44. Mi pare che era sul 24 di giugno del ’44, se non mi sbaglio.

D: Poi siete arrivati a Bolzano, nel lager di Bolzano.

R: Nel lager di Bolzano, dove ho fatto lo scopino, andavo in giro a fare pulizia, ci han tenuti – non mi ricordo quanto – un mese circa. Da lì ci han portati sui carri bestiame e ci han portati a Flossenbürg.

D: Ecco, scusa, cosa ti ricordi del lager di Bolzano, e il tuo numero di matricola del lager di Bolzano te lo ricordi, per caso?

R: Ma, lé al me ricordi no, se quel numero… no, a Bolzano credo… Non so se è a Bolzano che m’han dato il… se l’è… – eh, ormai ghe passà cinquant’an – hundert sieben […] vierundzwanzig  [forse approssimazione di 117.064, numero assegnatogli a Augsburg, ndr], undici cento… No, guardi, no, no, no. Non so se me l’han dato lì o se han fermato il treno, me par a Dachau, e ci hanno dati il numero, e poi ci hanno rispediti – sempre sul treno – rispediti a Flossenbürg. Adesso non me lo ricordo. No, no, no, no, no…

D: Del campo invece di Bolzano, cosa ti ricordi? Eravate nelle baracche?

R: Dunque, nel campo di Bolzano c’era un enorme portone di ingresso, un grande cortile, e sulla sinistra quello che mi ricordo è che c’erano dei palazzoni, dei casermoni, e grandi, con una infinità di letti. Quello in particolare che mi ricordo è che alle spalle del mio letto c’era un muro divisorio, che non arrivava al soffitto; da quel muro divisorio si sentivano voci di donne. E alla sera avevamo preso l’abitudine di salire sulla spalliera del letto per guardare oltre il muro, e si vedevano le donne che cantavano, ballavano, e naturalmente ci facevano degli schiamazzi perché noi eravamo degli uomini.

D: Parlavi di un portone all’ingresso, del lager di Bolzano. Ma era un portone – se ti ricordi – in legno, in ferro?

R: Mi pare che era in legno, se mi ricordo. Mi pare che era in legno.

D: C’era qualche scritta sopra?

R: No, quello non me lo ricordo. L’unica scritta che mi ricordo l’era quella di Flossenbürg.

D: Ascolta, sempre del lager di Bolzano, ti ricordi se c’erano anche dei religiosi? Tu hai visto dei religiosi?

R: Sì, anche lì, è scritto lì. Gh’era un fraticello. C’era… c’era… cum’el se ciama? [come si chiama?] C’era un fraticello che l’era, l’era da… era da abbracciare quell’uomo lì, perch’el gh’aveva parole dolci per tutti.

D: Ugo, hai visto se c’erano anche dei bambini, dei ragazzini, dentro nel lager di Bolzano?

R: No, no. Del lager di Bolzano mi ricordo che c’era un fraticello che ci rincuorava tutti, e mi ricordo che c’era anche una donna – o perlomeno fra le tante – c’era una donna che abitava con me a Milano, in piazza Lega lombarda, era la mia vicina di casa. Era stata arrestata perché era in un ufficio straniero, e si chiamava… non me lo ricordo più, il cognome era Pastorini, aveva circa una trentina d’anni. Era in un ufficio straniero dove sembra c’erano forse degli americani, e allora hanno portato via anche gli impiegati, e ho incontrato per caso… L’unica volta che l’ho vista, poi non l’ho vista più.

D: Tu dicevi che lì nel lager di Bolzano come lavoro sei sempre stato addetto alle pulizie del campo.

R: Sì. M’han dato ‘sta cariola, e altro, e andavo in giro a fare pulizie, basta. Io non ho fatto altro che questo, fino al giorno che m’ han fatto smettere, che mi han caricato… Almeno, anca lì, m’han fa tirà su la mia roba e m’hanno caricato sulla… lì alla stazione, mi hanno messo sui carri bestiame per andare a Flossenbürg. Ora, il numero di matricola me l’han dato. Dove? Ma, lì non mi ricordo il numero di matricola. So ch’el sera fermato il treno, e ognuno di noi ci avevan dato… ce l’han dato prima di salire in treno, ce l’han dato… So che han fa ‘na sosta, ho sentito parlare di Dachau quando ci siamo fermati – non siamo scesi – però dopo siamo ripartiti, e siamo arrivati a Flossenbürg. E infatti, allora lì siam scesi, e ci han fatto fare un grande viale, di terra, e siamo arrivati davanti a un enorme cancello di Flossenbürg, dove c’era scritto – in tedesco naturalmente – che “il lavoro rende… felici”, qualcosa del genere. Infatti, dentro come lavoro era tutt’altro che felice.

D: Ecco, come avete superato l’ingresso di Flossenbürg… Allora, tu sei partito da Bolzano e vi hanno portato a Flossenbürg. Come hai superato l’ingresso di Flossenbürg, cosa è successo, cosa ti hanno fatto?

R: L’ingresso a Flossenbürg era normale, era un campo di concentramento. Quello che ci ha colpito erano le docce. Perché, naturalmente, gli anziani di questi campi ci hanno avvicinato e ci hanno spiegato cos’era quel posto lì, e ci hanno detto “attenzione alle docce, perché dentro lì gasano gli ebrei; se voi però non siete ebrei, siete solo partigiani, probabilmente non vi fanno niente.” E poi, altro discorso, “là in fondo c’è un blocco 22, ci sono dei moribondi; fra qualche giorno, quello che vi danno a mangiare non basta, avrete fame, allora andate lì vicino a questi moribondi, prendetegli pure da mangiare perché tanto a loro non serve più.” Poi m’han messo nel blocco 23. Dopo un po’ di giorni ci hanno inquadrati, han guardato quelli più… ci han messo la loro divisa – che mi spiace che non ho portato a casa, perché era un bel ricordo, sono riuscito a portare a casa solo il triangolo rosso – ci han messo questa divisa, han preso i ragazzi più grandi e grossi e ci hanno portato a scavare sassi in una maniera nei pressi.. non so, a qualche chilometro da Flossenbürg. Infatti lì ci ho vissuto per circa una ventina di giorni, a picchiare ‘sti sassi, perché dicono che ne avevano bisogno per marginare le strade, per arginarle. Dopo un certo periodo hanno fatto delle domande, ci han messo tutti in riga, ci han fatto delle domande – chi era meccanico, chi era elettricista – e io gli ho detto che ero un meccanico, e loro mi han messo in fila per andare in un reparto, e mi avrebbero trasferito. Però nel frattempo, in attesa di questo trasferimento, mi è venuta la pleure. Purtroppo pensavo di lasciarci le penne, perché fra noi c’erano anche dei medici, i quali medici mi hanno detto “non dire che hai la pleure, perché se sanno che sei ammalato ti mettono nel reparto” – noi eravamo il 23 – “ti mandano al blocco 22, dove ci sono i moribondi.”

Naturalmente, gentilmente mi tenevano sempre dentro quando facevamo la stufa che eravamo fuori ci si metteva in blocco, vicino alla parete del blocco, per riscaldarci, e a turno ognuno veniva fuori, quelli dentro uscivano e entravano quelli fuori. A me han sempre lasciato dentro per via della pleure. Non so, il padreterno, la fortuna, qualcuno che…

D: Quando tu parli di stufa, non intendi la stufa a legna e carbone…

R: No, sto parlando di quella fuori.

D: Cioè? Prova a spiegarla. Cosa facevate, la stufa umana sarebbe?

R: Diciamo che abbiamo la stufa umana. Infatti, nei momenti di sosta, non ci lasciavano nei blocchi, ma ci tenevano fuori. Fuori faceva freddo, non so chi l’abbia inventata, comunque ci mettevamo a mazzi, a gruppi, contro la parete del blocco. Naturalmente quelli dentro si scaldavano e quelli fuori no, quindi si facevano dei turni: quelli fuori a un bel momento entravano, e uscivano quelli dentro che erano, diciamo, bei caldi. Io con la mia pleure, ‘sta gente di cuore, umani, mi lasciavano sempre dentro per cercare di farmi passare o di guarire. Tanto è vero che quando sono rientrato in Italia, facendomi le radiografie han visto che avevo una macchia di pleure, il che vuol dire che mi era passata ed ero guarito, per opera di chi non lo so.

D: Ugo, tu hai parlato prima che quando sei stato arrestato, c’erano altri partigiani con te, c’era anche Antonio Scollo. Ti ha seguito anche lui a Flossenbürg?

R: Tutti. Abbiamo fatto tutto il giro. Scollo, e tutti gli altri. Naturalmente, ripeto, Scollo ci siamo legati perché eravamo di Milano, e abbiamo fatto… tutto il giro che ho fatto io l’hanno fatto tutto anche loro: Delebio, San Vittore, Bolzano, Flossenbürg. A Flossenbürg, ecco, e arriviamo a quel momento che han scelto i lavoratori, quelli che dovevano fare il meccanico, e i giovani invece li mandavano – mi pare – a Bersen Berger [Bergen-Belsen, ndr] – come si chiama quel posto lì – perché erano dei giovani. Però fino a quel momento siamo rimasti assieme.

D: Quando ti hanno scelto poi tu sei andato a fare il meccanico?

R: Dunque, quando mi hanno scelto… A parte che è passato un po’ di tempo: passata la pleure ho cominciato anche io a soffrire la fame, che oramai era passato qualche mese, e ci andavo appunto a portar via da mangiare a questi poveri. E avevamo però sempre il terrore delle docce. Perché purtroppo a un paio di gruppi – che han detto che erano ebrei – un paio di gruppi abbiamo visto la fine che gli hanno fatto fare. Che, appunto, entravano vivi e poi entravano dentro dei portantini, della gente addetta a questo lavoro, portavano fuori tutti i cadaveri gasati. E quello proprio è una cosa…

Un’altra cosa che mi è rimasto impresso per molto tempo, il fumo del forno crematorio. Era un fumo addirittura schifoso, che faceva venire il vomito i primi tempi, poi ci ho fatto l’abitudine e mangiavo anche se c’era quel fumo. A questo proposito, se si può, c’è stato qualcuno che ha scritto che i forni crematori erano cose finte, erano propagande nulle, e io su un giornale ho risposto, dicendogli che a questi signori li inviterei volentieri nel blocco di Flossenbürg a sentire il profumo che esce dai forni crematori, per capire che cosa veramente voleva dire la vita in un lager.

D: A Flossenbürg tu hai visto se c’erano anche delle donne deportate?

R: Dunque, a Flossenbürg c’erano delle donne, però erano lontane da noi, perché c’era una lunga fila di baracche, e non so se erano a metà o in fondo, però so che c’erano delle donne.

D: Prima parlavi di quel religioso che c’era a Bolzano. Vi ha seguito anche lui a Flossenbürg? È stato deportato anche lui?

R: Non lo so, questo non lo so. So che… No, a Flossenbürg non c’era. Ho conosciuto… no, quel là l’era un professore. Quello di Augsburg l’era un professore. No, niente. No, me ricordi no. Cum’è che’el se ciamava? [come si chiamava?]. Va beh, niente.

D: Ti hanno mandato poi allora a lavorare come meccanico?

R: Dunque, a un bel momento ci hanno spediti. Dopo, non so, un giorno o due di viaggio ci hanno mandati ad Augsburg, alla Messerschmitt, naturalmente, non certo a fare il meccanico. M’hanno invece messo a trasportare bombole di ossigeno. Perché c’erano le lavorazioni per gli aerei, quindi c’era chi facevano le carlinghe, chi facevano le ruote. Per un po’ di tempo mi hanno messo a trasportare bombole. Poi invece m’hanno messo a fare il battitore: avevo una forma – probabilmente doveva essere una piccola portiera – una forma dove io, con un pezzo di lastra, dovevo a mano battere e dargli la forma a questa portiera. Naturalmente, fra il poco mangiare, fra la debolezza, fra il freddo – perché erano capannoni enormi non riscaldati – qualche volta mi addormentavo su questi blocchi, su questi pezzi di lavoro, e naturalmente ho preso una fila di sberle, io e anche altri, perché naturalmente qualcuno di noi ci cascava.

E lì ci siamo rimasti fin quando gli americani non cominciavano ad avanzare. Avanzando cominciarono a bombardare. Però il brutto di questo trasporto fra il campo di Augsburg e il campo di… le officine della Messerschmitt, era un treno, che fin che gli americani non l’avevano bombardato andava bene, perché la facevamo in treno – viaggio da una ventina di minuti – quando  invece gli americani l’hanno bombardato ce l’han fatta fare a piedi. E lì purtroppo era un brutto camminare, perché zoccoli di legno, la neve si appiccicava sotto gli zoccoli, molti di noi cadevano, e quelli delle SS ci legnavano per farci tornare in piedi. In questo periodo a Flossenbürg abbiamo passato dei momenti belli e dei momenti brutti, perché alla domenica ci facevano fare festa.

D: Scusa un attimo Ugo, non a Flossenbürg. Qui eri già nel sottocampo.

R: Ad Augsburg.

D: Ecco. Ascolta, il campo… il lager di Augsburg come era organizzato? Erano tante baracche?

R: No. Dunque, ad Augsburg erano dei capannoni, non proprio baracche, erano dei capannoni. E diciamo, perché era d’inverno naturalmente, si stava anche caldi, si stava anche bene. Qui il mangiare era abbastanza, era discreto, se non proprio buono, era discreto, anche perché dovevamo andare a lavorare. Qui ho conosciuto un ebreo, un professore mi pare ungherese – non mi ricordo il nome – ma so che parlava tre o quattro lingue fra cui l’italiano. Era qualcosa di meraviglioso, ci teneva tutti allegri, anche se lui era conciato più di tutti, tanto è vero che per questo suo discorso che faceva con tutti, c’era il capo blocco che non lo poteva vedere. Un bel giorno abbiamo saputo che l’avevano finito a legnate.

Qui ci facevano fare festa sabato pomeriggio e alla domenica. Augsburg è diventato nominato per le impiccagioni, perché al sabato pomeriggio ci radunavano in un enorme capannone. C’era una forca, ci han fatto imparare il nodo scorsoio, e, seduti, ci spiegavano il perché impiccavano. In via di massima erano russi, qualche ebreo, ma in via di massima russi, era gente che scappava: li prendevano e li tenevano buoni per il sabato pomeriggio. E ogni sabato ce n’erano tre quattro o cinque che li impiccavano, e noi dovevamo assistere, proprio perché era una lezione. Alla domenica non si lavorava. E era buono… perché incominciavano anche a arrivare le bombe degli aerei, e allora più di qualche volta, più di qualche notte, dovevamo uscire dai nostri capannoni, andare nei fossati che avevano scavato e magari passarci la notte, in mezzo alla neve, dentro in questi fossati, perché gli americani oramai erano vicini. È successo che un bel giorno han dovuto piantare lì anche la Messerschmitt.

D: Ecco, scusa parliamo di questo lager e di questo sottocampo di Augsburg. Era vicino al centro abitato il campo di concentramento, non i capannoni delle fabbriche.

R: No.

D: Era vicino a un lago, se ti ricordi?

R: L’unica cosa che mi ricordo era la ferrovia, perché fuori naturalmente non ci siamo mai andati. Noi uscivamo da un portone, c’era il binario. Probabilmente m’han detto che prima quella era una caserma, e aveva un binario che andava diritto alla Messerschmitt. Quindi noi vedevamo solo dei campi, vedevamo solo la Messerschmitt quando si arrivava: era inverno, quindi la visuale era quella che era, non si poteva vedere niente.

D: Lì nella fabbrica c’erano anche dei civili?

R: Nella fabbrica c’erano dei civili. Qualcuno ci passava anche le croste del pane, mentre invece qualche capoccione civile – e questo me lo ricordo bene, perché mi ha lasciato qualche segno sulla schiena – quando si sbagliava a fare qualche pezzo, indossava il camice bianco, si metteva i guanti, prendeva un randello, di gomma naturalmente, e controllava tutti i pezzi, e se qualcuno aveva sbagliato erano bastonate che ci arrivavano. Come in tutti i lager usavano il bastone di gomma, perché non faceva ferite, ma naturalmente faceva rompere le reni interne.

Naturalmente è arrivato anche il punto degli americani, ci han messo in colonna: a piedi dovevamo rientrare a Dachau.

D: Ecco, scusa ancora se ritorno, sempre in quel campo lì di Augsburg, eravate in molti, se ti ricordi? E c’erano anche delle donne?

R: No, donne no. No, donne no.

D: Ed eravate in molti come deportati?

R: Mah, penso più di un centinaio. Penso più di un centinaio, perché c’erano diverse camere – appunto, m’han detto che era una caserma – diversi saloni enormi, con tutti castelli, quindi l’era abbastanza pien cum’è… fra l’altro quando andavamo all’impiccagione, oh ma ghe n’era, c’era una valanga di sedie, e dietro quelli in piedi, quindi penso che eravamo sul centinaio, penso.

D: Mentre invece la fabbrica erano capannoni… piano terreno…

R: Sì, capannoni piano terra. Capannoni piano terra.

D: Ecco le evacuazioni, stavi dicendo, quando avete lasciato Augsburg, ti ricordi più o meno quando è avvenuto questo, in che periodo?

R: Forse è scritto, adesso non me lo ricordo. So che ci han messo tutti in colonna, ci han dato il solito pezzo… fetta di pane margarina, pezzo di salame, e ci han messo in colonna, e ci han fatti camminare, credo per un giorno e una notte. Siamo arrivati in un posto che credo si chiami Kauflin, credo [Kaufering, ndr]. Lì c’hanno fermato, perché erano in attesa di altri gruppi, perché dovevamo rientrare tutti a Dachau. E lì ci hanno spiegato che il famoso signor Himmler aveva dato ordine che tutti quelli che rientravano dai vari campi dovevano essere messi sui vagoni bestiame, attorno a Dachau, e lasciarli morire dentro. Lì purtroppo ho perso due amici, uno di Trieste e uno di Milano. Quello di Trieste aveva sui 45 anni, tanto è vero che la moglie m’aveva scritto; quello di Milano aveva solo vent’anni. Eh, ma almeno… erano mezzi moribondi, han detto che li avrebbero caricati sui camion, per portarli, però abbiamo sentito la solita sparatoria quando noi eravamo a circa duecento metri.

Ora, abbiam camminato per qualche giorno. Una bella notte ci hanno fermati in un bosco, e qui ho fatto il pensiero. Ho detto “andare a Dachau e crepare in un vagone bestiame non è una bella cosa. Qui tento. Scappo. Al massimo mi sparano.” Ce l’ho fatta. Sono riuscito – naturalmente ho aspettato che avevo l’impressione che le guardie dormivano, anche se qualche guardia ogni tanto cominciava a tagliare la corda, perché oramai gli americani li avevamo alle spalle – mi sono guardato in giro, tutto era tranquillo; ho cominciato strisciando per terra a camminare in mezzo alle piante, sono arrivato a un muro e ho detto “è una casa”: sono saltato dall’altra parte: era un cimitero; ho aperto una… almeno, sono riuscito a spostare una lastra di tomba, ho visto che era vuota, sono andato dentro, ho detto “io mi nascondo qua”. Ci ho passato la notte.

D: Da solo Ugo l’hai fatto?

R: Sono scappato lì, era… Ci sono stato fino al mattino. Al mattino mi sono alzato, sono andato giù, ho camminato, c’era una discesa, sono andato giù, c’era un fosso, e c’erano delle lumache. Non ho mai mangiato una cosa meravigliosa come quelle lumache. Fra l’altro avevo un po’ di paprika – non so da dove sia saltata fuori, dentro nel pastrano che avevo, c’erano dentro delle bustine di paprika – ho spolverato di paprika le lumache e sono stato…

Dopo aver vagato per qualche giorno sono riuscito ad arrivare vicino ad una cascina. Vicino a questa cascina c’era un giovanotto, che ho saputo dopo che era polacco, oh! Conoscevo qualche parola di russo, conoscevo qualche parola di francese, mi arrabattavo col tedesco, ha capito da dove venivo, e lui m’ha detto “vieni con me che ti porto in salvo.” M’ha fatto entrare in una stalla, e m’ha detto “resta qui, stai tranquillo che qui non ti tocca nessuno.” M’ha portato da mangiare, m’ha portato da bere, m’ha portato latte a non finire, da mangiare che c’era da star male per… Gli ho detto “ma quella gente là?”, e lui mi ha detto “stai tranquillo, perché stanno arrivando gli americani, quindi è chiaro che vogliono fare bella figura ad aver aiutato uno che è scappato da Dachau.”

Un bel giorno mi sveglio, almeno… dopo qualche giorno mi sveglio, mi trovo davanti quattro spilungoni con la divisa di americano. Fra l’altro il solito… il sergente che parlava mezzo italiano, gli ho spiegato chi ero, chi non ero. M’ han portato in casa, m’han dato da mangiare, poi m’han caricato su una jeep. Si son fermati in una casa, e qui mi spiace che ho dovuto… col mitra alla mano hanno obbligato quella gente a darmi degli abiti, delle scarpe, degli indumenti intimi, e ho dovuto lasciarci la mia divisa da galeotto. M’han portato nel campo – mi pare 205, comunque è scritto lì, 205 – dove han detto al capitano che comandava, un capitano di marina, che comandava il campo, “questo è un reduce di Dachau, me lo tratti bene.”

Lì ci son vissuto per diversi giorni. Era dopo aprile, mi pare sul maggio, m’han dato un foglio di carta per scrivere a mia zia. E finalmente io sono riuscito a mettermi… almeno, tramite questo pezzo di carta della Croce Rossa, [a] scrivere a mia zia. Oh, qui devo dire che sono stati abbastanza gentili, perché non mi han dato da mangiare, ma m’han dato piano piano prima il brodo: cioè da dove arrivavo han capito che avrei dovuto fare una certa dieta, perché? – e questo me l’aveva fatto notare anche l’americano quando mi portò sulla jeep – c’era gente che si… gli americani a tutti ‘sti prigionieri buttavano da mangiare, tutti mangiavano, ma molti crepavano di indigestione. Purtroppo gli scoppiava lo stomaco. Lì nel campo invece piano piano – naturalmente un po’ di rabbia per vedere gli altri che mangiavano sberle di carne e io che dovevo prendermi… mangiarmi il brodino o la zuppa – però m’hanno rimesso in forma bene.

D: Ti ricordi se questo campo era vicino a qualche città grossa?

R: No, l’era appena fuori da Dachau… sì, appena fuori di Monaco, periferia di Monaco. Infatti lì, Monaco di Baviera, mi pare che era il campo 205.

D: E lì sei rimasto fino a quando dicevi?

R: Dunque, sono rimasto fino… mi pare alla fine di giugno. Però nel rientro – naturalmente eravamo in molti che rientravano – m’hanno fatto fare fino a Brescia con un treno… sì, con un treno, poi a Brescia non c’era… beh, loro mi han portato a Brescia, poi mi hanno detto “arrangiati tu”. Infatti a Brescia abbiamo trovato un camionista, gli ho spiegato chi ero, da dove venivo, perché portavo ancora il triangolo – anche se oramai avevo solo degli abiti borghesi – m’ha preso ‘sto camionista e m’ha portato in piazzale Loreto. In piazzale Loreto, quando m’han visto arrivare con ‘sto triangolo è stata la fine del mondo. Perché non ho pagato il tram per arrivare a casa, tutti volevano accompagnarmi, anche perché ero diventato abbastanza rotondo. Perché dalla magrezza di Dachau al piano piano riprendendomi – di Dachau, pardon, di Flossenbürg – riprendendomi mi ero anche gonfiato, fra l’altro. Però anche se ero gonfio, sapevano – probabilmente lo sapevano già perché altri erano arrivati prima di me – sapevano che era una malattia la mia, e allora m’hanno accompagnato fino in piazza Lega lombarda, dove la portinaia quando m’ha visto ha fatto un urlo… e ha detto “è tornato l’Ugo.” Lì ho abbracciato mia zia, finalmente.

D: Scusa un attimo Ugo, questa storia del ritorno, cioè da Monaco ti hanno messo su un treno…

R: Su un treno fino a Brescia.

D: E non si è fermato a Innsbruck, da altre parti?

R: No, no. Almeno, che mi ricordo da Monaco so che mi hanno scaricato a Brescia. Perché il treno si fermava a Brescia.

D: Ma era un treno civile? Era un treno di passeggeri?

R: No, no, no. L’era un mezzo civile, un mezzo… perché molti erano su carri bestiami, molti erano su carrozze, ma vecchie stravecchie, perché se vedevi che erano… e io ero su una carrozza, ma che gli mancava un veder [vetro]. Ma, intendiamoci, non me ne fregava niente.

D: Ascolta, ma questo treno qui di chi era?

R: Non lo so.

D: C’era su del personale?

R: No. So che a me han detto un bel momentino “tutti questi di questo campo vadano là, trovino posto, o sul treno… o sui carri, o sui vagoni, perché arriva a Brescia.”

D: A Brescia c’era un comitato di accoglienza?

R: No, no, no. Non ho trovato nessuno. Brescia sono sceso e ho detto “qui cosa faccio?” Treni non ce n’erano, probabilmente non poteva continuare il treno perché c’era rotto qualcosa. Ho detto “qui vado sulla statale per Milano, vedo se c’è qualche camion”, combinazione ho trovato questo camionista che mi ha caricato e mi ha portato fino in piazzale Loreto.

D: Ugo, son passati 55 anni, e tu facevi sempre accenno prima al diario che hai scritto dopo.

R: Sì, perché io avevo diversi appunti… cioè, non appunti presi là, ma appena tornato ho voluto scrivermi subito quello che riuscivo a ricordare. Quelli della Russia l’avevo fatto prima, quelli di Flossenbürg l’ho fatto dopo, e li ho messi lì, non li ho mai toccati. Poi ogni tanto mi veniva in mente qualcosa e la mettevo giù. Nel ’75 finalmente mi son deciso a dire “cià, adesso con calma mi scrivo…” L’ho scritto, ma l’è sempre rimasto nel cassetto.

D: Ecco, ma io ti volevo chiedere: sei mai stato intervistato te in questi 55 anni?

R: No, no, no.

D: Nessuno ti ha mai chiesto niente della tua deportazione?

R: Ma guarda credo che neanche in Pelikan, eccetto i dirigenti, nessuno sapesse… io non ho mai raccontato niente a nessuno. A scuola insegnavo, qualcuno sapeva, qualcuno, ma altrimenti non… C’è gente che ancora al giorno d’oggi, intendiamoci non sono… ma non sa che io sono stato a Dachau, sono stato in Russia. Mument… [un momento] lo sanno i combattenti, perché quando c’è la riunione vado con loro e sanno che son stato in Russia.

D: Ugo, dei tuoi compagni di deportazione, che siete partiti da Bolzano per arrivare a Flossenbürg, quanti se ne sono salvati? Lo sai più o meno?

R: Se ne sono salvati molto pochi. Perché infatti quando ci sono le riunioni della associazione, che ci troviamo noi, che ci siamo conosciuti dalla Val Sassina, da San Vittore, da Bolzano, eravamo in una decina: oggi siamo quattro o cinque, cinque forse, perché diversi sono… a parte quelli che purtroppo sono morti subito. Perché infatti appena tornato siamo andati a trovare altra gente, ma era ammalata, gente che aveva contratto delle malattie, che purtroppo non ce l’han fatta a arrivare fino ai giorni nostri, per essere lì in associazione.

D: Ecco Ugo, l’ultima cosa, i numeri proprio non te le ricordi? I numeri di Flossenbürg…

R: Lassum legerli [fammeli leggere]. Campo di concentrazione Dachau comando d’Augsburg […] 7-19 ottobre ’44, numero detenuto 11… beh 117.064.

INTERVENTO: Sopra c’è anche quello di Flossenbürg.

R: Ah eccolo qua, ciula… eccolo…

INTERVENTO: Allora se li puoi dire tutti e due…

D: Allora i due numeri…

R: Dunque, quello di Flossenbürg è quello in alto che l’è 21752. Quello di Dachau è 117064.

D: Visto che questi ce li siamo ricordati?

R: Eh, per forza, l’ho legiù [l’ho letto].

D: Ugo.

R: Ecco, arrestato il 25 giugno del ’44.

D: Ecco, Ugo, ascolta un attimo. Quindi a Flossenbürg ti hanno immatricolato una prima volta, e poi quando ti hanno trasferito da Flossenbürg ad Augsburg ti hanno ancora immatricolato.

R: No, no, ho sempre avuto quel numero lì.

D: Eh ma 117 mila è quello di Dachau.

R: Ma perché Flossenbürg era sotto una dépendance.

D: Augsburg era un sottocampo di Dachau.

R: So che a me han dato questo numero e l’ho sempre tenuto, si vede che a Flossenbürg gh’el ‘ndava ben chel numer lì [gli andava bene quel numero lì].

D: No, ascolta, a Flossenbürg ti hanno dato il 21 mila, giusto? Quando sei arrivato con Antonio a Flossenbürg ti hanno dato il 21 mila. Poi quando sei andato ad Augsburg, che è un sottocampo di Dachau …

R: Allora l’è forse questo 117 mila ad Augsburg. Eh beh…

D: Esatto. Ecco, non ti ricordi quando te l’hanno dato questo 117 mila? Non te lo ricordi? Neanche dove…

R: So che io ad Augsburg avevo questo numero qui. Ma un mument, l’è quel che capisi no [è questo che non capisco], ma anche a Flossenbürg, mi sun cunvint che.. [sono convinto che] questo 21 mila qui…

D: E’ di Flossenbürg. Perché la prima immatricolazione te l’hanno fatta a Flossenbürg, dopo ti hanno trasferito…

R: No, un mument… Però a Flossenbürg loro m’han cambià il numer…

D: Ad Augsburg t’hanno cambiato numero, perché era un’altra dipendenza, dipendeva da Dachau.

R: Ah ecco perché dipendeva da Dachau. No, allora no. Quan’ m’ha fermàa [quando mi hanno fermato] a Bolzano… a Flossenbürg, mi pare che… m’avevano detto che lì vicino c’era Dachau, mi avevano detto.

D: Ma non è forse Ugo che il treno si sia fermato da Flossenbürg ad Augsburg, e lì ti hanno detto che vicino c’era Dachau?

R: No, allora probabilmente… ma me ricordi no [non mi ricordo] a Flossenbürg… so che avevo imparato questo numero qui, perché me lo continuavano a chiedermelo, almeno, quando c’erano le adunate dovevo rispondere così. Ma me pareva che anca a Flossenbürg… [mi sembrava che anche a Flossenbürg]

D: Flossenbürg era il 21 mila.

R: Perché strano… ah, no, un mument… questo mi è rimasto impresso perché probabilmente è l’ultimo numero che ho dovuto imparare, quell’altro al me ricurdavi più [non me lo ricordavo più].