Battistini Gino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Gino Battistini, nato a Sasso Marconi il 20 maggio 1925.

D: Gino, quando ti hanno arrestato, perché e chi?

R: Incominciamo dal perché. Il perché è che io ero un ufficiale partigiano di collegamento, cosiddetto allora, fra le varie brigate, specie con la Stella Rossa.

Venne un rastrellamento di tedeschi agli ordini di Roeder e mi beccarono siccome ero di Rasiglio, nativo e anche vivente a quel momento. Mi beccarono a casa mia. La casa si chiamava “La Balosara”. Venne un rastrellamento solo di tedeschi della compagnia del Generale Roeder.

Da lì ci portammo ad un paese che si chiamava… Insomma era oltre la mia casa verso Montebonsara, non mi ricordo più adesso il paese bene e chiusi dentro una porcilaia con diversi prigionieri.

Quella notte l’abbiamo passata in piedi dentro la porcilaia per partire la mattina per Bologna, però ci siamo trovati assieme ad un altro gruppo di condannati, erano già legati da un braccio all’altro. Hanno fatto due gruppi.

Noi ci siamo trovati poi con questo gruppo a Casalecchio di Reno nel cavalcavia dove hanno commesso l’eccidio di circa 15 partigiani e contadini di quella zona.

D: Gino, quando era questo?

R: Verso il 6-7 ottobre del ’44. Da lì noi abbiamo assistito alla selezione fra un gruppo e l’altro di questa divisione dei gruppi. Due gruppi eravamo, due gruppi siamo rimasti, però non sapevamo che quelli che mettevano da una parte andavano a fucilazione immediata e gli altri andavano alle Casermette Rosse, come me.

Dunque, noi abbiamo saputo della condanna di questi poveri diavoli impiccati a Casalecchio al ritorno dalla Germania, a guerra finita. Ci hanno portato alle Casermette Rosse a Bologna, siamo rimasti qualche ora, poi ci hanno caricato sul camion verso Fossoli di Carpi dove siamo arrivati.

D: Ma le caserme rosse che cos’erano?

R: Erano chiamate Casermette Rosse, erano uno smistamento di rastrellati, condannati, tutto un insieme.

D: Ma erano prigioni?

R: Erano una specie di prigione, ma per me erano caserme che usavano le Brigate Nere. Quelli che non andavano bene li mettevano lì e credo che si chiamino così anche adesso come nome. Da lì…

D: Ecco da lì?

R: Da lì siamo arrivati a Fossoli di Carpi dietro trasporto sul Po con delle zattere, alla meno peggio siamo arrivati a Fossoli di Carpi dove siamo rimasti credo una giornata, non tanto.

D: Il campo, scusa Gino, al campo a Fossoli nell’ottobre tu sei arrivato?

R: Sempre nell’ottobre al campo a Fossoli.

D: Ma il campo a Fossoli era ancora attivo, c’era ancora gente?

R: Era pieno di tutti i deportati.

D: Allora dicevi che dalle Casermette Rosse ti hanno portato a Fossoli di Carpi e il campo era ancora attivo, c’erano ancora le strutture?

R: Sì. Era un campo con diverse baracche, siamo rimasti lì poco tempo, ci hanno trasferiti alla galera di… Come si chiama…

D: Peschiera?

R: Peschiera, la galera di Peschiera. Alla galera di Peschiera siamo rimasti circa una settimana in attesa che aggiustassero la linea tra Verona e Bolzano. Loro dovevano caricarci su dei carri bestiame per far dei treni e mandarci a Mauthausen.

Lì abbiamo incominciato la grande sofferenza, poco da mangiare, interrogazioni, poi tutto quello che veniva.

D: Ma le vostre guardie erano sempre germanici?

R: Sempre germanici, tutti tedeschi. Siamo arrivati a Bolzano, credo siamo rimasti lì pochi giorni, credo, non sono sicuro.

D: Scusa una cosa, Gino, in quanti eravate voi quando vi hanno arrestato?

R: Grosso modo il primo gruppo da casa nostra, dalla Balosara come ho detto io ad andare su a questo paese eravamo circa 10 o 12. Alla mattina dopo nella porcilaia abbiamo trovato questo altro gruppetto che era di una quindicina, ma tutti legati.

D: C’erano anche donne?

R: Non me lo ricordo. Non credo, ma non sono sicuro, ma non credo.

D: E alle Casermette Rosse c’erano anche donne?

R: C’era di tutto. Lì c’era lo smistamento di tutto. Ma in base agli elenchi che avevano loro, allora facevano la selezione, chiamavano e bisognava partire, non si sapeva dove. Mai saputo neanche in Italia, non sono in casa sua, neanche in Italia. Era tutto segreto. Ti chiamavano e via andare. Ti chiudevano dentro dove credevano loro. A partire dalle galere di Peschiera, ci hanno messo sui carri bestiame, piombati con le sentinelle tedesche sui carri. Ci abbiamo messo per arrivare a Bolzano circa una settimana di tempo dal Brennero a Bolzano perché a ogni stazione ci mettevano a ricovero, così dicevano, a binario morto, perché i bombardamenti rompevano il treno, dovevano accomodare, staccare, attaccare, chi era chiuso rimaneva chiuso.

D: Da Peschiera a Bolzano?

R: A Bolzano. E a Bolzano ci hanno dato un po’ da mangiare, ci siamo un po’ rifocillati, però dopo di lì ci siamo accorti che eravamo già in Austria al cosiddetto Mauthausen.

D: Ma nel campo di Bolzano quanto sei rimasto?

R: Pochi giorni, pochi giorni, per lo smistamento e poi basta.

D: E poi da lì ti hanno portato a Mauthausen?

R: A Mauthausen. Noi anche a Mauthausen abbiamo fatto in tempo a vedere la scala famosa, la scala della morte, l’abbiamo saputo dopo la guerra che era la scala della morte e da lì poi ci trasferirono ad altri campi, il cosiddetto Buchenwald.

D: A Mauthausen ti hanno immatricolato?

R: No, perché ti facevano solo degli interrogatori e delle visite, contemporaneamente venivano lì degli ufficiali, parlavano fra loro e poi ci trovavamo chiusi un’altra volta su dei carri bestiame e via in questo paese che non sapevamo se era in Austria, se era Germania. Che cos’era. Non dicevano mai niente. Loro ci trasportavano a destra e a sinistra e non sapevi mai niente. Te ne accorgevi qualche volta del nome dove eri arrivato, poi partivi e non sapevi dove andavi.

D: Da Mauthausen ti hanno trasferito dove?

R: A quello che ricordo io sono andato a finire a Buchenwald e poi credo anche ad Auschwitz, credo, perché lo abbiamo fatti quasi tutti.

D: Ma a Buchenwald neanche lì ti hanno immatricolato?

R: Ma dei numeri sulla schiena, ci mettevano delle tute con dei numeri, ogni campo dove andavamo avevamo sempre dei numeri diversi. Ma noi non ci facevamo più caso perché ormai loro dicevano “Italy tot, Italy tot”, loro dicevano così come a dire “Kaputt”, loro dicevano sempre così.

D: E ti hanno utilizzato per lavoro a Buchenwald o a Mauthausen?

R: Hanno fatto di tutto, a togliere le bombe inesplose che venivano già dagli aerei e rimanevano in mezzo, loro stavano lontani da noi col mitra puntato e poi bisognava andare a prendere su la bomba che non era esplosa. Ogni tanto ne esplodeva una e partivano i compagni, loro erano al sicuro perché erano lontani e stavano ad aspettare.

D: Ma questo, Gino, a Mauthausen o a Buchenwald?

R: A Mauthausen no, questo colpo che ci hanno dato di grazia al bombardamento di Dresda, siamo passati da Dresda per lavori di raccolta di bombe. Lì c’era il pericolo maggiore, ne sono morti parecchi con lo scoppio delle bombe inesplose.

Era perché non erano esperti nel muovere la bomba o perché erano ad orologeria, non lo so com’erano, però ogni tanto saltavano per aria e i tedeschi lo sapevano.

D: Gino, ti ricordi il nome di qualche tuo compagno?

R: Mi ricordo, c’era mio fratello Remo, poi c’era un altro che si chiamava Sandolini, però non erano partigiani, erano stati presi in un rastrellamento di partigiani, però erano civili. Poi un altro si chiamava Bachelli, poi ce n’erano parecchi, adesso non ricordo più, sono morti tutti. Ce n’erano parecchi della zona di Rasiglio, noi eravamo di Rasiglio.

D: Dopo Buchenwald dove ti hanno portato?

R: Ci siamo trovati a Dresda per raccogliere queste bombe. Lì dopo ci smistavano. L’ultimo campo in cui sono stato, sono stato poi liberato dopo la guerra era a Chemnitz, Karl-Marx-Stadt, era nella bassa Slesia dove c’è quella valle.

D: Lì cosa facevi a Chemnitz?

R: Ci avevano messo in officina, era l’officina militare. Io in particolare mi ricordo che facevo le canne per le mitraglie, però eravamo sorvegliati più che negli altri posti, non so il perché. Lì ci facevano fare questi lavori, bisognava tacere, non dire niente a nessuno, non parlare male della Germania, bisognava salutare “Heil Hitler” tutte le volte che si vedeva un superiore, altrimenti erano legnate e il mangiare era quello che davano a tutti. Rapa secca che era una cosa dell’altro mondo, non si mangiava, poca, alla festa qualche Kartoffel, patate, il pane, ci davano un chilo di pane la settimana, tutto in una volta, ma era quel pane non nero, erano quelle patate che stendono così, veniva fuori l’acqua. Facevano presto a fare quel pane. Era tutto un bordello. Ne moriva sempre spesso qualcuno e bisognava portarli nella camera mortuaria.

Poi c’erano le squadre. Tutti i giorni cambiavano. I famosi forni crematori, noi non sapevamo niente, guai, perché chi lo sapeva, chi se ne accorgeva, lo facevano fuori subito. Nessuno doveva sapere che cosa si faceva, che cosa si andava a fare. Si portavano in questa camera credendo che fosse un posto per i defunti, invece era un posto per i defunti sì, però erano destinati ai forni crematori e ad altre cose, ad altri esperimenti che facevano loro.

D: Gino, scusa, in quella fabbrica di Auschwitz, ti ricordi se aveva qualche nome la fabbrica, come si chiamava? Non te lo ricordi?

R: Avevamo in testa il nome, un nome che non… Ho cercato di dimenticare tutto perché… “Fabrik” dicevamo.

D: Lì lavoravate di giorno e anche di notte?

R: 12 ore al giorno, notte, giorno, secondo il turno. Poi andavi nel Lager dove c’era il Lagerführer e si doveva sopportare il resto del Carlino. Botte anche lì se uno faceva qualcosa e quando era il tuo turno di andare a lavorare, ci avevano dato delle scarpe che erano zoccoli di legno e dalle scarpe si sentiva girare uno da lontano un chilometro, quindi non si poteva neanche dire “Scappo via”, dovevi andare scalzo, era d’inverno, era freddo.

D: E nella fabbrica c’erano anche dei civili?

R: C’erano anche dei civili però erano divisi. Lì tenevano quelli che…Non so, specialità che volevano loro. Mi ricordo che anche dei civili andavano alle mense, ma per me era volontari più che civili e rastrellati, per me, perché si faceva sempre la caccia anche a noi con un registro. Se firmavamo dopo eravamo liberi e mangiavamo il pane bianco. Questo era sempre in tutti i Lager dove si andava, firmate per essere non contro di loro, con loro con la…

Allora chi non accettava come ho fatto io che non ho accettato niente, voglio andare a casa a vedere i miei genitori, però non come vostro aiutante, come ribelle nel vostro sistema. Difatti c’era questo sistema con cui hanno reclutato diverse persone.

D: Gino, ti ricordi se c’erano delle donne in fabbrica?

R: Sì, c’erano delle donne. Io mi ricordo che avevo vicino a me una donna slava, una partigiana e si parlava del più e del meno, sempre di nascosto, sotto metafora. Ci guardavamo negli occhi, era sufficiente per far capire che noi avevamo degli accordi segreti. Molti hanno lasciato le penne per quello perché non hanno saputo fare in modo segreto le loro cose.

D: E l’ sei rimasto fino a quando?

R: Io sono rimasto lì dei mesi fino alla fine della guerra. Dopo è arrivata la truppa rossa, i russi ci hanno liberato. C’è da dire una cosa, ci hanno liberato dal campo di sterminio, però dopo ci hanno riconquistati ancora i tedeschi, perché il fronte veniva avanti da un lato e andava indietro dall’altro.

Allora i tedeschi quando hanno visto che arrivavano addosso i russi per portarci indietro, hanno fatto in modo da portarci via da quel campo e poi siamo andati a finire fino a Kiev dietro dall’altra parte per il fronte russo. Poi ci hanno liberato i russi, eravamo in Russia, si veniva avanti in quel modo.

Noi dei russi non possiamo dire niente perché erano nostri liberatori.

D: E ti ricordi quando siete stati liberati più o meno?

R: Più o meno noi siamo stati liberati credo a metà maggio, alla fine di maggio. Credo così. Siamo stati tra gli ultimi proprio come Liberazione.

D: Dopo la Liberazione tu dove ti trovavi?

R: Mi trovavo al fronte russo e ci hanno caricato i russi con delle caravelle, con dei carri di tutte le specie, dicevano “Italienski via, Italienski via”, venivamo in qua per venire verso l’Italia, ma eravamo in una zona e nessuno ci sapeva dire che strada dovevamo fare.

Noi venivamo un po’ a piedi, un po’ su questi carri, un po’ su qualche treno locale che si trovava lì, o corriere che c’erano, dei mezzi del genere per venire, guardavamo il sole per venire a casa. Quando vedevamo il sole la mattina, partivamo verso il sole, perché noi siamo del sud, veniamo in Italia.

Abbiamo fatto diversa strada in quel modo, poi siamo riusciti ad arrivare in Austria, a Vienna credo, no, ad Innsbruck dove c’era un campo di smistamento. Lì eravamo già in mano agli americani con i neri che avevano questi camion, ci caricavano, ci portavano a Bolzano. Bolzano l’abbiamo trovata ancora a venire in Italia.

Da lì abbiamo trovato dei mezzi di fortuna per arrivare ognuno al paese dove doveva…

D: Gino, lì a Bolzano vi siete fermati ancora?

R: Un giorno credo, ma solo per trasbordo, per passare. Poi lì si mangiava. Se devo dire la verità, il pericolo maggiore di tutto questo era proprio lì, c’era una cucina militare che coceva la pasta da darci da mangiare. Ma siccome sui camion con i neri non ci davano niente da mangiare, da Innsbruck a lì, avevamo già accumulato un’altra fame. Quando arrivavamo lì, deboli come eravamo, fame a rotta di collo, vedere la cucina, questo fumo con le pentole… Noi abbiamo assaltato il campo e abbiamo rovesciato tutto per terra, mangiato la terra, tutto. Ci siamo trovati dentro ad un dormitorio con la pancia gonfia e molti sono scoppiati, morti lì.

Dalla fame che avevano, avevano mangiato i maccheroni mezzi cotti, una cosa e un’altra per mettersi su un letto e si moriva in quel modo, dopo aver passato tutto quello che avevamo passato.

D: E tuo fratello era con te?

R: Mio fratello l’ho perso a venire a casa da Bolzano a Bologna, l’ho perso e l’ho trovato prima di arrivare a casa fortunatamente. L’ho raggiunto con un camion a Calderino che era su a Monte San Pietro, era un paese dopo Casalecchio andando su per la montagna.

D: Ma tuo fratello ti ha seguito in tutto il percorso?

R: Siamo stati quasi sempre insieme, però anche lui era immischiato come partigiano e non lo allontanavano. Tanti altri invece venivano messi in disparte e facevano tutte le divisioni e noi non sapevamo perché. Si pensava, perché avranno bisogno qui, avranno bisogno là. Però loro lo facevano solo per ragioni politiche. Era tutto lì il suo distacco da uno all’altro. E volevano vedere se c’era qualcosa di trama fra noi e tutti gli altri. Dividendoci loro volevano riuscire a capire cosa bolliva in pentola e allora ogni tanto ne spariva qualcuno e non sapevi dove andava.

Purtroppo quando siamo venuti a casa abbiamo saputo che era toccata la sorte della morte. Io devo dire che abbiamo sempre parlato con gli altri. Fortunato chi può dire questa cosa. Difficilmente avevamo la speranza di rientrare in Italia perché c’erano troppi pericoli. Come Le dico, lì eravamo già in Italia, la gente moriva perché la gente mangiava questa roba biscotta e tutta in una volta.

Poi siamo arrivati a Bologna. A casa, eravamo come delle lucertole, chi ammalato da una parte, chi ammalato da un’altra, io avevo un’infiltrazione polmonare, mio fratello anche lui. Ci siamo pesati, eravamo 40 chili, 37 chili. Può immaginare a 19 anni, a 20 anni che abbiamo compiuto là era una cosa indescrivibile. Non si può neanche descrivere adesso che cosa abbiamo passato.

D: Ti ricordi la data più o meno quando sei arrivato a casa?

R: Credo il 6-7 giugno del ’45, credo.

Santarelli Giorgio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Giorgio Santarelli.

D: Quando sei nato?

R: il 13 marzo 1925, nato a Firenze, fiorentino doc. Perché si fu arrestati dalla Gestapo a Milano? Perché si era con l’intelligence inglese nella Val di Faro, per richiedere la lancia partigiani, le formazioni di lì. Lanciarono assieme al materiale anche una missione di due persone che noi si doveva accompagnare a Milano per presentarla al CLN di Milano.

Sennonché uno di questi due, di cui credo di ricordare il nome, ma siccome non sono certo, non lo faccio, uno di questi due fece il doppio gioco ed andò a denunciarci alla Gestapo. Per cui una mattina io e Giorgio Chieffo mitra alle costole, in macchina ed all’hotel Regina che era il comando della Gestapo.

D: Scusa, ti ricordi quando ti hanno arrestato?

R: Posso guardare?

D: Certo, che puoi.

R: Perché sennò. Il 31 agosto del 1944.

D: Vi hanno arrestato. Chi vi ha arrestato? Erano italiani o germanici?

R: Erano italiani, ma ci portarono all’hotel Regina che era il comando della Gestapo tedesca. Tant’è vero che quando si passava davanti all’hotel Regina si diceva ” Se si entra lì dentro, non ci si sorte più”.

Bene all’hotel Regina, si parlò con un maggiore tedesco, mi chiese come mi chiamassi, gli dissi il nome, gli feci vedere la carta falsa, mi disse subito

” Non è vero, tu agente del nemico, una, due ore fucilato.” Queste furono le sue parole.

Va beh. A questo punto mi mandò fuori, con gentilezza, lo disse, e con poca gentilezza delle SS, ci portarono a San Vittore. A San Vittore, quinto raggio, isolamento.

Duro, l’isolamento è duro, ogni tanto ci chiamavano, ogni due o tre giorni, per gli interrogatori, dopo chissà perché ci mandarono a Bolzano, invece che…

Quello ci interrogò e ci disse: “Fucilati di sicuro perché è nella legge di quella”, ed era giusto. Ed invece andò così, misteri. Misteri.

Si arrivò a Bolzano. A Bolzano si arrivò, non me lo ricordo. So che si fuggì l’8 ottobre 1944.

D: Scusa, da San Vittore a Bolzano?

R: In pullman.

D: Ma solo voi due?

R: No, si era assieme, ci avevano messo a noi i triangoli rossi, a noi ci avevano appuntato dei politici, e gli ebrei i triangoli gialli degli ebrei e si era stipati tra triangoli rossi e triangoli gialli.

Non solo, dirò che di guardia alla porta c’era un francese.

D: Alla porta del pullman?

R: Alla porta del pullman, che ha optato per le SS tedesche ed io feci amicizia con questo ragazzo francese. Amicizia, ci si mise a parlare, e lui per arma aveva un fucile mitragliatore, l’arma classica che lanciavano gli alleati e armeggiava, e gli dissi “Stai attento” ed ebbi addirittura il fucile mitragliatore in mano, e la tentazione fu grossa. Però c’era tutta l’altra gente.

Si arrivò a Bolzano sul far della sera e la prima cosa che ci fecero, ci fecero mettere in ginocchio. Quattro cinque erano seduti su una sedia con un rasoio elettrico, non era proprio un rasoio, era un tosa pecore, mi sa, e ci fecero la rapa a tutti, questa fu la prima funzione.

D: Ascolta c’erano anche delle donne assieme sul pullman?

R: Sì ebree. Ebree, mi ricordo. E poi ci misero nei blocchi e mi sembra, mi sembra di ricordare che fu il blocco K, quello cui io fui messo. Poi ci incominciarono a portare a lavorare alla galleria dove poi nacque una fabbrica di cuscinetti a sfere.

D: La galleria del Virgolo.

R: Eccolo, bravo. E qui ho un ricordo, perché vivo di ricordi. Un tedesco, il capoccia di quelli che ci guardavano, gli si era messo nome “pisceria” e dirò il perché. Siccome il tragitto era lungo ed ogni tanto qualcuno bisognava che per bisogni fisiologici che si fermasse, andava da lui e gli diceva di farsi fermare.

Siccome c’era un lungo muro, non mi ricordo, di una fabbrica o di qualche cosa, allora quando si arrivava così questo tedesco alzava le braccia ed urlava “piscerai” e che si avesse bisogno oppure no, bisognava mettersi tutti faccia al muro per poi ripartire. Era un brav’uomo, era un brav’uomo, tutto sommato era un brav’uomo. Non era un pessimo.

Devo dire cattiverie cattive nel campo io non ne ho viste. Onestamente ho visto legnare uno perché lo avevano ripreso perché era scappato, di fronte a tutti lo presero a legante.

Devo dire che mi ricordo di due legati ad un palo con un cartello con dietro scritto “Di ritorno dall’escursione”. E non si poteva avvicinarsi né per portargli da bere né niente. Che fine abbiano fatto, non lo so. Mi ricordo di qualche lambrata, di qualche pedata, insomma, cose del genere, questo sì.

D: Scusa Giorgio, quando vi portavano a lavorare alla galleria, voi partivate dal campo di Bolzano a piedi, e a piedi raggiungevate la galleria del Virgolo, e lì cosa facevate. Nella galleria?

R: Sì. Si scavava la galleria. Ma io avevo un compito strano perché mi avevano messo, c’era una macchina, una strana macchina, con due piatti, si doveva prendere dei sassi grossi metterli nel mezzo, in modo che questi piatti li riducessero. Sicché non ci si poteva fermare un minuto perché questa macchina faceva un fottio tremendo, se ci si fermava lo si sentiva. Allora si trovò un pezzo di ferro e si mise quello, quello sbatteva, ma non si rompeva, però ad un certo punto successe che rimase attraverso tutto così, tirare via non si poteva per paura che le mani ci rimanessero dentro, bruciava il motore perché girava a vuoto, il tedesco si arrabbiò. Questa volta le buscai. Ma, insomma.

D: Per quanto tempo sei rimasto a lavorare lì?

R: Direi quindici, venti giorni al Virgolo perché poi succedeva che ci facevano fare altri lavori, per esempio io e Giorgio si era addetti alla disinfezione in un carrello, lo ha rammentato anche Giorgio questo, si faceva il fuoco sotto e si buttavano dentro le tute con dei bastoni, quando l’acqua bolliva per disinfettarli e noi ci si faceva cuocere le patate lì dentro che chissà come si erano avute queste patate e si tiravano fuori blu perché stingevano le tute, ma erano patate e si mangiava, e questo non è poco.

Poi ci portarono a scalinare, proprio a Caldaro. A Caldaro, sopra c’era la Mendola, insomma. Qui si ebbe la fortuna sfacciata, perché ci vuole anche ella nel mondo. Il mondo è fatto di fortuna e di sfiga, insomma, non è più una parolaccia. Vero?

Perché ad un certo punto ci rinchiusero tutti in una casa, io e Giorgio si trovò il buco per sortire fuori e si scappò. Solo che un contadino ci vide, ma questo contadino rubacchiava ed allora io per farlo star zitto gli dissi “Stai zitto perché tu rubi”, ed allora lui zitto stette. Si incominciò. Si attraversò prima tutti i filari di viti, mi ricordo e poi si attaccò la montagna. La montagna la conoscete meglio di me, è ripida. E avanti. Sennonché ci misero le canizze dietro, dopo un po’. Sai da un uomo ti nascondi, da un cane non ti nascondi. E qui la fortuna sfacciata, venne uno di quei temporali tremendi che vengono spesso su a Bolzano dalla Mendola. Acqua ed i cani persero le piste. Persero la pista e venne notte.

D: Lì dicevi che ricordavi la data della tua fuga.

R: La fuga fu l’8 ottobre 1944.

D: Ascolta, voi avevate ancora la tuta?

R: Questo è un altro discorso. Siccome si aveva idea di scappare in ogni caso la sera prima si ebbe a chiedere al capo campo italiano, c’era un capo campo degli abiti borghesi perché si voleva scappare, da mettere sotto la tuta.

Lui ci sconsigliò, “Non ce la fate”, ci disse, “non andate via”. Ma ormai si era decisi e ci procurò questi abiti borghesi da mettere sotto la tuta e devo dire che tutto il blocco lo sapeva questo. Nessuno ha fiatato.

D: Tutti sapevano della vostra fuga?

R: Sì perché si portò gli abiti borghesi in blocco, sicché tutti sapevano in blocco della nostra fuga e nessuno ha fiatato mai. Per farsi belli può anche darsi che ci fosse chi, ma non è stato così.

Sicché noi sotto la tuta si aveva gli abiti borghesi. Tant’è vero che quando si scappò, c’era un cimitero vicino con delle mura basse. Si disse, è rimasto proverbiale con Giorgio “Quando siamo al cimitero, siamo a posto”.

Perché si scavalcava il muro, ci si toglieva le tute e si rimaneva in abiti borghesi e così fu.

Basta. La mattina si dormì sotto l’acqua accostati ad un tronco d’albero di traverso sennò si ruzzolava a valle. E la mattina si ricominciò a camminare e si arrivò alla Mendola.

Alla Mendola, proprio sulla strada, al ciclio, c’erano degli operai a lavorare e mangiavano, era l’ora di pranzo, e c’erano delle fette di pane così e si disse, altrimenti si sarebbe cascati a terra.

Si fece la conta a chi doveva andare a chiedere, o la va o la spacca, perché rischiare in due sarebbe stato inutile. Toccò a Giorgio. Andò e portò delle sleppe di pane però disse, occhio, rimanete nel bosco perché sono ancora a cercarvi. E noi ci si buttò giù nel bosco. E si arrivò a Ruffrè.

La sera, la tarda sera, si arrivò a Ruffrè e si vide Don Lino Giuliani, ora Monsignore, allora parroco di campagna, su e giù per la Chiesa a leggere il breviario. Si disse, o la va o la spacca, questa volta toccò a me, logicamente. Si stette più di un mese da Don Lino. Perché c’erano due problemi grossi. Uno era quello della rapa. Per farsi fare i documenti falsi e poi ce li fece, io l’ho saputo, la signora Baldassari Maria, del Comune di Lavarone. Ci fece delle carte d’Identità false. Però fare le fotografie rapati sarebbe stato illogico, col cappello non si possono fare fotografie, sicché ci toccò aspettare da Don Lino che ci ricrescessero un po’ i capelli e lui ci ospitò.

Io mi ricorderò sempre la prima notte, dormire tra due lenzuola con un piatto di pasta asciutta grosso così. Sono cose grandi. Sono cose grandi.

Si stette da Don Lino per almeno un mese, penso, poi si ebbero i documenti falsi e si andò a Milano. Si restò a Milano e si ripresero i contatti con il CNL e si trovò il modo di espatriare in Svizzera. Il bello era che il CNL ci aveva fornito dei documenti falsi delle SS italiane ed in Svizzera davano asilo a tutti meno che alle SS. Quando si arrivò al confino ci volevano rimandare indietro perché si era delle SS, però telefonarono al consolato inglese che ci aspettavano, allora servizio di consolato, perché spia non è mai stato, telefonarono e ci rimandarono al consolato in Svizzera.

Poi per una serie di ragioni, dall’intelligence inglese si passò a quella americana con le OSS, ci rispedirono in Repubblica di Salò in servizio. “No”, ci dissero, “se volete rimanere in Svizzera fino alla fine della guerra”. Ma si era ragazzacci. Si optò per ritornare.

Giorgio Chieffo rimase a Milano, non so con quali compiti, e me mi mandarono proprio a Bolzano o nella zona, perché dovevo dare settimanalmente notizie sulla viabilità della strada del Brennero e sui posti dove nascondevano i camion, perché di giorno non viaggiavano camion. Io ho preso tre mitragliamenti, ed ero in motocicletta, dagli alleati perché tutto ciò che si muoveva mitragliavano. E lì ho trovato la fine della guerra. Presentai al comando americano il CLN di lassù, mi feci dare una macchina, caspita e mi ricordo che mi dettero la macchina del Maggiore tedesco di lassù che era una cabriolet bianca tinta, con la croce rossa. Ma loro intervennero con una pistola color verde militare e me la fecero subito verde, foglio di viaggio e a casa.

Devo dire a proposito di questo Maggiore tedesco che era un medico, perché gli alberghi della Mendola erano tutti ospedali militari. Comandati da un Maggiore, questo Maggiore, claudicante, mi ricordo un galantuomo.

Quando successe il patatrac e le truppe tedesche scappavano e venivano su, allora lui volle incontrarmi e ci si trovò d’accordo nel dire, un soldato tedesco ed un partigiano con la fascia tricolore avrebbero fermato le colonne tedesche, le avrebbero disarmate e le avrebbero lasciate andare dove volevano. E così è andata alla Mendola. Ci fu una sparatoria, non si è mai capito come, ma insomma, fu liscia.

Poi vennero gli americani ed io lasciai tutto in mano a loro, presi questa macchina, questo permesso e venni a Firenze. Non fu cosa facile arrivare, non fu cosa facile, ma ogni modo ci arrivai.

D: Scusa un attimo Giorgio. Che cosa ti ricordi tu del Lager di Bolzano. Del campo, come te lo ricordi?

R: Mi ricordo dei tipi stranissimi del campo, c’era Vivere, si chiamava che era un tizio, non so se qualcuno ve lo ha raccontato. Addetto ad un brutto servizio, antipatico servizio, tutte le mattine lui aiutato da un altro, con un carretto, veniva ai vari blocchi a prendere i buglioli piccini, li rovesciava ed era un servizio piuttosto disdicevole e lo faceva prima che aprissero i blocchi e mi ricordo che cantava sempre la canzone “Vivere, vivere, sono così giocondo.” Ecco, quest’uomo mi è rimasto impresso.

Poi una volta che odiai tutti i prigionieri del campo come me, perché? Successe che portarono un carro di pane e chiamarono me ed un altro a far volare le pagnotte tedesche militari, grosse, pan quadrato come c’è ora, a farle volare al di là del filo spinato, alle cucine, alle cucine c’era chi le prendeva e le metteva lì. C’erano due tedeschi a guardare ed io che ero vispo, facevo il lavoro veloce e quando vedevo che i tedeschi guardavano tutti e due da un’altra parte, ne buttavo uno indietro invece che avanti, e rischiavo, perché se mi vedevano erano legnate. Finto il lavoro non mi toccò nemmeno una midolla, me ne ebbi tanto a male. Questi sono ricordi.

D: Ti ricordi se nel campo, dicevi prima che con il tuo trasporto sono venute anche delle donne, quindi c’erano anche le donne ed erano impiegate anche loro nei lavori?

R: Questo non lo so, questo non lo so. So che il blocco mio confinava con il blocco delle donne, appunto che il muro non arrivava proprio fino in cima, c’erano dei fili spinati e volavano i frizzi. Ma se deportassero anche loro al lavoro non lo so.

Ricordo però che c’era una baracca, in fondo a sinistra, dove c’erano i sorvegliati speciali, e dove non ci si poteva nemmeno avvicinare, ecco, quello che accadesse lì non lo so. Però penso che si sia incattivito il campo, nell’andare del tempo. Può darsi questo.

D: Ti ricordi se hai visto dei religiosi o dei sacerdoti?

R: No, uno mi disse, “Io sono un prete.” Perché aveva la tuta come gli altri. Tant’è vero che era del mio blocco e mi chiese se sapeva che la mattina dopo si sarebbe tentato la fuga, e mi chiese se volessi confessarmi, io non sono credente. Lo ringraziai.

D: Non ti ricordi il nome?

R: No, no. Assolutamente no. Fu lui a dichiararsi prete perché aveva la tuta come noi. Mi avvicinò proprio con questo scopo, io lo capisco, per l’amor di Dio.

D: Ti ricordi se hai mai visto dei bambini nel campo?

R: Non lo so. Non lo so. Con le donne forse sì, ripensandoci. Signori, è passato qualche mese, insomma.

D: Giorgio ascolta, eri entrato nel campo dando il tuo nome vero o dando false generalità.

R: Ero entrato nel campo dando false generalità. Il mio nome vero non esisteva più, insomma. Ora non mi ricordo più quali. Ho detto quel nome, ma ora penso che forse non è quello perché ho ancora la carta d’identità altrimenti al campo me l’avrebbero ritirata. Ogni due mesi, ogni mese si cambiava documenti, si cambiava nome e cognome, capiscimi.

D: Ti è stato dato un numero di matricola?

R: Sì. Ma non me lo ricordo.

D: Giorgio che tu sappia, voi lavoravate, tu e l’altro Giorgio, lavoravate per il servizio inglese.

R: Per l’intelligence.

D: Che tu sappia l’intelligence si è mossa quando ha saputo che voi siete stati arrestati?

R: Sì. Si è mossa. Si è mossa e dirò il perché. Ci fece sapere tramite non mi ricordo chi, in carcere un secondino, c’erano dei secondini, dei guardiani che erano dei nostri, che un medico era dei nostri. E che quindi si marcasse visita quando c’era quel medico per poter avere dei contatti e ci furono dei contatti, insomma, ci servirono.

Mi rammento di un guardiano che la mattina quando venivano lì a vuotare il buiolo, si lasciava cascare dalla tasca tre o quattro sigarette, erano vita. In isolamento erano vita. Per quello ho avuto anche qualche cosa, ma qualche cosa fumo ancora.

D: Come era avvenuto il tuo reclutamento per l’intelligence quando eri in Val di Taro?

R: La cosa è lunga. Quando io ero ragazzo, terza media, ero antifascista, ma non per ragioni politiche perché di politica non ci si intendeva, ma perché mi erano antipatici, perché volevano che facessi quello che volevano loro, andassi in fila, il sabato avevo una ragazza e mi toccava andare all’adunata. Insomma, mi erano antipatici.

Feci dei volantini e mi misi ad attaccarli alle porte alla sera, fui scoperto ed ero minorenne e mi portarono in carcere. Poi la cosa si risolse, mio padre era buon amico della Pira, il Vaticano, a quel punto, la cosa si risolse senza nemmeno un processo, però rimasi in vista. Tutte le volte che veniva un capoccione fascista, quando venne Mussolini, per esempio, a me mi venivano a prendere e mi portavano a casa. Tant’è vero che mi presentai da me alle carceri per non far venire i Carabinieri a casa, perché non era bello, non sapevano perché venivano. Mi dissero “Guarda che non ti si può prendere”, allora andai all’ufficio politico della Questura “Non mandate i Carabinieri a casa, ci sono di già”.

Allora quando successe l’8 settembre le cose si fecero più serie, sarebbero venuti a cercarmi, insomma e con le cattive e mi aggregai ai primi gruppi partigiani intorno a Firenze. Andai da me, camminai ed alla fine li trovai, insomma. Solamente erano comunisti. In famiglia mia erano tutt’altro che comunisti e quindi non avevano piacere che io fossi lì, ma nemmeno in casa. Avevo uno zio prete ed accanto alla sua parrocchia c’era un convento di frati. Dentro a codesto convento aveva fatto base una missione inglese. Allora i miei pur di togliermi dalla formazione rossa preferirono farmi aggregare a codesta missione inglese. Ecco come sono entrato. E fummo mandati insieme a Giorgio Chieffo che lo conobbi lì, non so come, nella Valle di Taro, sei mesi, a richiedere i lanci di materiale ed armi, insomma.

Intanto che si era lì, si capisce, che si faceva quello che si doveva fare, quello che facevano gli altri.

D: Quando, dopo la fuga, dalla Mendola, siete rientrati tutti e due a Milano. Come avete fatto a lasciare la Mendola e venire giù a Milano? Te lo ricordi più o meno?

R: No, scusa. Quando?

D: Quando dopo la fuga eravate da Don Lino.

R: Bene, quella signora che ti ho detto ci fece le carte d’identità, ci si mise in un posto di blocco tedesco, perché allora si viaggiava tutto di fortuna, e ci si mise in coda con altri, e quando passò una macchina con due ufficiali tedeschi la fermarono, e disse “Milan” ed allora ci misero dietro e si è fatto il viaggio comodamente dietro la macchina di questi due signori tedeschi.

D: Il vostro contatto a Milano chi era?

R: Il nostro contatto a Milano?

D: Quando siete arrivati a Milano e avete preso contatti con il CNL.

R: Non mi ricordo il nome. Non mi ricordo. Il nome non me lo ricordo. Poi sono tutti soprannomi, è inutile, i nomi non ce se li diceva, non me lo ricordo.

D: Giorgio però ti ricordi quando dalla Svizzera siete rientrati in Italia?

R: Sì.

D: Non avete fatto un viaggio diretto, vi siete fermati in un posto, in un paese.

R: Sì.

D: In Svizzera. Ti ricordi? Vi siete fermati per caso a Campione?

R: No, non ci siamo fermati. Quando si optò per le OSS americane, siccome entrati in Svizzera bisognava fare una quarantena, e per chi aveva i soldi era in certe ville, sennò li mandavano in campi di raccolta, e non di concentramento, per l’amor di Dio.

Noi si era in una di queste ville, mantenuti dal Consolato inglese e si doveva fare la quarantena. Allora furono le OSS stesse a toglierci di nascosto da codesta villa, mi ricordo che si dormì in casa di due che erano a Lugano, al caffè, al maggior caffè di Lugano, lui suonava la chitarra e lei cantava. Ci misero in casa di codesti due signori ed il giorno dopo ci accompagnarono a Campione d’Italia che era territorio libero perché era comandato da un Capitano dei Carabinieri, il quale aveva optato per Badoglio e non per la Repubblica e mi ricordo che ci fece un documento questo Capitano unico, a tutti e due, in cui c’era scritto “Si permette a due signori, che rispondono al nome di Giorgio e Giorgino di soggiornare per un periodo illimitato nel territorio di Campione d’Italia.” Questi erano tutti i nostri documenti.

Da albergo in albergo ci dissero “Qui potete chiedere i soldi se volete andare a giocare al casinò, qui paga l’America, insomma”.

Poi fu una cosa strana, c’era una ragazza bellissima, una ragazza bellissima, le facevo la corte spietata e il Giorgio mi diceva “Guarda che è una spia tedesca”, perché ci dissero che erano tutti lì a Campione d’Italia, “Ma io sto zitto”. Poi fu lei a dirci “E’ l’ora d’andare stanotte”.

D: Lì a Campione siete rimasti poco però.

R: Sì.

D: Quindi non puoi sapere i contatti con il movimento partigiano che c’era lì.

R: No, no, si viveva soli, soli, io e Giorgio. Si aveva avuto l’ordine di non parlare con nessuno.

D: Ritornando ancora al campo di Bolzano, oltre a Vivere e a quegli altri episodi che ci hai raccontato. Che cosa ti ricordi ancora del campo? Entrava qualcuno a vendere? Tu accennavi al pane che scaricavate. C’era qualcuno che portava dentro le mele?

R: No, io mi ricordo che ho avuto delle mele, ma ce le buttavano gli italiani quando si passava. Ho scoperto una cosa che un grappolo d’uva ti leva la fame, ma una mela è come bere un bicchiere d’acqua. É vero.

D: Ti ricordi se c’erano delle officine lì vicino al campo di Bolzano?

R: Sì, perché una volta si fece una pazzia io e Giorgio. Si cercava tutti di trovare un posto fisso al campo, per non andare in Germania, perché, dico la verità, ancora non se ne sapeva nulla, però che si stava male e peggio di lì, lo si sapeva e cercavano due carpentieri, si disse noi: “Va bene”.

Ci portarono, c’era una carpenteria, per fare le baracche, e codesto che era capo, ci dette in mano due assi e se ne andò, ci disse: “Fatemi un incastro a coda di rondine”. “Ti saluto”, si pensò così. Ci si provò, dopo un po’ tornò, era un detenuto anche lui, lo guardò e ci disse: “Mischiatevi subito, più che potete e non vi fate più trovare”. Quindi c’era la carpenteria. Sì c’erano.

D: Ti ricordi se attorno al campo c’erano, c’era il muro di recinzione, poi c’erano i reticolati e delle garitte?

R: C’erano dei reticolati, mi sembra le garitte, mi ricordo i reticolati, giustamente incurvati, ma non mi ricordo se erano più di uno oppure no. Però i reticolati senz’altro, le garitte non mi ricordo.

Ripeto, io c’ero in quel periodo. Quando lo aprirono il campo di concentramento di Bolzano?

D: Nella primavera, luglio del 1944.

R: E noi si era arrivati, non mi ricordo, tre mesi dopo. Forse dopo si incattivì di più. Si incattivì.

Camangi Silvio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Silvio Camangi, nome di battaglia Giuliano. Sono andato in montagna il 29 di giugno 1944.

D: Quando sei nato, Silvio?

R: Sono nato a Parma il 16 aprile del 1924. Dapprima sono stato a Bardi, poi sono andato nel distaccamento Pellizza, che operava nella zona di Varano Marchesi. Lì rimasi fino al rastrellamento.

Anzitutto, prima c’è stato il rastrellamento di luglio. Durante il rastrellamento di luglio io riuscii da Bardi a venire qui in città a Parma. Nella stessa giornata andai poi a Pieve di Cusignano, dove c’erano sfollati i miei genitori.

Dopo andai nel distaccamento sempre nostro del Pellizza. Ad un bel momento dopo una bella attività con il distaccamento, abbiamo fatto saltare un ponte ferroviario, poi altri attacchi alla polveriera di Noceto, poi a Noceto stesso c’è stato uno scontro con la Brigata Nera nel quale nessuno è stato ferito dei nostri.

Però erano rimasti uccisi tre della Brigata Nera e feriti altri. Poi ci fu la cattura da parte della Brigata Nera di tre partigiani, che furono poi fucilati nei pressi di Noceto sempre nel settembre del ’44.

Poi venne purtroppo il rastrellamento del dicembre. Quindi i reparti dei bersaglieri attaccarono, noi resistemmo due giorni. Poi ci siamo dovuti sganciare, cioè ritirare, verso Pellegrino Parmense, in quanto venivano alle spalle nostre dei reparti dei tedeschi.

A Pellegrino rimanemmo due o tre giorni e anche lì ci furono dei combattimenti, ma erano combattimenti sparsi, non era una cosa unitaria d’attacco. Poi noi ci sganciammo di nuovo con un gruppo di sette, otto, dieci partigiani. Andammo verso Specchio, nel comune di Solignano. Attraversammo il Ceno con tanto d’acqua. Eravamo bell’asciutti.

Quando arrivammo poi a Specchio, arrivammo verso le tre del pomeriggio, ci portammo in una frazioncina distante da Specchio un chilometro o due. Specchio, non so se l’ho precisato prima, è sempre nel comune di Solignano.

Lì rimanemmo fino alle quattro, quattro e un quarto del pomeriggio, cinque massimo. Abbiamo visto in lontananza dall’altra parte della vallata un reparto di tedeschi che si inoltravano verso…allora la chiamavano la Foppla, una località. E’ quasi alla foce del Pezzola, torrente Pezzola.

Quando vedemmo questa colonna a nessuno è venuto in mente di dire: “Andiamo alle spalle e lì noi siamo già fuori dalla cerchia”, niente. Avevamo nel gruppo anche gente che aveva fatto la Russia, con certe esperienze.

Tornammo ai Filippi, che è un’altra frazioncina di Specchio. Lì ai Filippi cos’è successo? E’ successo che un nostro amico, anzi due, il povero Spiga e un certo Tedeschi, tenente, scendono ancora verso la valle. Gli altri si inoltrano verso Specchio, io corro alla ricerca dei due e mi trovo un mitra nello stomaco, bel preciso.

Era un reparto d’alpini tedeschi, una compagnia d’alpini tedeschi. C’è scappato anche il morto, perché quello che mi ha fermato ha visto il mio amico, un certo Zucchero, Zucchero si chiamava, il nome di battaglia, un certo Reggiani Antonio, che ha cercato di scappare.

Lui lo ha preso subito di mira e l’ha fatto fuori immediatamente. Nel frattempo gli altri, perché io poi mi ero girato e ho urlato: “I tedeschi”, gli altri sono spariti. Sono riusciti a scappare, ma non tutti, quindi dieci di noi sono stati catturati. Fra i quali anche i due famosi che erano andati verso la valle.

Ci portarono in casa di un certo signor Ruffini, che ricordiamo sempre con molto affetto. Questo signor Ruffini aveva due figlie, una delle quali sapeva molto bene il tedesco. In questa villa ci portarono a contatto col comandante della compagnia, il quale prese i nominativi, tutto quanto.

Poi venne il prete di Specchio, don Caramatti, il quale incominciò da quelli che erano in borghese a dire: “No, questo non è un partigiano, questo è un mio parrocchiano. Questo è un altro mio parrocchiano, questo…”. E ne ha tirati via diversi.

Quando è arrivato davanti a me, siccome io avevo un vestito mimetizzato, giacca, pantaloni, tutto completo, berretto, mi dice: “Bel ragazzo, non posso fare niente io per te”. “Reverendo, come si fa?”.

Dopo ci portarono nel solaio e al mattino ci dovevano fucilare. Anzi, dimentico proprio un particolare molto importante: quando ci catturarono, per andare a Specchio c’era una carraia che faceva una curva. Nella curva c’era un muro.

Ci misero tutti quanti contro questo muro bell’e pronti come il plotone d’esecuzione, quando avvenne una discussione tra il maresciallo che ci voleva fucilare e il capitano. Sicché il capitano disse: “No, domani mattina, domani mattina” e ci portarono in casa di questo Ruffini.

Lì pernottammo e il giorno dopo invece… Siamo ancora qui. Praticamente non ci fucilarono né ci impiccarono. Ci portarono poi a piedi da Specchio, Forlignano, Fornovo, Pontremoli, poi abbiamo fatto tutta la Cisa. Ci abbiamo impiegato tre o quattro giorni perché a Fornovo ci siamo fermati, abbiamo pernottato lì due o tre notti.

Finalmente arrivammo a Pontremoli. Dopo Pontremoli ci hanno portato a Parma con dei camion e ci portarono direttamente alla SD del viale, nello stradone di fianco al “Petitot”. C’era la sede della SD, c’era il comando tedesco. C’era quel comandante, quel capitano Albert, come si chiamava adesso non mi ricordo, il quale ci ha interrogati tutti quanti, poi uno alla volta separatamente, messi in locali separati.

Io fui richiamato di sopra due volte, perché la mia versione non concordava con quella di un altro, perché io avevo detto che il comandante di distaccamento era un napoletano, invece lui aveva detto che era romano. E’ andata liscia.

Poi ci portarono in San Francesco, in San Francesco siamo rimasti una decina di giorni buoni e da San Francesco una bella sera ci hanno prelevato tutti quanti e ci hanno portato a Verona.

D: Scusami un secondo, lì a San Francesco le guardie erano italiane o tedesche?

R: Le guardie italiane, però con anche SS tedesche. Erano dei sorvegliati, le guardie carcerarie…

D: L’amministrazione però era tedesca?

R: Sì, senz’altro.

D: Dicevi questa cosa prima, che ti hanno portato nella sede della SD.

R: Sì.

D: Quindi qui a Parma c’era la SS e la SD?

R: Sì. La SS dipendeva dalla SD.

D: Ma qui a Parma c’era un insediamento…

R: Sì.

D: Ascolta, qui a Parma rispetto alla RSI c’era anche lì la casa del fascio?

R: C’era ancora la casa del fascio. La casa del fascio era in Piazza Garibaldi. Poi c’era la prefettura che era in mano ai repubblichini.

D: Quindi c’erano questi distaccamenti?

R: Sì.

D: Allora, ti prendono e ti portano a Verona.

R: A Verona c’è stato il battesimo, però io mi nascondevo sempre dietro gli altri, come faceva Walter, sicché li ho schivati. A Verona ho il ricordo di quel famoso partigiano che era vestito all’inglese e quello delle SS italiano gli ha detto: “Come mai tu porti la divisa dei nemici della tua patria?”.

Gli ha risposto: “E tu sei vestito da tedesco, quindi siamo tutti e due…”. Allora cos’è successo? E’ successo che gli ha dato un pezzo di legno addosso; in fondo all’asse di legno, c’erano due o tre chiodi e l’ha preso di striscio.

Lui non ha detto niente. Ad un bel momento gli ha detto: “Tu sei il tale, non so, Rossi Amilcare, abiti ad Ancona al numero tot, 36 tanto per dire”. E’ rimasto esterrefatto. Questo era un suo vicino di casa, con tanto di barba e non l’ha riconosciuto.

Allora l’ha cominciato a lisciare, una balla e l’altra. Lì ho preso un mestolone alla testa, perché quando hanno detto del rancio mi hanno chiamato per vuotare il coso, per prendere le gamelle e intanto mi è arrivato questo mestolo sulla testa. E’ andata anche abbastanza bene.

Poi siamo andati a Bolzano sempre in corriera, erano tre corriere, da Verona siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano siamo stati ricevuti con tutti gli onori, con abbracci, una roba fuori dall’ordinario.

D: Ti ricordi, ti hanno spogliato?

R: No, io sono rimasto sempre vestito com’ero. Io di tute

D: Non ti ricordi?

R: No.

D: Il numero te lo ricordi?

R: Sì, 9191.

D: Con il triangolo?

R: Rosso. Ci hanno messo nel blocco E, quindi eravamo pericolosi. Poi a un bel momento ci hanno caricato sul treno dopo un mesetto.

D: Ma in questo mese dentro nel campo cosa facevi?

R: Niente. In marzo c’era stato un bombardamento e venne dentro uno delle SS dicendo: “Chi è che vuol venire fuori a lavorare?”. A fare che cosa? Mah. Ci siamo andati, una decina. C’erano da togliere le bombe, scavare tutto.

C’era una bomba che era andata a finire sotto ad un marciapiede, c’era appena il marciapiede sollevato e sotto a tre, quattro o cinque metri c’era la bomba. Cominciammo a scavare, scoprire questo ordigno.

D: Questo in città?

R: In città di Bolzano. Nel quartiere degli italiani. Lì i nostri connazionali ci hanno portato del riso, ci hanno portato un po’ da rifocillarci. Ci andammo due volte a scavare attorno alle bombe, sperando sempre di non saltare per aria. Poi all’infuori di quella faccenda non ci siamo più andati noi.

D: Stavi dicendo prima iltrasporto.

R: Il trasporto da Bolzano per andare a Mauthausen. Ci incolonnarono e ci portarono in stazione, in stazione c’era già pronto il convoglio. Ci caricarono su questi carri bestiame, eravamo in centodue, centotre in un carro bestiame.

Vuol dire essere come le acciughe. C’era, mi ricordo ancora, quel povero cieco che stava poco bene, aveva anche la dissenteria, robe da chiodi.

Ad ogni modo ci siamo stati un giorno, una notte e un altro giorno. Al mattino ci hanno dato un po’ di roba calda da bere. Poi c’è stato il bombardamento della ferrovia da Bolzano al Brennero, la rotaia più lunga era venti chilometri.

Allora imbestialiti questi della SS ci hanno fatto scendere e riportati in campo. Lì rimanemmo…

D: Due cose volevo chiederti, ti ricordi quando ti hanno portato sul Transport? Che periodo era?

R: Sarà stato verso la fine di febbraio penso, in febbraio.

D: Dicevi, alla stazione. Era la stazione o era uno scalo?

R: No, la stazione, uno scalo merci sarà stato.

D: Ma della stazione?

R: Della stazione, sì.

D: Tu dici la stazione perché vedevi delle persone, dei civili che prendevano gli altri treni?

R: Adesso questo non me lo ricordo, non c’erano civili in quel momento che noi siamo arrivati lì, non c’erano mica civili.

D: Quindi non siete partiti e ti hanno riportato sempre nel blocco E?

R: Sempre nel blocco E. Siamo rimasti nel blocco E sempre chiusi fino ai primi di aprile. Dopo ai primi di aprile cominciavamo ad andare fuori in quello spazio circoscritto del cortile.

A sinistra avevamo le donne e a destra c’erano gli altri che potevano circolare per il campo, quelli che andavano fuori anche al lavoro.

D: Lì sei rimasto fino a quando?

R: Fino al 30 aprile. Al mattino del 30 aprile entrò il capo blocco e disse: “Guardate di mantenere la calma, qui hanno già piazzato tutte le mitragliatrici attorno al campo e andate a casa”.

Sono meticolosi i Deutschland quando ci si mettono. Tanto di timbro, tanto di lasciapassare. Eravamo infestati di pidocchi, perché il nostro lavoro era lo spidocchiamento. Tutto il santo giorno, dalla mattina. Era proprio l’annullamento della persona.

Praticamente tu eri un animale, eri un numero anzitutto ed eri una bestia. Forse meno di un cane. Allora cosa hanno fatto? Hanno portato il famoso Cyclon, che usavano per gli ebrei, poveracci, e nelle bacinelle hanno messo queste pastiglie, non so poi cos’erano.

Noi fuori tutti nudi, lasciando quei pochi indumenti che avevamo nella camerata, nei castelli. Nel giro di una mezza giornata fuori così, c’era fresco, perché a Bolzano faceva fresco, quando siamo rientrati prendevi la roba e facevi così, ce n’erano tre dita per terra.

D: Dopo lì alla Liberazione stavi dicendo?

R: Con la Liberazione siamo passati in fureria, ci hanno lasciato il soggetto, una storia e l’altra. Poi ci hanno caricato su dei camion e ci hanno portato verso Merano. Io sono andato verso Merano, verso in su.

Hanno portato una parte verso Trento, una parte verso Merano, una parte… Da lì poi pian piano a piedi abbiamo fatto la Val di Non, la Val di Sole e siamo arrivati a Brescia a piedi. “Pedibus calcantibus” pian piano e via.

Quando siamo arrivati poi a Brescia, lì a Brescia ci hanno tenuti due o tre giorni. Poi da Brescia sempre con i camion ci hanno portato a Cremona. A Cremona ci hanno rifocillato tutti con la mostarda, mostarda al mattino, mostarda a mezzogiorno e mostarda alla sera.

Poi ci hanno portato in curia, lì in curia ci hanno dato mille lire a testa. Mille lire. Eravamo senza documenti, niente, né soldi. Mille lire erano soldi allora. Chissà, il Vaticano… Io non penso che il vescovo di Cremona avesse avuto la possibilità di avere queste banconote.

Prelievi fatti forse presso la Banca d’Italia per conto del Vaticano.

D: Da lì poi?

R: Da Cremona poi siamo venuti a Parma sempre in camion.

D: Camion di chi?

R: Erano camion militari alleati, però guidati da borghesi. Si vede che avevano preso questi camion nei campi di raccolta, avevano acquistato questi camion, poi facevano i trasporti di questi prigionieri. Pagati poi da chi non lo so.

D: Nel periodo che tu sei rimasto a Bolzano, ti ricordi di aver visto nel campo dei religiosi?

R: Sì, c’era un frate cappuccino nel nostro blocco, il quale aveva confessato dei partigiani a Trento. Questo frate poi era stato portato presso la SD, il comando delle SS e volevano sapere che cosa avevano detto i partigiani.

Botte, botte, poveretto, avrà avuto una settantina d’anni.

D: Addirittura?

R: Sì.

D: Non ti ricordi il nome però?

R: Non me lo ricordo. Poi c’era il prete, Don Daniele. Il frate non era Don Daniele. Il frate, poveretto, mi ricordo quando ci portarono fuori nel cortile per la disinfestazione nudi, lui stava là poverino… C’erano anche le donne tutte belle…

D: Ti ricordi di bambini?

R: Sì, c’erano dei bambini ebrei di due anni, due anni e mezzo. Poverini, anche loro erano lì con le loro mamme.

D: Tu sei rimasto a Bolzano…

R: Dal febbraio, dai primi di febbraio fino alla fine di aprile.

D: Il giorno di Pasqua del ’45?

R: C’è stata la Santa Messa dentro nel campo con il vescovo, mi pare, di Belluno.

D: Te lo ricordi quel giorno?

R: Sì, molto bene me lo ricordo. Fece un’omelia molto sostanziosa per quello che ha detto, poi aveva anche sotto sotto…

D: E’ entrato nel campo lui?

R: Sì, è entrato nel campo. C’era l’altare proprio in mezzo al campo, noi tutti attorno. La Santa Messa.

D: Tutti voi intorno?

R: Sì, i prigionieri.

D: Tu non hai potuto scrivere a casa?

R: No.

D: Né ricevere pacchi?

R: No, per l’amor di Dio, niente.

D: Ti ricordi che qualcuno dei deportati riceveva?

R: Sì, c’erano dei bellunesi, mi pare, di Belluno, di quelle parti. Mi ricordo che uno aveva disfatto il suo pacco. Io ho ancora l’impressione al giorno d’oggi di aver visto il pane con in mezzo la marmellata.

Allora gli ho chiesto un pezzettino di pane, ha detto no. Va beh, grazie lo stesso. Non mi ha dato niente. Allora un mio amico di San Secondo, “adesso lo frego io quello”. Aveva una gran bella penna d’oro, perché lui aveva assistito al colloquio.

Gira e rigira dopo quattro o cinque giorni gli ha fregato la penna. L’abbiamo passata poi all’altro blocco attraverso un foro, c’era un mercato nero spaventoso. Mi ricordo che io avevo un po’ di danaro in quanto mio papà mi aveva mandato dentro un pacco in San Francesco con due o tre mila lire.

Mi sono durate tre giorni, c’era un mercato fuori dell’ordinario. Dei pezzi di castagnaccio. Stavo dicendo, scusate?

D: Della penna.

R: Della penna. Allora gli ha fregato la penna stilografica, abbiamo passato la penna stilografica all’altro reparto e abbiamo ottenuto due pani, quelli dell’esercito tedesco. Era una penna d’oro, il cappuccio e tutto d’oro.

Era disperato questo a cercare la sua penna. “Se trovo quelli che mi hanno fregato la penna…”, era il mio vicino di branda.

D: Ti ricordi se periodicamente entravano dei civili nel campo, non so, a vendere le mele?

R: No. Una volta c’è stata la distribuzione delle mele. Il Vescovo o il Papa, non lo so. Fatto sta che ci hanno dato delle mele, ci hanno dato anche qualche cosa d’altro forse da mangiare. Una volta, una volta sola.

D: L’ultima domanda, ti ricordi se nel campo tra i deportati c’erano dei deportati che avevano dei soldi del campo? Della cartamoneta dove però c’era scritto “campo di concentramento di Bolzano”? Non ti ricordi di averla vista?

R: No, questo no. Forse l’avranno vista negli altri blocchi, perché avevano possibilità di comunicare anche tra di loro.

D: Però tu non te lo ricordi?

R: No.

D: Come si chiamava il tuo capo blocco, se ti ricordi?

R: Non me lo ricordo. So che era un colonnello dell’esercito vestito da prigioniero. Mentre delle donne c’era la capessa, quella mora.

D: La Tigre?

R: No, la Tigre forse è quella olandese. Mi ricordo io quella olandese.

D: Ti ricordi questo nome della Tigre?

R: Sì. Era un donnone di due metri con due spalle… Un uomo travestito da donna. Mi ricordo che faceva trainare un carretto pieno di neve, un carretto abbastanza grosso, ad una ebrea. Aveva un odio particolare per quest’ebrea.

Questa poverina non ce la faceva, spostava appena appena così. Lei con un nerbo le dava di quelle botte, con una ferocia, con una cattiveria che non era mica una roba umana. Sono dei pazzi.

Io ho sempre pensato che fossero un po’ alienati di mente, perché per fare quello che facevano non si poteva farne a meno.

D: Altri nomi di capo blocchi?

R: No, vedermi dentro il reticolato per me era come claustrofobia. Mi abbattevo molto facilmente. Una volta attraversando il campo negli ultimi giorni incrociai quello delle SS, non quello famoso, quell’altro, quello tarchiato. Ce n’era uno tarchiato, basso.

Sarà stato maresciallo, non so. Ad ogni modo l’ho incrociato e a un bel momento dice: “Cappello, cappello”. Io l’ho visto, però ho detto: “Il cappello non me lo levo”. “Ya, ya”, allora io ho preso il mio berretto, sembrava quasi da ebreo, e ho fatto così, l’ho gettato via.

Perché? Perché me ne fregavo della mia vita a un bel momento. Gli ho detto: “Ma vattene a quel paese, io piuttosto di levarmi il cappello davanti a te lo getto”. Allora c’era il povero Bucci, c’era anche Walter Cantoni, che erano seduti contro il muretto del blocco.

Mi hanno visto fare questo gesto. Questo s’è portato la mano alla pistola, poi ha bestemmiato come un turco, s’è girato ed è andato via. Allora gli altri due: “Vuoi far l’eroe proprio all’ultimo momento”.

Tu non ti consideravi nemmeno più come una persona, tutto lì.

Maruffi Ferruccio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Ferruccio Maruffi. Sono stato deportato a Mauthausen. Ero stato arrestato nel marzo del ’44 direttamente in montagna. Facevo parte delle prime formazioni partigiane in Val di Lanzo, abbiamo subito un rastrellamento molto massiccio da parte di SS ma anche di fascisti italiani.

D: Ferruccio, quanti anni avevi?

R: Avevo 20 anni. Quando sono stato arrestato avevo 20 anni appena compiuti.

D: Sei stato arrestato in che giorno?

R: Sono stato arrestato il 14 o il 15 marzo del 1944. Dovevo essere fucilato assieme ad un altro mio compagno che era un ragazzo siciliano militare all’epoca dell’8 settembre. Dopo l’occupazione nazista era rimasto un militare sbandato, poi era venuto in montagna e aveva fatto parte anche lui di questa formazione partigiana. Siamo stati presi insieme noi due, perché al termine del rastrellamento ci eravamo sparpagliati per la montagna.

Il gruppo che ha arrestato noi era composto da un ufficiale nazista tedesco, da alcuni altri militi tedeschi e da un gruppo di fascisti. Era da questi che bisognava guardarsi, era proprio da questi. Sfortunatamente per noi questo gruppo di ufficiali nazisti e gli altri tedeschi hanno proseguito con il rastrellamento nella montagna, lasciandoci in mano ai fascisti, che non aspettavano altro ovviamente.

Siamo scesi sullo stradone della Valle di Lanzo e ci hanno messo contro il muro, comunicandoci ufficialmente che ci avrebbero fucilato. Però hanno perso tempo perché non tanto con me ce l’avevano, io ero soltanto un criminale con cui neanche valeva la spesa di sporcarsi le mani, ma con questo ragazzo siciliano. Questi fascisti erano meridionali e ce l’avevano con lui soprattutto perché continuavano a dirgli: “Ti sei andato a mettere assieme a questi briganti, tu siciliano, con tutto quello che il Duce aveva fatto per noialtri!” Hanno perso così tanto tempo a prendersela con lui che l’ufficiale nazista è tornato indietro col suo gruppo, ha visto la scena e devo dire che ha redarguito i fascisti. Li ha mandati via, ha fatto voltare il mio compagno che era con le spalle al muro, stavamo aspettando che caricassero il mitra e tutto quanto, e hanno detto: “Aspettate che arrivi la camionetta dei carabinieri”.

E’ arrivata la camionetta dei carabinieri e ci ha fatto salire. I carabinieri ci hanno portato alle scuole di Lanzo e dopo con tutto il gruppo dei rastrellati siamo poi finiti alle Carceri Le Nuove. Abbiamo fatto prima un “giro turistico” di Torino coi mitra puntati dietro la schiena e poi ci hanno portato alle Nuove.

Ci siamo stati fortunatamente pochi giorni perché era pericolosissimo alle Carceri Le Nuove di Torino; era pericolosissimo in quel periodo stare lì perché c’era sempre il pericolo che qualcuno venisse fucilato se c’era qualche azione di rappresaglia dei partigiani.

Per cui siamo partiti il 17 per Mauthausen, abbiamo fatto una sosta a Bergamo e il 20 marzo del ’44 siamo arrivati a Mauthausen.

Questo è quanto, abbiamo subito fatto attenzione a quella che sarebbe stata la nostra vita da quel momento. La cosa più pericolosa era proprio quella di non accettare in qualche modo quello che passava il convento, della prigionia prima e del Lager che cominciava già nel carro bestiame che ci portava in Germania.

Tre giorni e tre notti di viaggio, in una promiscuità indicibile. Eravamo circa quaranta persone. Il viaggio nei carri bestiame era l’apprendistato di quello che ci sarebbe capitato: viaggiare quaranta, quarantacinque persone chiuse in un carro dove l’unico elemento che conta è il barile, dove tutti fanno quel che devono fare e un po’ divisi in un certo senso. Nel mio vagone metà eravamo giovani, metà erano anziani. C’erano molti operai della Fiat, soprattutto che avevano scioperato; erano stati arrestati e la minaccia fatta subito prima di chiudere i vagoni era che se, aprendo i vagoni ne mancava uno, avrebbero fucilato tutti gli altri. Aveva fatto un certo effetto specialmente sulle persone anziane perché avevano famiglia, avevano figli. Noi giovani eravamo più incoscienti, non ce la prendevamo più di tanto, però è venuta a formarsi, questo è importante secondo me rilevarlo, questa specie di divisione fra i giovani e gli anziani.

Noi volevamo scappare, perché si poteva scappare da un carro bestiame. Al passaggio del confine avevamo saputo durante una sosta che i ferrovieri avrebbero rallentato il convoglio nella zona dove c’erano i partigiani e qualcuno, alzando le traversine del vagone, poteva lasciarsi scivolare sotto. In qualche posto l’hanno fatto, nel mio vagone per esempio no, per cui ci siamo guardati in cagnesco tutti quanti, gli anziani che controllavano che nessuno di noi facesse questo. Questo il primo giorno, poi siamo entrati già in Austria e, secondo me, io ho vissuto tanti momenti terribili, ma tanti momenti stupendi durante la mia prigionia: valeva la spesa di essere prigionieri per averli vissuti, per quanto possa sembrare strano. Io ricordo l’atmosfera di divisione sul carro bestiame che andava ai Lager. Non sapevamo ancora che cosa ci aspettasse. Con me c’era un mio compagno, si chiamava Gianni Ferrari e aveva una voce bellissima. Era uno che non se la prendeva più di tanto. Quando eravamo venuti al confine c’era la neve per terra, eravamo già ad una certa altezza e dalle feritoie vedevamo tutta questa neve. Lui guardava tutta questa neve e a un bel momento si è messo a cantare una canzone che era in voga “Il trenino di Chattanooga”. Era uno swing che veniva dall’America, il disco arrivava e in mezzo il trenino che fa “ciu ciu”; l’atmosfera improvvisamente è cambiata e ci siamo scoperti che eravamo tutti sulla stessa barca, cioè sullo stesso carro bestiame.

Io ricordo questo momento come uno dei più straordinari che ho vissuto nel Lager, questo cambiamento, come possano la musica e il canto cambiare l’essenza delle persone. Molti piangevano ovviamente, però anche le lacrime in quel momento avevano un loro valore.

Poi siamo arrivati a Mauthausen. Subito siamo scesi, ci hanno fatto scendere dai carri, era mattino prestissimo, si arrivava sempre al mattino presto in modo che non ci fosse gente in giro. Noi avevamo tutta la puzza nel naso del viaggio nel carro con il bidone maleodorante e subito, scendendo dal carro, ci è sembrato quasi di respirare, di essere arrivati quasi in paradiso, l’aria pura del mattino, anche se era molto fredda. Ci siamo incamminati, c’erano le SS, i cani, e ci hanno messi in fila per cinque; ci siamo incamminati verso Mauthausen che è su una collina.

Io devo dire, che almeno i compagni che ho conosciuto io erano un’altra razza rispetto alla gente che c’è oggi, ma era una cosa straordinaria. Avevo un compagno, un operaio della Fiat, aveva già allora un certo numero di anni. Marciavo vicino a lui, noi non avevamo niente, ma questi uomini anziani erano in carcere, avevano la valigia, avevano anche il salame e cose del genere, avevano cose che poi presero loro a Mauthausen, se le portavano su, ma salendo quasi 4 chilometri di salita non ce la facevano più. Io ricordo sempre una frase di quest’uomo che ha preso la valigia di quello che aveva davanti che era boccheggiante, non ce la faceva più; gli ha preso la valigia, gli ha messo una mano sulla spalla e gli diceva: “Dai che andiamo a fare merenda a Superga adesso”. Quella collina ricordava quella di Superga.

La vita del Lager è fatta di tanti flash che, rivisti oggi, danno una dimensione diversa di quello che noi abbiamo vissuto. Per questo io non riesco mai a drammatizzare più di tanto.

Siamo arrivati poi là e abbiamo, poco per volta, preso contatto con la realtà. Intanto abbiamo visto passare carri con scheletri che debordavano. La cosa che ci aveva un po’ colpito era che mentre salivamo verso la vetta avevamo una nuvola nera sopra di noi e riprendevamo a sentire un odore sgradevolissimo; poi abbiamo capito che era l’odore che veniva dal camino, l’odore della carne bruciata.

Poi ci hanno derubato di tutto. Abbiamo fatto questa strana cosa. Ci hanno portato in un sottoscala dove c’era la spoliazione, a gruppi di quaranta o cinquanta per volta. La nudità improvvisa: c’erano dei bei ragazzi, c’erano anche invece uomini con l’ernia, insomma ognuno ha un po’ la sua privacy, termine che non esisteva, assolutamente inesistente.

Dover essere depilati in ogni parte del corpo, l’umiliazione fortissima, questa sì che l’abbiamo sentita. Abbiamo poi anche preso frustate a volte, ma c’erano delle cose che ci offendevano profondamente. Io ho avuto la fortuna di incontrare quelli che ho chiamato “i deportati saggi” che mi insegnavano i trucchi del resistere. Dicevano: “Sapessi come sbagliano questi qui a umiliarti, a darti una frustata, perché quando ti umiliano, quando senti la frustata, tu è come se reagissi dentro di te. Ti senti contro di loro, certo non puoi picchiare, non puoi fare niente, ma sei contro ed è la cosa più importante: che tu resti contro. Tu sei da questa parte della barricata, però è questo.”

Al punto che io ricordo che mi sentivo molto offeso da quella riga che dovevo portare rasata a zero che partiva dalla fronte fino a dietro la nuca, era un marchio d’infamia. L’avevo detto ad un mio compagno che si era messo tranquillamente a ridere, perché succedeva questo. “Ti spaventi per quella cosa? Allora non hai ancora capito niente del Lager”. A me sembrava di aver già capito qualcosa dopo un giorno o due. Vedi, quando tu incontri le SS, noi potevamo essere nudi, ma il berretto dovevamo averlo sempre. Quando incontravano la SS bisognava togliersi il berretto, mettersi sull’attenti e far vedere la striscia che ci percorreva la fronte. Questa era l’umiliazione. Lui diceva: “Tu parti da un presupposto sbagliato. Quando vedi la SS ti metti sull’attenti, ti metti sull’attenti e fai vedere questa striscia e che sia ben fatta. Perché vedi, è lui che si deve vergognare della divisa che porta, non sei tu, è lui che si deve vergognare.” Lo so che, oggi, a distanza di tempo può sembrare quasi impossibile questo, ma si rideva per questo.

Questa era la resistenza nel Lager. Noi non potevamo sparare, non potevamo fare nient’altro, ma questa era la resistenza, questo dovevi impararlo fin da subito. Stai attento. Io mi ricordo uno dei primi insegnamenti. “Non odiarli, per carità, non odiarli”. “Perché non li devo odiare con quello che mi fanno?” “Non li devi odiare intanto perché loro vogliono essere odiati. In un certo senso si sentono “giustificati” del male che ti fanno se tu li odi. E tu quella soddisfazione non gliela devi dare. E poi qui devi stare attento perché l’odio è una brutta compagnia, è eccitante. Per cui bisogna stare attenti perché questa gente ti arriva addosso che neanche te ne accorgi, quindi devi essere sempre presente a te stesso, altro che odio. E’ un lusso che non possiamo permetterci”. Non è che diventassimo bravi, era una metodologia, come quando sono salito in montagna e mi insegnavano come dovevo fare per fare un agguato o nascondermi per andare a far saltare un ponte. E’ la stessa cosa, non era più quello l’insegnamento. L’insegnamento era come dovevi in qualche modo resistere.

Io ho fatto pochissimo di resistenza in montagna, ho fatto quella del Lager che era un’altra cosa. Oggi la ricordo, non dico con rimpianto, perché sarebbe una cosa stupida, ma il rimpianto di non essere più quello che sono stato allora, questo sì. Molti mi chiedono perché io ne parlo in questo modo.

Io ne parlo in questo modo perché, e vorrei che fosse chiaro quello che sto dicendo, il periodo trascorso nel Lager, questi quasi diciotto mesi infernali, sono stati il periodo migliore della mia vita, non il più bello, il più brutto certamente, ma il migliore perché in quello mi posso specchiare. Non sono morto al posto di nessuno, nessuno è morto al posto mio, non ho accettato niente che non fosse quello che prendevano gli altri e non so se nella vita quotidiana sarei capace di essere così. Non so neanche se sono capace quando verrà il mio momento a morire come ho visto morire tanti miei compagni, perché morivano bene i miei compagni. Questo è importante che lo sappia la gente. Morivano bene, senza maledire, senza umiliarsi quando stavano per essere colpiti.

Voi che fate domande a noi superstiti, quei quattro gatti, fate questa domanda: “Avete visto qualcuno piangere?” Se poi ci pensiamo sopra, ci accorgiamo che non abbiamo mai visto nessuno piangere. Era proibito anche piangere, certo, si capisce, tutto era proibito, anche piangere. Ma le lacrime non sono un rubinetto che si apre e si chiude a volontà, vengono quando vengono, quando ci emozioniamo. E’ questo che, secondo me, del Lager è stato scritto molto, certo che è tutto vero quello che è stato descritto, è tutto vero. Forse è anche abbastanza quello che è stato descritto, ma si è parlato forse, secondo me, poco di come l’uomo c’è stato, di come l’uomo ha vissuto il Lager, è morto nel Lager o casualmente perché non eravamo bravissimi, non avevamo niente di speciale. Non ci sono stati eroi, nessuno è stato eroe.

Ma sono stati tutti uomini, con la U maiuscola. E questo va detto perché questa è la verità. Noi ci siamo accorti, sì, la libertà, che cos’è la libertà se non l’aspirazione suprema di ogni uomo: la libertà. Però a me resta sempre in mente la frase che mi ha detto un mio compagno che ritengo sia giusta ancora oggi e fosse giusta anche laggiù. “Vedi, questo è il posto dove parlare di libertà è una cosa quasi irrisoria, questo è il peggio al mondo, ciò nonostante ciascuno di noi può sentirsi libero se riesce a mantenere la propria dignità di uomo.” Io le ricordo queste parole perché quest’uomo poi è morto. “Se un giorno tu sarai libero e te lo auguro, se non avrai la dignità che è il rispetto di te stesso e degli altri non sarai mai uomo libero, sarai sempre uomo dipendente, dipendente da qualcuno.”

Allora bisognava immaginarsela questa libertà, la libertà di mantenere la propria dignità. Quella non te la poteva togliere nessuno. Questo secondo me è il Lager. E forse noi, in genere tutti gli uomini, credo che specialmente col passare degli anni tendono a lamentarsi. Non è nient’altro che il sogno degradante delle occasioni perdute, soltanto questo. Quella bionda là che .. poi invece niente. Allora ci piangiamo addosso.

D: Ferruccio, ti ricordi il tuo numero di immatricolazione di Mauthausen?

R: Sì, 58.973, figurati se non me lo ricordo.

D: Tu a Mauthausen hai fatto la quarantena?

R: Sì.

D: Poi ti hanno mandato dove?

R: A Gusen I. Sono stato poco a Gusen I perché poi mi hanno trasferito a Vienna nel Lager di Schwechat. Sono stato nel Lager di Schwechat finché è stato distrutto dai bombardamenti degli alleati.

D: Cosa facevate in quel Lager?

R: Lavoravamo dodici ore al giorno. Una fabbrica di rottami, la Heinkel.

Dodici ore al giorno oppure dodici ore di notte. Il guaio erano i bombardamenti, erano continui. Questo Lager era un piccolo Lager, non poteva tenere più di duemila persone, ma era il centro di un complesso di fabbriche della Heinkel che costruiva aeroplani da caccia. Il Lager era studiatamente al centro, c’è un Lager lì in mezzo, non andiamo a buttare le bombe, mi pare giusto. Gli alleati avevano di quelle preoccupazioni lì. Venivano sovente e un giorno hanno fatto piazza pulita. Un bombardamento durato parecchie ore. Prima hanno distrutto tutta l’antiaerea di Vienna e poi sono calati lì, buttando spezzoni incendiari, hanno distrutto tutte le fabbriche, tutto il Lager. Non potevi neanche camminare perché la terra bolliva dal calore. Sono stato ferito come altri, le bombe cadevano dappertutto. Ma si può fare il tifo perché cadano le bombe? Eppure si può, si è fatto ed eri lì che guardavi perché eri nella trincea all’aperto.

Ti schiaffavano dentro le trincee con le garitte delle SS sopra, anche loro dovevano stare lì a guardare che non scappassimo, coi mitra puntati. E tu che li vedevi arrivare e che avresti voluto dire: “Vieni qui oppure lì!” Si poteva fare quel tifo?

E poi mi hanno riportato a Mauthausen, ovviamente.

D: Parlaci di quel campo, di questo sottocampo di Mauthausen. Tu dicevi che poteva contenere circa duemila deportati.

R: Non di più.

D: Eravate molti italiani?

R: Molti italiani. Gran parte di italiani. I fratelli Valenzano erano tutti e due lì a Schwechat, erano arrivati prima di me. Per la gran parte eravamo italiani in quel Lager, diciamo che era un po’ un feudo nostro; però è stato distrutto e noi feriti siamo stati riportati a Mauthausen. Perché? Perché c’erano delle ferite che venivano curate perché fossimo di nuovo abili per tornare al lavoro. Perché il Lager non era solo morte, la morte era la conclusione.

Qui bisogna essere chiari su questa questione. I Lager non sono stati fatti soltanto per uccidere la gente. Questa era la soluzione ultima. Eri un nemico, eri un ebreo, eri un omosessuale, eri un testimone di Geova, un antifascista, un antinazista, muori! Ma un momento: prima lavori! Perché noi dobbiamo costruire un impero economico, quale non è mai esistito al mondo: facendo lavorare milioni di persone senza pagarle mi pare che si possa costruire questo impero economico come nessun altro può fare. Questo era il progetto, era un progetto che andava al di là del tempo. In fondo i Lager non erano stati nient’altro che il primo esempio di come sarebbe stata la società se i nazisti avessero vinto. La società di quelli che stavano sopra e di quelli che stavano sotto. Quelli che lavoravano, che sgobbavano per questa élite che li avrebbe comandati. Quindi cosa succedeva? Che una ferita la si curava, un foruncolo, la scabbia. La scabbia, malattia endemica per eccellenza, si curava. In tre giorni guarivi dalla scabbia e tornavi a lavorare. Eri sempre una massa buona per lavorare.

Certo che se cadevi in malattie incurabili non c’erano cure, l’unica cura era il bisturi, non c’erano altre cure. Le malattie più comuni nel Lager erano i flemmoni, grossi foruncoli. Io sono stato operato cinque volte di questo. C’era una specie di infermeria; andavi lì e mettevi il piede, l’arto, il dito, quello che era: c’era un chirurgo, ti piantava il bisturi dentro, toglieva tutto quello che c’era da togliere, tanta roba, incredibile cosa si accumulasse. Poi non è che cucissero, ti mettevano del nitrato d’argento sulla ferita e ti fasciavano con la carta igienica. Io ne avevo un po’ dappertutto, una qui, una là, nel collo, dappertutto. Era un bene, perché probabilmente questo ti evitava altre cose.

Quindi sono stato riportato a Mauthausen, ho imparato i trucchi che mi insegnavano. Le ferite che avevo facevo in modo che non guarissero. Per cui le torturavo per cercare di stare il più possibile lì. Mi è venuta la scabbia.

Io sono uno di quelli, lo racconto mal volentieri, che ha fatto pugilato a Mauthausen. Ero finito in una baracca in cui c’era un capo che aveva il pallino della boxe. Cos’era successo? Era successo che quando mi hanno trovato la scabbia mi hanno portato di corsa in questa baracca, era la baracca 8 del Revier di Mauthausen, le cosiddette infermerie di Mauthausen.

Questa baracca era divisa in due parti. In una c’erano quelli che avevano la scabbia, nell’altra c’erano dei poveracci che avevano la tubercolosi, le malattie infettive vere e proprie, la tubercolosi, questo tipo di malattie, per non parlare dei malati di cuore. Questa seconda parte era l’anticamera, era un punto di passaggio per quelli che avevano prelevato per portarli al castello di Hartheim dove sarebbero stati usati come cavie e poi uccisi nella camera a gas. Questa baracca invece aveva solo la scabbia, questa prima.

Quando sono arrivato lì insieme ad altri ci hanno messi nudi davanti all’ingresso della baracca, tra l’altro è uscito fuori il capo che era un omosessuale col pallino della boxe. Non era cattivo, devo dire la verità, bisogna essere onesti su questo, era un tedesco. Ci mette tutti lì in fila e poi si ferma davanti a me. Mi guarda fisso negli occhi, poi fa un passo indietro e mi tira un pugno. Non era da molto che ero a Mauthausen, due o tre mesi, quello che mi era rimasto del corso di pugilato mi è bastato per schivarlo e lui è finito per terra. Dopodiché ho detto: “Questo adesso mi ammazza!” Invece si alza, mi guarda e mi fa: “Tu boxe?” Io mi alzo. “Junger Kompanie! Io non sapevo cosa volesse dire.

Entro nella baracca, vado in uno dei castelli di legno, salgo sull’ultimo piano e lì c’era, cose strane che si incontrano, un italiano. Era un meridionale, gli italiani sono i più furbi del mondo, non c’è niente da fare, non ci batte nessuno, siamo impossibili, siamo invincibili in quello. Sapeva fare la maglia. Sapendo fare la maglia, passava tutto il giorno sul tetto della baracca a costruire maglie di lana che poi il Kapò dava alla SS. In quel modo faceva il suo tran tran, anche lui vivacchiava. Per cui lui era lì tranquillo. Non mi ricordo più per cosa fosse stato arrestato, ma non era una cosa eclatante. Lui era militare, qualcosa aveva fatto, mi pare che riguardasse sua moglie o qualcosa di questo genere, l’hanno arrestato e l’hanno portato a Gaeta. Da Gaeta l’avevano portato a Dachau quando c’è stata l’occupazione nazista. Da Dachau non so che cosa abbia combinato, l’hanno portato a Mauthausen. Era appollaiato lì sopra. Allora mi metto lì, dico: “Mi hanno detto Junger Kompanie: che cos’è?” Lui mi dice: “Stanotte vedrai che cos’è”. Ho detto: “Mi ha guardato in un certo modo, non mi ha fatto piacere”. Mi ha detto: “Stai tranquillo, il suo amichetto ce l’ha già. Procura solo di non incontrare il suo amichetto”. E così dopo mezzanotte, dopo il passaggio della SS che fa il controllo, ad un certo momento entro nella baracca, nel silenzio generale c’era un piccolo, uno slavo, gli addetti alla baracca che arrivano con quattro piloni, uno da una parte, uno dall’altra, uno dall’altra e uno dall’altra, una lampada che fanno scendere fin sopra lì. Era chiaro che fosse un ring, voleva essere un ring.

Cosa faceva quest’uomo? Aveva costruito questa Junger Kompanie, tutti ragazzi giovani; va bene che lui avesse il suo vizio e anche il pallino della boxe ma forse era anche un modo per evitarci di andare a lavorare, almeno per i più giovani, cercava di salvarli in qualche modo. Perché ci salvava in questo modo? Si faceva una scheda: il 5.873 si batteva contro il 4.455, e così via. Si faceva tutto il borderau. Alla sera dopo il passaggio della SS, all’una, due di notte si apriva questo spettacolo in cui noialtri a turno andavamo a fare la boxe. C’erano proprio ottavi di finali, quarti di finali, semifinali e finali. Tutto qui. C’erano soltanto due paia di guantoni. Io mi ricordo che ci stavo dentro tre volte in questo paio di guantoni; c’era anche un padellone in cui uno dei suoi batteva. Lui era l’arbitro.

Queste cose ho aspettato parecchio a raccontarle, finché non le ho lette scritte da altre parti; se vado a raccontarle non ci crede nessuno. Al momento giusto lui chiamava l’uno e l’altro. Ha chiamato e ha chiamato me, c’erano anche le corde che dividevano legate ai quattro pali: facevano il suo ingresso lui in mutandine rosa, nudo con le mutandine rosa. Lo so che fa ridere, ma è così. E tu ti picchiavi per tre minuti con un altro. Lui era quello che decideva chi aveva vinto e chi aveva perso ed era importante.

Più in là c’era un tavolo come questo: sai cosa c’era sopra? C’erano gli avanzi di quelli dell’altra Stube, gli ammalati di tubercolosi, malati che non mangiavano più, magari sporchi di sangue, pezzi di pane sporchi di sangue: erano tutti allineati e avevano un cartoncino a seconda del valore. Se era un bel pezzo di pane voleva dire cinque sigarette, dieci sigarette, un altro ne valeva tre, un mestolo di minestra poteva valere una sigaretta, eccetera. Dov’erano le sigarette? Le sigarette le aveva lui. Alla fine del combattimento ti dava la sigaretta. Al primo turno te ne dava una sola, se superavi quel turno, perdente o vincente tutti avevano un minimo. Avevamo tutti una borsa. Finito quello, se avevi superato il turno dovevi poi batterti con un altro, allora il premio era maggiore, saliva fino quando arrivavi alla finale. Se arrivavi alla finale prendevi un pacchetto di sigarette, quello che era. Man mano che prendevi il pacchetto di sigarette, o lo consumavi subito a quel tavolo, o altrimenti aspettavi: “Se vado là ne guadagno un po’ di più, guadagno un bel pezzo di pane che è un po’ più grosso!” Questo finiva alle 2.00 o alle 3.00 del mattino.

Io ci sono stato quindici giorni, venti giorni circa, sono ingrassato. Ero arrivato persino alle semifinali. Ero abbastanza bravo, io avevo fatto la scuola di pugilato, gli altri no, c’era da vergognarsi perché non ci facevamo male ovviamente, non avevamo neanche la forza di farci male. E’ andata bene per circa venti giorni, finché arriva un francese. Arriva un francese con la scabbia.

Il problema qual era? Era di non incontrare il suo amico, l’amico del cuore che era un polacco, un bel ragazzo polacco, vinceva sempre lui. O che vincesse o che lo lasciassero vincere, era meglio che vincesse lui, però ci sapeva fare davvero, poi era sempre lì, quindi era ben piantato. Io ho avuto la fortuna di non andarci contro, quello poteva farti male davvero. Si divertiva anche lui, in fondo finiva quasi con l’essere un divertimento, perché non ci facevamo male, nessuno di noi aveva intenzione di farsi male, però l’altro contava il pugno che aveva dato in un posto, faceva il punteggio per la sua classifica finale di ogni incontro, come tu vedi fare alla televisione. Quando vedo un incontro di pugilato alla televisione mi viene da ridere, non posso vedermi in mezzo a quell’affare.

Tutto procedeva, era d’estate, abbastanza bene. Il trucco qual era? Era lui che faceva da medico, il capoblocco faceva da medico. Al mattino presto venivamo messi tutti fuori dalla baracca, quella della scabbia, lui diceva se eri guarito oppure no. Dove dovevi averla? Scusami se te lo dico, ma sulla punta del pene. Perché lui era lì che doveva controllare, ci metteva in fila e controllava che lì ci fosse la scabbia. Se c’era la scabbia continuavi a stare lì e quindi non andavi a lavorare, continuavi a stare lì. Ci sono stato circa venti giorni finché arriva il francese. Arriva il francese, si presenta e dice, non mi ricordo più neanche il nome; poi l’ho cercato, l’avrei ucciso. Era un campione di Francia. Gli abbiamo detto: “Bisogna cercare di durare più che si può!” Naturalmente li fa fuori tutti finché arriva all’amante del capoccia. L’amante del capoccia sapeva fare il pugilato, per un po’ i due si divertono perché finalmente aveva trovato uno che poteva competere, però il francese a perdere, col cavolo che ci stava! Ha cominciato a sentire un paio di cazzotti, ci ha messo venti secondi, l’ha steso a terra e non si muoveva più. Scena tragica. Il capoblocco piangeva su quel pugile. All’indomani siamo andati tutti a lavorare.

Io l’avrei ucciso, poi sono andato in Francia. Una volta poi il presidente dell’associazione francese è venuto a Torino, è stato mio ospite. Gli ho chiesto chi fosse questo campione di Francia che era a Mauthausen, avrei voluto trovarlo. Ha detto: “Consolati, non ce n’era solo uno campione di Francia, ce n’erano tre campioni di Francia, uno ha anche fatto l’europeo, sono morti tutti e tre”. Vedi che cosa voleva dire essere forti? Non voleva dire niente.

D: Vi hanno mandato a lavorare dove?

R: Io sono poi tornato a Gusen II. Lui ci ha mandato tutti via, però io avevo ancora delle ferite. In un certo sento l’ho fregato perché da quel blocco che era il numero 3 mi hanno passato al numero 7. Sono ancora stato lì, poi sono stato portato di nuovo a Gusen. Il momento più brutto l’ho proprio passato a Gusen II perché si lavorava nelle gallerie, era un lavoro bestiale, insopportabile. Intanto perché le gallerie erano calcaree: dopo cinque minuti che ti trovavi dentro morivi di sete, non pativi neanche più la fame, proprio una sete terribile. Un’arsura che ti prendeva alla gola. Ho passato i momenti i più brutti, ho passato dei momenti lì dentro che sono una cosa straordinaria. Non vedrò mai più una cosa di questo genere.

D: Le gallerie di Gusen di cui tu parli quali sono?

R: Da Gusen II prendevi una specie di tradotta, una specie di trenino fatto di carri bestiame che percorreva circa 3 chilometri e ti lasciava davanti all’ingresso delle gallerie. Scendevi dai carri ed entravi dentro il tunnel e lavoravi dentro quei tunnel. Era l’ambiente che era terribile.

Io sono stato molto fortunato anche lì, ho potuto sopportare perché non facevo fatica. Non facevo fatica perché, avendo sul mio cartellino scritto mechanischer Designer, disegnatore meccanico, mi hanno dato un lavoro tecnico. Si costruivano parti di aerei da caccia, i più veloci del mondo in quel momento. C’era un gruppo di russi che fabbricava questo aereo. Fabbricava la cabina di pilotaggio: poi veniva issata, sopra c’era una scala, veniva posata lì sopra e io dovevo controllare il lavoro che loro avevano fatto. Quindi stavo tutto il tempo, dodici ore, sia che facessi i turni di notte o di giorno, dentro la cabina con una pila in mano a controllare cosa avessero fatto questi. Era la cosa più facile di questo mondo, era anche la meno faticosa di tutte. Tanto è vero che dormivo persino lì dentro, però ero controllato a mia volta. Nel senso che avevo il controllore civile, l’ingegnere, avevo il Kapò polacco o tedesco, non mi ricordo più, che era una bestia, e poi avevo la SS.

Uno di questi tre ogni tanto mi arrivava addosso; però io con il gruppo di russi che costruivano la cabina di pilotaggio avevo fatto una specie di patto d’azione. I figli di buona mamma sabotavano il lavoro, sabotavano la cabina. Bastava un piccolo forellino e la cabina, se stava in volo, non so quanto potesse volare. Io dovevo controllare proprio quello. Allora cosa succedeva? Quando il buco era grosso li chiamavo e dicevo: “E’ la vostra cabina, non si può mica fare così, non passa al controllo. Gli altri mica ci stanno”. Allora se la riprendevano e l’aggiustavano. Quando era piccolo, tutto sommato che l’aereo non volasse piaceva anche me. Se era piccolo, dicevo: al limite mi prendo la colpa io che non ho visto. E così siamo andati avanti abbastanza bene, quando succedeva mi prendevo la colpa e prendevo le venticinque bastonate. Nei Lager imparavi tutto. Io avevo trovato un paio di pantaloni alla cavallerizza, erano un residuato polacco che aveva la cosa a strisce sopra ma sotto la cosa a strisce c’era un pezzo di cuoio spesso che mi fasciava dal sedere fino a sopra. Per cui quando mi davano le venticinque bastonate, io devo dire la verità, non sentivo granché. Quello sudava cinque camice, prendeva lo slancio e io facevo una specie di … tanto perché non si accorgesse; quindi sono andato avanti sempre così. Intanto chiaramente con quei russi, erano tutti russi quelli che fabbricavano questo, avevo un rapporto straordinario. Io per loro ero un padreterno, per cui ero protetto uscendo dalle gallerie, ero protetto da tutti perché non li denunciavo, per loro ero un padreterno. Accettavo di prendere le frustate, però non sapevano neanche loro che io ero protetto sotto il sedere, quindi mi pavoneggiavo un pochettino.

Perché dicevo di aver vissuto dei momenti straordinari in quel periodo? Certamente il più brutto perché poi ormai ero ridotto solo a pelle e ossa, non ce la facevo proprio più. Morivo di fame, morivo di tutto, ma ho vissuto dei momenti così straordinari che, torno a ripetere, vale la spesa essere stato nel Lager per averli vissuti. Cosa vuoi che ti dica? C’era con me un francese, che era un francese romantico. Si chiamava Michel. Cosa faceva quest’uomo per tirar su il morale alla gente? Quando finivamo l’orario di lavoro che era già una roba, ci restavano solo quelle quattro o cinque ore per riposare, non di più, noi eravamo sul piano superiore di questi castelli. C’ero io, ma c’erano anche il gruppo dei suoi francesi. Lui raccontava una storia. Sai che rubavamo minuti di sonno per sentire la storia immaginaria di quest’uomo e della sua Giselle, la sua ragazza? Lui aspettava che fosse buio E che non ci fosse nessuno, poi si tirava un poco su e noi tutti ad aspettare. Ogni tanto intercalava le sue frasi in italiano perché capissi anch’io. Tirava fuori qualcosa, era una busta inesistente, da cui tirava fuori un foglio di carta. “Oggi ho ricevuto da Giselle la sua lettera” e leggeva la lettera che Giselle gli aveva scritto, che gli raccontava di momenti che avevano vissuto, che era tornata a vedere quel posto dov’erano stati, la Torre Eiffel. “Ti ricordi quella volta che abbiamo perso il treno per arrivare a casa?” Raccontava questa storia.

E noi stavamo lì a berci questa storia immaginaria, rubando ore di riposo, non ore ma anche solo dieci minuti di riposo perché ci faceva bene alla salute. E cosa succedeva? Che tu poi restavi con un appuntamento. Cosa risponderà lui a Giselle domani sera o dopodomani, quando riuscirà di nuovo a parlarle? E lui ti gigionava la sua parte perché sapeva che ormai ci aveva conquistati tutti quanti come fosse un Kapò del quale eravamo schiavi. Puntualmente rispondeva a Giselle inventando qualche cosa. Ma vedi, quando gli scriveva lei, era un po’ diverso perché, presa la busta e la lettera, lui la portava al naso, Chanel n. 5, e c’eravamo innamorati tutti della sua Giselle. O forse noi la scambiavamo con la nostra ragazza, evidentemente.

Puoi vivere cose di questo genere con quella intensità? E quando mai le vivrai queste cose? Mai più nella vita. Sai che un giorno un suo compagno, Emile si chiamava, un francese magrolino, mentre eravamo nelle gallerie e non so se stava facendo un lavoro ma ha perso un attrezzo e non lo trovava più. E’ arrivato il Kapò, lo ha guardato. “Tu l’hai perso!” ha continuato a gridargli in tedesco un sacco di insulti. Quindi è arrivata anche la SS ed è scoppiata una parola che era terribile nel Lager: Sabotage. Per sabotaggio venivi ucciso subito. Ma c’erano delle punizioni che dovevano essere ufficiali.

Ti potevano uccidere in cento maniere per qualunque pallino, ma un sabotaggio diventava una cosa a cui tutti dovevano assistere. Gli fanno una ripassata, il resto viene rimandato al rientro nella baracca nel Lager. Riusciamo a trascinare Emile già abbastanza provato fin dentro la baracca, poi quando è il momento che si sono fatte le operazioni, preso il mangiare, fatta la depilazione, viene il momento della punizione. Eravamo circa quattrocento dentro quella baracca. Era una baracca che poteva contenere al massimo cento persone ma ne conteneva mediamente quattrocento di un turno e quattrocentoo di un altro.

C’erano pestaggi in tutti i momenti, ma perché un pestaggio diventava diverso dall’altro? Non me lo so spiegare neanche io adesso: tutti aspettavamo il pestaggio di Emile. Quando ti davano le frustate, ti mettevano a testa in giù e col sedere in aria, botte fino a venticinque; perché venticinque non l’ho mai saputo. Portavano una specie di sgabello concavo, dove il malcapitato deve posare la pancia e stare a battere sopra, anche lui deve contare.

Viene il momento, chiamano Emile. Silenzio di tomba dentro la baracca. Emile viene portato giù, già era abbastanza malandato, viene posato con la pancia in giù e il capoblocco comincia, si mette in posa per cominciare a dare le frustate. E comincia. Una, due, Emile deve dire in francese: un, deux, trois. Già dopo le prime due o tre non ce la fa più.

Cosa succede nel nostro gruppetto lassù? Cosa inventa Michel? Inventa una cosa che tutte le volte che ci penso mi viene ancora la pelle d’oca adesso: la Marsigliese. “Et allons…”, e comincia a cantare la Marsigliese, piano, piano. I suoi poco per volta, prima sono indecisi, io non la sapevo, non la potevo neanche cantare, ma poi lo seguono. Poco per volta alza sempre più la voce; l’altro che si era fermato sente la Marsigliese e allora ce la fa, conta, va avanti: 3, 4, 5, 6, 7. Ad un certo punto si ferma e non ce la fa più. Allora sente lui che alza la voce: “Allons mes bataillons!”, alza ancora di più la voce. E va fino alla fine, fine nella quale tu non sapevi cosa sarebbe successo. Come minimo dovevamo essere uccisi tutti, ma proprio minimo minimo. Ma i Kapò della baracca sono rimasti così sorpresi da una cosa di questo genere che non sono stati capaci di fare niente. O si sono presi paura loro stessi da un eventuale arrivo delle SS perchè avrebbero dovuto rendere conto di come avevano permesso che avvenisse una cosa del genere, o l’atmosfera li ha suggestionati, non so cosa sia successo. E’ successo che sono andati fino alla fine e che la Marsigliese è stata cantata fino alla fine dal gruppo di francesi. Sai, si può vivere un altro momento così? Non lo so.

D: Alla Liberazione dove ti trovavi?

R: Alla Liberazione io ero a Mauthausen nel cosiddetto Revier. Ero tornato da Gusen ed ero sfuggito alla selezione, alla camera a gas; io sono sempre stato fortunato. Solo chi ha fortuna può superare queste cose, mica perché ero più bravo. Tu capisci: mi sbattono in un blocco dov’ero già stato, il blocco 7, devo dire che ero già abbastanza conosciuto a Mauthausen, avevo fatto già due o tre viaggi. In questo blocco 7 c’era un infermiere che parlava italiano benissimo, perché era stato, guarda caso, così mi aveva raccontato, il precettore della famiglia del principe italiano ambasciatore a Varsavia. La moglie del principe era una principessa Morozzo della Rocca. Lui teneva a far sapere che aveva fatto queste cose, anche perché questa donna diceva sempre la Vispa Teresa ai suoi ragazzi, lui voleva ricordare la Vispa Teresa; io non la conoscevo, ma era riuscito in qualche modo a fargliela avere. Il problema era che io da furbastro ho un po’ sangue blu che gira nelle vene, e mia madre era discendente dei conti Morozzo della Rocca. Questo ha pensato di avere davanti a sé un rampollo di alto lignaggio e quindi mi proteggeva un pochettino, mi dava qualche pezzo di pane. Quando c’è stata l’eliminazione col gas hanno fatto questa scelta. Qual era lo scopo dell’eliminazione? Era quello, nel caso il Lager fosse stato liberato e fossero arrivati gli americani o i russi, di non presentare le persone particolarmente “giù”. Per cui hanno diviso in tre categorie: quelli che stavano morendo per loro conto, quelli che stavano un briciolino meglio e quelli che stavano per morire, ma non morivano e bisognava farli morire più in fretta. Naturalmente in tutti i blocchi gli infermieri cos’hanno fatto? Li hanno messi tutti nella categoria due: i nazisti li hanno illusi che li avrebbero portati in un posto a curarli perché ormai la guerra stava finendo e si erano pentiti di quello che era stato. Tutte balle a cui questi hanno creduto; tutti avevano il numero due. Il primo giorno vanno fino alla M e va questo gruppo ma io non sono chiamato, uno o due della M. Poi avevano già fatto il numero, per cui noi saremmo andati all’indomani. L’indomani era giorno di festa, mi pare fosse una domenica e in quel momento arriva a Mauthausen la Croce Rossa francese che fa uno scambio di prigionieri. Restituisce alcuni ufficiali della SS ma in cambio vuole i francesi prigionieri a Mauthausen. Per andare dall’infermeria al Lager avremmo dovuto passare davanti alla Croce Rossa, eravamo tutti nudi con la coperta addosso. Questo non era possibile, allora rimandano questo secondo gruppo.

Passa tutta la giornata, gli infermieri vengono a sapere la fine che hanno fatto quelli che erano andati prima, erano stati tutti passati per il gas. Allora questo mi dice: “Io ti chiamo quando viene l’ordine, tu rispondi presente ma invece resti qui.” Io domando perché questa cosa. Lui dice: “Perché tutto sommato è meglio stare qui, ormai la guerra è finita, un pezzo di pane in più te lo do io.” E così succede. L’indomani mattina chiamano tutti dalla M alla Z e tutti quanti vanno su, finiranno poi nella camera a gas e io, con un certo Pitto di Milano restiamo invece lì, procurando un grave guazzabuglio nel Lager. Perché? Cos’era successo? Siccome non c’era nessun infermiere italiano ma c’erano due infermieri polacchi, questi hanno detto: “Salviamo un testimone; tu salvi un polacco e io salvo un italiano”. E avevano deciso di salvare me. Poi si sono trovati anche Pitto, per cui hanno litigato fra di loro. Invece di uno ne hanno salvati due.

Poi è successo che la SS non se n’è andata lo stesso, voleva ancora prenderne degli altri e sono venuti un’altra volta e allora, per sfuggire all’ultima selezione, mi hanno schiaffato con gli ebrei. Cosa succedeva? Nell’ultimissimo periodo gli ebrei non li uccidevano più. Non solo ma davano loro persino la razione doppia della nostra.

Perché questo? Si è saputo poi dopo il motivo. Il motivo era che la Germania aveva chiesto la pace separata agli alleati, in cambio avrebbe continuato a fare la guerra soltanto con la Russia ma come contropartita non avrebbe più ucciso ebrei.

Costa Vincenzo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Costa Vincenzo.

D: Dove sei nato?

R: A Bros, Comune di Tambre.

D: Vincenzo, quando sei nato?

R: l’11 settembre del 1921.

D: Ecco Vincenzo, ci puoi raccontare la tua storia.

R: Devo cominciare da dove? Aspetta, aspetta. La storia dei partigiani insomma. Di modo che ho girato il mondo.

D: La storia dei partigiani, vediamo la storia dei partigiani.

R: Allora è arrivato, partigiani dalla bassa, da Treviso.

D: Quando questo? Quando sono arrivati?

R: Ad agosto. Ad agosto del 1943, 1944. Del 1944, dicendo Che cosa fate voi altri qua, andate con i tedeschi o andate con i partigiani?” e abbiamo scelto, andiamo con i partigiani. Allora siamo andati al palughetto nel bosco che ci hanno dato il nome di battaglia, allora io ero Spada. Il mio nome di battaglia era Spada.

Là poi ci siamo messi d’accordo e siamo andati partigiani, giù a Vittorio Veneto. In quelle zone là.

D: Scusa Vincenzo, voi dovevate fare delle azioni ben precise come partigiani?

R: Caso mai si vedeva i tedeschi, si doveva combatterli.

D: Tu con chi eri?

R: Con la brigata Fratelli Bandiera.

D: Ti ricordi qualche nome di qualche tuo compagno partigiano? Che c’era con te?

R: Sì, i nomi di battaglia o i nomi.

D: Quelli che vuoi.

R: Gufo, Ascaro…

D: Dopo se ti vengono in mente ce li dici. Quindi siete arrivati tutti, e ti sei aggregato a questa formazione partigiana e dove eravate come zona ad operare?

R: Allora, da Cansiglio fino a Vittorio Veneto.

D: Lì avete fatto qualche azione voi?

R: No, azione proprio di combattimento no. Abbiamo sparato un po’ da lontano, poi si doveva scappare, perché noi eravamo in pochi ed i tedeschi erano in tanti ed eravamo armati così, non tanto.

D: Le armi dove siete andate a prenderle?

R: Ce le hanno date là a Vittorio Veneto, ce le hanno date a Vittorio Veneto, sì ce le hanno date.

D: Lì sei rimasto fino a quando tu?

R: Fino all’8 settembre che sono arrivati i tedeschi, doveva arrivare su una montagna di tedeschi ed ho preso l’ordine di sospendere, di scappare.

D: Dove sei andato?

R: A casa mia. Ero da Vittorio nel bosco sono venuto a casa mia.

D: Lì cosa hai fatto?

R: Là a casa siamo stati un po’, poi i tedeschi della Todt hanno chiesto che si andasse a lavorare per loro.

D: Dove erano questi tedeschi della Todt? Qui a Tambre?

R: Sì a Tambre, nei paesi, sì. Si lavorava nel bosco di Cansiglio perché allora si caricavano i tronchi perché dovevano portarli fuori dal palughetto e da lì giù fino a Farra del Pao e da Farra del Pao lo caricava sulle macchine ed andavano giù nel Piave; dovevano fare delle fortificazioni giù dal Piave, i tedeschi.

D: Scusa Vincenzo. Cosa c’era al palughetto per mandare giù i tronchi?

R: La resina. C’è una resina fatta di tronchi e si mettevano i tronchi lì e scivolavano giù. Scivolavano giù fino a Farra perché arrivano giù così.

D: Voi lavoravate per la Todt

R: Sì.

D: Come vi hanno reclutato questi della Todt?

R: O Dio non mi ricordo più, aspetta.

D: Non ti ricordi come ti hanno chiamato? Ti sei presentato tu alla Todt?

R: Orca, aspetta un momento.

D: Se te lo ricordi, altrimenti non ha importanza. Ascolta, lì sotto la Todt eravate in tanti a lavorare.

R: Sì, sì, eravamo tutti partigiani che si lavorava lì. Si caricava i tronchi sulle slitte, allora i becchi lì, perché la neve. Si caricava ed i tedeschi dice “Specialist, guarda che bravi specialist”, si era specialisti a caricare. Fino a che a Natale è venuta tanta neve ed hanno sospeso.

L’11 gennaio hanno preso qui a Tambre, la sera avanti hanno preso qui a Tambre, la sera avanti, noi sapevamo che i tedeschi avevano preso i partigiani da Tambre, si voleva quasi scappare, ma speriamo che non sappiamo niente, invece la sera dell’11 a casa di mio suocero.

D: Scusa, l’11 di che mese?

R: L’11 gennaio del 1945. Giù a casa di mio suocero, eravamo giù a cantare assieme con i tedeschi, si cantava canzoni e buttavano fuori da bere, a mezzanotte ed un quarto abbiamo finito, ognuno andava per i fatti suoi, io sono andato a letto, io e mio fratello, dopo una mezz’oretta, neanche, arrivano su i tedeschi. Allora su dalle scale, la prima porta era mio padre e mia madre che dormiva, sulla seconda ero io e mio fratello.

Sono andati diretti nella mia, perché guarda quanto erano precise le spie, che non sono andati a bussare nella porta di mia madre, sono andati dentro diretti nella mia, nella seconda porta. Lì un capitano tedesco, senza un braccio, con un lupo, è arrivato sopra il letto con il lupo “Porco”, allora ha tirato il lupo, ha buttato giù le coperte, e su. Anche mio fratello però, perché mio fratello aveva su solo le mutande e preso anche lui.

Siamo stati giù alla Villa Semenza e lì era il comando tedesco e lì abbiamo fatto l’interrogatorio e dire quello che abbiamo fatto. Che io ero senza fucile e che sono andato così. E continuavano a darci giù botte. Io dalle botte che mi hanno dato sotto la faccia il collo era così qua.

Fatto l’interrogatorio ci hanno portato in una casa lì sotto. Ed il giorno dietro partenza per Belluno, ed allora a piedi, a piedi fin giù a Farra, a Farra del Pao, e lì c’era un camion, ci hanno caricato sul camion e ci hanno portato a Baldinich in prigione a Belluno.

D: Scusa Vincenzo, quella notte dell’11 gennaio, hanno arrestato solo te e tuo fratello?

R: No, no, tutti. Tutti, tutti.

D: Quanti?

R: Aspetta. Noi, Albino, Narciso, Trisieri, Primo, Emilio, Anselmo, Vincenzo, Lion Giovanni, insomma in nove, in nove eravamo, nove di noi.

D: Tutti sono stati portati lì a Villa Semenza?

R: Sì tutti, interrogatorio a tutti quanti.

D: Scusami Vincenzo, chi ti interrogava? Erano germanici o c’erano anche italiani?

R: Penso siano stati i bolzanini. Parlavano tedesco. Ma sono pochi quelli che sanno parlare italiano. Erano bolzanini senz’altro. Ci sarì stato qualche tedesco assieme e basta.

Finito l’interrogatorio ci hanno portato giù nella casa lì.

D: Ma i tedeschi erano delle SS?

R: E’ facile. Penso di sì.

D: Non te lo ricordi?

R: No.

D: Sei arrivato quindi nelle carceri di Belluno.

R: Sì, sì.

D: Lì vi hanno messo nelle celle singole? Tutti assieme?

R: No, eravamo in tanti. Aravamo in tanti, in cameroni. Poi il 17 gennaio, la mattina del 17 gennaio sono venuti su a prenderci per portarci a Bolzano, lì con i nomi, con l’elenco dei nomi ci hanno dato i nomi.

D: Scusa, se ti chiedo. Sei rimasto nelle carceri di Belluno quanti giorni?

R: Sono rimasto fino al 6 febbraio.

D: Nelle carceri di Belluno?

R: Sì.

D: Nelle carceri di Belluno fino a quando sei rimasto tu?

R: Fino al 6 febbraio, sono rimasti lì, allora ha fatto l’elenco, Costa Vincenzo, mi ha dato una scarpata e mi ha buttato al muro.

Allora le guardie carcerarie hanno detto che i nostri compagni erano a lavorare liberi e se per caso dovessero uccidere un tedesco, sono i primi che portano il piatto ai martiri.

D: Vincenzo scusami, in tutti i giorni che tu sei rimasto lì nelle carceri di Belluno insieme con tuo fratello.

R: No, mio fratello no, un altro.

D: Tuo fratello no.

R: No, mio fratello no, un altro, un paesano.

D: I tuoi genitori hanno potuto venirti a trovare?

R: No, no.

D: Tu hai potuto scrivere? Ti hanno mandato dei pacchi?

R: Non a Belluno, a Bolzano. Sono arrivato a Bolzano.

D: No, no, nelle carceri di Belluno.

R: No, no niente, niente.

D: Dopo il 6 febbraio che cosa è successo?

R: Il 6 febbraio, è arrivato il capitano “Via, via” ci portano sul camion e via per Bolzano, ci hanno portato a Bolzano, e siamo partiti per Bolzano con i camion.

A Bolzano erano partiti tutti i miei paesani, i miei compagni per andare a Mauthausen, ed ho trovato questo Albino, quando lo hanno chiamato per andare a Mauthausen “Tu sei Albino”, e si è salvato.

D: Scusami, che cosa ti ricordi quando sei arrivato nel Lager di Bolzano.

R: Lì ci hanno spogliati, ci hanno tagliato i capelli a zero, proprio a zero, con la macchinetta, con il rasoio. Lì nel blocco D ed il blocco C’erano i due blocchi pericolosi, perché erano tanti blocchi che andavano fuori a lavorare, noi vediamo quei due blocchi ed erano i blocchi dei partigiani pericolosi.

D: Fermati un secondo. Allora Vincenzo, arrivato dentro nel Lager di Bolzano, e lì sono iniziate le pratiche della spogliazione, vi hanno tagliato i capelli, dove vi hanno tagliato i capelli?

R: Fuori nel cortile, nel cortile davanti ai blocchi, al blocco dove poi ci hanno messo dentro.

D: Eravate tutti in fila voi?

R: Sì, sì.

D: Poi vi hanno spogliato?

R: No, non ci hanno spogliato. No, no.

D: I tuoi vestiti li avevi?

R: Sì, sì.

D: Vi hanno dato un numero?

R: Sì, ma non me lo ricordo più 8950, avevo un numero, avevo un triangolo rosso con il numero rosso.

D: Dove lo avevate questo numero e questo triangolo rosso?

R: Qua sulla giacca.

D: Sulla tua giacca?

R: Sì, sì sulla mia giacca.

D: Dopo vi hanno mandato nel blocco.

R: Sì, nel blocco.

D: I due blocchi erano.

R: Il blocco D ed il blocco C, i due blocchi pericolosi, dei partigiani pericolosi. Ci hanno chiusi dentro lì e non ho visto più nessuno, né la luna, né niente. Si aveva un’ora, un’ora al giorno di aria. Come eravamo dentro, impacchettati dentro, fuori eravamo tutti impachettati tutti in piedi dritti perché era il posto appena appena così.

Quando finita l’ora il tedesco, dentro di corsa.

Alla sera una gamella di plastica, fave macinate, una brodaglia, stop. Da 65 chili che pesavo sono venuto a casa 47 chili. In tre mesi, quattro. Si era giovani e forti e sani e allora ci siamo salvati.

D: Scusa Vincenzo, dentro nel blocco cosa c’era? C’erano dei letti come?

R: Sulle brande, sui sacchi di segatura, sulla segatura.

D: Ma erano letti a castello?

R: A castello sì.

D: In quanti dormivate per ogni castello?

R: Cinque o sei.

D: Per fare i vostri bisogni dove andavate?

R: Erano una specie di gabinetti, ma non con l’acqua corrente. Non c’era, fai i tuoi bisogni e spariva tutto. Non carta igienica, sempre il culo sporco avevi.

D: Era all’aperto?

R: Sì.

D: Ascolta Vincenzo, vi facevano mai lavorare?

R: No, mai, c’era qualcuno dei partigiani meno pericolosi, una volta uno ha tentato di scappare lo hanno preso, lo hanno portato dentro, hanno fatto adunata di noi, lo hanno spogliato “Partigiano vedi qua” e pestano su, lo hanno martoriato tutto. “Anche voi partire e scappare fare stessa fine”.

Insomma è arrivato il 6 maggio, prima degli americani sono ancora lì. Ho sempre pensato “Oh qui mi accoppa, oh…”, invece sono ancora lì. Allora a piedi fino a Bolzano, la Val Di Fiemme, Predazzo.

D: Aspetta Vincenzo, scusa. Più o meno in quanti eravate dentro nel blocco, se ti ricordi.

R: Trecento. Quando arrivati, aspetta. Il 23 febbraio, eravamo ai blocchi, il 23 febbraio, arrivati a trecento, i due blocchi pieni, partenza. Ci hanno portato alla stazione a Bolzano e ci hanno caricato sul treno, sui vagoni, tutti impachettati. Poi ci hanno chiusi, 36 ore in vagone, 36 ore in vagone e ne è morto anche uno. Ci hanno portato da Bolzano a Fortezza, non siamo più partiti, allora ci hanno slegato e ci hanno riportato dentro i blocchi. A piedi.

Lì sempre in attesa che sistemino la linea, la ferrovia per tornare e partire, ma non siamo mai partiti perché li hanno sempre bombardati.

D: Vincenzo vi hanno portati nella stazione ferroviaria o in uno scalo merci. Uno scalo o era proprio la stazione?

R: La stazione, la stazione. Sì, sì.

D: Vincenzo scusami, una tua giornata dentro il campo. Ci dicevi che mangiavate poco. Al mattino a che ora la sveglia?

R: Al mattino non c’era sveglia. Lì non c’era sveglia, stare dentro al buio, appena appena si vedeva, non si vedeva neanche nessuno.

D: Vi davano qualche cosa da bere la mattina?

R: Niente, niente. Bere, magari, niente. Alla sera, prima di buio una cosa di plastica di fave macinate, che era una brodaglia, senza sale, perché costa caro. La prima volta che ho mangiato ho detto “Qua il sale?” perché ormai si era abituati al sale.

D: Quindi un pasto al giorno?

R: Un pasto al giorno.

D: Pane?

R: Pane? Una volta una fettina di quello nero. Il pane nero, una volta sola.

D: Chi faceva le pulizie del blocco? Veniva pulito il blocco dentro? Ti ricordi se c’era un capo blocco?

R: No, no.

D: Non avevate dentro il bugliolo? Il mastello per fare i bisogni?

R: No, no, si andava fuori, dietro c’era questo.

D: Uscivate dal blocco una volta al giorno.

R: Un’ora al giorno, stop.

D: Vincenzo tu hai avuto il tempo mentre sei rimasto lì a Bolzano, nel Lager di Bolzano, di vedere se nel Lager c’erano anche delle donne?

R: Tante anche. Tante. C’era il blocco C e D, saranno state una trentina.

D: Non hai potuto parlare con loro?

R: No, no, guai.

D: C’erano dei malati nel vostro blocco? Se ti ricordi.

R: Non mi ricordo.

D: Prima quando ti chiedevo dei pacchi e delle lettere, a Belluno mi dicevi di no. Ma a Bolzano invece?

R: Niente. A Bolzano è arrivato su una volta.

D: Tu non hai potuto neanche scrivere.

R: Niente, niente, guai.

D: Ti ricordi se nel Lager di Bolzano hai visto anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: No, no.

D: Il giorno di Pasqua del 1945 avete celebrato la Messa nel Lager di Bolzano? Non te lo ricordi?

R: No, no, non ho mai fatto Messa lì.

D: Ma è vero che c’erano dei soldi e si poteva comperare le mele o altre cose nel Lager a Bolzano?

R: Gli altri, quelli che non erano pericolosi, non so. Ma noi, niente. Noi siamo sempre stati dentro nei blocchi chiusi, lì sempre lì. Quell’ora al giorno e stop.

D: Siete usciti quella volta che vi hanno messo sui vagoni.

R: Sui vagoni, sì.

D: Cosa era, mattina o pomeriggio quando vi hanno chiamato?

R: La mattina. Da lì, dal nostro campo andare in stazione saranno stati 4 chilometri, non so, non mi ricordo bene.

D: A piedi?

R: A piedi, a piedi.

D: Quando vi hanno chiamato, vi hanno chiamato per numero?

R: Sì, sì.

D: Ci puoi spiegare che cosa è successo quella mattina lì?

R: Quella mattina sono venuti lì “Fuori, fuori”, inquadrati tre per tre, e lì. Arrivati in stazione, pronti, aperte le porte e su, settantacinque per vagone, quattro vagoni, trecento. Chiuso, si credeva di partire subito. Insomma trentasei ore in vagone siamo stati. Si vede che li hanno bombardati, la linea del Brennero e non siamo più partiti. Poi si era sempre in attesa di andare dentro, ma ogni tanto li bombardavano, si è tornato dentro.

D: Vincenzo, ti ricordi qualche nome di qualche SS del campo di Bolzano?

R: Non mi ricordo niente.

D: La Tigre?

R: No, non me li ricordo, nomi tedesco, così. No.

D: Se ti dico questo altro nomi, Tito? Ti ricordi se nel Lager di Bolzano c’erano delle celle?

R: Nell’area?

D: Sì nell’area. C’era un blocco che era come una prigione dentro nel blocco?

R: Qualche volta si sentiva gridare. Ne hanno ammazzati dentro lì.

D: Tu non lo hai visto?

R: No, si sentiva gridare. Una notte si sentiva una donna che gridava, gli sparavano, gli tiravano, li ammazzavano, non so cosa gli facevano. Ma due o tre volte ho sentito gridare così.

D: Questi nomi ti dicono qualche cosa, Miscia e Otto. Ti ricordano qualche cosa?

R: No.

D: C’era un’infermeria nel campo?

R: No, non lo so. Non è stato nessuno in infermeria. Non so.

D: Se ti ricordi c’era un comitato di resistenza all’interno del campo? Hai trovato altri compagni di altre cittì d’Italia, altri partigiani?

R: Sì, eravamo in trecento, non si era mica tutti qua a Belluno.

D: Ti ricordi qualche nome?

R: No.

D: Neanche da dove venivano ti ricordi?

R: Sì, fino dal Piemonte ce ne era lì.

D: Se ti faccio quest’altro nome Luigi Novello, ti ricorda qualche cosa?

R: Sì, Luigi Novello sì, Novello è qui di Belluno.

D: Ti ricordi se nel Lager di Bolzano hai visto dei bambini lì dentro?

R: Ho visto delle donne, ragazze, qualche ragazza, non so come ha fatto ad essere lì, con sua mamma, non lo so.

D: Più piccoli?

R: No, no.

D: L’appello a voi ve lo facevano ogni giorno?

R: No, mai fatto, non potevamo scappare. Un’ora di fuori e dentro. Non potevi scappare, dove andavi? La corrente.

D: L’azione violenta che tu hai visto è stata di quel deportato che è scappato e che hanno preso.

R: Due, erano due.

D: Non ti ricordi i nomi o da dove venivano?

R: No, no. Erano partigiani forse dei meno pericolosi o presi per ostaggio o presi per, non so. Quelli andavano fuori a lavorare e la sera entravano nel campo di concentramento. Uno o due di quelli che hanno tentato di scappare li hanno presi. Non erano solo i tedeschi, erano tutti contro di noi, anche i borghesi erano contro noialtri. Quei porci.

D: Vincenzo ti ricordi quando uscivate un’ora al giorno all’aria, attorno al campo c’era un muro di recinzione?

R: Reticolati.

D: E c’erano anche delle torrette di guardia?

R: Sì.

D: Dicevi che quando era passata l’ora per tornare dentro, il tedesco fischiava.

R: Sì.

D: C’era anche il suono di una sirena?

R: No, solo lui. Perché eravamo impacchettati.

D: La mattina non suonavano una sirena?

R: Niente.

D: Tu hai detto prima che ti hanno dato un numero ed il triangolo rosso. C’erano altri deportati con triangoli di colori diversi?

R: Sì, ma non rossi.

D: Che colori?

R: Gialli, mi pare, stranieri. Comunque rosso eravamo solo noi partigiani pericolosi.

D: Pare ci fossero anche altri colori.

R: Mi pare di sì.

D: Vincenzo, arriviamo a maggio, che cosa è successo i primi giorni di maggio?

R: Lì ormai si sentiva nell’aria che arrivavano gli americani. Allora o ci ammazzano o che. Gli ultimi cinque o sei giorni ci hanno dato da mangiare, qui ci ingrassano come il toro e ci accoppano.

Dopo capitava che gli americani erano alle porte, ancora lì.

D: Ma hanno aperto il cancello?

R: Sì.

D: Prima di uscire vi hanno consegnato un lascia passare?

R: No, no, niente via, via.

D: Tu che cosa hai fatto quando sei uscito dal campo?

R: Siamo partiti a piedi e giù, e giù, senza mangiare, sono arrivato a Predazzo, il contadino mi dice … sono arrivato in … c’era il ben di Dio, i tedeschi andavano in su, i soldi italiani fatti a pezzi per terra per strada, tutti soldi per terra, brutte bestie maledette.

D: Sei arrivato a Tambre a casa quando?

R: Sono arrivato a casa l’8 o il 9 di maggio. Da Ponte delle Alpi con i camion, non c’erano le corriere, siamo andato sul camion.

D: In quanti siete ritornati a casa? In quanti erano con te?

R: Due. Io, Canton. Attilio Facchin, Tona Vittorio, altri che non si conosceva.

D: Vincenzo quando vi hanno fatto uscire dal campo il triangolo ed il numero?

R: L’ho portato a casa io.

D: Ce lo hai ancora?

R: No. Non so più dove l’ho messo, mi taglierei via la testa, volevo lasciare il numero.

D: Dal campo non hai portato a casa nulla tu?

R: Niente.

D: Solo la fame?

R: Solo la fame e le mutande tutte sporche.

D: Ed i pidocchi?

R: Pidocchi, no, eravamo nudi sui capelli. Le pulci, grattarti, che non avevi più nulla da grattarti.

D: Vincenzo, non c’era nessuno quando vi hanno lasciato liberi, la Croce Rossa, un comitato di accoglienza ad aspettarvi?

R: Niente, niente.

D: Tu prima accennavi che il tuo arresto, sono venuti ad arrestarti perché c’è stata una spiata. O no?

R: Sì.

D: Ma questo lo hai saputo dopo pero?

R: Non ho mai saputo la vera spia, però era una spia perché invece di andare nella camera di mia madre e mio padre, è entrato nella mia, spie precise. Indicazioni precise, non uno di Milano, ma uno dei nostri.

Trezzi Pierino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Pierino Trezzi. Sono nato a Gaggiano, provincia di Milano, il 17.8.1924. La mia storia: il 30 agosto del 1943 sono chiamato a militare. Governo Badoglio, questa è storia. Dopo otto giorni, 8 settembre, tutti a casa. Ce l’ho fatta ad arrivare a casa.

D: Dov’eri?

R: Ero a Cividale del Friuli. Ce l’ho fatta, ci ho messo sei giorni ad arrivare a casa, a piedi, rischiando col treno. Insomma, ce l’ho fatta. Siamo a casa. Dopo due mesi che sono a casa il richiamo alle armi. Io non ci vado, anzi vado. Che cosa succede? E’ una decisione che bisogna prendere con le dovute… Perché rischi forte, non puoi dormire più in casa, devi dormire nelle cascine, d’estate nei fossi e d’inverno di sopra nel solaio, perché ogni tanto venivano i carabinieri a controllare, a cercarmi. Perché loro sanno che non ho… Allora saltiamo un pezzettino adesso. Per tutti i quindici giorni ero ricercato dai carabinieri, in casa non c’ero perché ero via. Ci stufiamo di fare questa vita, cerchiamo di andare in montagna. Andiamo a Lecco. Arrivati a Lecco, arrestati subito.

D: Quando questo?

R: Questo circa nel ’44 in aprile.

D: E perché Lecco, Pierino?

R: Lecco perché per andare in montagna era la via più… Non so perché.

D: Non avevate un compagno?

R: Sì, eravamo accompagnati da uno che hanno fucilato quando l’hanno preso. Lì arrestati, dieci giorni di carcere.

D: Ma chi è che ti ha arrestato a Lecco?

R: I repubblichini. Portati in carcere dieci giorni, poi mi hanno portato a Milano e mi hanno fatto firmare un mucchio di documenti per il volontariato. Da Milano mi hanno portato a Novara. Da Novara sono scappato a casa.

D: Ma a Novara in carcere?

R: No, era una caserma, era un carcere ma era una caserma.

D: Solamente te o gli altri tuoi compagni che hanno portato a Lecco?

R: Eravamo in tre, sì.

D: Sempre di Gaggiano erano?

R: No, sono nato a Gaggiano, ma abitavo qui ad Abbiategrasso.

D: Abitavi già ad Abbiategrasso?

R: Sì, sì.

D: Voi tre che vi hanno arrestato a Lecco…

R: Mi hanno portato a Milano.

D: Poi a Novara.

R: Poi a Novara. Da Novara siamo scappati subito. Naturalmente lì siamo ricercati sempre, una vita da cani. Allora decidiamo di andare in montagna, ci troviamo in un bosco. Spia, circondati, sparatoria, tutti a casa. Ce l’abbiamo fatta ad arrivare tutti a casa. In quel periodo hanno arrestato uno, dopo un mese ha cantato. Lì mi hanno fatto il giochetto con la polizia politica, è venuto qua, ci troviamo al bar e così, ci mettiamo d’accordo quando partiamo in montagna. Quelli là erano della polizia segreta della Repubblica di Salò.

D: L’UPI, l’Ufficio della Polizia Politica.

R: L’Ufficio della Polizia Politica. Anzi, io ho dei documenti che comprovano la motivazione del mio arresto. Li ho qui. Ad ogni modo arrestati e portati, circondati.

D: Arrestati dove, Pierino?

R: Al bar, il bar della Lea, di fronte al bar della Lea. Eravamo in dieci compreso il padrone.

D: Qui ad Abbiategrasso?

R: Qui ad Abbiategrasso, qui, qui. Arriviamo là, ci portano a Legnano, al carcere di Legnano.

D: Scusami, Pierino, quando ti hanno arrestato?

R: Il 12 d’Agosto 1944. Poi portati a Legnano, a Legnano carcere. Dopo quindici giorni ci portano a San Vittore in raggio tedesco, perché eravamo dei politici. La destinazione era già scritta: Dachau. Raccontare le avventure, gli episodi di Legnano è un obbrobrio. Ho visto delle torture, addirittura impazzire. Hanno torturato i capi, poi li hanno uccisi sulla strada.

D: Ma quelli che torturavano lì a Legnano erano italiani o germanici?

R: Erano italiani. Allora faceva parte dell’Italia ancora, capito? Il raggio politico era un paradiso, il raggio politico e i tedeschi rispettosi, ci davano un mucchio da mangiare, una cosa che non davano gli italiani. Qui a San Vittore al quinto o sesto raggio, non ricordo. Siamo stati lì un quindici, venti giorni, poi col pullman ci hanno portati a Bolzano. A Bolzano ci hanno fatto lavorare, gli episodi non raccontiamoli.

D: Lavorare dove a Bolzano?

R: Spostare delle cose.

D: Ma dentro nel campo o fuori?

R: Ci portavano anche fuori a lavorare, a spostare. Poi c’è un episodio addirittura scioccante, ho cercato di salvare un ebreo e ho preso tante di quelle botte.

D: Dentro nel campo?

R: Nel campo, perché era un vecchietto e non ce la faceva a lavorare, allora ho cercato di aiutarlo. Botte. C’era un tedesco, sarà stato di sedici, diciassette anni, l’ha ucciso a legnate. Sanguinava dappertutto, ha ucciso quell’ebreo là. Io ho preso la mia razione, però ero talmente giovane io che…

D: Ma, Pierino, quell’ebreo, quell’anziano ebreo che dici te è quello che era partito con te da San Vittore?

R: Mi pare, adesso non so di preciso. Sul pullman eravamo ebrei e politici, capito? C’era un po’ di casino.

D: Ma lì a Bolzano ti hanno immatricolato?

R: No, no. Mi hanno dato la tuta blu con una croce rossa dietro.

D: Ti ricordi il tuo blocco qual era a Bolzano?

R: No, non ricordo.

D: Il triangolo ce l’avevi?

R: No, lì no. C’era la croce sulla tuta blu.

D: Il periodo in cui tu arrivi a Bolzano qual è? Te lo ricordi?

R: Posso grosso modo dire verso la fine di settembre, a metà settembre, principi d’ottobre. Mi ricordo un particolare, io ho fatto l’attraversamento della frontiera del Brennero la seconda domenica d’ottobre, che era la festa di Vigevano allora. Tutto lì.

D: Allora, sei stato a Bolzano, uscivate, collaboravate nel campo a spostare…

R: Sì, a spostare delle cose.

D: Cose di questo genere. Lì c’è quest’episodio di quest’anziano ebreo. Come fai a dire che era ebreo? Te l’aveva detto?

R: Ebreo perché eravamo insieme, si lavorava insieme purtroppo, gente che aveva dei possedimenti non indifferenti. Lei sa benissimo che l’ebreo si salvava per le possibilità economiche.

D: I tuoi compagni di Abbiategrasso, quelli arrestati con te…

R: Sì.

D: Hanno fatto il tuo stesso percorso?

R: Sì, fino a Dachau sì.

D: Fino a Bolzano siete assieme?

R: Sì, poi fino a Dachau sì.

D: Poi lì a Bolzano rimani quanto tempo più o meno?

R: Venti giorni, venticinque, non so bene. Grosso modo.

D: Poi un bel giorno vi chiamano?

R: Chiamano. Vagone, vagonetto, ci hanno caricati, vanno. Tanto per tagliare, tre giorni e tre notti ci abbiamo messo. Ci hanno scaricati a Dachau.

D: Ascolta, ti ricordi più o meno, Pierino, da dove siete partiti da Bolzano?

R: Dalla stazione.

D: Dalla stazione?

R: Dalla stazione.

D: Sul tuo Transport, sul tuo vagone in quanti eravate più o meno?

R: Sessanta, cinquanta o sessanta a vagonetto.

D: Eravate in tanti?

R: Tantissimi, tantissimi.

D: Solamente uomini o anche donne?

R: Donne e uomini, tutti insieme.

D: La stazione, cos’è che ti fa ricordare la stazione?

R: Tanti binari.

D: Poteva essere anche uno scalo ferroviario?

R: No, per me era la stazione. Naturalmente non proprio al centro della stazione dei passeggeri, spostato su un binario morto c’era quella fila di…

D: Dal campo alla stazione?

R: A piedi, ci hanno caricati a legnate. Lì c’era tutto, il bagno, doccia su quel vagone.

D: Ti ricordo se c’erano anche dei religiosi? Dei sacerdoti?

R: Ho trovato a Dachau un religioso, a Dachau sì.

D: Dopo tre giorni e tre notti di viaggio arrivate in un posto che voi non sapete…

R: No.

D: Non lo sapevate, no? Però è Dachau.

R: Dachau, grandioso. Forse centomila persone c’erano state dentro lì. Io avevo il numero, 113.577, di Dachau. Lì siamo stati…

D: Quindi lì vi hanno spogliato?

R: Spogliato, la doccia, ci hanno disinfettato, rasati tutti e hanno dato la divisa.

D: La zebrata?

R: Zebrata. L’immatricolazione.

D: Assieme al numero ti hanno dato anche il triangolo?

R: Sì, un triangolo di panno rosso con sopra il numero.

D: E poi in baracca?

R: In baracca.

D: Ti ricordi qual era la tua baracca?

R: 17.

D: Lì a Dachau cosa facevate?

R: A un dato momento ci portavano a migliaia fino alla stazione di Monaco a costruire le ferrovie che erano state bombardate. Si partiva alle tre di mattina e si arrivava alla una di notte. Ho fatto per quindici giorni quella vita lì.

D: Da Dachau a Monaco…

R: C’erano trenta chilometri, venticinque.

D: Come vi portavano?

R: Treno.

D: Nella stazione i civili vi vedevano?

R: Sì, strada facendo ci giravano le spalle, non potevano guardarci, giravano le spalle. I bambini tiravano i sassi, i ragazzini. Ci giravano le spalle, quando si passava giravano, capito?

D: E l’incontro con quel religioso a Dachau?

R: A Dachau è stata una cosa così, non ho avuto una motivazione religiosa, no, no. Niente, si aspettava la fine, la fine della guerra, non di morire. Sono stato lì circa un mese. Ho detto: “Dove mi hanno portato tre giorni e tre notti?”. Mi hanno diviso dai compagni, io sono stato insieme con uno di Abbiategrasso, gli altri sono andati a lavorare nella zona di Dachau. Io sono andato a lavorare invece a Bad Gandershein .

D: Questo tuo compagno di Abbiategrasso te lo ricordi chi era?

R: Malles Carlo. Morto, fucilato, il primo gruppo della fucilazione. Il 6 Aprile del ’45.

D: Poi un certo giorno vi chiamano lì a Dachau, vi dividono dagli altri e vi portano su un treno?

R: Un treno, tre giorni e tre notti. Arriviamo a Bad Gandershein L’avevo saputo dopo che era Bad Gandersheinnaturalmente. Lì non ci sono baracche, c’è una chiesa sconsacrata, si dormiva sulla paglia. Ad ogni modo si doveva costruire baracche. Io ho scritto che facevo il falegname. Tutto l’inverno del nord l’ho preso io fuori. Invece a quelli che lavoravano in fabbrica è andata bene, erano coperti almeno. Io l’ho presa tutta. Allora l’episodio della vita dei campi per me è caduto nell’oblio, è passato. Non mi dimentico, non posso dimenticare la marcia.

D: Ma lì arriviamo dopo. Allora, siete in questa chiesa sconsacrata…

R: Sì, dormire sulla paglia, un po’ di paglia, una coperta in due.

D: In quanti eravate più o meno?

R: Penso mille, mille e cento.

D: I germanici erano con voi? I tedeschi?

R: Quelli che lavoravano in fabbrica sì.

D: Loro dove dormivano?

R: Loro erano a casa loro, finito il lavoro alla fabbrica, la fabbrica era una fabbrica di assemblaggio di carlinghe, loro finito il lavoro andavano a casa. Noi dove andiamo? Là alla chiesa sconsacrata.

D: Voi eravate addetti a costruire le baracche?

R: Costruire le baracche.

D: E il campo.

R: E il campo.

D: E il materiale dov’è che andavate a prenderlo?

R: Il materiale era là pronto, perché si sapeva, era predisposto già. Quando arriviamo facciamo questo lavoro. Per costruire le nostre baracche, le baracche per noi, capito?

D: Di legno?

R: Sì, di legno.

D: Quindi avete costruito le baracche e poi andavate in fabbrica a lavorare?

R: No, io ho dormito dieci giorni in baracca, perché quando hanno costruito le baracche è arrivata la famosa marcia. Capito?

D: Ti ricordi quante baracche erano che avete costruito?

R: Erano divisi, italiani russi, metà italiani e metà russi. La maggioranza erano francesi, polacchi, greci, spagnoli.

D: Di italiani chi ti ricordi?

R: Ricordo il mio amico con cui sono partito da Abbiategrasso, ha fatto una brutta fine, fucilato perché non ce la faceva più a camminare. Parliamo della marcia. La vita lì nel campo si sa.

D: Quanto tempo siete rimasti in quel campo?

R: In quel campo lì ottobre, novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo e aprile.

D: Lì non ti hanno rinumerato?

R: Sì. Lì mi hanno dato il numero di Buchenwald 94.565, detto dal tedesco poi era una cosa…

D: Te lo ricordi?

R: Madonna, no, …….

D: Quindi sette mesi.

R: Sette mesi.

D: Avete costruito quante baracche, dicevi?

R: Una baracca per i francesi perché erano in maggioranza, poi a divisione, russi, italiani e tutto.

D: Il campo era recintato?

R: Recintato, torrette, fili spinati. Di notte si andava al bagno, bello questo. Si andava in bagno fuori e le sentinelle si divertivano a sparare. Bel divertimento. Tutto lì, ecco.

D: Dopo sette mesi?

R: Succede…

D: Arriva l’ordine di evacuazione.

R: L’ordine di evacuazione, cosa dice l’interprete? Chi non è capace di camminare lo portiamo in camion. Una cinquantina, sessantina sono usciti. Quell’interprete ha visto me, ha schiacciato l’occhio e ha detto: “No, eh”. Di fatto mi ha avvisato, li hanno fucilati tutti.

D: Anche il tuo amico?

R: No.

D: Non lì?

R: No, non lì. Cominciamo la marcia.

D: Cosa vi hanno dato per la marcia?

R: Cosa avevano dato…

D: Avevate una coperta?

R: Niente.

D: Avevate da mangiare?

R: Niente.

D: Avevate da bere?

R: Niente, la neve che si trovava facendo le colline. Ad ogni modo comincia la marcia, chi si ferma è morto. Di fatti quelli che crollavano, gli davano un colpo in testa e li lasciavano là. Quelli che tentavano la fuga subito via. Arriviamo al 6, comincia la fucilazione in gruppi.

D: 6 di aprile, no?

R: 6 di aprile. E’ stato quando hanno ucciso… li portavamo io e il mio amico. Quando hanno chiamato li hanno portati fuori, hanno buttato indietro, li hanno messi sul ciglio della strada, venticinque, trenta, li hanno fucilati tutti. Così pomeriggio e sera. Quante volte sono uscito io, non mi volevano morto. Fino al 12 aprile. Il 12 aprile tentiamo la fuga in quattro, io, uno di Corbetta. Sono morti tutti. Naturalmente scappiamo, quelli là sparano, il milanese è stato colpito. Basta. Le pallottole attraversavano i vestiti, in mezzo alle gambe. C’era la campagna, era come se fosse un gioco di bocce, liscia. Tutte le pallottole che passavano per le gambe, stracciavano i vestiti, niente. Appena viste due piante, ci siamo messi dietro alle piante. Arriva un tedesco, mi spara a cinquanta centimetri. Siamo in piedi ancora. In totale mi hanno arrestato ancora sei volte, però avevano paura a tenerci, avevano paura anche a ucciderci. Allora cercavano di liberarsene, si andava avanti, dopo cinquecento metri altro arresto, fino a quando arriviamo al punto che passata una colonna di mongoli prigionieri di guerra ci hanno incolonnati e portati in una baracca. Lì sono arrivati gli americani.

D: Questo posto dov’era, te lo ricordi più o meno? Vicino a quale città grossa?

R: Vicino a Halle, mi pare.

D: Ascolta, prima di queste fucilazioni, prima del 6 aprile del ’45, quando voi eravate in marcia della morte camminavate di giorno?

R: Di giorno, di sera. Di notte ci si fermava in un pagliaio. Prima di partire dal pagliaio si mettevano là dieci tedeschi, perché sapevano che si nascondevano nella paglia.

D: E sparavano?

R: Sparavano.

D: E mangiare?

R: Niente, l’erba.

D: Bere?

R: Bere la neve che s’incontrava, c’era ancora la neve là, in Austria c’è una temperatura differente.

D: Eravate solo uomini lì?

R: Sì, solo uomini.

D: Donne non ce n’erano?

R: No, no.

D: Avete attraversato durante la marcia della morte dei paesi abitati?

R: No, non mi ricordo questo, no. Una volta abbiamo dormito in una chiesa. Il giorno prima della prima fucilazione in massa. Quella volta mi ricordo che abbiamo dormito al riparo.

D: Sempre durante la marcia della morte sono arrivati degli aerei?

R: No. Gli aerei li abbiamo trovati… Quando siamo scappati dalla marcia, dove si va? Si va dove i tedeschi scappano.

D: Voi incrociavate i tedeschi?

R: Sì, sì. Ci siamo salvati… L’emozione della Liberazione non si può descriverla.

D: Questo quando eri dentro con i mongoli?

R: Sì, sì.

D: Lì con i mongoli dove siete andati? In un campo?

R: C’era una specie di villetta con il capannone dove si dormiva, perché lì lavoravano. C’era una cava. Lì è arrivata una camionetta.

D: Di russi?

R: No, era zona russa, però hanno liberato gli americani.

D: Ah, sono arrivati gli americani?

R: Sì, era ad est di Lipsia, capito? Sono gli americani che hanno liberato.

D: Voi non sapevate niente, arriva questa camionetta…

R: Sì, c’era una sparatoria vicino. I tedeschi sono scappati.

D: E lì cos’è successo?

R: Lì è successo che i mongoli … e noi eravamo scheletriti, proprio una cosa… Hanno cominciato a fare razzia, razzia nelle cascine vicino perché la fame era questa. Noi mangia, mangia, mangia, sono stato quindici giorni col mal di cuore. Sono scoppiato, capito?

D: Ma avevate ancora la vostra zebrata?

R: Sì, dopo loro mi hanno visto così e i mongoli mi hanno dato un paio di pantaloni e una camicia.

D: Poi gli americani?

R: Gli americani quando mi hanno liberato sono rimasti scioccati, perché là erano omoni, noi invece eravamo tre scheletri. Continuavano a domandarci: “Ma da dove venite? Cosa hai fatto per essere così?”. Tra l’altro poi c’era disprezzo tra noi e i russi, la croce. Cannibali eravamo, sporchi. Come diceva Gianni, scabbia, orticaria, tutte le malattie della pelle addosso.

D: Ascolta, solamente voi tre siete stati messi con questi mongoli? Altri deportati?

R: Non li ho visti.

D: Ti ricordi più o meno in quanti siete partiti all’inizio della marcia della morte?

R: Della marcia mille e qualche cosa.

D: E ti ricordi più o meno quanti sono arrivati a destinazione?

R: No perché sono scappato prima io.

D: Però ti ricordi delle molte fucilazioni di massa.

R: Quelle sì, perché sul ciglio della strada era una sparatoria continua, mattino e pomeriggio.

D: Quindi il tuo periodo di deportazione, oltre a lavorare, a fare certi lavori, recupero e spostamento macerie a Bolzano o a Dachau che andavi alla ferrovia a ripristinare le stazioni dopo i bombardamenti di Monaco, è stata la costruzione di quel sottocampo di Buchenwald?

R: Sì, sì. Là a Bad Gandershein.

D: Esatto. In fabbrica non sei andato tu?

R: No, non ho fatto tempo ad andare.

D: Poi hai fatto però la marcia della morte?

R: La marcia sì, siamo partiti e quelli che sono arrivati, pochi….

D: Piccola parentesi, lasciamo perdere adesso un attimo il discorso della deportazione tua, ci racconti quei due episodi di Abbiategrasso?

R: E’ scioccante ritornare indietro nel tempo, non so. Via De Amicis, ragazzini, si cantavano le canzoni, “Ven chi, Ninetta, sotta l’umbrelin”. Si avvicina una vecchietta: “Non cantate questa canzone”. Noi siamo andati via. Perché? Poi un episodio che mi ha colpito è stato: uno viene fuori di galera, l’ho saputo dopo, Via Noli, arriva il Colombini, era prigioniero politico. Tutta la gente si spostava quando arrivava lui, uno solo ha avuto il coraggio di abbracciarlo, un certo Franco. Uno solo. Noi avevamo una mentalità, una cultura della prigione un po’ particolare. La prigione come delinquenza, non si capiva la motivazione politica. Pochi anni, capito?

D: Ma il fatto della fabbrica lì?

R: No perché era stato portato via prima di noi.

D: E’ stato arrestato prima?

R: Quelli sono stati arrestati prima per uno sciopero. Per uno sciopero, la Sato. Sato, adesso è una sigla che non so… Una fabbrica di chiodi che ho detto prima.

D: Sono stati arrestati?

R: Non è venuto a casa nessuno di quelli lì.

D: Ma li hanno portati via?

R: A San Vittore, poi hanno fatto la nostra fine.

D: Qui invece ad Abbiategrasso è stato fucilato anche qualcuno?

R: Due. Dicevano che uno aveva ucciso il tabaccaio di San Vito di Gaggiano per una rapina, era tutta una propaganda. E uno invece l’hanno ucciso qui, dove l’hanno preso? L’hanno preso alla fossa, stava fuggendo.

D: Ma chi è che fucilava lì?

R: Fucilava là, io non potevo assistere, dico la verità. Sentivo. Io so che il capo della sezione qui di Abbiategrasso dava il colpo di grazia. Poi non so chi.

D: Il capo della sezione di?

R: Dei repubblichini.

D: Quindi italiani?

R: Italiani. Quello lì dava il colpo di grazia.

D: Quando è avvenuta questa fucilazione? Ti ricordi?

R: Guarda, ti dirò. Forse nel mese di aprile, maggio, giugno. I due fucilati.

D: Di che anno?

R: Sempre del ’44.

D: Poi altri episodi che sono avvenuti, tipo quello di Robecco? Di Cassinetta?

R: Sì, sì. Allora ogni tedesco ucciso, dieci condannati a morte. Lì a San Vittore l’episodio più eclatante, lì uccisero qualche tedesco, l’hanno portato fuori in venti, l’hanno messo davanti al muraglione con dietro il plotone d’esecuzione. Eravamo là ad aspettare che sparavano. A un certo momento contro ordine. La reazione si fa dopo però, in quel momento non ci si crede, non ci credi. Possibile? E’ una cosa impossibile questa. Non abbiamo fatto niente.

D: Ascolta, Pierino, quando tu eri a Legnano, nelle carceri di Legnano, o a San Vittore sei riuscito a parlare con i tuoi o a scrivere ai tuoi familiari?

R: No, mi hanno preso il 12 agosto del ’44, sono tornato il 30 agosto del ’45, niente scrivere.

D: Cioè i tuoi non sapevano più niente?

R: Niente, niente.

D: Come hai fatto a tornare?

R: Tornare…

D: Dal campo.

R: Siamo stati là qualche mese da soli noi tre, perché a un dato momento è stato così. Io non so le faccende politiche. A un dato momento arrivano gli americani col camion, a botte hanno caricato tutti i mongoli sul camion. Noi siamo rimasti là così tutti e tre. Adesso cosa facciamo? Siamo andati a … qualche mese, poi se stiamo qui non andiamo più a casa. Ci siamo avvicinati a un paese e abbiamo trovato lì degli italiani. Gli italiani poi mi hanno portato col camion a Lipsia, una frazione che adesso sarà proprio Lipsia, Tauka. E’ un paese che era un campo di concentramento. Siamo stati là fino a quando siamo partiti. A metà giugno, luglio ho fatto cinquantaquattro giorni sul treno. Siamo andati da Lipsia, penso che sia a 800 chilometri dalla frontiera italiana, siamo andati fino a Odessa. Di qui il libro di Primo Levi “La tregua”. Ad un certo momento ci hanno fatti tornare indietro, la trafila era naturalmente Ucraina, Ungheria, Austria, Italia.

D: Dall’Italia sei rientrato da dove? Dal Tarvisio o da Bolzano?

R: Da Bolzano. Perché ci siamo fermati ad Innsbruck, ci hanno disinfettato, come ha spiegato Gianni.

D: Anche voi?

R: Sì, disinfettato tutto, il DDT. Ci hanno riempito di DDT. Poi siamo arrivati a Bolzano, c’era la Croce Rossea, come ha spiegato. Ma io sono arrivato a Milano in treno, lui in camion. Io da Bolzano in treno sono arrivato a Milano. Lui è arrivato in camion, capito?

D: Ascolta, Pierino, in questi cinquantaquattro giorni in treno come hai mangiato? Chi vi dava da mangiare?

R: Diciamo la verità, avremo mangiato forse, hanno dato il pane per quattro o cinque giorni. Altri si fermavano ai paesi, si vendeva una camicia, si dava il pezzo di pane. Tutti così. Però c’era un fatto, che noi su settanta vagoni eravamo quindici deportati politici, non quindici vagoni, quindici persone salvate in quella zona. Dove la gente, quando ci vedeva, ci dava ogni ben di Dio. Noi non abbiamo patito la fame, ma quegli altri sì. Quegli altri erano prigionieri di guerra.

D: Ascolta, gli americani quando ti hanno liberato…

R: Il 13.

D: Il 13?

R: Aprile.

D: Ti hanno rilasciato un certificato, un documento, un qualcosa?

R: No, niente.

D: Neanche quando sei rientrato in Italia a Bolzano ti hanno dato un certificato?

R: Niente, niente.

D: Sempre, scusami, gli americani quando vi hanno liberato hanno preso i vostri nomi?

R: No.

D: Hanno dato comunicazione via radio?

R: No, no. Niente.

D: Neanche a Bolzano?

R: Niente neanche a Bolzano.

D: A Bolzano nessuno ti ha chiesto…?

R: No, no. Niente.

D: Come ti chiami, da dove vieni?

R: No, no, niente.

D: E quando sei arrivato a Milano?

R: A Milano avevo un paio di stivali, un paio di pantaloni e nudo. Sono arrivato a casa così. Sono arrivato lì, allora a Porta Ticinese c’era il tram. Lì mi hanno riconosciuto.

D: E anche lì a Milano non è che hanno preso le tue generalità?

R: No, ti dirò di più. Io vado a scuola e ci vogliono i documenti per passare di ruolo. Allora vado al distretto, a botte mi hanno buttato fuori perché sulla scheda io ero fascista. Quelle carte che ho firmato precedentemente sono rimaste là. Io ero un militare della Repubblica di Salò. A pedate eh. Ma cosa ho fatto io? Poi ho cominciato a racimolare documenti comprovanti. Quando hanno scoperto che io veramente non ero così sono rimasti male.

D: Sono rimasti solo male?

R: Hanno chiamato i capitani, i graduati del distretto. Hanno voluto sapere, sempre la solita storia. Come ti sei salvato? Tutto lì è stato. Dopo hanno cominciato a trattarmi molto bene, avevo i documenti di cui avevo bisogno. Infatti quando abbiamo fatto la domanda per la pensione se non c’erano quei documenti…

D: Una domanda così, Pierino. Campo di Bolzano, cioè Lager di Bolzano, Lager di Dachau, Lager di Bad Gandershein, che è un nome difficilissimo per me da pronunciare, marcia della morte, come ti sei salvato? A cosa pensi?

R : Una fortuna sfacciata. Ti dirò di più, io sono stato odiato dai parenti dei miei amici perché mi sono salvato. Che cosa ha fatto quello lì per salvarsi? Io ancora adesso non ho mai avuto autostima in me stesso, un umile proprio. Cosa si poteva diventare nei campi di concentramento? La firma per andare dalle SS non si poteva, fare il Kapò erano i delinquenti comuni, triangolo verde chi faceva il Kapò e picchiavano. Adesso sono compreso, hanno capito che io non ero… Se ero così intraprendente nella vita avrei fatto… Invece sono stato…

D: Dopo che sei tornato e dopo la brutta esperienza, per esempio quando sei andato a chiedere i documenti e risultava che tu eri uno della RSI e non che venivi dai campi di concentramento, hai iniziato a raccontare la tua storia?

R: Un po’ all’ITIS.

D: In che anni?

R: Io ho fatto dal ’63 fino all’87. In principio sì, ma c’erano i fascistelli. Io non avevo niente da nascondere, la realtà era così.

D: Quindi hai raccontato un po’ ai ragazzi così?

R: Sì.

D: E agli altri a casa, ai tuoi amici?

R: Ho lì delle poesie fatte dai ragazzi che sono toccanti, guardi.

D: Ma raccontare la tua esperienza agli adulti, ai tuoi amici di una volta…

R: Più che raccontare la mia vita, racconto magari qualche episodio, ma non la mia vita. Ho detto che non la sa neanche casa mia la mia vita. Potrei cercare di liberarmi perché io urlo ancora di notte adesso. Basta?

D: No. Un attimo di pausa. Tu sei ritornato però a Dachau?

R: Sì, sono andato. No, a Dachau no.

D: A Buchenwald?

R: A Mauthausen.

D: A Mauthausen? A Buchenwald non sei andato?

R: No, no.

D: A Dachau non sei ritornato?

R: No, mi spiegavano gli amici sapendo che ero stato là, mi raccontavano, ma non sono mai andato. Sono andato a Mauthausen, Linz, quelle zone lì, Salisburgo.

D: Cos’è che ti frena a ritornare a Dachau?

R: I ricordi, non riesco a sopportare. Sono andato due volte poi, è un fattore masochistico andare là a soffrire da matti, piangere disperatamente quando si vedono quei campi lì. Capito?

D: Il contatto con i tuoi ex compagni di deportazione l’hai mantenuto però quando sei tornato?

R: No, ci siamo persi. Il Manzoni Ferruccio di quella zona lì, di Corbetta è morto l’anno scorso. Quando l’ho saputo, che l’ho letto sul giornale, ho telefonato, ma non rispondeva più nessuno, quindi…

D: E prima non vi siete più…?

R: Sì, qualche volta c’erano dei problemi e allora ci sentivamo, qualche volta, uno solo però. L’altro è morto quasi subito però.

D: Volevo chiederti, dicevi delle carceri di Legnano, erano proprio delle carceri o erano edifici…?

R: Carceri, carceri monumentali. Faceva parte sempre di San Vittore, ho qui dei documenti io.

D: Però gestite da italiani?

R: Gestite da italiani, sì. Gestito dai tedeschi è stato San Vittore al secondo raggio, che è un raggio comune. Dopo due giorni ci hanno portati al quinto, sesto raggio, non ricordo. Sezione politici. Poi al secondo raggio eravamo sempre in cella, invece là alle otto fuori dalla cella, tutti in corridoio, quindi è un paradiso il raggio tedesco, ci tenevano buoni.

D: Qui però a Legnano ti hanno interrogato?

R: Sì. Abbiamo cercato di salvare il padrone dell’osteria allora dicendo che le nostre riunioni si facevano a Castelletto. Capito? Invece le riunioni non si facevano. Di fatti l’hanno liberato, meno male. Come si chiamava? Non mi ricordo più adesso.

D: Perché non ci vuoi raccontare un po’ del campo? Di Dachau? O di Bad Gandershein?

R: Ti dirò…

D: Sette mesi in quel campo lì cosa hanno significato per te? Sette mesi sono tanti.

R: Sette mesi… Il calorifero umano, era freddo. Per riscaldarsi ci si sbatteva tutti contro la parete, tutti, una massa di cento persone si dondolava per scaldarsi. Si cambiava, quelli sotto venivano sopra.

D: Facevate la stufa umana?

R: Stufa umana.

D: Eravate tutti politici lì nel campo?

R: Sì. Tutti politici.

D: Di diverse nazionalità?

R: Lì a Dachau sia a Bad Gandershein, tutto una terra… Il linguaggio è universale, quando si parlava una parola tedesca, una polacca, una russa, una greca.

D: Ti ricordi episodi di solidarietà?

R: No. Non ce ne sono. L’unica speranza era sentire gli americani vicino, la solidarietà no. Non c’è. Erano bestie, la lotta per la sopravvivenza è una cosa che rende bestiale la gente. Anche ho notato una cosa in particolare, davanti a certe disgrazie uno invoca Dio? No, uno invoca la mamma, non Dio.

D: Neanche l’ideologia, la fede politica?

R: No, no. Parlare neanche di politica, di speranza… No, si vegetava. Per quello che io nel campo sette mesi là a Bad Gandershein ho un po’ d’oblio, la vita era monotona, stancante. Uno stava morendo. Un episodio, c’era a terra una creta, quando pioveva diventava… Uno cadeva. Io ho provato a stare male, uno stava là tutto il giorno, metà dentro e nessuno che ti aiutava. Sei solo. Sai che cos’era? Avevo vent’anni e allora lo spirito di conservazione prendeva il sopravvento.

D: Cioè tu sei rimasto un giorno con metà…?

R: Metà dentro nella creta e metà fuori, nessuno ti aiuta. Sei solo. Brutto questo.

D: Devi contare solo su te stesso, sulle tue forze.

R: Nel ’44 io avevo 19 anni, 20 anni. Sono stato liberato, li compio in agosto, in aprile del ’45 avevo 20 anni ancora. La voglia di vivere c’è sempre. Guai levarsi i pantaloni, perché se vedevi la magrezza uno andava giù di morale. Allora i pantaloni non li levavo più. L’ho fatta lunga.

D: Quindi se ho ben capito a Bad Gandershein avete costruito più o meno cinque o sei baracche?

R: Sì.

D: Più o meno. Avete costruito anche la baracca del capo campo?

R: No, era una zona legata sempre, però isolata per loro, per il Kapò. Naturalmente l’episodio, quello che colpiva nel campo di concentramento era… Noi eravamo dei luridi, i Kapò erano tutti gay. C’era una margherita in mezzo al nero, quello lì era l’amante del Kapò. Si distingueva, era una cosa addirittura… Colpiva, una persona pulita in mezzo ad una fila di straccioni proprio. Colpiva molto.

D: Durante la tua deportazione a Bad Gandershein ti sei ammalato o non ti sei ammalato?

R: Quella volta che mi sono sentito male… Noi eravamo forgiati di quella che è la miseria anche a casa nostra, quindi eravamo preparati, capito? Casa mia, mio padre più che lavorare non poteva fare, però era una vita di stenti. Allora ho guadagnato, ho avuto il vantaggio di soffrire meno di quelli che stavano bene. Se andasse là uno adesso col tenore di vita che facciamo, là due giorni ed è morto quello là. Capito?

D: Vuoi aggiungere qualcosa? Ti è venuto in mente qualche episodio?

R: Non so. Bisogna spingere un camion, là centinaia addosso al camion, cinquanta che spingono, dietro il tedesco con la frusta. Per aiutare ad aizzare la forza, che la forza non c’era. La fame… Ho provato ad andare a rubare dalla pattumiera della mensa dei tedeschi. Sono episodi che… Preso, botte, fuggito e tutto il resto. Era un problema generale più che particolare. Particolare fa male.

Pinosio Ester

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono nata il 12 Luglio del 1917.

D: E ti chiami?

R: Mi chiamo Pinosio Ester Ines, sono nata nel Comune di Molmacco.

D: Provincia?

R: Provincia di Udine. Sono cresciuta in una famiglia povera ma onesta. Poi a 17 anni ho avuto un figlio e dopo mi sono sposata. Ho sposato un marito che era molto antifascista. Lui dopo l’8 settembre aveva paura ed è andato in montagna come gli altri. Io sono rimasta sola. Tre o quattro giorni dopo mi manda a chiamare, insieme ad altre donne siamo andate in montagna, nei paesi nostri su a Masarolis, da quelle parti là. Abbiamo portato quello che abbiamo potuto. Poi mi ha richiamata un’altra volta. Mi sono fermata tre giorni con lui, poi io non l’ho visto più. Lui al 6 ottobre è caduto tramite un rastrellamento di tedeschi. Per tre mesi non ho saputo niente. Io andavo in cerca di lui, di qua, di là, chiedevo informazioni. “Avete visto questa persona?” Tutti mi dicevano di no fin quando ho trovato una persona, andando a Cividale a fare la spesa e ho chiesto: “E’ venuto tuo cognato?” “Sì”, mi dice. Dopo mi fa: “Tu sola sei stata disgraziata”. “Perché?”, gli ho chiesto. “Ma come, non sai che tuo marito è morto?” Io in quel momento pensavo che il mondo mi crollasse.

Sono venuta a casa, avevo due figli, uno aveva otto anni e l’altro ne aveva sei e ho tirato avanti come ho potuto. Il giorno che ho saputo che lui era morto mi hanno fatto la carità di cento lire. Ho tirato avanti con quelli, poi ho lavorato, ho fatto quello che ho potuto. Non ho fatto male a nessuno, però c’era un fascista in camicia nera che abitava vicino a me.

Io nel mio piccolo ho aiutato un po’ i partigiani a portare qualche cosa, qualche manifesto, insomma quello che si poteva in quei periodi lì. Eravamo sempre sul principio del ’44. Ho tirato avanti fino al mese di luglio del ’44. La sera del 23 è venuta una persona e mi ha detto: “Guarda che arrivo dal comando e ho visto il tuo nome”. Io ho detto: “Io non ho fatto male a nessuno, non credo che gli altri mi facciano del male”. Comunque ha detto: “Se puoi, scappa”. “Non ho niente per scappare, ho due figli, uno di sei e uno di otto, dove vado? Non ho una lira in tasca”. Il 26 ero a casa con mia sorella e una mia amica. Sento un movimento fuori dalla porta. Guardo per una fessura e mi vedo circondata la casa. Io come minimo penso che erano venticinque tedeschi. Bussano alla porta, apro, avevo il cuore in gola, dico la verità. Allora entrano col fucile spianato e lo puntano. “Tira fuori una carta” e mi fa: “Cerchiamo questa persona”. “Chi cerca? Mi dica il nome”. Era una di Bolzano, parlava abbastanza bene l’italiano. Mi dice: “Cerco una Calderini Ines”. Io ero vedova Calderini. In quel momento non sono andata a pensare che potevo dire magari: “Mi chiamo Pinosio”. Ho detto: “Sono io”. “Bene, prenda lo spazzolino, quello che le occorre e venga con me”. Questa mia amica che era vicino che mi faceva compagnia l’hanno presa anche lei, l’hanno portata via anche lei. Si chiama Angeli Lina questa.

Ci hanno prese. Passando davanti alla postazione perché avevamo la postazione a 100 metri di distanza, era questa famosa fascista e dice: “Chi va là?” Coi tedeschi e noi in mezzo. E gli ho risposto: “Tu lo sai chi è”. Ci hanno portati nelle carceri della caserma degli alpini a Cividale che è fuori Cividale. Lì siamo state cinque giorni, poi ci hanno fatto segno nell’orologio che alla una venivano a prenderci. Ci hanno caricate sul camion, ci hanno portate a Udine, ci hanno fatto fare tutto il giro di Udine e poi siamo andati al giardino, al liceo e lì ci hanno fatte entrare, ci guardavano in faccia e buonanotte, ci lasciavano uscire. Poi ci hanno portate direttamente alle carceri in Via Spalato. Lì siamo state quaranta giorni. La mia amica è partita otto giorni prima di me. Ha avuto la fortuna che non è andata in un brutto campo, si è fermata a … lei non sapeva di me, io non sapevo di lei. Otto giorni dopo … posso continuare? Prima abbiamo avuto l’interrogatorio. Io penso che il mio cuore quel giorno non andava a 90, andava a 190, andavo giù e faceva il cuore così. Mi ha interrogata e mi ha detto che io sono una spia dei partigiani e mi ha chiesto perché mi vestivo in nero. Le ho detto: “Mi è morto un bambino”. E lui mi ha detto: “Suo marito dov’è?” Io gli ho detto: “Mio marito era a militare e io non so dov’è. Non è venuto a casa”. “Ma sa, signora, che nel suo paese nessuno le vuol bene?” “Ma questo non ha importanza per me, io non ho fatto male a nessuno”, gli ho detto. “Vedrà signora che la metteremo in un posto dove nessuno le farà male”. Ho pensato: “Mi metteranno a lavorare”. “Faccia portare da casa più roba che è possibile”. Bene, sono andata su col cuore in gola. Non Le posso raccontare tutti i particolari perché non vale la pena, penso che lei abbia idea che cos’è un interrogatorio con un maresciallo della SS. Siamo andati su, dopo un po’ di sere arriva la suora alle nove alla sera. Prima chiama tutti gli altri e poi in ultimo mi fa: “Ester, ci sei anche tu”. Io credevo di morire quella sera, perché nessuno sapeva. Va bene, io avevo dentro amiche che tuttora sono a Roma e abbiamo parlato e pianto tutta la notte. Alla mattina alle sette sono venuti a prenderci, siamo andate alla stazione. Alla stazione, hanno bombardato quel giorno a Udine. Erano le sei che eravamo ancora lì che si aspettava la tradotta che venisse da Trieste

D: Ti ricordi che giorno e che mese erano?

R: Era l’8 settembre del 1944. Mi ricordo anche l’ora. Alle sei alla sera è arrivato il convoglio, tra parentesi veniva da Gorizia e Trieste e noi eravamo con quelle che hanno preso a Udine nelle carceri. Eravamo sette o otto in questa vettura chiuse dentro. Abbiamo fatto cinque notti e quattro giorni.

D: In quanti eravate, più o meno?

R: Più o meno in questa vettura eravamo in sette, tutte friulane.

D: Ma complessivamente quante donne?

R: Io non l’ho visto il treno quant’era lungo, so che dopo quando siamo arrivati erano una infinità di gente.

D: Da Udine eravate in sette.

R: Da Udine siamo partite noi sette in una vettura sola, in un vagone e le altre venivano dietro, ma noi non siamo né scese e né niente.

D: Scusa Ester, era un vagone o un carro bestiame?

R: Un carro bestiame, non mi veniva la parola, era un carro bestiame.

D: In questo carro eravate solamente voi sette?

R: Noi sette, sì.

D: E basta?

R: Sì, e dietro c’era tutto il convoglio pieno che veniva dalle altri parti.

D: Vi hanno chiuse dentro?

R: Altro che. Una volta ci hanno aperto a Klagenfurt, alla mattina dopo, una volta in Cecoslovacchia e basta. Dopo siamo arrivate. Dopo tutto questo famoso viaggio di cinque notti e quattro giorni arriviamo. Però Le voglio dire un’altra cosa. Il tedesco che ci accompagnava, che era sul predellino del treno quando eravamo in Austria, lui è sceso con noi fino ad Auschwitz, è venuto uno con la camicia nera. Sa cosa ci ha detto quando siamo arrivate? “Vi lascio, adesso mangiate la pommarola in coppa, la pastasciutta con la pommarola in coppa”. “Ti pigliasse un accidente”, gli ho detto, “Non potessi tornare a casa più”. Scendiamo da questo treno.

D: Il treno è andato dentro nel campo?

R: É entrato dentro proprio nel campo.

D: Ed era il campo di?

R: Il campo di Auschwitz.

D: Auschwitz …

R: Io adesso non posso dire come mi sono trovata ad essere in quel momento perché scendere da questo carro bestiame, vedere quei morti che camminavano con le coperte, coi vestiti a righe, mi è crollato il mondo addosso. Ho detto: “Ma io non sono io più. Non può essere che una persona che ha vissuto fino adesso nel suo essere con figli, con marito, trovarmi di fronte a queste cose”. Pensavo che in quel momento Dio non esistesse, perché era una cosa più che bestiale vedere queste donne che sono salite, portato via quella borsa, quel poco che si aveva per la strada.

D: Ester, siete arrivate di giorno o di sera?

R: Siamo arrivate alle cinque di sera.

D: Chi c’era con te, te lo ricordi?

R: C’era la Anna, la Elvia Bergamasco, la Danzulk che è morta disgraziata, è morta dopo a casa. Dopo c’era Felicita e Emma, la mamma di Luisa che adesso io non so come si chiamano di nome, non mi ricordo. Poi c’era un’altra di Cividale come me e una donnina della Carnia.

Lì ci hanno incolonnate e ci hanno portato camminando in una stanza. Eravamo in fila una dietro l’atra, con tutti quei tedeschi, le polacche, tutte vestite a righe. Prima ci hanno preso tutto quello avevamo, oro, argento, orecchini, tutto quello. Poi ci hanno spogliate completamente nude come la mamma ci aveva fatto. Poi ci hanno rasate non solo lì e via discorrendo. Dopo ci hanno fatto il numero per ordine che si passava, ci facevano il numero.

D: E il tuo numero qual è?

R: Io ho il numero 88.602.

D: Ti ricordi come facevano a farvi il numero?

R: Mi hanno preso il braccio così. Una che era esperta perché espertissima, tic, tic, tic, in un attimo mi ha fatto il numero.

D: Eravate sedute?

R: No, in piedi e nude. Poi dopo di lì…

D: Quando vi facevano il numero avevano un elenco dei nomi?

R: Io ero sempre su Calderini, ma dopo di lì il mio nome è morto, finito. Io ero un numero, nessuno chiamava Ester, o Ines, no, 88.602, adesso non mi ricordo come si diceva in tedesco. Di lì mi hanno dato un vestito d’estate a fiori, era il mese di settembre in Polonia, era già freddo, un paio di zoccoli di legno, un paio di mutandine e mi pare che avevo anche una sottoveste. Il resto, ci hanno portati in questa stanza immensa, ma eravamo quasi, non dico di preciso il numero, ma eravamo abbastanza.

D: C’erano anche delle ragazzine o delle donne anziane?

R: Erano ragazzine, madri e figlie, sorelle. Mi ricordo che c’era una ragazza che aveva i capelli lunghi e quando l’hanno rasata piangeva, gridava come una disperata. Ma era inutile piangere, non c’era niente da fare.

D: Vi hanno fatto le docce?

R: Adesso arrivo. Quando dopo ci hanno denudate tutte, ci hanno portate in queste docce. Un momento veniva l’acqua bollente e un momento veniva l’acqua fredda. Si era all’oscuro di quello che stava succedendo durante la doccia, comunque a noi non è successo niente. Abbiamo fatto la doccia e dopo siamo andate in questa famosa stanza. Era senza vetri, senza niente, ci siamo sedute per terra e li ho tirato su il vestito e mi sono coperta un po’ le braccia perché avevo freddo. Siamo state tutta la notte lì. Alla mattina alle cinque ci hanno prese, ci hanno portate in un’altra stanza oltre, abbiamo camminato abbastanza. Lì un’altra volta ci hanno spogliate nude e fatte sedere su una scala che veniva giù. Io disgraziatamente sono piccola, mi tocca sempre il primo posto, in basso. Quando era l’appello io ero sempre la prima davanti. Lì siamo state fino alle quattro dopo pranzo, sempre sedute nude su quella scala. Io non posso dire cosa si aveva dentro, cosa ci si sentiva. Io pensavo di essere già morta. Priva di sentimenti, priva di pensieri, priva di tutto ero. Comunque dopo gira, rigira, sono passati due giorni, che si era ancora in giro un po’ nude, un po’ vestite, un po’ così, un po’ colà. Dopo il terzo giorno ci hanno portate nel cortile e ci hanno dato il primo pasto. Mi ricordo che era una scodellaccia così e dentro non so se era avena, orzo, io non so cos’era. So che non ho mangiato, non mi andava. Dopo di lì ci hanno lasciato fino alle quattro, quattro e mezzo, non so l’ora precisa. Alle cinque è venuto il primo appello, cinque per cinque, eravamo lì che si aspettava, ma non avevamo ancora dove andare a dormire, non avevamo ancora il posto. Passa un camion a rimorchio, passa, un’ora dopo ritorna. Era pieno zeppo di cadaveri, non so se Anna le ha detto questo. Al primo momento venivano a tutte giù le lacrime, sembra una cosa indescrivibile con queste pance ritirate, con queste costole. Tutti questi cadaveri che traballavano sui camion a rimorchio, “Mamma mia”, abbiamo detto, “chissà che fine faremo”.

All’indomani sera siamo all’appello un’altra volta; tutto il tiriteri di prima, passa il camion un’altra volta. Ormai eravamo già abituate. Oggi a te, domani a me, ci siamo messe persino a ridere in quel momento a vedere questo. Finalmente siamo andate al blocco che era il numero 22, la baracca numero 22 e lì ci hanno messe a dormire. Io mi ricordo che ci hanno messo a dormire in queste … tre per tre. Il posto non era più largo di questa tavola. Io dormivo con la testa da una parte e le altre avevano i piedi sulla mia testa e io avevo i piedi sulla testa delle altre. Eravamo tre e tre erano dall’altra parte. Eravamo in sei divise, una coperta in tutte e tre. Dopo alla mattina alle quattro sveglia, c’era l’appello nel cortile e lì si stava fino alle nove a secondo che arrivava il comandante. Prima era la polacca o la … tutte quelle cose, poi in ultimo passava il comandante e allora dopo ci faceva andare un’altra volta dentro in blocco. Poi dopo magari un giorno sì e un giorno no veniva lo spidocchimento, dicevano. Allora giù nude un’altra volta in mezzo al cortile con un pennello, giuro che io non dico cretinate, né bugie, né niente, con un pennello con dell’acquaragia, non so cos’era, ci davano una pennellata sempre con quei vestiti,. Siamo state da quando siamo arrivate il 12, fino al mese di novembre.

D: Scusa Ester, torno un attimo indietro. Come siete arrivate? Tu dicevi che vi hanno tolto tutto.

R: Tutto sì.

D: Hanno fatto delle ispezioni corporali a qualcuna che aveva nascosto magari qualcosa da qualche parte?

R: Sì, ma superficialmente però, almeno quello che ho visto. Per dire la verità non è stata una violenza, perché talmente ci disprezzavano che nemmeno ci… no, mi sentivo umiliata io, come tutte perché si era abbastanza giovani, di fronte a tutti questi uomini. Lasciamo passare quelle cose lì. Comunque lì, dopo abbiamo visto diverse cose. Mi ricordo che di fronte alla baracca 22 c’era la baracca dei bambini. Saranno stati, non dico tanti, ma quattrocento bambini dentro in quella baracca, di tutte le età. Una sera li abbiamo visti che giocavano, parecchie sere; una mattina non esisteva più un bambino. Spariti completamente. Però io sono uscita diverse volte di notte perché disgraziatamente mi tocca uscire e ho visto il camino che andava, il camino, le fiamme, quell’odore, ma la prima volta che ho visto ho detto: “Cosa sarà, cosa non sarà?” Ma dopo radio Auschwitz passava la voce e allora è venuto fuori quello del gas che bruciavano e via discorrendo. Così anche i bambini sono spariti, perché se arrivava un convoglio di ebrei oppure di ariani, se erano abbastanza in forza, allora li mettevano da una parte, ma se per esempio erano vecchi o zoppicanti o malati, li mettevano a sinistra, quelli di sinistra andavano e quelli di destra erano buoni per lavorare. Questo ci è toccato a noi, mentre a destra …

D: Ascolta Ester, lì nel tuo Block eravate tutte donne, eravate in tante?

R: Sì, eravamo polacche, russe, francesi, greche, albanesi, zingari, era tutte le qualità di gente.

D: Tutte con il triangolo rosso?

R: No, il triangolo rosso erano le deportate politiche, poi era il giallo, era … ognuno aveva il suo distintivo, adesso non mi ricordo tutti i colori che c’erano, comunque noi l’avevamo giallo, con sopra il numero e scritto: Italia.

D: Voi l’avevate rosso, non giallo.

R: Rosso eravamo ariane, cristiane e tutto.

D: Ascolta Ester, c’erano per caso in baracca delle donne incinte con voi?

R: Io non ne ho viste, con noi, una di San Pietro era incinta, però l’abbiamo saputo dopo, quando siamo state trasportate via. Lei si vede che ha nascosto oppure, con quel mangiare non poteva, comunque quella lì era incinta. Altro io non ho visto di donne incinte.

D: Visto che eravate tutte donne, il problema delle mestruazioni?

R: Scomparso completamente, anzi volevo dirle questo. Quando sono partita dalle carceri io avevo il ciclo, quando eravamo sotto la doccia andava, ma dopo finito completamente. Io in undici mesi non ho visto il ciclo una volta. Quando sono venuta a casa, come ieri, dopo due o tre giorni sono andata da un dottore, tanto per raccontare cos’era il ciclo e mi ha visitata. Mi aveva detto che io non avevo l’utero più alto di così.

Insomma, dopo un giorno una mia amica che è morta anche questa, è morta dopo a casa, mi dice: “Ines, vieni che andiamo, era una domenica, a fare un giro per il campo, vediamo se troviamo qualcosa, una … un radicchio selvatico, quelle cose lì”, ma a Auschwitz non cresceva l’erba. Ho il libro a casa, “Ad Auschwitz non cresceva l’erba”. Abbiamo fatto questa camminata, perché lei era un tipo che non aveva paura e poi aveva anche del fegato e mi dice: “Guarda dentro in quel buco”. Era un capannone grande. Lì c’erano i cadaveri ammucchiati fin sotto il tetto. Era quel camion che andava a caricare la sera i morti, perché li portavano col carretto, li mettevano lì e alla sera li prelevavano. Dopo nessuno sapeva perché dov’è il crematorio? Si sanno sempre dopo queste cose. Era invalicabile perché chi oltrepassava il muro oltre qua e andava di là, non usciva più, perché già vedeva tante cose, perché io ho letto anche il libro del dottore polacco che ha studiato in Germania e ha fatto il diario e il libro spiega tutto, tutto e lì chi entrava non usciva vivo più. Questo è successo ad Auschwitz. Fame non occorre dire, freddo non occorre dire, sonno non occorre dire, che era di tutto.

D: Visto che parli di medici, lì a … dov’eri te, è arrivato anche Mengele?

R: Era lui il capo forno. Era lui che dava gli ordini. Adesso io, leggendo il libro, ho capito quelle cose. Perché la via era tutto silenzio, nessuno sapeva.

D: Ma tu non l’hai mai visto?

R: Per l’amor di Dio. Nessuno l’ha visto quell’uomo perché lui era talmente solo dentro, Lei non so se ha letto il libro di Melange, il dottore di Auschwitz. Sono cose indescrivibili. E gli credo adesso perché sono stata al corrente, ho visto e sentito tante cose. Comunque…

D: Scusa ancora Ester, in questo periodo, voi siete arrivate a settembre e poi l’altro Transport l’hai avuto a novembre, avete lavorato voi nel campo?

R: No, si andava due o tre volte, siamo uscite da questo letto perché si era sempre chiuse dentro che era la quarantena. Ci hanno portato per il campo magari a portare sassi di qua, a portare di là, portarli via. Comunque fino a lì era grande fame, grande paura, grande disagio e non stiamo a parlare di altro perché, per l’amor di Dio. Finalmente un giorno arriva la capa, era una polacca.

D: Voi friulane eravate tute assieme nel blocco?

R: Io ero con Elvia, Anna dopo, io ero qua e loro erano in un’altra … di là. Io ero con queste di Udine, queste due signore che dopo è morta di là, l’altra … dopo ci siamo perse perché io ho avuto la fortuna di essere trasportata perché è venuto il mercante di schiave, perché avevano bisogno di manodopera nelle fabbriche. E allora abbiamo avuto la fortuna io, Anna Appia e la Bergamasco Elvia e tutte le altre che erano arrivate con quel convoglio. Però sempre radio Auschwitz ha detto che era abbastanza un buon trasporto. Allora qua era un mucchio di vestiti, là era un mucchio di scarpe e via discorrendo. “Schnell, schnell”, prendo un vestito che era lungo fino ai piedi, prendo una scarpa rossa e una scarpa nera. Ho fatto tutto il tempo con queste due scarpe, una rossa e una nera, non ha importanza. Dopo alla sera ci hanno preparato, ci hanno dato una pagnotta di pane così e un pezzo di margarina. Ci hanno chiuse dentro, come ha detto Lei che si chiama il carro bestiame. Nel carro bestiame eravamo in ottanta dentro dopo. Non c’era posto né di sedersi, né di stare in piedi, in ottanta lì quando quaranta persone era sufficiente. Anche lì abbiamo viaggiato abbastanza, quattro o cinque giorni, sempre, sempre. Non sto a spiegare tutto quello. Finalmente siamo arrivate a … era una grande città. Ci hanno portato nel Block, perché loro dicevano Block. Era il quarto o quinto piano e sotto erano tutte fabbriche. Siamo rimaste lì un giorno e una notte. Poi all’indomani ci hanno fatto sedere tutte nei tavoli e ci hanno fatto come un esame. Chi era capace di lavorare in una maniera, chi un’altra, chi faceva questo, chi faceva l’altro perché si doveva andare a lavorare. Erano due fabbriche lì e una era fuori; io, Anna, Appia e Elvia siamo andate fuori. Si partiva alla mattina, ci si alzava alle quattro, c’era l’appello da fare poi andare a prendere quel poco di tè che dicevano loro, che non era altro che girasole, non so cosa c’era dentro, acqua nera e poi alle sei si doveva già essere in fabbrica, con due tedeschi, uno avanti e uno indietro con un cane ciascuno, due tedesche e poi c’era un’infermiera polacca con noi. E lì si partiva, si arrivava giusto a dire un rosario che si arrivava sul lavoro. Era d’aver paura, si pregava volentieri quella volta. Si arrivava sul lavoro, si dava il cambio a quelle che avevano fatto la notte, sempre con un po’ di quella brodaglia nera. A mezzogiorno ci davano una scodella di rape, un po’ di carote dentro e acqua. Alle 12,30 si riprendeva il lavoro fino alle sei la sera. Alle sei si rientrava in blocco, sempre accompagnate con cani, militari e via discorrendo e lì ci aspettavano sulla porta, ci contavano e poi ci davano una volta erano tre patatine, un’altra volta ci davano un pane per cinque. Noi avevamo fatto una misura che si prendeva una misura, guai un grammo di più o un grammo di meno, e si tagliava e si mangiava quel pane con un pezzettino di margarina così e basta. All’indomani o alla sera replica. Lì abbiamo fatto sei mesi, quello era il lavoro, perché si facevano armi in quella fabbrica, c’erano solo armi. Era un lavoro a catena. Partiva e arrivava. Lì abbiamo fatto sei mesi.

D: Che tipo di armi facevate?

R: Io penso che erano interruttori per mitraglie. Perché era un affare lungo così. Era una catena di montaggio, ecco cos’era. Si partiva da un ferro e si arrivava al punto giusto che era già in casetta.

D: Ti ricordi se questa fabbrica aveva un nome?

R: Mi pare che stata … come si chiamava quel grande industriale, come si chiama?

D: Krupp.

R: Ecco era di lui la fabbrica. E lì, specialmente di notte io non potevo mai dormire di giorno perché sono un tipo nervoso, pare di no, ma dentro mi rosica. Quando si doveva andare in bagno, si doveva dire: “Signora padrona, mi lascia andare in bagno, per cortesia?” Mi accompagnava fino alla porta e mi aspettava fuori. Non solo a me, a tutte.

D: C’erano anche dei civili in fabbrica?

R: Sì erano due vecchi. Uno era una bestia di uomo, cattivo proprio, SS quello era. Invece l’altro era abbastanza.., perché si poteva anche… magari era rotta la macchina, si andava a chiamarlo, si diceva la “Machine Kaput”, allora veniva vicino, cambiava il pezzo. Non diceva niente, ma l’altro guardava come fossimo bestie. Lì siamo state fino a che abbiamo cominciato a sentire i cannoni dalla parte russa. O bene o male l’abbiamo passata fino alla metà di aprile, no, ai primi di aprile mi pare che eravamo. Ci hanno trasportate. Prima è venuto un grande bombardamento, mi dimenticavo questa cosa. A mezzogiorno è venuto un grande bombardamento, ha rotto la corrente elettrica, l’acqua, tutto. Le fabbriche erano demolite. Alla sera sono tornati, hanno fatto così, così e così. Hanno distrutto tutta la città, fabbriche, case, tutto. Allora ci hanno mandate a portare via le macerie. Però si andava sulle scale, ma noi quando avevamo due minuti di riposo, si cantava: “Bandiera rossa la trionferà”. Ci davamo coraggio. Poi c’era una tedesca con noi, che quando aveva due minuti di riposo, ci diceva in tedesco: “Io non ho mai arrivato a capire. Mi cantate la canzone Mamma?” Intanto si riposava dieci minuti e noi le cantavamo la canzone Mamma e dopo si metteva un’altra volta a portare questo. Finalmente dopo è venuto il trasporto un’altra volta.

Siamo andati un pezzo in treno, poi abbiamo camminato tutta la giornata. Siamo arrivati in Cecoslovacchia, prima siamo andati a …, era un sottocampo, sempre in compagnia di quelle due là. Dopo di lì avanzava ancora il fronte da una parte e dall’altra. Siamo andati a … lì era una polveriera, era ancora in azione che lavoravano. Un po’ sono andate a lavorare, parlo di cinquecento donne perché il trasporto è stato immenso quella volta, quando siamo andati a… il trasporto era di tutte le razze. A… c’era questa polveriera. Anna e Elvia sono andate in polveriera, io ho avuto la fortuna che sono andata in ferrovia a lavorare. Allora si scaricava e si caricavano bombe. Si metteva da una vettura all’altra, all’altra lì, si faceva questo lavoro, non c’era altro da fare. Un giorno, penso che sia stato un capitano dell’esercito non della SS, è venuto vicino e mi ha chiesto di dove eravamp. Gli abbiamo detto che eravamo italiane. Allora lui ha detto: “In Italia la guerra finita. Mussolini …” ha fatto. Ci siamo date coraggio, abbiamo finito di lavorare, all’indomani un’altra volta e sempre l’appello alla mattina presto. Io che ero piccola, sempre davanti. Alla mattina, l’8 maggio l’ultimo giorno di guerra, l’8 maggio sono le sette, niente sveglia. Sette e mezza, niente sveglia, perché aprivano la porta … la prima cosa. Niente, urca boia vedrai che sarà qualche.. oggi. Andiamo fuori, neanche un tedesco. Almeno avessimo trovato uno per dargli in carico di botte, niente. Spariti come la neve al sole. Neanche uno.

Dico a Anna e a Elvia, poi eravamo cinque o sei o forse più italiane: “Cosa facciamo? Andiamo a casa, è finita, non c’è nessuno. Dove andiamo? Andiamo a casa. Usciamo da questo cortile, da questo sottocampo”, perché era un sottocampo. “Dove andiamo adesso? Andiamo di qua o andiamo di là?” Eravamo in Cecoslovacchia. “Andiamo da quella parte, forse di là sarà l’Italia, di qua no perché penso che sia un’altra direzione”. Ci siamo incamminate, io sempre con quelle scarpe una per sorta, solo quella … che ci avevano dato, piene di fame che non occorre parlare. Abbiamo camminato tutta la giornata sotto le bombe, sotto le mitraglie, gli apparecchi che bombardavano. Scappa in un fosso, i tedeschi che scappavano, gli inglesi che gli correvano dietro, i russi dall’altra parte. Mamma mia. Allora quel giorno abbiamo fatto un voto, io, Anna e Elvia, abbiamo detto: “Se Cristo ci dà la…”. Eravamo venute sul serio molto credenti quella volta. Io non sono mai stata credente, sono cattolica, sono cristiana, vado a messa quando posso, ma non bigotta. Abbiamo fatto questa promessa che se Dio ci dà la grazia di andare a vedere i miei figli, io volevo andare a vedere i miei figli e mia mamma, il marito sapevo che era morto, andiamo a Castel Monte, andiamo a piedi perché abbiamo la Madonna di Castel Monte, non so se avete sentito. … Abbiamo fatto questa promessa con la Madonna di Castel Monte. Grazie a Dio quando erano le sette alla sera sentiamo: bum, bum, bum. Mamma mia, un’altra volta gli apparecchi. Mi giro e vedo un carro armato con una stella rossa così. Mamma mia, adesso è finita proprio. Cosa faccio? Mi butto in un fosso. C’erano gli alberi di qua e di là, sempre in Cecoslovacchia. Mi butto in fosso, Elvia, Anna, quelle lì non so dov’erano. Passa il primo carro armato e ci dice: “Andate in parte”. Passa il secondo, comincia a buttare pane, burro, liquori, sigarette. Io mi prendo una pagnotta così e un pezzettino di burro, mi sono seduta in questo fosso e ho mangiato tutta la pagnotta. Sono stata bene tutta la sera. Dopo era il problema, c’erano le truppe che venivano di qua. Di qua erano i tedeschi che scappavano, noi che si passava per la strada a piedi, disgraziate come pecore che non si sapeva dove andare. É venuta notte, siamo entrate in un casolare, abbiamo visto questo casolare dove mettono il fieno, la paglia. Andiamo a nasconderci là, perché trovarsi di fronte ad una disfatta del genere, non saper parlare, non sapere la lingua, essere pieni di paura e pieni di fame, non si sapeva cosa fare. Andiamo a nasconderci lì. Quando era verso le 11 sentiamo entrare, sono entrati i cosacchi, i russi, tutta quella gentaglia. Io avevo i pantaloni perché ci avevano dato i pantaloni quando eravamo a … per lavorare. Erano come bestie. Chi è arrivato a scappare è scappato, si è nascosto e chi non è arrivato è stato anche violentato. Lo dico sinceramente, mi deve credere. Io mi sono salvata solamente perché avevo i pantaloni.

E dopo, piano, piano all’indomani abbiamo detto: qui è inutile stare, siamo peggio che nel fuoco, peggio che a Auschwitz perché lì almeno hai il nemico di fronte. Abbiamo proseguito per la strada e siamo arrivati in un paese. In un paese troviamo come una villetta ma in mezzo al paese, una villetta abbandonata, aperta. Andiamo a dormire lì stasera. Eravamo sempre noi e poi c’era Gabriella, una slovena che parlava abbastanza bene. Siamo andate, abbiamo trovato questo bel letto, tutto bene lì, ma niente da mangiare. Non importa ormai avevo mangiato quella pagnotta, io non avevo più fame. Verso mezzanotte, l’una durante la notte avevo sentito bum, bum. Ah mamma mia, qua … un’altra volta. Invece le ha chiesto “Chi è?”. Lei ha risposto. Lui dice: “Sono un ufficiale russo”. Lei ci ha tradotto. Allora noi abbiamo detto: “Siamo cinque ragazze prigioniere, siamo scappate, siamo arrivate fino a qua, abbiamo paura”. Lui ha detto: “Di me non abbiate paura, non dovete aver paura, io sono una persona onesta”. Difatti è entrato, gli abbiamo aperto la porta, è andato nell’altra stanza, ha dormito lì. Dico la verità, perché non mi piace raccontare né più e né meno. Piuttosto meno che non più. E lì alla mattina si è alzato, si è fatto la barba, ci ha salutato ed è andato. Usciamo da questa villetta, da questa camera e sentiamo parlare l’italiano. Oh mamma mia, troviamo gli ex militari italiani liberati anche loro. Allora siamo andate vicino. Li abbiamo abbracciati, ci siamo messe a piangere e loro ci hanno detto: “Con chi siete?” “Siamo povere disgraziate sole, due, tre, quattro, cinque”, non so quante eravamo, perché ognuno andava per la sua strada, chi con francesi, con chi trovava insomma. Ci siamo aggregate a loro e con loro abbiamo fatto quasi tutta la Cecoslovacchia a piedi. Si camminava di giorno e di notte si andava nei campi o dove si vedeva che era un po’ nascosto perché si aveva molta paura.

Elvia, il secondo giorno dopo che sono arrivati i russi, ha mangiato la carne cruda. Elvia aveva diciassette anni, credo che abbia avuto più fame di me. Con quella si è ammalata. Siamo arrivati a Praga noi, piano, piano, col carro, coi cavalli. Io avevo fatto due o tre valigie di roba perché era pieno di roba per la strada, carri abbandonati, biancheria, ho sempre quelle mutande, almeno mi cambierò. Ho fatto le valigie, pesavano, butta via oggi, butta via domani, sono rimasta con quello che avevo addosso. Avevo sempre quei pantaloni e quella giacca. Siamo arrivati a Praga, siamo andate a dormire nella casa del consolato italiano. Era una stanza che era qualche cosa. Elvia aveva quarantadue di febbre. Domenico si chiamava, un meridionale, un militare, ha detto: “Non si può lasciare questa ragazza in queste condizioni”. Ha tanto fatto, tanto girato con questo carro e con lei sopra, l’ha portata all’ospedale. Giuro davanti a Dio che non vi dico una parola di più. L’abbiamo lasciata lì, io e Anna abbiamo continuato con loro fino sul confine che divideva dai russi o dagli inglesi o gli americani, quali erano e lì ci hanno aspettate gli americani, ci hanno portato col camion fino a Linz che sarebbe in Austria.

A Linz siamo rimaste quaranta giorni. Però avevamo cavalli che abbiamo ammazzato cavalli, si andava in cerca … hanno ammazzato gli italiani, quelli che facevano gli aguzzini. Hanno trovato un aguzzino mischiato con noi prigionieri, lo hanno messo sulla sedia, lo hanno legato e gli hanno fatto quello che lui ha fatto agli altri. Non l’hanno ammazzato, però i soldati nostri, dopo siamo andati a vedere, hanno ammazzato un ufficiale tedesco. Lo hanno appeso all’albero e gli hanno fatto la festa, ben fatta. Io ero priva di notizie, non avevo nessuno, non sapevo niente perché era impossibile. Finalmente arriva il giorno che ci hanno detto: “Domani viene la Croce Rossa, l’Opera Pontificia, trovatevi presto che vi vengono a prendere”. Ma da Linz fino a Bolzano siamo andate in treno perché era il 24 di giugno, come ieri l’altro, due giorni indietro. Siamo partite e finalmente arrivo a Udine, dopo molte peripezie per la strada.

D: A Bolzano dov’è che siete state… vi hanno trattenuto a Bolzano?

R: A Bolzano siamo state una notte.

D: Dove?

R: Adesso non mi ricordo. Non ricordo il posto perché io penso che ero euforica un poco. Io a pensare che ero viva, che io andavo a vedere i miei figli e mia mamma, perché avevo mia mamma viva, io ero non voltata di testa, ma ero talmente dentro di me che mi pareva di volare. Sono andata alla stazione a Udine, ho preso la littorina che va a Cividale. E quando sono tra Cividale e Udine, qui c’era Monzacco nel mezzo, il treno si ferma. E vedo uno che sale sul treno. Ho visto solo la gamba di dietro. Ho detto a quello che era con me che era uno di Cividale, un ex militare: “Quello là è mio fratello”. “Come fai a dirlo?” Io l’ho conosciuto dalla gamba, gli ho detto che è mio fratello. Parto, attraverso tutte le vetture, quelle che erano, arrivo e guardo dentro, dietro proprio alla porta che si apre era seduto mio fratello con un suo compagno. Io non ho detto niente, mi sono presa e mi sono seduta vicino a lui. Lui mi guarda, ha fatto così. Ci siamo messi a piangere tutti e due, ma dopo il momento più bello della mia vita, più emozionante, non so spiegare come, quando ho trovato i miei figli, mi è venuto vicino quello più vecchio che mi è morto, che sono cinque anni, avevo sessant’anni, mi è morto. Lui mi ha preso così: “Mamota”, capisce il friulano qualcuno? “Mamota sete tornada”. Non mi ha detto altro, poi è venuta mia mamma, ho visto mia mamma da lontano, le ho fatto così. “Ma quela è la Ines”, ha detto. Il giorno più bello della mia vita è stato quello lì. Dopo ho avuto un mucchio di gente, mie sorelle, mio fratello, tutti insomma, ho avuto persino l’arciprete che è venuto a salutarmi. Sì perché sono l’unica a Cividale che è stata presa, perché sono stata denunciata proprio, perché a Udine era la denuncia, dopo hanno preso anche mio fratello. E sulla carta di denuncia c’era scritto in tedesco ha detto perché mia mamma capiva un po’ il tedesco: digli a quello là se devo arrestare Tullio o se devo arrestare Bassetti che era quello della camicia nera che mi aveva denunciato anche a me. Allora vedi che noi avevamo già le prove e dopo in carcere a Udine, è stata la mamma della mia amica, era scritto il nome di Bassetti con la denuncia. Noi abbiamo avuto le prove schiaccianti, sicure. E si abitava vicino così.

D: Ester, durante il tuo periodo di deportazione ti sei mai ammalata?

R: No, ho avuto una volta trentanove di febbre, ma quando si era a … che si andava a lavorare nella fabbrica, il lavoro coatto che adesso dicono del lavoro coatto. Avevo mal di gola. Mi hanno lasciata un giorno e dopo all’indomani avevo trentotto, sono andata a lavorare lo stesso. Ecco questa è la mia storia. Una parola più, una parola meno.

Scuratti Mario

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni. 

Mario Scuratti, nato il 9 febbraio 1926 a Muggiò, ora residente a Monza in Via Guerrazzi 55/B. Inizio il mio racconto.

La mia cattura è avvenuta, non so se è stato su delazione perché noi come gruppo, la 104 brigata Garibaldi collegata con quella di Cinisello, verso la Taccona c’era una cascinotto dove c’erano dentro delle armi e qualcuno ha parlato e sono intervenuti i fascisti e han bruciato tutto.

Forse han trovato i documenti come lì dicevano, invece, non so come è stato. Ci han preso, almeno il sottoscritto quando l’han preso l’han portato il Via Tommaso Grossi a Monza dove c’era il comando delle SS.

Lì così, l’interrogatorio, hanno messo là un centinaio di fotografie; conosci questo, conosci quell’altro. Sì, io conoscevo quelli di San Fruttuoso, come i fratelli Carpani che dopo son fuggiti con Moscatelli. Di lì, ci han portato, dopo l’interrogatorio, dopo un po’ di tirate d’orecchie, qualche sberla, finito l’interrogatorio, ci han portati, mi han portato al carcere di Monza, lì così.

D: Ecco, scusa Mario, quando ti hanno arrestato?

R: Ecco, lì ho le date, dev’essere stato il 14 gennaio o il 23 del ’45

D: Ecco, scusami sempre, tu quanti anni avevi allora?

R: Avevo 18, quasi 19 anni

D: E lavoravi dove?

R: Io, no, lavoravo alla Pirelli però in quel periodo lì, diciamo così, il primo quadrimestre del ’26, allora, ero stato chiamato alle armi e io non mi son presentato e siam andati lì a lavorare un po’ nei campi degli agricoltori in quella zona lì.

D: Ecco ma tu abitavi lì, dov’è che abitavi allora?

R: Io abitavo, sempre a Monza, in Viale Lombardia 228, la nuova Valassina è lì.

D: E ti hanno preso a Cinisello?

R: No, mi han preso lì proprio a casa perché noi si dormiva sotto i magazzini, noi li chiamavamo i ripostigli e allora si era fatto come un rifugio, lì qualcuno ha parlato e son venuti a prenderci e dopo mi hanno portato …

D: In Via Tommaso Grossi

R: In Via Tommaso Grossi

D: Ma son venuti gli italiani o i germanici a prenderti?

R: No, erano italiani perché erano qui alla scuola di San Fruttuoso, c’erano dentro un po’ di tutti, alpini, bersaglieri, era un gruppo misto delle telecomunicazioni, praticamente era un centro, e ci han portati lì alle scuole di San Fruttuoso; di lì dopo mi han portato a Monza, in Via Tommaso Grossi, di lì, in una casa.

D: Ecco, ma lì in via Tommaso Grossi chi ti faceva gli interrogatori, erano italiani o germanici?

R: Ma, erano italiani, ma lì era la sede dove, io sono venuto a sapere, c’era il comando tedesco perché dopo, dato dei documenti, io praticamente ero in mano ai tedeschi, ci han portato in mano ai tedeschi, tant’è vero che dopo li avevano trovati a San Vittore, quella gente lì che ci aveva portato a Bolzano.

D: Quindi, scusa, via Tommaso Grossi, carcere di Monza.

R: Carcere di Monza, lì siam stati tre giorni. Dopo al mattino presto ci hanno caricato su un camion e lì è stato che, abbiam scoperto che eravamo lì in cinque di San Fruttuoso, tutti e cinque, allora c’era Bianchi Osvaldo, c’era Pessina, mi scappa il nome, c’era Fossati Franco e c’era Serrughetti, perché quello lì mi sembra che era stato già nell’esercito repubblichino, era scappato e dopo l’han preso, non so.

Si sospettava che fosse stato lui a parlare, perché, tutto lì, o che ci hanno ingannato e lì con i pullman, partendo di sera, ci han portato a Bolzano.

D: Scusami, a San Vittore, ti ricordi se ti hanno immatricolato a San Vittore?

R: San Vittore, tant’è vero che ho lì i documenti. A San Vittore avevo il milletrecento e qualche cosa, poi dopo i documenti, cella 17, ho lì un foglietto ancora, fatto da loro, fogliettino fatto da loro con su la cella del sesto raggio, quello dei deportati.

D: Che piano?

R: Piano, era forse l’ultimo, credo, perché era un casermone; eravamo là tutti e cinque, ci han dato una coperta a testa, due le abbiam messe di sotto e tre di sopra per coprirci tutti assieme, tutto lì.

D: E lì quanti giorni sei rimasto a San Vittore?

R: Lì siam stati un mese quasi, adesso io, praticamente le date della partenza e dell’arrivo corrispondono a quello che era il libretto di Bolzano, della Città di Bolzano.

D: E quindi da San Vittore poi vi hanno portati a Bolzano?

R: Bolzano

D: Ma come ti hanno portato a Bolzano?

R: Coi pullman, con dei pullman, lì alla sera, tant’è vero che c’erano delle strade sconnesse per i bombardamenti e siamo arrivati al mattino là.

I diciannove anni, tu mi hai chiesto quanti anni avevo, li ho compiuti a San Vittore, perché lì siam arrivati al 14, dev’essere stato il 20 di gennaio al carcere di Monza,il 23 a San Vittore, il 14 o 15 ci han portato a Bolzano e lì siam stati una settimana circa a Bolzano perché eravamo circa ottocento perché arrivavano da Torino, un po’ dappertutto. Siam stati lì circa una settimana, poi ci han messo sui vagoni, siam stati messi sui vagoni, siam stati lì circa 3 giorni in stazione, poi han incominciato i bombardamenti sul Brennero allora ci han tirati giù

D: Ecco, scusami, il viaggio da Milano, da San Vittore a Bolzano, lo avete fatto in pullman; con te c’erano gli altri tuoi quattro amici, quelli di San Fruttuoso?

R: Sì

D: Ecco, chi faceva la guardia sul pullman, chi erano?

R: Tedeschi, tutti tedeschi

D: Come ti ricordi l’arrivo nel campo a Bolzano?

R: L ‘ arrivo nel campo a Bolzano, noi quando siamo arrivati ci han portati al lavaggio, pelati tutti, teste e così via e ci han dato la tuta che era bianca come quella della marina, telone grosso e ci han dato i numeri, uno qui e uno da mettere sulla gamba

D: E il tuo numero?

R: Il mio numero era 9643.

D: E assieme al numero ti han dato un’altra cosa da mettere su, ti han dato un triangolo assieme al numero?

R: È quello, triangolo rosso e il numero era quello. Eravamo lì oltre a essere in campo, eravamo ancora cintati perché noi eravamo i pericolosi perché avevamo anche la “x” sulla schiena e confinavamo con le donne, era l’H, perché erano due cosi vicini, mi sembra che era E o H, tant’è vero che sul libro lì, ho segnato in rosso tutto quello che è.

D: Ecco, lì a Bolzano, cosa vi facevano fare, nel campo di Bolzano?

R: Nel campo di Bolzano, la mattina la sveglia, lavati e così via, poi la chiamata, inquadrati, cappelli su, cappelli giù, cappelli su, cappelli giù finché erano stanchi, poi quando uccidevano qualcuno ce lo presentavano là nel campo, se uno tenta di fuggire, questa è la fine, se uno non esegue quello che è, fa questa fine, sempre così, tutti i giorni la chiamata poi si ritornava dentro, si stava là a far niente, a fare, noi lo chiamavamo il rastrellamento, perché, a uccidere i pidocchi; croce rossa, croce nera erano i vari tipi e si faceva quel lavoro lì, ecco.

D: Ascolta, ti ricordi chi faceva le guardie, se erano italiani, se erano germanici?

R: No, no, tedeschi, tedeschi, poi era famoso quello che è scappato in Canada, e poi il comandante era quello che arrivava da Fossoli, il comandante.

D: E lì sei rimasto lì a Bolzano quanto tempo, nel Lager?

R: Nel Lager son stato lì una decina di giorni, perché dopo ci hanno spostato.

D: Dopo vi hanno portato sul treno per la partenza?

R: Per la partenza.

D: Come è avvenuto quel discorso lì della partenza, vi hanno chiamati all’appello?

R: Sì, sì chiamati uno a uno ci han portato con i camion in stazione, su, piombati, io praticamente mi son dissetato un po’ perché, non solo io, avevo un dentifricio alla menta, allora lo facevo passare un po’ a tutti per dissetarsi perché avevo un po’ di sete ma non si poteva neanche sedersi né niente.

D: E questo alla stazione di Bolzano o …?

R: No, no stazione di Bolzano.

D: Proprio alla stazione, e vi han fatto entrare in stazione e vi han caricato?

R: Tre vagoni là.

D: Sul carro bestiame?

R: Perché ci han portato dove c’erano i vagoni e ci han caricati, forse anche su un binario morto, non lo so.

D: E però il treno non è mai partito?

R: Mai partito perché dopo si sentiva un traffico di aerei, bombardamenti e si veniva a sapere un po’ così che bombardavano il Brennero perché quando si andava fuori in quella villa lì dove c’erano i famosi tedeschi, austriaci, quelli della…quelli anziani che si mettevano a controllarci perché non c’erano più giovani. E allora eravamo lì, primo lavoro che ho fatto è in questa villa che era su, in alto Bolzano, adesso non mi ricordo e là a fare l’imbianchino, era più l’imbiancatura che finiva su noi che quella che si dava ai muri.

D: Solo te o anche gli altri tuoi amici?

R: No, io e il Serughetti, in due, che poi lui ha tentato di fuggire, era fuggito, e io dopo l’ho chiamato perché stavano già sparandogli; “Peppino ritorna indietro, Peppino ritorna indietro” e allora è ritornato indietro ma in quel periodo lì eravamo già spostati giù in Val Sarentino e cosa han fatto? Quando è rientrato al campo, l’hanno messo al palo, tutta notte, senza mangiare e io penso adesso al rischio che ho corso, gli ho portato da mangiare, fuori alla sera, andar là a dargli qualche cosa da mangiare.

D: Questo in Val Sarentino?

R: Val Sarentino

D: Ecco, ma allora, andiamo un attimo; sei sul vagone per andare oltralpe, il treno non parte; eravate in tanti lì sul vagone?

R: Tre vagoni erano.

D: Tre vagoni?

R: Adesso il numero…

D: Solamente uomini o anche donne?

R: No, uomini soltanto, a me risulta, il mio vagone erano soltanto uomini.

D: E ti ricordi se c’era con voi qualche sacerdote?

R: C’era un sacerdote giovane, non mi ricordo il nome, mi ricordo il nome dentro il mio blocco, che era professor Poggi di Genova, c’era un tenore, però questo era tra gli ebrei, tenore Asco Campagnano che gli facevano sempre cantare “Il nemico della patria” dell’Andrea S… poi c’era un certo avvocato Ulisse, non so se era un nome di battaglia o che, c’erano proprio nel mio … diversi intellettuali che erano una ventina, non li abbiamo più visti.

Però sono venuto a sapere che dopo il professor Poggi, a Genova, c’era ancora, perché leggendo i giornali, non so se dopo, forse perché erano gli ultimi periodi, si son salvati.

D: E poi c’era questo sacerdote giovane che dicevi.

R: Non mi ricordo più il nome.

D: E anche nel campo, ti ricordi se c’erano dei sacerdoti?

R: E sì, se c’era quello lì, c’era senz’altro qualcun altro.

D: E di donne ti ricordi qualcuna?

R: La moglie di Pesce, la Nori, la Nori, Pesce, me l’ha detto dopo quando ero là anch’io a Bolzano e lì dopo, in Val Sarentino eravamo lì a spaccare i sassi, lì praticamente nel torrente che vien giù dovevano fare un depuratore perché tutta la Val Sarentino è una galleria sola e da una parte avevano messo dei macchinari per fare proiettili, macchinari e noi eravamo giù, dentro ‘sto torrente, eravamo una cinquantina a spaccare ‘sti blocchi di sassi perché dovevano fare degli strati grossi, poi più leggeri, più fini; depurare l’acqua per alimentare tutte quelle gallerie

D: Ecco, com’è che vi hanno scelti per mandarvi in Val Sarentino?

R: Han preso tutti quelli lì; li han suddivisi, fatti scendere dal treno e li han divisi perché Pessina, Fossati e un altro, Bianchi li avevano mandati su a Vipiteno e dopo ho saputo; cosa eravate lì a fare? Si interveniva quando c’erano i bombardamenti a sostituire i binari che erano rotti; invece noi eravamo lì a far quel lavoro lì.

D: E invece voi vi hanno mandato in Val Sarentino?

R: Val Sarentino.

D: Solo uomini eravate?

R: Solo uomini, sì.

D: Ti ricordi com’è che avete fatto il viaggio per andar su da Bolzano, qui, a Val Sarentino?

R: Con i camion tedeschi, perché dopo lì c’erano delle baracche, lì proprio in Val Sarentino, perché facevano anche i lavori; c’erano delle baracche e noi rimanevamo lì in Val Sarentino, si usciva al mattino. C’erano i tedeschi a controllarci però c’erano anche i tecnici della, quelli che controllavano i lavori, come si chiamano quelli lì, la Todt.

D: La Todt.

R: La Todt, c’erano quelli lì che controllavano i lavori, però c’erano gli armati tedeschi a controllare.

D: Ecco Mario scusa, lì in Val Sarentino ti ricordi dov’era più o meno il campo, in che zona era il campo, vicino a delle case?

R: No.

D: C’era un castello, ti ricordi un particolare?

R: Mi ricordo dei particolari; quando si veniva giù e così via, c’erano quei famosi tedeschi, quella della zona dell’Alto Tirolo, con ‘sto grembiule azzurro oppure vestito, che ci sputavano addosso, ci davano qualche calcio.

D: Ma era vicino a qualche paese?

R: Paesi non ne ho visti però era una zona dove forse c’erano i famosi, le famose case, come si chiamano non mi ricordo…

D: Masi.

R: I masi lì, perché venivano giù a gruppi, a piedi.

D: Però il campo era vicino al torrente?

R: Al torrente sì, vicino al torrente.

D: Il campo era grande? Com’era il campo, come ti ricordi il campo?

R: Il campo era una baracca, sarà stato lungo, eravamo una cinquantina dentro, era una baracca.

D: Una sola?

R: Una sola.

D: Ed era recintata questa baracca?

R: Sì, sì recintata.

D: Il posto in cui lavoravate, era nel campo oppure per lavorare andavate fuori dal campo?

R: No, no si andava fuori, dentro nel torrente, perché quello lì era spostato dove c’era la baracca, si usciva dal campo e si andava verso il torrente a fare i lavori.

D: Ma pochi metri oppure era più lontano?

R: No, era un pochino lontano, non tanto ma era sulla costa, dopo le gallerie praticamente.

D: Sulla costa?

R: Sì, diciamo così.

D: Un po’ sul pendio?

R: Ecco, sul pendio.

D: E quindi per lavorare scendevate nel torrente?

R: Scendevamo dentro nel torrente

D: Dicevi le gallerie, queste gallerie qui, ci lavoravano altri deportati, nelle gallerie

R: Non lo so.

D: Nelle gallerie, tu non sei mai entrato?

R: No, noi eravamo lì a fare quei lavori lì ma non so se funzionavano già o meno perché praticamente, cosa avevano fatto; io ho visto, così passando, non che son andato dentro; da una parte delle gallerie avevano piantato i macchinari mentre dall’altra c’era la possibilità, con i camion, di portare avanti e indietro il materiale.

D: E’ come se avessero allestito un’officina dentro nelle gallerie?

R: Su un fianco della galleria avevano istituito delle gallerie, delle officine.

D: Però tu dentro non sei mai andato quindi non sai.

R: Mai, perché noi, no, no…

D: Hai visto movimenti, cosa facevano?

R: No, no.

D: Voi eravate addetti alle pietre e basta, e siete riusciti a fare quello sbancamento, quel filtro lì, quel depuratore?

R: Ormai ci han mandati lì perché in Germania o meglio in Austria non siamo più potuti andare per i bombardamenti, che si sentivano. Al Brennero tremava tutto, sembrava il terremoto perché i bombardamenti gli ultimi momenti erano intensi e allora per forza non han finito di fare i lavori che dovevano fare.

D: Dicevi che eravate in cinquanta in questa baracca?

R: Sì, una cinquantina.

D: Quindi più o meno vi conoscevate uno con l’altro? Eravate tutti, che ne so, tutti lombardi oppure c’erano anche altri ragazzi di altre regioni, più anziani di voi?

R: Sì, sì ce ne erano, parecchi anche perché dentro nel campo quando si faceva la famosa ginnastica: cappelli su, cappelli giù, si facevano su, giù, le flessione e così via, c’era qualcuno, gli anziani che cadevano, allora nervate, perché pretendevano l’impossibile da quei poveretti lì.

D: E comunque eravate tutti italiani?

R: No, io il viaggio l’ ho fatto anche con un russo che veniva da Torino, che aveva una cancrena al braccio, dopo non l’ho visto più, era un ingegnere lui mi diceva; parlava bene l’italiano e poi non l’ho visto più, mi ricordo benissimo di questo sovietico.

D: Ma lì nel campo della Val Sarentino c’era questo russo? Lì nel campo, in questa baracca di cinquanta persone più o meno, c’erano anche degli stranieri come prigionieri o eravate tutti italiani?

R: No, che mi ricordo eravamo tutti italiani.

D: E quanti erano i tedeschi che vi facevano la guardia, circa?

R: La guardia al campo?

D: Sì, a voi, Val Sarentino?

R: In Val Sarentino, in Val Sarentino c’erano poche persone, saranno state una decina sì e no.

D: Ma avevate un filo spinato intorno alla baracca?

R: Sì. Sì era cintato, era cintato; dentro in baracca, come ho detto, l’han messo là al palo; quello là era cintato ma non proprio contro, tanto è vero che come sono uscito da lì, incosciente dicevo di essere, chissà dove erano loro.

D: Ascolta Mario, nel periodo che tu sei stato a Bolzano o in Val Sarentino, sei riuscito a scrivere a casa o a ricevere delle lettere da casa

R: Mai.

D: O un pacco, qualcosa?

R: Il pacco l’ ho ricevuto da mio papà, dentro nel campo a Bolzano, ma del resto, tant’è vero che sul documento, sulle lettere: Come mai gli altri scrivono e tu non scrivi? Perché io non ho mai avuto la possibilità di scrivere e così via…

D: E questo pacco il tuo babbo come ha fatto a mandartelo su?

R: Tramite una; è stato all’ultimo momento che ha dovuto preparare tutto ‘sto pacco perché è venuto a sapere; ormai lì si facevano passare la parola i famigliari, che il giorno successivo sarebbe partito il camion per Bolzano, il camion della Falck e allora praticamente preparavano i pacchi e li portavano su.

Perché noi sapevamo, eravamo avvisati che se si riusciva a scappare, si doveva andare alla Falck, dove praticamente eravamo salvi.

D: Ascolta, la Liberazione come te la ricordi?

R: La Liberazione. Ero in Val Sarentino, al mattino sono venuti a chiederci di andar su ad aiutare i tedeschi perché c’era stato un bombardamento, c’era un distaccamento tedesco su in alto, verso Vipiteno; di andar su ad aiutare a a recuperare i morti di ‘sto bombardamento; io me ne vado a casa. Allora ci han portato in centro, ci hanno dato un piccolo lascia passare che si veniva dal campo di Bolzano, un documento che diceva che noi eravamo arrivati a casa, ci avevano liberati.

D: Questo lascia passare ve l’ hanno consegnato nel campo, cioè vi hanno riportati al Lager di Bolzano, vi hanno dato il lascia passare oppure …

R: No, mi sembra al Lager, mi sembra che me l’abbiano dato al Lager.

D: Quindi siete ritornati al campo, vi hanno dato il documento.

R: Il documento perché ormai là non c’era più nessuno in pratica.

D: E questo che giorno è stato?

R: Il primo maggio del ’45.

D: E tutti e cinquanta vi hanno portato giù, dalla Val Sarentino, dal campo?

R: Sì, sì

D: Vi han portato giù al campo di Bolzano?

R: E dopo ci han dato il documento per la Liberazione.

D: E tu cosa hai fatto?

R: E io ho preso il documento e fatto la prima tappa con una coperta, perché tra l’altro c’era brutto tempo, la prima tappa Bolzano-Trento, a piedi, sì, a piedi.

Ma c’erano quelli che avevano anche le carriole, a Trento, dopo da Trento…

D: Scusa, scusa Mario, sempre con la tuta?

R: Sempre, sempre, fino a casa. Particolare della tuta, son arrivato a casa, ne abbiam parlato proprio ieri con mio fratello, allora c’era lì a casa il Bianchi perché stava lì da me, da noi in cortile, mi ha visto ed è andato a chiamare mia mamma. No, non entro in casa: preparami un bel mastello, allora si diceva così, per lasciar fuori la tuta da casa, perché ero pieno di pidocchi. Ecco, la cosa è stata così.

D: Però hai fatto da Bolzano a Trento a piedi, da solo, eri da solo?

R: No, non eravamo in tanti ma eravamo sette o otto. Dopo di lì abbiam fatto, non Rovereto ma siam andati su mi sembra verso l’Adamello e lì avevamo trovato dei partigiani, su, e nelle case lì ci offrivano le sigarette perché avevano le case piene di sacchi di sigarette perché avevano svaligiato la manifattura di Rovereto.

Dopo, da lì, siamo scesi, ed abbiam trovato gli americani appostati nella vallata perché non erano ancora venuti su. Da lì dopo siamo scesi a Torbole; Torbole, lì in una stalla ci han dato la polenta, un po’ da mangiare, quel poco che avevano anche loro, e abbiam passato la notte.

Al mattino ci hanno traghettato verso Limone, da Limone allora, pian pian Gargnano, a piedi, Gargnano, dopo siam arrivati a Brescia, praticamente ci abbiam messo nove giorni ad arrivare a casa, a Loreto, perché a Brescia abbiam trovato un camion, Serrughetti è andato a finire con un altro camion a Bergamo, invece a me mi hanno portato fino a Loreto e da Loreto altra passeggiata fino a casa.

D: A Monza a piedi?

R: A Monza e a piedi.

D: E hai portato a casa, dal campo, la tuta?

R: Tuta, il numero.

D: Il triangolo, il tuo numero e poi il cappello?

R: No, no il cappello non lo avevamo.

D: Il lasciapassare?

R: Lasciapassare che poi dopo, non mi ricordo più, forse l’ho adoperato per il …

D: Vitalizio?

R: Riconoscimento; vitalizio no, troppo problema, per la qualifica di partigiano, tutti quei documenti…

D: E l’hai spedito?

R: Spedito, allora mi han mandato.

D: E non ti è più ritornato?

R: No, i documenti sono rimasti tutti a Roma. Quello che mi è rimasto è la faccenda del vitalizio, lì è stato, prima di tutto c’era l’Angelo.

D: Signorelli

R: Signorelli, che continuava a dirmi, e Zilli che lavorava insieme, Fai la domanda, fai la domanda, fai la domanda; mai fatta, proprio perché ero disgustato in una maniera, per tutto quello che è successo dopo la Liberazione e allora l’ ho fatta dopo dieci anni circa. Poi è sorto il problema che il mio nome risultava con una t sola e lì praticamente ho fatto l’autocertificazione, gli ho mandato tutto, anche se nel foglio immatricolare dell’esercito c’è una t sola e io ho due t.

Allora, ho lì tutti i documenti, risulta il 9643, risulta Scuratti con una t e allora finalmente ho risolto, praticamente dopo un anno, no di più, di più di un anno e ho preso gli arretrati e i famosi 3.800

D: 50%

R: Di quelli che arrivano, il 50% dei famosi 15 milioni

D: Mario…

R: Dimmi.

D: Mentre hai salvato il triangolo e il numero, la tuta ..è bruciata?

R: Non lo so, prova a chiedere a mia madre ma non c’è più

D: Non c’è più la tuta?

R: Non c’è più.

D: Volevamo chiederti una cosa, quando eri a Sarentino, in Val Sarentino in quel campo lì, qualcuno di voi o tu siete riusciti a scrivere a casa, lì era possibile mantenere il contatto con le famiglie, vi sono arrivati dei pacchi oppure solo a Bolzano?

R: A Bolzano soltanto, io quello che ho ricevuto, l’ ho ricevuto soltanto a Bolzano, tanto è vero che ho lì la lettera che ha scritto mio papà, di accompagnamento, di quello che c’era dentro, pane giallo, liebig, varie cose e tre lire che chissà dove sono finite.

D: Ascolta, oltre al gruppo di San Fruttuoso, di Monza che erano su con te in Val Sarentino, ti ricordi qualche altro nome di qualche altro deportato, della Lombardia o anche non della Lombardia?

R: Sì, ho lì i nomi, ce n’era uno di Milano, poi ce n’era un altro di Verona, un altro di Asti.

D: E i nomi?

R: Quelli che eravamo più vicini, diciamo così…

D: I nomi non ti vengono in mente?

R: No, li ho lì scritti, c’è dentro il bigliettino, li ho li scritti.

D: Aspetta, io avrei ancora un paio di domande. Al campo della Val Sarentino, dicevi che c’era una baracca, c’era una baracca con voi dentro, c’era anche una baracca separata per il comando?

R: E sì.

D: Sì?

R: Praticamente, come posso dire, una baracca, una specie di quella che c’era lì dove c’è la Breda.

D: Era stretta e lunga?

R: Sì, lunga, tutta lunga.

D: E invece l’altra com’era?

R: Una baracca lunga in legno. Non mi ricordo, era più staccata, più in su.

D: E c’erano delle altre baracchette o c’erano solo queste due, una per il comando e una per voi, se ti ricordi?

R: Noi eravamo in quella lì, poi non mi ricordo, non vedevo le altre perché lì come si rientrava, basta, chiusi dentro, al mattino si usciva, non c’era la possibilità di girare o che.

D: E il mangiare, a che ora mangiavate e che cosa vi portavano, a Sarentino?

R: Il famoso orzo, quando c’era, un pezzo di pane nero, sembrava sapone, pesante come un accidenti, ma poca roba, allora si manteneva la linea.

D: Avevate la cucina lì nel campo?

R: Non lo so, non lo so perché.

D: E il rancio era uguale mezzogiorno e sera?

R: Quando c’era sì perché per esempio in campo di concentramento ci davano poca roba, tutta brodaglia e un pezzetto di pane nero con un po’ di margarina.

Volevo citare un particolare, nella Pasqua del ’45, l’Arcivescovo di Bressanone ha ottenuto la possibilità di mandarci dentro qualche cosa da mangiare, ci ha mandato un filone di pane bianco, due mele, uova, forse altre cose, non mi ricordo più; siamo stati tutti male, perché le uova, troppo sostanziose, noi non mangiavamo niente, eravamo tutti a correre dove c’era il fossetto, c’era il famoso fossetto dove si andava a lavarsi, dentro nel campo tutti diarrea, diarrea, dissenteria a tutto andare perché eravamo denutriti, lui ha fatto opera di bene però per noi…

D: Questo, l’Arcivescovo di Bressanone?

R: Sì.

D: Ma ve lo hanno detto lì che era stato l’Arcivescovo di Bressanone, da cosa te lo ricordi?

R: Sì sì proprio l’ Arcivescovo di Bressanone.

D: Ma questo quando eri su in Val Sarentino però?

R: No, nel campo di Bolzano.

D: Quando eri giù a Bolzano?

R: Giù a Bolzano ancora, perché la Pasqua è arrivata che ero ancora a Balzano.

D: Eri a Bolzano. Non è che è venuto qualche sacerdote a celebrare messa, dentro nel campo, non te lo ricordi?

R: No, perché a dirti la verità, noi uscivamo, cappelli su, cappelli giù, si rientrava e fino al giorno dopo basta.

D: Ecco, non ti ricordi se nella Pasqua del ’45 è entrato qualcuno a celebrare messa lì nel campo ma a Bolzano questo, non in Val Sarentino?

R: No, non è venuto nessuno lì.

D: Quindi questo pane, queste mele, queste uova; quando tu eri ancora a Bolzano?

R: Bolzano.

D: Non su in Val Sarentino?

R: No, no, no.

D: Perché in Val Sarentino sei stato su quanto tempo?

R: Bisogna guardare il libro.

D: Tu non ti ricordi più o meno?

R: Il libro, le date corrispondono giuste, in base ai documenti che ho io, in base alla prigionia a Monza, la partenza che eravamo in circa 800, che ci han messo su sui vagoni e che ci han tirato giù, è sul famoso libro del Comune di Bolzano.

D: Ho capito. Era il 25 febbraio quando vi hanno caricato sui vagoni per farvi partire, non siete partiti, poi vi han tirato giù, mandati a Val Sarentino e poi alla Pasqua del ’45 tu eri di nuovo nel campo di Bolzano, la Pasqua era nell’aprile del ’45, allora vuol dire che a Sarentino sei rimasto il mese di marzo?

R: Sì, alla fine, praticamente.

D: Un mesetto praticamente?

R: Praticamente era la fine, perché la Liberazione è avvenuta in Val Sarentino.

Scala Teresa

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Teresa Scala, comunemente chiamata Marisa Scala, da tutti, fin dalla prima età. Sono nata a Verona il 13 novembre 1919. Ho vissuto a Verona con la mia famiglia fino all’età di 15, 16 anni. Dopodiché lasciammo la città perché mio padre, dipendente della Cassa di Risparmio di Verona, dovette lasciare il lavoro perché non iscritto al partito fascista. Andammo in provincia, fra Padova e Vicenza, dove c’era un fratello di mio padre che era un grosso agricoltore. E lì vivemmo qualche anno coi miei fratelli, mia madre e mio padre.

Nel ’39 venni a Torino perché c’era una cugina di mia madre, che avevo conosciuto, vedova qui con due figlie. Venni a Torino per vedere Torino. Fui sua ospite per qualche giorno e invece mi fermai, quasi per sempre. Conosciute le figlie riuscii a trovare dei piccoli lavori perché la cugina era vedova, viveva di una piccola pensione con le figlie, per aiutarla in casa. Nel frattempo avevo cercato la famiglia Scala che sapevo essere a Torino e con cui non avevamo rapporti; mio padre non aveva rapporti non so per quale ragione. Rintracciai l’ingegner Giancarlo Scala, fratello di Luigi Scala che era in prigione da parecchi anni come appartenente e Giustizia e Libertà“, condannato dal Tribunale Speciale di Mussolini. Riallacciammo l’amicizia, la parentela in un certo senso e, con il fratello Remo, che spesso veniva a trovarmi a Torino ed era un giovane studente, fummo ospitati da Giancarlo in piazza Vittorio 13.

Non fui iniziata, diciamo così, alla vita politica, ero giovane, anche se mio padre per ragioni politiche aveva dovuto lasciare il lavoro, ma non ci aveva educato in quel modo. Mio padre era un uomo molto chiuso, molto silenzioso, aveva combattuto una sua guerra. Però un giorno avevo conosciuto un anarchico, un ciabattino anarchico in via della Rocca, mi pare, o in via fratelli Calandra a Torino; avevo portato un paio di scarpe a risuolare e l’avevo pregato di farlo in fretta perché a quei tempi, in tempo di guerra, non si aveva le quaranta paia che si hanno oggi.

E lui mi disse: “Ah, signorina si fermi, gliele faccio subito, gliele faccio”. E cominciammo a parlare. Mi disse che era un anarchico; e il termine di anarchico per me voleva dire rivoluzionario, assassino, quelli che ammazzavano di nascosto.

Vedevo quest’uomo mite, anziano, ciabattino, col suo piccolo desco e, non lo so, qualche cosa in me scattò. Cominciai a pregarlo di raccontarmi, di dirmi. Ricordo che mi disse una cosa: “Sono molto più importanti, avendogli detto di Luigi Scala, quelli che sono in carcere a soffrire che non i fuoriusciti, perché la voce dei carcerati è molto più potente del fuoriuscito”. Io non faccio commenti, non so cosa volesse dire, non capii e forse anche oggi non capisco bene. Comunque non parlai mai con Giancarlo di questo anarchico, forse qualche cosa mi tratteneva.

Nel frattempo attraverso Giancarlo conobbi persone di “Giustizia e Libertà”, fra cui Ada Gobetti, sua carissima amica, e altri. Così entrai un po’ in un circolo, ma sempre non con militanza politica o cultura politica; sempre, confesso, molto da ignorante, insomma. C’era in me la ribellione al fascismo ma era quella ribellione così, che una parte di italiani avevano. Io poi ero un po’ prepotente e quindi quello che era prepotente con me si scontrava. Comunque col tempo capii qualcosa di più.

Il mio impatto tremendo è stato nel dicembre ’42 quando, accompagnando Giancarlo a Castelfranco Emilia a trovare il fratello, glielo permettevano una volta all’anno, nella bassa di Castelfranco Emilia, tutta nebbia: questa fortezza, una fortezza mi pareva, e passando per la sorella di Luigi, siccome stesso cognome eccetera, le guardie mi fecero anche vedere Luigi, perché il fratello solo aveva il permesso, io non avevo il permesso.

Vidi un uomo lungo lungo, magro magro. Vidi gli occhi di Luigi, due occhi lucidi, splendidi che parlavano e lui chiese: “Chi è?”, rivolto a me, e allora il fratello gli spiegò chi ero. Io li lasciai subito perché sentivo che dovevano parlarsi loro due, il colloquio durò pochissimo. Uscii e quel ricordo mi rimane ancora oggi, ecco gli occhi di Luigi.

Passò del tempo e nel frattempo entrai più addentro in quello che era il movimento antifascista. Feci molte cose. Nel ’43 Luigi arrivò a casa in piazza Vittorio, inaspettato, liberato da Badoglio. Sentimmo suonare il campanello e vedemmo questa figura ieratica, così strana, e dice: “Sono a casa”.

Era Luigi Scala che tornava a casa, era in carcere dal ’36 ma era stato già in carcere nel ’31, per due anni o tre anni e poi liberato, riprocessato nel ’36 assieme con il gruppo famoso “Giustizia e Libertà”: Vittorio Foà, Franco Venturi, Mario Cugini e tutto il gruppo, e condannato a 20 anni o 30, qualcosa del genere.

La prima cosa che ci colpì fu la sua salute malmessa. Lo portammo a Cuneo dove viveva la madre. La madre viveva quasi sempre a Cuneo, in provincia di Cuneo, un paesino vicino, una frazione dove avevano una piccola bella proprietà terriera. Lo portammo lì e l’incontro fra madre e figlio, erano anni che non si vedevano, era dal ’36 che non si vedevano, fu una cosa commovente quanto mai. Per prima cosa le baciò la mano, ma non era un gesto borghese, era un gesto così, a cui era abituato da bambino. Poi la madre lo abbracciò e stettero così un quarto d’ora stretti.

Ricordo il primo pranzo a tavola, pranzammo assieme. Finito il pranzo venne servita la frutta e dico questo perché non sono ricordi borghesi, sono ricordi che toccano secondo me. Finita la frutta Luigi prese in mano una pesca e continuava a tenere la pesca in mano e poi sua madre disse: “Fallo”. Voleva tagliare la pesca nel vino come era abitudine in Piemonte, cosa che non si faceva a tavola, non si poteva fare.

Un uomo che aveva fatto anni di carcere chiedeva alla madre se poteva tagliare la pesca nel vino, ecco, chiuso. L’8 settembre dovevano portare via Luigi da Cuneo perché già la IV Armata dilagava nelle montagne.

A Cuneo gli Scala erano molto conosciuti, conosciutissimi a Torino ma a Cuneo in particolare Luigi Scala. Già a Torino avevano già avvisato le persone, Ada Gobetti e altri. Mi fermai qualche giorno ancora a Cuneo perché, nel frattempo, c’era questo dilagare pauroso della IV Armata, che scendeva dalle montagne e si riversava su Cuneo; Cuneo era già in mano ai tedeschi. Io con altri, disperatamente, cercavamo di convogliare i poveri disgraziati militari, vestiti da preti, vestiti da suore, vestiti in tutti i modi, verso non la stazione di Cuneo ma la stazione della Saluzzo-Cuneo, che nessuno conosceva, le piccole stazioni locali dove i tedeschi non c’erano, forse non le conoscevano neppure loro.

Io ho visto prendere dei giovani di vent’anni alla stazione di Cuneo così inermi, ecco in un modo tremendo, asserragliati sui camion. Dopo qualche giorno riuscimmo a portare con la Saluzzo-Cuneo Luigi a Torino. Abbiamo peccato di un’enorme ingenuità.

Era molto malato, malato di tubercolosi, è chiaro, e quindi abbiamo pensato che un uomo in quelle condizioni, inerme, non potesse dar fastidio a nessuno. Dovevamo spostarlo in Svizzera ma non poteva essere spostato attraverso le vie ufficiali, dovevamo spostarlo attraverso le montagne, non era in condizioni, doveva essere portato in barella. Le montagne erano già piene di neve e non si poteva andare. Siamo rimasti a Torino. Il 1 o il 2 novembre il fratello era a Saluzzo per ragioni di partigianato e sentimmo bussare dalla porta di servizio del numero 15 le “tre famose bussate più due” che era un po’ il segnale degli amici.

Luigi aprì la porta e ci trovammo davanti le SS italiane che dissero: “Luigi Scala”. Dice: “Sono io”. “E lei chi è?”, “Marisa Scala”. “Venite con noi”.

Ci portarono al commissariato di Via Verdi; a dire il vero il commissario finge di non sapere niente, e che doveva essere stato chiamato improvvisamente via, voleva lavarsene le mani, voleva fare qualcosa, ma di fronte alle SS!

D: Che anno era quello Marisa?

R: Il 1943, ai primi di novembre, non so bene il giorno. A mezzanotte sempre queste SS italiane ci portarono a piedi da Via Verdi a Torino all’Albergo Nazionale che era in Via Roma, Piazza S. Carlo, che era il comando delle SS tedesche. Addirittura dovemmo aspettare un quarto d’ora perché non ci volevano aprire.

Finalmente ci consegnarono alle SS tedesche, andammo nella solita camera con la faccia appoggiata al muro e aspettammo il mattino. Al mattino venne un maresciallo austriaco, Schumann. L’ho davanti agli occhi perfettamente, un uomo bonario sui quaranta anni, ci portò in ufficio per interrogarci.

Io con la mia solita prepotenza dissi: “Ma cosa vuole? Guardi che è molto malato, è molto malato quindi non è un partigiano; sì, è uscito dal carcere perché è un antifascista ma è molto ammalato. Io poi ero a casa con lui perché gli facevo un po’ da infermiera, gli preparavo da mangiare”, le solite cose che si raccontano.

Poco dopo entrò Schmidt, il comandante delle SS, e io di nuovo, in italiano, parlavo in italiano a Schmidt, dissi: “Ma è molto malato, è il dottor Scala, in carcere fascista, è molto malato ai polmoni!” e Schmidt guardò Luigi e disse, battendosi con le mani la fronte, “No paura, partigian, paura teste”. Fui interrogata varie volte. Vidi Luigi una sola volta in attesa di un interrogatorio ma lo interrogarono, mi disse, due o tre volte; non avevano niente da chiedergli. Nel frattempo mi dissero che Luigi l’avevano mandato in un convalescenziario per militari e io ci credetti, in un certo senso.

Io rimasi in carcere per tutto il mese di dicembre. Perché? Perché speravano che qualcuno si facesse vivo, di prendere qualcuno. Ripeto, quello che mi rovinava era il cognome Scala, che era abbinato a tante cose. Poco prima di Natale mi liberarono e mi dissero chiaro e tondo che dovevo abitare in Piazza Vittorio 13, non muovermi di lì, andare tutte le mattine dalle SS in Piazza S. Carlo perché speravano che sarebbe arrivato Giancarlo, che sarebbe arrivato qualcuno e di poterli prendere. E io vissi lì per parecchi giorni.

Era un alloggio enorme, con due entrate, dal 13 e dal 15; le stanze di allora, i vecchi palazzi di Torino, cinque metri di altezza, freddo da morire, eccetera. Dopo pochi giorni, intanto incontravo Giancarlo al Cottolengo.

Il Cottolengo è stato per noi, per lo meno per me personalmente, un buon rifugio perché entrare al Cottolengo anche per i tedeschi non era una cosa facile; cioè entravano, ma il Cottolengo era una città nella città e quindi era molto difficile.

Lì avemmo molti colloqui. A un certo momento dissi che io saltavo il fosso, non ce la facevo più. E da quel momento, naturalmente, saltai il fosso; venni via di lì, ebbi documenti falsi e cominciai a fare la mia vita di partigiana, collegamenti fra l’uno, l’altro, eccetera. Cambiavamo spesso case, indirizzi.

Nel frattempo mio fratello era in montagna, nel Cuneese, e io avevo notizie, non le avevo. Con la battaglia di Pasqua lo persi di vista perché so che erano stati ammazzati quasi tutti e invece poi lo ritrovai. E nel frattempo mio fratello venne a Torino e cominciò anche lui il lavoro di coordinamento con noi. Ai primi di luglio, mentre rientravamo a casa – rientravo a casa a mezzogiorno in via Piffetti – ho visto mio fratello che mostrava la pistola a tre persone: erano gli agenti del commissariato vicino. Io arrivai vicino a casa, però entrai nel portone. Lui mi vede, mi ride e disse: “Beh, andiamo in commissariato, voi lì telefonate e vedrete che ho ragione io, che sono un agente regolare”. Io entrai in portineria e chiesi al portinaio, che non mi conosceva, abitavamo lì da otto giorni: “Ha una pistola? Ha una pistola? Ha una pistola?” e quello mi guardò come una pazza.

Vidi portare via Remo, non potevo fare niente, però il mio terrore era che Giancarlo rientrasse anche lui per mangiare, ed era il comandante militare GL della piazza di Torino, quindi un pezzo grosso. Allora salii in casa e cercai di arraffare quanto più possibile perché pensavo che poi sarebbero ritornati. Nel frattempo arrivò Giancarlo Scala e io dissi: “Dobbiamo scappare, dobbiamo scappare; come? Usciamo dalla porta”. Abitavamo al quarto piano mi pare, abbiamo visto gli agenti che salivano da sopra, erano in sette o otto addirittura, che salivano la scala. Noi, dal quarto salimmo al quinto piano, suonando a tutti i campanelli, nessun rispondeva; in tempo di guerra erano tutti sfollati. Mentre gli agenti arrivavano alla nostra porta e cominciavano a suonare e battere, uno tira fuori la pistola. Noi intravedevamo da sopra, Giancarlo vide una scala legata alla tromba delle scale; era la scala che portava nelle soffitte perché c’era una botola. Riuscimmo a slegare la scala, aprire la botola, salire su. Mentre Giancarlo saliva cominciarono a sparare perché si erano accorti del rumore. Siamo riusciti, nelle soffitte, trascinandoci, a passare da una via ad un’altra via, un altro palazzo, poi uscire fuori sui tetti e passare su un balcone.

Io, a dire la verità, ero attaccata, non mi volevo mollare; Giancarlo mi pestò le mani e caddi su questo balcone. Di lì entrammo in un alloggio anch’esso disabitato. Riuscimmo ad aprire, scappammo in Corso Tassoni con le sirene che suonavano. C’era l’Umpa (forse UPI), c’erano le guardie, c’erano tutti perché avevano capito che c’era un covo importante, non per me ma per Giancarlo.

Arrivata in Corso Tassoni io caddi lunga distesa per terra. Ero tutta graffiata, tutta sporca. In una piccola osteria, che ho cercato e che era sparita dopo qualche anno, entrai, c’erano degli operai che mangiavano qualche cosa. Mi presero in braccio, mi portarono dietro, mi diedero un bicchiere di grappa da bere, qualcosa, non mi ricordo più. Io urlavo come una pazza perché sapevo che Remo era stato preso.

Stetti tre giorni nascosta e poi ricominciai la mia vita. Mi dicevano che Remo era in buone mani, che lo stavano aiutando. Avevano trovato in casa, purtroppo, non il denaro che ci era stato paracadutato da distribuire alle bande ma le coordinate del lancio. Difatti Remo non lo disse ma so che passò al controspionaggio in Piazza Callina con i carabinieri, perché era intesa col nemico proprio. Chiuso.

Ad agosto, in un incontro in via fratelli Calandra con Pedro Ferreira, comandante GL della piazza di Aosta, fummo catturati alle 11 del mattino perché una spiata aveva denunciato il fatto. Difatti la casa, questo palazzo, era dalle cantine alle soffitte tutto quanto pieno di agenti. Le Brigate Nere presero Pedro Ferreira e me, e ci portarono in Via Asti, nella caserma di Via Asti, al Comando delle Brigate Nere. Stetti un mese lì con Pedro Ferreira. Poi suoi ragazzi catturarono una decina o venti tedeschi ad Aosta e scambiarono Pedro Ferreira con questi, fecero uno scambio.

Lui, mentre lo liberavano, mi urlava: “Marisa, ne prendo trenta per te!”

Ero in via Asti insieme con Aurelio Peccei, prigioniero di stato di Mussolini, il famoso Peccei della Fiat, ed altri politici.

Ad un certo momento venivo interrogata di notte all’una o alle due da, non ricordo il nome, una bestia nera proprio, lo chiamavano “il macellaio”, della questura di Torino.

Mi veniva a interrogare e mi diceva: “Ho visto tuo fratello piangere disperato perché dice che lo hai accusato, che lui non c’entra niente, poveretto!” Lui sapeva di mio fratello, voleva emozionarmi. Furono interrogatori tremendi, non per l’una o le due di notte in cui il cervello non è tanto limpido, quanto per quello che mi diceva di mio fratello. Poco dopo arrivarono le SS, che nel frattempo avevano saputo che ero stata presa, a prelevarmi e mi portarono in carcere. E lì ricominciò di nuovo l’interrogatorio con le SS.

Dal carcere fui mandata in una caserma di corso Stati Uniti dove ho visto un duecento o trecento persone che nella notte sarebbero partite con me per un convoglio per la Germania probabilmente, a lavorare in Germania. Eravamo nella caserma in un grande stanzone. Ad un certo momento pioveva fuori, io avevo un impermeabile e mi misi un foulard in testa, avevo delle sigarette in tasca dell’impermeabile, e uscii da una porta. Mi incamminai lungo la caserma per l’uscita, mi fermai davanti alla sentinella tedesca SS, mi accesi la sigaretta e la salutai, e uscii fuori, corso Unione Sovietica. In quel momento passava il tram numero 8, era un tram che veniva dalla Fiat, senza porte, un tram degli operai quasi. Corsi davanti al tram che fece una frenata paurosa, salii sul tram e dissi: “Corra, corra, sono scappata, se mi prendono mi ammazzano.” Nessuno parlò, era pieno e nessuno aprì bocca; il tranviere fece due fermate e mezza e fermò il tram fra una fermata e l’altra, fermò. Io saltai giù, attraversai il cavalcavia di via Sacchi e corsi, corsi, corsi fino in piazza San Carlo e mi rifugiai nella farmacia di via Giolitti; sapevo che era uno nostro di GL il proprietario.

Di lì mi portarono al secondo piano dove c’era Gina Lupo, una nostra, una signora anziana che aveva già tenuto alcuni inglesi nascosti. Stetti tre giorni in casa di questa Gina in attesa che mi portassero in qualche posto. Al mattino del terzo giorno, alle 5 del mattino, bussarono alla porta e dissero: “Dateci Marisa Scala”: una seconda spiata.

Queste cose vanno dette perché, purtroppo, sono successi tanti fatti gravi in seguito a elementi che si erano intrufolati. Fui portata in Via Asti di nuovo, tre giorni.

Le SS mi ripresero, mi portarono di nuovo in carcere, alle Nuove. E Schumann mi disse: “Stavolta, mia bella signorina, Lei non scapperà più”. Nel convoglio, mi pare non ricordo più bene, fosse ottobre, fui ammanettata, caricata su un pullman insieme con altri.

Eravamo scortati da Brigate Nere, non SS. Arrivammo a Milano. A Casale ci fermammo. Io dovevo andare alla toilette. Non mi tolsero le manette e un ragazzo di 16 anni mi portò alla toilette, mi tirò giù le mutande e io feci la pipì. Poi me le tirò su.

Arrivammo a Milano e ci portarono nel carcere di S. Vittore fino al pomeriggio; poi ci intrupparono assieme con Vasari, Magini ed altri e partimmo per Bolzano, sempre ammanettata. Viaggiammo tutta la notte, l’indomani mattina arrivammo a Bolzano. Arrivata a Bolzano ricordo Muller o l’altro, non so: mi videro, mi guardarono con occhi un po’ particolari. Questa donna ammanettata! C’erano tanti uomini, donne non ce n’erano, eravamo soltanto in due.

Mi misero da una parte, mi misero. Poi tolsero le manette, mi misero nel blocco delle donne, e lì rimasi fino al gennaio del ’44, nel blocco. Non potevo uscire, andare a lavorare, la mia speranza era di unirmi a dei gruppi perché avevo anche la speranza di scappare.

D: Che anno era questo?

R: ’44, ’45; a cavallo del ’44 e del ’45. Natale ’44 lo feci in blocco.

In seguito ad una partenza, mi pare, di quel gruppo di Milano, di Vasari e altri, io fui convocata al comando insieme con la Margherita Montanelli, la moglie del giornalista, e accusata di aver passato aiuti, siccome il nostro blocco era vicino, attraverso le inferriate. Stiamo tutto il giorno al comando, terrorizzate tutte due perché non era una cosa piacevole; poi la Margherita la rimandarono nel blocco e io fui portata in cella. Non voglio parlare della mia deportazione in Bolzano che ho ripetuto, era una cosa dove si sopravviveva, direi benino, se noi pensiamo.

D: Ti ricordi il tuo numero di Bolzano?

R: Aspetta, ce l’ho qua: 6.678.

D: E il blocco in cui ti hanno messo, te lo ricordi?

R: Era il blocco delle donne. C’era un solo blocco e il capoblocco era una certa “Cicci” di Milano; non so per quale ragione fosse lì, come non seppi mai la ragione per cui tanta gente era in campo di concentramento. C’è stata la gente che si trovava nel posto sbagliato nel momento sbagliato, presa dai tedeschi. Comunque con me in blocco c’era la dottoressa Silvia Pons, socialista di Milano, la Schumacher di Trieste, l’altra dottoressa. Beh. Fui portata nelle celle e furono veramente quaranta giorni di terrore che passai: le celle erano dominio assoluto di due ucraini, due ucraini pervertiti, pervertiti non so se sessualmente, indubbiamente di cervello lo erano.

Non ho visto niente salvo la tortura di un giovane, che lo scambiavo quasi per mio fratello Remo perché gli assomigliava un pochettino. Però ho sentito per quaranta notti le urla e le imprecazioni, i lamenti di gente che veniva torturata, seviziata, stuprata da queste due bestie. Nel campo di Bolzano il vitto era quello che era, ma non si moriva di fame, si sopravviveva; se ci sono stati dei morti è perché sono stati ammazzati. Non morti di sfinimento come nei campi KZ, gente che aveva cercato di scappare, gente che aveva fatto cose che non doveva fare.

Mi risulta che dalle celle la mattina successiva, ogni tanto portavano fuori i morti nei sacchi. Di cosa erano morti? Ci sarà qualcuno che lo saprà. Io posso solo dire che gli urli erano tali che non li ho neanche sentiti nell’Albergo Nazionale dove sentivo lamenti quando interrogavano, a Torino. Dopo quaranta giorni fui rimessa nel blocco, tornai alla mia vita sedentaria lì, fino all’attesa della scarcerazione.

D: Quando eri rinchiusa a Bolzano non sei mai uscita a lavorare dal campo?

R: Mai uscita. Eh, era la mia speranza! Anche perché mesi di inerzia, seduta sul castello, seduta per terra, era già tremendo quello. E verso la fine, un mattino – noi avevamo un recinto dove potevamo uscire – chiusi in questo recinto metallico vidi un gruppetto al di fuori del nostro recinto, cinque o sei uomini vestiti da aviatori, col berretto, giubbotto. Era Edgardo Sogno, Catone, Mario Luino ed altri, che erano stati presi a Milano mentre tentavano di liberare Ferruccio Parri che era stato arrestato. Io ho riconosciuto Edgardo Sogno col quale avevo dei contatti a Torino, ero della Franchi, il servizio inglese di spionaggio. E lo chiamai: “Edgardo, Edgardo sono Marisa”. Lui mi guardò e fa: “Ma sei qua?” “Sì, sono qua” “Ti credevo in Germania” “No, sono qui” “A Torino come va?” “Lo sai cosa è successo?” “No” “Hanno ammazzato Duccio Galimberti”.

E’ stato l’altro grave colpo della mia vita, perché di Duccio Galimberti si dovrebbe parlare molto di più di quanto non si parli. Un uomo meraviglioso, un uomo pieno di vita, un uomo proprio trucidato dalle Brigate Nere di Cuneo per vendicarsi del nobile cuneese, figlio del senatore. Proprio la vendetta bassa, la vendetta animalesca quindi.

Fummo liberati. Rientrai assieme con un gruppo, col professor Meneghetti di Padova poveretto ed altri, col professor Zin, professore universitario di Torino, con Edgardo Sogno e con altri: rientrammo a Torino attraverso la Svizzera. Entrammo: Merano, la Svizzera, e poi ordinaria amministrazione.

Tengo a dire che rientrando a Torino ebbi notizie della mia famiglia, di mia madre che di quattro figli che aveva, uno era in guerra dal ’39 e non si sapeva niente. Mia sorella l’avevano presa, messa in carcere a Verona, agli Scalzi, ma era scappata durante un bombardamento e viveva un po’ nascosta; di mio fratello Remo non sapeva niente e di me pure. Io avevo un peso sullo stomaco, il peso di mio fratello, perché essendo più vecchia di cinque anni ed essendo stata edotta in certe cose più di lui, in fondo l’avevo portato in montagna.

L’avevo portato? Era cosciente di quello che faceva ma insomma ero la sorella più vecchia e avevo un certo qual rimorso. Allora mi buttai a una cosa. Intanto sapevo che a Bolzano c’era la Lancia, che era sfollata da Torino. Difatti per chi scappava dai campi di concentramento l’unica salvezza era di infilarsi alla Lancia dove gli operai non li mettevano nel forno, è chiaro, ma li nascondevano dietro i forni, non so. Andai alla Lancia e dissi: “Io devo andare a Bolzano, so che voi avete…”, “Noi abbiamo i camion che vanno.”

Partii la prima volta da Torino a giugno, su un camion della Lancia, seduta su dei cassoni dietro, Torino-Bolzano. Non cabina. Arrivai a Bolzano e seppi che cominciavano a rientrare i prigionieri della Germania, militari, politici, eccetera.

Ma non vidi dei prigionieri, ebbi notizie. Col primo camion di ritorno tornai a Torino e da quel momento cominciai ad andare alla Fiat da Aurelio Peccei e poi dalla Maria, la mia cara amica, che era la segretaria dell’ufficio stampa della Fiat.

Dissi ad Aurelio Peccei: “Voglio un’autoambulanza, me la devi dare, devo andare a Bolzano”. La Fiat mi prestò la prima autoambulanza con autista, e arrivammo a Bolzano. A Bolzano ci avviarono a delle scuole dove c’era gente per terra, sdraiata, malata, non malata, eccetera. Lì facemmo un primo carico.

Io dicevo: “Torino, Piemonte”, perché mi pareva che prendere un napoletano dovevo portarlo a Torino, speravo che altre regioni portassero i loro insomma. Ormai l’Italia era stata liberata. E infatti feci due viaggi. Il primo con l’autoambulanza della Fiat, il secondo con l’autoambulanza dell’Ordine di Malta per la quale fui accusata dall’Associazione Deportati di essere una monarchica. Cosa che, se lo fossi stata, non c’era niente da vergognarsi perché i due fratelli Valenzano, nipoti di Badoglio, sono stati presi, con le armi in pugno, dai tedeschi e portati a Mauthausen.

La terza volta, che fu ai primi di luglio, andai con un’altra autoambulanza della Fiat.

In una scuola vedevo la gente che si lamentava per terra nel semibuio.

Mentre passavo e dicevo: “Torino, Piemonte, Piemonte, Torino, Cuneo” mi sentii tirare la gonna. Guardai e vidi una persona, subito non capii se era un uomo o una donna perché vidi una cosa per terra nel semibuio. Poi mi sentii chiamare per nome: era Luigi. Di nuovo rividi gli occhi che avevo visto nel ’42 a Castelfranco Emilia.

Voi direte che sono monotona, non sono monotona: Luigi ha parlato con gli occhi e vissuto coi suoi occhi, non coi polmoni, non col suo sistema sanguigno.

Lo presi in braccio ma mi scivolò via, perché pur essendo ridotto pelle e ossa era molto alto. Lo caricammo sull’autoambulanza insieme ad altre cinque persone.

Sull’autoambulanza avevamo delle assi perché ogni tanto c’erano delle buche verso Trento per i bombardamenti e dovevamo mettere le assi per passare. Sul lago di Garda ci fermammo per lavare un po’ il sangue dall’autoambulanza perché eravamo un po’ tutti pieni di sangue.

Arriviamo a Torino, mi pare due giorni, un giorno e mezzo, è stato un viaggio tragico. A Torino ci aspettavano, sapevano già di Luigi, ad una clinica in collina dove fu ricoverato. La prima cosa che disse il professor Penati allora: “Caro amico Luigi sta morendo, non può vivere in queste condizioni”. Era cardiologo ma bastava fosse medico. In quella piccola stanza visse otto, nove giorni e passò tutta Torino, cioè la Torino GL, la Torino comunista. Lui aveva un sorriso e una parola per tutti, però la sua parola era: “Marisa ho visto Torino libera, Torino libera, il sogno della mia vita”. Aveva pagato molto caro il sogno della sua vita.

Andai a prendere la madre che non lo vedeva dal ’43, che lo credeva in un sanatorio in Svizzera e che su un giornale di GL aveva letto: “E’ tornato Luigi da Mauthausen, ma sta morendo”. La Fiat mi dette una macchina, andai a prenderla nella sua piccola proprietà, la portai a Torino. Si chiuse in questa stanza a Torino per un’ora, sola. Dopo un’ora, un’ora e mezza uscì e mi disse: “Mi vorrei riposare un po’, c’è un salotto?” Si riposò un’oretta e poi mi disse: “Mi puoi portare a casa adesso.”

Riprendemmo la macchina e ritornammo a Cuneo, aveva salutato suo figlio.

Luigi moriva dopo due, tre giorni. Tutta la notte lo abbiamo tenuto, io una mano, il fratello l’altra. Ci guardava, sorrideva. Gli demmo l’ossigeno e poi morì.

Vorrei che ricordaste non i funerali perché era ateo per cui è stato portato davanti alla Madre di Dio, ma l’orazione funebre del professor Monti, una cosa toccante; dice: “Ma cosa è servito liberare Roma se non c’è più, ……. non mi ricordo il nome. Cosa è servito liberare Torino se non c’è più Luigi Scala”. Il famoso, quello che ha un nome strano, quella moglie brutta. Amnesie. Comunque l’orazione di Monti è una cosa epica, ve la farò avere, è una cosa meravigliosa.

D: Marisa, la tua Liberazione del campo di Bolzano come te la ricordi?

R: Me la ricordo in modo strano perché noi al mattino aspettavamo che da fuori tirassero il catenaccio per aprire la porta per la conta, la famosa conta, ma quel mattino qualcuno, non so chi forse io forse un altro, appoggiandoci alla porta quasi cademmo perché la porta era aperta. Cominciammo a uscire nel campo.

Però siccome cinque giorni prima, o sei o sette, era arrivato un pullman della Croce Rossa Internazionale in campo e aveva raccolto tutti gli ebrei e li aveva portati via, allora noi politici abbiamo bestemmiato tutto quello che era possibile bestemmiare perché insomma “E noi chi siamo?” Aspettavamo anche noi il camion della Croce Rossa Internazionale.

Nel frattempo sentivamo “radio bugliolo”, noi la chiamavamo, sentivamo bombardamenti giorno e notte, i treni non passavano più.

Quel mattino siamo usciti, qualche donna è uscita, poi abbiamo visto degli uomini pure uscire. Ci guardavamo interrogandoci e guardavamo anche nelle torrette: nelle torrette non c’era più nessuno. Allora poi ci siamo fatti coraggio naturalmente, ci siamo incolonnati e siamo usciti da quel famoso cancello che esiste ancora adesso a Bolzano, con l’entrata.

D: Questo quando era?

R: Il 28 o 29 aprile, prima di maggio.

D: E una volta uscita dal campo cosa hai fatto?

R: Una volta uscita dal campo, siccome il campo allora era in campagna, c’erano delle piante da frutta. C’era della gente ed era il Comitato di Liberazione di Bolzano, esisteva e ci chiamavano: “Venite, venite, venite”. Noi eravamo titubanti perché insomma avevamo sempre paura di una mitragliatrice, di qualcosa.

Poi ci siamo incamminati. Nel frattempo Edgardo Sogno fa: “No, no, siamo liberi, siamo liberi”, ha parlato con uno e in un gruppetto di venticinque persone ci hanno portato a mangiare in un palazzo a Bolzano, non so dove, non so da chi, comunque era uno dei nostri insomma che ci dette da mangiare e ci disse che appunto si era procurato questo mezzo e che saremmo partiti per Merano.

Il tragico era che arrivati al confine fra Merano e la Svizzera, non so come si chiami, c’era ancora la postazione tedesca che non aveva avuto l’ordine di lasciare mentre a Bolzano non esisteva più nessuno. Lì ci fermarono, non volevano farci scappare. Per fortuna un socialista, mi pare il conte Soleri di Venezia, aveva conosciuto a suo tempo il capitano che comandava questa postazione, tedesco. Si avvicinò, avendolo riconosciuto, in tedesco gli disse: “Ma noi siamo stati liberati dal campo di concentramento di Bolzano, non esistono più i tedeschi né a Bolzano né a Merano, in nessun posto, voi cosa fate ancora qui?”. Questo ci guardò sconsolato e fece alzare le sbarre; di là c’erano gli svizzeri che ci chiamavano. Naturalmente gli svizzerotti, da bravi svizzerotti, siccome Edgardo Sogno si mise subito in contatto con il comando inglese a Berna, ci risparmiarono la quarantena. Però ci fecero salire su camion militari svizzeri, scortati, senza mai scendere, tutto il Parco Nazionale svizzero in braghette di tela, un freddo boia.

Rientrammo in Italia attraverso la Valtellina, dico bene? Non mi ricordo più.

Lì c’erano al confine altri che avevano saputo nel frattempo e che ci raccoglievano, ci portavano a Milano. Vi dico una cosa che ci tengo a dire.

Io andai nella casa del giornalista Angiolillo, amico di Montanelli, assieme con la moglie. Siamo stati invitati al pomeriggio alle 7 ad un ricevimento a Milano.

Dunque, voglio che capiate cosa voglio dire. Eravamo rientrati da un campo di concentramento, a Milano si davano già i ricevimenti, e noi siamo stati invitati al ricevimento.

Todros Alberto

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Alberto Todros, nato a Pantelleria il 21.7.1920.

D: Quando?

R: 21.7.1920.

D: Alberto, i motivi dell’arresto, del vostro arresto.

R: Per individuare i motivi dell’arresto devo fare una premessa. Io sono figlio di un matrimonio misto tra un ebreo e una cattolica. Cattolica mia madre, ebreo mio padre. Durante la Prima Guerra Mondiale mio padre era di stanza a Pantelleria, ha conosciuto mia madre e si è sposato appena finita la guerra nel 1918, fine del ’18, inizio del ’19. Ha portato mia madre a Torino, per cui io sono nato a Pantelleria perché come tutti i siciliani, come tutte le donne siciliane, quando devono partorire, vanno presso i genitori a Pantelleria. Infatti anche mio fratello Carlo è nato a Pantelleria. Trasferiti a Torino, nel ’25 ho perso il padre, per cui ho vissuto con la madre, sostenuto dai nonni paterni. La vita è stata una vita di stenti, difficile, perché senza padre a Torino non era facile vivere. Però ho potuto fare gli studi fino all’università, quando ad un certo momento nel 1938 durante il fascismo sono state promulgate le leggi razziali. Qui c’è la prima origine del mio interessamento alla politica, in quanto essendo figlio di matrimonio misto, non battezzato perché i miei genitori avevano deciso che ci saremmo battezzati, avremmo fatto la scelta religiosa alla maggiore età, non battezzato, sono stato dalle leggi razziali dichiarato di razza ebraica. Perciò espulso da tutte le scuole pubbliche. Per poter continuare ho dovuto iscrivermi all’Istituto San Giuseppe dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Torino, perché era ammessa, essendo mia madre cattolica, la possibilità di continuare gli studi nelle scuole private. Ho fatto il liceo scientifico e appena finito il liceo scientifico le leggi razziali erano già state promulgate, non avrei potuto iscrivermi all’università. Qui c’è un episodio importante della mia vita: essendo intenzionato a continuare poiché essendo dichiarato di razza ebraica col liceo scientifico non avrei potuto fare nulla come occupazione, mi sono recato al Politecnico dove ho incontrato il direttore amministrativo, che si chiamava Martini, al quale ho chiesto, essendo figlio di matrimonio misto, battezzato, perché mia madre mi aveva poi fatto battezzare, di iscrivermi al Politecnico, anche se dichiarato di razza ebraica. Naturalmente tralascio tutte le vicende, sono state vicende lunghe che mi hanno portato ad un colloquio col Preside del Politecnico, dopodiché hanno accettato che io mi iscrivessi al Politecnico prendendomi la responsabilità di dichiararmi di razza ariana. Mi sono iscritto al Politecnico e ho fatto il primo biennio. Però da quel momento la mia attività si è svolta contro il fascismo che mi aveva così emarginato, creato mille problemi, dichiarato di razza ebraica anche se io mio padre lo avevo conosciuto fino a cinque anni, cioè per pochissimo tempo. Quando il Politecnico è stato bombardato io mi sono trasferito con la famiglia ad Imperia, ad Imperia Porto Maurizio dove ho continuato a fare dei viaggi di studio ad Acqui dove era stato trasferito il Politecnico. Viaggi che sono stati interrotti, perché durante un viaggio, io ero all’età della leva, però essendo dichiarato di razza ebraica ero stato escluso dal servizio militare, di conseguenza mi trovavo senza documenti militari e con la mia età… una pattuglia ha rastrellato il treno. Io ho capito che se mi prendevano mi avrebbero arrestato, mi sono gettato giù dal treno e non sono più andato ad Acqui per evitare inconvenienti di questo tipo. Però a Porto Maurizio proprio per la mia origine e le vicende che avevano tratteggiato la mia vita mi sono gettato nella politica con un primo contatto con un gruppo di giovani antifascisti, coi quali facevamo delle riunioni clandestine, divulgavamo la stampa clandestina di quel tempo e discutevamo sul da farsi per lottare contro il fascismo. Fino a che è venuto l’8 settembre.

D: Scusa Alberto, con te c’era anche tuo fratello?

R: Mio fratello è venuto dopo. Nel primo periodo delle riunioni con questi giovani antifascisti c’era un giovane comunista, c’era un liberale, c’era un giovane del Partito d’Azione, c’erano diverse componenti dell’antifascismo giovanile di allora. E’ intervenuto l’8 settembre, avevamo avuto notizie che i tedeschi si avvicinavano ad Imperia, occupavano la Liguria. Da allora per evitare che le armi che esistevano ad Imperia cadessero in mano ai tedeschi la prima cosa che abbiamo fatto con questo gruppo di giovani, siamo andati sul molo d’Imperia. Ad Imperia c’è un lungo molo che penetra nel mare per circa settecento metri. Abbiamo buttato in mare tutti gli otturatori dei cannoni antisbarco. Poi siamo andati alla capitaneria del porto dove abbiamo gettato in mare delle casse di munizioni, pistole, mitra, tutto quello che abbiamo trovato. Poi ci siamo recati alla caserma della quarantunesima fanteria tra Porto Maurizio e Oneglia, abbandonata dall’esercito perché l’8 settembre l’esercito si è sciolto, sono scappati tutti. Abbiamo incominciato, ed è qui che è entrato mio fratello, con alcuni giovani raccolti a Imperia abbiamo iniziato a trasferire le armi che abbiamo trovato in un rudere nella collina antistante la caserma della quarantunesima fanteria. Durante uno di questi viaggi un compagno di scuola mi ha visto da lontano, dalla collina di fronte e questo fatto si è poi tradotto nel motivo fondamentale del mio arresto, perché ad un certo momento verso le 18.00 dell’8 settembre abbiamo avuto notizia che i tedeschi erano arrivati ad Imperia. Per cui la prima cosa che si pensava facessero era di recarsi nella caserma per vedere cosa era successo. Abbiamo abbandonato il trasferimento delle armi e ci siamo recati nelle nostre abitazioni. Questo compagno di scuola appena i tedeschi hanno preso possesso della città e ristabilito le cariche fasciste e tutto l’apparato fascista che si era dileguato all’8 settembre, appena stabilito questo rapporto ha fatto una denuncia. Questa denuncia è andata in prefettura, il prefetto, che era ancora il prefetto del periodo badogliano, ha ordinato immediatamente l’arresto. Di conseguenza la milizia volontaria ha fatto il primo arresto. Io in quel periodo per poter vivere facevo il supplente in una scuola magistrale superiore di un comune vicino a Imperia dove la scuola dopo i bombardamenti si era trasferita, Ponte Dassio. Mentre sto facendo lezione arriva il commesso e mi invita a recarmi in presidenza. Mi reco in presidenza e in presidenza trovo i poliziotti della questura di Imperia che mi dicono che devo recarmi con loro dal questore per un interrogatorio. Mi portano sotto, mi caricano su una macchina, vanno ad Imperia. Quando arrivano a Oneglia, anziché proseguire per la questura, mi scaricano al carcere di Imperia. E lì è il primo arresto.

D: Quando è avvenuto questo?

R: Questo è avvenuto ai primi di ottobre del ’43. Ai primi di ottobre del ’43 mi portano nel carcere a Imperia dove trovo tutto il gruppo che aveva con me fatto il trasferimento di armi dalla caserma della quarantunesima fanteria alla collina di Imperia. Rimaniamo ad Imperia in carcere, ritrovo mio fratello, sono nella stessa cella con mio fratello. Il capo del carcere, un certo Cangemi, era un antifascista. Di conseguenza ci ha molto aiutato per i rapporti con la famiglia. Potendo avere rapporti con la madre io mi sono ricordato che il figlio del prefetto era un mio carissimo amico. Allora io invito mia madre ad andare a parlare al figlio del prefetto, il quale parla al padre e il padre che cosa fa? Stabilisce che ci può rilasciare considerando i fatti che abbiamo compiuto come una ragazzata. Io ero il più vecchio, avevo ventitré anni, gli altri erano tutti più giovani di me. Per cui dopo quindici giorni di carcere ci mettono fuori. Io riprendo a fare lezioni all’Istituto Magistrale Superiore di Fisica e Matematica quando un giorno il verbale del prefetto va in mano alla Gestapo, la quale non crede che quanto asserito dal prefetto sia un fatto da lasciare non colpito e ordina l’arresto di tutti i sette ragazzi che avevano fatto l’azione l’8 settembre. Per cui ad un certo momento i carabinieri, invitati dalla Gestapo, si recano nelle case di tutti i sette ragazzi e non trovano nessuno, perché erano tutti fuori casa e li invitano a recarsi dai carabinieri. Loro discutono se recarsi dai carabinieri o no, poi ad un certo momento, dato che tra i sette c’era il figlio di un comandante della Milizia, Gazzano, il quale dice: “Se ci fosse stato qualcosa di particolare mio padre sarebbe stato avvisato”, decidono di presentarsi. Si presentano tutti e sei dai carabinieri, i quali li arrestano, li ammanettano, li legano alla catena tre e tre e li portano da Porto Maurizio di nuovo al carcere di Imperia. Io non c’ero perché ero a lezione di matematica a Ponte Dassio. Quando torno da Ponte Dassio e passo davanti al municipio d’Imperia li vedo tutti e sei arrestati coi carabinieri che vanno verso il carcere. Vado a casa, mia madre disperata dice: “Hanno arrestato di nuovo tuo fratello, scappa almeno tu”. Io vengo preso da un tormento: scappare o non scappare? Poi a un certo momento, dato che ero il più anziano e responsabile dell’azione, ho deciso di presentarmi ai carabinieri. Di fatti ho preso un pacchetto con la biancheria, mi sono presentato alle tre ai carabinieri, i quali, meravigliati, mi hanno preso e mi hanno portato in carcere.

D: Questo quando?

R: Questo sempre nel novembre del ’43. In carcere ad un certo momento è arrivato l’ordine di passaggio alla Gestapo di Savona. Allora ci hanno preso dalle celle, tutti e sette ci hanno caricati su un furgoncino e ci hanno portato a Savona. A Savona nella piazza della stazione c’era un albergo occupato dalla Gestapo. Ci hanno consegnato alla Gestapo, la quale ci ha trasferito al carcere di Savona. Il carcere di Savona era un carcere vecchissimo, terribile, senza i confort normali di un carcere, per cui noi siamo stati scaraventati in una cella con dei delinquenti comuni, con dei ladri, con dei prigionieri comuni. Siamo stati lì alcuni giorni, fino a quando verso la fine di novembre un giorno ci hanno fatti uscire dalle celle insieme ad altri, ci hanno portato nel cortile. Nel cortile c’era un furgoncino, ci hanno caricato su quel furgoncino e ci hanno portato a Marassi di Genova sotto la SS. A Marassi di Genova siamo entrati in questo carcere che era terribile, perché non si usciva a prendere aria, si mangiava una volta al giorno, una fetta di pane e un cucchiaio di zuppa, non si poteva stare seduti sul letto, la sentinella controllava dallo spioncino in continuazione. Bisognava stare in piedi, tutte le mattine c’era l’ispezione del comandante del carcere della SS che ci faceva mettere in perfetto ordine d’altezza, controllava se i letti erano fatti alla perfezione. Se non erano fatti alla perfezione succedevano dei pasticci. Di conseguenze è stato un periodo dove sia per la mancanza di aria che per il vitto scarso siamo tutti quanti deperiti abbastanza. Per cui quando nel febbraio del ’44 è arrivato l’ordine di trasferimento a Fossoli di Carpi eravamo tutti già abbastanza provati, deperiti e provati per il carcere che avevamo subito. Ci hanno caricati su un carro merci e coi binari che erano davanti al carcere ci hanno portato alla stazione. Lì un fatto particolare: mentre formavano il treno che sarebbe andato a Fossoli, davanti al treno che si stava formando è passato un treno della Genova Ventimiglia sul quale c’erano dei conoscenti di Imperia. Quando mi hanno visto, io ho detto: “Voi dove andate?”. Loro hanno detto: “A Imperia” dal finestrino, “Tu chi sei?”. Ho detto il mio nome, mi ha detto: “Non ti riconoscevo più” tanto ero deperito. Allora ho potuto attraverso di loro mandare notizie a mia madre. Siamo partiti, siamo arrivati a Fossoli e a Fossoli la scena che si è manifestata all’entrata nel campo è stata una scena terribile, perché si passava per arrivare al campo politico davanti alle baracche dove c’erano gli ebrei, dove c’erano bambini che giocavano all’esterno. Era quasi sera. Giocavano all’esterno delle baracche dove c’erano dei vecchi. C’era una popolazione di ebrei che aspettava di essere trasferita al campo di concentramento. Siamo entrati nella baracca numero 10 di Fossoli e a Fossoli si è sparsa una prima voce che saremmo stati liberati se aderivamo alla Repubblica Sociale. Dato che la baracca non era ancora organizzata, mancavano i castelli, mancavano i materassi, mancava tutto quanto necessario per poter vivere, durante la notte abbiamo discusso cosa fare. Una parte ha optato per presentarsi per poi scappare e andare in montagna, una parte ha deciso di non presentarsi e io e uno dei due fratelli Serra, perché con noi c’erano altri due fratelli, abbiamo deciso di non accettare. Ma la cosa non era vera, infatti alla mattina non se n’è nemmeno più parlato. La nostra vita a Fossoli è stata una vita abbastanza interessante, perché eravamo all’aperto, si lavorava in lavori molto leggeri, ricevevamo i pacchi dalla madre, che intanto si era trasferita a Carpi, ci mandava tutti i giorni il pacco dei viveri, si poteva discutere. E’ lì che io ho avuto i primi incontri politici con alcuni comunisti e socialisti, che facevano durante le ore di riposo le scuole di partito ai giovani. La vita è andata avanti fino a giugno del ’44, quando una mattina si è sparsa la voce che il giorno dopo ci sarebbe stato un trasporto per la Germania.

D : Scusa, Alberto, a Fossoli ti hanno immatricolato?

R : Sì, mi hanno immatricolato. Io avevo una delle prime matricole, adesso non mi ricordo nemmeno più il numero, mi sembra il 10, perché il campo politico è stato costituito con il nostro gruppo. Poi sono arrivati da Genova, da Milano, da Torino, sono arrivati altri prigionieri e siamo diventati un gruppo numeroso. Tralascio tutti i tentativi di fuga fatti, perché sono scritti in un libro di memorie che io ho compilato. Fino a che, arrivata la notizia, una mattina si è presentato il maresciallo delle SS, ha incominciato a chiamare un certo numero di persone e man mano che li chiamava si allineavano da una parte. Dopodiché sono arrivati dei pullman, ci hanno caricato sui pullman e portati alla stazione di Carpi. Durante l’andata alla stazione si doveva compiere un tentativo di fuga che non si è compiuto, però è descritto in un libro che Bonfantini, uno dei prigionieri che era con noi, ha scritto, “Il salto nel buio”, dopo il ritorno. Siamo arrivati alla stazione di Carpi, ci hanno caricato su questi carri bestiame, cinquanta, sessanta per carro. Era giugno, faceva caldo. Mia madre intanto, che aveva ottenuto a Verona dalle SS il permesso per venirci a trovare a Fossoli al campo di concentramento, quando è arrivata le hanno detto che noi stavamo partendo per la Germania. E’ venuta alla stazione, tramite l’aiuto della popolazione di Carpi, che è una popolazione meravigliosa, che ha fatto delle cose meravigliose per l’antifascismo, ha raccolto dei viveri, dei vestiti ed è venuta alla stazione. Ha cercato di avvicinarsi al treno, inizialmente le SS non l’hanno lasciata venire, poi resistendo e scavalcando un muretto si è avvicinata al vagone, ci ha consegnato questi viveri e questi abiti. Il treno ad un certo momento hanno chiuso i vagoni ed è partito. Tra l’altro, alla partenza ci hanno detto che durante il viaggio per ogni prigioniero che sarebbe scappato, all’arrivo dieci sarebbero stati fucilati. Ad un certo momento con noi nel vagone c’era un anarchico di Genova che era un uomo coraggiosissimo, che era già scappato due volte dalla SS, il quale alla partenza, mentre noi abbiamo ricevuto i bagagli dalla famiglia, lui ha consegnato alla moglie tutti i suoi bagagli, ha detto: “Ci vediamo in tal posto, perché io scappo”. Infatti appena chiuso il vagone ha incominciato a tentare di tagliare il fondo del treno, perché gli addetti alla stazione di Carpi ci avevano consegnato un fiasco di vino con dentro un fascio di lime per il ferro e poi una mezza forma di formaggio, ci avevano dato un mucchio di cose. Per cui questo qui con le lime che aveva trovato nella valigia ha incominciato a segare il fondo del treno. Però era giorno, non si poteva scappare in quel modo, perché la SS occupava un intero vagone e controllava tutti gli altri vagoni. Per cui ci siamo messi d’accordo a una certa ora, appena veniva buio, di tagliare il filo spinato che c’era sul finestrino del vagone, calarsi giù uno alla volta. Lui si è proposto di essere il primo, con l’impegno di attaccarsi alle sbarre di apertura del vagone e aprire la porta del vagone. Infatti questo qui ad una certa ora, appena si è fatto buio, io ero sotto il finestrino, l’ho aiutato a salire, è uscito dal vagone, sì è trasferito davanti alla porta e ha aperto la porta del treno. Appena aperta la porta, io l’ho tirata, tre o quattro sono saltati giù, io ho chiamato mio fratello. Mio fratello, faceva molto caldo, eravamo tanti nel vagone, si era addormentato, per cui si è svegliato. Nel momento in cui arriva fino alla porta del vagone, il treno si ferma a Rovereto, per cui non siamo potuti scappare. Dopo la partenza abbiamo tentato di rifare lo stesso gioco altre volte, ma non ci siamo più riusciti, perché gli altri prigionieri si sono opposti dicendo: “Una volta possiamo dire che l’hanno aperta dall’esterno, lo facciamo due volte ed è la fine di tutti”. Per cui siamo arrivati a Mauthausen. L’arrivo a Mauthausen è una cosa allucinante: di notte, con questi SS coi cani, con le grida, i colpi col calcio del moschetto, del fucile se non facevamo presto. Siamo scesi dai vagoni, ci siamo incolonnati e abbiamo iniziato la salita verso Mauthausen, perché Mauthausen è in cima a una collina e ci sono parecchi chilometri per poter salire. Io e mio fratello avevamo i bagagli che ci aveva dato la madre. Durante la salita non ce la facevo a portarli su e lui continuava a dire: “Resisti, resisti che questi saranno la nostra salvezza”. Ad un certo momento con molta fatica resistendo a lasciare i bagagli vediamo nel cielo una luce che man mano ci avviciniamo aumenta. Sembrava un incendio. Invece, era l’illuminazione del campo. Quando arriviamo davanti al campo si aprono le porte del campo e noi entriamo dentro questo campo di concentramento che aveva un grosso piazzale, a destra c’erano la lavanderia, la cucina, l’ospedale e a sinistra tutte le baracche. Entriamo e ci mettono tra il muraglione, sembrava una fortezza con dei muraglioni alti tre metri con sopra il filo spinato con l’alta tensione. Ci mettono tra la baracca della lavanderia e il muro per la notte, perché siamo arrivati a sera tarda. Tra l’altro, pur essendo in giugno faceva freddo. Vediamo delle ombre che si avvicinano, che sono come dei fantasmi, perché hanno la testa rapata con una striscia in mezzo alla testa, poi hanno dei vestiti con tanti tasselli di colore diverso, un numero. Sono prigionieri del campo che si avvicinavano e ci dicono: “Domani vi porteranno via tutto, perciò date a noi i valori che avete e noi, quando ritornate nel campo, ve li restituiamo, oppure date a noi i valori che vi diamo una bottiglia d’acqua” perché eravamo tutti assetati dopo un giorno e una notte passati nel vagone, eravamo tutti assetati. Allora molti accettano, lì succede una scena che a raccontarla sembra ridicola, che tutti cercano di mangiare tutto quello che possono. Appena sanno che gli portano via tutto, mangiano lo zucchero, mangiano quello che possono. Alla mattina arriva la SS, ci fa spogliare completamente, si ritira da una parte i documenti, i gioielli, i soldi, tutto quello che abbiamo. Mette i vestiti su un mucchio di vestiti e poi, mano a mano che siamo spogliati, ci manda sotto la lavanderia, c’erano le docce.

Ci manda sotto le docce dove nella prima camera c’erano degli altri prigionieri che con un rasoio senza sapone, senza niente ci depilano completamente, sia i peli del pube che le ascelle, i capelli. Ci depilano completamente e poi ci mandano in un secondo salone dove ci sono le docce. Uno alla volta veniamo messi tutti lì dopo essere stati classificati, catalogati, prima di entrare …. Quando siamo tutti dentro questa grande doccia esce l’acqua, ci fanno la doccia, naturalmente doccia senza sapone, senza niente. Poi usciamo dall’altra porta e ci sono due mucchi di vestiti, mutande e camicia. Si passa davanti ad un mucchio, ci danno una camicia, dall’altro le mutande e poi fuori. Naturalmente non essendo scelte c’era il magro che aveva le mutande grandi, il grasso che aveva le mutande piccole, tra noi facciamo dei cambi per avere il minimo della possibilità di vestirci con questi. Poi ci mettono in fila e ci portano nei blocchi di quarantena. La quarantena era un periodo che si passava in un blocco tra una baracca e l’altra, era il periodo più terribile del campo dove avveniva la prima eliminazione. Tutti i deboli che non resistevano venivano subito mandati all’ospedale ed eliminati. In questa quarantena io ero al blocco 17, erano quattro blocchi di quarantena, 15, 16, 17, 18, poi c’erano due blocchi, 19 e 20, che erano i blocchi della morte. Pur essendo all’interno del campo avevano una seconda cinta che li ricingeva e lì dentro venivano mandati i condannati a morte, erano trattati…tra poco lo descriverò quando tratterò della fuga che hanno tentato. In quarantena la vita era terribile perché si stava in piedi tra i due blocchi, senza scarpe, con camicia e mutande. Questo avveniva per noi fortunatamente a giugno, ma per gli altri anche a gennaio. Si stava lì in mezzo, sempre in piedi, non si beveva, non si poteva far niente se non chiacchierare tra noi, non ci si poteva sedere per terra perché il capo della baracca subito arrivava col manganello di gomma e ci dava delle bastonate. Ad un certo momento alla mattina ci mettevamo in fila e facevamo la ginnastica col cappello: “Mutzen ab, Mutzen auf”, cioè su e giù il cappello. Poi arrivava l’orzo, il mestolo di orzo che ci davano. Tra l’altro avevamo poche gamelle, per cui ce la passavamo uno con l’altro. Poi rimanevamo lì, a mezzogiorno ci davano un mestolo di zuppa di rape che era terribile, i primi giorni non si riusciva a mangiare, poi la fame faceva mangiare anche quella zuppa. Dopo si passava al pomeriggio, alla sera davano una fetta di pane e un cucchiaio di margarina. Poi ci facevano mettere, questa è la cosa più allucinante, in fila e ci portavano dentro il baraccone dove c’era il camerone per dormire. C’erano dei materassi di paglia per terra. Ci portavano a due per volta e ci mettevano uno con la testa e uno coi piedi, come le acciughe, uno con la testa e uno coi piedi. Finita la prima fila c’era un piccolo corridoio in mezzo, seconda fila, un altro corridoio, terza fila. Naturalmente quando non ci stavamo tutti, perché eravamo molti, veniva il comandante con questo bastone di gomma a picchiare per farci stringere, stringere e far entrare quelli che erano rimasti fuori. Naturalmente si passava lì la notte senza poter dormire, perché io cercavo di avere sulla faccia i piedi del fratello o dell’amico e di conseguenza era meno… Tra l’altro i piedi scalzi dopo essere stati tutto il giorno nel cortile fangoso. Alla mattina ci si alzava, ci si doveva lavare nel Wascheraum, che era una vasca con tanti zampilli dove ci si lavava alla bell’e meglio. Poi si tornava fuori, si stava così quaranta giorni. Al quarantesimo giorno o trent’otto, trentasette secondo i bisogni veniva il trasferimento al comando di lavoro. Allora veniva la SS con un elenco, chiamavano un certo numero di nomi e questi che venivano chiamati venivano inquadrati a parte, poi uscivano dalla quarantena, li vestivano con la giubba di tela e i pantaloni di tela e gli zoccoli e andavano nel comando cui erano destinati, perché erano destinati ai vari comandi di lavoro attorno a Mauthausen, nelle officine, in vari luoghi dove c’era il lavoro forzato. Io non vengo chiamato, mentre mio fratello viene chiamato. Io non sono stato chiamato perché arrivando a Mauthausen ho detto che ero studente d’ingegneria e sul mio cartellino hanno scritto “Bauteckniker”, tecnico in costruzioni, perché ero studente di ingegneria civile edile. Tecnico in costruzione, perciò come specialista non vengo chiamato. Qui era un comando di manovali, di fatti sono stati portati a Melk e la metà è morta subito, dopo i primi mesi. Non vengo chiamato, non mi ero mai diviso dal fratello. Vado dal segretario del Baukomando e chiedo di non dividermi dal fratello, di mandare anche me in questo comando. Lui prende il mio cartellino e dice: “No, tu non puoi perché sei tecnico specializzato, devi rimanere qua”. “Allora lasci mio fratello qua”. Quello dice: “Non posso, non posso”. Poi con la mia insistenza cosa fa? Prende mio fratello, lo toglie dal comando, lo rimette in quarantena e mette al suo posto un altro prigioniero. Il giorno dopo io vengo chiamato al Baukomando e mio fratello invece rimane in quarantena. Vengo chiamato al Baukomando che era il comando costruzioni. Tutte le mattine alle 7.30, alle 8.00, secondo la stagione alle 8.30 venivamo inquadrati nella piazza d’appello e portati fuori a fare dei lavori edili, strade, baracche, a fare dei lavori, muretti di recinzione, a fare dei lavori. Io vengo destinato al gruppo degli scaricatori. Ad un certo momento arrivavano camion pieni di ghiaia, cemento, sabbia, materiali edili. Io dovevo tutto il giorno scaricare questi materiali e portarli nel deposito.

D: Scusa una cosa, Alberto. Quando vi hanno immatricolati a Mauthausen?

R: Appena arrivati.

D: Ti ricordi il tuo numero?

R: 77.604. Era molto importante perché da quel momento la nostra identità è scomparsa e siamo diventati dei numeri. Faccio questo lavoro con la preoccupazione, tornando in campo tutte le sere, di non trovare più mio fratello. Faccio questo lavoro per quindici giorni, è un lavoro faticoso, sento che non ce la faccio più. Combinazione, il segretario di questo comando era un delinquente comune, un ergastolano viennese, il quale quando ero arrivato aveva sentito che io ero italiano, lui amava molto Venezia, Roma, Firenze, per cui si ricorda di me e mi manda a chiamare dal luogo dove scaricavo i camion. Mi mette un registro davanti di pagine bianche e mi chiede se sono capace di fare le linee nei fogli tutti uguali, dato che sono studente di ingegneria dovrei essere capace. Mi mette alla prova. Naturalmente io lo faccio, lo faccio molto bene perché erano fogli a quadretti, per cui era facile col righello fare tutte queste righe. Lui contento dice: “Va bene, allora rimani qui a lavorare con me”. Mi mette a lavorare in una baracca al caldo. Questo qui era uno dei primi arrivati a Mauthausen, un Kapò, mangiava ogni ben di Dio perché facevano il traffico con l’esterno, con i gioielli dei deportati. Mi faceva sedere vicino, ogni tanto si faceva delle grosse pastasciutte. Tra l’altro essendo viennese faceva con lo zucchero e il cioccolato. Quando rimaneva un po’ me lo passava. Era il dolce più prelibato che ho mai mangiato nella mia vita. Dopo una settimana di questo lavoro al chiuso, al caldo, al coperto mi dice: “Ma come mai sei qui tranquillo e sei sempre lì preoccupato, silenzioso?”. Gli dico: “Io ho mio fratello in quarantena, tutte le sere che vado su ho paura di non trovarlo più”. Mio fratello in quarantena quando andavo a trovarlo alla sera, perché alla sera dopo il lavoro, dopo aver mangiato avevamo mezz’ora e potevamo girare nel campo, andavo verso la quarantena e alla quarantena lo trovavo e diceva: “Hai fatto male a togliermi”. Adesso era con dei russi, con tutti altri… “Io non capisco nessuno, non conosco nessuno, almeno andavo con gli amici. Se mi mandano a lavorare non so come farò a resistere senza conoscere nessuno”. Allora lui mi dice: “Perché non me l’hai detto prima?”. “Io non gliel’ho detto, Lei è già così gentile con me, non volevo…”. Allora alla sera arrivo, questo era un uomo potentissimo perché il comando all’interno, l’organizzazione era in mano a questi Kapò. Alla sera ritorno, trovo mio fratello trasferito nello stesso mio blocco e nello stesso mio comando.

D: Che era il blocco del campo libero numero?

R: Dieci, numero dieci.

D: C’era anche Don Gaggero?

R: C’era anche Don Gaggero, è stato un elemento favoloso. E così alla mattina dormiamo nello stesso letto in ottanta centimetri io e lui, siamo di nuovo assieme, viene a lavorare e a prendere il mio lavoro a Mauthausen, il lavoro da scaricatore. Io continuo a scrivere, a fare il segretario. Insomma, fatto sta che, per farla breve, la mia vita a Mauthausen è stata una vita fortunata, perché tolto questo mese di quarantena, tolti i quindici giorni passati a fare lo scaricatore, ho trovato un lavoro stabile, seduto, mangiavo qualche cosa di più, stavo al caldo rispetto agli altri che invece hanno passato dei momenti terribili. Con la mia posizione ho potuto vedere dei fatti terribili, per esempio l’uccisione dei sabotatori di Vienna. Erano trentasei operai di Vienna che sono stati arrestati per sabotaggio e mandati nella scala della morte. A Mauthausen c’era una scalinata che andava alla cava di pietra di 186, 187 gradini. A questa scala lavorava la compagnia di punizione, caricavano dei grossi massi sulla schiena e li facevano portare su per i 186 gradini tutto il giorno, fin quando non ce la facevano più e li eliminavano. Questi operai viennesi sono stati mandati in questa compagnia, hanno cominciato a caricare delle pietre molto pesanti e andare e venire. Man mano che cadevano li ammazzavano. Io ho visto, perché lavoravo vicino, ho visto cadere uno per uno tutti questi deportati, ammazzati. La cosa strana che mi sono sempre chiesto è come mai quando hanno visto il primo, il secondo, il ventesimo, il trentesimo non si sono mai ribellati. L’istinto di conservazione è più forte della volontà di ogni uomo, per cui speravano sempre che la cosa finisse. Ho visto tanti altri episodi importanti, per esempio a un certo momento è arrivato a Mauthausen un gruppo di ebrei ungheresi trasferiti nella collina, perché nel campo non c’era più posto. Nella collina, di fronte alla camera dove io dormivo. In questa collina li hanno recintati, li hanno lasciati lì che morissero un po’ alla volta. Io alla sera arrivavo dal lavoro, c’era il mucchio di cadaveri di quelli che erano morti durante il giorno, tra i quali c’erano ancora molti vivi, perché si vedevano delle braccia e delle gambe che si muovevano. Poi veniva il carretto, li caricava e li portava nel forno crematorio. Li hanno ammazzati quasi tutti, donne, vecchi, bambini, tutti, fino a quando li hanno poi caricati su dei pullman. Noi l’abbiamo saputo, li hanno portati sul Danubio e hanno affondato la vecchia nave nella quale li hanno caricati.

D: Vicino a te, nel blocco 10, dormiva Hans, se non mi sbaglio.

R: Sì. Dunque, Hans è stato un deportato che mi ha aiutato molto. E’ stato un po’ la causa quasi della mia morte, perché in quarantena è arrivato davanti alla quarantena… Hans era un deportato di Bolzano che parlava benissimo il tedesco e che era stato messo in un comando importante, quello del pane. Lui una sera, saputo che erano arrivati degli italiani, è venuto davanti al blocco di quarantena, è il primo che mi ha spiegato che cosa era Mauthausen, quale inferno era Mauthausen. Poi prima di andare via mi ha dato una sigaretta. Naturalmente la sigaretta non si poteva fumare nel cortile, allora quando siamo entrati nel blocco, messi a dormire, abbiamo trovato un fiammifero e, quando il Kapò è uscito, abbiamo acceso la sigaretta. Poi io l’ho passata al mio vicino che era un comandante partigiano, Valentini. Valentini l’ha passata a Vecchi. Mentre passava la sigaretta a Vecchi è entrato il capo blocco, li ha visti e li ha presi tutti e due. Li ha portati nel Waschraum, noi abbiamo sentito gridare, sentito delle urla che non finivano più. Poi questo qui è entrato dentro e ha detto: ” Chi ha acceso la sigaretta venga fuori”. Io avevo acceso, questi erano vicino a me, non potevo che essere io ad aver acceso la sigaretta. Allora mi sono alzato, sono arrivato lì e ho trovato tutti e due insanguinati, svenuti per terra e quello ha cominciato a picchiare me. Mi ha picchiato, quando svenivo con un secchio d’acqua mi faceva rinvenire, poi ha detto: “Adesso vado a chiamare la SS”. Dato che al nostro arrivo a Mauthausen ci avevano letto il regolamento di Mauthausen, cioè chi veniva pescato a fumare veniva impiccato immediatamente alle travi del blocco, questo dice: “Vado a chiamare la SS”, c’era un segretario spagnolo, politico che dice: “Ragazzi, siete finiti perché se arriva la SS vi impicca tutti e tre”. Io parlavo tedesco perché avevo studiato al liceo scientifico tedesco, parlavo un po’ di tedesco. Allora gli dico: “Ma Lei è un fumatore, erano quattro mesi che non fumavamo in carcere, ecc. Abbiamo ricevuto una sigaretta, abbiamo sentito il bisogno di fumare. Lei dovrebbe capirlo”. Questo qui è uscito, dopo un quarto d’ora invece di tornare con la SS è tornato e ha detto: “A dormire”. Alla mattina ci ha chiamato fuori, ci ha detto chi voleva andare all’ospedale, perché eravamo tutti pieni di botte, di ferite, ecc. Ci avevano detto che andare all’ospedale era meglio non andare, perché lì si moriva. Abbiamo detto di no e abbiamo continuato la nostra vita. Quando siamo andati a lavorare e ci hanno messi al blocco 10, nel letto di fianco al mio c’era Hans, il quale si alzava alla mattina molto presto per andare al comando del pane. Dato che non aveva tempo di fare il letto, perché lì volevano il letto squadrato, fatto alla perfezione, abbiamo fatto un contratto. Dice: “Sentite, voi mi fate il letto quando vi alzate un’ora dopo, un’ora e mezzo dopo, io tutte le sere vi porto un pezzo di pane”. Abbiamo fatto il contratto e abbiamo mangiato il pezzo di pane tutte le sere che lui ci portava e abbiamo fatto il letto.

D: Alberto, scusa, il forno di panificazione era dentro nel campo di Mauthausen?

R: No, era fuori.

D: Ma fuori giù verso il villaggio?

R: Fuori, nelle baracche esterne dove c’erano gli uffici, la segreteria, dove c’erano le baracche della SS. Era fuori.

D: Il momento della Liberazione.

R: Il momento della Liberazione è stato una cosa meravigliosa e drammatica nello stesso tempo. Noi sette, otto giorni prima della Liberazione, che è avvenuta ufficialmente il 5 Maggio del ’45 naturalmente, prima della Liberazione un giorno ci comunicano che non andiamo più a lavorare. Allora noi abbiamo subito capito che stava finendo, perché avevamo le notizie che la guerra andava male, che gli alleati erano vicini. Però il comitato internazionale dei deportati nel campo ci ha informati che avrebbero tentato di farci fuori tutti, allora ha dato delle disposizioni per cui ciascun gruppo, ciascuna nazionalità doveva aggredire una parte della cinta per cercare di fuggire, qualora avessimo visto che facevano i preparativi per eliminarci tutti. Fatto sta che mentre noi facevamo questa organizzazione loro non hanno fatto in tempo a far niente. Una mattina hanno raccolto tutti i gioielli, i soldi, le cose che avevano, sono saliti, hanno preso i Kapò e sono scappati. Per cui ci hanno lasciati liberi. Alla Liberazione è successo il finimondo, perché di 40.000 persone che eravamo 30.000 stavano morendo di fame. Per cui organizzare il campo era difficilissimo. Di fatti il CLN ha armato delle squadre per ogni nazionalità e le squadre costringevano i deportati ad andare in cucina a far da mangiare, costringevano i deportati a tenere un minimo di pulizia. Facendo da mangiare, cos’è successo? Che cambiando il vitto è scoppiata un’epidemia di diarrea. Per cui morivano come le mosche. Il blocco era come un gabinetto, pieno, non facevano in tempo ad andare nel Washraum, tutti i letti…era una morte continua. Tanto che, questo è l’episodio più bello di Mauthausen, Don Gaggero, che era in una condizione terribile, aveva le gambe gonfie, magro, stava in piedi per miracolo, raccoglieva tutte le lettere, i dati dei moribondi e poi un giorno mi dice: “Alberto, io ero stato nominato segretario, non segretario politico, segretario burocratico del comando della baracca 10”. Mi dice: “Senti, io voglio andare a Mauthausen”. Prima mi dice: “Facciamo la sepoltura a tutti quelli che muoiono”. E abbiamo incominciato col primo a fare la sepoltura, ma morivano così tanti che non siamo riusciti a farlo. Poi mi dice: “Voglio andare a Mauthausen a prendere l’ostia e gli abiti per dire la messa al campo”. Parte, va a Mauthausen, dal prete di Mauthausen, si fa dare l’ostia, si veste da prete, ritorna al campo e dice la messa al campo di Mauthausen. Un episodio meraviglioso, perché l’abnegazione di Don Gaggero è stata una cosa indescrivibile.