Sordo Albino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sordo Albino, nato a Castel Tesino il 24/7/1924.

D: Albino quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato il 1 gennaio 1945 a Castel Tesino, in casa, perché era appena arrivata la sera e alla mattina …

D: Tu eri arrivato da dove?

R: Dal Pader perché lavoravo a Pader perché dopo lo sbandamento mi sono ridotto solo a Pader e la sera dell’ultimo dell’anno rientro a casa…

D: Ma chi ti ha arrestato? Erano italiani o tedeschi?

R: Tedeschi, tutti tedeschi.

D: E ti hanno accusato di che cosa?

R: Di essere partigiano.

D: E tu eri partigiano?

R: Sì.

D: Con quale formazione?

R: Quella…, sono passati tanti anni, l’unica formazione che c’era qua nel tesino che veniva da…

D: Da via Glenda?

R: Sì, che la comandava il comandante Cumo.

D: Il tuo nome di battaglia qual era?

R: Nina.

D: Perché Nina?

R: Perché era la morosa.

D: Quando sono venuti in casa e ti hanno arrestato, dove ti hanno portato?

R: Ho visto che passano i tedeschi e allora ho guardato la porta della casa e ce ne erano due sulla porta della casa e allora ho chiuso la porta della casa e sono andato nella sala, ho aperto la porta della sala e ce ne erano altri due.

Mi hanno arrestato e mi hanno portato in municipio e là mi hanno fatto l’interrogatorio, ho preso anche qualche bella legnata.

Là ho passato la giornata e mi hanno fatto l’interrogatorio come a tutti, eravamo in undici e mi hanno messo su un camion e mi hanno portato a Strigno, là a Strigno ci siamo fermati…e poi siamo andati a Roncegno, in piazza a Roncegno.

Là, il giorno dopo, sono venuti a prenderci due alla volta alla caserma e ci portarono giù.

La c’erano dentro diversi tedeschi tra i quali Egendat e altri.

Uno alla volta mi interrogavano…

Dopo di me andava dentro un altro; hanno passato la giornata a interrogarci tutti e poi tornavano e li portavano su dai carabinieri.

Si pregava, si bestemmiava e non si sapeva la fine che si faceva; dopo un giorno o due, non mi ricordo, mi mettono alla mattina presto sul camion, destinazione ignota e siamo arrivati a Bolzano .

D: Nel campo di Bolzano?

R: Nel campo. Ci hanno scaricati dal camion, c’era un po’ di confusione.

Dopo hanno cominciato a domandare quelli che era capaci di fare i calzolai, falegnami, elettricisti, sarti e allora io e il Marietto siamo andati in calzoleria.

Non si stava neanche proprio male; c’era un capo della calzoleria che era un veronese. Ho fatto un po’ di amicizia con il capo calzolaio e siamo andati avanti a sistemare…… gli zoccoli di legno.

Passava un mese e intanto facevano le partenze, ne hanno fatte due intanto che eravamo là: una è andata a Mauthausen , l’altra invece li hanno portati alla stazione, alla notte c’è stato un bombardamento e li hanno riportati nel campo, dopo quella volta non ne hanno più fatte perché la linea del Brennero era sempre rotta.

Quelli che avevano avuto la fortuna nostra, che orami eravamo alla fine della guerra, abbiamo fatto quattro mesi noi, e di partenze non hanno più potuto farne.

D: Albino ma la tua immatricolazione te la ricordi? Il tuo numero di matricola te lo ricordi?

R: 8048, mi pare che era.

D: E ti hanno dato anche il triangolo ?

R: Il triangolo rosso.

D: Ti ricordi il nome del tuo capo calzolaio, quello lì di Verona?

R: Era Veronesi di cognome, ma il nome…

D: Veronesi di cognome?

R: Veronesi di cognome, me lo ricordo sempre.

D: Albino, ti ricordi quando tu eri nel campo se c’erano delle donne?

R: Sì c’erano, c’era il blocco delle donne.

D: Ma c’erano anche donne della Valsugana?

R: Sì ce ne erano due della Valsugana, madre e figlia, che erano di Novaredo.

D: E altre donne invece non te le ricordi della Valsugana?

R: No.

D: Tu non te le ricordi Albino?

R: No. Di giorno si era sempre lì in calzoleria che si lavorava e la domenica, che non si lavorava e c’erano libere anche le donne nel cortile, però io ero sempre dentro in branda e non…

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini?

R: No, non ricordo di avere visto dei bambini.

D: Ti ricordi dei religiosi, dei sacerdoti?

R: Sì, di sacerdoti ce n’era uno di Castel Tesino, che lo avevano portato a Bolzano, però dopo quando eravamo arrivati noi era già partito per la Germania.

D: Come si chiamava?

R: Don Narciso Sordo.

D: E perché era stato arrestato lui?

R: Per la questione che diceva che era dei partigiani, che sovvenzionava i partigiani ma nessuno era sicuro, non si sapeva niente. In agosto del ’44 e in ottobre del ’44 è venuto lo sbandamento, il rastrellamento , hanno portato via diverse persone qua, bruciavano le case perché ….un certo Marietto che era il padre del Renata, che poi è passato comandante dei partigiani, perché prima c’era Cumo poi con il rastrellamento … Cumo è morto e allora ne hanno fatto un altro che era…, adesso non mi ricordo più il nome.

Dopo, verso primavere, è restato un gruppetto di partigiani qua della zona, tra i quali c’era questo Renato Menefreo di Castello.

E’ restato un gruppetto e allora quando c’è stato l’ Armistizio si è formato di nuovo il gruppo e c’era il commissario, uno di …, nome di battaglia Adeo, il comandante era Marietto Celestino che era Renato.

D: Albino, ma tu con don Sordo siete parenti?

R: No.

D: Non siete parenti?

R: C’era un altro don Sordo dopo che era nei partigiani, che il nome di battaglia era Corvo ed era un prete, che dopo io con lui ho fatto una staffetta dalla malga qua dentro di Rabbiosa a Pietena dove c’era il comando a Pietena.

Il comandante che è ancora vivo, abita a Varese, era un capitano degli alpini di Varese.

Dopo è venuto il rastrellamento. Io con questo Corvo siamo partiti da Pietena, siamo arrivati a Rabbiosa, ha detto la messa e poi siamo venuti a Castello che qua si faceva il voto, il famoso voto dell’8 ottobre.

Noi eravamo in diciotto al Castello, il prete è andato su in chiesa ma io non sono andato. E’ arrivato uno e dice: “Io arrivo adesso da Grigno e la strada è tutta di tedeschi che vengono in su”.

Io sono andato ad avvisarlo e anche il Marietto e siamo scappati via dall’altra parte; quella sera sono andato ad avvisare anche ……, che era via con il vice comandante che era Nazzari di nome di battaglia e siamo scappati in Val Busa che c’erano delle gallerie…

D: Albino a proposito di sacerdoti, ti ricordi nel campo, a Pasqua, quando è stata fatta la messa?

R: Sì.

D: Hai partecipato anche tu?

R: Sì, si partecipava.

D: Ma ascolta, è entrato questo frate, questo sacerdote a celebrare la messa e dove l’ha celebrata? Te lo ricordi?

R: Sul piazzale, là sul piazzale in piedi.

D: Hanno distribuito qualche immaginetta sacra quel giorno lì?

R: No, io non mi ricordo di aver preso delle immaginette sacre, no, non le ho viste.

D: Ti ricordi, quando tu eri a Bolzano, se hai visto azioni violente?

R: No, là nel campo no. Però avevo sentito dire che quando non si poteva più portare dal Brennero per andare in Germania, mettevano della gente sul camion e li portavano fuori, però io non li ho mai visti.

D: E nel campo tu non hai mai visto azioni violente?

R: No. C’è stata una sera che hanno fatto un bombardamento gli americani e avevano centrato il magazzino della mensa e là quelli che erano di guardia intorno al campo …sono venuti giù dabbasso, perché se no tentavano di scappare, non facevano scappare nessuno.

D: Ma ci sono stati tentativi di fuga dal campo?

R: Sì, avevano fatto anche un box sotto che passava, però non sono riusciti a scappare, sono stati scoperti prima. Perché non c’era da avere neanche tanta …, perché se avevi paura…, perché se li vedevano le spie li portavano ai tedeschi.

Dopo c’era il comitato dei comunisti, non si capiva più niente.

D: Tu eri nel blocco A?

R: Blocco A.

D: Ti ricordi il tuo capo blocco come si chiamava?

R: Ermanno Trasferini.

D: Gigi Novello, non ti dice niente questo nome: Gigi Novello?

R: Era partito Gigi Novello, prima.

Era il fidanzato della Cicci, ma non era nel blocco A, veniva dal blocco B o C.

Nell’A che comandava era Pasqualini, che se si avevano soldi si poteva comprare della roba.

D: Ma dai, si poteva comprare?

R: Scatolette di sardine, roba di vestiario…

D: Quando tu sei arrivato nel campo a Bolzano, nei giorni dopo hai potuto scrivere a casa?

R: No, no.

D: E neanche ricevere pacchi?

R: Sì, è venuta mia mamma e sua mamma del Marietto e un’altra, Donata, a portare i miei pacchi; dentro mi hanno portato il pacco e me lo hanno consegnato.

D: Come avvenivano le partenze? Te lo ricordi?

R: Li mettevano tutti in fila e poi passavano due, terzo…, tre, quattro, terzo…, avevano quel sistema là.

D: Ma tu ne hai viste di partenze?

R: Io ne ho vista una di partenza e dopo la seconda li hanno portati al blocco perché la linea era saltata.

D: Tu quindi sei sempre stato in calzoleria a lavorare?

R: Sempre in calzoleria. Lavoravo in calzoleria e dopo hanno mandato via il magazziniere e mi hanno passato anche magazziniere della calzoleria. Si andava a prendere della roba su in magazzino, la portavo in calzoleria e si dava a chi lavorava.

D: Dove era il magazzino della calzoleria?

R: Si entrava ancora nel campo e dopo si andava in su, c’era una baracca con due della polizia davanti alla parta e ti stavano dietro, si prendeva la roba, li contava e poi li portavo in calzoleria.

D: Che materiali c’erano nel deposito?

R: C’era tutta roba di cuoio, a quegli zoccoli di legno si metteva su il cuoio e si facevano anche le scarpe per le SS, quelli che erano capaci di farle.

Io dall’inizio alla fine ho sempre avuto quel paio di scarpe che mi hanno consegnato, che erano ancora da finire ancora da principio e le ho portate a termine e le ho portate anche a casa, le avevo nello zaino.

D: Albino quindi, al mattino la sveglia, appello e poi andavate in calzoleria?

R: Sì e poi si andava in calzoleria.

D: E a mangiare a mezzogiorno?

R: Quello che ci davano.

D: Ma in calzoleria o nel campo?

R: No, si andava nel campo a mangiare.

D: Ritornavate nel campo e poi al pomeriggio?

R: Ritornavamo a lavorare.

D: Ancora in calzoleria? Quattro mesi così?

R: Quattro mesi così.

D: Tu fuori dal campo non sei mai andato a lavorare?

R: No, mai.

Quelli con il triangolo rosso non li facevano andare fuori dal campo.

D: Albino come ti ricordi la Liberazione?

R: La liberazione me la ricordo che alla mattina, alla sveglia, quando ci siamo alzati ho guardato fuori dal finestrino e non c’erano più le guardie sulle garritte, le mitragliatrici erano a terra.

Io ho pensato: “Qua Albino è successo qualcosa”!

Dopo è arrivata la voce che c’era la Croce Rossa Internazionale che pochi alla volta hanno mandato via tutti.

Qualcuno è stato fortunato che è andato via di qua il giorno prima, anche due e noi altri cinquanta alla volta; cinquanta li mettevano sul camion e anche se dovevano andare a Trento lo portavano in Val di Non, cinquanta li portavano da una parte, cinquanta fuori a piedi.

Toccava a tutti di andare fuori a piedi dopo.

D: Ma ti hanno dato un lascia passare?

R: Sì e dopo ci siamo trovati fuori a Ora e c’erano tutti i tedeschi che scappavano in su con le biciclette e con i carretti.

Io sono andato giù verso Trento, ho preso la strada che andava in Val di Fiemme e ci ho messo cinque giorni ad arrivare a casa, a piedi.

Volevamo fare il passo del Manghe, siamo arrivato al passo Manghe.

Alla mattina per andare fuori dalla porta c’era tanta neve fresca così.

C’era il biglietto, c’erano dei posti di blocco dove davano qualcosa da mangiare, a quelli che fumavano gli davano un pacchetto di tabacco da tagliarselo in due e piano piano siamo arrivati a Borgo.

Prima di arrivare a Borgo c’erano i contadini… a Borgo c’erano ancora i tedeschi che si stavano ritirando e ….i partigiani a Castello e siamo andati dall’Eugenio e là c’erano questi partigiani che io non avevo mai visto.

C’era uno che era un comandante dei partigiani …che prima era maresciallo delle SS.

D: E non gli hai detto niente tu Albino? Non gli hai detto niente a questo qua?

R:No, è venuto fuori un caso, mi ricordo benissimo.

Gli ho chiesto se era il comandante dei partigiani. Non mi ha neanche risposto.

Il municipio era pieno di armi, ho tirato fuori un fucile e un mitragliatore e ho preso una macchina.

Siamo andati via e siamo arrivati fino a Borgo con questa macchina e dopo da Borgo mi hanno portato fino a Pieve.

A Pieve abbiamo trovato mia mamma, sua mamma e compagnia che erano venuti a cercarmi, Marietto era già arrivato…

Siamo scesi dalla macchina … e a piedi sono arrivato qua.

D: Nel maso?

R: Avevamo le bestie, c’era mio papà con le bestie, mia mamma…, avevo un fratello più giovane, non mi ricordo neanche dov’era e siamo arrivati qua.

Le botte che abbiamo preso e la paura che abbiamo avuto in quei quattro mesi.

Dopo non sai più organizzare niente, dopo.

Quella volta c’era una cartolina da …, la Polizia Trentina o se no ..a nascondersi da qualche parte.

E io non avevo molta voglia di andare nella Polizia Trentina.

Poi avevo vent’anni, a vent’anni si ragiona anche poco.

D: Albino ti ricordi nel ’47, se non mi sbaglio, che qui in un paese vicino era stato ucciso uno che dicevano che era un fascista della decima Mas?

R: Non me lo ricordo.

Qua in Valsugana?

D: Sì.

R: No.

D: Non te lo ricordi? Era stato ucciso da ex partigiani uno.

Che poi avevano fatto un processo. Non te lo ricordi?

R: Mi sa che non è successo a Pieve

Barbieri Agostino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Agostino Barbieri, sono nato il 30 marzo 1915 ad Isola della Scala in Provincia di Verona. Sono stato arrestato in una frazione di Isola della Scala che si chiama Tarmassia perché facevo parte di una missione militare che aveva lo scopo di fornire informazioni agli eserciti alleati e organizzare gruppi di partigiani.

Sono stato arrestato il 22 novembre 1944 dalle Brigate Nere di Verona con l’ausilio della polizia tedesca perché quando sono venuti ad arrestarmi di notte i fascisti non erano riusciti a portare a termine l’operazione e hanno chiesto l’aiuto della polizia tedesca.

La difficoltà dei fascisti era dovuta al fatto che io e il contadino che mi affittava l’alloggio, perché andavo a dormire solamente da questo contadino, abbiamo reagito al fuoco e c’è stata una sparatoria.

Durante la sparatoria, siccome vicino alla cascina dove io andavo a dormire qualche volta c’era un comando tedesco, sono partiti i tedeschi e hanno completato l’operazione dell’arresto.

Dopo l’arresto siamo stati portati alla Brigata Nera di Verona che allora aveva le carceri della scuola di avviamento Sanmicheli. Siamo stati lì una settimana naturalmente sotto gli interrogatori, i soliti interrogatori a base di botte, di sevizie, di maltrattamenti di ogni genere.

Dopo una settimana siamo stati portati al comando delle SS che aveva la sede nel palazzo delle Assicurazioni in Corso di Porta Nuova a Verona.

Siamo stati lì una settimana, ma non ci sono stati interrogatori. Dopo una settimana di detenzione in questo carcere, siamo stati portati al campo di Bolzano.

D: Un attimo, signor Agostino, quando Lei parlava di organizzazione, cos’era? Militare, si ricorda come si chiamava.

R: Sì, la Missione Rye.

D : Ma lì com’era organizzata questa Missione Rye. Innanzi tutto si ricorda il significato di Rye?

R: A dir la verità Rye è una sigla, deriva dal greco, non ho mai chiesto il perché, la ragione. Era una sigla che si davano tutte le organizzazioni clandestine, specie quelle militari. Ogni missione aveva una sigla che derivava o dall’alfabeto greco o latino o da altri generi di letteratura, di idiomi.

D: E come eravate organizzati? Il reclutamento per esempio come avveniva?

R: Il reclutamento da parte mia per quanto mi riguarda è avvenuto perché io avevo fatto il servizio militare di prima nomina come ufficiale al 79° Reggimento Fanteria e il comandante della Missione, il professor Teruzzi, aveva fatto il servizio militare con me nel 79° Fanteria, perciò mi conosceva.

Mi ha fatto avvicinare tramite due ragazzi, i fratelli Corlà, che erano ragazzi che seguivano l’Azione Cattolica perché Teruzzi era stato anche Presidente dell’Azione Cattolica a Verona.

Loro mi conoscevano, non perché io fossi dell’Azione Cattolica. Io non ero niente. Io ero lì, stavo a Isola della Scala dopo aver fatto però una certa attività col Comitato di Liberazione dell’Alta Italia per la messa in salvo dei prigionieri alleati che sono stati sorpresi dall’ armistizio. Era un primo impegno che aveva preso il Comitato di Liberazione.

Finita questa operazione che si faceva portandoli col treno da Venezia a Milano, poi a Milano io li davo in consegna ad altri compagni che li portavano al confine svizzero, finita questa operazione perché a un certo momento l’organizzazione era polizia fascista che si era organizzata, perciò non era più possibile farli viaggiare in treno, mi sono ritirato a Isola della Scala dove vivevo, avevo mia madre, mio fratello.

Lì sono stato raggiunto da uno di questi fratelli Corlà, mi ha parlato della Missione, mi ha parlato di Teruzzi e compagnia bella e allora abbiamo cominciato ad operare in quella zona.

Io ho avuto la responsabilità di una vasta zona del basso veronese, poi ho avuto il comando di un battaglione di partigiani.

D: Un’altra cosa sempre a proposito della Rye. La zona operativa della Rye dov’era? A Verona solo o anche in provincia?

R: Verona e tutta la provincia e anche confinava per una certa parte della Provincia di Vicenza. La provincia era divisa in zone. Ogni zona aveva un comandante. Io avevo il comando della zona della pianura insomma.

Altri ufficiali come il Colonnello De Miglio per esempio che era stato Capo Aiutante Maggiore al 79° Reggimento Fanteria dove io avevo fatto servizio, che conoscevo, il suo comando era a Cologna Veneta. Io l’avevo stabilito invece a Tarmassia, nella canonica di Tarmassia. Perché nella canonica?

Prima di tutto perché il comandante della Missione, come ho detto, faceva parte dell’Azione Cattolica, era molto dentro in quest’ambiente. Lui aveva la radiotrasmittente, ricetrasmittente che collocava sempre o nei seminari, o nei conventi, insomma in zone che almeno sembravano sicure.

Ho avuto una grande collaborazione dal parroco di Tarmassia, il quale s’è dimostrato partigiano veramente attivissimo. Ha lavorato moltissimo con me, mi ha dato molto aiuto.

Abbiamo ospitato lì in canonica un corso per l’addestramento all’uso dell’esplosivo plastico che noi non conoscevamo, né io come ufficiale di Fanteria, né nessuno dei fratelli Corlà che era appena stato nominato ufficiale, ma che aveva appena abbandonato il servizio.

Teruzzi, il comandante, ci ha mandato un esperto in esplosivi, che aveva fatto catapultare dall’alto, venendo dall’Italia già liberata. Abbiamo fatto questo corso. Durante questo corso siamo stati arrestati.

Per fortuna non durante la “lezione”, ma in quel periodo, perciò non abbiamo potuto completare l’istruzione e attuare quel programma che doveva essere attuato di sabotaggio.

D: Se si ricorda, la maggior parte dei componenti eravate tutti militari della Rye?

R: No, no.

D: No?

R: No, no. C’era una rappresentanza direi di tutte le parti politiche. Non c’era la prevalenza dei militari. Anche Teruzzi era militare di complemento, non era un ufficiale effettivo. Io ero un ufficiale di complemento, Corlà era un ufficiale di complemento.

D: L’obiettivo, i compiti di questa missione speciale della Rye qual era?

R: I compiti erano quelli di segnare, indicare gli obiettivi militari in questo modo. Se si formava per esempio, un comando oppure un deposito, oppure un’officina, oppure soprattutto il controllo della ferrovia Verona/Bologna che era la dorsale che portava tutti i rifornimenti sul fronte di Bologna e io avevo il controllo da Verona fino ai ponti di Ostiglia.

Ho avuto una grandissima collaborazione anche, perché avevo mio fratello ferroviere, dai ferrovieri. I ferrovieri hanno partecipato in un modo veramente entusiasta. Io dai capistazione sapevo esattamente tutto quello che trasportavano.

D: I diversi movimenti di truppe, materiali?

R: Esattamente. Deviazioni che facevano i treni perché per esempio partivano, ma poi ad un certo momento li facevano deviare. C’era tutto questo movimento a mia conoscenza. Di tutto questo movimento era perfettamente al corrente.

D: Voi avevate quindi rapporti anche con gli angloamericani?

R: I rapporti con gli angloamericani venivano fatti direttamente dal comandante.

D: Avevate un tesserino, qualcosa?

R: No, nessuna tessera.

D: Anonimato.

R: Nessuna tessera per carità. Le tessere… Niente, io avevo dei documenti falsi perché allora c’era il coprifuoco ed era proibito circolare col coprifuoco. Tramite mia moglie, mia moglie lavorava in un’agenzia di esportazioni di frutta e verdura e per avere i permessi per mandare la frutta e la verdura in Germania doveva andare al comando tedesco.

Al comando tedesco ha conosciuto un ufficiale che era ufficiale con me al 79° Fanteria che era passato ai tedeschi. Tramite lui abbiamo avuto quasi tutti i documenti per me e anche per tutti quelli che operavano con me di essere operatori della Todt, allora c’era quella compagnia per reclutare lavoratori e il permesso di circolare di notte.

E infatti una notte sono stato fermato dalla Brigata Nera, anzi da una pattuglia di tedeschi, ho fatto vedere il documento, loro mi hanno detto: “Bravo, bravo Italiano”.

D: Durante gli interrogatori però è uscita questa vostra partecipazione nella Rye?

R: No. Non è uscita perché se fosse uscita per noi ci sarebbe stata la fucilazione, perché è chiaro, è la legge di guerra, che chi opera a livello di spionaggio, specialmente per un ufficiale in borghese, c’è la fucilazione. Non è uscito nulla, per fortuna.

D: Ancora una cosa della Rye perché è un gruppo importante. Grosso modo eravate in molti voi della Rye?

R: Ma, io avevo direttamente quattro o cinque collaboratori. Poi siccome si lavorava a scompartimenti stagni perché c’era l’obbligo preciso, non lo so. Ad un certo momento l’ho saputo dopo la Liberazione, quando sono tornato da Mauthausen ho conosciuto altri collaboratori che prima non conoscevo, non avevo conosciuto.

D: Quindi dal Palazzo dell’INA, riprendiamo la narrazione, dal palazzo dell’INA dov’è stato portato, da lì al campo di Bolzano.

R: Sì.

D: Eravate in molti su quel trasporto?

R: No, eravamo una decina per quanto mi ricordo. Poi sono stato molto poco al campo di concentramento, intanto mi avevano messo in un capannone di pericolosi non so per quale ragione, si vede che mi hanno ritenuto pericoloso.

Verso Santa Lucia mi sembra, prima di Natale sicuramente perché Natale l’ho passato a Mauthausen, sono stato trasportato a Mauthausen.

D: Dal campo di Bolzano vi hanno portato dove per infilarvi nei vagoni, nei carri bestiame?

R: Alla stazione, penso io. Siamo andati alla stazione, ci hanno messo sui carri bestiame, hanno sigillato i carri, poi siamo partiti. E’ durato sei o sette giorni questo viaggio, una roba bestiale.

D: Più o meno in quanti eravate su quel trasporto?

R: Forse una quarantina.

D: Per vagone però, quaranta per vagone.

R: Sì, per vagone. Si doveva defecare, urinare tutto lì, sedersi sullo sterco, una cosa spaventosa. Poi c’era il problema della sete. Il problema della sete gravissimo. C’è stata gente, i vicini alla parete del vagone che leccavano il piccolo ghiaccio che si formava dall’umidità e dal freddo esterno finché avevano la lingua rossa di sangue, perché la sete è stata una sofferenza atroce veramente.

D: A Bolzano non l’hanno immatricolata?

R: Quello non lo so. Non ho capito niente, mi hanno sbattuto entro questo stanzone e non sono più uscito. Mi hanno detto che non si poteva uscire perché eravamo pericolosi. Non so perché ero pericoloso. Non l’ho ancora capito.

Lì ho incontrato quello che è diventato il mio più grande amico: Piero Caleppi, Piero Caleppi che poi è diventato senatore, poi è diventato vice presidente del Senato e sotto segretario di Stato.

E’ nata questa amicizia che è durata fino al giorno della sua morte.

D: E altre persone di cui si ricorda? Che ha incontrato lì nel campo di Bolzano?

R: Nel campo di Bolzano non ricordo, non ho praticamente nessun ricordo particolare perché ero così attaccato a Caleppi. Lui era già dentro, praticamente chiamiamolo “anziano”. Io dormivo in una cuccetta, lui dormiva in una cuccetta attaccata alla mia, stavamo sempre assieme. Non ricordo altri personaggi, amicizie.

Poi più avanti ho conosciuto Pappalettera, Pappalettera che ha scritto quel bellissimo libro “Tu passerai per il camino”.

D: Si ricorda se c’erano dei religiosi anche?

R: Di religiosi ho conosciuto ma a Mauthausen, adesso mi sfugge il nome, Padre Gaggero, un filippino arrestato a Genova, un grande sacerdote che poi è stato spretato dopo la Liberazione.

Adesso invece è nata una storia in questo periodo. Io parlavo prima dei fratelli Corlà che sono stati arrestati. Ad Isola della Scala il paese della loro nascita s’è formato un comitato per la beatificazione. Erano due ragazzi molto, molto, molto religiosi. Dicono che hanno con la loro azione, con il loro comportamento, con la loro parola, con la loro convinzione hanno convinto l’avvocato Spaziani che era il Capo del Comitato di Liberazione di Isola a convertirsi. Sembra.

Però c’è una dichiarazione che io ritengo molto… che questa conversione sia avvenuta nel campo di concentramento di Bolzano. Quello che è stato scritto, è stato dichiarato che a Bolzano ha potuto assistere alla Santa Messa e fare la comunione.

Io ho chiesto, so anche la risposta vostra, a Bolzano se era possibile questo durante la detenzione, se c’erano servizi religiosi, questo è il punto interrogativo. A me non risulta, però non posso escluderlo, perché io ero dentro in questo baraccone, non potevo uscire, neanche prendere l’aria, perciò non so niente di quello che è successo.

Che ci siano state delle messe io non lo ricordo, perché non credo che i tedeschi… Non so, questo è un problema che non è ancora risolto.

D: Dopo sette giorni di viaggio e relative notti siete arrivati a Mauthausen.

R: Sì.

D: Come si ricorda l’ingresso nel Lager di Mauthausen?

R: Siamo scesi dal treno naturalmente nelle condizioni in cui eravamo, ci hanno inquadrati perché dalla stazione a Mauthausen c’era un pezzo di strada in salita anche che bisognava percorrere a piedi naturalmente.

Quando siamo arrivati lì il comandante del campo ha chiesto se c’era qualcuno che sapeva l’italiano. E’ venuto fuori uno, ha fatto l’interprete. Siete a Mauthausen, qui esiste solo la legge dell’obbedienza, perciò chi vuol tentare di fuggire, si guardi attorno e vedrà che non c’è nessuna possibilità. Bisogna solo tacere e obbedire.

Ci hanno portati dentro in un enorme stanzone. Ho fatto un bagno bollente e immediatamente dopo un bagno freddo secondo le regole perfette dell’igiene.

Poi ci hanno messi fuori sei minuti nudi, tagliato tutto, rasati sotto, sopra tant’è vero che io scrivo sul mio libro che io ho avuto la sensazione che mi tagliassero via tutto quando il Friseur prese in mano il pene. Qui resto senza niente.

Poi ci hanno messo fuori in fila ad aspettare. Intanto nevicava e noi fuori ad aspettare. S’è completata la fila, poi ci hanno portato nelle baracche di quarantena dove si dormiva in tre, qualche volta anche in quattro su un materasso a terra.

Ci mettemmo giù di fianco, la SS col tubo di gomma ci batteva finché ci si stringeva, imballati come le sardine. Lì abbiamo fatto parecchi giorni.

Poi facemmo dei comandi per andare a lavorare. Io, Caletti, Pappalettera, ho conosciuto una persona, vive ancora, purtroppo stavo dicendo perché è molto ammalato, il Dottor Calore. Non so se voi l’avete…

Il Dottor Calore per me è un dio, un bravo, bravissimo… S’è comportato veramente, abbiamo stretto un’amicizia e mi dispiace moltissimo che stia veramente male, molto male. L’ho visto un paio di mesi fa.

Lì ho conosciuto il Dottor Calore e Pappalettera. Siamo andati a Sant Aegid, nella Stiria, è un paesino bello anche, molto bello perché uscire di notte per andare a fare la pipì e vedere queste casette dove filtrava qualche piccola luce pur essendoci la proibizione dell’illuminazione, sembrava di essere in un presepio.

Io lo scrivo questo anche nel mio libro. Ti riempiva di nostalgia, di casa. Purtroppo c’era la baracca dietro, c’era la SS, ma più che le SS c’era il Kapò. I Kapò erano forse peggio delle SS, erano peggio delle SS. I Kapò tremendi.

Hanno fatto poi una brutta fine perché il giorno della Liberazione il 5 maggio sono stati malmenati, sputacchiati, qualcuno ci ha rimesso anche la pelle. Insomma, se lo meritavano.

D: Prima di andare però al comando di lavoro lì a Mauthausen vi hanno immatricolati?

R: Sì, mi hanno dato una nastrina con del filo di ferro che ho perso perché l’ho data ad una mostra e non me l’hanno più restituita. Se la son tenuta a Verona. Hanno fatto una mostra, mi hanno chiesto quello che avevo, l’unica cosa che avevo era quella lì, non me l’hanno più data. 113883 il mio numero. Quando mi sono tolto il giaccone l’ho buttato via.

Io sono tornato con un frac che ho trovato in un magazzino e un paio di braghe delle SS.

D: In questo comando di lavoro c’erano altri italiani, vero?

R: C’era Caleppi, c’era quello che ho nominato prima Pappalettera, non mi ricordo più i nomi adesso. Sì, c’erano italiani, eravamo un gruppo di Italiani.

D: Solo italiani?

R: No, ma c’era un gruppo di iItaliani abbastanza numeroso. Lì non si stava… Si stava male, intendiamoci, dire che si stava bene sarebbe ridicolo. Siccome era un campo piccolo, c’era meno disciplina. C’era da lavorare perché si andava a scavare per fare le fondamenta per le baracche per i sinistrati, lì si lavorava giorno e notte, acqua, vento. Si andava e si ritornava in baracca con la divisa, quella a righe che ci avevano dato e poi te la mettevi la mattina che era quasi ghiacciata.

D: Il vostro lavoro lì in cosa consisteva?

R: Piccone, badile, carriola per me. Mi hanno dato un piccone, era alto così. Guai se la carriola non era strapiena. Caleppi ha avuto lì il periodo più brutto della sua esistenza. Gli hanno rotto una gamba apposta di botte e doveva trascinare la carriola con la gamba rotta. Si trascinava così, con la mano trascinava la carriola.

Ha trovato per fortuna il medico, era un medico iugoslavo che parlava molto bene l’italiano che ha avuto compassione, in un certo senso direi che l’ha curato anche, se curare si può, intendiamoci, perché lì non c’era niente. Almeno per un certo periodo è riuscito a toglierlo dal lavoro.

Poi quando siamo tornati, siamo rientrati a Mauthausen, ricordo che ho vissuto il momento della Liberazione con Caleppi abbracciati a piangere tutte due in quel di maggio. Durante il viaggio del rientro Caleppi è stato costretto, è stato ricoverato in un ospedale svizzero perché è stato malissimo, molto male.

D: Il campo dov’eravate, questo sottocampo, era grande, era piccolo, c’erano molte baracche?

R: Piccolo, piccolo, 400 baracche. Sant Aegid.

D: Era recintato come tutti i campi?

R: Recintato con i fili spinati naturalmente con l’alta tensione.

D: Rispetto al paese il campo era vicino al centro abitato o era fuori?

R: No, era staccato, ma la popolazione in un certo senso ci ha aiutato, lasciava cadere delle patate, dei pezzi di pane. Io ho avuto anche un’esperienza, l’ho scritto anche sul mio libro, di una SS, di una giovane SS che mi sorvegliava. Sono stato portato da solo a fare un terzo lavoro. C’era questo giovane SS, avrà avuto diciotto anni poverino, faceva una pena. Io stavo peggio di lui, ma comunque…

Ad un certo momento ha lasciato cadere un pacchetto. L’ho visto il pacchetto, ma continuavo a lavorare. Se per caso mi muovo, quello lì mi… Lui continuava a guardarmi, poi mi ha fatto segno di prenderlo.

Allora mi sono fatto coraggio. Erano biscotti. Questa è stata una cosa stupenda. Questo ragazzino che evidentemente forse era anche lui lì per forza, non era che sia stato uno che ha avuto questa idea, forse suggerita dalla famiglia, dalla mamma certamente, da qualcuno. Ho avuto questa sorpresa.

Poi il problema era mangiarli o non mangiarli? Se sono avvelenati? Li ho tenuti in tasca. Poi la fame era fame e li ho mangiati.

D: Voi al lavoro lì, diceva prima che eravate addetti a degli scavi, a costruire dei basamenti…

R: Sì.

D: Lavoravate per qualche ditta?

R: Questo non lo so. Non lo so perché lì si vedevano solo deportati, Kapò, capisquadra, persone civili non ne ho mai viste. Può anche darsi.

D: Quando siete ritornati a Mauthausen più o meno quand’era? Quando è stato evacuato…

R: Siamo tornati… Dunque, la Liberazione è stata il 5 maggio, un mese prima circa, cioè quando le truppe russe stavano sfondando il fronte tedesco. Siamo tornati quasi quasi assieme ai profughi che lasciavano a piedi naturalmente, dormendo per terra, dormendo sui marciapiedi, dove capitava.

Poi ci hanno portati dentro nel penitenziario, è durato quattro/cinque giorni questo trasferimento perdendo parecchi amici, parecchi compagni perché non ce la facevano, si buttavano per terra, gli sparavano e morivano.

D: Era una delle tante marce della morte?

R: Una delle tante marce della morte, come quello che si temeva noi di Mauthausen, parlavano di evacuazione di Mauthausen le SS e l’evacuazione di Mauthausen, qui non ci resta più nessuno.

E invece no, la mattina del 5 maggio al posto delle SS sulle torrette abbiamo trovato i soldati della territoriale che se ne fregavano di noi. Da lì abbiamo capito che… Ma pure fino a quasi all’ingresso degli alleati ci sono state delle SS che hanno sparato, sparavano ancora, ammazzavano fino all’ultimo momento, fino all’ultimo momento, finché un carro armato ha sfondato il portone ed è entrato.

Lei deve sapere che però gli spagnoli aspettavano i russi, avevano preparato delle bandiere. Quando hanno visto che erano gli alleati, hanno fatto marcia indietro. Son cose che capitano.

D: E cos’è successo poi al 5 maggio del ’45?

R: Il 5 maggio del ’45, sentivamo da qualche giorno il rumore dei carri armati, l’aviazione che circolava sopra di noi perciò era chiaro che il fronte si stava avvicinando.

Poi c’era anche radio Fante, la chiamavano ed erano i prigionieri spagnoli, ancora della guerra civile spagnola, che avevano occupato certi posti di scrivano, magazziniere, quelle cose lì. Avevano possibilità di attingere notizie che poi riportavano a noi. Sapevamo che si stavano avvicinando le truppe alleate, nessuno però sapeva se erano alleati o russi. Erano alleati o russi? Poi quando sono entrati abbiamo visto che erano gli alleati.

Ci siamo trovati nella piazza dell’appello grande più di uno stadio tutta strapiena, c’era gente che era riuscita persino ad andare sui tetti delle baracche, non so come abbiano fatto, abbiano trovato la forza di andare.

Lì ci siamo abbracciati piangendo, urlando, siamo liberi, siamo liberi. E c’è stata la Liberazione.

D: Però lì a Mauthausen siete rimasti quanto ancora voi?

R: Un paio di mesi, non di più. Si sono organizzate subito delle commissioni tra le quali c’era anche il Dottor Calore che era proprio l’animatore. Sono andati in Svizzera, hanno preso contatto con la Croce Rossa. Subito hanno promesso gli elenchi dei sopravvissuti, poi ci hanno dato la possibilità di scrivere a casa. C’è stata la Liberazione.

D: Il ritorno invece com’è stato?

R: Il ritorno, sono tornato con un camion dell’esercito alleato. Abbiamo fatto un giro lunghissimo, siamo andati a finire… Abbiamo attraversato tutta la Germania. Poi siamo arrivati a Bolzano. Siamo andati… Non ricordo più, abbiamo fatto un lungo giro. Siamo arrivati fino a Monaco. Mi ricordo Monaco distrutta. E siamo arrivati a Bolzano.

A Bolzano, mia moglie che allora era la fidanzata, era stata a Bolzano due giorni prima ad aspettarmi assieme a mio fratello, ma invece il giorno in cui sono arrivato io non c’era.

C’era un camion organizzato dal comune di Isola della Scala per accogliere i deportati, quelli che rientravano. Sono salito, sono rientrato a casa.

D: Ed era quando questo?

R: In giugno, verso la fine di giugno mi sembra. Ho trovato mia madre che non aveva più lacrime perché aveva perso il marito in guerra. Quando è venuta ad accompagnarmi alla stazione di Porta Vescovo, quando siamo partiti per la Russia, perché io ho avuto anche questo grande onore, di partecipare anche alla Campagna di Russia, lei ha detto: “Ho perso il marito, adesso perdo anche il figlio”.

Quando son tornato invece che le ho telegrafato da Rimini. Che son rientrato a Rimini, non ha voluto venire alla stazione perché temeva di vedermi o senza una gamba o senza un braccio.

D: Al ritorno dalla Russia?

R: Al ritorno dalla Russia.

D: Era?

R: Quella era una storia…

D: Ha partecipato all’Armir, al Don?

R: Io sono stato tra i primi in Russia con il SIR, Corpo di Spedizioni Italiane in Russia. Dove siamo andati in Russia, qui è successa una cosa che Mussolini certamente non s’aspettava. Non so se voi avete letto qualche libro di storia, non quelli scolastici perché non dicono niente quelli scolastici. C’è una vecchia edizione di Einaudi dove dice che quasi tutti i comandanti partigiani erano ufficiali reduci dalla Russia.

Perché siamo partiti con la testa piena della propaganda fascista, i russi mangiano i bambini, i russi qua, i russi là e invece abbiamo trovato una popolazione di una dignità assoluta veramente.

Molti italiani, ma molti italiani nella grande ritirata si sono salvati per merito delle donne russe che li hanno raccolti, li hanno scaldati, li hanno nutriti. Molti italiani. Molti anche si sono accasati, sono rimasti lì.

Io ho avuto la fortuna di evitare questa ritirata perché mi sono ammalato. Per fortuna mi sono ammalato. E’ triste dire che è una fortuna ammalarsi, ma comunque è stata una fortuna, mi hanno rimpatriato prima. Ma lo stesso quella popolazione che ho conosciuto io aveva una dignità estrema. Povera, ma guardi, una cosa… Un rispetto, rispetto persino per noi che eravamo degli invasori. Ci davano, anche quel poco che avevano qualche volta ce lo davano da mangiare perché non arrivava il cibo.

Poi io sono simpatizzante dei russi. Adesso ho visto all’ospedale, mia moglie è tornata dall’ospedale pochi giorni fa, c’era un’infermiera russa. Il tipo di russo… Io ho scritto un racconto su un incontro che ho avuto in Russia con Capascha, era una partigiana russa.

Eravamo diventati… C’era un affetto. Poi l’ho trovata morta su un camion. Ho trovato questa russa, quando l’ho vista ho detto tu sei Capascha. Di una bellezza… Bella, bella, bella e lei ha voluto leggere il libro.

D: Agostino, del tuo trasporto della deportazione quanti siete tornati vivi da Mauthausen?

R: Questo non lo so. Dicono che siamo tornati circa l’8-10%, ma cifre esatte non ne ho. Non mi ricordo, pochi comunque, siamo tornati in pochi.

D: Di Isola della Scala in quanti sono stati deportati?

R: Di Isola della Scala siamo stati arrestati in 10 e siamo tornati in 3.

Girardi don Domenico

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Domenico Girardi, sono nato a Montesover, Comune di Sover in Val di Cembra il 14 agosto 1910.

D: Don Domenico, quando siete stato arrestato Voi?

R: Sono stato arrestato la metà di gennaio 1945.

D: Dove e da chi?

R: Lì ero parroco a Montalbiano di Valfloriana in Val di Fiemme e dico subito non ho fatto niente di particolare, soltanto opera di carità, son vissuto da buon cristiano. Altro che passavano di lì tanti italiani, tedeschi, anche russi, ucraini, americani, due per esempio che erano stati colpiti quando bombardavano il ponte di Egna si sono salvati col paracadute, son passati lì da me, ho dato ospitalità. Fra i tanti assistiti c’erano due tedeschi disertori dal fronte di Cassino. Son rimasti due mesi, poi son partiti. Come disertori erano condannati a morte in contumacia. Dunque sono stati ripresi dai tedeschi sempre dalle parti di Merano sopra Lavis. Hanno chiesto: Dove siete stati in questo frattempo, cioè dalla diserzione ad adesso?” Ed hanno fatto il mio nome.

Allora la mattina per tempo son venuti a prelevarmi sotto l’accusa di essere collaboratore di Banditen.

D: Chi è venuto ad arrestarvi?

R: Sono venuti ad arrestare la mattina in paese verso le 2.00, le 3.00. Il paese era circondato da circa duecento persone tra polizia trentina ed altri tedeschi. Mi sono accorto di cannoncini piccoli, non so il termine tecnico, erano nei punti strategici del paese. Credevano che fosse un paese pieno di partigiani e invece non era niente.

Ad ogni modo mi sono accorto perché un tale, Simone Nones, aveva comperato una mucca a Brusago e doveva andare a prenderla. Allora non son potuti passare. E’ venuto in canonica, mi ha suonato, mi sono alzato e allora siccome bestemmiavo un po’ di tedesco, sono disceso e ho fatto da interprete. ” Dieser Mann hat eine Kuh gekauft”, ha comperato una mucca. Niente da fare. Un’ora dopo circa il casaro che doveva andare a fare formaggio la medesima cosa. Intanto la mattina sono venute le 5.00. Sono entrati i tedeschi, la polizia trentina in tutte le case e hanno fatto uscire tutte le persone, gli uomini radunati lì nel piazzale davanti alla Chiesa, le donne lasciate libere.

Sono andato a celebrare la Messa. Era in latino, ci si voltava a dire “Dominus vobiscum”. Ho visto due SS con lo schioppo, baionetta in canna sulla porta della chiesa. Ho pensato tra me: “Guarda che buoni cristiani, stanno lì ad ascoltare la Messa”. Finita, entrato in sacrestia erano lì pronti. “Kommen Sie mit. Venga con noi. Ja, sehr gern.Molto volentieri”. Credevo nella mia ingenuità per non dire ignoranza che mi prendessero come interprete. Guardate la presunzione umana.

In quel momento così là era. Sono uscito, messo lì da parte. Ho cominciato a rientrare in me stesso. Devo andare a far colazione anche. “Nein”. Un po’ di colazione sono abituato a farla, un po’ comico. Allora mi hanno permesso, sempre accompagnato.

“Ha delle armi?” Qui è il punto, mi è venuta paura, perché avevo una Beretta, schioppo da caccia, non l’avevo denunciato perché mi premeva troppo, era nuovo, era stato un bel regalo. L’avevo nascosto su in cima, sopra l’armadio.

I tedeschi sono andati dentro. Ma davanti c’erano macchine di proiezioni per le scuole. Uno di loro è salito sulla sedia e in quel momento “pataclicchete”, è andata bene, s’è fermato, s’è fatto male al ginocchio. La mamma era con me. “Bono”, dice. “Bono”. Cioè hai avuto il giusto premio. Insomma, non l’ha trovato.

Dopo mi sono messo lì insieme con gli altri. Ad un certo punto tutti in fila verso il comune e da lì verso Trento, la prigione, via Pilati.

D: Ma tutti? Oltre a te anche gli altri paesani?

R: Non tutti, no. Ne hanno scelto una quarantina. Lì anche li hanno lasciati, anziani e così via. Quelli sui quali si sospettava maggiormente. La gente piangeva. Io li rincuoravo. “Ma no, perché?” “Noi torniamo?” “Volete che conducano via il parroco? No, io ritorno, sono insieme con gli altri. Come ritorno io…”. Sempre ingenuo, ignorante vorrei dire, non capivo la situazione in quanto io avevo fatto un’opera di bene, l’avevo detto alle SS. “Io ho fatto solo il sacerdote, predico la carità, ma prima di predicarla, devo tradurla nella pratica. Io non ho fatto niente dal lato politico o altro. Niente. Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati”.

Ero anche giovane, avevo trentacinque anni, ma potevo capirle certe cose. Non le ho capite sempre nella mia ingenuità. Poi in via Pilati. Qui sono rimasto due mesi e mezzo in cella.

D: In cella due mesi e mezzo d’isolamento?

R: Isolamento. Veramente isolamento per tanti motivi che non posso neanche nominare. Non posso dire. Questo isolamento, abbandonato da tutti. Ci si vedeva lì solo, abbandonato da Dio, abbandonato dal prossimo. Proprio non si poteva comunicare, almeno in un primo tempo, con nessuno, dopo venivano le mie sorelle a trovarmi, allora qualche notizia, altrimenti solo.

Pensavo: “Signore, è una scuola anche di psicologia, ma Signore, cosa ho fatto? Ho dato da mangiare, un’opera di misericordia, perché arrivare a ‘sto punto?” Entra quella debolezza anche morale. Non da perdersi di coraggio, non mi sono mai perso di coraggio, ma in certi momenti di ipotensione cardiaca si abbassava il morale.

Affamati naturalmente. In un primo tempo, un quartino, forse non era mezzo litro di brodo di dadi al giorno e due pezzetti di pane al giorno. A quell’età avevo anche appetito. Fatto sta che tra lì e poi al campo di concentramento ho sentito la fame.

Premendo sotto lo sterno si sentiva qualcosa di duro, era la spina dorsale. Adesso non la sento più. Era la fame, la fame. Arrivati ad un certo punto si diventa deboli, fiacchi. La sete è la cosa peggiore. Insomma io sono rimasto lì. Dopo due mesi e mezzo ci trasportano.

D: Scusa, don Domenico, ti hanno mai interrogato quando eri lì in prigione?

R: Sì, si. Mi hanno interrogato alla Villa Rossa dove adesso c’è l’ambulatorio del Dottor Torri, mi pare, lì davanti alle scuole. Due volte mi hanno interrogato.

D: Chi t’interrogava?

R: Era un tale di cui non conosco il nome, un tedesco. Dopo c’era un traduttore, aveva l’interprete. Mi è rimasta impressa una signorina, non aveva ancora trent’anni penso. Iena la chiamavamo. E’ venuta lì. Credeva che sapessi il tedesco. Parlando in fretta in tedesco naturalmente, ho capito un po’, ma ho fatto finta di non capire.

Alla fine coi pugni sotto, indietro, indietro, perché c’era il duro. Mi sembrava che mi era venuta la voglia, la tentazione di far così con quella forza, ho trentacinque anni, così di metterle le mani al collo. Mi sembrava di essere in grado di forarla. Quinto non ammazzare, però in quel momento… In certi momenti quasi quasi lo dimenticavo.

Dico: “Calma”; sono stato capace di mantenere la calma, di rientrare in me stesso. Mai, prima pensare e poi parlare.

D: Ma sei stato accusato di che cosa tu?

R: Di collaboratore di Banditen. Non di armi, collaboratore di banditi perché dando da mangiare a questi che per loro erano banditi, scampati, disertori, io ho tenuto la scala. Loro hanno rubato e io ho tenuto loro la scala. Pensate che io sono sacerdote, predico la carità, le opere di misericordia.

Anche mio papà mi ha detto, oltre che tutti gli altri, “Non è quello che predichi quello che vale, il bene non è quello che predichi, è quello che fai”.

“Ho dato da mangiare agli affamati. Per di più a due dei vostri, due tedeschi, per di più. Non mi pare di aver fatto niente di male”. Per loro erano Banditen perché condannati a morte. Per loro erano Banditen. Il mio reato è aver fatto il bene.

In prigione si può andare non soltanto quando si ruba, ma anche quando si ama.

D: Scusa, don Domenico, quando tu eri qui in prigione a Trento, era inverno vero?

R: Inverno.

D: Faceva freddo?

R: Sì. Questo inverno ha anche degli episodi belli. Il terreno tutto ghiacciato. Quando gli americani, gli inglesi bombardavano la città, lo scalo ferroviario, c’era tutto il terreno ghiacciato, dunque un corpo unico. Sembrava che le bombe cascassero lì vicino. Allora ci facevano discendere “Hinunter” dicevano, come rifugi sotto, negli avvolti delle prigioni. Lì una bella lezione.

Il momento della morte è il momento in cui anche i bugiardi dicono la verità. Inginocchiati, devoti, uomini. Le donne erano in un altro appartamento. Ci dia l’assoluzione. Inginocchiati come all’inizio di una battaglia. Atto di dolore. “Io vi assolvo dai vostri peccati, nel nome del Padre…”

Segno di croce con tanta devozione. Non segno geroglifico, ma un segno veramente da buon cristiano. Bisogna che dica, c’era anche il maresciallo Herr Kunt si diceva, erano tutti italiani lì, ma l’autorità maggiore era questo maresciallo tedesco. Arrivava, certe volte stava lì anche lui. Non il segno di croce, però stava sull’attenti.

Mi sembrava d’aver colto almeno il rispetto per l’azione che stavamo compiendo.

Un altro episodio. Dopo il primo tempo ho organizzato anche gli aiuti esterni. I miei parrocchiani ogni settimana mi mandavano un bel pacco.

Non ho mai sentito la gioia della carità come in quei momenti perché quando si riceveva qualcosa da fuori, al successivo raduno lì nel rifugio si condivideva. La gioia nel dare, perché altri venivano da altre province, non avevano nessun mezzo, nessuna assistenza. La gioia nel dare, in maniera che avevo da mangiare il primo giorno in cui ricevevo la visita, il secondo e dopo era come gli altri. Non ho mai sentito… Insomma, la gioia nel dare. Di voler del bene.

D: Don Domenico, le altre persone arrestate con te, quelle del tuo paese, sono state poi liberate?

R: Sono state liberate tranne il parroco di Casata, il parroco Don Partis, è rimasto lì con me quindici giorni e poi è stato liberato. Gli altri sono andati a casa tranne due.

D: Chi erano questi due?

R: Due. Uno era un mio parrocchiano, dopo il medico condotto, un certo Dottor Nicolini che dopo è venuto medico condotto dalle parti di Egna, Neumarkt.

D: Dopo due mesi e mezzo di carcere qui a Trento ti hanno portato dove?

R: A Bolzano, Durchgangslager, campo di smistamento. Lì eravamo circa duemila. Dico circa perché ne arrivavano cinquanta di nuovi e ne partivano trenta per Dachau, da quelle Büchenwald ,parti lì, almeno così si diceva. Ne arrivavano cento, ne partivano cinquanta e così via. Era Durchgangslager, dunque campo di smistamento.

D: Con cosa ti hanno portato da Trento a Bolzano?

R: A Bolzano su un camion, eravamo in quarantadue, anche lì è stata bella. Quarantadue su un camion scoperto naturalmente, ai quattro lati del cassone quattro SS col mitra sempre pronto.

Arrivati a Gardolo: “Schauen Sie dort” “Guarda lassù”, sei bombardieri scendevano in picchiata per bombardare il ponte della Vis, ma a quell’altezza sembrava la nostra direzione e allora “Schauen Sie durch”; hanno visto, fermano il camion alle prime case di Gardolo, siamo entrati in una casa fino al cessato allarme e poi siamo saliti.

Intanto uno l’è partito. Saliti sul camion per continuare, 50 metri un altro allarme. Dentro. Al primo è andata bene. Sono partiti altri tre. Da quarantadue siamo rimasti in trentotto. Ci avevano avvisati, ognuno che parte, che scappa, dieci vengono fucilati. Allora ne erano partiti quattro, eravamo in trentotto, tutti in fila, due file così. Ai lati SS, ce la siamo vista un po’… Dovevo dare coraggio perché ero prete. uno su dieci, siamo intrentotto, dovrebbero ammazzarne quattro, volete che vadano a Trento?

Fatto sta che pronti lì con il mitra, l’abbiamo vista brutta, ma dopo non hanno sparato. Invece che continuare per Bolzano, siamo ritornati a Trento in prigione dove eravamo prima e siamo partiti durante la notte per arrivare poi a Bolzano durante la notte.

D: Quindi durante la notte tu sei arrivato al campo di Bolzano?

R: Sì.

D: Come te lo ricordi l’ingresso nel campo di Bolzano?

R: L’ingresso, in fila, anzi due file. Tedeschi su dritti, bisognava fare i segni, cappelli, bisognava fare questo segno. Posso alzarmi? No. Allora bisogna far così. Giù, anche se uno non aveva cappello. C’era una damolina, una certa Kapeller. Il Dottor Nicolini, medico condotto, una persona molto intelligente, cappelli pronunciato dai tedeschi, Kapeller si è voltato un po’ a destra, a sinistra ‘sta Kapeller.

Il tedesco è andato lì, non uno schiaffo, un pugno. Era lì davanti. Un pugno, s’è riversato verso di me. Svenuto. Stava per svenire, allora l’ho fregato sulla testa, coraggio. Si è rimesso in sesto. Questo è stato il primo impatto.

Dopo ci hanno messi a dormire nel primo blocco, blocco A riservato agli ebrei. Durante la notte ne sono morti due, due ebrei che erano andati a prelevare da una casa di riposo. Uno scrupolo di coscienza da giovane, avevo poca esperienza. Uno proprio sotto di me. Eravamo in tre, uno sopra l’altro, tre.

Un moribondo, noi sacerdoti siamo abituati, le preghiere. Cosa fare? Non avevo niente. Ho dato l’assoluzione. Ho chiesto a uno che faceva la guardia di notte. Cosa c’è? Un vecchietto che sta morendo, niente, niente, sta morendo.

Uno, prima il saluto al medico con un pugno, uno sta morendo… Ho cominciato un po’ a raccapezzarmi. Dopo il secondo giorno ci hanno assegnato al nostro blocco, il mio era il blocco G, eravamo dentro in circa duecento.

Il blocco era come una divisione, camerette. Una malga, uno stallone con diversi divisori. Naturalmente uno sopra l’altro, anche lì tre. Anche lì da soffrire, però tanta consolazione, perché sapevano che io ero prete, mi avevano levato la veste naturalmente, mi avevano vestito… Una roba comica. Mi avevano dato un paio di calzoni da cavaliere, stretti… ” Diese Hosen sind zu klein, dico. Ste brache mi sono troppo strette. Nein”.

La prendevo con filosofia. Allora provare a metterle dentro. Erano proprio strette. Le ho messe dentro con fatica naturalmente. Dopo ho respirato. “Crac” hanno fatto e li ho visti ridere. “Diese Hosen sind zu klein”, dico calmo, tranquillo, cercavo di non arrabbiarmi perché ho come esperienza che man föngt mehr Fliegen mit dem Honig als mit dem Essig, cioè se ciapa più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto, più con le buone che con le cattive.

Con i tedeschi mi sono arrabbiato una volta sola, lì l’ho vista brutta. Volè che ve la conta? Lì è una pagina brutta perché sono venuto a sapere che mio papà era morto. Papà e mamma erano con me in canonica. Sono venuto a sapere che era morto. Allora sono andato lì. “Mei Vater ist gestorben”. “Il mio papà è morto, fatemi qualsiasi condizione, pur di vedere la mamma”. La mamma per me era tutto.

A un certo punto c’era un tavolo alla porta d’uscita, una scala, un tavolo rettangolare, ascoltava. Dicevo: “Non ho soldi qua, ma ho campi, prati a casa. Pago tutto, vendo un campo pur di vedere mia mamma”, perché mia mamma non sapeva neanche se ero vivo.

D: Questo è successo quando era in campo di concentramento?

R: In campo di concentramento, sì. L’altro dopo aver ascoltato, anche qui ingenuo, credevo, forse mi sembrava commosso. S’è alzato, adesso non posso muovermi, ha fatto il giro, ho visto dal segno del piede che stava per darmi un calcio. La porta era aperta come un ponticello dopo la scala. Non mi ha raggiunto, mi ha raggiunto soltanto di striscio con quelle scarpe di montagna qui nella parte deretana, ne porto ancora la cicatrice.

Cicatrice nel senso che la pelle è un po’ ruvida. Non posso lasciarvela vedere. Quando sono stato in fondo, mi sono voltato ho detto: “Heute mir, morgen dir”, cioè oggi sono io che le piglia, ma domani potresti essere tu. Cric crac per il campo. Lì sono diventato un po’ furbo, invece che andar diritto, andavo così perché era più difficile. Non ha sparato, ma me la sono vista veramente…

Toccarmi negli affetti più cari, più intimi, papà e mamma, non sono stato capace di vincermi.

D: Don Domenico, quando allora sei entrato ti hanno messo al Blocco A, poi al Blocco G.

R: G.

D: Ti hanno tolto il tuo abito?

R: Sì, questo me l’hanno levato, l’hanno messo in un sacco da cemento vuoto. Dopo ho guardato dove lo mettevano. L’hanno messo sopra le prigioni del campo. Ho guardato proprio perché magari pensavo che un domanisarei andato a prendermelo. Mi hanno dato la divisa, ho detto prima, quella divisa da cavaliere non andava bene. Allora mi hanno dato una tuta grigia. Bianca era originariamente, ma era grigia con la croce di Sant’Andrea davanti, sulla schiena e nei calzoni.

Croce di Sant’Andrea perché era un segno. Non si poteva uscire. Se si voleva scappare bisognava andare come si era e quindi si veniva riconosciuti. Invece il segno eccolo qua. Qui uno che non l’ha provato, non può immaginarselo.

Più delle botte mi faceva soffrire questo segno. Più delle botte. Qui era nome, cognome, titolo di studio, posizione sociale, era tutto, tutto. Vicino a questo c’era il triangolino rosso. I colori di questi segni erano tre: il giallo per gli ebrei, l’azzurro per gli ostaggi, cioè scappava un figlio, andavano a prendere il padre e il rosso per i politici, per i peggiori. Io ero uno dei peggiori.

Questo vuol dire: nome, cognome, titolo di studio, posizione sociale. Anche un cane ha un nome: Fido, Bobi, così come quello della televisione. Un cane ha un nome. Tu sei peggio di un cane e questo moralmente era una sofferenza proprio che colpiva.

D: Lì dentro?

R: I soldi, quando sono partito da casa sono sempre stato povero, avevo trecento lire. Centocinquanta le ho lasciate ai miei e centocinquanta me le son prese io. Entrati nel campo ce le cambiavano perché non si poteva comperare, né negoziare con l’esterno. Ci davano dei soldi di valore, questa era una lira.

Questa era anche una scuola. Lì dentro c’era il Comitato di Liberazione Nazionale, il famoso CLN. Lì rappresentati da cinque partiti: Comunisti, Socialisti, Partito d’Azione, adesso Repubblicano, Democrazia Cristiana e Liberali.

E quando alle 6.00 di sera ci chiudevano nei blocchi, allora ci trovavamo tutti i rappresentanti di questi cinque partiti. Sono stati gli altri perché di politica non me ne intendevo niente, come me n’intendo poco anche adesso magari.

Mi hanno dato quello della DC, la firma è Pirelli, credo che sia quello delle gomme Pirelli, porto ancora la firma, questo è l’originale. Reverendo Girardi Don Domenico, matricola 10626 è un ex detenuto politico proveniente dal campo di Bolzano e merita perciò l’aiuto di tutte le autorità civili e militari e di tutti i cittadini dell’Italia liberata in riconoscimento dei sacrifici sofferti per la patria oppressa.

Perché questo sia valido, doveva essere munito del documento di scarcerazione, eccolo qua, Entlassungsschein, il documento di scarcerazione e poi questo tagliandino, il distintivo speciale, questo.

D: Don Domenico, quando ti chiamavano allora per l’appello, ti chiamavano con il numero?

R: 10626 pulizia. Allora andavo. Il mio lavoro da principio era la pulizia dei gabinetti, non si può neanche dire perché di gabinetti non ce n’erano. Descrivo come era. Era un bidone di circa un ettolitro, un bidone di latta, in cima c’erano due orecchini così. La mattina questo funzionante gabinetto era pieno di escrementi.

Allora io e un altro prendevamo un palo, lo infilavamo in questi aggeggi, lo si portava fuori in una buca. Dopo hanno fatto una specie di orinatoio scorrevole. Allora avevo meno lavoro. Questo era il lavoro: fare le pulizie.

Dopo il lavoro batter su legna, è una delle belle consolazioni. Consolazioni per una scuola. Immaginarsi una bora di circa 20 metri, ai lati due SS col mitra sempre pronto a sparare, guai a parlare, non dicevano vai in fretta o altro, no, non parlare.

Avanti così. “Padre mi confessa?” “Sì, volentieri” Quando diceva “Confessami”, veniva lì vicino a me, intanto lavoravamo insieme, sempre in movimento. Tante volte, tanti, ma tanti che venivano a confessarsi. Dando l’assoluzione, alzando la mano facevo finta di asciugarmi il sudore, non c’erano fazzoletti.

“Io ti assolvo dai tuoi peccati in nome del Padre…” Un segno geroglifico ed era l’assoluzione. Finito un ramo dopo ne veniva un altro e tutti i giorni. Più di tutto la sera quando ci chiudevano nei blocchi, “Mi confessa Padre?” “Sì, volentieri”.

Io ero al terzo piano, lì vicino alla finestra, finestra senza vetri, mi sono preso anche una faringo/laringite cronica, per questo la voce con facilità mi scappa. Lì confessare. Barba lunga, testa rapata, confessore, confessando tutti uguali. Non mi sentivo di stare seduto, inginocchiati tutte due.

Per me era una bella consolazione poter dare una parola di conforto.

D: Don Domenico, quando sei arrivato tu nel campo di Bolzano ti ricordi che periodo era?

R: Il periodo era fine marzo.

D: Del ’45?

R: ’45. Arrestato la metà di gennaio.

D: Un’altra cosa Don Domenico. Tu potevi celebrare Messa?

R: No, mai, mai, né in prigione a Trento, mai, né celebrare, né dire il breviario, anzi, non si poteva avere niente. No, mai, mai celebrato.

D: Ti ricordi se c’erano altri sacerdoti con te a Bolzano?

R: Sì, a Bolzano lì al momento non ne vedevo, ce n’erano stati, Don Guido Pedrotti, ma era già partito. Dopo Monsignor Daniele Longhi anche. La domenica veniva un Monsignore di Genova dicevano, un Monsignore di Genova a celebrare la Santa Messa.

Un fatto che mi è rimasto impresso: la terza domenica di aprile ormai c’era odore di libertà. E’ venuto Monsignor Bortignon, allora Vescovo di Feltre/Belluno, dopo è diventato Arcivescovo di Padova. Quel famoso, bravo Vescovo che ha dato l’Olio Santo in fronte ai partigiani uccisi dai tedeschi a Bassano. S’è preso una scaletta, erano impiccati e ha dato l’Olio Santo.

Questo Vescovo, erano presenti anche SS, ha parlato in maniera ineccepibile, non potevano accusarlo i tedeschi, ma ha fatto capire a noi che ormai la vittoria, l’uscita, la Liberazione era vicina.

Anche il bell’episodio. Io avevo messo insieme un coro, cantavamo durante la Santa Messa. Le canzoni che sono conosciute dalla Sicilia fino a Bolzano. “Mira il tuo popolo”, “Lieta armonia”, “Inni e canti”, “Sciogliamo un cantico”, ecc. Queste canzoni che comunemente cantiamo o cantavamo dappertutto perché adesso ci sono altre novità.

Immaginatevi, duemila cantori. Ero su un podio, era una cassetta che scricchiolava, ero in pericolo di cadere, che dirigevo “Mira il tuo popolo”. Erano dei canti, credo che Riccardo Muti di fronte a quei concerti sarebbe risultato inferiore. Voglio dire una massa di gente stonata, non vorrei offendere la fama di Riccardo Muti…

Che sia canto stonato o non stonato, ma un’impressione, duemila persone a squarciagola che cantano “Lieta armonia”, “Mira il tuo popolo”, “Inni e canti” e così via. Vicini alla Liberazione, almeno così presentivamo. Una bella pagina.

D: Don Domenico, ti ricordi se c’erano anche delle donne nel Lager di Bolzano?

R: Sì, c’era un blocco riservato proprio alle donne. Era il blocco mi pare, non ricordo se era il blocco N. Era circoscritto, potevano uscire a pigliare l’aria fuori del blocco, potevano uscire in un piazzale. Naturalmente c’era il reticolato. Non si poteva avere nessun contatto con gli uomini, però si vedevano dentro. C’erano anche alcune che conoscevo. Questa Kapeller che ho nominato prima.

D: Ti ricordi se hai visto anche dei bambini, dei ragazzini dentro nel campo?

R: No, proprio ragazzini e ragazzine non ne ho visti.

D: In fondo al campo c’era il Blocco Celle.

R: Il Blocco Celle. Noi la chiamavamo la prigione del campo. Lì un episodio che mi ha fatto… La prigione, l’ho qui davanti alla mente come se fosse capitato ieri.

La domenica pomeriggio, la mattina sempre lavorare, ma nel pomeriggio avevamo la libertà di passeggiare nel piazzale, oppure di fare le nostre pulizie personali, nettarci. Ci spogliavamo come i vermi e mettevamo il vestito nella macchina la chiamavamo massapioci ad una gradazione di 100 gradi dicevano.

I pidocchi venivano tutti uccisi. Il vestito sterilizzato, dopo se davi uno strappo così, si metteva. Intanto si stava lì. Una domenica pomeriggio dunque tutti dentro nei blocchi. Cosa c’è? A un certo punto verso le 3.00 una voce da una delle celle: “Dio, mamma”, forte, una voce femminile, avrà avuto venti, venticinque anni, “Dio, mamma, mamma, Dio”. Sarà durato circa dieci minuti. Dopo non si è sentito più niente. S’è visto un carro con le ruote militari, con le ruote lunghe tirato da un asino rognoso, un soldato che tirava si è avvicinato con la retromarcia all’entrata delle prigioni, hanno caricato qualcosa. Io non ho visto proprio con i miei occhi, ma certo il corpo esanime, il cadavere coperto con una tela cerata ed è passato lì sotto proprio alla finestra del mio blocco.

Ho visto che non era la tela cerata liscia così piana, ma era un po’ curvata. Sotto c’era il corpo. Dicevano due ucraini che una cella era riservata proprio per il martirio, si diceva. Acqua, all’entrata uno scalino alto così, botte, ciac, uno, l’altro, dai ancora finché la vittima era morta, cadeva per terra, se non era morto dalle botte, si apriva il rubinetto e moriva annegata.

Io però non l’ho visto. Sono entrato alla fine ma di sbirciata perché non avevo altra voglia che di prendere la mia veste, ero andato a prenderla sopra intanto e l’ho indossata, l’ho baciata e l’ho bagnata di lacrime di consolazione. Siamo ritornati a piedi fino a Cavalese.

D: Prima della Liberazione dentro nel campo quindi tutti voi avevate un lavoro?

R: Sì.

D: Non uscivate dal campo?

R: Sì, si usciva, non sempre, ma si usciva quando in città c’erano dei bombardamenti, allora si usciva come operai per riparare, la stazione in modo particolare, si faceva la parte dell’operaio. Era anche qui una bella consolazione perché c’era gente, sempre scortati dalle SS naturalmente, ma ci davano qualche pezzo di pane, si faceva in modo di ricevere senza essere visti.

D: Don Domenico, tu ti ricordi quando sei stato dentro nel campo di Bolzano se potevate scrivere e ricevere dei pacchi?

R: No, non si poteva avere nessuna comunicazione con l’esterno, nemmeno riceverla. Io non ho mai ricevuto, non ho mai scritto, non era possibile, interdetta qualsiasi comunicazione.

D: Ti ricordi se attorno al campo, cosa c’era, un muro di recinzione?

R: Un muro di recinzione, sì, ma non mi sono mai avvicinato, tra lavoro, dopo c’era il piazzale interno, dopo si era occupati al lavoro, dopo le 6.00 ci chiudevano nei blocchi, non c’era tempo di far passeggiate. Si era controllati.

D: La Liberazione, cosa ti ricordi della Liberazione dal Lager di Bolzano?

R: La Liberazione, gli ultimi giorni avevamo tanta paura perché si era diffusa la voce che i veri partigiani avrebbero assaltato il campo, ci avrebbero liberato. Circolava la voce, per dire è tutto radio scarpa, circolava la voce che i tedeschi non avrebbero dato il campo ai partigiani assolutamente, piuttosto ci avrebbero uccisi tutti quanti. Questo era il pensiero, la paura. Si diceva, “Voi partigiani state dalle vostre parti, fate quello che avete fatto fino adesso. Lasciate”. Difatti è entrato, se ben ricordo, il 27 aprile uno si diceva fosse rappresentante della Croce Rossa Internazionale, uno svizzero e siamo partiti con la carta di legittimazione, eccola qua, Entlassungsschein, il lasciapassare proprio così, Entlassungsschein Girardi Domenico,

geboren 14.8.1910, Bozen entlassen. Con questo anche se ci avessero fermati, anche per venire a casa c’erano posti di blocco, con questo potevamo superare qualsiasi difficoltà.

D: Quindi tu sei stato liberato dentro nel campo di Bolzano e poi a piedi sei uscito dal campo?

R: E arrivato… Fino a Ora col treno, no, con mezzi di fortuna, poi col trenino fino a Cavalese. A Cavalese siamo arrivati alle 2.00 di notte, entrati in un convento, c’era il padre guardiano, una volta era padre guardiano, Padre Giuseppe De Gasperi.

Arrivando alle 2.00 abbiamo messo sottosopra il convento, mangiato finalmente un po’ di pane, di formaggio. Dopo riposato, se così si può dire, la mattina ritornati a casa, io a Valfloriana che dista circa 8/10 km.

Lì una scena commovente, perché preparato quel Don Patis di cui avevo parlato, era compagno di prigionia, tutto organizzato, dovrebbe arrivare Don Domenico. Allora avvisati tutti i parrocchiani, il suono delle campane e mi sono venuti incontro per circa 4 km. fino al centro, tutti. Vedevo anche delle mamme con i bambini piccoli sulle spalle.

Scusate, anche se sono passati cinquantacinque anni, ma mi par di viverla quella roba. Viene commozione. Ritornato. Prima stazione in chiesa, ringrazio il Signore che era lì vicino, “Ringrazio Signore che mi avete fatto ritornare”.

Vicino alla chiesa il cimitero, il papà morto il 14 aprile, seppellito il 16. C’erano ancora i fiori appassiti. Visita al cimitero, qui incontro con la mamma. Qui la fossa, io e qui la mamma. L’abbraccio. Un’emorragia nasale, cola il sangue, bagnati tutti quei fiori. Dicevano un litro di sangue. Una fortuna. Se non avessi avuto quell’emorragia, potrei essere morto in altre maniere. Emorragia cerebrale, una sincope cardiaca o altro così. L’incontro con la mamma.

Ritorno in canonica a pochi passi. C’erano le mie sorelle anche e andavo errando, al momento contento ma andavo errando. Andavo cercando mio padre, inconscio di quello che facevo. Contento, ma mi mancava qualcosa, mi mancava il papà. Ho visto le sorelle e vado a cercare il papà.

Qui un dolore. E’ passata, adesso sono qui, scusate la commozione, ma quando si ha una certa età…

Moimas Albina

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Moimas Albina, nata a Monfalcone il 30 ottobre del 1921.

D: Albina, quando ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato il 1 giugno del 1944.

D: Dove?

R: Ero a casa a dormire.

D: Perché ti hanno arrestato?

R: Mi hanno arrestato perché la sorella più anziana aveva un figlio con i partigiani e questo figlio era in montagna, non era a casa. Allora mia sorella già aspettava qualcosa di poco buono. E’ andata a dormire in un’altra famiglia. Così la mattina del 1 giugno sono venuti e l’hanno portata via con tutta l’altra famiglia.

Poi, dato che io stavo a Ronchi dei Legionari in Piazza Oberdan, era presto, erano le 6.00 di mattina, sentivo che qualcuno chiamava perché il portone era ancora chiuso, c’era il coprifuoco e io ero a letto.

Sentii chiamare, sono andata alla finestra, ho visto che era mia sorella. Mia sorella mi ha detto Albina, vai a casa mia a prendere qualcosa perché guarda qua, ci sono i tedeschi e i fascisti”, io e Bepi, suo marito, mio cognato e gli altri li avevano portati via da casa.

“Vai a casa mia, prendimi qualche cosa perché mi portano in prigione”. Allora mi sono alzata, ma non potevo andare subito perché era ancora il coprifuoco. Ho aspettato un momento con la bicicletta, poi sono andata sempre a Ronchi, anzi ad una piccola frazione, San Vito si chiamava. Lì sono andata, c’era la casa tutta buttata per aria.

Il bambino piccolo di mia sorella solo in casa. Io sono andata dentro, ho preso due o tre cose e poi sono andata sempre in Piazza Oberdan dove erano con il camion. Era dei fascisti e dei tedeschi. Sono andata vicino per portare queste cose, le cose sue. Mi sono fermata un momento.

E’ venuto un vicino, ha detto “basta con le chiacchiere, vai a casa perché se no vai su”. Mi sono girata e ho detto: “Non faccio niente qua”. “Allora basta, vai su anche te”. Non volevo. Ho detto: “No, io non vado su, non ho fatto niente”.

Allora s’è girato dall’altra parte, “Vedi la tua famiglia in fondo sul portone? Sono capace di portarti vicino e uccidere te e anche i tuoi”.

Sentendo quelle parole, ho preso paura, ho detto “E’ meglio che vado su” e così sono andata sul camion. Eravamo in ventinove, con me trenta. Siamo stati fermi un momento. A casa mia tutti sbigottiti, hanno preso la bicicletta che era sul portone, l’hanno portata dentro e sono andati dentro.

Col camion siamo andati a Trieste. A Trieste mi hanno portato in prigione al Coroneo. Là siamo andati dentro in un grande stanzone. Siamo stati tutta la mattina lì ad aspettare. Poi chiedevano cosa, il perché, il motivo… Poi ci hanno fatto salire sopra. Ci hanno portati ognuno in prigione, nelle stanze.

Dentro eravamo in tre, c’era già dentro gente, eravamo in venti là dentro, proprio. Lì sono stata dal 1 giugno fino al 28. Ventotto giorni sono stata in prigione. Poi dalla prigione hanno fatto il convoglio e portata là. Però quando ero in prigione i miei ogni due/tre giorni venivano a portarmi la biancheria pulita e anche qualcosa da mangiare perché in prigione si mangiava quello che si mangiava, insomma. Risi e bisi tutti i giorni.

Sapendo che dovevo partire per la Germania, ho messo un biglietto nell’orlo del vestito. Loro andando a casa hanno trovato questo biglietto. Il giorno che siamo partiti sono venuti tutti in stazione a Ronchi, i familiari, gli amici, i conoscenti, tutti quanti.

Quando siamo arrivati a Ronchi il treno s’è fermato perché c’era la stazione gremita di gente. Hanno fermato il treno e sono venuti tutti giù a salutare i nostri famigliari, ci hanno portato diversa roba da mangiare, hanno portato vestiario, roba.

Lì ci hanno lasciato un quarto d’ora. Poi siamo saliti di nuovo tutti quanti in treno sulla tradotta del bestiame e siamo partiti per la Germania. Però neanche in Germania, in Polonia.

D: Scusa un attimo Albina. Scusa un secondo.

R: Sì.

D: Hai detto che quando ti hanno arrestata a Ronchi dei Legionari tu facevi la trentesima. Eravate in trenta sul camion.

R: Sul camion.

D: Quanti della tua famiglia?

R: Della mia famiglia c’erano mia sorella e mio cognato.

D: E gli altri chi erano?

R: Gente di Ronchi, tutti amici, ci si conosceva, ci si conosceva tutti quanti.

D: Ho capito. Dopo ti hanno caricato alla stazione di Trieste?

R: Sì, quando eravamo in prigione alla mattina presto ci hanno fatto venire fuori tutti quanti dalle celle e ci hanno portato giù in prigione. Giù c’era altra gente delle altre celle, era una fila grande, saremo stati circa duecento persone, sì, perché il treno era grande, era tutto pieno, tutto pieno.

Però il treno era per Auschwitz e per Buchenwald. Mio cognato l’hanno portato a Buchenwald, non a Mauthausen. Il treno era lungo, metà ad Auschwitz, metà a Buchenwald.

D: Ascolta un’altra cosa.

R: Dimmi.

D: Quando eri in prigione a Trieste sei mai stata interrogata?

R: Poco. Quando eravamo appena arrivati nello stanzone, lì mi hanno domandato qualcosa ma poco perché non avevo da dire niente, non ero come i partigiani che li prendevano qua e là e avevano da dire. Non c’era motivo per farlo perché non avevo cose da dire.

D: I vagoni dove ti hanno messo erano carri bestiame?

R: Carri bestiame, sì, altro che, chiusi anche, tutti chiusi. Quello sì.

D: Sul tuo vagone in quanti eravate?

R: Oddio, tanti. Tanti perché stavamo in piedi come sardelle, tanti. Saremo stati trenta, anche più, tanti.

D: Solo donne?

R: Solo donne. Solo donne, sì.

D: C’erano anche delle ragazzine o persone anziane?

R: No, persone anziane sì. Io avevo 22 anni compiuti, loro erano più anziane di me. Mia sorella era del 1902, era più anziana, tanto più anziana, anche altre. Noi eravamo fra le più giovani, 20-22 anni.

D: C’erano delle guardie?

R: Quando ci hanno portato via?

D: No, quando eravate sul vagone, sul Transport.

R: C’erano carabinieri nostri e tedeschi delle SS, sì, anche nella prigione ci hanno portato alla stazione a Trieste, dopo hanno fatto il viaggio con noi fino al campo. Anzi un carabiniere ci ha detto: “Andè via contente perché se in preson ti es chiuse per ciapar aria, ma là vedarè qualcosa che non ve aspetè”. Un carabiniere me l’ha detto. Quello ha detto giusto.

D: Dopo che siete partiti da Ronchi, quanto è durato il viaggio? Te lo ricordi?

R: Da Ronchi col treno? Cinque giorni di viaggio perché c’erano i bombardamenti. Il treno si doveva fermare, mettersi da parte, non andare avanti. Cinque giorni perché siamo arrivati il 3-4 luglio là.

D: Mangiare e bere?

R: Mangiare e bere caro… Allora, mangiare… Noi ringraziando Iddio avevamo ancora qualcosa perché fermando a Ronchi… Davamo da mangiare anche agli altri. Prima di tutto, eravamo in giugno, noi avevamo tanti frutti, tante ciliegie. Mi avevano portato un cestino di ciliegie, tante. Le ho spartite in treno con tutti, anche altra roba. Poi ho tenuto anche qualcosa per me che mi hanno portato via, però ho mangiato quel poco che avevo portato via. Chi aveva portato via dalla prigione, chi aveva portato qualcosa lì in stazione, ma da mangiare, caro, niente.

Quando dovevamo andare a fare i bisogni, quando c’era il treno fermo, pregavamo quelli delle SS, loro scendevano e noi vicine a far pipì, vicino a loro. Basta, poi risalire e andare là.

D: E il treno è arrivato dove?

R: Il treno dentro Auschwitz. Dentro Auschwitz.

D: Cioè Birkenau, Auschwitz 2, Birkenau.

R: No, ho paura perché questo è il fatto, perché io mi ricordo benissimo di aver visto, anzi mia figlia è qua presente che mi aveva domandato le dicevo sempre: “Mi resta in testa quel portone che c’è scritto Arbeit…” Io l’ho visto là. Io non so che giro mi hanno fatto fare perché adesso ho visto com’è Auschwitz 1 e Auschwitz 2, ma prima non lo sapevo. Adesso ho visto qualcosa di più. Là non si sapeva dove ci avevano portato.

D: Quando il treno è arrivato era mattina o sera?

R: Era verso mezzogiorno, no, verso le dieci e mezzo/mezzogiorno siamo arrivati. Appena siamo arrivati abbiamo visto il demonio. Vicino a noi quando ci siamo fermati, hanno fermato un treno di ebrei, carico, stracarico di gente mezza viva, mezza morta.

Noi eravamo da parte. Hanno aperto i vagoni, hanno preso questa gente morta, chi per le braccia, chi per le gambe e li buttavano giù di peso.

Noi appena arrivati, abbiamo detto: dove siamo arrivati? Spaventate e basta. Dopo un’altra cosa. Fino che siamo andate avanti in fila sempre lì abbiamo visto mucchi di scarpe, mucchi di capelli, orologi, carte d’identità. “Signore Iddio, cosa c’è qui?” Eravamo vicino al crematorio perché ci hanno portato dentro proprio negli stanzoni del crematorio. Noi non lo sapevamo.

Siamo entrate in questo stanzone grande. Era pieno come di spine, queste cose fuori come quando si fa la doccia. Madonna, cos’è. Noi siamo entrate là. Ci hanno fatto fare, per modo di dire, una doccia. Prima l’acqua bollente. Dopo acqua fredda. Con quella ci siamo lavate. Nude, ci hanno messe da parte là. Ci hanno tagliato i capelli, ci hanno rasate, ci hanno portato via tutto.

Quando ci siamo guardate tutte quante non sapevamo se piangere o se ridere, non ci si riconosceva più, senza capelli, spaventate. Robe da non credere.

D: Albina, c’erano delle donne incinte con te?

R: No. Questo no. No. Delle donne più anziane sì, erano due, anzi, poverette, neanche tornate, ma incinte no. Neanche tanto giovani, erano come noi sui vent’anni, ventidue. Altrimenti un po’ più vecchie.

D: Poi che cosa vi hanno fatto dopo la doccia, cosa vi hanno fatto?

R: Ci hanno attaccato il numero sul braccio. Tutti in fila, ci hanno fatto il numero.

D: E il tuo numero te lo ricordi?

R: Me lo ricordo sì, me lo ricorderò: 82139, lo ricorderò per tutta la vita anche se non l’ho sul braccio.

D: E come hanno fatto a farti il numero?

R: Il numero non era una cosa tanto difficile. Era come una penna, come quando si fanno le punture, una robetta così, avevano una pratica tagliente, mi tagliano il braccio a puntini. Un attimo, non faceva male, erano come beccatine, robette così da niente.

D: Eravate in piedi o sedute?

R: Quando ci facevano il numero sedute perché si doveva appoggiare il braccio. Loro erano seduti vicino e facevano questo numero.

D: Dopo ti hanno dato dei vestiti?

R: Mi hanno dato dei vestiti, sì, mi hanno buttato dei vestiti. Mi ricordo sempre, mi hanno dato, erano tanto pieni di pidocchi, poveretta, una maglia verde che avrò tenuto su per tre mesi, una cottola, non so di che colore era, se era a campana o a pieghe, non so. Perché come ti disinfettavano loro, mettevano dentro, poi buttavano là la roba. Non era sporca, era disinfettata, era “sgrisinida” in dialetto.

D: Tutti qui i tuoi vestiti?

R: Oddio, i miei vestiti erano anche un paio di mutande legate in vita lunghe fino al ginocchio che si tenevano su a fatica. I vestiti erano tutti quelli, non erano altro. Un paio di scarpe, una scarpa numero 36 e una scarpa numero 38. Avevo un calzino corto e un calzettone. Immaginate voi.

Poi ho m’è toccato anche andare in ospedale per causa di queste scarpe, mi hanno fatto male, mi è toccato andare in ospedale perché mi si erano gonfiati i piedi, camminando, camminando con le scarpe mal messe, una stretta e una larga, andando fuori a lavorare mi avevano fatto male.

Una mattina male, male, avevo quaranta di febbre, mi hanno portato in infermeria, mi hanno portato in ospedale, mi hanno operato. Sì, mi ha operato una dottoressa russa prima la gamba. Ho fatto due giorni che mi hanno operato alla gamba, dopo due giorni mi è venuto fuori qua sotto il braccio un affare grosso così. Mi hanno operato anche sotto il braccio. Insomma, ho fatto quasi dieci giorni di ospedale sempre a Auschwitz nelle baracche.

D: Dopo però la spogliazione ecc. l‘immatricolazione, ti hanno portato in baracca.

R: Mi hanno portato in baracca, sì. La baracca sarebbe una baracca per stare un periodo perché eravamo come in quarantena perché avevano paura che da fuori portavamo le malattie. Ci mettevano in quarantena.

Però la quarantena non l’abbiamo fatta perché c’era tanta di quella gente. Avremo fatto quindici-venti giorni, dopo da là ci hanno tirato fuori, ci hanno messi nel blocco n. 13 che l’ho cercato adesso, ma non l’ho più trovato.

D: Quando sei stata lì ad Auschwitz, quando eri lì ad Auschwitz hai lavorato tu?

R: Sì, si, ho lavorato. Mi portavano fuori. I primi momenti mi hanno portato fuori senza lavorare. Mi portavano fuori la mattina, mi facevano camminare e andar per i campi. Ci davano una pala ciascuno, un badile, girare la terra del campo i primi momenti.

Poi è arrivato il momento che mi hanno cambiato di blocco, mi hanno messo in un altro blocco e lì eravamo già pronte per andare a lavorare.

Loro fuori da Auschwitz avevano delle grandissime fattorie, avevano dei trattori, avevano dei cavalli, avevano tutto, facevano questo grande raccolto per il campo stesso.

Noi ci portavano fuori. Come tagliavano il frumento, noi dovevamo prendere i covoni, legarli, metterli da parte perché come si girava, dovevamo fare alla svelta, portali qua. Per un periodo finché c’era il frumento.

Dopo invece c’era non l’orzo, una cosa come i fagioli, ma non erano fagioli, era un’altra roba. Allora prima passavano sulla macchina, aveva su questa roba, i fagioli, li mettevano lì. Dopo noi col vasetto che avevamo buttato qua, quello da mangiare, si doveva in fila così, trenta, quaranta donne tutte quante in fila abbassate a tirar su i grani per terra. Riempire i vasetti e buttarli nei sacchi.

La sera c’erano centinaia di sacchi pieni di roba, di tutta la roba cascata per terra. Tutto il giorno con la schiena abbassata per tirar su questa roba e metterla nei sacchi. Si facevano quei lavori ad Auschwitz.

Quando si usciva, c’era la banda, tutte le belle signorine di fianco al portone, c’era il Presidente, mi ricordo quando si suonava che si passava. Bisogna che non ci pensi perché se no… Mi vien su…

D: Ascolta, altri lavori ne avete fatti?

R: Lì ad Auschwitz no perché dopo Auschwitz io sono stata a mi ricordo benissimo perché era il mio compleanno, stavo tanto male. Mi hanno portato via. Quando siamo stati a … al 30, perché sono arrivata a Ravensbrück il giorno 30. Il giorno 29 ad Auschwitz mi hanno detto che non si va a lavorare, si va fuori, bisogna tenersi tutti quanti lì fermi perché da un momento all’altro verrà un trasporto, cambiamo campo perché i giovani bisogna che vengano portati via, devono andare a lavorare in altri posti, perché si sentivano già i bombardamenti, la guerra.

Allora la mattina mi hanno portato in questo grande stanzone a fare i bagni, a cambiarsi di roba perché dovevamo fare questo trasporto.

Allora così è stato, bagno, per modo di dire, come erano abituati loro, un po’ di acqua calda, un po’ di acqua fredda, nude, ore lì senza asciugarsi, senza niente, come si è.

Allora finiamo di lavarci, ognuno passa in fila e le butta la roba. Chi un paio di mutande, chi un vestito, chi una calza. Passo io, mi buttano la mia roba. Però al momento delle scarpe, le scarpe, io sono l’ultima, no.

Vado là, vado vicino alle… Le chiamavano perché non erano neanche tedeschi questi delle SS, erano prigionieri come noi, però erano tedesche e polacche ed erano anche lì da tanto tempo prima di noi e allora erano i nostri comandanti.

Erano la Stubowa, la Blokowa, tutti quei nomi che davamo. Vedendo che ero così malcontenta, ma come, tutti hanno le scarpe e io no? Sono andata là, il mio parlare, un po’ che mi arrangiavo, non si capiva tanto, ma ho fatto in modo di far capire che io le scarpe non le avevo. Aspetta che vado a guardare un momentino se è avanzato qualcosa là. Va a guardare, “Nein”, niente. Io non vado via scalza.

Sì, ja che vado via. Come faccio? Per terra tutto pieno di pietrisco che appena si metteva i piedi per terra erano bucati. Mi siedo da parte, dico “Maria Vergine, come faccio da sola?” Mia sorella non era con me, non eravamo in campo assieme. Bisogna tener conto che io avevo 22 anni, lei ne aveva tanti di più e allora era in un altro posto.

Non l’avevano messa in quarantena, l’avevano subito mandata a lavorare sull’altro campo, faceva tappeti, con quelle più anziane. Ho detto, “Madonna, qua sola, senza scarpe, senza niente, come faccio?” Cominciava a fare freddo, erano gli ultimi di ottobre là in Polonia, fuori, l’aria era fredda. “Cosa devo fare, Maria Vergine?” Mi metto lì, batto la testa, mi tiro in parte. Madonna, un paio di scarpe. Bisogna stare attenta. Torno a guardare, un paio di scarpe. Mi abbasso pian piano, un paio di scarpe. Guada se c’è qualcuno, non c’è nessuno. Avevo paura che qualcuno veniva. Nessuno viene. Guardo le scarpe, 39, nuove, me le sono messa su, le più belle scarpe mai avute. L’ho raccontato nel campo adesso agli studenti e alle professoresse.

Prima di andar via mi hanno detto: “Signora ci racconti quella delle scarpe”, eravamo ad Auschwitz. Quando racconto, mi vengono i brividi perché è come se fosse stato un… Meraviglia. Non ne potevo più, sola, senza scarpe e invece le scarpe.

Prendo le scarpe, le metto su, ringrazio Iddio, il Signore benedetto, ringrazio, avevo le più belle di tutte. Dopo un po’ che eravamo in fila siamo partite. Ho avuto la grazia.

D: Era quando? Quando sei partita?

R: Son partita… Sono arrivata là il 30 ottobre, sono partita un giorno prima perché in un giorno siamo arrivate. Siamo partite la sera, abbiamo fatto tutta la notte, a mezzogiorno eravamo già a . Questa tenda nera Ravensbrück che ha detto la signora Rosina, Maria Vergine, la tenda della morte. Quando siamo arrivate ci hanno messo sotto là. Là c’era un tocco di pane, ma io stavo tanto male che ho preso il pane, l’ho messo sotto qua, il pane, un pezzettino di burro.

Al mattino avevo fame, ma il pane non c’era più, me l’avevano portato via.

D: Eravate in tante da Auschwitz ad andare a Ravensbrück?

R: Sì, eravamo in tante. Avevano scelto tutte le giovani, tutte meno di trent’anni, tutte sui venti, venticinque, tutte giovani. Sì.

D: Quanto tempo sei rimasta nella tenda nera di Ravensbrück?

R: Non tanto, era soltanto come per un riposo e poi continuare il viaggio. Mi hanno portato lì quando siamo arrivate verso mezzogiorno, metà giornata, mi hanno dato qualcosa, ero stanca, ho dormito. La mattina dopo siamo ripartite di nuovo.

D: Per dove?

R: Ravensbrück

D: E a Ravensbrück sei arrivata?

R: A Ravensbrück siamo arrivate… Là abbiamo trovato subito altro. Come mangiare e dormire era sempre uguale, perché… Invece tutt’altro perché appena arrivate ci hanno fatto fare la doccia, una roba più decente, non ci hanno scottato. Dopo ci hanno dato un paio di braghe, un giubbetto, un paio di mutande, lunghe anche quelle, ma non importa, stavano su per miracolo, mi cascavano sempre e le rimettevo su.

Insomma là non era un campo di quelli tremendi, era un campo più piccolo, tutte lavoravamo in fabbrica, c’erano tante polacche, tante tedesche. Italiane non eravamo in tante. Quelle slovene, anche slovene italiane perché erano di Pola, Fiume, quelle parti che erano ancora italiane.

D: Ti hanno cambiato numero?

R: Cambiato numero del braccio no, perché quello mi è restato, però numero qua sul petto sì. Allora qua avevo un altro numero, perché avevamo anche il numero. Eravamo in meno e il numero era tanto più basso.

D: Te lo ricordi il numero di Ravensbrück?

R: Guarda, non vorrei dirti una bugia, so che era col 4 davanti, sono sicurissima, ma adesso proprio tutto il numero, non voglio dire una bugia.

D: E il blocco te lo ricordi, in che blocco ti hanno messo?

R: Non erano numerati. No. Non c’erano tante baracche. Appena si entrava, c’era una baracca di SS donne. Tutte donne erano là, non uomini. L’appello, tutta la roba. Quello era interessante, l’appello. La mattina ci si doveva alzare presto, e il conteggio durava un’ora la mattina, era come punizione del campo, e un’ora la sera quando tornavi dal lavoro. In fila dritti sempre sull’attenti, guai se ci si muoveva, un’ora. Pioggia, neve, freddo, caldo, non importa. Chi stava male cascava, chi doveva fare i suoi bisogni andava sulla carriola e li cacciavano dentro in una carriola, dovevano aspettare che finisse l’appello e poi andavano a tirarli su.

Ci vorrebbe più di un’ora per raccontare tutto, è un piccolo riassunto. Una robetta così, perché raccontare tutto è troppo lunga.

D: Lì a Ravensbrück, dove andavate a lavorare?

R: Nelle fabbriche.

D: Fuori dal campo?

R: Fuori, sì, si doveva camminare dieci minuti e più. C’erano delle fabbriche grandi di aeroplani. Per una settimana ci hanno portati dentro, ci davano dei piccoli pezzi di alluminio, chiamiamoli di alluminio, e delle robette sue, da fare come chi era più bravo, chi sa far qualcosa per dopo dare i posti, come pareva loro di darmi il punteggio di chi era più… chi non era mai stata in fabbrica. Insomma, abbiamo fatto lì per un po’ di tempo.

Dopo ci hanno mandato nelle fabbriche a lavorare. Ci facevano l’appello, dopo c’era questa strada dove andare e si andava nelle fabbriche. Ognuno aveva il suo lavoro. Io lavoravo come in grandi vasche, tanta schiuma dentro, si lavavano dei pezzi, a volte mi davano, a volte niente, si dovevano lavare questi tocchi, però neanche là sono stata tanto perché sono cominciati i bombardamenti. Non siamo stati tanti nelle fabbriche.

D: Ascolta, nelle fabbriche c’erano anche degli uomini?

R: No. Tutte donne, erano proprio anche tedesche che lavoravano. Due uomini c’erano, ma non prigionieri, erano gente tedesca, due giovani che io guardavo sempre perché mangiavano delle mele piccole, mi facevano venire l’acquolina in bocca. Forse erano istruttori, guardavano quello che facevamo. Si stava abbastanza bene, c’era caldo in fabbrica. Si era riparate dal freddo, dalla pioggia. Peccato che è durato poco perché ci sono stati dei bombardamenti a Berlino. Non era tanto lontano da Berlino.

D: E dopo dove ti hanno portata?

R: Basta. In tre campi: Auschwitz, Ravensbrück, Wittenberg l’ultimo, l’ultimo è Wittenberg dove c’erano le fabbriche, tre ne ho passato. A Wittenberg c’è stata la fine che non mi è toccata tanto bella, ma mi pare che c’è ancora da dire qualcosa prima della fine.

D: Dai, dì ancora qualcosa.

R: Posso dire questo. In fabbrica sarò stata qualche mese, un mese e mezzo, dopo sono cominciati i bombardamenti, dei fumi che non si vedeva bene in cielo, tutto per coprire queste grandi fabbriche dov’erano.

Lì ci portavano nei rifugi. Dopo devono aver bombardato anche le fabbriche e non abbiamo lavorato più nelle fabbriche. Dopo ci hanno portato sempre in questo campo, ci facevano andare a lavorare per i camminamenti per i tedeschi, sottovia a coprire queste strade, a tagliare con la pala i tocchi d’erba, poggiarli sopra con le mani, prenderle così, portarle, per fare questa strada e loro passavano sotto i tedeschi. Erano gli ultimi momenti, perché era lì la guerra. Abbiamo fatto quello fino agli ultimi.

Si sentiva, guardate che sembra che finisce, che la guerra sia finita. Dopo una mattina abbiamo sentito correre, bim, bum, abbiamo guardato. Avevano tagliato con le forbici grandi, quelle che tagliano il ferro, avevano tagliato tutta la rete, hanno tirato via la corrente, hanno tagliato la rete. Allora tutti quanti con queste coperte sono scappati.

Ma noi eravamo in sei italiane siamo andate via da lì alla mattina con queste coperte sulle spalle, c’era la guerra, questi militari, questi carri armati, questa roba. Non sapevamo come fare, gira e volta. Poi alla sera abbiamo detto, torniamo al campo che è meglio perché dove andiamo a dormire? Dormire nei fossi non si poteva perché c’era la guerra.

Allora siamo tornate al campo. Ma al campo non abbiamo trovato più come prima. Quelle delle SS vicino alla nostra baracca avevano una cameretta, avevano i vestiti, le fotografie, le loro robe. Intanto che noi eravamo via avevano rotto tutto. Quando siamo entrate, hanno cominciato a picchiarci, non sapevamo neanche per cosa, perchè avevamo rotto tutto, tutti i loro ricordi, i loro vestiti, la loro roba. Cosa avevamo fatto? Noi non sapevamo niente.

Per fortuna che ce n’era una che sapeva parlare un po’ l’italiano. Ha detto, “Lasciatele in pace, io ho un figlio a Trieste e non vorrei che mi uccidessero mio figlio. Lasciatele andar via e non fate loro niente”.

Andar via e a dormire? Dobbiamo stare lì lo stesso. Allora siamo state lì. Una di Venezia mi ha detto: “Albina, vieni con me che io so dove nascondono le patate, così stasera possiamo mangiare”. Erano due giorni che non si mangiava.

“Guarda Maria, mi dispiace tanto, ma io non mi sento di venire”. “Perché devi dire di no?” “Io vi faccio la minestra, vi faccio quello che volete, ma a prendere le patate non vengo”. Con quattro parole brutte, “Guarda, va da sola”. E’ andata da sola. Noi stando alla finestra l’abbiamo guardata. Quando è stata sulla meson delle patate, i tedeschi l’hanno ammazzata. Mi aveva tanto pregata di andare. Io avevo detto, “Mi dispiace, fammi fare la minestra, fammi fare quello che vuoi, ma io con le patate non mi sentivo”. Se mi fossi sentita, avrei fatto la sua fine. L’è toccata bella.

Dopo siamo tornate indietro. Visto che l’avevano ammazzata, spaventate, non avevamo neanche da dormire, siamo scappate via prima che ammazzassero anche noi. Abbiamo preso paura anche dopo.

Poi il viaggio con i russi. Siamo andate via, camminando, camminando un giorno, due giorni, una s’è ammalata, un’altra è morta e io sono rimasta sola.

Per fortuna che passando per la strada, passavano un po’ ragazzi con lo stemma dell’Italia. Allora io ho detto che mi era successo così, che ero rimasta sola. Loro erano di Bologna. C’erano anche degli sloveni che passavano, si sono trovati insieme, hanno fatto un gruppetto. Aspetta un momentino. Mi sovviene. Avevo in mente di dire qualcosa ma mi è sfuggito.

D: Aspetta Albina, ti faccio io due domande, ascolta.

R: Sì.

D: Quando eri ad Auschwitz oppure a Ravensbrück tu hai subito delle punizioni, delle violenze?

R: No.

D: Hai visto delle violenze, delle punizioni?

R: Sì. Le ho viste proprio, agli ebrei, ne ho viste diverse. Ne ho vista una. Mentre si lavorava nei campi, come ti dicevo che raccoglievamo i fagioli, quella roba, c’era un ebreo che aveva il lavoro suo con i cavalli. Però nei taschini doveva aver avuto qualcosa, io ho visto che ha tirato fuori perché era di fianco a me lì, però il tedesco furbo delle SS l’ha visto, è venuto vicino, gli ha chiesto cosa ha tirato fuori, una bottiglietta.

Ha tirato fuori la frusta dei cavalli, gliel’ha data sul viso, gli ha tagliato mezzo viso. Io ero lì vicino. Dopo un’altra roba. La mattina quando andavamo noi c’erano dei letamai grandi, avevano tante bestie, era pieno di bestie per il latte, per il lavoro, c’erano dei letamai grandi, era la stagione calda e questi letamai grandi asciugavano.

Prendevano gli ebrei, tutti ragazzi, li mettevano dentro nei letamai tutti quanti. Uno andava a prendere l’acqua, l’altro gli dava il secchio e quello doveva svuotare il secchio dell’acqua e dopo gli mollavano anche l’acqua. Quando era sera, erano fin qua dentro nel letame, fino qua.

Quando sono tornata dall’ospedale è toccata bella anche a me. Allora mi hanno detto “Va”, io sono partita, sono andata via, però c’era il coprifuoco; siccome c’era il crematorio in funzione, doveva esserci coprifuoco, nessuno doveva camminare. Mi hanno mandato fuori. Vedo una tedesca che viene verso di me. Aveva una gomma di quelle del vino. Mi tocca bella. Parla, io non capisco niente di tedesco. Parla, grida. Ero appena uscita dall’ospedale, non potevo neanche camminare perché avevo avuto tanti giorni la febbre, mi avevano operato perché stavo male. Mi ha fatto capire che non si doveva passare. Ma se io ero in ospedale, ma non capiva. Doveva essere polacca, non capiva.

Insomma me le ha date. Via svelta. Arrivo in campo, non trovo più il mio letto, non trovo le coperte, era verso sera, non trovo niente. Il mangiare l’avevano già dato, salta anche il mangiare. Maria Vergine che roba.

La Blokova mi dice: “Stasera devi dormire lì”. “No”, ho detto io. I letti erano a tre corsie, tre castelli, sotto c’è come un cemento, come un buco. Dovevo andar in quel buco là a dormire. Io ho detto di no che non vado. “Sì” dice. “No” dico, non sono andata perché avevo paura degli scorpioni. “Io non vado”, ho detto. A vedermi dura, lì in piedi, mi ha fatto capire, c’era un letto su senza coperte, “Va su che io non ti vedo”. Ma in quel buco non vado, no, caro.

D: Albina, eravate tutte donne?

R: Sì, tutte donne. Vedevamo gli uomini perché erano di fronte a noi con la rete, li vedevamo. Ma noi eravamo tutte donne.

D: Hai visto anche dei bambini per caso?

R: Dei bambini, sì. Ho visto dei bambini. Perché nella baracca 13 dov’ero in quei quindici giorni, là c’era una baracca piena di bambini. A dir la verità io non posso dire tanto male. Oddio, piangevano, le mamme andavano vicino, erano cose che non andavano bene. Ma che facevano robe brutte io non posso dire perché io dico quello che ho visto. Le altre robe più grosse non le dico, non le ho mai dette, non le dirò mai.

D: Albina, le mestruazioni?

R: Quelle caro, appena ero in prigione. O che mi hanno messo qualcosa nel mangiare, o delle grandi paure. Perché i giorni che mi dovevano venire le mestruazioni, basta, in prigione non mi sono venute più. In prigione avevamo paura del fatto perché ogni tedesco che ammazzavano, venivano nelle celle a tirarne fuori dieci.

Allora la notte dicevamo chissà a quale cella tocca. Quella era la nostra paura. La paura era quella.

D: Ascolta, pensavi a qualcosa dentro nel campo? Pensavi a casa, pensavi a tua sorella?

R: Pensavo al mangiare. Pensavo al mangiare, ma non al mangiare buono, alle cose buone. Pensavo quando facevo il latte, il burro a casa con il fiasco in tempo di guerra. Pensavo: Quel latte lungo se l’avessi qua”. Non mi interessavano i pollastri, le galline. M’interessava quello e basta perché avevo tanta fame.

D: Ti ricordi adesso quando hai incontrato quegli Italiani alla Liberazione? Alla liberazione della fabbrica che sei rimasta da sola e hai trovato quegli italiani. Cos’erano? Militari?

R: Militari, bravo. Militari. Allora sono andata con loro per un periodo. Venivo sempre verso casa. Treni non c’erano, non c’era niente, c’era ancora la guerra, era un disastro finché non siamo arrivati un po’ più in giù.

Lì sono restata con questi qua. Una sera freddo e pioveva, c’era una brutta giornata. Questi ragazzi, andare avanti non si può andare. Abbiamo visto una casa, i tedeschi ci mettono del fieno, là sola, era mezza diroccata. Ci fermiamo là almeno stiamo là e non prendiamo la pioggia.

Così abbiamo fatto. Siamo andati là. Sola con questi sei ragazzi. “Tu Albina ti metti nell’angolo e noi dormiamo qua. Non aver paura, se viene qualcuno ci siamo noi”. Dopo tre ore che eravamo lì sento come quelle pile che c’erano. “Maria Vergine”, ho detto ai ragazzi, “viene qualcuno”. “Tu Albina stai buona, se viene qualcuno ci siamo noi”.

Entrano russi ubriachi. Entrano, prendono queste coperte. Prende la coperta, tira, c’ero io sotto. “Ah”, dice l’altro, viene vicino a me, mi ha tirato su. Gli ho mollato un sburton. In questa casetta mezza diroccata c’era una finestra bassa. Ho fatto un salto, non so come, ho fatto un salto fuori. Pioveva, era scuro, sola. In fondo vedevo come una luce. Corro fin là. Corri, corri, corri, arrivo là. C’era una stazione, una stazioncina piccola con un treno fermo e un po’ di gente che aspettava il treno, tedeschi, polacchi.

C’era il treno fermo e la stazione qua. Come faccio ad andare di là? Mi sono abbassata sotto il treno. Per sotto e sono passata. Sono arrivata là. La gente mi guardava e parlava tra loro. Da dove arriva questa?

Mi giro, vedo uno che mi segue, era un italiano di quelli che erano col gruppo, quello di Bologna. “Albina, sono venuto dietro, dove vai? Sola?” “Mario, erano ubriachi”. Non so cosa dire. Mentre eravamo lì a parlare, arriva la ronda dei russi, viene vicino. Mario, poveretto, è venuto a casa mia finito tutto, da ragazzo è venuto a casa mia con la famiglia, eravamo come fratelli. Aveva la giacca da tedesco. I russi non sapevano se era tedesco, se era prigioniero, chi era.

Anche loro saranno stati mezzi ubriachi. Domanda, “No. Nein Deutsch. Niente”. Questo che mi correva dietro, tutto bagnato, credevano fosse tedesco. Mi commuovo un po’ e perdo il filo. Dopo siamo tornati. Andiamo ancora dove sono i ragazzi. Siamo andati via. Dopo per fortuna abbiamo avuto una gioia.

Dicono questi ragazzi: “Senti, stiamo due giorni assieme e andiamo un pezzo avanti insieme”. Io sola donna, questo ragazzo che non faceva parte di loro e questi ragazzi qua. Camminiamo. Là c’era un paese tutto deserto perché la gente era tutta scappata, c’era la guerra.

Dicono questi ragazzi, mi è venuta un’impressione. “Dai, dai, senza mangiare ti gira”. Proprio perché sono senza mangiare penso a qualcosa. “Da quanti giorni non mangiamo?” “Ma, non so”. Io ho visto che vicino a quella casa c’è della terra mossa. Sì. C’è nascosto qualcosa.

Andiamo a cercare se c’è qualcosa. Sono andati sul dietro, hanno trovato la pala. Trovano questo pezzo di roba che avevano ben coperto, viene fuori il ben di Dio. Tutti questi vasetti preparati. C’erano galline, oche, non so quanti vasetti. Da un sacchetto da parte coperto c’era farina di polenta.

Allora tutti contenti. Madonna della misericordia. Prendiamo, svelti, a me e a Mario ci hanno messi da parte. “Adesso noi prendiamo tutto e poi anche voi due”. Sono entrati, hanno trovato pignatte per fare la polenta. “Io”, dico, “vado in camera a vedere se trovo qualcosa”. Ho trovato un catino con la brocca per lavarsi. Così abbiamo fatto la polenta, abbiamo mangiato e ne hanno dato un po’ anche a me e Mario.

D: Albina, quando sei rientrata in Italia?

R: Sono rientrata in Italia il 27 agosto, il giorno che è nata lei, mia figlia. Non posso significare perché è nata il giorno stesso, la prima figlia, il 27 agosto. Di sera.

Bettiol Tullio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Sono Tullio Bettiol nato a Belluno il 1 gennaio del 1927. Sono stato arrestato a Belluno a casa dei miei genitori da una squadra di tedeschi, saranno stati dieci o undici della SS che sono venuti alle 5 di mattina per arrestare mio padre che era in casa. Mio padre è riuscito a nascondersi in un nascondiglio che avevamo creato nella casa, mentre io sono rimasto a letto.

D: Scusa Tullio, perché volevano arrestare il tuo babbo, chi era il tuo babbo?

R: Mio padre era un componente del Comitato Liberazione Nazionale Provinciale per conto del Partito Comunista Italiano. Partecipava, da lungo tempo, prima all’antifascismo e poi alla guerra di Liberazione. Si era assentato da casa, ma quel giorno era in casa, casualmente, probabilmente c’è stata qualche soffiata che indicava che mio padre era in casa e sono arrivati questi tedeschi. Noi eravamo come Alpenvorland, cioè annessi al grande Reich e quindi c’erano sì i fascisti ma non la Repubblica Sociale, c’era il commando, c’era la Federazione Repubblichina ma il territorio era governato e comandato dai tedeschi.

D: Quando sono venuti ad arrestarti?

R: Ricordo bene la data perché erano finite le scuole da pochi giorni, era esattamente il 19 Giugno del 1944. Sono venuti alle 5 di mattina, hanno circondato la casa. Mia madre ha dovuto aprire la porta di casa, sono entrati e io me li sono trovati in camera con i fucili puntati. “Raus!

Raus!”, i soliti discorsi che facevano, alzarsi in breve tempo. Mi hanno fatto caricare la radio che avevamo in casa e una macchina fotografica.

Mi hanno portato subito al distretto militare dove c’era il commando della polizia tedesca, della SS. Lì sono stato chiuso in una stanza assieme ad una ventina di persone, venti/trenta persone della città di Belluno che erano state arrestate insieme a me. Ad una certa ora sono arrivati anche il gruppo di feltrini che erano stati arrestati anche loro quella mattina. Sono stati trattati, devo dire la verità, in misura peggiore che noi, nel senso che a Feltre si erano presentati questi SS certamente ubriachi e hanno anche creato fatti di sangue; tant’è vero che sulle scale di casa, di fronte alla moglie, hanno ammazzato il Colonnello Zancanaro medaglia d’oro poi al valor militare e il figlio che era a scuola con me, era un anno più vecchio di me. Sulle scale di casa li hanno ammazzati.

C’erano anche dei preti e sono arrivati al distretto verso le 7,30/8,00 del mattino.

Ci hanno tenuti tutto il giorno chiusi in queste stanze, dopo di che in colonna, a piedi, ci hanno portato nel carcere della città a Baldenich, in località Baldenich. Siamo stati smistati, io sono stato posto in una cella singola, non so perché, e sono rimasto lì parecchi giorni, una quindicina di giorni in segregazione. Non vedevo nessuno, non sapevo niente. L’unica cosa che potevo fare era leggere qualche libro che mi passava la biblioteca del carcere. Non ho mai visto nessuno.

Finalmente dopo una quindicina di giorni mi hanno tolto dalla segregazione e mi hanno messo assieme ad altri.

D: Non ti hanno mai interrogato?

R: No, non sono mai stato interrogato. Anche questo è un mistero che non ho mai capito. Una mattina, eravamo ai primi di luglio il giorno preciso non me lo ricordo, deve essere stato intorno al 5/6 luglio, alle 5 di mattina ci hanno fatto svegliare in due o tre, ricordo io e Germano Sommavilla che poi abbiamo vissuto tutte le vicende che sono seguite assieme. Prima ci ha fatto vestire soltanto, tant’è vero che tutti hanno preso un po’ di paura, perché l’ora non era la più indicata, le 5 di mattina quando ci fanno alzare significa che può succedere sempre qualcosa di molto grave.

Per fortuna ci hanno detto di prendere le nostre poche cose che avevamo e quindi abbiamo capito che non succedeva niente di grave, ma succedeva qualcosa di diverso rispetto a quello che avevamo vissuto fino ad allora. Infatti ci hanno fatto scendere nel cortile del carcere, ed eravamo una trentina. Ci hanno caricato su dei camion e da lì in colonna siamo partiti verso Feltre.

Quando siamo arrivati a Feltre hanno caricato su questi pullman dei Carabinieri, non ricordo il perché. Ricordo benissimo che c’erano delle mogli, delle madri che piangevano, che urlavano intorno ai pullman. Ci sono state anche delle sparatorie in alto da parte dei tedeschi per allontanare la gente. Hanno caricato questi Carabinieri ed assieme abbiamo proseguito il viaggio, sempre con autocarri davanti e dietro con fucili mitragliatori e abbiamo imboccato la Valsugana.

Fatta la Valsugana siamo arrivati a Trento e poi a Bolzano al Corpo d’Armata. Nel Corpo d’Armata ci hanno tenuti tutto il giorno seduti sul campo e ad un certo punto hanno fatto uno smistamento. Io, Sommavilla e se ricordo bene, nessun altro, siamo stati portati a Gries.

Altri che ricordo sono: un certo professor Viaggi che era stato mio insegnante, allora si insegnava anche cultura militare, che era un ufficiale dell’esercito, dicevano che era dell’Intelligence Service. E’ stato portato a Dachau e non ha più fatto ritorno.

Altri sono stati tenuti al Corpo d’Armata e sono stati trasferiti nelle celle, credo, nei sotterranei del Corpo d’Armata. Io, Germano e credo altri tre o quattro, ma non di più, siamo stati portati a Gries, dove c’era questo campo che era in formazione perché allora, non ricordo la frase in tedesco, perché un po’ l’ho voluto dimenticare, sbagliando tutto, probabilmente, ma non importa, era indicato come campo di punizione e rieducazione SS. Forse punizione si può comprendere, cosa significasse rieducazione non l’ho mai capito.

Siamo entrati in questo campo, ci hanno portato in una stanza, ci hanno fatto spogliare completamente, ci hanno fatto mettere i nostri indumenti in un sacco e ci hanno dato una tuta di colore blu con delle strisce sulla schiena, sui calzoni e con il triangolo rosso sul taschino della giacca e un paio di zoccoli. Ci hanno messo nel cortile seduti ed è venuto uno con una macchinetta elettrica e ci ha pelato completamente.

É stata la prima volta che ho subito una grossa umiliazione, chi sa perché ma mi è venuto perfino da piangere a subire questa umiliazione.

D: Scusa Tullio, oltre al triangolo ti hanno dato anche un numero?

R: Sì, mi hanno dato una catenina di spago con un ciondolino sul quale era inciso il numero einundachtzig, 81, che ho dovuto sempre tenere al collo e come mia identità personale sono sparito, sono diventato solo un numero, dovevo rispondere solo al numero einundachtzig quando venivo chiamato per l’appello o per altre incombenze nel campo. Ormai Tullio Bettiol a quel punto non esisteva più, almeno secondo i tedeschi. Erano delle guardie tutte SS.

Eravamo in pochi allora, infatti io avevo il numero 81 poi invece il numero è sempre più aumentato perché sono arrivati quelli internati, deportati dal campo di Fossoli che si stava sciogliendo perché stavano avanzando le truppe alleate. Quando sono arrivati quelli di Fossoli il numero è notevolmente aumentato.

Io sono stato portato all’interno del campo poi assegnato al blocco A, era un capannone con dei letti a castello. Ci hanno dato una coperta e si dormiva in questo capannone. La vita del campo era abbastanza dura nel senso che come tempi ci svegliavano alle 5 di mattina, spogliare completamente all’interno del capannone, attendere che aprissero la porta, poi si doveva uscire nel cortile e fare la così detta doccia che consisteva in un risciacquo del corpo. L’acqua arrivava da un tubo forato, acqua fredda, eravamo in luglio però alle 5 di mattina allora non era molto caldo. Quindi si faceva questa doccia senza sapone, senza niente, un risciacquo del corpo con acqua fredda attraverso questo tubo. Dopodiché ci si doveva rivestire e ci davano la colazione che consisteva in una gavettina di, chiamiamolo caffè, era acqua sporca, acqua un po’ nera con un po’ di pane. Dopo incominciava la giornata vera e propria e dovevamo o trasportare nell’interno del campo delle travi, del legname, da un posto all’altro, oppure ci portavano in una cava del fiume vicino al campo di Gries e dovevamo caricare dei carrelli, dei decouville, di sassi e portarli, spingendoli a mano, portarli su nel campo. Era una vita molto dura soprattutto quando raccoglievamo i sassi perché era caldo, era un lavoro improbo, pesante. Quando si arrivava al campo ci davano qualcosa da mangiare, il mangiare era una cosa incredibile, era acqua sporca con una patata dentro e un po’ di pane quello nero che alle volte era anche ammuffito e poi si riprendeva lo stesso lavoro di prima e verso sera ci rinchiudevano dentro nel campo. Ci davano la cena che consisteva sempre delle stesse cose e ci chiudevano nelle baracche. Nelle baracche in silenzio si doveva dormire fino al giorno dopo. Devo dire che credevo non si potesse dormire su di un tavolaccio, invece ci si abitua, si dorme molto ma molto bene.

Alle volte succedeva o perché non si sentivano bene gli ordini tedeschi, o perché qualcuno commetteva secondo loro qualche grave fatto, allora c’erano le punizioni: calci o botte oppure punizioni vere e proprie soprattutto quando qualcuno tentava di scappare dal campo. Io ho assistito a scene veramente poco belle, poco simpatiche anche da raccontare, a dire la verità. Ma a Bolzano sì, botte sì ne ho prese perché magari uno spingeva questi carrelli e secondo loro non li spingeva con sufficiente forza allora era qualche calcio o qualche bastonata sulla schiena. Non si poteva reagire certamente a ciò che ci veniva ordinato di fare.

D: Ecco scusa, ritornando indietro un momento, tu dicevi che prima era campo di rieducazione e poi era diventato campo di punizione, cioè, è cominciato come campo di punizione, il personale di guardia, i comandanti eccetera, sono rimasti sempre gli stessi, che tu sappia?

R: Che sappia io sì, però io non ricordo i nomi di guardie che sono state poi citate nei vari documentari e nei vari documenti. Io non ne ho memoria. So che il campo, da campo di punizione è diventato campo di smistamento “DurchgangsLager“. Però i nomi non li ricordo, assolutamente. Eravamo controllati da questi SS, dai cani lupo, che erano lì nel cortile a disposizione delle guardie. No, ma i nomi non li ricordo.

D: Ti ricordi se all’interno del campo c’erano anche delle donne deportate?

R: Sì, a Bolzano sì. Direi soprattutto però ricordo le donne nel campo di Merano. Però è un episodio che forse viene dopo.

D: Ecco, e sempre a Bolzano ti ricordi dei sacerdoti deportati, dei religiosi?

R: No, non ne ho memoria.

D: Ebrei?

R: Ebrei sì, molti. Però devo dire che io a Bolzano sono rimasto un mese o poco più, perché poi sono stato trasferito in altra sede.

D: Come è avvenuta questa selezione?

R: La selezione è avvenuta in questo modo: ci hanno messo nel cortile in fila e ci hanno detto “Si facciano avanti quelli che sono disposti ad andare anche fuori dal campo o a trasferirsi in un altro campo”. Il mio amico Sommavilla, che era un pezzo di ragazzo, lo vedo, “Alza su le spalle, io sono un po’ curvo per natura, alza su le spalle, fagli vedere che sei forte e andiamo via di qua”. Siamo stati selezionati anche noi e ci hanno trasferito su dei camion, ci hanno trasferito a Merano nelle caserme di Maia Bassa.

D: Eravate in molti in questo trasferimento?

R: No, direi che saremmo stati una cinquantina, cinquanta/sessanta, però a Merano abbiamo trovato già dei prigionieri e donne anche che erano già lì, ma da poco, penso.

Eravamo divisi come sesso, da una parte gli uomini, dall’altra le donne. Lì si è modificata un po’ la situazione nel senso che la vita era meno dura che a Bolzano: botte no, mangiare se si può dire un po’ meglio…sì un po’ meglio. E ci portavano fuori dal campo, nella stazione ferroviaria vicino a Maia Bassa, saranno stati cento metri di distanza, e ci facevano scaricare del materiale dai vagoni ferroviari che avevano razziato un po’ in tutta Europa. Ricordo tessuti pregiati, quadri, tappeti, anche zucchero e generi alimentari, ce li facevano caricare su dei camion e poi ce li facevano smistare, portare e scaricare nei castelli vicino a Merano. Io ricordo benissimo il castello, sono riuscito a trovarlo anche recentemente, dove si doveva salire su per le scale con questi tappeti pesantissimi, a parte che eravamo un po’ debilitati anche noi questo è logico, e si doveva salire per le scale e portare su questi tappeti e accatastare tante di quelle cose in questi castelli… cioè, era materiale che era stato razziato un po’ in tutta Europa, direi, materiale anche prezioso. Prezioso nel senso: tappeti persiani, telerie anche di pregio e cose del genere.

Un’altra cosa che ricordo è lo zucchero: i sacchi maledetti, scusate il termine, di zucchero che ci si caricava sulle spalle e si dovevano portare su per le scale. Ed io ero un ragazzetto, insomma, non ero un colosso, avevo sedici/diciassette anni, ma non è che fossi un gran colosso. Poi ho dovuto sopportare questi carichi…eppure li ho sopportati, sono ancora qui. Quindi vuol dire che la capacità di sopravvivenza e la resistenza hanno un certo peso nella vita di un uomo. Lì a Merano si faceva questo tipo di vita. Anche da lì, senza preavviso né niente, ci hanno caricato, un gruppo, e ci hanno trasferito a Karthaus, Certosa.

D: Ecco, un attimo: il campo di Merano era allestito dove?

R: Il campo di Merano era nella zona di Maia Bassa vicino all’ippodromo e vicino alla vecchia stazione ferroviaria di Maia Bassa, erano delle caserme dell’esercito italiano. Si dormiva in questi stanzoni, non più in gran capannoni, ma in stanzoni come quelli delle caserme, insomma.

D: E lì le sentinelle, le guardie, chi erano?

R: Le guardie erano sempre SS. Sempre, sempre. Io ho sempre avuto a che fare con SS, tranne su, se volete lo dirò dopo, tranne su a Karthaus, dove c’erano come comandanti SS, però c’erano delle truppe della Wermacht, cioè truppe, scusate, c’era un gruppo, un drappello della Wermacht.

D: Il lavoro che facevate lì di scarico, di portare ed occultare questi beni all’interno dei castelli lo facevate durante il giorno?

R: Sì, sì, durante il giorno. Sì, sì, di sera mai.

D: Ed anche le donne partecipavano?

R: No, le donne rimanevano all’interno del campo. Forse accudivano ad altre incombenze, ma non fuori. Io non ho mai visto portare fuori le donne.

D: E di italiani eravate in molti lì a Maia Bassa?

R: Beh direi che eravamo tutti italiani ed ebrei. Italiani ed ebrei. Però ebrei italiani. Non mi ricordo di prigionieri di altre nazionalità. Però adesso, ripensandoci ricordo che su a Karthaus eravamo assieme, c’era un gruppo di ebrei e c’erano anche ebrei francesi. Ricordo benissimo, invece, un tipo simpaticissimo che aveva un basco in testa, era un ebreo francese, che cantava sempre un ritornello che ricordo tuttora proprio. Ricordo che lo cantava sempre questo ebreo francese.

D: Ascolta Tullio, tu dici che c’erano degli ebrei perché erano contraddistinti in un altro modo da voi?

R: Sì, gli ebrei avevano il triangolo giallo. Noi il triangolo rosso, gli ebrei il triangolo giallo. Forse avevano anche, se si può dire un trattamento quasi peggio del nostro, nel senso che pigliavano più botte di noi, ecco. Per il resto alla pari.

D: Lì a Merano quanto tempo sei rimasto?

R: A Merano credo di essere rimasto fino a settembre, adesso non so se all’inizio o alla fine di settembre, e poi sono appunto stato trasferito a Certosa.

D: Tutti siete stati trasferiti a Certosa?

R: No, solo alcuni. Solo una cinquantina di persone, mentre a Merano eravamo sicuramente più di duecento.

D: C om’è che siete stati scelti?

R: Così, non saprei che scelta abbiano fatto i tedeschi.

D: Con cosa vi hanno portato a Merano?

R: Ci hanno portato con dei camion militari, sempre con la scorta. Ci hanno portato su in alcune baracche che forse erano state dell’esercito italiano, sotto il paese. Successivamente quando è venuto più freddo, ci hanno portato in una caserma che era una caserma di confine dell’esercito italiano. Nelle baracche siamo stati fino a novembre, si dormiva per terra, trattati veramente male e anche lì ci facevano lavorare nel senso che alla mattina ci caricavano sui camion e attraverso la valle che arriva giù al paese di Senales, se ricordo bene, una valle molto stretta, valle pericolosa anche. Ci portavano alla stazione ferroviaria e ci facevano scaricare dei vagoni ferroviari e caricare sui camion del materiale che erano, ricordo benissimo, soprattutto zaini e scarponi dell’esercito francese, erano proprio dell’esercito francese. Mi ricordo bene perché me lo avevano detto gli ebrei francesi che erano lì, ci si chiedeva la provenienza di questa roba. Ce la facevano portare su nelle baracche a Certosa. Quando è aumentato il freddo ci hanno portato in questa caserma sopra il paese di Certosa, ma eravamo in pochi, eravamo rimasti una trentina di ebrei e quattro o cinque italiani, non di più, pochissimi. Era proprio un minicampo. Chi comandava era un sorgente delle SS reduce della guerra di Russia, era stato ferito, era lui il comandante, un certo Otto, un pezzo d’uomo che poi aveva avuto la sua lezione, ho sentito, su a Bolzano. E un caporale delle SS polacco, Daloch, che poi i tedeschi avevano ribattezzato …. che dimostrava di avere una paura maledetta perché sentiva che gli alleati stavano avanzando e oramai era convinto dentro di se che probabilmente la guerra l’avevano persa e aveva una gran paura di ritornare in patria per le conseguenze che forse avrebbe subito. Questo non è che ce lo dicesse ma riuscivamo a capirlo noi.Mentre gli altri, saranno state una decine le guardie, erano della Wermacht. Eravamo in questa caserma recintata e si faceva quel lavoro di avanti e indietro con questi camion fino giù alla stazione di Senales poi ritorno. Ad un certo momento gli ebrei sono partiti per essere portati all’interno, non so se siano tutti arrivati… non so la fine che hanno fatto. Ho cercato di uno e purtroppo so che è morto ma credo sia morto in campo. Deve essere stata l’ultima spedizione che è partita da Bolzano verso l’interno perché poi sono state bombardate le linee ferroviarie e non ci sono stati più traslochi verso l’interno. Eravamo rimasti alla fine, era proprio in smobilitazione il campo, eravamo rimasti quattro italiani soli: io, Sommavilla che citavo prima; un giovane di Pavia, un certo Carlo che non ho più ritrovato, non ho più avuto notizie dopo la guerra e un certo Contiero di Bressanone che preparava il cibo ed era d’accordo con i tedeschi, faceva un po’ la spia, il controllore.Partiti gli ebrei, credo verso Natale o subito dopo Natale, avevamo capito che si metteva male anche per noi perché non si poteva sostenere un campo con quattro prigionieri, tenendoli lì a far cosa? Infatti ci avevano fatto capire che saremmo stati trasferiti nuovamente a Bolzano e di lì non si sa. Allora abbiamo pensato se si riusciva ad organizzare una fuga, ma solo noi tre, io, Sommavilla e questo ragazzo di Pavia, non il cuoco del quale non ci si fidava. Andando giù a caricare questo materiale alla stazione di Senales, abbiamo avuto modo di conoscere il capostazione che era italiano, di fede italiana, il quale aveva anche un po’ di compassione, pietà per noi ragazzi. Parlando assieme in qualche modo siamo riusciti a spiegarci e a fare in modo che lui avvisasse Belluno che avevamo intenzione di scappare perché si metteva male qua su. In quel momento ha funzionato l’organizzazione nel senso che mia sorella con il fidanzato sono venuti su da questo capostazione di Senales, con vestiti, con carte di identità false, con cibo e una bottiglia di cognac con del sonnifero che mia sorella si era fatta dare, o mia madre non ricordo, da un farmacista di Belluno che poi era venuto in campo insieme a noi. La farmacia funzionava ancora e sono riusciti a fregare il sonnifero, era una polvere quasi impalpabile bianca, ricordo.

Allora, i vestiti e tutto li ha tenuti il capostazione; noi in qualche modo ci siamo fatti dare questa bottiglia con il sonnifero e l’abbiamo portata su a Senales con la scusa che era il compleanno di Sommavilla e abbiamo offerto il cognac anche alle guardie, non alle SS perché questi dormivano non nella caserma ma in un albergo del paesetto, mi pare si chiamasse Croce Bianca l’albergo, ci sono due alberghi. Potrei dire l’episodio dell’albergo La Rosa dove invece c’erano due ragazze meravigliose che ci hanno anche aiutato quando Sommavilla stava male.

D: Dopo questa ce la racconti però.

R: Sì, questa posso raccontarvela perché poi è successo un episodio qualche anno fa, un paio d’anni fa anche difficile da raccontare ma emozionante per come è avvenuto.

Allora abbiamo inventato che era il compleanno di Sommavilla e abbiamo offerto da bere alle guardie che anche loro erano ragazzi giovani e hanno bevuto volentieri, solo che nelle cose che abbiamo offerto loro c’era il sonnifero che ha funzionato subito molto bene perché dopo un’ora dormivano tutti della grossa, tutti i soldati all’interno della caserma.

Quando abbiamo sentito che dormivano, perché russavano proprio, allora abbiamo deciso: “Qui, si scappa”. Abbiamo scavalcato la finestra di un bagno, abbiamo scavalcato il muro di cinta della caserma e siamo scesi giù per la valle. Avevamo dei ramponi, che ci erano stati forniti da mia sorella, perché c’era molto ghiaccio, era febbraio, c’era neve e ghiaccio, la località è a 1800 metri, mi pare. Era un freddo, freddo, ma devo dire che nonostante il freddo e io avessi solo un vestito di tela addosso, nient’altro, non ho avuto un raffreddore che fosse uno. Una volta il fisico reagiva bene, si mangiava poco, si lavorava come cani, senza vestiti, senza niente a queste temperature, non ho mai avuto niente. Solo Germano Sommavilla aveva preso una specie di bronchitaccia ma poi con l’aiuto di quelle sorelle che accennavo prima e che riprenderò, è guarito in poco tempo anche lui.

Tornando all’episodio della fuga, siamo scesi giù per la valle, sarà stato mezzanotte, l’una di notte, noi tre, io, Sommavilla e questo ragazzo di Pavia, in fila indiana siamo andati giù per la valle. Ad un certo punto del percorso è avvenuto un episodio un po’ strano, drammatico anche. Abbiamo incontrato, che salivano a piedi, dei militari tedeschi, erano dell’aviazione tedesca. Credo, che da quanto mi hanno detto dopo, che c’era un campo… una specie di rifugio per aviatori tedeschi, per riposare a Madonna che è un paese vicino a Certosa.

Erano in tre o quattro, loro venivano in su sulla loro destra contro la roccia, e noi eravamo sulla nostra destra sul ciglio dello strapiombo, perché è molto stretta e a strapiombo. Quando li abbiamo visti “Cosa facciamo?” io ero l’interprete ufficiale del campo, parlavo il tedesco e quando ci siamo incontrati è stato un momento di suspance perché ci hanno visto che avevamo ancora indosso i vestiti dei prigionieri e ci hanno detto “Gute Nacht”. Forse hanno capito che noi eravamo decisi un po’ a tutto, forse hanno avuto paura anche loro perché erano dei ragazzi, il fatto è che loro hanno proseguito, noi anche e appena passati noi ci siamo messi a correre come dei matti però loro non hanno avuto reazioni in quel momento.Così siamo arrivati giù a Senales dove siamo stati dal capostazione il quale ci ha rifocillato, ci ha dato dei vestiti diversi, ci ha dato i documenti e ci ha chiusi in un carro ferroviario. Con quello siamo partiti e siamo arrivati a Merano. Lì avevamo un punto di riferimento, una famiglia, i Pasi, che ci hanno accolto, avevamo l’indirizzo che ci aveva fornito mia sorella. Ci hanno accolto, ci hanno rifocillato, ci hanno dato una bicicletta e ci hanno indicato la strada per proseguire verso Bolzano, Belluno. Noi quindi siamo partiti e siamo arrivati oltre Bolzano, non mi ricordo mai il nome del paese sotto il passo del Campolongo….non mi ricordo mai il nome, eventualmente posso controllare e riferire.

Arrivati in questo paese siamo entrati in una trattoria, in un bar ed abbiamo trovato un gruppo di contrabbandieri, allora facevano contrabbando di sale e di tabacchi. Abbiamo cominciato a parlare “Dove andate?” “Andiamo a Pieve di Livinallongo” “Anche noi dobbiamo fare il passo del Campolongo, possiamo venire con voi perché non conosciamo la strada?” erano italiani. Loro ci hanno detto di sì, a condizione che portassimo anche noi una di quelle valigie piene di sale o di tabacchi. Noi abbiamo detto “Sì, volentieri” e abbiamo fatto di sera tardi, 9/10 di sera, tutto il passo del Campolongo e siamo arrivati a Pieve di Livinallongo. Lì siamo andati in un albergo, che abbiamo sbagliato tutto perché era una sede del comando Tedesco, l’Albergo Italia e lì abbiamo consegnato i documenti, questi li hanno guardati e hanno creduto che fossero validi, invece erano documenti falsi e ci hanno lasciato stare. Quindi abbiamo dormito e la mattina abbiamo preso una corriera, si chiamava allora, che faceva il servizio Pieve Livinallongo/Belluno e siamo arrivati a 7/8 Km da Belluno, dove ad una frazione del comune di Sedico, dove c’era un posto di blocco. Noi siamo riusciti proprio prima a far fermare il pullman dicendo che dovevamo scendere e siamo passati oltre il torrente e siamo andati nel convento dei frati che è un convento che c’è tuttora, i frati di Vedana. C’è un laghetto, c’è un bellissimo convento ma adesso non è più frequentato. Sembra che riprenda vita, ma non si sa, allora c’erano i frati domenicani.

Ci hanno accolto nel convento, nel frattempo siamo riusciti a far avvisare che eravamo lì, sono venuti con un mio vecchio compagno, si chiamava Bossi, poveretto è morto. É venuto con la macchina, ci ha caricato, facendo un giro largo ha evitato il posto di blocco, andando su per le frazioni e ci ha portato a Belluno. Naturalmente dimenticavo di dire che eravamo rimasti in due perché con il ragazzo di Pavia ci siamo separati a Merano, lui è andato verso la Lombardia e noi verso Belluno.

Arrivati a Belluno a casa mia non c’era più nessuno, la famiglia si era disgregata per necessità, non volontariamente. Mia madre era a Belluno, mio fratello da un’altra parte, mia sorella con la mamma e mio padre era in tutt’altre faccende. Verso Padova, anche lui è stato arrestato, è riuscito a fuggire e anche qui è successo un episodio che varrebbe la pena di raccontare.

Ci hanno rifocillato per sette/otto giorni in questa casa di amici che partecipavano al movimento della Resistenza, di Liberazione. Dopo di che ci siamo separati: Sommavilla è andato con il comando piazza a Belluno, si chiamava comando piazza, cioè un movimento partigiano e aveva giurisdizione nella città. Io invece sono andato con la bicicletta fino a Padova e da lì in Cansiglio dove mi sono aggregato alla Brigata Fratelli Bandiera della divisione partigiana Nannetti e sono stato lì fino alla Liberazione.

Lì ho avuto modo di rincontrare mio padre che nel frattempo era stato arrestato dai fascisti della Repubblica Sociale Banda Carità, famosa Banda Carità di Padova. Era riuscito a fuggire in maniera quanto meno rocambolesca con l’aiuto di mia madre ed era stato accolto nell’arcivescovado di Padova e poi con una macchina dell’arcivescovado portato su in cascina dove ci siamo incontrati, tutti e due fuggiti da due posti diversi quasi contemporaneamente e lì siamo stati assieme fino alla fine della guerra, alla Liberazione.

D: Ci racconti adesso quell’episodio di solidarietà delle due ragazze.

R: Lo racconto volentieri perché sul piano umano è stata veramente una cosa che può colpire, io sono sempre stato grato a queste due ragazze.

Erano due ragazze proprietarie dell’albergo La Rosa di Certosa, ci avevano aiutato perché quando il mio amico Sommavilla era stato male una delle due ragazze aveva avuto il coraggio di entrare nel campo, scavalcando le guardie, dicendo alle guardie che lei non portava niente ma sapeva che c’era un ammalato nell’interno. Ha portato dei medicinali, delle aspirine in modo che è guarito, una ragazza molto coraggiosa, devo dire la verità.

Questa ragazzo l’ho incontrata nuovamente dopo quaranta anni, sono stato ospite dell’Assessorato e Cultura di Bolzano e della RAI e siamo stati assieme a Certosa. Mentre la RAI cercava un posto per fare delle riprese e farmi un’intervista, aveva individuato un cortile, una casa che sembrava andasse bene e io mi sono messo là. Da questa casa è uscita una signora anziana che ha chiesto chi eravamo, è stato detto che era la RAI e che doveva fare un’intervista. Ci siamo guardati e lei mi ha riconosciuto, era una delle due sorelle che ci aveva aiutato. É stato veramente un fatto emozionante che, devo dire la verità, mi commuove tutt’ora. Perché ritrovare le persone conosciute in quelle situazioni è stata una cosa incredibile, ci siamo abbracciati fortemente, siamo stati assieme qualche ora e poi successivamente abbiamo avuto anche corrispondenza. Lei mi chiede sempre di andare a trovarla e io purtroppo non sono mai andato e mi riprometto sempre di andare, ma bisogna che mi decida di andare a trovare questa cara ragazza.

D: Quando tu poi sei rientrato e ti sei aggregato alla formazione partigiana Fratelli Bandiera, lì cosa avete fatto? Avete avuto modo di fare altre azioni?

R: Sì, perché ormai eravamo alla fine della guerra, perché io sono scappato dal campo di Certosa il 4 febbraio del ’45 quindi sono stato una decina di giorni a Belluno, eravamo già a marzo/aprile. Lì si era molto bene organizzati come corpo partigiano, dormivamo nelle tende, alle volte si scendeva nei paesi o per rifornimenti o per altri mansioni.

Quando le truppe alleate si sono avvicinate, sono arrivate su nel nord, siamo scesi a Vittorio Veneto per essere anche noi partecipi, o forse prima degli alleati, alla Liberazione di Vittorio Veneto e come divisione Nannetti, abbiamo liberato Vittorio Veneto. Dopo noi siamo risaliti e si doveva liberare Belluno, c’erano le truppe tedesche che ormai erano in ritirata disordinata, proprio abbandonando un po’ tutto, però reagendo delle volte in maniera molto crudele.

Siamo arrivati a Belluno, io sono entrato dopo le esperienze vissute, sono entrato a Belluno con un carro armato, per modo di dire, era un automezzo corazzato, con le ruote di gomma ma corazzato e sono arrivato in centro a Belluno con questo Tank con tanto di mitra a tracolla e divisa partigiana. Così è finito l’episodio della guerra.

D: Tu hai conosciuto il maggiore Tilman?

R: Sì, ho avuto modo di conoscere il maggiore Tilman della Missione Alleata perché lui era il coordinatore delle varie divisioni di varie estrazione politica, perché c’era Giustizia e Libertà, i Garibaldini… Uno dei suoi trasferimenti dalla zona del feltrino doveva venire in Cansiglio e una notte io sono stato fino alle 5 di mattina ad aspettarlo giù al ponte, si chiama ponte delle Schiette, e da lì è arrivato e l’abbiamo portato assieme ad un altro giovane che ricordo era sempre triste, è dovuto rientrare perché aveva tanta nostalgia di casa, malinconia, un giovane inglese. Invece il maggiore Tilman l’abbiamo portato su al comando della divisione, io ero semplice ragazzo garibaldino e quindi non partecipavo alle riunioni importanti.

D: Alle quali invece partecipava il babbo?

R: Alle quali partecipava mio padre che era allora il commissario politico della Brigata Fratelli Bandiera con il nome di Garibaldi.

Battistini Gino

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io sono Gino Battistini, nato a Sasso Marconi il 20 maggio 1925.

D: Gino, quando ti hanno arrestato, perché e chi?

R: Incominciamo dal perché. Il perché è che io ero un ufficiale partigiano di collegamento, cosiddetto allora, fra le varie brigate, specie con la Stella Rossa.

Venne un rastrellamento di tedeschi agli ordini di Roeder e mi beccarono siccome ero di Rasiglio, nativo e anche vivente a quel momento. Mi beccarono a casa mia. La casa si chiamava “La Balosara”. Venne un rastrellamento solo di tedeschi della compagnia del Generale Roeder.

Da lì ci portammo ad un paese che si chiamava… Insomma era oltre la mia casa verso Montebonsara, non mi ricordo più adesso il paese bene e chiusi dentro una porcilaia con diversi prigionieri.

Quella notte l’abbiamo passata in piedi dentro la porcilaia per partire la mattina per Bologna, però ci siamo trovati assieme ad un altro gruppo di condannati, erano già legati da un braccio all’altro. Hanno fatto due gruppi.

Noi ci siamo trovati poi con questo gruppo a Casalecchio di Reno nel cavalcavia dove hanno commesso l’eccidio di circa 15 partigiani e contadini di quella zona.

D: Gino, quando era questo?

R: Verso il 6-7 ottobre del ’44. Da lì noi abbiamo assistito alla selezione fra un gruppo e l’altro di questa divisione dei gruppi. Due gruppi eravamo, due gruppi siamo rimasti, però non sapevamo che quelli che mettevano da una parte andavano a fucilazione immediata e gli altri andavano alle Casermette Rosse, come me.

Dunque, noi abbiamo saputo della condanna di questi poveri diavoli impiccati a Casalecchio al ritorno dalla Germania, a guerra finita. Ci hanno portato alle Casermette Rosse a Bologna, siamo rimasti qualche ora, poi ci hanno caricato sul camion verso Fossoli di Carpi dove siamo arrivati.

D: Ma le caserme rosse che cos’erano?

R: Erano chiamate Casermette Rosse, erano uno smistamento di rastrellati, condannati, tutto un insieme.

D: Ma erano prigioni?

R: Erano una specie di prigione, ma per me erano caserme che usavano le Brigate Nere. Quelli che non andavano bene li mettevano lì e credo che si chiamino così anche adesso come nome. Da lì…

D: Ecco da lì?

R: Da lì siamo arrivati a Fossoli di Carpi dietro trasporto sul Po con delle zattere, alla meno peggio siamo arrivati a Fossoli di Carpi dove siamo rimasti credo una giornata, non tanto.

D: Il campo, scusa Gino, al campo a Fossoli nell’ottobre tu sei arrivato?

R: Sempre nell’ottobre al campo a Fossoli.

D: Ma il campo a Fossoli era ancora attivo, c’era ancora gente?

R: Era pieno di tutti i deportati.

D: Allora dicevi che dalle Casermette Rosse ti hanno portato a Fossoli di Carpi e il campo era ancora attivo, c’erano ancora le strutture?

R: Sì. Era un campo con diverse baracche, siamo rimasti lì poco tempo, ci hanno trasferiti alla galera di… Come si chiama…

D: Peschiera?

R: Peschiera, la galera di Peschiera. Alla galera di Peschiera siamo rimasti circa una settimana in attesa che aggiustassero la linea tra Verona e Bolzano. Loro dovevano caricarci su dei carri bestiame per far dei treni e mandarci a Mauthausen.

Lì abbiamo incominciato la grande sofferenza, poco da mangiare, interrogazioni, poi tutto quello che veniva.

D: Ma le vostre guardie erano sempre germanici?

R: Sempre germanici, tutti tedeschi. Siamo arrivati a Bolzano, credo siamo rimasti lì pochi giorni, credo, non sono sicuro.

D: Scusa una cosa, Gino, in quanti eravate voi quando vi hanno arrestato?

R: Grosso modo il primo gruppo da casa nostra, dalla Balosara come ho detto io ad andare su a questo paese eravamo circa 10 o 12. Alla mattina dopo nella porcilaia abbiamo trovato questo altro gruppetto che era di una quindicina, ma tutti legati.

D: C’erano anche donne?

R: Non me lo ricordo. Non credo, ma non sono sicuro, ma non credo.

D: E alle Casermette Rosse c’erano anche donne?

R: C’era di tutto. Lì c’era lo smistamento di tutto. Ma in base agli elenchi che avevano loro, allora facevano la selezione, chiamavano e bisognava partire, non si sapeva dove. Mai saputo neanche in Italia, non sono in casa sua, neanche in Italia. Era tutto segreto. Ti chiamavano e via andare. Ti chiudevano dentro dove credevano loro. A partire dalle galere di Peschiera, ci hanno messo sui carri bestiame, piombati con le sentinelle tedesche sui carri. Ci abbiamo messo per arrivare a Bolzano circa una settimana di tempo dal Brennero a Bolzano perché a ogni stazione ci mettevano a ricovero, così dicevano, a binario morto, perché i bombardamenti rompevano il treno, dovevano accomodare, staccare, attaccare, chi era chiuso rimaneva chiuso.

D: Da Peschiera a Bolzano?

R: A Bolzano. E a Bolzano ci hanno dato un po’ da mangiare, ci siamo un po’ rifocillati, però dopo di lì ci siamo accorti che eravamo già in Austria al cosiddetto Mauthausen.

D: Ma nel campo di Bolzano quanto sei rimasto?

R: Pochi giorni, pochi giorni, per lo smistamento e poi basta.

D: E poi da lì ti hanno portato a Mauthausen?

R: A Mauthausen. Noi anche a Mauthausen abbiamo fatto in tempo a vedere la scala famosa, la scala della morte, l’abbiamo saputo dopo la guerra che era la scala della morte e da lì poi ci trasferirono ad altri campi, il cosiddetto Buchenwald.

D: A Mauthausen ti hanno immatricolato?

R: No, perché ti facevano solo degli interrogatori e delle visite, contemporaneamente venivano lì degli ufficiali, parlavano fra loro e poi ci trovavamo chiusi un’altra volta su dei carri bestiame e via in questo paese che non sapevamo se era in Austria, se era Germania. Che cos’era. Non dicevano mai niente. Loro ci trasportavano a destra e a sinistra e non sapevi mai niente. Te ne accorgevi qualche volta del nome dove eri arrivato, poi partivi e non sapevi dove andavi.

D: Da Mauthausen ti hanno trasferito dove?

R: A quello che ricordo io sono andato a finire a Buchenwald e poi credo anche ad Auschwitz, credo, perché lo abbiamo fatti quasi tutti.

D: Ma a Buchenwald neanche lì ti hanno immatricolato?

R: Ma dei numeri sulla schiena, ci mettevano delle tute con dei numeri, ogni campo dove andavamo avevamo sempre dei numeri diversi. Ma noi non ci facevamo più caso perché ormai loro dicevano “Italy tot, Italy tot”, loro dicevano così come a dire “Kaputt”, loro dicevano sempre così.

D: E ti hanno utilizzato per lavoro a Buchenwald o a Mauthausen?

R: Hanno fatto di tutto, a togliere le bombe inesplose che venivano già dagli aerei e rimanevano in mezzo, loro stavano lontani da noi col mitra puntato e poi bisognava andare a prendere su la bomba che non era esplosa. Ogni tanto ne esplodeva una e partivano i compagni, loro erano al sicuro perché erano lontani e stavano ad aspettare.

D: Ma questo, Gino, a Mauthausen o a Buchenwald?

R: A Mauthausen no, questo colpo che ci hanno dato di grazia al bombardamento di Dresda, siamo passati da Dresda per lavori di raccolta di bombe. Lì c’era il pericolo maggiore, ne sono morti parecchi con lo scoppio delle bombe inesplose.

Era perché non erano esperti nel muovere la bomba o perché erano ad orologeria, non lo so com’erano, però ogni tanto saltavano per aria e i tedeschi lo sapevano.

D: Gino, ti ricordi il nome di qualche tuo compagno?

R: Mi ricordo, c’era mio fratello Remo, poi c’era un altro che si chiamava Sandolini, però non erano partigiani, erano stati presi in un rastrellamento di partigiani, però erano civili. Poi un altro si chiamava Bachelli, poi ce n’erano parecchi, adesso non ricordo più, sono morti tutti. Ce n’erano parecchi della zona di Rasiglio, noi eravamo di Rasiglio.

D: Dopo Buchenwald dove ti hanno portato?

R: Ci siamo trovati a Dresda per raccogliere queste bombe. Lì dopo ci smistavano. L’ultimo campo in cui sono stato, sono stato poi liberato dopo la guerra era a Chemnitz, Karl-Marx-Stadt, era nella bassa Slesia dove c’è quella valle.

D: Lì cosa facevi a Chemnitz?

R: Ci avevano messo in officina, era l’officina militare. Io in particolare mi ricordo che facevo le canne per le mitraglie, però eravamo sorvegliati più che negli altri posti, non so il perché. Lì ci facevano fare questi lavori, bisognava tacere, non dire niente a nessuno, non parlare male della Germania, bisognava salutare “Heil Hitler” tutte le volte che si vedeva un superiore, altrimenti erano legnate e il mangiare era quello che davano a tutti. Rapa secca che era una cosa dell’altro mondo, non si mangiava, poca, alla festa qualche Kartoffel, patate, il pane, ci davano un chilo di pane la settimana, tutto in una volta, ma era quel pane non nero, erano quelle patate che stendono così, veniva fuori l’acqua. Facevano presto a fare quel pane. Era tutto un bordello. Ne moriva sempre spesso qualcuno e bisognava portarli nella camera mortuaria.

Poi c’erano le squadre. Tutti i giorni cambiavano. I famosi forni crematori, noi non sapevamo niente, guai, perché chi lo sapeva, chi se ne accorgeva, lo facevano fuori subito. Nessuno doveva sapere che cosa si faceva, che cosa si andava a fare. Si portavano in questa camera credendo che fosse un posto per i defunti, invece era un posto per i defunti sì, però erano destinati ai forni crematori e ad altre cose, ad altri esperimenti che facevano loro.

D: Gino, scusa, in quella fabbrica di Auschwitz, ti ricordi se aveva qualche nome la fabbrica, come si chiamava? Non te lo ricordi?

R: Avevamo in testa il nome, un nome che non… Ho cercato di dimenticare tutto perché… “Fabrik” dicevamo.

D: Lì lavoravate di giorno e anche di notte?

R: 12 ore al giorno, notte, giorno, secondo il turno. Poi andavi nel Lager dove c’era il Lagerführer e si doveva sopportare il resto del Carlino. Botte anche lì se uno faceva qualcosa e quando era il tuo turno di andare a lavorare, ci avevano dato delle scarpe che erano zoccoli di legno e dalle scarpe si sentiva girare uno da lontano un chilometro, quindi non si poteva neanche dire “Scappo via”, dovevi andare scalzo, era d’inverno, era freddo.

D: E nella fabbrica c’erano anche dei civili?

R: C’erano anche dei civili però erano divisi. Lì tenevano quelli che…Non so, specialità che volevano loro. Mi ricordo che anche dei civili andavano alle mense, ma per me era volontari più che civili e rastrellati, per me, perché si faceva sempre la caccia anche a noi con un registro. Se firmavamo dopo eravamo liberi e mangiavamo il pane bianco. Questo era sempre in tutti i Lager dove si andava, firmate per essere non contro di loro, con loro con la…

Allora chi non accettava come ho fatto io che non ho accettato niente, voglio andare a casa a vedere i miei genitori, però non come vostro aiutante, come ribelle nel vostro sistema. Difatti c’era questo sistema con cui hanno reclutato diverse persone.

D: Gino, ti ricordi se c’erano delle donne in fabbrica?

R: Sì, c’erano delle donne. Io mi ricordo che avevo vicino a me una donna slava, una partigiana e si parlava del più e del meno, sempre di nascosto, sotto metafora. Ci guardavamo negli occhi, era sufficiente per far capire che noi avevamo degli accordi segreti. Molti hanno lasciato le penne per quello perché non hanno saputo fare in modo segreto le loro cose.

D: E l’ sei rimasto fino a quando?

R: Io sono rimasto lì dei mesi fino alla fine della guerra. Dopo è arrivata la truppa rossa, i russi ci hanno liberato. C’è da dire una cosa, ci hanno liberato dal campo di sterminio, però dopo ci hanno riconquistati ancora i tedeschi, perché il fronte veniva avanti da un lato e andava indietro dall’altro.

Allora i tedeschi quando hanno visto che arrivavano addosso i russi per portarci indietro, hanno fatto in modo da portarci via da quel campo e poi siamo andati a finire fino a Kiev dietro dall’altra parte per il fronte russo. Poi ci hanno liberato i russi, eravamo in Russia, si veniva avanti in quel modo.

Noi dei russi non possiamo dire niente perché erano nostri liberatori.

D: E ti ricordi quando siete stati liberati più o meno?

R: Più o meno noi siamo stati liberati credo a metà maggio, alla fine di maggio. Credo così. Siamo stati tra gli ultimi proprio come Liberazione.

D: Dopo la Liberazione tu dove ti trovavi?

R: Mi trovavo al fronte russo e ci hanno caricato i russi con delle caravelle, con dei carri di tutte le specie, dicevano “Italienski via, Italienski via”, venivamo in qua per venire verso l’Italia, ma eravamo in una zona e nessuno ci sapeva dire che strada dovevamo fare.

Noi venivamo un po’ a piedi, un po’ su questi carri, un po’ su qualche treno locale che si trovava lì, o corriere che c’erano, dei mezzi del genere per venire, guardavamo il sole per venire a casa. Quando vedevamo il sole la mattina, partivamo verso il sole, perché noi siamo del sud, veniamo in Italia.

Abbiamo fatto diversa strada in quel modo, poi siamo riusciti ad arrivare in Austria, a Vienna credo, no, ad Innsbruck dove c’era un campo di smistamento. Lì eravamo già in mano agli americani con i neri che avevano questi camion, ci caricavano, ci portavano a Bolzano. Bolzano l’abbiamo trovata ancora a venire in Italia.

Da lì abbiamo trovato dei mezzi di fortuna per arrivare ognuno al paese dove doveva…

D: Gino, lì a Bolzano vi siete fermati ancora?

R: Un giorno credo, ma solo per trasbordo, per passare. Poi lì si mangiava. Se devo dire la verità, il pericolo maggiore di tutto questo era proprio lì, c’era una cucina militare che coceva la pasta da darci da mangiare. Ma siccome sui camion con i neri non ci davano niente da mangiare, da Innsbruck a lì, avevamo già accumulato un’altra fame. Quando arrivavamo lì, deboli come eravamo, fame a rotta di collo, vedere la cucina, questo fumo con le pentole… Noi abbiamo assaltato il campo e abbiamo rovesciato tutto per terra, mangiato la terra, tutto. Ci siamo trovati dentro ad un dormitorio con la pancia gonfia e molti sono scoppiati, morti lì.

Dalla fame che avevano, avevano mangiato i maccheroni mezzi cotti, una cosa e un’altra per mettersi su un letto e si moriva in quel modo, dopo aver passato tutto quello che avevamo passato.

D: E tuo fratello era con te?

R: Mio fratello l’ho perso a venire a casa da Bolzano a Bologna, l’ho perso e l’ho trovato prima di arrivare a casa fortunatamente. L’ho raggiunto con un camion a Calderino che era su a Monte San Pietro, era un paese dopo Casalecchio andando su per la montagna.

D: Ma tuo fratello ti ha seguito in tutto il percorso?

R: Siamo stati quasi sempre insieme, però anche lui era immischiato come partigiano e non lo allontanavano. Tanti altri invece venivano messi in disparte e facevano tutte le divisioni e noi non sapevamo perché. Si pensava, perché avranno bisogno qui, avranno bisogno là. Però loro lo facevano solo per ragioni politiche. Era tutto lì il suo distacco da uno all’altro. E volevano vedere se c’era qualcosa di trama fra noi e tutti gli altri. Dividendoci loro volevano riuscire a capire cosa bolliva in pentola e allora ogni tanto ne spariva qualcuno e non sapevi dove andava.

Purtroppo quando siamo venuti a casa abbiamo saputo che era toccata la sorte della morte. Io devo dire che abbiamo sempre parlato con gli altri. Fortunato chi può dire questa cosa. Difficilmente avevamo la speranza di rientrare in Italia perché c’erano troppi pericoli. Come Le dico, lì eravamo già in Italia, la gente moriva perché la gente mangiava questa roba biscotta e tutta in una volta.

Poi siamo arrivati a Bologna. A casa, eravamo come delle lucertole, chi ammalato da una parte, chi ammalato da un’altra, io avevo un’infiltrazione polmonare, mio fratello anche lui. Ci siamo pesati, eravamo 40 chili, 37 chili. Può immaginare a 19 anni, a 20 anni che abbiamo compiuto là era una cosa indescrivibile. Non si può neanche descrivere adesso che cosa abbiamo passato.

D: Ti ricordi la data più o meno quando sei arrivato a casa?

R: Credo il 6-7 giugno del ’45, credo.

Santarelli Giorgio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Giorgio Santarelli.

D: Quando sei nato?

R: il 13 marzo 1925, nato a Firenze, fiorentino doc. Perché si fu arrestati dalla Gestapo a Milano? Perché si era con l’intelligence inglese nella Val di Faro, per richiedere la lancia partigiani, le formazioni di lì. Lanciarono assieme al materiale anche una missione di due persone che noi si doveva accompagnare a Milano per presentarla al CLN di Milano.

Sennonché uno di questi due, di cui credo di ricordare il nome, ma siccome non sono certo, non lo faccio, uno di questi due fece il doppio gioco ed andò a denunciarci alla Gestapo. Per cui una mattina io e Giorgio Chieffo mitra alle costole, in macchina ed all’hotel Regina che era il comando della Gestapo.

D: Scusa, ti ricordi quando ti hanno arrestato?

R: Posso guardare?

D: Certo, che puoi.

R: Perché sennò. Il 31 agosto del 1944.

D: Vi hanno arrestato. Chi vi ha arrestato? Erano italiani o germanici?

R: Erano italiani, ma ci portarono all’hotel Regina che era il comando della Gestapo tedesca. Tant’è vero che quando si passava davanti all’hotel Regina si diceva ” Se si entra lì dentro, non ci si sorte più”.

Bene all’hotel Regina, si parlò con un maggiore tedesco, mi chiese come mi chiamassi, gli dissi il nome, gli feci vedere la carta falsa, mi disse subito

” Non è vero, tu agente del nemico, una, due ore fucilato.” Queste furono le sue parole.

Va beh. A questo punto mi mandò fuori, con gentilezza, lo disse, e con poca gentilezza delle SS, ci portarono a San Vittore. A San Vittore, quinto raggio, isolamento.

Duro, l’isolamento è duro, ogni tanto ci chiamavano, ogni due o tre giorni, per gli interrogatori, dopo chissà perché ci mandarono a Bolzano, invece che…

Quello ci interrogò e ci disse: “Fucilati di sicuro perché è nella legge di quella”, ed era giusto. Ed invece andò così, misteri. Misteri.

Si arrivò a Bolzano. A Bolzano si arrivò, non me lo ricordo. So che si fuggì l’8 ottobre 1944.

D: Scusa, da San Vittore a Bolzano?

R: In pullman.

D: Ma solo voi due?

R: No, si era assieme, ci avevano messo a noi i triangoli rossi, a noi ci avevano appuntato dei politici, e gli ebrei i triangoli gialli degli ebrei e si era stipati tra triangoli rossi e triangoli gialli.

Non solo, dirò che di guardia alla porta c’era un francese.

D: Alla porta del pullman?

R: Alla porta del pullman, che ha optato per le SS tedesche ed io feci amicizia con questo ragazzo francese. Amicizia, ci si mise a parlare, e lui per arma aveva un fucile mitragliatore, l’arma classica che lanciavano gli alleati e armeggiava, e gli dissi “Stai attento” ed ebbi addirittura il fucile mitragliatore in mano, e la tentazione fu grossa. Però c’era tutta l’altra gente.

Si arrivò a Bolzano sul far della sera e la prima cosa che ci fecero, ci fecero mettere in ginocchio. Quattro cinque erano seduti su una sedia con un rasoio elettrico, non era proprio un rasoio, era un tosa pecore, mi sa, e ci fecero la rapa a tutti, questa fu la prima funzione.

D: Ascolta c’erano anche delle donne assieme sul pullman?

R: Sì ebree. Ebree, mi ricordo. E poi ci misero nei blocchi e mi sembra, mi sembra di ricordare che fu il blocco K, quello cui io fui messo. Poi ci incominciarono a portare a lavorare alla galleria dove poi nacque una fabbrica di cuscinetti a sfere.

D: La galleria del Virgolo.

R: Eccolo, bravo. E qui ho un ricordo, perché vivo di ricordi. Un tedesco, il capoccia di quelli che ci guardavano, gli si era messo nome “pisceria” e dirò il perché. Siccome il tragitto era lungo ed ogni tanto qualcuno bisognava che per bisogni fisiologici che si fermasse, andava da lui e gli diceva di farsi fermare.

Siccome c’era un lungo muro, non mi ricordo, di una fabbrica o di qualche cosa, allora quando si arrivava così questo tedesco alzava le braccia ed urlava “piscerai” e che si avesse bisogno oppure no, bisognava mettersi tutti faccia al muro per poi ripartire. Era un brav’uomo, era un brav’uomo, tutto sommato era un brav’uomo. Non era un pessimo.

Devo dire cattiverie cattive nel campo io non ne ho viste. Onestamente ho visto legnare uno perché lo avevano ripreso perché era scappato, di fronte a tutti lo presero a legante.

Devo dire che mi ricordo di due legati ad un palo con un cartello con dietro scritto “Di ritorno dall’escursione”. E non si poteva avvicinarsi né per portargli da bere né niente. Che fine abbiano fatto, non lo so. Mi ricordo di qualche lambrata, di qualche pedata, insomma, cose del genere, questo sì.

D: Scusa Giorgio, quando vi portavano a lavorare alla galleria, voi partivate dal campo di Bolzano a piedi, e a piedi raggiungevate la galleria del Virgolo, e lì cosa facevate. Nella galleria?

R: Sì. Si scavava la galleria. Ma io avevo un compito strano perché mi avevano messo, c’era una macchina, una strana macchina, con due piatti, si doveva prendere dei sassi grossi metterli nel mezzo, in modo che questi piatti li riducessero. Sicché non ci si poteva fermare un minuto perché questa macchina faceva un fottio tremendo, se ci si fermava lo si sentiva. Allora si trovò un pezzo di ferro e si mise quello, quello sbatteva, ma non si rompeva, però ad un certo punto successe che rimase attraverso tutto così, tirare via non si poteva per paura che le mani ci rimanessero dentro, bruciava il motore perché girava a vuoto, il tedesco si arrabbiò. Questa volta le buscai. Ma, insomma.

D: Per quanto tempo sei rimasto a lavorare lì?

R: Direi quindici, venti giorni al Virgolo perché poi succedeva che ci facevano fare altri lavori, per esempio io e Giorgio si era addetti alla disinfezione in un carrello, lo ha rammentato anche Giorgio questo, si faceva il fuoco sotto e si buttavano dentro le tute con dei bastoni, quando l’acqua bolliva per disinfettarli e noi ci si faceva cuocere le patate lì dentro che chissà come si erano avute queste patate e si tiravano fuori blu perché stingevano le tute, ma erano patate e si mangiava, e questo non è poco.

Poi ci portarono a scalinare, proprio a Caldaro. A Caldaro, sopra c’era la Mendola, insomma. Qui si ebbe la fortuna sfacciata, perché ci vuole anche ella nel mondo. Il mondo è fatto di fortuna e di sfiga, insomma, non è più una parolaccia. Vero?

Perché ad un certo punto ci rinchiusero tutti in una casa, io e Giorgio si trovò il buco per sortire fuori e si scappò. Solo che un contadino ci vide, ma questo contadino rubacchiava ed allora io per farlo star zitto gli dissi “Stai zitto perché tu rubi”, ed allora lui zitto stette. Si incominciò. Si attraversò prima tutti i filari di viti, mi ricordo e poi si attaccò la montagna. La montagna la conoscete meglio di me, è ripida. E avanti. Sennonché ci misero le canizze dietro, dopo un po’. Sai da un uomo ti nascondi, da un cane non ti nascondi. E qui la fortuna sfacciata, venne uno di quei temporali tremendi che vengono spesso su a Bolzano dalla Mendola. Acqua ed i cani persero le piste. Persero la pista e venne notte.

D: Lì dicevi che ricordavi la data della tua fuga.

R: La fuga fu l’8 ottobre 1944.

D: Ascolta, voi avevate ancora la tuta?

R: Questo è un altro discorso. Siccome si aveva idea di scappare in ogni caso la sera prima si ebbe a chiedere al capo campo italiano, c’era un capo campo degli abiti borghesi perché si voleva scappare, da mettere sotto la tuta.

Lui ci sconsigliò, “Non ce la fate”, ci disse, “non andate via”. Ma ormai si era decisi e ci procurò questi abiti borghesi da mettere sotto la tuta e devo dire che tutto il blocco lo sapeva questo. Nessuno ha fiatato.

D: Tutti sapevano della vostra fuga?

R: Sì perché si portò gli abiti borghesi in blocco, sicché tutti sapevano in blocco della nostra fuga e nessuno ha fiatato mai. Per farsi belli può anche darsi che ci fosse chi, ma non è stato così.

Sicché noi sotto la tuta si aveva gli abiti borghesi. Tant’è vero che quando si scappò, c’era un cimitero vicino con delle mura basse. Si disse, è rimasto proverbiale con Giorgio “Quando siamo al cimitero, siamo a posto”.

Perché si scavalcava il muro, ci si toglieva le tute e si rimaneva in abiti borghesi e così fu.

Basta. La mattina si dormì sotto l’acqua accostati ad un tronco d’albero di traverso sennò si ruzzolava a valle. E la mattina si ricominciò a camminare e si arrivò alla Mendola.

Alla Mendola, proprio sulla strada, al ciclio, c’erano degli operai a lavorare e mangiavano, era l’ora di pranzo, e c’erano delle fette di pane così e si disse, altrimenti si sarebbe cascati a terra.

Si fece la conta a chi doveva andare a chiedere, o la va o la spacca, perché rischiare in due sarebbe stato inutile. Toccò a Giorgio. Andò e portò delle sleppe di pane però disse, occhio, rimanete nel bosco perché sono ancora a cercarvi. E noi ci si buttò giù nel bosco. E si arrivò a Ruffrè.

La sera, la tarda sera, si arrivò a Ruffrè e si vide Don Lino Giuliani, ora Monsignore, allora parroco di campagna, su e giù per la Chiesa a leggere il breviario. Si disse, o la va o la spacca, questa volta toccò a me, logicamente. Si stette più di un mese da Don Lino. Perché c’erano due problemi grossi. Uno era quello della rapa. Per farsi fare i documenti falsi e poi ce li fece, io l’ho saputo, la signora Baldassari Maria, del Comune di Lavarone. Ci fece delle carte d’Identità false. Però fare le fotografie rapati sarebbe stato illogico, col cappello non si possono fare fotografie, sicché ci toccò aspettare da Don Lino che ci ricrescessero un po’ i capelli e lui ci ospitò.

Io mi ricorderò sempre la prima notte, dormire tra due lenzuola con un piatto di pasta asciutta grosso così. Sono cose grandi. Sono cose grandi.

Si stette da Don Lino per almeno un mese, penso, poi si ebbero i documenti falsi e si andò a Milano. Si restò a Milano e si ripresero i contatti con il CNL e si trovò il modo di espatriare in Svizzera. Il bello era che il CNL ci aveva fornito dei documenti falsi delle SS italiane ed in Svizzera davano asilo a tutti meno che alle SS. Quando si arrivò al confino ci volevano rimandare indietro perché si era delle SS, però telefonarono al consolato inglese che ci aspettavano, allora servizio di consolato, perché spia non è mai stato, telefonarono e ci rimandarono al consolato in Svizzera.

Poi per una serie di ragioni, dall’intelligence inglese si passò a quella americana con le OSS, ci rispedirono in Repubblica di Salò in servizio. “No”, ci dissero, “se volete rimanere in Svizzera fino alla fine della guerra”. Ma si era ragazzacci. Si optò per ritornare.

Giorgio Chieffo rimase a Milano, non so con quali compiti, e me mi mandarono proprio a Bolzano o nella zona, perché dovevo dare settimanalmente notizie sulla viabilità della strada del Brennero e sui posti dove nascondevano i camion, perché di giorno non viaggiavano camion. Io ho preso tre mitragliamenti, ed ero in motocicletta, dagli alleati perché tutto ciò che si muoveva mitragliavano. E lì ho trovato la fine della guerra. Presentai al comando americano il CLN di lassù, mi feci dare una macchina, caspita e mi ricordo che mi dettero la macchina del Maggiore tedesco di lassù che era una cabriolet bianca tinta, con la croce rossa. Ma loro intervennero con una pistola color verde militare e me la fecero subito verde, foglio di viaggio e a casa.

Devo dire a proposito di questo Maggiore tedesco che era un medico, perché gli alberghi della Mendola erano tutti ospedali militari. Comandati da un Maggiore, questo Maggiore, claudicante, mi ricordo un galantuomo.

Quando successe il patatrac e le truppe tedesche scappavano e venivano su, allora lui volle incontrarmi e ci si trovò d’accordo nel dire, un soldato tedesco ed un partigiano con la fascia tricolore avrebbero fermato le colonne tedesche, le avrebbero disarmate e le avrebbero lasciate andare dove volevano. E così è andata alla Mendola. Ci fu una sparatoria, non si è mai capito come, ma insomma, fu liscia.

Poi vennero gli americani ed io lasciai tutto in mano a loro, presi questa macchina, questo permesso e venni a Firenze. Non fu cosa facile arrivare, non fu cosa facile, ma ogni modo ci arrivai.

D: Scusa un attimo Giorgio. Che cosa ti ricordi tu del Lager di Bolzano. Del campo, come te lo ricordi?

R: Mi ricordo dei tipi stranissimi del campo, c’era Vivere, si chiamava che era un tizio, non so se qualcuno ve lo ha raccontato. Addetto ad un brutto servizio, antipatico servizio, tutte le mattine lui aiutato da un altro, con un carretto, veniva ai vari blocchi a prendere i buglioli piccini, li rovesciava ed era un servizio piuttosto disdicevole e lo faceva prima che aprissero i blocchi e mi ricordo che cantava sempre la canzone “Vivere, vivere, sono così giocondo.” Ecco, quest’uomo mi è rimasto impresso.

Poi una volta che odiai tutti i prigionieri del campo come me, perché? Successe che portarono un carro di pane e chiamarono me ed un altro a far volare le pagnotte tedesche militari, grosse, pan quadrato come c’è ora, a farle volare al di là del filo spinato, alle cucine, alle cucine c’era chi le prendeva e le metteva lì. C’erano due tedeschi a guardare ed io che ero vispo, facevo il lavoro veloce e quando vedevo che i tedeschi guardavano tutti e due da un’altra parte, ne buttavo uno indietro invece che avanti, e rischiavo, perché se mi vedevano erano legnate. Finto il lavoro non mi toccò nemmeno una midolla, me ne ebbi tanto a male. Questi sono ricordi.

D: Ti ricordi se nel campo, dicevi prima che con il tuo trasporto sono venute anche delle donne, quindi c’erano anche le donne ed erano impiegate anche loro nei lavori?

R: Questo non lo so, questo non lo so. So che il blocco mio confinava con il blocco delle donne, appunto che il muro non arrivava proprio fino in cima, c’erano dei fili spinati e volavano i frizzi. Ma se deportassero anche loro al lavoro non lo so.

Ricordo però che c’era una baracca, in fondo a sinistra, dove c’erano i sorvegliati speciali, e dove non ci si poteva nemmeno avvicinare, ecco, quello che accadesse lì non lo so. Però penso che si sia incattivito il campo, nell’andare del tempo. Può darsi questo.

D: Ti ricordi se hai visto dei religiosi o dei sacerdoti?

R: No, uno mi disse, “Io sono un prete.” Perché aveva la tuta come gli altri. Tant’è vero che era del mio blocco e mi chiese se sapeva che la mattina dopo si sarebbe tentato la fuga, e mi chiese se volessi confessarmi, io non sono credente. Lo ringraziai.

D: Non ti ricordi il nome?

R: No, no. Assolutamente no. Fu lui a dichiararsi prete perché aveva la tuta come noi. Mi avvicinò proprio con questo scopo, io lo capisco, per l’amor di Dio.

D: Ti ricordi se hai mai visto dei bambini nel campo?

R: Non lo so. Non lo so. Con le donne forse sì, ripensandoci. Signori, è passato qualche mese, insomma.

D: Giorgio ascolta, eri entrato nel campo dando il tuo nome vero o dando false generalità.

R: Ero entrato nel campo dando false generalità. Il mio nome vero non esisteva più, insomma. Ora non mi ricordo più quali. Ho detto quel nome, ma ora penso che forse non è quello perché ho ancora la carta d’identità altrimenti al campo me l’avrebbero ritirata. Ogni due mesi, ogni mese si cambiava documenti, si cambiava nome e cognome, capiscimi.

D: Ti è stato dato un numero di matricola?

R: Sì. Ma non me lo ricordo.

D: Giorgio che tu sappia, voi lavoravate, tu e l’altro Giorgio, lavoravate per il servizio inglese.

R: Per l’intelligence.

D: Che tu sappia l’intelligence si è mossa quando ha saputo che voi siete stati arrestati?

R: Sì. Si è mossa. Si è mossa e dirò il perché. Ci fece sapere tramite non mi ricordo chi, in carcere un secondino, c’erano dei secondini, dei guardiani che erano dei nostri, che un medico era dei nostri. E che quindi si marcasse visita quando c’era quel medico per poter avere dei contatti e ci furono dei contatti, insomma, ci servirono.

Mi rammento di un guardiano che la mattina quando venivano lì a vuotare il buiolo, si lasciava cascare dalla tasca tre o quattro sigarette, erano vita. In isolamento erano vita. Per quello ho avuto anche qualche cosa, ma qualche cosa fumo ancora.

D: Come era avvenuto il tuo reclutamento per l’intelligence quando eri in Val di Taro?

R: La cosa è lunga. Quando io ero ragazzo, terza media, ero antifascista, ma non per ragioni politiche perché di politica non ci si intendeva, ma perché mi erano antipatici, perché volevano che facessi quello che volevano loro, andassi in fila, il sabato avevo una ragazza e mi toccava andare all’adunata. Insomma, mi erano antipatici.

Feci dei volantini e mi misi ad attaccarli alle porte alla sera, fui scoperto ed ero minorenne e mi portarono in carcere. Poi la cosa si risolse, mio padre era buon amico della Pira, il Vaticano, a quel punto, la cosa si risolse senza nemmeno un processo, però rimasi in vista. Tutte le volte che veniva un capoccione fascista, quando venne Mussolini, per esempio, a me mi venivano a prendere e mi portavano a casa. Tant’è vero che mi presentai da me alle carceri per non far venire i Carabinieri a casa, perché non era bello, non sapevano perché venivano. Mi dissero “Guarda che non ti si può prendere”, allora andai all’ufficio politico della Questura “Non mandate i Carabinieri a casa, ci sono di già”.

Allora quando successe l’8 settembre le cose si fecero più serie, sarebbero venuti a cercarmi, insomma e con le cattive e mi aggregai ai primi gruppi partigiani intorno a Firenze. Andai da me, camminai ed alla fine li trovai, insomma. Solamente erano comunisti. In famiglia mia erano tutt’altro che comunisti e quindi non avevano piacere che io fossi lì, ma nemmeno in casa. Avevo uno zio prete ed accanto alla sua parrocchia c’era un convento di frati. Dentro a codesto convento aveva fatto base una missione inglese. Allora i miei pur di togliermi dalla formazione rossa preferirono farmi aggregare a codesta missione inglese. Ecco come sono entrato. E fummo mandati insieme a Giorgio Chieffo che lo conobbi lì, non so come, nella Valle di Taro, sei mesi, a richiedere i lanci di materiale ed armi, insomma.

Intanto che si era lì, si capisce, che si faceva quello che si doveva fare, quello che facevano gli altri.

D: Quando, dopo la fuga, dalla Mendola, siete rientrati tutti e due a Milano. Come avete fatto a lasciare la Mendola e venire giù a Milano? Te lo ricordi più o meno?

R: No, scusa. Quando?

D: Quando dopo la fuga eravate da Don Lino.

R: Bene, quella signora che ti ho detto ci fece le carte d’identità, ci si mise in un posto di blocco tedesco, perché allora si viaggiava tutto di fortuna, e ci si mise in coda con altri, e quando passò una macchina con due ufficiali tedeschi la fermarono, e disse “Milan” ed allora ci misero dietro e si è fatto il viaggio comodamente dietro la macchina di questi due signori tedeschi.

D: Il vostro contatto a Milano chi era?

R: Il nostro contatto a Milano?

D: Quando siete arrivati a Milano e avete preso contatti con il CNL.

R: Non mi ricordo il nome. Non mi ricordo. Il nome non me lo ricordo. Poi sono tutti soprannomi, è inutile, i nomi non ce se li diceva, non me lo ricordo.

D: Giorgio però ti ricordi quando dalla Svizzera siete rientrati in Italia?

R: Sì.

D: Non avete fatto un viaggio diretto, vi siete fermati in un posto, in un paese.

R: Sì.

D: In Svizzera. Ti ricordi? Vi siete fermati per caso a Campione?

R: No, non ci siamo fermati. Quando si optò per le OSS americane, siccome entrati in Svizzera bisognava fare una quarantena, e per chi aveva i soldi era in certe ville, sennò li mandavano in campi di raccolta, e non di concentramento, per l’amor di Dio.

Noi si era in una di queste ville, mantenuti dal Consolato inglese e si doveva fare la quarantena. Allora furono le OSS stesse a toglierci di nascosto da codesta villa, mi ricordo che si dormì in casa di due che erano a Lugano, al caffè, al maggior caffè di Lugano, lui suonava la chitarra e lei cantava. Ci misero in casa di codesti due signori ed il giorno dopo ci accompagnarono a Campione d’Italia che era territorio libero perché era comandato da un Capitano dei Carabinieri, il quale aveva optato per Badoglio e non per la Repubblica e mi ricordo che ci fece un documento questo Capitano unico, a tutti e due, in cui c’era scritto “Si permette a due signori, che rispondono al nome di Giorgio e Giorgino di soggiornare per un periodo illimitato nel territorio di Campione d’Italia.” Questi erano tutti i nostri documenti.

Da albergo in albergo ci dissero “Qui potete chiedere i soldi se volete andare a giocare al casinò, qui paga l’America, insomma”.

Poi fu una cosa strana, c’era una ragazza bellissima, una ragazza bellissima, le facevo la corte spietata e il Giorgio mi diceva “Guarda che è una spia tedesca”, perché ci dissero che erano tutti lì a Campione d’Italia, “Ma io sto zitto”. Poi fu lei a dirci “E’ l’ora d’andare stanotte”.

D: Lì a Campione siete rimasti poco però.

R: Sì.

D: Quindi non puoi sapere i contatti con il movimento partigiano che c’era lì.

R: No, no, si viveva soli, soli, io e Giorgio. Si aveva avuto l’ordine di non parlare con nessuno.

D: Ritornando ancora al campo di Bolzano, oltre a Vivere e a quegli altri episodi che ci hai raccontato. Che cosa ti ricordi ancora del campo? Entrava qualcuno a vendere? Tu accennavi al pane che scaricavate. C’era qualcuno che portava dentro le mele?

R: No, io mi ricordo che ho avuto delle mele, ma ce le buttavano gli italiani quando si passava. Ho scoperto una cosa che un grappolo d’uva ti leva la fame, ma una mela è come bere un bicchiere d’acqua. É vero.

D: Ti ricordi se c’erano delle officine lì vicino al campo di Bolzano?

R: Sì, perché una volta si fece una pazzia io e Giorgio. Si cercava tutti di trovare un posto fisso al campo, per non andare in Germania, perché, dico la verità, ancora non se ne sapeva nulla, però che si stava male e peggio di lì, lo si sapeva e cercavano due carpentieri, si disse noi: “Va bene”.

Ci portarono, c’era una carpenteria, per fare le baracche, e codesto che era capo, ci dette in mano due assi e se ne andò, ci disse: “Fatemi un incastro a coda di rondine”. “Ti saluto”, si pensò così. Ci si provò, dopo un po’ tornò, era un detenuto anche lui, lo guardò e ci disse: “Mischiatevi subito, più che potete e non vi fate più trovare”. Quindi c’era la carpenteria. Sì c’erano.

D: Ti ricordi se attorno al campo c’erano, c’era il muro di recinzione, poi c’erano i reticolati e delle garitte?

R: C’erano dei reticolati, mi sembra le garitte, mi ricordo i reticolati, giustamente incurvati, ma non mi ricordo se erano più di uno oppure no. Però i reticolati senz’altro, le garitte non mi ricordo.

Ripeto, io c’ero in quel periodo. Quando lo aprirono il campo di concentramento di Bolzano?

D: Nella primavera, luglio del 1944.

R: E noi si era arrivati, non mi ricordo, tre mesi dopo. Forse dopo si incattivì di più. Si incattivì.

Camangi Silvio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Io mi chiamo Silvio Camangi, nome di battaglia Giuliano. Sono andato in montagna il 29 di giugno 1944.

D: Quando sei nato, Silvio?

R: Sono nato a Parma il 16 aprile del 1924. Dapprima sono stato a Bardi, poi sono andato nel distaccamento Pellizza, che operava nella zona di Varano Marchesi. Lì rimasi fino al rastrellamento.

Anzitutto, prima c’è stato il rastrellamento di luglio. Durante il rastrellamento di luglio io riuscii da Bardi a venire qui in città a Parma. Nella stessa giornata andai poi a Pieve di Cusignano, dove c’erano sfollati i miei genitori.

Dopo andai nel distaccamento sempre nostro del Pellizza. Ad un bel momento dopo una bella attività con il distaccamento, abbiamo fatto saltare un ponte ferroviario, poi altri attacchi alla polveriera di Noceto, poi a Noceto stesso c’è stato uno scontro con la Brigata Nera nel quale nessuno è stato ferito dei nostri.

Però erano rimasti uccisi tre della Brigata Nera e feriti altri. Poi ci fu la cattura da parte della Brigata Nera di tre partigiani, che furono poi fucilati nei pressi di Noceto sempre nel settembre del ’44.

Poi venne purtroppo il rastrellamento del dicembre. Quindi i reparti dei bersaglieri attaccarono, noi resistemmo due giorni. Poi ci siamo dovuti sganciare, cioè ritirare, verso Pellegrino Parmense, in quanto venivano alle spalle nostre dei reparti dei tedeschi.

A Pellegrino rimanemmo due o tre giorni e anche lì ci furono dei combattimenti, ma erano combattimenti sparsi, non era una cosa unitaria d’attacco. Poi noi ci sganciammo di nuovo con un gruppo di sette, otto, dieci partigiani. Andammo verso Specchio, nel comune di Solignano. Attraversammo il Ceno con tanto d’acqua. Eravamo bell’asciutti.

Quando arrivammo poi a Specchio, arrivammo verso le tre del pomeriggio, ci portammo in una frazioncina distante da Specchio un chilometro o due. Specchio, non so se l’ho precisato prima, è sempre nel comune di Solignano.

Lì rimanemmo fino alle quattro, quattro e un quarto del pomeriggio, cinque massimo. Abbiamo visto in lontananza dall’altra parte della vallata un reparto di tedeschi che si inoltravano verso…allora la chiamavano la Foppla, una località. E’ quasi alla foce del Pezzola, torrente Pezzola.

Quando vedemmo questa colonna a nessuno è venuto in mente di dire: “Andiamo alle spalle e lì noi siamo già fuori dalla cerchia”, niente. Avevamo nel gruppo anche gente che aveva fatto la Russia, con certe esperienze.

Tornammo ai Filippi, che è un’altra frazioncina di Specchio. Lì ai Filippi cos’è successo? E’ successo che un nostro amico, anzi due, il povero Spiga e un certo Tedeschi, tenente, scendono ancora verso la valle. Gli altri si inoltrano verso Specchio, io corro alla ricerca dei due e mi trovo un mitra nello stomaco, bel preciso.

Era un reparto d’alpini tedeschi, una compagnia d’alpini tedeschi. C’è scappato anche il morto, perché quello che mi ha fermato ha visto il mio amico, un certo Zucchero, Zucchero si chiamava, il nome di battaglia, un certo Reggiani Antonio, che ha cercato di scappare.

Lui lo ha preso subito di mira e l’ha fatto fuori immediatamente. Nel frattempo gli altri, perché io poi mi ero girato e ho urlato: “I tedeschi”, gli altri sono spariti. Sono riusciti a scappare, ma non tutti, quindi dieci di noi sono stati catturati. Fra i quali anche i due famosi che erano andati verso la valle.

Ci portarono in casa di un certo signor Ruffini, che ricordiamo sempre con molto affetto. Questo signor Ruffini aveva due figlie, una delle quali sapeva molto bene il tedesco. In questa villa ci portarono a contatto col comandante della compagnia, il quale prese i nominativi, tutto quanto.

Poi venne il prete di Specchio, don Caramatti, il quale incominciò da quelli che erano in borghese a dire: “No, questo non è un partigiano, questo è un mio parrocchiano. Questo è un altro mio parrocchiano, questo…”. E ne ha tirati via diversi.

Quando è arrivato davanti a me, siccome io avevo un vestito mimetizzato, giacca, pantaloni, tutto completo, berretto, mi dice: “Bel ragazzo, non posso fare niente io per te”. “Reverendo, come si fa?”.

Dopo ci portarono nel solaio e al mattino ci dovevano fucilare. Anzi, dimentico proprio un particolare molto importante: quando ci catturarono, per andare a Specchio c’era una carraia che faceva una curva. Nella curva c’era un muro.

Ci misero tutti quanti contro questo muro bell’e pronti come il plotone d’esecuzione, quando avvenne una discussione tra il maresciallo che ci voleva fucilare e il capitano. Sicché il capitano disse: “No, domani mattina, domani mattina” e ci portarono in casa di questo Ruffini.

Lì pernottammo e il giorno dopo invece… Siamo ancora qui. Praticamente non ci fucilarono né ci impiccarono. Ci portarono poi a piedi da Specchio, Forlignano, Fornovo, Pontremoli, poi abbiamo fatto tutta la Cisa. Ci abbiamo impiegato tre o quattro giorni perché a Fornovo ci siamo fermati, abbiamo pernottato lì due o tre notti.

Finalmente arrivammo a Pontremoli. Dopo Pontremoli ci hanno portato a Parma con dei camion e ci portarono direttamente alla SD del viale, nello stradone di fianco al “Petitot”. C’era la sede della SD, c’era il comando tedesco. C’era quel comandante, quel capitano Albert, come si chiamava adesso non mi ricordo, il quale ci ha interrogati tutti quanti, poi uno alla volta separatamente, messi in locali separati.

Io fui richiamato di sopra due volte, perché la mia versione non concordava con quella di un altro, perché io avevo detto che il comandante di distaccamento era un napoletano, invece lui aveva detto che era romano. E’ andata liscia.

Poi ci portarono in San Francesco, in San Francesco siamo rimasti una decina di giorni buoni e da San Francesco una bella sera ci hanno prelevato tutti quanti e ci hanno portato a Verona.

D: Scusami un secondo, lì a San Francesco le guardie erano italiane o tedesche?

R: Le guardie italiane, però con anche SS tedesche. Erano dei sorvegliati, le guardie carcerarie…

D: L’amministrazione però era tedesca?

R: Sì, senz’altro.

D: Dicevi questa cosa prima, che ti hanno portato nella sede della SD.

R: Sì.

D: Quindi qui a Parma c’era la SS e la SD?

R: Sì. La SS dipendeva dalla SD.

D: Ma qui a Parma c’era un insediamento…

R: Sì.

D: Ascolta, qui a Parma rispetto alla RSI c’era anche lì la casa del fascio?

R: C’era ancora la casa del fascio. La casa del fascio era in Piazza Garibaldi. Poi c’era la prefettura che era in mano ai repubblichini.

D: Quindi c’erano questi distaccamenti?

R: Sì.

D: Allora, ti prendono e ti portano a Verona.

R: A Verona c’è stato il battesimo, però io mi nascondevo sempre dietro gli altri, come faceva Walter, sicché li ho schivati. A Verona ho il ricordo di quel famoso partigiano che era vestito all’inglese e quello delle SS italiano gli ha detto: “Come mai tu porti la divisa dei nemici della tua patria?”.

Gli ha risposto: “E tu sei vestito da tedesco, quindi siamo tutti e due…”. Allora cos’è successo? E’ successo che gli ha dato un pezzo di legno addosso; in fondo all’asse di legno, c’erano due o tre chiodi e l’ha preso di striscio.

Lui non ha detto niente. Ad un bel momento gli ha detto: “Tu sei il tale, non so, Rossi Amilcare, abiti ad Ancona al numero tot, 36 tanto per dire”. E’ rimasto esterrefatto. Questo era un suo vicino di casa, con tanto di barba e non l’ha riconosciuto.

Allora l’ha cominciato a lisciare, una balla e l’altra. Lì ho preso un mestolone alla testa, perché quando hanno detto del rancio mi hanno chiamato per vuotare il coso, per prendere le gamelle e intanto mi è arrivato questo mestolo sulla testa. E’ andata anche abbastanza bene.

Poi siamo andati a Bolzano sempre in corriera, erano tre corriere, da Verona siamo arrivati a Bolzano. A Bolzano siamo stati ricevuti con tutti gli onori, con abbracci, una roba fuori dall’ordinario.

D: Ti ricordi, ti hanno spogliato?

R: No, io sono rimasto sempre vestito com’ero. Io di tute

D: Non ti ricordi?

R: No.

D: Il numero te lo ricordi?

R: Sì, 9191.

D: Con il triangolo?

R: Rosso. Ci hanno messo nel blocco E, quindi eravamo pericolosi. Poi a un bel momento ci hanno caricato sul treno dopo un mesetto.

D: Ma in questo mese dentro nel campo cosa facevi?

R: Niente. In marzo c’era stato un bombardamento e venne dentro uno delle SS dicendo: “Chi è che vuol venire fuori a lavorare?”. A fare che cosa? Mah. Ci siamo andati, una decina. C’erano da togliere le bombe, scavare tutto.

C’era una bomba che era andata a finire sotto ad un marciapiede, c’era appena il marciapiede sollevato e sotto a tre, quattro o cinque metri c’era la bomba. Cominciammo a scavare, scoprire questo ordigno.

D: Questo in città?

R: In città di Bolzano. Nel quartiere degli italiani. Lì i nostri connazionali ci hanno portato del riso, ci hanno portato un po’ da rifocillarci. Ci andammo due volte a scavare attorno alle bombe, sperando sempre di non saltare per aria. Poi all’infuori di quella faccenda non ci siamo più andati noi.

D: Stavi dicendo prima iltrasporto.

R: Il trasporto da Bolzano per andare a Mauthausen. Ci incolonnarono e ci portarono in stazione, in stazione c’era già pronto il convoglio. Ci caricarono su questi carri bestiame, eravamo in centodue, centotre in un carro bestiame.

Vuol dire essere come le acciughe. C’era, mi ricordo ancora, quel povero cieco che stava poco bene, aveva anche la dissenteria, robe da chiodi.

Ad ogni modo ci siamo stati un giorno, una notte e un altro giorno. Al mattino ci hanno dato un po’ di roba calda da bere. Poi c’è stato il bombardamento della ferrovia da Bolzano al Brennero, la rotaia più lunga era venti chilometri.

Allora imbestialiti questi della SS ci hanno fatto scendere e riportati in campo. Lì rimanemmo…

D: Due cose volevo chiederti, ti ricordi quando ti hanno portato sul Transport? Che periodo era?

R: Sarà stato verso la fine di febbraio penso, in febbraio.

D: Dicevi, alla stazione. Era la stazione o era uno scalo?

R: No, la stazione, uno scalo merci sarà stato.

D: Ma della stazione?

R: Della stazione, sì.

D: Tu dici la stazione perché vedevi delle persone, dei civili che prendevano gli altri treni?

R: Adesso questo non me lo ricordo, non c’erano civili in quel momento che noi siamo arrivati lì, non c’erano mica civili.

D: Quindi non siete partiti e ti hanno riportato sempre nel blocco E?

R: Sempre nel blocco E. Siamo rimasti nel blocco E sempre chiusi fino ai primi di aprile. Dopo ai primi di aprile cominciavamo ad andare fuori in quello spazio circoscritto del cortile.

A sinistra avevamo le donne e a destra c’erano gli altri che potevano circolare per il campo, quelli che andavano fuori anche al lavoro.

D: Lì sei rimasto fino a quando?

R: Fino al 30 aprile. Al mattino del 30 aprile entrò il capo blocco e disse: “Guardate di mantenere la calma, qui hanno già piazzato tutte le mitragliatrici attorno al campo e andate a casa”.

Sono meticolosi i Deutschland quando ci si mettono. Tanto di timbro, tanto di lasciapassare. Eravamo infestati di pidocchi, perché il nostro lavoro era lo spidocchiamento. Tutto il santo giorno, dalla mattina. Era proprio l’annullamento della persona.

Praticamente tu eri un animale, eri un numero anzitutto ed eri una bestia. Forse meno di un cane. Allora cosa hanno fatto? Hanno portato il famoso Cyclon, che usavano per gli ebrei, poveracci, e nelle bacinelle hanno messo queste pastiglie, non so poi cos’erano.

Noi fuori tutti nudi, lasciando quei pochi indumenti che avevamo nella camerata, nei castelli. Nel giro di una mezza giornata fuori così, c’era fresco, perché a Bolzano faceva fresco, quando siamo rientrati prendevi la roba e facevi così, ce n’erano tre dita per terra.

D: Dopo lì alla Liberazione stavi dicendo?

R: Con la Liberazione siamo passati in fureria, ci hanno lasciato il soggetto, una storia e l’altra. Poi ci hanno caricato su dei camion e ci hanno portato verso Merano. Io sono andato verso Merano, verso in su.

Hanno portato una parte verso Trento, una parte verso Merano, una parte… Da lì poi pian piano a piedi abbiamo fatto la Val di Non, la Val di Sole e siamo arrivati a Brescia a piedi. “Pedibus calcantibus” pian piano e via.

Quando siamo arrivati poi a Brescia, lì a Brescia ci hanno tenuti due o tre giorni. Poi da Brescia sempre con i camion ci hanno portato a Cremona. A Cremona ci hanno rifocillato tutti con la mostarda, mostarda al mattino, mostarda a mezzogiorno e mostarda alla sera.

Poi ci hanno portato in curia, lì in curia ci hanno dato mille lire a testa. Mille lire. Eravamo senza documenti, niente, né soldi. Mille lire erano soldi allora. Chissà, il Vaticano… Io non penso che il vescovo di Cremona avesse avuto la possibilità di avere queste banconote.

Prelievi fatti forse presso la Banca d’Italia per conto del Vaticano.

D: Da lì poi?

R: Da Cremona poi siamo venuti a Parma sempre in camion.

D: Camion di chi?

R: Erano camion militari alleati, però guidati da borghesi. Si vede che avevano preso questi camion nei campi di raccolta, avevano acquistato questi camion, poi facevano i trasporti di questi prigionieri. Pagati poi da chi non lo so.

D: Nel periodo che tu sei rimasto a Bolzano, ti ricordi di aver visto nel campo dei religiosi?

R: Sì, c’era un frate cappuccino nel nostro blocco, il quale aveva confessato dei partigiani a Trento. Questo frate poi era stato portato presso la SD, il comando delle SS e volevano sapere che cosa avevano detto i partigiani.

Botte, botte, poveretto, avrà avuto una settantina d’anni.

D: Addirittura?

R: Sì.

D: Non ti ricordi il nome però?

R: Non me lo ricordo. Poi c’era il prete, Don Daniele. Il frate non era Don Daniele. Il frate, poveretto, mi ricordo quando ci portarono fuori nel cortile per la disinfestazione nudi, lui stava là poverino… C’erano anche le donne tutte belle…

D: Ti ricordi di bambini?

R: Sì, c’erano dei bambini ebrei di due anni, due anni e mezzo. Poverini, anche loro erano lì con le loro mamme.

D: Tu sei rimasto a Bolzano…

R: Dal febbraio, dai primi di febbraio fino alla fine di aprile.

D: Il giorno di Pasqua del ’45?

R: C’è stata la Santa Messa dentro nel campo con il vescovo, mi pare, di Belluno.

D: Te lo ricordi quel giorno?

R: Sì, molto bene me lo ricordo. Fece un’omelia molto sostanziosa per quello che ha detto, poi aveva anche sotto sotto…

D: E’ entrato nel campo lui?

R: Sì, è entrato nel campo. C’era l’altare proprio in mezzo al campo, noi tutti attorno. La Santa Messa.

D: Tutti voi intorno?

R: Sì, i prigionieri.

D: Tu non hai potuto scrivere a casa?

R: No.

D: Né ricevere pacchi?

R: No, per l’amor di Dio, niente.

D: Ti ricordi che qualcuno dei deportati riceveva?

R: Sì, c’erano dei bellunesi, mi pare, di Belluno, di quelle parti. Mi ricordo che uno aveva disfatto il suo pacco. Io ho ancora l’impressione al giorno d’oggi di aver visto il pane con in mezzo la marmellata.

Allora gli ho chiesto un pezzettino di pane, ha detto no. Va beh, grazie lo stesso. Non mi ha dato niente. Allora un mio amico di San Secondo, “adesso lo frego io quello”. Aveva una gran bella penna d’oro, perché lui aveva assistito al colloquio.

Gira e rigira dopo quattro o cinque giorni gli ha fregato la penna. L’abbiamo passata poi all’altro blocco attraverso un foro, c’era un mercato nero spaventoso. Mi ricordo che io avevo un po’ di danaro in quanto mio papà mi aveva mandato dentro un pacco in San Francesco con due o tre mila lire.

Mi sono durate tre giorni, c’era un mercato fuori dell’ordinario. Dei pezzi di castagnaccio. Stavo dicendo, scusate?

D: Della penna.

R: Della penna. Allora gli ha fregato la penna stilografica, abbiamo passato la penna stilografica all’altro reparto e abbiamo ottenuto due pani, quelli dell’esercito tedesco. Era una penna d’oro, il cappuccio e tutto d’oro.

Era disperato questo a cercare la sua penna. “Se trovo quelli che mi hanno fregato la penna…”, era il mio vicino di branda.

D: Ti ricordi se periodicamente entravano dei civili nel campo, non so, a vendere le mele?

R: No. Una volta c’è stata la distribuzione delle mele. Il Vescovo o il Papa, non lo so. Fatto sta che ci hanno dato delle mele, ci hanno dato anche qualche cosa d’altro forse da mangiare. Una volta, una volta sola.

D: L’ultima domanda, ti ricordi se nel campo tra i deportati c’erano dei deportati che avevano dei soldi del campo? Della cartamoneta dove però c’era scritto “campo di concentramento di Bolzano”? Non ti ricordi di averla vista?

R: No, questo no. Forse l’avranno vista negli altri blocchi, perché avevano possibilità di comunicare anche tra di loro.

D: Però tu non te lo ricordi?

R: No.

D: Come si chiamava il tuo capo blocco, se ti ricordi?

R: Non me lo ricordo. So che era un colonnello dell’esercito vestito da prigioniero. Mentre delle donne c’era la capessa, quella mora.

D: La Tigre?

R: No, la Tigre forse è quella olandese. Mi ricordo io quella olandese.

D: Ti ricordi questo nome della Tigre?

R: Sì. Era un donnone di due metri con due spalle… Un uomo travestito da donna. Mi ricordo che faceva trainare un carretto pieno di neve, un carretto abbastanza grosso, ad una ebrea. Aveva un odio particolare per quest’ebrea.

Questa poverina non ce la faceva, spostava appena appena così. Lei con un nerbo le dava di quelle botte, con una ferocia, con una cattiveria che non era mica una roba umana. Sono dei pazzi.

Io ho sempre pensato che fossero un po’ alienati di mente, perché per fare quello che facevano non si poteva farne a meno.

D: Altri nomi di capo blocchi?

R: No, vedermi dentro il reticolato per me era come claustrofobia. Mi abbattevo molto facilmente. Una volta attraversando il campo negli ultimi giorni incrociai quello delle SS, non quello famoso, quell’altro, quello tarchiato. Ce n’era uno tarchiato, basso.

Sarà stato maresciallo, non so. Ad ogni modo l’ho incrociato e a un bel momento dice: “Cappello, cappello”. Io l’ho visto, però ho detto: “Il cappello non me lo levo”. “Ya, ya”, allora io ho preso il mio berretto, sembrava quasi da ebreo, e ho fatto così, l’ho gettato via.

Perché? Perché me ne fregavo della mia vita a un bel momento. Gli ho detto: “Ma vattene a quel paese, io piuttosto di levarmi il cappello davanti a te lo getto”. Allora c’era il povero Bucci, c’era anche Walter Cantoni, che erano seduti contro il muretto del blocco.

Mi hanno visto fare questo gesto. Questo s’è portato la mano alla pistola, poi ha bestemmiato come un turco, s’è girato ed è andato via. Allora gli altri due: “Vuoi far l’eroe proprio all’ultimo momento”.

Tu non ti consideravi nemmeno più come una persona, tutto lì.

Maruffi Ferruccio

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

Mi chiamo Ferruccio Maruffi. Sono stato deportato a Mauthausen. Ero stato arrestato nel marzo del ’44 direttamente in montagna. Facevo parte delle prime formazioni partigiane in Val di Lanzo, abbiamo subito un rastrellamento molto massiccio da parte di SS ma anche di fascisti italiani.

D: Ferruccio, quanti anni avevi?

R: Avevo 20 anni. Quando sono stato arrestato avevo 20 anni appena compiuti.

D: Sei stato arrestato in che giorno?

R: Sono stato arrestato il 14 o il 15 marzo del 1944. Dovevo essere fucilato assieme ad un altro mio compagno che era un ragazzo siciliano militare all’epoca dell’8 settembre. Dopo l’occupazione nazista era rimasto un militare sbandato, poi era venuto in montagna e aveva fatto parte anche lui di questa formazione partigiana. Siamo stati presi insieme noi due, perché al termine del rastrellamento ci eravamo sparpagliati per la montagna.

Il gruppo che ha arrestato noi era composto da un ufficiale nazista tedesco, da alcuni altri militi tedeschi e da un gruppo di fascisti. Era da questi che bisognava guardarsi, era proprio da questi. Sfortunatamente per noi questo gruppo di ufficiali nazisti e gli altri tedeschi hanno proseguito con il rastrellamento nella montagna, lasciandoci in mano ai fascisti, che non aspettavano altro ovviamente.

Siamo scesi sullo stradone della Valle di Lanzo e ci hanno messo contro il muro, comunicandoci ufficialmente che ci avrebbero fucilato. Però hanno perso tempo perché non tanto con me ce l’avevano, io ero soltanto un criminale con cui neanche valeva la spesa di sporcarsi le mani, ma con questo ragazzo siciliano. Questi fascisti erano meridionali e ce l’avevano con lui soprattutto perché continuavano a dirgli: “Ti sei andato a mettere assieme a questi briganti, tu siciliano, con tutto quello che il Duce aveva fatto per noialtri!” Hanno perso così tanto tempo a prendersela con lui che l’ufficiale nazista è tornato indietro col suo gruppo, ha visto la scena e devo dire che ha redarguito i fascisti. Li ha mandati via, ha fatto voltare il mio compagno che era con le spalle al muro, stavamo aspettando che caricassero il mitra e tutto quanto, e hanno detto: “Aspettate che arrivi la camionetta dei carabinieri”.

E’ arrivata la camionetta dei carabinieri e ci ha fatto salire. I carabinieri ci hanno portato alle scuole di Lanzo e dopo con tutto il gruppo dei rastrellati siamo poi finiti alle Carceri Le Nuove. Abbiamo fatto prima un “giro turistico” di Torino coi mitra puntati dietro la schiena e poi ci hanno portato alle Nuove.

Ci siamo stati fortunatamente pochi giorni perché era pericolosissimo alle Carceri Le Nuove di Torino; era pericolosissimo in quel periodo stare lì perché c’era sempre il pericolo che qualcuno venisse fucilato se c’era qualche azione di rappresaglia dei partigiani.

Per cui siamo partiti il 17 per Mauthausen, abbiamo fatto una sosta a Bergamo e il 20 marzo del ’44 siamo arrivati a Mauthausen.

Questo è quanto, abbiamo subito fatto attenzione a quella che sarebbe stata la nostra vita da quel momento. La cosa più pericolosa era proprio quella di non accettare in qualche modo quello che passava il convento, della prigionia prima e del Lager che cominciava già nel carro bestiame che ci portava in Germania.

Tre giorni e tre notti di viaggio, in una promiscuità indicibile. Eravamo circa quaranta persone. Il viaggio nei carri bestiame era l’apprendistato di quello che ci sarebbe capitato: viaggiare quaranta, quarantacinque persone chiuse in un carro dove l’unico elemento che conta è il barile, dove tutti fanno quel che devono fare e un po’ divisi in un certo senso. Nel mio vagone metà eravamo giovani, metà erano anziani. C’erano molti operai della Fiat, soprattutto che avevano scioperato; erano stati arrestati e la minaccia fatta subito prima di chiudere i vagoni era che se, aprendo i vagoni ne mancava uno, avrebbero fucilato tutti gli altri. Aveva fatto un certo effetto specialmente sulle persone anziane perché avevano famiglia, avevano figli. Noi giovani eravamo più incoscienti, non ce la prendevamo più di tanto, però è venuta a formarsi, questo è importante secondo me rilevarlo, questa specie di divisione fra i giovani e gli anziani.

Noi volevamo scappare, perché si poteva scappare da un carro bestiame. Al passaggio del confine avevamo saputo durante una sosta che i ferrovieri avrebbero rallentato il convoglio nella zona dove c’erano i partigiani e qualcuno, alzando le traversine del vagone, poteva lasciarsi scivolare sotto. In qualche posto l’hanno fatto, nel mio vagone per esempio no, per cui ci siamo guardati in cagnesco tutti quanti, gli anziani che controllavano che nessuno di noi facesse questo. Questo il primo giorno, poi siamo entrati già in Austria e, secondo me, io ho vissuto tanti momenti terribili, ma tanti momenti stupendi durante la mia prigionia: valeva la spesa di essere prigionieri per averli vissuti, per quanto possa sembrare strano. Io ricordo l’atmosfera di divisione sul carro bestiame che andava ai Lager. Non sapevamo ancora che cosa ci aspettasse. Con me c’era un mio compagno, si chiamava Gianni Ferrari e aveva una voce bellissima. Era uno che non se la prendeva più di tanto. Quando eravamo venuti al confine c’era la neve per terra, eravamo già ad una certa altezza e dalle feritoie vedevamo tutta questa neve. Lui guardava tutta questa neve e a un bel momento si è messo a cantare una canzone che era in voga “Il trenino di Chattanooga”. Era uno swing che veniva dall’America, il disco arrivava e in mezzo il trenino che fa “ciu ciu”; l’atmosfera improvvisamente è cambiata e ci siamo scoperti che eravamo tutti sulla stessa barca, cioè sullo stesso carro bestiame.

Io ricordo questo momento come uno dei più straordinari che ho vissuto nel Lager, questo cambiamento, come possano la musica e il canto cambiare l’essenza delle persone. Molti piangevano ovviamente, però anche le lacrime in quel momento avevano un loro valore.

Poi siamo arrivati a Mauthausen. Subito siamo scesi, ci hanno fatto scendere dai carri, era mattino prestissimo, si arrivava sempre al mattino presto in modo che non ci fosse gente in giro. Noi avevamo tutta la puzza nel naso del viaggio nel carro con il bidone maleodorante e subito, scendendo dal carro, ci è sembrato quasi di respirare, di essere arrivati quasi in paradiso, l’aria pura del mattino, anche se era molto fredda. Ci siamo incamminati, c’erano le SS, i cani, e ci hanno messi in fila per cinque; ci siamo incamminati verso Mauthausen che è su una collina.

Io devo dire, che almeno i compagni che ho conosciuto io erano un’altra razza rispetto alla gente che c’è oggi, ma era una cosa straordinaria. Avevo un compagno, un operaio della Fiat, aveva già allora un certo numero di anni. Marciavo vicino a lui, noi non avevamo niente, ma questi uomini anziani erano in carcere, avevano la valigia, avevano anche il salame e cose del genere, avevano cose che poi presero loro a Mauthausen, se le portavano su, ma salendo quasi 4 chilometri di salita non ce la facevano più. Io ricordo sempre una frase di quest’uomo che ha preso la valigia di quello che aveva davanti che era boccheggiante, non ce la faceva più; gli ha preso la valigia, gli ha messo una mano sulla spalla e gli diceva: “Dai che andiamo a fare merenda a Superga adesso”. Quella collina ricordava quella di Superga.

La vita del Lager è fatta di tanti flash che, rivisti oggi, danno una dimensione diversa di quello che noi abbiamo vissuto. Per questo io non riesco mai a drammatizzare più di tanto.

Siamo arrivati poi là e abbiamo, poco per volta, preso contatto con la realtà. Intanto abbiamo visto passare carri con scheletri che debordavano. La cosa che ci aveva un po’ colpito era che mentre salivamo verso la vetta avevamo una nuvola nera sopra di noi e riprendevamo a sentire un odore sgradevolissimo; poi abbiamo capito che era l’odore che veniva dal camino, l’odore della carne bruciata.

Poi ci hanno derubato di tutto. Abbiamo fatto questa strana cosa. Ci hanno portato in un sottoscala dove c’era la spoliazione, a gruppi di quaranta o cinquanta per volta. La nudità improvvisa: c’erano dei bei ragazzi, c’erano anche invece uomini con l’ernia, insomma ognuno ha un po’ la sua privacy, termine che non esisteva, assolutamente inesistente.

Dover essere depilati in ogni parte del corpo, l’umiliazione fortissima, questa sì che l’abbiamo sentita. Abbiamo poi anche preso frustate a volte, ma c’erano delle cose che ci offendevano profondamente. Io ho avuto la fortuna di incontrare quelli che ho chiamato “i deportati saggi” che mi insegnavano i trucchi del resistere. Dicevano: “Sapessi come sbagliano questi qui a umiliarti, a darti una frustata, perché quando ti umiliano, quando senti la frustata, tu è come se reagissi dentro di te. Ti senti contro di loro, certo non puoi picchiare, non puoi fare niente, ma sei contro ed è la cosa più importante: che tu resti contro. Tu sei da questa parte della barricata, però è questo.”

Al punto che io ricordo che mi sentivo molto offeso da quella riga che dovevo portare rasata a zero che partiva dalla fronte fino a dietro la nuca, era un marchio d’infamia. L’avevo detto ad un mio compagno che si era messo tranquillamente a ridere, perché succedeva questo. “Ti spaventi per quella cosa? Allora non hai ancora capito niente del Lager”. A me sembrava di aver già capito qualcosa dopo un giorno o due. Vedi, quando tu incontri le SS, noi potevamo essere nudi, ma il berretto dovevamo averlo sempre. Quando incontravano la SS bisognava togliersi il berretto, mettersi sull’attenti e far vedere la striscia che ci percorreva la fronte. Questa era l’umiliazione. Lui diceva: “Tu parti da un presupposto sbagliato. Quando vedi la SS ti metti sull’attenti, ti metti sull’attenti e fai vedere questa striscia e che sia ben fatta. Perché vedi, è lui che si deve vergognare della divisa che porta, non sei tu, è lui che si deve vergognare.” Lo so che, oggi, a distanza di tempo può sembrare quasi impossibile questo, ma si rideva per questo.

Questa era la resistenza nel Lager. Noi non potevamo sparare, non potevamo fare nient’altro, ma questa era la resistenza, questo dovevi impararlo fin da subito. Stai attento. Io mi ricordo uno dei primi insegnamenti. “Non odiarli, per carità, non odiarli”. “Perché non li devo odiare con quello che mi fanno?” “Non li devi odiare intanto perché loro vogliono essere odiati. In un certo senso si sentono “giustificati” del male che ti fanno se tu li odi. E tu quella soddisfazione non gliela devi dare. E poi qui devi stare attento perché l’odio è una brutta compagnia, è eccitante. Per cui bisogna stare attenti perché questa gente ti arriva addosso che neanche te ne accorgi, quindi devi essere sempre presente a te stesso, altro che odio. E’ un lusso che non possiamo permetterci”. Non è che diventassimo bravi, era una metodologia, come quando sono salito in montagna e mi insegnavano come dovevo fare per fare un agguato o nascondermi per andare a far saltare un ponte. E’ la stessa cosa, non era più quello l’insegnamento. L’insegnamento era come dovevi in qualche modo resistere.

Io ho fatto pochissimo di resistenza in montagna, ho fatto quella del Lager che era un’altra cosa. Oggi la ricordo, non dico con rimpianto, perché sarebbe una cosa stupida, ma il rimpianto di non essere più quello che sono stato allora, questo sì. Molti mi chiedono perché io ne parlo in questo modo.

Io ne parlo in questo modo perché, e vorrei che fosse chiaro quello che sto dicendo, il periodo trascorso nel Lager, questi quasi diciotto mesi infernali, sono stati il periodo migliore della mia vita, non il più bello, il più brutto certamente, ma il migliore perché in quello mi posso specchiare. Non sono morto al posto di nessuno, nessuno è morto al posto mio, non ho accettato niente che non fosse quello che prendevano gli altri e non so se nella vita quotidiana sarei capace di essere così. Non so neanche se sono capace quando verrà il mio momento a morire come ho visto morire tanti miei compagni, perché morivano bene i miei compagni. Questo è importante che lo sappia la gente. Morivano bene, senza maledire, senza umiliarsi quando stavano per essere colpiti.

Voi che fate domande a noi superstiti, quei quattro gatti, fate questa domanda: “Avete visto qualcuno piangere?” Se poi ci pensiamo sopra, ci accorgiamo che non abbiamo mai visto nessuno piangere. Era proibito anche piangere, certo, si capisce, tutto era proibito, anche piangere. Ma le lacrime non sono un rubinetto che si apre e si chiude a volontà, vengono quando vengono, quando ci emozioniamo. E’ questo che, secondo me, del Lager è stato scritto molto, certo che è tutto vero quello che è stato descritto, è tutto vero. Forse è anche abbastanza quello che è stato descritto, ma si è parlato forse, secondo me, poco di come l’uomo c’è stato, di come l’uomo ha vissuto il Lager, è morto nel Lager o casualmente perché non eravamo bravissimi, non avevamo niente di speciale. Non ci sono stati eroi, nessuno è stato eroe.

Ma sono stati tutti uomini, con la U maiuscola. E questo va detto perché questa è la verità. Noi ci siamo accorti, sì, la libertà, che cos’è la libertà se non l’aspirazione suprema di ogni uomo: la libertà. Però a me resta sempre in mente la frase che mi ha detto un mio compagno che ritengo sia giusta ancora oggi e fosse giusta anche laggiù. “Vedi, questo è il posto dove parlare di libertà è una cosa quasi irrisoria, questo è il peggio al mondo, ciò nonostante ciascuno di noi può sentirsi libero se riesce a mantenere la propria dignità di uomo.” Io le ricordo queste parole perché quest’uomo poi è morto. “Se un giorno tu sarai libero e te lo auguro, se non avrai la dignità che è il rispetto di te stesso e degli altri non sarai mai uomo libero, sarai sempre uomo dipendente, dipendente da qualcuno.”

Allora bisognava immaginarsela questa libertà, la libertà di mantenere la propria dignità. Quella non te la poteva togliere nessuno. Questo secondo me è il Lager. E forse noi, in genere tutti gli uomini, credo che specialmente col passare degli anni tendono a lamentarsi. Non è nient’altro che il sogno degradante delle occasioni perdute, soltanto questo. Quella bionda là che .. poi invece niente. Allora ci piangiamo addosso.

D: Ferruccio, ti ricordi il tuo numero di immatricolazione di Mauthausen?

R: Sì, 58.973, figurati se non me lo ricordo.

D: Tu a Mauthausen hai fatto la quarantena?

R: Sì.

D: Poi ti hanno mandato dove?

R: A Gusen I. Sono stato poco a Gusen I perché poi mi hanno trasferito a Vienna nel Lager di Schwechat. Sono stato nel Lager di Schwechat finché è stato distrutto dai bombardamenti degli alleati.

D: Cosa facevate in quel Lager?

R: Lavoravamo dodici ore al giorno. Una fabbrica di rottami, la Heinkel.

Dodici ore al giorno oppure dodici ore di notte. Il guaio erano i bombardamenti, erano continui. Questo Lager era un piccolo Lager, non poteva tenere più di duemila persone, ma era il centro di un complesso di fabbriche della Heinkel che costruiva aeroplani da caccia. Il Lager era studiatamente al centro, c’è un Lager lì in mezzo, non andiamo a buttare le bombe, mi pare giusto. Gli alleati avevano di quelle preoccupazioni lì. Venivano sovente e un giorno hanno fatto piazza pulita. Un bombardamento durato parecchie ore. Prima hanno distrutto tutta l’antiaerea di Vienna e poi sono calati lì, buttando spezzoni incendiari, hanno distrutto tutte le fabbriche, tutto il Lager. Non potevi neanche camminare perché la terra bolliva dal calore. Sono stato ferito come altri, le bombe cadevano dappertutto. Ma si può fare il tifo perché cadano le bombe? Eppure si può, si è fatto ed eri lì che guardavi perché eri nella trincea all’aperto.

Ti schiaffavano dentro le trincee con le garitte delle SS sopra, anche loro dovevano stare lì a guardare che non scappassimo, coi mitra puntati. E tu che li vedevi arrivare e che avresti voluto dire: “Vieni qui oppure lì!” Si poteva fare quel tifo?

E poi mi hanno riportato a Mauthausen, ovviamente.

D: Parlaci di quel campo, di questo sottocampo di Mauthausen. Tu dicevi che poteva contenere circa duemila deportati.

R: Non di più.

D: Eravate molti italiani?

R: Molti italiani. Gran parte di italiani. I fratelli Valenzano erano tutti e due lì a Schwechat, erano arrivati prima di me. Per la gran parte eravamo italiani in quel Lager, diciamo che era un po’ un feudo nostro; però è stato distrutto e noi feriti siamo stati riportati a Mauthausen. Perché? Perché c’erano delle ferite che venivano curate perché fossimo di nuovo abili per tornare al lavoro. Perché il Lager non era solo morte, la morte era la conclusione.

Qui bisogna essere chiari su questa questione. I Lager non sono stati fatti soltanto per uccidere la gente. Questa era la soluzione ultima. Eri un nemico, eri un ebreo, eri un omosessuale, eri un testimone di Geova, un antifascista, un antinazista, muori! Ma un momento: prima lavori! Perché noi dobbiamo costruire un impero economico, quale non è mai esistito al mondo: facendo lavorare milioni di persone senza pagarle mi pare che si possa costruire questo impero economico come nessun altro può fare. Questo era il progetto, era un progetto che andava al di là del tempo. In fondo i Lager non erano stati nient’altro che il primo esempio di come sarebbe stata la società se i nazisti avessero vinto. La società di quelli che stavano sopra e di quelli che stavano sotto. Quelli che lavoravano, che sgobbavano per questa élite che li avrebbe comandati. Quindi cosa succedeva? Che una ferita la si curava, un foruncolo, la scabbia. La scabbia, malattia endemica per eccellenza, si curava. In tre giorni guarivi dalla scabbia e tornavi a lavorare. Eri sempre una massa buona per lavorare.

Certo che se cadevi in malattie incurabili non c’erano cure, l’unica cura era il bisturi, non c’erano altre cure. Le malattie più comuni nel Lager erano i flemmoni, grossi foruncoli. Io sono stato operato cinque volte di questo. C’era una specie di infermeria; andavi lì e mettevi il piede, l’arto, il dito, quello che era: c’era un chirurgo, ti piantava il bisturi dentro, toglieva tutto quello che c’era da togliere, tanta roba, incredibile cosa si accumulasse. Poi non è che cucissero, ti mettevano del nitrato d’argento sulla ferita e ti fasciavano con la carta igienica. Io ne avevo un po’ dappertutto, una qui, una là, nel collo, dappertutto. Era un bene, perché probabilmente questo ti evitava altre cose.

Quindi sono stato riportato a Mauthausen, ho imparato i trucchi che mi insegnavano. Le ferite che avevo facevo in modo che non guarissero. Per cui le torturavo per cercare di stare il più possibile lì. Mi è venuta la scabbia.

Io sono uno di quelli, lo racconto mal volentieri, che ha fatto pugilato a Mauthausen. Ero finito in una baracca in cui c’era un capo che aveva il pallino della boxe. Cos’era successo? Era successo che quando mi hanno trovato la scabbia mi hanno portato di corsa in questa baracca, era la baracca 8 del Revier di Mauthausen, le cosiddette infermerie di Mauthausen.

Questa baracca era divisa in due parti. In una c’erano quelli che avevano la scabbia, nell’altra c’erano dei poveracci che avevano la tubercolosi, le malattie infettive vere e proprie, la tubercolosi, questo tipo di malattie, per non parlare dei malati di cuore. Questa seconda parte era l’anticamera, era un punto di passaggio per quelli che avevano prelevato per portarli al castello di Hartheim dove sarebbero stati usati come cavie e poi uccisi nella camera a gas. Questa baracca invece aveva solo la scabbia, questa prima.

Quando sono arrivato lì insieme ad altri ci hanno messi nudi davanti all’ingresso della baracca, tra l’altro è uscito fuori il capo che era un omosessuale col pallino della boxe. Non era cattivo, devo dire la verità, bisogna essere onesti su questo, era un tedesco. Ci mette tutti lì in fila e poi si ferma davanti a me. Mi guarda fisso negli occhi, poi fa un passo indietro e mi tira un pugno. Non era da molto che ero a Mauthausen, due o tre mesi, quello che mi era rimasto del corso di pugilato mi è bastato per schivarlo e lui è finito per terra. Dopodiché ho detto: “Questo adesso mi ammazza!” Invece si alza, mi guarda e mi fa: “Tu boxe?” Io mi alzo. “Junger Kompanie! Io non sapevo cosa volesse dire.

Entro nella baracca, vado in uno dei castelli di legno, salgo sull’ultimo piano e lì c’era, cose strane che si incontrano, un italiano. Era un meridionale, gli italiani sono i più furbi del mondo, non c’è niente da fare, non ci batte nessuno, siamo impossibili, siamo invincibili in quello. Sapeva fare la maglia. Sapendo fare la maglia, passava tutto il giorno sul tetto della baracca a costruire maglie di lana che poi il Kapò dava alla SS. In quel modo faceva il suo tran tran, anche lui vivacchiava. Per cui lui era lì tranquillo. Non mi ricordo più per cosa fosse stato arrestato, ma non era una cosa eclatante. Lui era militare, qualcosa aveva fatto, mi pare che riguardasse sua moglie o qualcosa di questo genere, l’hanno arrestato e l’hanno portato a Gaeta. Da Gaeta l’avevano portato a Dachau quando c’è stata l’occupazione nazista. Da Dachau non so che cosa abbia combinato, l’hanno portato a Mauthausen. Era appollaiato lì sopra. Allora mi metto lì, dico: “Mi hanno detto Junger Kompanie: che cos’è?” Lui mi dice: “Stanotte vedrai che cos’è”. Ho detto: “Mi ha guardato in un certo modo, non mi ha fatto piacere”. Mi ha detto: “Stai tranquillo, il suo amichetto ce l’ha già. Procura solo di non incontrare il suo amichetto”. E così dopo mezzanotte, dopo il passaggio della SS che fa il controllo, ad un certo momento entro nella baracca, nel silenzio generale c’era un piccolo, uno slavo, gli addetti alla baracca che arrivano con quattro piloni, uno da una parte, uno dall’altra, uno dall’altra e uno dall’altra, una lampada che fanno scendere fin sopra lì. Era chiaro che fosse un ring, voleva essere un ring.

Cosa faceva quest’uomo? Aveva costruito questa Junger Kompanie, tutti ragazzi giovani; va bene che lui avesse il suo vizio e anche il pallino della boxe ma forse era anche un modo per evitarci di andare a lavorare, almeno per i più giovani, cercava di salvarli in qualche modo. Perché ci salvava in questo modo? Si faceva una scheda: il 5.873 si batteva contro il 4.455, e così via. Si faceva tutto il borderau. Alla sera dopo il passaggio della SS, all’una, due di notte si apriva questo spettacolo in cui noialtri a turno andavamo a fare la boxe. C’erano proprio ottavi di finali, quarti di finali, semifinali e finali. Tutto qui. C’erano soltanto due paia di guantoni. Io mi ricordo che ci stavo dentro tre volte in questo paio di guantoni; c’era anche un padellone in cui uno dei suoi batteva. Lui era l’arbitro.

Queste cose ho aspettato parecchio a raccontarle, finché non le ho lette scritte da altre parti; se vado a raccontarle non ci crede nessuno. Al momento giusto lui chiamava l’uno e l’altro. Ha chiamato e ha chiamato me, c’erano anche le corde che dividevano legate ai quattro pali: facevano il suo ingresso lui in mutandine rosa, nudo con le mutandine rosa. Lo so che fa ridere, ma è così. E tu ti picchiavi per tre minuti con un altro. Lui era quello che decideva chi aveva vinto e chi aveva perso ed era importante.

Più in là c’era un tavolo come questo: sai cosa c’era sopra? C’erano gli avanzi di quelli dell’altra Stube, gli ammalati di tubercolosi, malati che non mangiavano più, magari sporchi di sangue, pezzi di pane sporchi di sangue: erano tutti allineati e avevano un cartoncino a seconda del valore. Se era un bel pezzo di pane voleva dire cinque sigarette, dieci sigarette, un altro ne valeva tre, un mestolo di minestra poteva valere una sigaretta, eccetera. Dov’erano le sigarette? Le sigarette le aveva lui. Alla fine del combattimento ti dava la sigaretta. Al primo turno te ne dava una sola, se superavi quel turno, perdente o vincente tutti avevano un minimo. Avevamo tutti una borsa. Finito quello, se avevi superato il turno dovevi poi batterti con un altro, allora il premio era maggiore, saliva fino quando arrivavi alla finale. Se arrivavi alla finale prendevi un pacchetto di sigarette, quello che era. Man mano che prendevi il pacchetto di sigarette, o lo consumavi subito a quel tavolo, o altrimenti aspettavi: “Se vado là ne guadagno un po’ di più, guadagno un bel pezzo di pane che è un po’ più grosso!” Questo finiva alle 2.00 o alle 3.00 del mattino.

Io ci sono stato quindici giorni, venti giorni circa, sono ingrassato. Ero arrivato persino alle semifinali. Ero abbastanza bravo, io avevo fatto la scuola di pugilato, gli altri no, c’era da vergognarsi perché non ci facevamo male ovviamente, non avevamo neanche la forza di farci male. E’ andata bene per circa venti giorni, finché arriva un francese. Arriva un francese con la scabbia.

Il problema qual era? Era di non incontrare il suo amico, l’amico del cuore che era un polacco, un bel ragazzo polacco, vinceva sempre lui. O che vincesse o che lo lasciassero vincere, era meglio che vincesse lui, però ci sapeva fare davvero, poi era sempre lì, quindi era ben piantato. Io ho avuto la fortuna di non andarci contro, quello poteva farti male davvero. Si divertiva anche lui, in fondo finiva quasi con l’essere un divertimento, perché non ci facevamo male, nessuno di noi aveva intenzione di farsi male, però l’altro contava il pugno che aveva dato in un posto, faceva il punteggio per la sua classifica finale di ogni incontro, come tu vedi fare alla televisione. Quando vedo un incontro di pugilato alla televisione mi viene da ridere, non posso vedermi in mezzo a quell’affare.

Tutto procedeva, era d’estate, abbastanza bene. Il trucco qual era? Era lui che faceva da medico, il capoblocco faceva da medico. Al mattino presto venivamo messi tutti fuori dalla baracca, quella della scabbia, lui diceva se eri guarito oppure no. Dove dovevi averla? Scusami se te lo dico, ma sulla punta del pene. Perché lui era lì che doveva controllare, ci metteva in fila e controllava che lì ci fosse la scabbia. Se c’era la scabbia continuavi a stare lì e quindi non andavi a lavorare, continuavi a stare lì. Ci sono stato circa venti giorni finché arriva il francese. Arriva il francese, si presenta e dice, non mi ricordo più neanche il nome; poi l’ho cercato, l’avrei ucciso. Era un campione di Francia. Gli abbiamo detto: “Bisogna cercare di durare più che si può!” Naturalmente li fa fuori tutti finché arriva all’amante del capoccia. L’amante del capoccia sapeva fare il pugilato, per un po’ i due si divertono perché finalmente aveva trovato uno che poteva competere, però il francese a perdere, col cavolo che ci stava! Ha cominciato a sentire un paio di cazzotti, ci ha messo venti secondi, l’ha steso a terra e non si muoveva più. Scena tragica. Il capoblocco piangeva su quel pugile. All’indomani siamo andati tutti a lavorare.

Io l’avrei ucciso, poi sono andato in Francia. Una volta poi il presidente dell’associazione francese è venuto a Torino, è stato mio ospite. Gli ho chiesto chi fosse questo campione di Francia che era a Mauthausen, avrei voluto trovarlo. Ha detto: “Consolati, non ce n’era solo uno campione di Francia, ce n’erano tre campioni di Francia, uno ha anche fatto l’europeo, sono morti tutti e tre”. Vedi che cosa voleva dire essere forti? Non voleva dire niente.

D: Vi hanno mandato a lavorare dove?

R: Io sono poi tornato a Gusen II. Lui ci ha mandato tutti via, però io avevo ancora delle ferite. In un certo sento l’ho fregato perché da quel blocco che era il numero 3 mi hanno passato al numero 7. Sono ancora stato lì, poi sono stato portato di nuovo a Gusen. Il momento più brutto l’ho proprio passato a Gusen II perché si lavorava nelle gallerie, era un lavoro bestiale, insopportabile. Intanto perché le gallerie erano calcaree: dopo cinque minuti che ti trovavi dentro morivi di sete, non pativi neanche più la fame, proprio una sete terribile. Un’arsura che ti prendeva alla gola. Ho passato i momenti i più brutti, ho passato dei momenti lì dentro che sono una cosa straordinaria. Non vedrò mai più una cosa di questo genere.

D: Le gallerie di Gusen di cui tu parli quali sono?

R: Da Gusen II prendevi una specie di tradotta, una specie di trenino fatto di carri bestiame che percorreva circa 3 chilometri e ti lasciava davanti all’ingresso delle gallerie. Scendevi dai carri ed entravi dentro il tunnel e lavoravi dentro quei tunnel. Era l’ambiente che era terribile.

Io sono stato molto fortunato anche lì, ho potuto sopportare perché non facevo fatica. Non facevo fatica perché, avendo sul mio cartellino scritto mechanischer Designer, disegnatore meccanico, mi hanno dato un lavoro tecnico. Si costruivano parti di aerei da caccia, i più veloci del mondo in quel momento. C’era un gruppo di russi che fabbricava questo aereo. Fabbricava la cabina di pilotaggio: poi veniva issata, sopra c’era una scala, veniva posata lì sopra e io dovevo controllare il lavoro che loro avevano fatto. Quindi stavo tutto il tempo, dodici ore, sia che facessi i turni di notte o di giorno, dentro la cabina con una pila in mano a controllare cosa avessero fatto questi. Era la cosa più facile di questo mondo, era anche la meno faticosa di tutte. Tanto è vero che dormivo persino lì dentro, però ero controllato a mia volta. Nel senso che avevo il controllore civile, l’ingegnere, avevo il Kapò polacco o tedesco, non mi ricordo più, che era una bestia, e poi avevo la SS.

Uno di questi tre ogni tanto mi arrivava addosso; però io con il gruppo di russi che costruivano la cabina di pilotaggio avevo fatto una specie di patto d’azione. I figli di buona mamma sabotavano il lavoro, sabotavano la cabina. Bastava un piccolo forellino e la cabina, se stava in volo, non so quanto potesse volare. Io dovevo controllare proprio quello. Allora cosa succedeva? Quando il buco era grosso li chiamavo e dicevo: “E’ la vostra cabina, non si può mica fare così, non passa al controllo. Gli altri mica ci stanno”. Allora se la riprendevano e l’aggiustavano. Quando era piccolo, tutto sommato che l’aereo non volasse piaceva anche me. Se era piccolo, dicevo: al limite mi prendo la colpa io che non ho visto. E così siamo andati avanti abbastanza bene, quando succedeva mi prendevo la colpa e prendevo le venticinque bastonate. Nei Lager imparavi tutto. Io avevo trovato un paio di pantaloni alla cavallerizza, erano un residuato polacco che aveva la cosa a strisce sopra ma sotto la cosa a strisce c’era un pezzo di cuoio spesso che mi fasciava dal sedere fino a sopra. Per cui quando mi davano le venticinque bastonate, io devo dire la verità, non sentivo granché. Quello sudava cinque camice, prendeva lo slancio e io facevo una specie di … tanto perché non si accorgesse; quindi sono andato avanti sempre così. Intanto chiaramente con quei russi, erano tutti russi quelli che fabbricavano questo, avevo un rapporto straordinario. Io per loro ero un padreterno, per cui ero protetto uscendo dalle gallerie, ero protetto da tutti perché non li denunciavo, per loro ero un padreterno. Accettavo di prendere le frustate, però non sapevano neanche loro che io ero protetto sotto il sedere, quindi mi pavoneggiavo un pochettino.

Perché dicevo di aver vissuto dei momenti straordinari in quel periodo? Certamente il più brutto perché poi ormai ero ridotto solo a pelle e ossa, non ce la facevo proprio più. Morivo di fame, morivo di tutto, ma ho vissuto dei momenti così straordinari che, torno a ripetere, vale la spesa essere stato nel Lager per averli vissuti. Cosa vuoi che ti dica? C’era con me un francese, che era un francese romantico. Si chiamava Michel. Cosa faceva quest’uomo per tirar su il morale alla gente? Quando finivamo l’orario di lavoro che era già una roba, ci restavano solo quelle quattro o cinque ore per riposare, non di più, noi eravamo sul piano superiore di questi castelli. C’ero io, ma c’erano anche il gruppo dei suoi francesi. Lui raccontava una storia. Sai che rubavamo minuti di sonno per sentire la storia immaginaria di quest’uomo e della sua Giselle, la sua ragazza? Lui aspettava che fosse buio E che non ci fosse nessuno, poi si tirava un poco su e noi tutti ad aspettare. Ogni tanto intercalava le sue frasi in italiano perché capissi anch’io. Tirava fuori qualcosa, era una busta inesistente, da cui tirava fuori un foglio di carta. “Oggi ho ricevuto da Giselle la sua lettera” e leggeva la lettera che Giselle gli aveva scritto, che gli raccontava di momenti che avevano vissuto, che era tornata a vedere quel posto dov’erano stati, la Torre Eiffel. “Ti ricordi quella volta che abbiamo perso il treno per arrivare a casa?” Raccontava questa storia.

E noi stavamo lì a berci questa storia immaginaria, rubando ore di riposo, non ore ma anche solo dieci minuti di riposo perché ci faceva bene alla salute. E cosa succedeva? Che tu poi restavi con un appuntamento. Cosa risponderà lui a Giselle domani sera o dopodomani, quando riuscirà di nuovo a parlarle? E lui ti gigionava la sua parte perché sapeva che ormai ci aveva conquistati tutti quanti come fosse un Kapò del quale eravamo schiavi. Puntualmente rispondeva a Giselle inventando qualche cosa. Ma vedi, quando gli scriveva lei, era un po’ diverso perché, presa la busta e la lettera, lui la portava al naso, Chanel n. 5, e c’eravamo innamorati tutti della sua Giselle. O forse noi la scambiavamo con la nostra ragazza, evidentemente.

Puoi vivere cose di questo genere con quella intensità? E quando mai le vivrai queste cose? Mai più nella vita. Sai che un giorno un suo compagno, Emile si chiamava, un francese magrolino, mentre eravamo nelle gallerie e non so se stava facendo un lavoro ma ha perso un attrezzo e non lo trovava più. E’ arrivato il Kapò, lo ha guardato. “Tu l’hai perso!” ha continuato a gridargli in tedesco un sacco di insulti. Quindi è arrivata anche la SS ed è scoppiata una parola che era terribile nel Lager: Sabotage. Per sabotaggio venivi ucciso subito. Ma c’erano delle punizioni che dovevano essere ufficiali.

Ti potevano uccidere in cento maniere per qualunque pallino, ma un sabotaggio diventava una cosa a cui tutti dovevano assistere. Gli fanno una ripassata, il resto viene rimandato al rientro nella baracca nel Lager. Riusciamo a trascinare Emile già abbastanza provato fin dentro la baracca, poi quando è il momento che si sono fatte le operazioni, preso il mangiare, fatta la depilazione, viene il momento della punizione. Eravamo circa quattrocento dentro quella baracca. Era una baracca che poteva contenere al massimo cento persone ma ne conteneva mediamente quattrocento di un turno e quattrocentoo di un altro.

C’erano pestaggi in tutti i momenti, ma perché un pestaggio diventava diverso dall’altro? Non me lo so spiegare neanche io adesso: tutti aspettavamo il pestaggio di Emile. Quando ti davano le frustate, ti mettevano a testa in giù e col sedere in aria, botte fino a venticinque; perché venticinque non l’ho mai saputo. Portavano una specie di sgabello concavo, dove il malcapitato deve posare la pancia e stare a battere sopra, anche lui deve contare.

Viene il momento, chiamano Emile. Silenzio di tomba dentro la baracca. Emile viene portato giù, già era abbastanza malandato, viene posato con la pancia in giù e il capoblocco comincia, si mette in posa per cominciare a dare le frustate. E comincia. Una, due, Emile deve dire in francese: un, deux, trois. Già dopo le prime due o tre non ce la fa più.

Cosa succede nel nostro gruppetto lassù? Cosa inventa Michel? Inventa una cosa che tutte le volte che ci penso mi viene ancora la pelle d’oca adesso: la Marsigliese. “Et allons…”, e comincia a cantare la Marsigliese, piano, piano. I suoi poco per volta, prima sono indecisi, io non la sapevo, non la potevo neanche cantare, ma poi lo seguono. Poco per volta alza sempre più la voce; l’altro che si era fermato sente la Marsigliese e allora ce la fa, conta, va avanti: 3, 4, 5, 6, 7. Ad un certo punto si ferma e non ce la fa più. Allora sente lui che alza la voce: “Allons mes bataillons!”, alza ancora di più la voce. E va fino alla fine, fine nella quale tu non sapevi cosa sarebbe successo. Come minimo dovevamo essere uccisi tutti, ma proprio minimo minimo. Ma i Kapò della baracca sono rimasti così sorpresi da una cosa di questo genere che non sono stati capaci di fare niente. O si sono presi paura loro stessi da un eventuale arrivo delle SS perchè avrebbero dovuto rendere conto di come avevano permesso che avvenisse una cosa del genere, o l’atmosfera li ha suggestionati, non so cosa sia successo. E’ successo che sono andati fino alla fine e che la Marsigliese è stata cantata fino alla fine dal gruppo di francesi. Sai, si può vivere un altro momento così? Non lo so.

D: Alla Liberazione dove ti trovavi?

R: Alla Liberazione io ero a Mauthausen nel cosiddetto Revier. Ero tornato da Gusen ed ero sfuggito alla selezione, alla camera a gas; io sono sempre stato fortunato. Solo chi ha fortuna può superare queste cose, mica perché ero più bravo. Tu capisci: mi sbattono in un blocco dov’ero già stato, il blocco 7, devo dire che ero già abbastanza conosciuto a Mauthausen, avevo fatto già due o tre viaggi. In questo blocco 7 c’era un infermiere che parlava italiano benissimo, perché era stato, guarda caso, così mi aveva raccontato, il precettore della famiglia del principe italiano ambasciatore a Varsavia. La moglie del principe era una principessa Morozzo della Rocca. Lui teneva a far sapere che aveva fatto queste cose, anche perché questa donna diceva sempre la Vispa Teresa ai suoi ragazzi, lui voleva ricordare la Vispa Teresa; io non la conoscevo, ma era riuscito in qualche modo a fargliela avere. Il problema era che io da furbastro ho un po’ sangue blu che gira nelle vene, e mia madre era discendente dei conti Morozzo della Rocca. Questo ha pensato di avere davanti a sé un rampollo di alto lignaggio e quindi mi proteggeva un pochettino, mi dava qualche pezzo di pane. Quando c’è stata l’eliminazione col gas hanno fatto questa scelta. Qual era lo scopo dell’eliminazione? Era quello, nel caso il Lager fosse stato liberato e fossero arrivati gli americani o i russi, di non presentare le persone particolarmente “giù”. Per cui hanno diviso in tre categorie: quelli che stavano morendo per loro conto, quelli che stavano un briciolino meglio e quelli che stavano per morire, ma non morivano e bisognava farli morire più in fretta. Naturalmente in tutti i blocchi gli infermieri cos’hanno fatto? Li hanno messi tutti nella categoria due: i nazisti li hanno illusi che li avrebbero portati in un posto a curarli perché ormai la guerra stava finendo e si erano pentiti di quello che era stato. Tutte balle a cui questi hanno creduto; tutti avevano il numero due. Il primo giorno vanno fino alla M e va questo gruppo ma io non sono chiamato, uno o due della M. Poi avevano già fatto il numero, per cui noi saremmo andati all’indomani. L’indomani era giorno di festa, mi pare fosse una domenica e in quel momento arriva a Mauthausen la Croce Rossa francese che fa uno scambio di prigionieri. Restituisce alcuni ufficiali della SS ma in cambio vuole i francesi prigionieri a Mauthausen. Per andare dall’infermeria al Lager avremmo dovuto passare davanti alla Croce Rossa, eravamo tutti nudi con la coperta addosso. Questo non era possibile, allora rimandano questo secondo gruppo.

Passa tutta la giornata, gli infermieri vengono a sapere la fine che hanno fatto quelli che erano andati prima, erano stati tutti passati per il gas. Allora questo mi dice: “Io ti chiamo quando viene l’ordine, tu rispondi presente ma invece resti qui.” Io domando perché questa cosa. Lui dice: “Perché tutto sommato è meglio stare qui, ormai la guerra è finita, un pezzo di pane in più te lo do io.” E così succede. L’indomani mattina chiamano tutti dalla M alla Z e tutti quanti vanno su, finiranno poi nella camera a gas e io, con un certo Pitto di Milano restiamo invece lì, procurando un grave guazzabuglio nel Lager. Perché? Cos’era successo? Siccome non c’era nessun infermiere italiano ma c’erano due infermieri polacchi, questi hanno detto: “Salviamo un testimone; tu salvi un polacco e io salvo un italiano”. E avevano deciso di salvare me. Poi si sono trovati anche Pitto, per cui hanno litigato fra di loro. Invece di uno ne hanno salvati due.

Poi è successo che la SS non se n’è andata lo stesso, voleva ancora prenderne degli altri e sono venuti un’altra volta e allora, per sfuggire all’ultima selezione, mi hanno schiaffato con gli ebrei. Cosa succedeva? Nell’ultimissimo periodo gli ebrei non li uccidevano più. Non solo ma davano loro persino la razione doppia della nostra.

Perché questo? Si è saputo poi dopo il motivo. Il motivo era che la Germania aveva chiesto la pace separata agli alleati, in cambio avrebbe continuato a fare la guerra soltanto con la Russia ma come contropartita non avrebbe più ucciso ebrei.

Costa Vincenzo

Nota sulla trascrizione della testimonianza:

L’intervista è stata trascritta letteralmente. Il nostro intervento si è limitato all’inserimento dei segni di punteggiatura e all’eliminazione di alcune parole o frasi incomplete e/o di ripetizioni.

D: Come ti chiami?

R: Costa Vincenzo.

D: Dove sei nato?

R: A Bros, Comune di Tambre.

D: Vincenzo, quando sei nato?

R: l’11 settembre del 1921.

D: Ecco Vincenzo, ci puoi raccontare la tua storia.

R: Devo cominciare da dove? Aspetta, aspetta. La storia dei partigiani insomma. Di modo che ho girato il mondo.

D: La storia dei partigiani, vediamo la storia dei partigiani.

R: Allora è arrivato, partigiani dalla bassa, da Treviso.

D: Quando questo? Quando sono arrivati?

R: Ad agosto. Ad agosto del 1943, 1944. Del 1944, dicendo Che cosa fate voi altri qua, andate con i tedeschi o andate con i partigiani?” e abbiamo scelto, andiamo con i partigiani. Allora siamo andati al palughetto nel bosco che ci hanno dato il nome di battaglia, allora io ero Spada. Il mio nome di battaglia era Spada.

Là poi ci siamo messi d’accordo e siamo andati partigiani, giù a Vittorio Veneto. In quelle zone là.

D: Scusa Vincenzo, voi dovevate fare delle azioni ben precise come partigiani?

R: Caso mai si vedeva i tedeschi, si doveva combatterli.

D: Tu con chi eri?

R: Con la brigata Fratelli Bandiera.

D: Ti ricordi qualche nome di qualche tuo compagno partigiano? Che c’era con te?

R: Sì, i nomi di battaglia o i nomi.

D: Quelli che vuoi.

R: Gufo, Ascaro…

D: Dopo se ti vengono in mente ce li dici. Quindi siete arrivati tutti, e ti sei aggregato a questa formazione partigiana e dove eravate come zona ad operare?

R: Allora, da Cansiglio fino a Vittorio Veneto.

D: Lì avete fatto qualche azione voi?

R: No, azione proprio di combattimento no. Abbiamo sparato un po’ da lontano, poi si doveva scappare, perché noi eravamo in pochi ed i tedeschi erano in tanti ed eravamo armati così, non tanto.

D: Le armi dove siete andate a prenderle?

R: Ce le hanno date là a Vittorio Veneto, ce le hanno date a Vittorio Veneto, sì ce le hanno date.

D: Lì sei rimasto fino a quando tu?

R: Fino all’8 settembre che sono arrivati i tedeschi, doveva arrivare su una montagna di tedeschi ed ho preso l’ordine di sospendere, di scappare.

D: Dove sei andato?

R: A casa mia. Ero da Vittorio nel bosco sono venuto a casa mia.

D: Lì cosa hai fatto?

R: Là a casa siamo stati un po’, poi i tedeschi della Todt hanno chiesto che si andasse a lavorare per loro.

D: Dove erano questi tedeschi della Todt? Qui a Tambre?

R: Sì a Tambre, nei paesi, sì. Si lavorava nel bosco di Cansiglio perché allora si caricavano i tronchi perché dovevano portarli fuori dal palughetto e da lì giù fino a Farra del Pao e da Farra del Pao lo caricava sulle macchine ed andavano giù nel Piave; dovevano fare delle fortificazioni giù dal Piave, i tedeschi.

D: Scusa Vincenzo. Cosa c’era al palughetto per mandare giù i tronchi?

R: La resina. C’è una resina fatta di tronchi e si mettevano i tronchi lì e scivolavano giù. Scivolavano giù fino a Farra perché arrivano giù così.

D: Voi lavoravate per la Todt

R: Sì.

D: Come vi hanno reclutato questi della Todt?

R: O Dio non mi ricordo più, aspetta.

D: Non ti ricordi come ti hanno chiamato? Ti sei presentato tu alla Todt?

R: Orca, aspetta un momento.

D: Se te lo ricordi, altrimenti non ha importanza. Ascolta, lì sotto la Todt eravate in tanti a lavorare.

R: Sì, sì, eravamo tutti partigiani che si lavorava lì. Si caricava i tronchi sulle slitte, allora i becchi lì, perché la neve. Si caricava ed i tedeschi dice “Specialist, guarda che bravi specialist”, si era specialisti a caricare. Fino a che a Natale è venuta tanta neve ed hanno sospeso.

L’11 gennaio hanno preso qui a Tambre, la sera avanti hanno preso qui a Tambre, la sera avanti, noi sapevamo che i tedeschi avevano preso i partigiani da Tambre, si voleva quasi scappare, ma speriamo che non sappiamo niente, invece la sera dell’11 a casa di mio suocero.

D: Scusa, l’11 di che mese?

R: L’11 gennaio del 1945. Giù a casa di mio suocero, eravamo giù a cantare assieme con i tedeschi, si cantava canzoni e buttavano fuori da bere, a mezzanotte ed un quarto abbiamo finito, ognuno andava per i fatti suoi, io sono andato a letto, io e mio fratello, dopo una mezz’oretta, neanche, arrivano su i tedeschi. Allora su dalle scale, la prima porta era mio padre e mia madre che dormiva, sulla seconda ero io e mio fratello.

Sono andati diretti nella mia, perché guarda quanto erano precise le spie, che non sono andati a bussare nella porta di mia madre, sono andati dentro diretti nella mia, nella seconda porta. Lì un capitano tedesco, senza un braccio, con un lupo, è arrivato sopra il letto con il lupo “Porco”, allora ha tirato il lupo, ha buttato giù le coperte, e su. Anche mio fratello però, perché mio fratello aveva su solo le mutande e preso anche lui.

Siamo stati giù alla Villa Semenza e lì era il comando tedesco e lì abbiamo fatto l’interrogatorio e dire quello che abbiamo fatto. Che io ero senza fucile e che sono andato così. E continuavano a darci giù botte. Io dalle botte che mi hanno dato sotto la faccia il collo era così qua.

Fatto l’interrogatorio ci hanno portato in una casa lì sotto. Ed il giorno dietro partenza per Belluno, ed allora a piedi, a piedi fin giù a Farra, a Farra del Pao, e lì c’era un camion, ci hanno caricato sul camion e ci hanno portato a Baldinich in prigione a Belluno.

D: Scusa Vincenzo, quella notte dell’11 gennaio, hanno arrestato solo te e tuo fratello?

R: No, no, tutti. Tutti, tutti.

D: Quanti?

R: Aspetta. Noi, Albino, Narciso, Trisieri, Primo, Emilio, Anselmo, Vincenzo, Lion Giovanni, insomma in nove, in nove eravamo, nove di noi.

D: Tutti sono stati portati lì a Villa Semenza?

R: Sì tutti, interrogatorio a tutti quanti.

D: Scusami Vincenzo, chi ti interrogava? Erano germanici o c’erano anche italiani?

R: Penso siano stati i bolzanini. Parlavano tedesco. Ma sono pochi quelli che sanno parlare italiano. Erano bolzanini senz’altro. Ci sarì stato qualche tedesco assieme e basta.

Finito l’interrogatorio ci hanno portato giù nella casa lì.

D: Ma i tedeschi erano delle SS?

R: E’ facile. Penso di sì.

D: Non te lo ricordi?

R: No.

D: Sei arrivato quindi nelle carceri di Belluno.

R: Sì, sì.

D: Lì vi hanno messo nelle celle singole? Tutti assieme?

R: No, eravamo in tanti. Aravamo in tanti, in cameroni. Poi il 17 gennaio, la mattina del 17 gennaio sono venuti su a prenderci per portarci a Bolzano, lì con i nomi, con l’elenco dei nomi ci hanno dato i nomi.

D: Scusa, se ti chiedo. Sei rimasto nelle carceri di Belluno quanti giorni?

R: Sono rimasto fino al 6 febbraio.

D: Nelle carceri di Belluno?

R: Sì.

D: Nelle carceri di Belluno fino a quando sei rimasto tu?

R: Fino al 6 febbraio, sono rimasti lì, allora ha fatto l’elenco, Costa Vincenzo, mi ha dato una scarpata e mi ha buttato al muro.

Allora le guardie carcerarie hanno detto che i nostri compagni erano a lavorare liberi e se per caso dovessero uccidere un tedesco, sono i primi che portano il piatto ai martiri.

D: Vincenzo scusami, in tutti i giorni che tu sei rimasto lì nelle carceri di Belluno insieme con tuo fratello.

R: No, mio fratello no, un altro.

D: Tuo fratello no.

R: No, mio fratello no, un altro, un paesano.

D: I tuoi genitori hanno potuto venirti a trovare?

R: No, no.

D: Tu hai potuto scrivere? Ti hanno mandato dei pacchi?

R: Non a Belluno, a Bolzano. Sono arrivato a Bolzano.

D: No, no, nelle carceri di Belluno.

R: No, no niente, niente.

D: Dopo il 6 febbraio che cosa è successo?

R: Il 6 febbraio, è arrivato il capitano “Via, via” ci portano sul camion e via per Bolzano, ci hanno portato a Bolzano, e siamo partiti per Bolzano con i camion.

A Bolzano erano partiti tutti i miei paesani, i miei compagni per andare a Mauthausen, ed ho trovato questo Albino, quando lo hanno chiamato per andare a Mauthausen “Tu sei Albino”, e si è salvato.

D: Scusami, che cosa ti ricordi quando sei arrivato nel Lager di Bolzano.

R: Lì ci hanno spogliati, ci hanno tagliato i capelli a zero, proprio a zero, con la macchinetta, con il rasoio. Lì nel blocco D ed il blocco C’erano i due blocchi pericolosi, perché erano tanti blocchi che andavano fuori a lavorare, noi vediamo quei due blocchi ed erano i blocchi dei partigiani pericolosi.

D: Fermati un secondo. Allora Vincenzo, arrivato dentro nel Lager di Bolzano, e lì sono iniziate le pratiche della spogliazione, vi hanno tagliato i capelli, dove vi hanno tagliato i capelli?

R: Fuori nel cortile, nel cortile davanti ai blocchi, al blocco dove poi ci hanno messo dentro.

D: Eravate tutti in fila voi?

R: Sì, sì.

D: Poi vi hanno spogliato?

R: No, non ci hanno spogliato. No, no.

D: I tuoi vestiti li avevi?

R: Sì, sì.

D: Vi hanno dato un numero?

R: Sì, ma non me lo ricordo più 8950, avevo un numero, avevo un triangolo rosso con il numero rosso.

D: Dove lo avevate questo numero e questo triangolo rosso?

R: Qua sulla giacca.

D: Sulla tua giacca?

R: Sì, sì sulla mia giacca.

D: Dopo vi hanno mandato nel blocco.

R: Sì, nel blocco.

D: I due blocchi erano.

R: Il blocco D ed il blocco C, i due blocchi pericolosi, dei partigiani pericolosi. Ci hanno chiusi dentro lì e non ho visto più nessuno, né la luna, né niente. Si aveva un’ora, un’ora al giorno di aria. Come eravamo dentro, impacchettati dentro, fuori eravamo tutti impachettati tutti in piedi dritti perché era il posto appena appena così.

Quando finita l’ora il tedesco, dentro di corsa.

Alla sera una gamella di plastica, fave macinate, una brodaglia, stop. Da 65 chili che pesavo sono venuto a casa 47 chili. In tre mesi, quattro. Si era giovani e forti e sani e allora ci siamo salvati.

D: Scusa Vincenzo, dentro nel blocco cosa c’era? C’erano dei letti come?

R: Sulle brande, sui sacchi di segatura, sulla segatura.

D: Ma erano letti a castello?

R: A castello sì.

D: In quanti dormivate per ogni castello?

R: Cinque o sei.

D: Per fare i vostri bisogni dove andavate?

R: Erano una specie di gabinetti, ma non con l’acqua corrente. Non c’era, fai i tuoi bisogni e spariva tutto. Non carta igienica, sempre il culo sporco avevi.

D: Era all’aperto?

R: Sì.

D: Ascolta Vincenzo, vi facevano mai lavorare?

R: No, mai, c’era qualcuno dei partigiani meno pericolosi, una volta uno ha tentato di scappare lo hanno preso, lo hanno portato dentro, hanno fatto adunata di noi, lo hanno spogliato “Partigiano vedi qua” e pestano su, lo hanno martoriato tutto. “Anche voi partire e scappare fare stessa fine”.

Insomma è arrivato il 6 maggio, prima degli americani sono ancora lì. Ho sempre pensato “Oh qui mi accoppa, oh…”, invece sono ancora lì. Allora a piedi fino a Bolzano, la Val Di Fiemme, Predazzo.

D: Aspetta Vincenzo, scusa. Più o meno in quanti eravate dentro nel blocco, se ti ricordi.

R: Trecento. Quando arrivati, aspetta. Il 23 febbraio, eravamo ai blocchi, il 23 febbraio, arrivati a trecento, i due blocchi pieni, partenza. Ci hanno portato alla stazione a Bolzano e ci hanno caricato sul treno, sui vagoni, tutti impachettati. Poi ci hanno chiusi, 36 ore in vagone, 36 ore in vagone e ne è morto anche uno. Ci hanno portato da Bolzano a Fortezza, non siamo più partiti, allora ci hanno slegato e ci hanno riportato dentro i blocchi. A piedi.

Lì sempre in attesa che sistemino la linea, la ferrovia per tornare e partire, ma non siamo mai partiti perché li hanno sempre bombardati.

D: Vincenzo vi hanno portati nella stazione ferroviaria o in uno scalo merci. Uno scalo o era proprio la stazione?

R: La stazione, la stazione. Sì, sì.

D: Vincenzo scusami, una tua giornata dentro il campo. Ci dicevi che mangiavate poco. Al mattino a che ora la sveglia?

R: Al mattino non c’era sveglia. Lì non c’era sveglia, stare dentro al buio, appena appena si vedeva, non si vedeva neanche nessuno.

D: Vi davano qualche cosa da bere la mattina?

R: Niente, niente. Bere, magari, niente. Alla sera, prima di buio una cosa di plastica di fave macinate, che era una brodaglia, senza sale, perché costa caro. La prima volta che ho mangiato ho detto “Qua il sale?” perché ormai si era abituati al sale.

D: Quindi un pasto al giorno?

R: Un pasto al giorno.

D: Pane?

R: Pane? Una volta una fettina di quello nero. Il pane nero, una volta sola.

D: Chi faceva le pulizie del blocco? Veniva pulito il blocco dentro? Ti ricordi se c’era un capo blocco?

R: No, no.

D: Non avevate dentro il bugliolo? Il mastello per fare i bisogni?

R: No, no, si andava fuori, dietro c’era questo.

D: Uscivate dal blocco una volta al giorno.

R: Un’ora al giorno, stop.

D: Vincenzo tu hai avuto il tempo mentre sei rimasto lì a Bolzano, nel Lager di Bolzano, di vedere se nel Lager c’erano anche delle donne?

R: Tante anche. Tante. C’era il blocco C e D, saranno state una trentina.

D: Non hai potuto parlare con loro?

R: No, no, guai.

D: C’erano dei malati nel vostro blocco? Se ti ricordi.

R: Non mi ricordo.

D: Prima quando ti chiedevo dei pacchi e delle lettere, a Belluno mi dicevi di no. Ma a Bolzano invece?

R: Niente. A Bolzano è arrivato su una volta.

D: Tu non hai potuto neanche scrivere.

R: Niente, niente, guai.

D: Ti ricordi se nel Lager di Bolzano hai visto anche dei religiosi, dei sacerdoti?

R: No, no.

D: Il giorno di Pasqua del 1945 avete celebrato la Messa nel Lager di Bolzano? Non te lo ricordi?

R: No, no, non ho mai fatto Messa lì.

D: Ma è vero che c’erano dei soldi e si poteva comperare le mele o altre cose nel Lager a Bolzano?

R: Gli altri, quelli che non erano pericolosi, non so. Ma noi, niente. Noi siamo sempre stati dentro nei blocchi chiusi, lì sempre lì. Quell’ora al giorno e stop.

D: Siete usciti quella volta che vi hanno messo sui vagoni.

R: Sui vagoni, sì.

D: Cosa era, mattina o pomeriggio quando vi hanno chiamato?

R: La mattina. Da lì, dal nostro campo andare in stazione saranno stati 4 chilometri, non so, non mi ricordo bene.

D: A piedi?

R: A piedi, a piedi.

D: Quando vi hanno chiamato, vi hanno chiamato per numero?

R: Sì, sì.

D: Ci puoi spiegare che cosa è successo quella mattina lì?

R: Quella mattina sono venuti lì “Fuori, fuori”, inquadrati tre per tre, e lì. Arrivati in stazione, pronti, aperte le porte e su, settantacinque per vagone, quattro vagoni, trecento. Chiuso, si credeva di partire subito. Insomma trentasei ore in vagone siamo stati. Si vede che li hanno bombardati, la linea del Brennero e non siamo più partiti. Poi si era sempre in attesa di andare dentro, ma ogni tanto li bombardavano, si è tornato dentro.

D: Vincenzo, ti ricordi qualche nome di qualche SS del campo di Bolzano?

R: Non mi ricordo niente.

D: La Tigre?

R: No, non me li ricordo, nomi tedesco, così. No.

D: Se ti dico questo altro nomi, Tito? Ti ricordi se nel Lager di Bolzano c’erano delle celle?

R: Nell’area?

D: Sì nell’area. C’era un blocco che era come una prigione dentro nel blocco?

R: Qualche volta si sentiva gridare. Ne hanno ammazzati dentro lì.

D: Tu non lo hai visto?

R: No, si sentiva gridare. Una notte si sentiva una donna che gridava, gli sparavano, gli tiravano, li ammazzavano, non so cosa gli facevano. Ma due o tre volte ho sentito gridare così.

D: Questi nomi ti dicono qualche cosa, Miscia e Otto. Ti ricordano qualche cosa?

R: No.

D: C’era un’infermeria nel campo?

R: No, non lo so. Non è stato nessuno in infermeria. Non so.

D: Se ti ricordi c’era un comitato di resistenza all’interno del campo? Hai trovato altri compagni di altre cittì d’Italia, altri partigiani?

R: Sì, eravamo in trecento, non si era mica tutti qua a Belluno.

D: Ti ricordi qualche nome?

R: No.

D: Neanche da dove venivano ti ricordi?

R: Sì, fino dal Piemonte ce ne era lì.

D: Se ti faccio quest’altro nome Luigi Novello, ti ricorda qualche cosa?

R: Sì, Luigi Novello sì, Novello è qui di Belluno.

D: Ti ricordi se nel Lager di Bolzano hai visto dei bambini lì dentro?

R: Ho visto delle donne, ragazze, qualche ragazza, non so come ha fatto ad essere lì, con sua mamma, non lo so.

D: Più piccoli?

R: No, no.

D: L’appello a voi ve lo facevano ogni giorno?

R: No, mai fatto, non potevamo scappare. Un’ora di fuori e dentro. Non potevi scappare, dove andavi? La corrente.

D: L’azione violenta che tu hai visto è stata di quel deportato che è scappato e che hanno preso.

R: Due, erano due.

D: Non ti ricordi i nomi o da dove venivano?

R: No, no. Erano partigiani forse dei meno pericolosi o presi per ostaggio o presi per, non so. Quelli andavano fuori a lavorare e la sera entravano nel campo di concentramento. Uno o due di quelli che hanno tentato di scappare li hanno presi. Non erano solo i tedeschi, erano tutti contro di noi, anche i borghesi erano contro noialtri. Quei porci.

D: Vincenzo ti ricordi quando uscivate un’ora al giorno all’aria, attorno al campo c’era un muro di recinzione?

R: Reticolati.

D: E c’erano anche delle torrette di guardia?

R: Sì.

D: Dicevi che quando era passata l’ora per tornare dentro, il tedesco fischiava.

R: Sì.

D: C’era anche il suono di una sirena?

R: No, solo lui. Perché eravamo impacchettati.

D: La mattina non suonavano una sirena?

R: Niente.

D: Tu hai detto prima che ti hanno dato un numero ed il triangolo rosso. C’erano altri deportati con triangoli di colori diversi?

R: Sì, ma non rossi.

D: Che colori?

R: Gialli, mi pare, stranieri. Comunque rosso eravamo solo noi partigiani pericolosi.

D: Pare ci fossero anche altri colori.

R: Mi pare di sì.

D: Vincenzo, arriviamo a maggio, che cosa è successo i primi giorni di maggio?

R: Lì ormai si sentiva nell’aria che arrivavano gli americani. Allora o ci ammazzano o che. Gli ultimi cinque o sei giorni ci hanno dato da mangiare, qui ci ingrassano come il toro e ci accoppano.

Dopo capitava che gli americani erano alle porte, ancora lì.

D: Ma hanno aperto il cancello?

R: Sì.

D: Prima di uscire vi hanno consegnato un lascia passare?

R: No, no, niente via, via.

D: Tu che cosa hai fatto quando sei uscito dal campo?

R: Siamo partiti a piedi e giù, e giù, senza mangiare, sono arrivato a Predazzo, il contadino mi dice … sono arrivato in … c’era il ben di Dio, i tedeschi andavano in su, i soldi italiani fatti a pezzi per terra per strada, tutti soldi per terra, brutte bestie maledette.

D: Sei arrivato a Tambre a casa quando?

R: Sono arrivato a casa l’8 o il 9 di maggio. Da Ponte delle Alpi con i camion, non c’erano le corriere, siamo andato sul camion.

D: In quanti siete ritornati a casa? In quanti erano con te?

R: Due. Io, Canton. Attilio Facchin, Tona Vittorio, altri che non si conosceva.

D: Vincenzo quando vi hanno fatto uscire dal campo il triangolo ed il numero?

R: L’ho portato a casa io.

D: Ce lo hai ancora?

R: No. Non so più dove l’ho messo, mi taglierei via la testa, volevo lasciare il numero.

D: Dal campo non hai portato a casa nulla tu?

R: Niente.

D: Solo la fame?

R: Solo la fame e le mutande tutte sporche.

D: Ed i pidocchi?

R: Pidocchi, no, eravamo nudi sui capelli. Le pulci, grattarti, che non avevi più nulla da grattarti.

D: Vincenzo, non c’era nessuno quando vi hanno lasciato liberi, la Croce Rossa, un comitato di accoglienza ad aspettarvi?

R: Niente, niente.

D: Tu prima accennavi che il tuo arresto, sono venuti ad arrestarti perché c’è stata una spiata. O no?

R: Sì.

D: Ma questo lo hai saputo dopo pero?

R: Non ho mai saputo la vera spia, però era una spia perché invece di andare nella camera di mia madre e mio padre, è entrato nella mia, spie precise. Indicazioni precise, non uno di Milano, ma uno dei nostri.